SETTIMANA n. 4/03

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approfondimenti
IL DIBATTITO CRISTOLOGICO: NUOVI ARIANI O VECCHI MONOFISITI?
Lo scandalo
di un Dio troppo umano
Gesù: troppo Dio o troppo uomo? Qualcuno può domandarsi il perché di questo ritorno a
disquisire sulle due nature di Cristo. In realtà, il discorso non si ferma all’ambito
puramente teologico, perché, abbandonando il giusto equilibrio dottrinale, le
conseguenze ricadono sulla predicazione, sulla prassi pastorale e sulla spiritualità.
S embra che, a 1700 anni di distanza, sia ancora necessario che la
voce cristiana si alzi a denunciare il riaffacciarsi di una delle più grandi eresie combattute dalla Chiesa dei primi secoli: l’arianesimo. Secondo questa dottrina, inaugurata dalla predicazione di Ario ad Alessandria intorno al 320 d.C., il Figlio non avrebbe una natura divina
come il Padre; sarebbe piuttosto da intendere, secondo un’interpretazione di Pr 8,22, come la prima delle creature del Padre, dotata certamente di una condizione speciale – l’unica creata direttamente da
lui –, ma pur sempre al di sotto del livello della piena divinità.
Chi denuncia questo rischio (specialmente persone dell’area più
conservatrice della Chiesa)1 lamenta soprattutto una predicazione
troppo centrata sugli elementi dell’umanità di Cristo, quasi che non
si trattasse del Figlio di Dio, ma di un uomo come tutti. In questo
senso, secondo una versione più aggiornata del primo arianesimo,
non sarebbero i caratteri divini del Figlio a portare la salvezza, ma
semplicemente il suo modo di essere uomo, di condurre la vita, di
scegliersi gli amici, di rispondere ai suoi oppositori e, infine, di andare
incontro alla morte. Anche per noi cristiani, si tratterebbe semplicemente di seguire un uomo nel suo agire, cercando di imitarne il più
possibile gli atteggiamenti terreni.
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Il centro della scena
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La preoccupazione di chi porta avanti queste posizioni si inserisce pienamente all’interno della riflessione teologica della Chiesa dei
primi secoli: infatti, anche prima del concilio di Nicea (325 d.C.), che
decretò eretiche le idee di Ario, vi erano già dei tentativi di intendere Gesù semplicemente come un uomo, eventualmente “adottato” da
Dio al momento della nascita o del battesimo; la dottrina di alcuni
autori di Antiochia, ad esempio Paolo di Samosata (intorno al 270
d.C.), andava proprio in questa direzione. Ancora prima di lui, vi erano gruppi di eretici di provenienza giudaica che avevano posizioni
ancor più estreme ed escludevano qualunque interpretazione della
persona del Figlio che minasse l’idea dell’unicità di Dio. Si può dire,
pertanto, che da sempre la Chiesa ha dovuto fare chiarezza contro
questa tentazione, smascherandone nei secoli le diverse ripresentazioni.
Fatta salva questa premessa, però, parlare di un rigurgito di arianesimo in questo contesto mi pare improprio e addirittura fuorviante: oggi non è in gioco il fatto che Gesù sia semplicemente un
uomo o un dio con la “d” minuscola – ormai nessun cristiano lo crede! –; la domanda verte, piuttosto, sulla soteriologia, ovvero sul modo
in cui si realizza la salvezza per gli uomini. In altre parole, la domanda di fondo non è se Cristo è Dio o è solo uomo, ma se a salvarci è il Dio oppure l’uomo Gesù. La differenza può sembrare un po’
teorica, eppure è assolutamente centrale, e anche nella nostra Chiesa può portare ad esiti di predicazione e di impostazione pastorale o
liturgica diametralmente opposti.
Se al centro della scena vi è semplicemente la divinità, allora la
salvezza rischia di apparire qualcosa di slegato dalla vita concreta: i
problemi non possono essere risolti nel presente, ma solo attraverso
una via di “sublimazione”, che affida a Dio un esito finale positivo laddove la vita nel presente è segnata principalmente da distorsioni, peccato, immoralità o realtà di grave malessere.
La predicazione in questo senso è, da una parte, molto rigida –
quasi disumana, perché volta a evidenziare le lacune dell’esistenza e
a esaltare le realtà celesti –, dall’altra, rischia di incentivare il lassismo, perché Dio se vuole salva comunque, quasi per magia. La liturgia diviene il luogo in cui si celebra questo Dio, un’anticipazione del
cielo, qualcosa che deve elevare lo spirito alle vette del divino, uscendo dalle pochezze della terra.
Al contrario, laddove al centro vi è la semplice umanità di Gesù, il
messaggio sarà sulla lunghezza d’onda di una mera promozione sociale: Gesù era un uomo che viveva bene, e allora anche noi dobbiamo vivere bene, smascherando le ingiustizie e lottando per i diritti di
chi non ha diritti. In questo caso, la liturgia deve essere il più possibile vicina alla vita dell’uomo, senza sfarzi o cose che siano in contrasto con la semplicità dell’uomo di Nazaret. La storia della nostra
Chiesa, anche recente, ha conosciuto bene questa tendenza.
