Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale

Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale.
Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti
Alessandro Bosi
This article is part of a future research project on the figures of the autochthonous, cosmopolite and
allochthonous in multicultural societies.
In defining three fields (history, society, instruction) in which I will analyze the subjects of this
work, I intend to produce two digressions for studying the distinction between concepts of
diversity/difference and multicultural/multiethnic. This will allow me to analyze the autochthonous, the
cosmopolite and the allochthonous in their relations with the language, the food and the place.
I consider the probability that these subjects are residual figures of sociality without an effective
correspondence to the facts. In multicultural societies the identities could be redesigned respect to
those primordial and to the expectative created by our way of thinking. However, this outcome
would be important to induce us to consider in a critical way our attitude toward the citizenship
concept in multicultural societies*.
L’argomento
Negli studi sulla popolazione delle società multiculturali potrebbe essere di qualche utilità
comporre i ritratti dell’autoctono, del cosmopolita, dell’alloctono e procedere al loro confronto magari
ricordando la lezione di Schutz nelle sue memorabili tipizzazioni sullo straniero, sul reduce,
sull’individuo ben informato. I ritratti saranno composti facendo ampio ricorso alla rappresentazione
sociale delle tre figure come si è depositata nella tradizione, nella letteratura, nell’arte e nella
cinematografia mentre gli studi di sociologia e delle scienze sociali sulla multiculturalità
forniranno gli elementi concettuali per la loro collocazione nell’ambiente in cui vivono. In questo
senso, i tre ritratti costituiscono una tipica ricerca di sociologia della conoscenza; ma questo
studio si propone anche di riflettere sulla cittadinanza che la società multiculturale promuove nel
nostro tempo aprendo uno spazio di riflessione più vicino alla sociologia dell’educazione. La
forma del ritratto evoca il procedimento di un’analisi eminentemente qualitativa che sarà
realizzata ricorrendo alle storie di vita in cui gli intervistati dichiarano la loro percezione dei tre
soggetti da analizzare.
In questo articolo anticipo l’ipotesi sulla quale intendo lavorare.
Considerazioni preliminari I: la storia
Come situare nella storia l’autoctono, l’alloctono e il cosmopolita?
L’alloctono (chi vive in una terra diversa da quella dove è nato) è, fra le tre, la figura più antica
per quanto la sua condizione sia concepibile solo dopo l’affermazione dell’autoctono (chi vive
dove è nato) che, avendo imparato a coltivare la terra, si è radicato in un paesaggio e denomina in
questo modo quanti vede giungere da terre lontane. Il cosmopolita (chi vive ovunque nel mondo
come fosse la propria città) è, in ordine di tempo, la terza figura. Si potrebbe ipotizzare che derivi
dal nomade alloctono di cui condivide il dinamismo, in realtà è un discendente dell’autoctono di
*
Questo articolo è parte di una prossima ricerca sulle figure dell’autoctono, del cosmopolita e dell’alloctono nelle
società multiculturali.
Nel definire i tre ambiti (la storia, la società, l’istruzione) in cui analizzare i soggetti di questo studio,
intendo produrre due digressioni per studiare la distinzione tra i concetti di diversità/differenza e
multiculturale/multietnico. Questo mi permetterà di analizzare l’autoctono, il cosmopolita e l’alloctono nei
loro rapporti col linguaggio, col cibo e col luogo.
Ritengo sia probabile che questi soggetti siano figure residuali del sociale senza effettiva corrispondenza
nei fatti. Nelle società multiculturali le identità potrebbero essere ridisegnate rispetto a quelle originarie e
alle aspettative create dal nostro modo di pensare.
Questo risultato sarebbe comunque utile per indurci a considerare in modo critico il nostro
atteggiamento nei confronti del concetto di cittadinanza nelle società multiculturali.
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“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
cui costituisce un’estensione in due possibili direzioni: è colui che, essendosi liberato dal vincolo
della terra, può vivere sia prescindendone, sia tornandovi secondo la sua volontà; oppure può
essere concepito come chi ha tradito la sua più intima natura e si muove nel mondo alla ricerca di
una pace interiore che non potrà ritrovare se non tornando alle origini.
Questo preliminare tentativo di distinguere le tre figure come sono venute affermandosi sulla
ribalta della storia è consolidato nel nostro modo di pensare ed ebbe, nell’opera di Oswald
Spengler (1918 – 1922) un’ampia teorizzazione. La storia dell’occidente ha inizio col nomadismo
delle origini quando l’uomo è un animale vagante “la cui esistenza, come esser desto, è un inquieto
saggiare e toccare; egli è tutto microcosmo, non è legato né a un luogo né a una patria, ma i suoi
sensi sono acuti e angosciati, ed egli è sempre rivolto a strappar via qualcosa alla natura amica”,
conosce la sua fase aurea con l’agricoltura quando “l’anima dell’uomo scopre un’anima nel
paesaggio (e) da nemica, la natura diviene amica. La terra diviene la Madre Terra” e decade
quando si afferma l’intellettuale cosmopolita che “torna ad essere tutto microcosmo, privo di
patria, spiritualmente libero come il cacciatore e il pastore”. Com’è noto, Spengler giudica
irreversibile la crisi della civiltà occidentale. La sua visuale è quella di chi si pone oltre gli eventi e
ritiene di poter cogliere la logica che li ha prodotti: “Ubi bene ibi patria, questo detto vale sia per il
periodo che precede una civiltà, sia per quello che la segue. Nel periodo preaurorale della
migrazione dei popoli si ebbe la nostalgia virginale eppure già materna che spinse i Germani a
cercar nel Sud una patria per crearvi la culla della loro futura civiltà. Oggi, alla fine di questa stessa
civiltà, una spiritualità senza radici vaga fra ogni possibile specie di paesaggi e di orizzonti
intellettuali. Il periodo intermedio fu quello in cui l’uomo sapeva morire per un pezzo di terra”.
(O. Spengler 1978, pp. 775-776).
In questa descrizione, l’autoctono guadagna una posizione centrale nella storia e fornisce gli
elementi concettuali per comprendere l’alloctono e il cosmopolita sia come individualità, sia nella
relazione che li lega al suo punto di vista e fra di loro.
Nel costruire la figura dell’alloctono come un’alterità che viene da lontano e del cosmopolita come
un’alterità che va lontano, la cultura autoctona organizza un pensiero autocentrato che procede dalla
propria identità storica di individui che vivono la condizione di un equilibrio sociale finalmente
conseguito e da difendere. In questa visione delle cose, il cosmopolita rappresenta per l’autoctono
un’alterità prossima, ovvero una differenza che si è prodotta nel corpo stesso dell’identità culturale
come sua alterazione endogena. L’alloctono è invece concepito come una diversità dotata di una
propria originale fisionomia, come un’alterità distante che, nel provocare un’alterazione esogena della
propria condizione, costituisce un concreto pericolo per la propria identità culturale.
Digressione: differenza e diversità
Qui, diversità e differenza non sono, come nel linguaggio corrente, sinonimi; né li distinguo per
affermare, com’è entrato nell’uso, che diversità designa situazioni etichettate e stigmatizzate mentre
con differenza si indica ciò che s’intende valorizzare.
Il termine differenza contiene l’idea del differire, del portare il medesimo altrove (da differre) e,
successivamente, del rinviare nel tempo la medesima situazione. In questo senso, la differenza sarebbe
l’identico, lo stesso al quale è stata cambiata la collocazione, ma che rimane pur sempre sé medesimo.
