saggio di Quintavalle - Nadir Magazine ::News

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Arturo Carlo Quintavalle
Giotto architetto, l'antico e l'Île de France
Per Cesare Gnudi
1) Il problema
Certo, a scorrere i libri più recenti su Giotto, diciamo dell’ultimo mezzo secolo, l’attenzione
per l’artefice come architetto sembra davvero poca. Si ricorda naturalmente il campanile di
Santa Maria del Fiore ma, molte volte, neppure si cita e tanto meno si analizza il progetto
conservato a Siena, che pure è fondamentale per comprendere la successione dei lavori e il
rapporto fra Andrea Pisano e il Talenti con il progetto di Giotto (Figg. 1, 2). Emerge da queste
pur importanti ricerche l’accento posto sulle figure, sugli spazi fra le figure, sull’impianto
prospettico in generale, mentre quasi sempre nulla si scrive su Giotto architetto. Oppure di
Giotto architetto si parla solo e soltanto come progettista alla fine della sua esistenza, per cui,
improvvisamente e inspiegabilmente, poco prima della morte, egli viene incaricato dal
Comune di Firenze di sovrintendere alla sistemazione delle mura della città e a costruire il
campanile della cattedrale. Dunque si dovrebbe supporre che Giotto deve avere avuta una
esperienza e quindi una notorietà come progettista ben prima dell’incarico che gli viene
conferito dalla città. Certo questa è una linea di ricerca mai indagata ed anche lo studio più
importante su Giotto architetto, quello di Decio Gioseffi1 si limita a indicare tre costruzioni,
due delle quali peraltro documentate, la Cappella dell’Arena a Padova, non documentata
come opera progettata da Giotto; a Firenze il perduto Ponte alla Carraia; infine il campanile di
Santa Maria del Fiore.
Utile la ricostruzione dello studioso della vicenda del Ponte alla Carraia, distrutto dalla piena
del 1333 e ricominciato a costruire il 16 luglio 13342, dunque nel periodo in cui Giotto era
soprintendente ai lavori in città. Il ponte, sottolinea il Gioseffi, è un vero e proprio exploit
tecnico visto che Giotto riduce, rispetto al ponte precedente, il numero delle arcate a cinque e
ridisegna il profilo stesso delle arcate; il ponte, ricorda sempre il Gioseffi3, perde due arcate a
causa della piena del 1557 che vengono fatte rifare dal Duca Cosimo utilizzando
evidentemente le stesse pile; il ponte, che viene allargato nel 1867, sarà fatto saltare dai
tedeschi nel 1944. Il Gioseffi propone un dettaglio di due incisioni, la -Pianta della catena- che
illustra in primo piano proprio il Ponte alla Carraia, e la -Pianta di Norimberga-, meno precisa.
Il problema di Giotto architetto non può partire che dalla provisione del 12 aprile 1334 con la
quale a Giotto viene conferito il titolo di “Magister e gubernator […] laborerii et operis ecclesie
Sante Reparate, et constructionis et perfectionis murorum civitatis Florentie, et fortificationis
ipsius civitatis, ac aliorum operum dicti Communis, que ad laborerium vel fabricam
cuiuscumque magisterii pertinere dicerentur vel possent”4, e i Priori, il Gonfaloniere di
Giustizia e i boni viri dell’Ufficio dei dodici sono concordi nell’affermare che solo con
“expertus et famosus vir perficiatur et proponatur in magistrum huiusmodi laborerium” e in
tutto il mondo maestro migliore non vi è “qui sufficienter in hiis et aliis multis magistro Giotto
Bondonis de Florentia pittore”5. Risulta dunque evidente che l’incarico dato a Giotto
comprende la sorveglianza sulla costruzione o ricostruzione delle mura d’ambito della città,
delle fortificazioni che possono essere staccate o collegate a quelle mura, e comprende anche
ogni altra fabbrica promossa dal Comune, dunque anche il Ponte alla Carraia. La parte finale
esalta l’esperienza di Giotto, evidentemente anche di architetto, ma si noti che da ultimo viene
chiamato -pittore-, certo per la sua fama e per la grande officina di artefici che ha saputo
organizzare.
