SETTIMANA 20-2012 v88:Layout 1 15/05/2012 13.35 Pagina 8 approfondimenti IL DIBATTITO CRISTOLOGICO: NUOVI ARIANI O VECCHI MONOFISITI? Lo scandalo di un Dio troppo umano Gesù: troppo Dio o troppo uomo? Qualcuno può domandarsi il perché di questo ritorno a disquisire sulle due nature di Cristo. In realtà, il discorso non si ferma all’ambito puramente teologico, perché, abbandonando il giusto equilibrio dottrinale, le conseguenze ricadono sulla predicazione, sulla prassi pastorale e sulla spiritualità. S embra che, a 1700 anni di distanza, sia ancora necessario che la voce cristiana si alzi a denunciare il riaffacciarsi di una delle più grandi eresie combattute dalla Chiesa dei primi secoli: l’arianesimo. Secondo questa dottrina, inaugurata dalla predicazione di Ario ad Alessandria intorno al 320 d.C., il Figlio non avrebbe una natura divina come il Padre; sarebbe piuttosto da intendere, secondo un’interpretazione di Pr 8,22, come la prima delle creature del Padre, dotata certamente di una condizione speciale – l’unica creata direttamente da lui –, ma pur sempre al di sotto del livello della piena divinità. Chi denuncia questo rischio (specialmente persone dell’area più conservatrice della Chiesa)1 lamenta soprattutto una predicazione troppo centrata sugli elementi dell’umanità di Cristo, quasi che non si trattasse del Figlio di Dio, ma di un uomo come tutti. In questo senso, secondo una versione più aggiornata del primo arianesimo, non sarebbero i caratteri divini del Figlio a portare la salvezza, ma semplicemente il suo modo di essere uomo, di condurre la vita, di scegliersi gli amici, di rispondere ai suoi oppositori e, infine, di andare incontro alla morte. Anche per noi cristiani, si tratterebbe semplicemente di seguire un uomo nel suo agire, cercando di imitarne il più possibile gli atteggiamenti terreni. settimana 13 20 maggio 2012 | n° 19 20 Il centro della scena 8 La preoccupazione di chi porta avanti queste posizioni si inserisce pienamente all’interno della riflessione teologica della Chiesa dei primi secoli: infatti, anche prima del concilio di Nicea (325 d.C.), che decretò eretiche le idee di Ario, vi erano già dei tentativi di intendere Gesù semplicemente come un uomo, eventualmente “adottato” da Dio al momento della nascita o del battesimo; la dottrina di alcuni autori di Antiochia, ad esempio Paolo di Samosata (intorno al 270 d.C.), andava proprio in questa direzione. Ancora prima di lui, vi erano gruppi di eretici di provenienza giudaica che avevano posizioni ancor più estreme ed escludevano qualunque interpretazione della persona del Figlio che minasse l’idea dell’unicità di Dio. Si può dire, pertanto, che da sempre la Chiesa ha dovuto fare chiarezza contro questa tentazione, smascherandone nei secoli le diverse ripresentazioni. Fatta salva questa premessa, però, parlare di un rigurgito di arianesimo in questo contesto mi pare improprio e addirittura fuorviante: oggi non è in gioco il fatto che Gesù sia semplicemente un uomo o un dio con la “d” minuscola – ormai nessun cristiano lo crede! –; la domanda verte, piuttosto, sulla soteriologia, ovvero sul modo in cui si realizza la salvezza per gli uomini. In altre parole, la domanda di fondo non è se Cristo è Dio o è solo uomo, ma se a salvarci è il Dio oppure l’uomo Gesù. La differenza può sembrare un po’ teorica, eppure è assolutamente centrale, e anche nella nostra Chiesa può portare ad esiti di predicazione e di impostazione pastorale o liturgica diametralmente opposti. Se al centro della scena vi è semplicemente la divinità, allora la salvezza rischia di apparire qualcosa di slegato dalla vita concreta: i problemi non possono essere risolti nel presente, ma solo attraverso una via di “sublimazione”, che affida a Dio un esito finale positivo laddove la vita