La differenza è così intesa come ciò che inerisce all’identità, ciò che sta insieme a essa pur
distinguendosene. In tedesco, questa condizione, come ha mostrato Heidegger (1957), è espressa
nel termine Zusammengehörigkeit che indica l’appartenenza – Gehörigkeit – di cose distinte a uno
stesso ambito che le fa stare insieme – zusammen – e significa quindi, lo stare insieme, lo stare unite, di
cose distinte. La differenza inerisce dunque all’unità, ne è un aspetto. Nulla ha a che fare con la
molteplicità, con la pluralità che rientra invece nell’ordine della diversità. Già in Aristotele, la diversità è
un concetto per così dire aspecifico se confrontato alla differenza: “Tutto pur che sia reale, o è
diverso o è identico”, afferma Aristotele (tr. it. 1959, p. 332), come dire che, esistendo, o si
appartiene all’uno o ai molti. Questa linea argomentativa si ritrova in Hegel: “I diversi non stanno
(…) fra loro nel rapporto di identità e differenza, ma soltanto in quello di diversi in generale, di
diversi che sono indifferenti fra loro e di fronte alla lor determinatezza” (Hegel, tr. it. 1974, p. 41).
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La diversità, come ordine dell’interindividuale, ci indirizza all’idea di volgere (da divertere). Qui non
siamo nell’ambito dell’intraindividuale, dove l’identico tras-loca se medesimo, ma nel molteplice dove
l’identico costruisce la relazione con l’altro da sé avendola preventivamente percepita nell’altro sé
come differenza.
Identificare differenza con diversità, usare i due termini come sinonimi, significa pensarli come
entrambi contrari all’identità. Così concepita, privata cioè nel suo statuto d’ogni relazione con
l’alterità, l’identità altro non sarebbe che la pura banalità di ciò che è “in se stesso privo di
relazioni” e “si irrigidisce, ostinatamente in un’uniformità” (Heidegger, cit. p. 5). Sarebbe,
secondo Heidegger, l’espressione della formula tautologica che dice la stessa cosa ripetendola: “la
pianta è la pianta”. È in questi termini che viene abitualmente espresso il principio d’identità
mentre, sostiene Heidegger, “perché qualcosa possa essere la stessa cosa, è ogni volta sufficiente
un solo termine” (ivi, p. 4).
Ma non è solo una chiarezza terminologica che s’impone, ciò che non sarebbe davvero un
aspetto trascurabile. Se si confondono differenza e diversità, il lungo dibattere degli antichi sul
rapporto uno-molti ci risulta incomprensibile e la conseguenza è che il pensiero, non trovando
l’elemento relazionale nell’identico, procede per opposizioni. Così le filosofie moderne, nello
spezzare con un colpo d’accetta il dilemma uno-molti, producono una sequenza interminabile di
dualismi (soggetto-oggetto, cultura-natura, individuo-società) dove l’identità, sola con sé stessa, è
invariabilmente contrapposta alla diversità. Questo schematismo mette capo a due possibili esiti:
o alimenta una ragione strumentale che, nel confondere i mezzi con i fini, si riduce al controllo delle
proprie funzioni e procedure1 o invoca una prospettiva olistica che tuttavia rimane una mera opzione
quando la relazionalità, il nesso necessario per cogliere l’individuo nel mondo, è univocamente
collocata nei molti, nell’esperienza ex post di ciò che è esterno all’uno e non viene invece reperita già
a partire dall’esperienza del sé che si percepisce nell’essere mondo senza per questo confondersi con
esso in un sentimento oceanico, ma distinguendosene, appunto, in virtù della propria originaria
differenza2. Quando si respingono le filosofie del cogito senza fare i conti con la modernità, se ne
accolgono implicitamente le premesse e il piano logico nel quale, a partire da Leibniz, si assegna
all’identità il valore di principio che l’antichità non le aveva mai riconosciuto3, è confuso con quello
ontologico e quest’ultimo, come ancora Heidegger ci ha insegnato, con quello ontico.
Quando poi si passi dalla questione filosofica alle relazioni sociali e al rapporto fra individuo e
società, ancora ci rendiamo conto di come l’idea moderna d’identità (prodotta nel grande affresco
tracciato col cogito di Cartesio e completato dall’io penso di Kant) è una sola cosa con una
sovrabbondante costruzione del soggetto che perde di vista l’altro, la società e quindi perfino il sé4.
Una cosiffatta cultura dell’identità costituisce un obiettivo ostacolo a procedere verso l’idea che
viviamo in quella società degli individui di cui ci ha parlato Norbert Elias; il nostro debito insoluto
con la modernità, c’induce infatti a pensare il rapporto fra l’individuo e la società così da
presupporre una diversità ontologica dei termini che lo compongono (Elias, tr. it. 1990, p. 7) e su
questa base prefiguriamo il mondo intorno a noi.
Per procedere oltre l’insostenibile diversità ontologica fra individuo e società, per guadagnare la
prospettiva dalla quale sia possibile pensare in termini di società degli individui, Elias sostiene che
l’Io dovrebbe pronunciarsi come un Noi mentre gli enunciati “Io sono”, “Io penso” non
dovrebbero essere concepiti a prescindere da un gruppo e una società. Elias sottolinea come nelle
società avanzate dei nostri tempi “si attribuisca un valore superiore a ciò per cui gli uomini si
distinguono tra loro, alla loro Identità-Io, che non a ciò che hanno in comune, alla loro identitàNoi” (ivi, p. 178). Nell’antichità, che non disponeva di un concetto d’individuo corrispondente al
nostro, accadeva piuttosto il contrario. Poi, col Medioevo e, in modo più accentuato nel
1
È la ratio formalizzata di cui ci parlarono Horkheimer, Adorno e in generale gli studiosi della Scuola di Francoforte nelle
ricerche sulla teoria critica
2 Vincenzo Cesareo (1993) ha compiuto un’ampia analisi sui tentativi compiuti da Parsons, Alexander, Habermas e Giddens
di procedere oltre il dilemma olismo-individualismo.
3 In Aristotele l’identità è una nozione mentre la conoscenza procede dal principio di non contradizione
4 Secondo Habermas (1981), la discontinuità con questa tradizione è istituita a partire da G. H. Mead (1934).
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“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
Rinascimento, si attua lo spostamento verso l’identità-Io che riscontriamo nelle nostre società.
Nondimeno, insiste Elias, l’individualizzazione è consentita dall’habitus sociale di un uomo
formato all’identità-Noi. “Questa identità rappresenta la risposta alla domanda sulla propria
identità, e in questo caso vale sia per l’essere sociale sia per quello individuale” (ivi, p. 209).
L’identità-Noi abita la persona, che riconosciamo come l’identità in cui risiede la differenza e che si
relazione alla diversità così da rendere possibile l’identità come relazione sociale. Viceversa, nella
polarizzazione dell’Identità-Io, dovremmo parlare d’identità e relazione sociale. Dal punto di vista
dell’individualità, il Noi, come diversità propria del molteplice, condivide la natura del Loro.
Smarrita la dimensione della differenza (ovvero quell’alterità nell’individuo che è presagio della
socialità) il molteplice, come diversità, si rivela in quanto polare alla singolarità, all’individuo. La
differenza è allora usata come una variabile terminologica di diversità, un sinonimo del tutto
equivalente.
Nell’ordine della storia, alcune diversità si costituiscono rispetto al singolo come un Noi-Alleato
e altre come un Loro-Avversario. Ma, come sappiamo, le alleanze della storia, anche quella
personale e perfino quotidiana, sono mutevoli.