Eccessi da evitare
Le descrizioni fatte sono volutamente esagerate, ma chiariscono
bene la deriva a cui queste due tendenze conducono. Come fare per
non cadere in questi due eccessi? O meglio, come fare a tenere insieme la divinità e l’umanità del Signore, senza staccare l’uomo Gesù
dal Figlio di Dio?
Anche questa domanda ha percorso le riflessioni della Chiesa dei
primi secoli, forse con una forza e una drammaticità ancora maggiori
della lotta ariana: su questi temi sono stati fatti ben 5 dei 7 concili ecumenici della Chiesa antica, a partire dalla definizione di Maria Madre
di Dio (e non solo di Cristo), fino alla lotta contro le icone (la cosiddetta iconoclastia), alla fine dell’ottavo secolo.
Dare oggi una risposta alla questione della divinità e umanità di
Gesù richiede la conoscenza di queste discussioni e delle risposte date
allora che, per tutti i cristiani, non solo per noi cattolici, sono divenute
deposito della tradizione della Chiesa; diversamente, avventurarsi in
paragoni con il passato rischia soltanto di risolversi in un atto di superficialità.
Il fatto che le discussioni più forti nella Chiesa antica abbiano riguardato il rapporto tra divinità e umanità di Gesù ci aiuta a comprendere che il mistero – e lo scandalo – più grande nella nostra fede
è proprio questo: al limite, si può pensare un Dio che è uno ed è Trinità, ma ciò che rimane più difficile da capire è in qual modo Dio abbia assunto la nostra umanità, abbia «preso la nostra carne» (cf. Gv
1,14) e che ruolo essa abbia avuto nella salvezza. Infatti, se è vero
l’antichissimo assunto della Chiesa «che ciò che non è stato assunto,
non è stato salvato»,2 allora il Figlio di Dio deve avere assunto un
uomo completo – ma in che modo concepire l’unione? È uno o sono
due? –; d’altra parte, se quell’uomo è veramente il Figlio di Dio, allora l’umanità di Gesù è stata autentica oppure è stata solo una sorta di
involucro terreno?
In tempi diversi, Nestorio e Severo sono stati identificati (al di là
delle loro effettive posizioni) come i capofila delle due tesi opposte:
i nestoriani, desiderosi di non menomare l’umanità di Gesù, proponevano un’unione “morale” tra il Verbo e Cristo; mentre i monofisiti, attenti a non sdoppiare la persona di Gesù in due, professavano
“un’unica natura del Verbo di Dio incarnato”, dove la divinità del Ver-
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La Tradizione
Questa lunga digressione sulla storia della Tradizione (con la “T”
maiuscola) ci richiama, in primo luogo, a non dividere l’umanità di
Gesù dalla sua divinità: se è vero che Cristo ci ha salvati in quanto Figlio di Dio, è ugualmente vero che il nostro compito è imitare l’umanità di Gesù nella sua capacità di adesione al Padre; il campo della
volontà – e quindi dell’azione – è quello in cui anche per noi, oggi
come al tempo dei Padri, si realizzano i germi della “divinizzazione”,
ovvero di un compimento del nostro essere che è superiore alle nostre capacità e si realizza solo per grazia.
In quest’ottica, parlare dell’umanità di Gesù non significa separarlo
dalla sua condizione di Figlio, ma valorizzarne in pieno la dimensione di modello per la nostra umanità. Del resto, se è vero che la tradi-
zione orientale da sempre professa che «Dio si è fatto uomo perché
l’uomo diventi Dio», la tradizione occidentale ripete con Ireneo che
«Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi pienamente uomo». Tentare di svalutare l’umanità a favore della divinità è, quindi, un’operazione non cristiana, perché fa ricadere in una delle tante forme di
eresia che la Chiesa antica ha combattuto con forza. Al contrario, è
proprio nel modo umano in cui Gesù ha vissuto che noi possiamo riconoscere i tratti della sua divinità, allo stesso modo del centurione
che, secondo il racconto di Marco, vistolo morire in quel modo, arrivò alla professione di fede che per tutto il vangelo era stata coperta
dal segreto.
In secondo luogo, questi richiami ci fanno capire che la cosa più faticosa per i credenti è imparare a tenere insieme le due nature – divina e umana – che, secondo la professione di Calcedonia, nella persona di Cristo sussistono «senza divisione e senza confusione». Se si
deve scegliere tra due tentazioni, forse nella Chiesa di oggi il rischio
più grande non è quello di sottolineare solo l’umanità di Gesù, come
sostengono alcuni, ma il suo contrario: un Gesù Figlio di Dio nel quale gli aspetti umani sbiadiscono, sommersi da una divinità che non
lascia spazio ad alcuna mediazione umana, dove prevalgono il miracolistico, la preveggenza, l’interesse mistico-liturgico e una devozione che scade nella richiesta magica e intimistica. Tutte queste componenti, ben presenti nelle nostre comunità, non permettono una
vera crescita delle persone, ma contribuiscono a relegare la fede in
una dimensione estrinseca alla vita, incapace di incidere nei cammini personali e comunitari, fino a diventare a volte la copertura per
abitudini moralmente discutibili.