nel presente è segnata principalmente da distorsioni, peccato, immoralità o realtà di grave malessere. La predicazione in questo senso è, da una parte, molto rigida – quasi disumana, perché volta a evidenziare le lacune dell’esistenza e a esaltare le realtà celesti –, dall’altra, rischia di incentivare il lassismo, perché Dio se vuole salva comunque, quasi per magia. La liturgia diviene il luogo in cui si celebra questo Dio, un’anticipazione del cielo, qualcosa che deve elevare lo spirito alle vette del divino, uscendo dalle pochezze della terra. Al contrario, laddove al centro vi è la semplice umanità di Gesù, il messaggio sarà sulla lunghezza d’onda di una mera promozione sociale: Gesù era un uomo che viveva bene, e allora anche noi dobbiamo vivere bene, smascherando le ingiustizie e lottando per i diritti di chi non ha diritti. In questo caso, la liturgia deve essere il più possibile vicina alla vita dell’uomo, senza sfarzi o cose che siano in contrasto con la semplicità dell’uomo di Nazaret. La storia della nostra Chiesa, anche recente, ha conosciuto bene questa tendenza. Eccessi da evitare Le descrizioni fatte sono volutamente esagerate, ma chiariscono bene la deriva a cui queste due tendenze conducono. Come fare per non cadere in questi due eccessi? O meglio, come fare a tenere insieme la divinità e l’umanità del Signore, senza staccare l’uomo Gesù dal Figlio di Dio? Anche questa domanda ha percorso le riflessioni della Chiesa dei primi secoli, forse con una forza e una drammaticità ancora maggiori della lotta ariana: su questi temi sono stati fatti ben 5 dei 7 concili ecumenici della Chiesa antica, a partire dalla definizione di Maria Madre di Dio (e non solo di Cristo), fino alla lotta contro le icone (la cosiddetta iconoclastia), alla fine dell’ottavo secolo. Dare oggi una risposta alla questione della divinità e umanità di Gesù richiede la conoscenza di queste discussioni e delle risposte date allora che, per tutti i cristiani, non solo per noi cattolici, sono divenute deposito della tradizione della Chiesa; diversamente, avventurarsi in paragoni con il passato rischia soltanto di risolversi in un atto di superficialità. Il fatto che le discussioni più forti nella Chiesa antica abbiano riguardato il rapporto tra divinità e umanità di Gesù ci aiuta a comprendere che il mistero – e lo scandalo – più grande nella nostra fede è proprio questo: al limite, si può pensare un Dio che è uno ed è Trinità, ma ciò che rimane più difficile da capire è in qual modo Dio abbia assunto la nostra umanità, abbia «preso la nostra carne» (cf. Gv 1,14) e che ruolo essa abbia avuto nella salvezza. Infatti, se è vero l’antichissimo assunto della Chiesa «che ciò che non è stato assunto, non è stato salvato»,2 allora il Figlio di Dio deve avere assunto un uomo completo – ma in che modo concepire l’unione? È uno o sono due? –; d’altra parte, se quell’uomo è veramente il Figlio di Dio, allora l’umanità di Gesù è stata autentica oppure è stata solo una sorta di involucro terreno? In tempi diversi, Nestorio e Severo sono stati identificati (al di là delle loro effettive posizioni) come i capofila delle due tesi opposte: i nestoriani, desiderosi di non menomare l’umanità di Gesù, proponevano un’unione “morale” tra il Verbo e Cristo; mentre i monofisiti, attenti a non sdoppiare la persona di Gesù in due, professavano “un’unica natura del Verbo di Dio incarnato”, dove la divinità del Ver- SETTIMANA 20-2012 v88:Layout 1 15/05/2012 13.35 Pagina 9 La Tradizione Questa lunga digressione sulla storia della Tradizione (con la “T” maiuscola) ci richiama, in primo luogo, a non dividere l’umanità di Gesù dalla sua divinità: se è vero che Cristo ci ha salvati in quanto Figlio di Dio, è ugualmente vero che il nostro compito è imitare l’umanità di Gesù nella