Le cose stanno diversamente nell’identità come relazione sociale, nella società degli individui dunque,
dove la differenza nell’identità 5, contiene l’esperienza dei molti ancor prima dell’incontro in un Noi o
in un Loro. Come in Dewey (1934), qui uso esperienza nel senso di mettersi alla prova di e intendo
sottolineare che l’individuo è nella relazione con la diversità già nel suo stesso essere che non
esisterebbe neppure se non vi fosse la socialità. Assai prima della sua fattuale dichiarazione
d’appartenenza a un mutevole Noi contrapposto al Loro, egli è nella relazione con la diversità, la
molteplicità che costituisce, propriamente, il suo ambito d’appartenenza. Abitualmente siamo soliti
dire che il cucciolo dell’uomo appartiene alla sua famiglia e più tardi a una comunità, a una società
definita. Questo accade perché, fin dalla sua nascita, chi gli sta intorno si appropria di lui così da
persuaderlo a riconoscersi in una parte circoscritta anziché essere, egli stesso, universo, che non
significa affatto concepirlo in modo grandioso ma, semplicemente, come uno rivolto agli altri. Così,
è la nostra condizione. Il cucciolo dell’uomo non scopre affatto la famiglia intorno a lui prima del
mondo. Questo è ciò che vorrebbero e che gli fanno credere i genitori quando interpretano le sue
prime lallazioni come un’invocazione dei loro nomi. Essi desiderano che il piccolo li riconosca
avanti ogni altra percezione del mondo e spiegano i singoli eventi per confermarsi nella loro idea.
Ben presto devono però persuadersi che il cucciolo ha atteggiamenti e comportamenti non
sempre riconducibili al mondo delle loro intenzioni. Nel destarsi alla vita, egli è anche figlio d’altri
perché è già parte del mondo, di un tutto assai più esteso della famiglia; il compito dei genitori
dovrebbe consistere nell’aiutarlo a orientarsi mentre la loro stessa percezione della situazione li
induce a pensarsi come coloro che lo introducono al mondo attraverso un gradualismo per cui il
bambino dovrebbe essere accompagnato verso gradi sempre più complessi di conoscenza del
molteplice. Un percorso insomma dalla famiglia al mondo. In questo modo gli si impone di
seguire il cammino contrario a quello verso cui è indirizzato dalla nascita quando è già nel mondo
e dunque ha già una percezione del molteplice che non attinge originariamente dalla famiglia
come invece questa, perlopiù, crede. Se le cose stessero diversamente, non sapremmo come
spiegare il suo eccedere la famiglia già nei primi mesi di vita. Nel non riconoscere la sua universalità
e nel fortificare invece la sua univocità, la sua appartenenza all’unicità della famiglia e più tardi a
quella della società in cui vive, il bambino viene immesso in una cultura identitaria che non coglie
le diversità oltre il sé perché incapace di percepire la differenza nel sé6.
5
Ricoeur (1990) parlerebbe di sé come un altro. Cfr. anche Lévinas (1998, 2002).
In sociologia, la distinzione fra differenza e diversità fu adottata vent’anni or sono da Paolo Ceri in uno studio sulla
disuguaglianza nel quale dimostrava come la sociologia e la teoria politica procedevano sull’argomento in modo
opposto e simmetrico. La teoria politica, scrive Ceri, guarda all’uguaglianza e considera le disuguaglianze come
distanziamenti da uno stato di uguaglianza; la sociologia si occupa invece della disuguaglianza e l’uguaglianza non è
che “un caso particolare di disuguaglianza (di variabilità) zero” (P. Ceri, 1985, p.43). Del resto, sostiene Ceri, la
letteratura mostra, al di là di ogni possibile equivoco, come la teoria politica si occupi prevalentemente d’uguaglianza
e la sociologia di disuguaglianza. Per analizzare la questione dal lato della sociologia, Ceri distingue la differenza dalla
diversità. Egli propone di chiamare differenze quelle disuguaglianze, naturali e sociali (tra le prime annovera la forza
6
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“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
Considerazioni preliminari II: la società
Per quanto detto nella Digressione I, dovremo considerare l’autoctono come l’identità culturale
rispetto alla quale il cosmopolita costituisce la differenza nell’identico e l’alloctono la diversità
dall’identità.
L’autoctono è dunque l’identità culturale che si autopronucia e che definisce i territori
dell’alterità. Nella loro articolazione identitaria, autoctoni, cosmopoliti e alloctoni possono
convivere, come individui, in qualsiasi società. Le cose cambiano se pensiamo alle tre figure come
a tipi sociali di gruppi che abbiano un qualche peso nell’opinione pubblica e un’autonoma
possibilità di contrattazione sociale con le istituzioni così da intervenire nelle modificazioni
molecolari dell’ambiente. Gruppi di cosmopoliti e alloctoni sono impensabili in organizzazioni
tribali; ma non possiamo credere che abbiano una significativa incidenza neppure in società prive
di democrazia e d’opinione pubblica.
In breve: l’autoctono, l’alloctono e il cosmopolita sono tipi di gruppi sociali significativi che convivono soltanto
nelle società democratiche del mondo ricco.
In queste condizioni, la convivenza tende a risolvere7 la loro diversità che tuttavia persiste per
effetto di pratiche da etichettamento sociale. La persistenza delle diversità viene di conseguenza
assunta come un dato di realtà cui uniformarsi mentre costituisce l’interpretazione distorta di un
processo.
La risoluzione delle diversità è un processo fisiologico che può essere, per brevità, descritto
attraverso i seguenti postulati:
i
ognuno di noi è titolare di una propria esclusiva impronta biologica con la quale, che lo
voglia o no, segna il mondo della sua presenza. Il suo marchio individuale non rimane
inalterato in ambienti diversi e non s’imprime ovunque nel mondo allo stesso modo;
fisica, l’intelligenza, l’età; tra queste, il reddito, il rendimento, la scolarità), che hanno natura quantitativa e, rispetto ad essa,
gli individui e i gruppi che sono ordinabili rispetto alle categorie maggiore/minore. Chiama invece diversità quelle
disuguaglianze, naturali e sociali (tra le prime annovera il carattere, le emozioni; tra queste, la professione, la funzione, gli
attributi di ruolo), che hanno una natura qualitativa e, rispetto ad essa, gli individui e i gruppi non ordinabili in termini
di maggiore/minore, ma comparabili come uguale/diverso.
Il quadro concettuale proposto da Ceri potrebbe trovare utili applicazioni nelle ricerche che oggi si conducono sulle
politiche del riconoscimento nella società multiculturale (cfr. A. Honneth, 1992, C. Taylor, 1992; J. Habermas, C. Taylor,
1996; V. Cesareo 2000, 2001;). In un mutato quadro dei diritti e della contrattazione sociale, il rapporto
uguaglianza/disuguaglianza è oggi assai più complesso di quanto non fosse in un recente passato e la distinzione tra
diversità e differenza qui proposta consentirebbe di comprendere l’intreccio che lega la natura di alcune domande
sociali emergenti a un corpo di leggi consolidato.
È solo il caso di accennare al fatto che la varietà di significato tra i termini diversità e differenza cui ricorre Ceri si
distingue su due punti da quella che ho utilizzato in questa digressione.
Anzitutto Ceri ricorre dichiaratamente a una distinzione convenzionale tra i due termini laddove, da parte mia,
sostengo che tale distinzione è fondata sia filologicamente sia storicamente; tale distinzione è stata per così dire
annullata dalla cultura moderna così da rendere sinonimi e intercambiabili i due termini per ragioni che qui ho
richiamato avendole esposte più diffusamente altrove (Bosi, 1988, 1994, 2005).
In secondo luogo, e questo è l’aspetto di gran lunga più rilevante, Paolo Ceri, pur avendo distinto differenza da
diversità, usa entrambi i termini come categorie interindividuali. Nella mia esposizione ho invece sostenuto che la
differenza è un attributo dell’uno e la diversità dei molti. Questa soltanto è dunque una categoria interindividuale mentre
l’altra è intraindividuale.