Infine, “impugnare e brandire” la Tradizione della Chiesa (in questo caso per tacciare qualcuno di arianesimo) richiede che se ne conoscano realmente i contenuti più importanti. Forse è proprio questa
poca conoscenza che porta a ricadere negli errori del passato.
don Raffaele Coppi
1 Si vedano, ad esempio, Antonio Livi e Pietro De Marco, cui sta dando risonanza Sandro Magister.
2 Cf., ad esempio, Gregorio di Nazianzo, Lettera a Cledonio VII, 32 (ed. P. Gallay, Parigi
1974).
3 Non sorprende che questi due esiti teologici fossero presenti in due zone geografiche,
Siria ed Egitto, che vivevano in tanti altri aspetti della vita cristiana una forte attenzione alla
dimensione umana o, al contrario, all’esito divino dell’ascesi.
PATRIZIO RIGHERO
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bo finiva però per oscurare completamente l’umanità con la sua forza.
Tutte e due queste soluzioni sono apparse alla Chiesa come insufficienti, pur con i loro punti di interesse: la prima, perché evidentemente duplicava le persone, cadendo in una sorta di “adozione” dell’umanità da parte di Dio; la seconda, perché svuotava dall’interno
l’umanità di Gesù, rendendola assolutamente distante dalla nostra
umanità.3
Con le dovute distinzioni, possiamo pensare che le due tendenze
attuali, descritte poco sopra, ricalchino, in parte, proprio le due tendenze antiche: nestorianesimo e monofisismo.
In quale modo la Chiesa imparò a conciliare la divinità del Figlio
con la sua umanità? Il primo passo significativo lo fece il concilio di
Calcedonia (451 d.C.), affermando che Cristo è una sola persona in
due nature; comprendere però il peso di quest’affermazione, in mancanza di un linguaggio adeguato e nello scontro di tradizioni di Chiesa differenti, richiese un grande lavoro. Il 2° concilio di Costantinopoli
(553 d.C.) giunse all’affermazione che la persona incarnata era la persona del Verbo; in altre parole, l’umanità fin da subito era stata assunta nei suoi tratti caratteristici dal Figlio, senza che ci fossero due
personalità diverse, quasi conviventi all’interno dello stesso corpo. A
partire da queste affermazioni, i teologi successivi adottarono per
Cristo la dicitura di “ipostasi – cioè persona – composta”, per dire che
il Figlio, generato dall’eternità, si era rivestito delle caratteristiche dell’umanità, accettando di essere generato nel tempo da Maria.
In tale contesto, la cosa più difficile era comprendere in quale
modo l’umanità potesse avere un ruolo attivo all’interno della salvezza, senza essere schiacciata dal dominio della divinità. La domanda, nel concreto delle discussioni, venne riformulata così: quante volontà (e quanti principi di azione) ci sono in Cristo? Una – secondo la persona – oppure due – secondo le nature? Questa contesa,
su temi all’apparenza puramente speculativi, aveva un riflesso molto concreto nella predicazione sulla vita terrena di Gesù e nella sua sequela, tanto che il passo del Vangelo su cui si concentrarono molte discussioni fu quello dell’agonia nell’orto degli ulivi: quando Gesù chiede che non sia fatta la sua volontà, ma quella del Padre, è un uomo
che si scontra con una volontà estranea? Oppure questo dialogo è
semplicemente una simulazione, fatta per farci capire il valore dell’obbedienza alla volontà di Dio?
La risposta data dalla Chiesa al concilio costantinopolitano III (681
d.C.) fu che l’umanità di Gesù era talmente piena che anche la sua capacità naturale di volere era pienamente in possesso del Figlio; Gesù,
in altre parole, vuole il dono della vita in quanto Dio, ma lo accetta
anche in quanto uomo, e se la resistenza alla passione è la conseguenza di un naturale attaccamento alla vita, il cammino dell’accettazione è il segno che la volontà umana, quando non è segnata dal
peccato, è stabilmente in sintonia con il volere di Dio. In questo senso, Gesù vuole in quanto Figlio, ma vuole pienamente anche in quanto uomo, e la sua umanità non è sdoppiata rispetto alla divinità ma
non è nemmeno schiacciata, dal momento che è sempre lui a volere,
con il corredo della sua divinità e della sua umanità. La salvezza, dunque, è certamente un dono di grazia, da invocare nella preghiera, ma
il luogo in cui si realizza è la capacità della nostra umanità di esprimere i tratti dell’umanità divinizzata di Gesù.
I teologi di quel periodo sono molto attenti a sottolineare tutti e
due gli aspetti: che la condizione di perfezione è un dono superiore
alle nostre forze e che è la vita concreta – specialmente la vita donata per amore e nel perdono dei persecutori – a costituire il luogo privilegiato di attuazione delle energie del Regno.
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