sua capacità di adesione al Padre; il campo della volontà – e quindi dell’azione – è quello in cui anche per noi, oggi come al tempo dei Padri, si realizzano i germi della “divinizzazione”, ovvero di un compimento del nostro essere che è superiore alle nostre capacità e si realizza solo per grazia. In quest’ottica, parlare dell’umanità di Gesù non significa separarlo dalla sua condizione di Figlio, ma valorizzarne in pieno la dimensione di modello per la nostra umanità. Del resto, se è vero che la tradi- zione orientale da sempre professa che «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio», la tradizione occidentale ripete con Ireneo che «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi pienamente uomo». Tentare di svalutare l’umanità a favore della divinità è, quindi, un’operazione non cristiana, perché fa ricadere in una delle tante forme di eresia che la Chiesa antica ha combattuto con forza. Al contrario, è proprio nel modo umano in cui Gesù ha vissuto che noi possiamo riconoscere i tratti della sua divinità, allo stesso modo del centurione che, secondo il racconto di Marco, vistolo morire in quel modo, arrivò alla professione di fede che per tutto il vangelo era stata coperta dal segreto. In secondo luogo, questi richiami ci fanno capire che la cosa più faticosa per i credenti è imparare a tenere insieme le due nature – divina e umana – che, secondo la professione di Calcedonia, nella persona di Cristo sussistono «senza divisione e senza confusione». Se si deve scegliere tra due tentazioni, forse nella Chiesa di oggi il rischio più grande non è quello di sottolineare solo l’umanità di Gesù, come sostengono alcuni, ma il suo contrario: un Gesù Figlio di Dio nel quale gli aspetti umani sbiadiscono, sommersi da una divinità che non lascia spazio ad alcuna mediazione umana, dove prevalgono il miracolistico, la preveggenza, l’interesse mistico-liturgico e una devozione che scade nella richiesta magica e intimistica. Tutte queste componenti, ben presenti nelle nostre comunità, non permettono una vera crescita delle persone, ma contribuiscono a relegare la fede in una dimensione estrinseca alla vita, incapace di incidere nei cammini personali e comunitari, fino a diventare a volte la copertura per abitudini moralmente discutibili. Infine, “impugnare e brandire” la Tradizione della Chiesa (in questo caso per tacciare qualcuno di arianesimo) richiede che se ne conoscano realmente i contenuti più importanti. Forse è proprio questa poca conoscenza che porta a ricadere negli errori del passato. don Raffaele Coppi 1 Si vedano, ad esempio, Antonio Livi e Pietro De Marco, cui sta dando risonanza Sandro Magister. 2 Cf., ad esempio, Gregorio di Nazianzo, Lettera a Cledonio VII, 32 (ed. P. Gallay, Parigi 1974). 3 Non sorprende che questi due esiti teologici fossero presenti in due zone geografiche, Siria ed Egitto, che vivevano in tanti altri aspetti della vita cristiana una forte attenzione alla dimensione umana o, al contrario, all’esito divino dell’ascesi. PATRIZIO RIGHERO A partire dai Testimoni Schede per catechesi ai giovani PRESENTAZIONE DI NICOLÒ ANSELMI 16 brevi ritratti di «testimoni» di vita cristiana del secolo scorso, presentati attraverso una biografia essenziale e una scheda di attività da svolgere con i ragazzi, curandone il coinvolgimento. Rivolto a quanti si dedicano ai giovanissimi e ai giovani, il sussidio contiene spunti attuali e proposte concrete ed è adatto a gruppi e situazioni diverse. «ITINERARI DI FEDE» pp. 88 - € 7,50 DELLO STESSO CURATORE A VOI LA PAROLA. Itinerario per giovani su solidarietà e impegno PRESENTAZIONE DI DOMENICO SIGALINI pp. 88 - € 6,30 EDB '&%$ #"!%%$ %$ $ $ ""% '&%$ #"!