7 Ho esitato nell’introdurre questo verbo col quale intendo connotare positivamente il processo che sto descrivendo. In un
primo momento avevo usato il verbo dissolvere che senz’altro meglio asseconda il nostro modo corrente di pensare. Mi sono
poi persuaso sull’opportunità di adottare un termine che non fosse legato a un’idea di sofferenza e decadimento (come è
evidente nel concetto di dissoluzione) in considerazione del fatto che la letteratura sulla crisi dell’identità, anche quando ha
sostenuto che in essa è individuabile un carattere evolutivo e liberatorio, ha poi utilizzato una terminologia che richiama
sentimenti dolorosi di frattura, privazione, incompiutezza. Ritengo utile uno sforzo lessicale per riscattare il linguaggio della
crisi dalle ambiguità in cui è rimasto avvolto nel XX secolo.
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“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
i1 quanto affermato in i può dirsi, in modo accentuato, anche per una famiglia o una collettività.
Nessun gruppo sociale rimane insomma uguale a sé stesso in un ambiente diverso da quello
originario e ovunque lascia una diversa traccia di sé;
i2 d’altro canto, neppure l’identità ospitante rimane uguale a sé stessa per effetto di
quell’impronta che ne ha modificato l’ambiente nonché il sistema di lettura e
rappresentazione del mondo;
ii il processo di risoluzione delle diversità ha inizio con la loro convivenza in un medesimo
ambiente, non dipende da determinate pratiche politiche e filosofie sociali, che comunque ne
influenzano il corso, né mette capo a una società unificata e pacificata, ma a nuove diversità
che fioriscono sulla base di appartenenze e assunti identitari modificati;
iii perché le nuove diversità si affermino, non è necessario alcun atto che ne dichiari la nascita.
Esse compaiono nel farsi del processo di risoluzione delle precedenti diversità.
Questa fisiologia del processo di risoluzione delle diversità è esplicitamente contrastata dalle
politiche e dalle filosofie sociali che praticano intenzionalmente l’etichettamento delle diversità e
la loro stigmatizzazione attraverso il pregiudizio e l’esclusione. La distanza sociale tra le diversità,
e la conseguente difficoltà di procedere al loro superamento, è acuita attraverso il recupero e la
valorizzazione, anche parossistica, di tradizioni talvolta desuete dell’identità ospitante che
vengono riesumate per finalità autoconservative. La persistenza in uno stesso ambiente di identità
che perseguono il solo obiettivo di conservarsi, e non anche quello di crescere attraverso il
confronto e la competizione con le diversità, produce l’effetto d’incrementare il disordine sociale
che inevitabilmente un contrasto d’interessi comporta quando è privato di un obiettivo cui
tendere. Il processo di risoluzione delle diversità si trasforma, in questo modo, da fisiologico in
patologico. Ogni identità sociale compete infatti con le altre per affermare la propria originalità
che, nel nuovo ambiente, si risolve in una generalizzata contraffazione e caricatura nel mentre
alimenta un localismo esasperato che mette tutti in armi contro tutti.
Ancor prima che questa condizione si riscontri nei fatti, essa è anticipata nella profezia che si
autoavvera di chi si oppone al processo di risoluzione delle diversità. Come la teoria
dell’etichettamento ci ha insegnato, la lettura di un processo fisiologico come se fosse patologico
ha, in determinate circostanze, l’effetto di renderlo patologico. Vivendo in uno stesso ambiente
per tempi prolungati, le diversità culturali vengono di continuo ibridandosi tra di loro, ma la
difesa e l’enfatizzazione delle loro identità, occulta ogni tipo di cambiamento opponendo, alla
dinamica della socialità, una sua fotografia scattata in un tempo e in un ambiente che non hanno
alcuna corrispondenza col processo in atto. Questa fotografia, presentata come un dato di fatto
mentre ne costituisce un’alterazione, è utilizzata per provocare la patologia che più tardi verrà
indicata a comprova delle proprie previsioni.
Le politiche e le filosofie sociali inclusive, cui intendo riservare il mio interesse e alle quali
soltanto farò d’ora in poi riferimento in questa nota, si pongono una diversa finalità; esse mirano
a realizzare l’integrazione8 fra la l’identità ospitante e le diversità attraverso la valorizzazione di
queste ultime9. Anche in questo caso, agisce la pretesa di preservare le culture originali. Nello
schema descritto precedentemente, l’identità ospitante operava su sé stessa per metterla al riparo
dalle diversità che venivano screditate; nello schema inclusivo, l’impegno dell’identità ospitante è
volto a valorizzare le diversità allestendo messinscene che consentano loro l’esibizione di
cerimoniali considerati autentici. Inoltre, l’identità ospitante si protende generosamente verso le
diversità e cerca di mutuarne aspetti significativi. L’obiettivo di preservare le diversità è dunque
perseguito per conservarne i valori e non per mantenere la distanza sociale che anzi viene ridotta
8
Per una lettura del rapporto fra integrazione e differenziazione in sociologia cfr. G. A. Gilli (2000). Un’ampia analisi
sull’integrazione e sul suo paradosso, nonché su tre modelli di inclusione sociale proposti dalla letteratura relativa alla società
multietnica, è proposta da M. Ambrosini (2005). Sul concetto di inclusione cfr. Habermas (1996).
9 In questi casi, abitualmente, come ho accennato all’inizio della Digressione, si usa il termine differenza. In questo modo si mira
a distinguere chi s’intende valorizzare, dal diverso che, nell’uso comune, è lo stigmatizzato. Da parte mia userò invece diversità
per le ragioni ampiamente espresse.
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“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
aprendo concretamente la prospettiva del suo annullamento. In ogni caso, lo schema inclusivo
non mette a tema la problematica della risoluzione ma quelle dell’uguaglianza e del
riconoscimento in un ambiente che valorizzi le diversità. Il conseguimento dell’uguaglianza non è
di per sé un fattore di risoluzione delle diversità, ma un volano che accelera il processo
d’ibridazione tra le parti riducendo, fino ad annullarla, la distanza sociale e creando opportunità
d’incontro e comunicazione.
Questo schema, qui oltremodo semplificato, non è a sua volta immune dalla pratica
dell’etichettamento.
L’inclusione delle diversità in un sistema capace d’integrarle ne opacizza il processo di
risoluzione ed esalta la statica funzionale che mira a preservare le diversità per come sono
rappresentate dall’identità ospitante. Un sistema inclusivo che integra una molteplicità di diversità
risponde alla domanda chi integra chi? fondando la dissimetria tra integratori e integrati, tra identità
ospitante e diversità10. Esso fronteggia adeguatamente la necessità di accogliere individui che
vivano lo stato di necessità in cui non possono assolvere ai loro bisogni primari ma, superato
questo stadio, è inadatto a corrispondere alle domande successive.
Quando siano stati soddisfatti i bisogni primari, gli individui, perlopiù, ricostituiscono la
famiglia d’origine o ne formano una nuova e si riuniscono nella cultura d’appartenenza attraverso
la quale contrattano collettivamente la loro presenza nell’ambiente con l’identità ospitante. Siamo
qui in un secondo stadio del rapporto. Il processo fisiologico di risoluzione delle diversità ha
propriamente origine in questo stadio. Nel precedente, esso è in nuce in quanto gli individui non
sono parte di una diversità culturale in dialogo con l’identità ospitante. Ma occorre precisare: in
una società multiculturale i due stadi non devono essere pensati come l’uno successivo all’altro
bensì come coesistenti; mentre alcuni individui abbandonano il rapporto assistenziale e danno
vita, nei gruppi di appartenenza, a una vera contrattazione sociale, altri ne sopraggiungono che
rinnovano urgenti domande d’aiuto perché sia garantita loro la sopravvivenza.