Restando al problema di Giotto architetto, quale possiamo ritenere a questo punto una corretta
definizione della sua attività come progettista? Basteranno queste tre opere Cappella
Scrovegni, Ponte alla Carraia, Campanile di Santa Maria del Fiore, per attribuire a Giotto la
qualifica di architetto? Naturalmente non bisogna dimenticare che tutti coloro che si sono
occupati di Giotto comunque scrivono delle sue architetture dipinte e delle cornici che
disegnano il sistema entro il quale le architetture sono proposte, e questo è certo un fatto molto
1
positivo e, in diversi casi, le analisi appaiono estremamente raffinate, ma basta una
impostazione del genere per ricostruire la figura di un "vero" architetto, oppure siamo sempre
davanti a un pittore che dipinge architetture? Il problema è rilevante e vorrei brevemente
indicare le posizioni dei diversi studiosi degli ultimi decenni, e mi si perdonerà la scelta fin
troppo ristretta che ha carattere solo di esemplificazione; certo è che per la storiografia
giottesca siamo davanti a un tema di grande importanza. Voglio dire che tutti coloro che
analizzano l’impianto della Chiesa Superiore di Assisi, oppure della cappella della Arena a
Padova, oppure le cappelle Bardi e Peruzzi, o della Cappella della Maddalena nella Basilica
Inferiore di Assisi, tutti considerano le importanti strutture dipinte come una parte della
esperienza di Giotto pittore. Ma veniamo a questi contributi: il volume di Cesare Gnudi6
muove ad esempio da un confronto fra Dante e Giotto ripreso in chiave post-crociana;
l’accento viene posto sulla poesia, contrapposta alla prosa; in questo caso, al di là delle
acutissime indicazioni, per esempio l’assegnazione a Giotto stesso della cappella della
Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi, l’attenzione per le architetture appare limitata.
Importante resta, per l’analisi delle architetture dipinte e dunque della storia della prospettiva,
la ricerca dello White 7. Lo studioso analizza, nell’ottica della storia della prospettiva, le
immagini di Giotto o, per seguire la denominazione del White, del pittore che guida il
cantiere di Assisi8, non considerando alcuna ipotesi su Giotto architetto e semplicemente
riducendo la sua riflessione alla ricerca della prospettiva, dei punti di fuga, alla analisi degli
edifici rappresentati paralleli allo spettatore oppure per angolo, il che gli fa restituire un
percorso di crescita complesso da Assisi a Padova e poi alle cappelle Bardi e Peruzzi e fino alla
fine delle ricerche giottesche. L’opera analizza naturalmente altri pittori, Giovanni da Milano a
Santa Croce, il Duccio della Maestà di Siena, Simone Martini a Assisi e a Siena, Ambrogio
Lorenzetti con il Buono il Cattivo Governo sempre a Siena. Diciamo che il volume è costruito
secondo un sistema a progresso, dalle scelte trecentesche e anche tardo-duecentesche, per
esempio Cimabue oppure Pietro Cavallini, fino alla prospettiva ritenuta -vera-, quella
rinascimentale. Comunque il volume resta alla base di molte altre indagini ulteriori che a volte
riprendono, come nel caso del Gioseffi, alcuni degli schemi di impianto dei diversi edifici
rappresentati
Scarsa attenzione per il problema di Giotto architetto mostrano i volumi che si sono interessati
sopra tutto della attribuzione dei dipinti, delle distinzioni delle diverse mani, della
individuazione di personalità di aiuti nei diversi cicli. Da questo punto di vista il testo che per
un paio di decenni ha strutturato il dibattito sulla scuola di Giotto resta quello di Giovanni
Previtali9 che ha saputo ricostruire una serie di maestri minori creando anche una figura
parallela ma non coincidente con Giotto e da lui battezzato “Parente di Giotto” che vede attivo
dalla Basilica Inferiore di San Francesco nelle Vele al Polittico Stefaneschi e in numerose altre
opere. Importante anche il contributo di Luciano Bellosi10 che affronta il problema della
attribuzione a Giotto del ciclo assisiate discutendo le tesi dei negazionisti, di coloro cioè che
considerano di due artisti diversi i cicli di Assisi e di Padova, e analizzando quindi e di
converso anche gli altri cicli dei dipinti giotteschi; la raffinatezza dei confronti portata quasi
sempre su panneggi, volti, gesti, ma anche sulla moda e quindi sulle cronologie a questa
collegate, appare di grande interesse per la vicenda critica dell’artista ma quasi nulla ci dice
sulle architetture.