% $$ $ $ ""% $ $ $ $ %$ $ $ $ $ $ %$ $ settimana 13 20 maggio 2012 | n° 19 20 bo finiva però per oscurare completamente l’umanità con la sua forza. Tutte e due queste soluzioni sono apparse alla Chiesa come insufficienti, pur con i loro punti di interesse: la prima, perché evidentemente duplicava le persone, cadendo in una sorta di “adozione” dell’umanità da parte di Dio; la seconda, perché svuotava dall’interno l’umanità di Gesù, rendendola assolutamente distante dalla nostra umanità.3 Con le dovute distinzioni, possiamo pensare che le due tendenze attuali, descritte poco sopra, ricalchino, in parte, proprio le due tendenze antiche: nestorianesimo e monofisismo. In quale modo la Chiesa imparò a conciliare la divinità del Figlio con la sua umanità? Il primo passo significativo lo fece il concilio di Calcedonia (451 d.C.), affermando che Cristo è una sola persona in due nature; comprendere però il peso di quest’affermazione, in mancanza di un linguaggio adeguato e nello scontro di tradizioni di Chiesa differenti, richiese un grande lavoro. Il 2° concilio di Costantinopoli (553 d.C.) giunse all’affermazione che la persona incarnata era la persona del Verbo; in altre parole, l’umanità fin da subito era stata assunta nei suoi tratti caratteristici dal Figlio, senza che ci fossero due personalità diverse, quasi conviventi all’interno dello stesso corpo. A partire da queste affermazioni, i teologi successivi adottarono per Cristo la dicitura di “ipostasi – cioè persona – composta”, per dire che il Figlio, generato dall’eternità, si era rivestito delle caratteristiche dell’umanità, accettando di essere generato nel tempo da Maria. In tale contesto, la cosa più difficile era comprendere in quale modo l’umanità potesse avere un ruolo attivo all’interno della salvezza, senza essere schiacciata dal dominio della divinità. La domanda, nel concreto delle discussioni, venne riformulata così: quante volontà (e quanti principi di azione) ci sono in Cristo? Una – secondo la persona – oppure due – secondo le nature? Questa contesa, su temi all’apparenza puramente speculativi, aveva un riflesso molto concreto nella predicazione sulla vita terrena di Gesù e nella sua sequela, tanto che il passo del Vangelo su cui si concentrarono molte discussioni fu quello dell’agonia nell’orto degli ulivi: quando Gesù chiede che non sia fatta la sua volontà, ma quella del Padre, è un uomo che si scontra con una volontà estranea? Oppure questo dialogo è semplicemente una simulazione, fatta per farci capire il valore dell’obbedienza alla volontà di Dio? La risposta data dalla Chiesa al concilio costantinopolitano III (681 d.C.) fu che l’umanità di Gesù era talmente piena che anche la sua capacità naturale di volere era pienamente in possesso del Figlio; Gesù, in altre parole, vuole il dono della vita in quanto Dio, ma lo accetta anche in quanto uomo, e se la resistenza alla passione è la conseguenza di un naturale attaccamento alla vita, il cammino dell’accettazione è il segno che la volontà umana, quando non è segnata dal peccato, è stabilmente in sintonia con il volere di Dio. In questo senso, Gesù vuole in quanto Figlio, ma vuole pienamente anche in quanto uomo, e la sua umanità non è sdoppiata rispetto alla divinità ma non è nemmeno schiacciata, dal momento che è sempre lui a volere, con il corredo della sua divinità e della sua umanità. La salvezza, dunque, è certamente un dono di grazia, da invocare nella preghiera, ma il luogo in cui si realizza è la capacità della nostra umanità di esprimere i tratti dell’umanità divinizzata di Gesù. I teologi di quel periodo sono molto attenti a sottolineare tutti e due gli aspetti: che la condizione di perfezione è un dono superiore alle nostre forze e che è la vita concreta – specialmente la vita donata per amore e nel perdono dei persecutori – a costituire il luogo privilegiato di attuazione delle energie del Regno. 9