Il sistema inclusivo che opportunamente provvede alla prima fase, è inadeguato quando si
tratti di affrontare la seconda; com’è evidente nell’asimmetria ospitante-ospitato, esso è un sistema
funzionale inadatto a corrispondere alle esigenze proprie di una contrattazione sociale, ciò che
caratterizza la seconda fase. È ora necessario un sistema comunicativo capace di cogliere la
complessità di una relazione simmetrica in termini di reciproche interazioni. Tuttavia, il sistema
comunicativo incontra non poche difficoltà a relazionarsi col sistema funzionale in quanto
l’etichettamento agisce, in questo caso, non tanto nei confronti delle diversità, quanto piuttosto
della relazione praticata in vista dell’integrazione. Etichettare l’integrazione11 significa assegnarle un
ruolo che non è il suo ed estenderne il potere d’intervento al di fuori dell’ambito che le compete.
L’integrazione comporta la riduzione del complesso all’integro. Ma, per quanto detto nella Digressione
I, il complesso che è riducibile all’integro, non è quello caratterizzato dalle diversità, ma dalla differenza.
Le diversità, i molti rispetto all’uno, non sono riducibili a un uno che le comprenda tutte; semmai,
ognuna, presa per sé stessa, è riducibile a quell’uno da cui ha avuto origine, ma rispetto al quale
non costituisce una diversità, bensì una differenza. In altri termini, la diversità, l’elemento esogeno
rispetto all’uno, all’identità, non è riducibile a essa, non è integrabile con essa se non istituendo
un’asimmetria per cui l’identità sottomette, e appunto integra, la diversità. Questo processo può
10
In teoria, la domanda chi integra chi? potrebbe essere mitigata adottando la formula chi integra chi in rapporto a una definita
situazione? con la quale il sistema funzionale potrebbe introdurre l’alternanza tra le parti responsabili del processo. Ma è
evidente che questa soluzione non cambierebbe la logica del sistema funzionale. Inoltre, questa eventualità non ha alcuna
possibilità di applicazione con riferimento all’ambito di cui stiamo parlando. La logica dell’inclusione è fondata
dall’opposizione NOI (autoctoni) -LORO (alloctoni) che prevede un’unica e irreversibile direzione di marcia. Altrove (Bosi
1998) ho cercato di evidenziare come, nelle nostre società, esistano bensì situazioni nelle quali si verifica una centralità, e
quindi una dominanza, del LORO sul NOI che originano processi d’inclusione nella direzione opposta a quella abituale. Ma
questo avviene nelle situazioni di vita quotidiana, nei rapporti di strada, non certo nella dimensione del sistema sociale.
11 Non solo si etichetta l’integrazione facendone un uso improprio come sostengo in queste righe ma, nell’integrare i gruppi
sociali, si etichettano le loro caratteristiche secondo le aspettative dell’identità ospitante. È quanto accade in Italia nei
confronti della comunità cinese secondo l’analisi di D. Denti, M. Ferrari, F. Perocco (2005, pp. 9 e segg). Cfr. anche M.
Ambrosini (2005, pp. 79-81).
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Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
avvenire per finalità funzionali e condivise dalla diversità, ma ha valore esclusivamente in rapporto
alle circostanze che hanno provocato quelle finalità. Da parte sua, l’identità può invece integrare la
propria differenza, l’elemento di articolazione endogena dell’identità stessa. Quando ciò avvenga,
l’identità non rimane inalterata; ma possiamo considerare ogni modificazione in questo senso
come un tratto eminentemente evolutivo. Del resto, identità e differenza sono fra di loro in una
relazione d’integrazione che non conosce soste: la differenza è il margine che di continuo sospinge
l’identità oltre sé stessa. Questo tipo di evoluzione non è esclusivamente diacronica, ma anche
sincronica. L’identità, che ovviamente cambia nel tempo, si modifica anche nell’hic et nunc delle
proprie scelte e decisioni, dunque del proprio agire sociale. In questo modo, essa si ridefinisce;
ridisegna cioè quei confini sui quali la differenza (potremmo dire: la propria differenza costitutiva)
opera da sentinella.
Considerazioni preliminari III: l’istruzione
Nel nostro paese, i due sistemi ai quali mi sono riferito nel paragrafo precedente, l’uno
funzionale, con obiettivi di tipo inclusivo e integrazionista, l’altro comunicativo, con obiettivi di
tipo interazionista, convivono nelle istituzioni da una decina d’anni.
Il sistema funzionale caratterizza l’universo dell’assistenza sociale (assessorati, ministero, corsi
di laurea per assistenti sociali); quello comunicativo, l’universo dell’istruzione (assessorati,
ministero, formazione degli insegnanti ai vari gradi fino alle Scuole di Specializzazione per
l’insegnamento Secondario, Ssis)12. Tuttavia, le nostre istituzioni non sembrano avere la necessaria
consapevolezza delle distinzioni che caratterizzano i due sistemi e di conseguenza li utilizzano
senza che l’uno tragga giovamento dall’altro. Questo dipende, essenzialmente, da un ritardo
nell’elaborazione teorica e dal fatto che l’urgenza di mettere mano alla questione del
multiculturalismo ha indotto a condividere frettolosamente gli stessi termini anche quando siano
utilizzati in ambiti concettuali distinti. Sul piano analitico, il primo sistema è caratterizzato dagli
studi sull’immigrazione e sulla teoria politica dove è prevalente la domanda in ordine alle ragioni,
alle opportunità (storiche, sociali, economiche) delle migrazioni e alla loro sostenibilità. Al
secondo sistema fa invece riferimento l’educazione interculturale13 che s’interroga su come
cambia l’istruzione partendo dal dato di fatto che, in una società multiculturale (quali che siano le
ragioni e le opportunità della sua esistenza), vi è una significativa presenza d’immigrati cui è
riconosciuto il diritto all’istruzione dalla nostra Costituzione e da istanze mondiali.
Infine, anche l’etichettamento del concetto d’integrazione, impedisce di trarre le conseguenze,
sul piano analitico e del linguaggio corrente, di alcune conquiste operate nell’ambito
dell’istruzione.
Negli studi su questi temi, la necessaria distinzione tra settori con linguaggi, metodi e obiettivi
propri è stata subordinata all’esigenza di pronunciare un giudizio d’insieme, che tradisce la
propria natura ideologica, sulla società multiculturale. Ne sono ben presto derivati due
schieramenti, che per comodità definirò fautori moderati e fautori radicali della società multiculturale
(come ho già detto non mi occuperò degli oppositori), in corrispondenza non tanto di posizioni
politiche riconducibili agli schieramenti politici esistenti, quanto piuttosto disciplinari. Chi ha
affrontato i temi dell’immigrazione e li ha inclusi in riflessioni di teoria politica si è
necessariamente confrontato con le domande che riguardano la tenuta del sistema economico a
fronte di uno sviluppo demografico destinato a modificare assetti produttivi tradizionali.
Realismo e moderatismo s’impongono nell’affrontare queste problematiche come del resto ove si
considerino i temi relativi al disordine sociale e al conflitto interetnico. L’interesse analitico per i
12
In altri paesi, il sistema dell’istruzione adotta invece il modello integrazionista che è dunque senza alternative.
Gli studi sull’educazione interculturale sono stati particolarmente generosi nel nostro paese. Fra le molte opere, mi limito a
ricordare D. Demetrio e G. Favaro, 1992; F. Susi, 1995; E. Damiano, 1998, 1999, F. Pinto Minerva 2002. M. Ferretti (in M.