Un contributo importante è dato da Francesca Flores d’Arcais nel suo volume su Giotto11; la
studiosa, nell’ultimo paragrafo, si occupa del problema di Giotto architetto ma senza
confrontare le architetture realizzate con la pergamena di Siena; la d’Arcais comunque
analizza, nello sviluppo dei vari saggi del volume, il problema degli spazi, degli ambienti
entro cui le figure sono rappresentate e ipotizza anche, per le cappelle Bardi e Peruzzi, la scelta
di Giotto di stabilire un punto di vista dalla navata12 dal quale le immagini architettoniche si
ricomporrebbero. Comunque l’analisi minuziosa e precisa delle architetture, non si inserisce
nel problema di Giotto architetto ma resta all’interno della riflessione su Giotto come pittore.
Non porta alcun contributo al problema che qui ci interessa il volume recente di Chiara
Frugoni “L’affare migliore di Enrico”13 che punta su una analisi documentaria delle vicende di
Enrico Scrovegni fra Padova e Venezia e che quindi ricostruisce prevalentemente il contesto
storico lasciando in secondo piano il problema delle architetture. La ricerca che, fra quelle
recenti, meglio ha messo a fuoco il problema delle partizioni architettoniche degli spazi e
2
quindi le matrici culturali di Giotto ai suoi inizi nelle Storie di Isacco, quindi negli altri
affreschi del Vecchio Testamento ad Assisi, e poi nelle storie francescane, è quella di Serena
Romano che, in “La O di Giotto”14 , ricostruisce le possibili fonti antiche, ad esempio le
grottesche nei dipinti murali del secondo stile pompeiano, e integra poi questa articolata
ricerca con ulteriori indagini sulla composizione dei dipinti con gruppi di personaggi
individuando per questi un rapporto con i pannelli scolpiti di età traianea e adrianea,
comunque conservati a Roma e in parte anche visibili in età medievale, come quelli riutilizzati
nell’arco di Costantino. Sulla prospettiva la Romano indica le possibili fonti della grande
trasformazione giottesca15 e completa il quadro della ricerca una analisi precisa delle molte
citazioni dall’antico che nelle pitture di Giotto vengono proposte e sono di singole figure o di
gruppi, per esempio i fiumi come il Tevere a Villa d’Este a Tivoli, il Nilo in Vaticano, l’altro al
Louvre, e si tenga presente che le statue del Tevere e del Nilo nel medioevo erano collocate nei
pressi dei Dioscuri. Importanti anche i sarcofagi del Camposanto pisano e molto altro; “è la
regione dei fori, tra il Campidoglio e il Colosseo, dove Giotto vide forse la Tarpea abbattuta a
terra e davanti alla quale certamente abitò attorno all’anno 1313, quando risiedette presso
Filippa da Rieti in -contrata turris del Conte-” 16; una delle fonti possibili della Inconstantia di
Padova sarebbe la Tarpea dal fregio della basilica Emilia nel Foro romano, col velo a cerchio
dietro la testa; la Romano fa anche notare che “la Basilica Emilia è monumento costantemente
rimasto in vista nel corso del Medioevo […] tra il Campidoglio e la Curia”17. Ancora si
ricordano gli archi trionfali, quelli perduti e quelli ancora conservati, e si confronta la cacciata
dei mercanti dal tempio di Padova che evoca la Lustratio dell’arco di Costatino, e collega ai
grandi rilievi traianei e adrianei la scena della cattura di Cristo a Padova mentre le lastre
dell’Hadrianeum di Campo Marzio con le personificazioni delle province nel medioevo erano