Ferretti, A. Jabbar, N. Lonardi 2003) ha curato una bibliografia diversificata in rapporto ai temi affrontati, una sitografia e un
indice sulla normativa della scuola italiana dal 1981 al 2000 di cui per altro fornisce un’analisi nel suo articolo (pp. 49-67). Il
CD Educazione interculturale nella scuola dell’autonomia, curato dal Ministero della Pubblica Istruzione (Parma, 2000), raccoglie i
quattro convegni di studio realizzati dalla Commissione nazionale per l’educazione interculturale tra il 1998 e il 1999.
13
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Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
temi dell’istruzione e le corrispondenti pratiche educative impongono un diverso orizzonte
problematico e altre finalità. Il pedagogista, l’educatore e il sociologo dell’educazione non sono
tenuti a porsi domande del tipo: quale società multiculturale? entro quali limiti la società multiculturale? o,
addirittura, vi è posto per una società multiculturale nel futuro dell’umanità? Per loro, si tratta di
corrispondere alla domanda su come favorire la crescita delle relazioni fra le persone che, di fatto, vivono
nella società multiculturale. Non vi è dubbio che i due tipi di domande sono strettamente
interconnessi e che ogni individuo li pensa in modo congiunto, ma sul piano analitico la ricerca
delle risposte percorre strade distinte e mette capo a esiti non sovrapponibili. La reciproca accusa
di moderatismo e radicalismo tra gli studiosi potrebbe essere originata dalla natura stessa delle
loro domande e dal ritardo nel tracciare precise distinzioni nei loro ambiti d’intervento con
l’effetto che tutti mettono mano agli stessi strumenti per operare in situazioni diverse.
Nel nostro paese, le politiche dell’istruzione hanno introdotto, tra gli altri14, due principi che
regolano i rapporti con le diversità culturali. Esse affermano
− che l’educazione interculturale non è una disciplina, ma un indirizzo generale col quale si
abbandona il terreno dell’istruzione etnocentrica tipico del passato;
− che l’educazione interculturale non è una risposta contingente alla presenza d’immigrati,
ma costituisce un valore permanente della scuola italiana.
In questo modo, le politiche dell’istruzione non producono vuoti orizzonti, né si fanno carico
di educare individui e collettività a una nuova idea di cittadinanza in attesa di assetti sociali che
saranno decisi a livello planetario, ma introducono una loro interpretazione della storia che agisce
qui e ora sul modo d’intendere e organizzare la vita sociale. Di più: queste posizioni hanno
un’incidenza sul piano epistemologico perché c’inducono a concepire, tra la stessa popolazione,
luoghi in cui è ammissibile e persino doverosa l’asimmetria sociale (e dunque l’integrazione delle
diversità nella cultura dell’identità ospitante) e luoghi in cui opera la simmetria tra le diversità e
l’identità ospitante. In questa logica è iscritta una cultura dell’ospitalità alla quale si lavora da più
parti15 e di cui si cominciano a intravedere i lineamenti. Sinteticamente, possiamo dire che la
cultura dell’ospitalità non è concepita assumendo il modello dei nostri rituali quotidiani nei quali
un Ego-soggetto ospita Alter-oggetto e, in un tempo differito, è forse ricambiato; essa recupera
invece l’originaria ambivalenza del termine che indica sia chi dà, sia chi riceve ospitalità. Questa
condizione presuppone che i diversi soggetti percepiscano di ospitarsi reciprocamente essendo
ospitati. Così vivono gl’innamorati che, nell’ospitarsi l’un l’altro costruiscono insieme uno spazio
fisico e mentale che li accolga ospitando il loro amore. Ma questa è anche la nostra soggettiva
condizione. Nell’essere parte del mondo, abbiamo il mondo stesso come nostro ospite. È in
questo modo che le diverse culture, nel loro processo di risoluzione, contrattano di continuo la
propria storia individuale nell’ambito di un territorio e, così facendo, cambiano la fisionomia della
città che le ospita.
In questa accezione, l’ospitalità comporta almeno due requisiti: la deterritorializzazione e la
simultaneità.
Non è pensabile un’ospitalità in cui un soggetto demarchi il proprio territorio e concepisca la
relazione a partire dall’idea che l’altro lo sta occupando. La deterritorializzazione implica l’idea che,
nella relazione, si viene costruendo una nuova città dalla quale farsi ospitare. Né potremo pensare
a tempi distinti in cui si dà e si riceve ospitalità. Per come la intendo, l’ospitalità comporta invece
la simultaneità dell’ospitarsi reciprocamente facendosi ospitare dallo spazio che insieme si viene
definendo.
14 Nel 2000, la Commissione nazionale per l’educazione interculturale del Ministero della Pubblica Istruzione ha articolato in
tredici punti i propri orientamenti in materia di educazione interculturale.
15
Cfr. J. Derrida,; C. Di Sante, 1986; E Jabes, 1991; A. Valleriani, 2003. Sull’argomento mi sono soffermato in diverse
occasioni (Bosi, 1996, 1998, 2002, 2004).
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Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
L’ipotesi di pensare insieme l’asimmetria e la simmetria sociale16 per saperle distinguere, rende
necessario un chiarimento sull’uso di alcuni termini sui quali persistono in letteratura divergenze
significative.
Digressione II: multiculturale e multietnico
L’espressione società multiculturale, presa alla lettera, è tautologica. Nessuna comunità, ma
neppure un elementare gruppo tribale, potrebbe infatti esistere senza un’interna articolazione
rispetto al genere, alla generazione e al lavoro che sono luoghi di differenziazione culturale. La
consapevolezza che negli scorsi decenni abbiamo acquisito sulle problematiche dei diritti e della
cittadinanza ci ha resi avvertiti circa il fatto che il maschile e il femminile costituiscono due
distinte culture irriducibili a un astratto genere umano nel quale la cultura dominata è occultata da
quella dominante come hanno ampiamente sottolineato i movimenti femminili a partire dalle
analisi condotte da Luce Irigaray (1985). Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte per le
generazioni: nelle società del nostro tempo, che Margaret Mead (1970) definì prefigurative, la
cultura dei bambini è riconosciuta come depositaria di diritti e di una propria caratteristica
attitudine nel disegnare l’esperienza della vita prima di averla vissuta senza doverla apprendere
dalla narrazione degli adulti che da sempre, nella società postfigurativa della tradizione, l’hanno
tramandata dopo averla esperita. Quanto al lavoro, è sufficiente richiamare la classica analisi di
Marx ed Engels (1846) sul rapporto fra lavoro manuale e intellettuale per ricordare come, da
quella distinzione, che ebbe origine nell’atto sessuale e nella formazione della famiglia, derivarono
culture che si andarono ulteriormente differenziando con l’affermarsi di società sempre più
complesse come, successivamente, ha approfondito Durkheim (1893).
A queste diverse culture, che potremmo definire costitutive di ogni gruppo comunitario, molte
altre se ne aggiungono in una qualsiasi forma di società. Will Kymlicka ha sottolineato, nel 1995,
che in ogni società moderna si trovano in abbondanza “varie nicchie di stili di vita, (di)
movimenti sociali e associazioni di volontari” e che ciascuno possiede una “propria cultura”
(Kymlicka, tr. it. 1999, p. 34). La diversificazione delle culture è dunque una caratteristica
endogena di ogni società e in modo particolare delle moderne società liberali.
Secondo Kymlicka l’uso dell’espressione società multiculturale per indicare società nelle quali
convivono popolazioni di diversa provenienza sarebbe dunque improprio. La proliferazione delle
culture avviene senza che una società debba necessariamente incontrare a) popolazioni “di culture
territorialmente concentrate che in precedenza si governavano da sole”17 o b) una diversità
culturale derivata “dall’immigrazione di individui e famiglie” (ivi, pp. 21, 22). Kymlicka considera
questi i “due modelli generali di diversità culturale” (ibidem) che caratterizzano in modo proprio
le società nelle quali convivono popolazioni di autoctoni e alloctoni.
A parer suo, l’uso dell’espressione società multiculturale non giova a far chiarezza e deriva da un
equivoco sul termine cultura che descrive in questi termini:
− “Se la cultura si riferisce alla ‘civiltà’ di un popolo, allora tutte le società moderne
condividono, in pratica, la stessa cultura”;
− “Se si definisce la cultura in questo modo, persino un paese multinazionale come la
Svizzera o un paese polietnico come l’Australia si rivela essere poco ‘multiculturale’, in
quanto i vari gruppi nazionali ed etnici che li compongono partecipano comunque alla
stessa forma moderna e industrializzata di vita sociale” (ivi, 34, 35).
Per superare questi equivoci, Kymlicka considera la cultura come sinonimo di nazione o popolo e
con essa “designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista
istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte”
16 In altri termini: asimmetrica è l’accoglienza che gli autoctoni riservano agli alloctoni, simmetrica l’ospitalità che si riservano
reciprocamente; asimmetrica è l’integrazione funzionale, simmetrica l’interazione comunicativa.
17 È il caso di nazioni federate o di minoranze assorbite nel processo espansivo di uno stato.
10
Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
(ivi, 35). In questo senso, l’espressione stato multiculturale appare generica se confrontata con stato
multinazionale18 e con stato polietnico19.
Kymlicka si propone di fondare una teoria politica che tenga conto degli ordinamenti giuridici
attraverso i quali gli stati garantiscono il diritto di cittadinanza alle popolazioni straniere;
nondimeno è evidente20 la sua attenzione ai limiti che gli strumenti concettuali disponibili rivelano
di fronte a trasformazioni che investono le basi della convivenza civile come le abbiamo pensate
con la nascita dello stato moderno. La sua analisi è condivisibile e le scelte terminologiche
(ovvero la messa a punto di strumenti d’indagine adeguati agli obiettivi perseguiti) corrispondono
all’intento di studiare il sistema degli stati in un periodo in cui l’emigrazione ha cambiato la
geografia umana del globo ed è sempre più diffusa la tendenza degli individui a vivere e morire in
una parte del mondo diversa da quella dove sono nati. Da questo punto di vista, stato multiculturale
è effettivamente un’espressione tautologica, un giudizio analitico, direbbe Kant, in cui l’attributo
non dice nulla più di quanto non sia già espresso nel nome.
Ma se ci riferiamo all’ambito della formazione, le cose cambiano e proprio le argomentazioni
per le quali Kymlicka abbandona l’espressione società multiculturale possono essere impugnate per
caldeggiarne l’uso, per quanto sia spuria dal punto di vista logico.
Nelle politiche della formazione infatti, gli individui non sono distinti sulla base di predefinite
appartenenze identitarie (delle quali non possiamo fare a meno quando si tratti di definire i quadri
statistici e burocratici indispensabili per ogni società), ma sono considerati come persone che
contrattano la loro crescita con l’ambiente in cui vivono. In questo senso, il carattere indefinito e
aspecifico dell’espressione società multiculturale è utile per due distinte finalità:
− anzitutto per conservare la memoria, nel nostro lessico, che la differenziazione sociale è
prima endogena e solo successivamente esogena;
− in secondo luogo per segnalare come le diverse nicchie culturali tipiche di ogni società
moderna sono luoghi di appartenenza identitaria che si vengono di continuo modificando
in base alle popolazioni, di diversa provenienza, che le animano.
Nella formazione, le espressioni società multiculturale e multiculturalismo indicano un dato di fatto,
l’esistenza su un territorio di molteplici culture riconducibili a origini e ambienti diversi; un processo
interculturale costituisce invece un impegno intenzionale a rendere fra di loro comunicative le
molte culture, a farle interagire21.
A un più ampio complesso di concetti si riferisce Vincenzo Cesareo (Cesareo, 1998, 2000,
2001) analizzando monoculturalismo, pluralismo culturale, multiculturalismo e multietnicità nel confronto
con le problematiche della politica del riconoscimento e dei diritti universali della persona.
In particolare, è qui utile richiamare la sua “affermazione di carattere generale” per cui “la
società multietnica è sempre multiculturale, quella multiculturale è spesso, ma non
necessariamente, multietnica” (Cesareo, 2000, p. 13). Cesareo riabilita in questo modo la nozione
di etnia che, nell’accezione etnocentrismo, è sempre stata esposta, come ha sottolineato
recentemente Ambrosini22 (2005, p.27), a derive xenofobe, sulla base di due considerazioni.
Anzitutto recupera il “complesso mito-simbolico” cui si riferisce l’etnicità e ricorda come il
suo significato più proprio vada “ricercato nei miti, nella memoria, nei valori e nei simboli”.
Rifacendosi a Max Weber, Cesareo distingue in questo modo éthnos, popolo, sia dal gruppo
parentale, caratterizzato dalla comunanza di sangue, sia dalla nazionalità che rimanda all’ordine
della politica, del diritto e dello Stato sovrano. Inoltre, la multietnicità, come del resto la
multiculturalità, vanno intesi non solo come “fatti oggettivi”, ma anche come “processi di
18 Nello schema precedentemente enunciato sarebbe il modello a), relativo a uno stato federale i cui membri appartengono a
diverse nazioni
19 Nello schema precedentemente enunciato sarebbe il modello b), relativo a uno stato che accoglie membri immigrati da
diverse nazioni
20 Lo si nota particolarmente quando affronta la questione dell’esclusione storica di gruppi endogeni (portatori d’handicap, gay,
lesbiche, donne, classe operaia, atei, comunisti) che “attraversa i confini dei gruppi nazionali ed etnici” e soprattutto nel
capitolo La tolleranza e i suoi limiti che meriterebbe una trattazione a parte.
21 Ho approfondito altrove questa distinzione (Bosi, 1998).
22 Cfr. anche D. Denti, M. Ferrari, F. Perocco (2005).
11
Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
costruzione sociale delle differenze” che, attraverso l’autodefinizione e l’eterodefinizione danno
luogo a forme d’interazione sociale da cui derivano “l’allocazione delle risorse sociali” ma che
“possono anche sfociare nella costruzione delle disuguaglianze” (Cesareo 2001, pp. 29-30).
In secondo luogo, Cesareo sottolinea il peso del revival etnico che assume diversi aspetti a
seconda degli ambienti in cui si presenta, “può dar luogo a rischi degenerativi, ma può anche
costituire una nuova (o meglio rinnovata) modalità di aggregazione sociale e di mobilitazione
collettiva” e comunque è stato un elemento di promozione del “multiculturalismo nelle sue
diverse espressioni” (Cesareo, 2000, p. 31).
I tipi sociali dell’autoctono, del cosmopolita e dell’alloctono, che percepiamo nella loro
relazione con la cultura materiale dell’ambiente in cui vivono, sono espressioni della società
multietnica considerata nel significato mito-simbolico qui richiamato; il cittadino e lo straniero, per
i loro rapporti formali con lo stato, rimandano invece all’espressione società multiculturale.
È evidente che le politiche della formazione considerano la persona come espressione
congiunta di cultura materiale e diritti civili; ma nel proporsi questa sintesi, non possono sottrarsi
a un confronto con le appartenenze identitarie che emergono dal ricco intreccio tra società
multietnica e società multiculturale nell’esperienza di vita degli individui.
Elementi per la composizione dei ritratti
Il linguaggio, il cibo e il luogo costituiscono gli elementi essenziali della cultura materiale cui
riferirsi per procedere ai ritratti dell’autoctono, del cosmopolita e dell’alloctono.