murate alla base del lato destro del Pantheon; un altro ciclo, forse figure a tutto tondo delle
quattordici Nationes, proveniva dal teatro di Pompeo. Dunque a proposito di queste complesse
scene “quello che Giotto ha visto e intuito è il sistema dei rilievi ufficiali della Roma augustea,
flavia, adrianea, Aureliana; un genere che percorre la produzione scultorea imperiale per
almeno due secoli, e costituisce una vera e propria branca del sistema espressivo e della
comunicazione romano” 18. A questo tema delle grandi composizioni narrative sarà da
aggiungere, lo vedremo, il sistema delle immagini delle fronti dei sarcofagi con vedute di città:
La studiosa infine ritiene che, quando Giotto torna a Firenze, si allontani da questa complessa
tradizione romana che sembra invece pesare fortemente per tutto il corso della sua esistenza,
da Assisi a Santa Croce e fino alle ultime opere.
Un saggio importante, che affronta proprio il dialogo di Giotto con l’antico, si deve a Monica
Donato19. La studiosa pone il problema della trasformazione delle inscrizioni di Giotto nelle
sole tre opere del pittore firmate: la tavola delle stimmate del Louvre che reca la scritta “Opus
Iocti fiorentini”, il polittico di Bologna “Opus magistri Iocti de Florentia”, infine il polittico
nella cappella Baroncelli in Santa Croce “Opus magistri Iocti”. La espressione “Opus Iocti”
non ha confronti in precedenza e solo progressivamente verrà adottata dagli allievi di Giotto e
comunque nel corso del ‘300: La matrice di questa titolazione così aulica si ritrova nelle statue
dei Dioscuri iscritte “opus Fidiae, opus Praxitelis” , nel medioevo ritenute opere dei due
artefici greci. L’indagine mette quindi in chiaro la consapevolezza del pittore di proporsi come
diretto attore del dialogo con l’antico alla cui tradizione intende programmaticamente
collegarsi.
A questo punto della nostra riflessione dobbiamo porci il problema del rapporto di Giotto con
l’antico che, proprio nel saggio della Romano, ha assunto particolare significato anche e
proprio per il suggerimento della studiosa di una diretta matrice delle invenzioni di Giotto ad
Assisi nelle pitture romane del secondo stile. Certo, resta aperto il problema di ciò che Giotto
in realtà potesse vedere, che ovviamente non coincide con quello che oggi vediamo delle
pitture di quel periodo, anche per questo credo sia importante mettere l’accento, e lo farò qui
di seguito, sopra tutto sulle sculture a Roma, molte delle quali in grande evidenza e
ampiamente citate nei Mirabilia. Ma il problema del dialogo con l’antico resta difficile da
risolvere: se gli storici dell’arte pongono il dialogo con l’antico come fondante della
formazione di Giotto e quindi vedono in Roma l’irrinunciabile luogo di riferimento della sua
esperienza ulteriore rispetto all’ipotetico alunnato presso Cimabue, allora questo rapporto con
l’antico dovrà essere analizzato attentamente, altrimenti basterà fare qualche breve riferimento
3
a singole citazioni, poniamo nei cavalli dipinti da Giotto anche a Padova ma non solo al Marco
Aurelio, oppure accettare come sicura la ipotizzata citazione del ponte di Tiberio a Rimini,
oppure eventualmente quella dello spinario ed altro ancora, per definire un incontro
sporadico e parziale di Giotto stesso con l’antico ad esempio a Padova.