Ognuno di questi elementi è in realtà un insieme che può essere scomposto in più voci.
− Il linguaggio rimanda al gergo, ai nomi, ma anche ai comportamenti, agli stili di vita, agli
abiti.
− Il cibo compendia la salute, le feste e le cerimonie, la convivialità.
− Il luogo richiama il paesaggio, la città, la casa.
In quale misura ciascuno di noi può dirsi autoctono, cosmopolita o alloctono con riferimento
a questi elementi? E in che senso possono dirlo i gruppi sociali che convivono nelle nostre
società? Dove si arrestano le nostre appartenenze autoctone? Di fronte a un cibo forse, a un abito
o a un’usanza che i nostri genitori non avrebbero potuto immaginare? E le loro appartenenze
alloctone sono oggi così chiare come in un recente passato o già vengono scambiate per nostre?
Può dirsi nostra la pizza se, certamente, è loro il pomodoro che ne è parte? E che ne è del
cosmopolita, che credevamo nostro, un autoctono differente, quando lo vedevamo andarsene dal
villaggio ma eravamo certi che alla prossima cerimonia sarebbe tornato, ora che viviamo la sua
stessa dimensione globale e siamo immessi a forza nel suo mondo, mangiamo gli stessi cibi,
indossiamo gli abiti che gli abbiamo a lungo invidiato, vediamo i film e leggiamo i libri che un
tempo ci avrebbe raccontato provocando il nostro stupore, usiamo le stesse parole e perfino ci
accorgiamo di averne mutuato i modi? Dove cercheremo radici distintive se da tempo ci siamo
persuasi a prestare la nostra attenzione piuttosto alla fioritura generosa delle chiome?
Siamo certi di saper individuare il tipo dell’autoctono, del cosmopolita e dell’alloctono nella
nostra società e di poterlo riconoscere in precisi soggetti e gruppi sociali?
Certo esistono, nella nostra società, leggi vigenti in materia d’immigrazione, idee,
comportamenti sociali che presuppongono la presenza dei nostri tre tipi e nessuno dubiterebbe
che siano concretamente individuabili attraverso accertamenti burocratici. Ma il loro ritratto, così
ipotizzo, ci offrirebbe l’immagine sbiadita di un’epoca che non è la nostra. Nell’essere presenti fra
di noi, i tre tipi sono inattuali perché i loro tratti distintivi, quali che siano le nostre soggettive
opinioni politiche sulla società multietnica, sono stati reciprocamente mutuati nei modi di vivere
individuali.
I tre ritratti non sarebbero che dagherrotipi di pregiudizi legati a una concezione autocentrata
del mondo; ma sarebbero utili proprio per questo: rivelerebbero il ritardo che il nostro modo di
pensare ha accumulato, in questa materia, nei confronti del nostro stesso modo di vivere.
Sarebbero fotografie del nostro modo di pensare assai più che della realtà, e in questo modo ci
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Alessandro Bosi, Autoctono, cosmopolita e alloctono nella società multiculturale. Ipotesi per la realizzazione di tre ritratti, in
“Studi di Sociologia”, anno XLIV, n.1, 2006, pp. 59-79.
aiuterebbero a riflettere su come concepiamo la società multietnica a partire da figure che Pareto
avrebbe definito residuali.
Col secondo dei sei insieme di residui da lui individuati (persistenza degli aggregati), Pareto
mostrava come le società tendano a conservare aggregati di popolazione che si sono formati in
modo spontaneo (e dunque illogico) o comunque al di fuori di una esplicita progettazione
(logica).
Cosmopoliti e alloctoni sarebbero aggregati illogici per una società a dominanza autoctona che
tuttavia, denominandoli e includendoli al proprio interno, finirebbe col giustificarne la presenza
attraverso un’operazione di razionalizzazione dell’esistente. Perlopiù, la razionalizzazione del
processo illogico all’interno di un definito ordine di pensiero (nel nostro caso è illogico per una
società di autoctoni l’insediamento al proprio interno di cosmopoliti e alloctoni) è motivata con
l’esaltazione dei propri nobili sentimenti sulla base dei quali si sarebbe ritenuto di dover derogare
dallo status quo. In realtà, il ricorso alla razionalizzazione degli eventi mira a coprire la propria
incapacità di conservare intatta la situazione esistente e l’ordine valoriale su cui basa. La ragione di
quest’operazione, tipicamente ideologica, va ricercata nel fatto che ogni società, quando è
incapace di garantire la conservazione dello status quo, alimenta negli individui seri dubbi sulla
propria identità. La presenza di aggregati sociali non coerenti col profilo identitario originale della
popolazione viene dunque giustificata come il frutto di un’azione circoscritta, che non mette in
discussione le basi su cui fonda la società e anzi ne esalta alcune virtù come la tolleranza e la
solidarietà.
Da tempo, i termini cosmopolita, autoctono e alloctono sono in disuso perché ne avvertiamo
il carattere irrazionale, ma anziché confrontarci col loro lascito culturale (come propongo di fare
attraverso i ritratti) cerchiamo di giustificare le azioni illogiche (secondo l’identità autoctona) che
le hanno provocate ricorrendo ad altre parole (nella sociologia di Pareto sarebbero le derivazioni)
che rendono logico nella forma del discorso ciò che permane illogico nell’azione e nel
ragionamento.
Secondo gli indirizzi praticati da ministeri e assessorati che si occupano del servizio sociale,
sarebbero logiche, nelle società multietniche, politiche di tipo inclusivo che corrispondano alla
soddisfazione dei bisogni individuali nelle società multiculturali con presenze straniere. In questo
modo si alimenta una retorica dell’integrazione sociale che è inapplicabile nella società multietnica
e non auspicabile secondo l’educazione interculturale che, come abbiamo visto, concepisce i
rapporti tra i diversi con uguali diritti in termini di interazione comunicativa.
La distinzione concettuale tra i termini diversità e differenza rivela qui la sua utilità pratica.
Concepire la diversità, il luogo dell’interindividuale, nella sua opposizione binaria all’identità
significa pensare per relazioni oppositive (cittadino-straniero, amico-nemico, Noi-Loro) nelle
quali si istituisce un’asimmetria funzionale a una logica esclusivamente integrazionista. Il luogo
dell’intraindividuale, la differenza nell’identico, l’identità che siamo stati e non siamo più, che saremo
ma non siamo ancora, indica invece il percorso di risoluzione delle nostre comuni diversità. Questa
condizione è personificata dal cosmopolita, non lo stravagante intellettuale senza radici di
Spengler, ma la figura che tutti noi interpretiamo in una società nella quale l’identità ospitante e le
diversità sono venute ibridandosi.
I tre ritratti hanno dunque lo scopo di evidenziare un ritardo concettuale nei modi di
concepire la cittadinanza multiculturale e di fornire un contributo sociologico alla definizione
della cittadinanza interculturale23.
Bibliografia
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Un contributo particolarmente prezioso all’analisi di come si viene trasformando nel nostro tempo l’idea di cittadinanza e
di come operano le politiche dell’educazione è offerto dalle ricerche di M. Santerini (in particolare Santerini, 2001. Su questi
temi, cfr. anche D. Zolo, 1999, 2000; F. Petrangeli, a cura di, 2003 e G. Deiana, 2003. A. Tosolini, in un libro firmato anche
da K. F. Allam e da M. Martiniello, ha riconsegnato la riflessione sulla cittadinanza all’originario rapporto con la città e le sue
trasformazioni (A. Tosolini, 2004). Recentemente A. Gramigna e M. Righetti (2005) hanno coniugato, il tema dei diritti in
una prospettiva mondiale al concetto di pedagogia solidale.
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