A questo punto i problemi che emergono da quanto appena messo in evidenza sono diversi: la
definizione di Giotto architetto come progettista attivo, non si sa bene perché, solo alla fine
della esistenza, non sembra potersi accogliere. Semmai si deve pensare a un percorso di
progettista, o comunque a competenze architettoniche oltre che plastiche e pittoriche, che
dovevano esistere ed essere ben note all’interno della officina di Giotto. Se poi le partizioni
ghibertiane e vasariane delle artes hanno scelto di evidenziare solo la attività del Giotto pittore
il problema storiografico evidentemente resta aperto. La questione del dialogo di Giotto con
l’antico non può porsi in termini di semplici, sporadiche citazioni ma deve essere letta
altrimenti, e proprio come globale riflessione sulle immagini, e su quelle scolpite in
particolare, quelle che oggi ancora possiamo considerare come elementi rilevanti nella
esperienza dell’artista, diciamo dagli archi di Tito, Settimio Severo, Costantino alla colonna
traiana, per citare monumenti che allora dovevano essere almeno in parte leggibili.
Ma resta aperto un altro problema, è possibile pensare a una esperienza di Giotto architetto
ricercandone qualche traccia proprio dove finora non sembra che gli studiosi abbiano indagato
sufficientemente? É possibile insomma trovare delle prove, o almeno degli indizi, di una
attività di Giotto architetto prima delle notizie delle costruzioni che sono certo state opera sua
o di quella, la cappella degli Scrovegni, che gli viene attribuita? Per capire dovremo dunque
cercare di analizzare qualche immagine di architettura per verificare se chi ha dipinto queste
figure è veramente un pittore soltanto oppure se ha altre, evidenti conoscenze.
2) Giotto architetto e i codici di bottega
Giotto pittore, Giotto dunque solo in età tarda, non si sa bene perché, architetto? Eppure la
officina medioevale non è di quelle che abbia una sola specializzazione, dalle pitture alle
sculture, dalle vetrate alle architetture tutto viene pensato, disegnato, realizzato nella officina;
così Duccio e le vetrate del Duomo di Siena, così certo molti dei protagonisti di questa fase tra
fine XIII e inizi del XIV secolo. D’altro canto lo stesso Cimabue ad esempio ad Assisi, propone
vedute architettoniche ma forse le sue, come sarà da verificare, sono diverse da quelle di
Giotto. Restiamo al punto: Giotto ad Assisi mostra una varietà e una ricchezza di immagini di
architettura dipinte che hanno colpito e stimolato quindi l’attenzione della critica, ma questa
non ha preso in considerazione le fonti di questi disegni, e tanto meno la loro profonda
differenza l’uno dall’altro, per cui non si è andati oltre le letture formali del White misurate in
relazione, si è detto, alla finale scoperta brunelleschiana (e albertiana) della prospettiva
unicentrica. Ma allora come distinguere e possibilmente classificare i disegni a monte delle
architetture dipinte di Giotto, e di alcuni suoi attenti seguaci, ad Assisi?
Proviamo a considerare la Visione di San Damiano nella Basilica Superiore (Fig. 3). La chiesa è
divisa a metà in senso longitudinale da una misurata sezione delle mura della navata
maggiore; della chiesa dunque vediamo parte della la zona presbiteriale e absidale. Le pareti
d’ambito propongono un edificio a tre navate visto che la zona terminale a destra reca un
attacco di muro che fa intuire una navata minore che peraltro non viene rappresentata. La
chiesa è retta su architravi trattati con decori alla Vassalletto oppure di tradizione arnolfiana;
lo spazio verso la navata è diviso da una transenna con spazio di passaggio al centro, essa
pure decorata con motivi arnolfiani. Francesco è dipinto a braccia aperte, in ginocchio in segno
di adorazione nei confronti del Cristo. Questi è dipinto su una tavola lignea con tabelloni
issata sull’altare formato da una spessa lastra decorata essa pure da motivi arnolfiani. Il Santo
viene visto entro uno spazio parallelepipedo retto da quattro colonne all’antica con capitelli
corinzi e contro uno sfondo nero mentre le finestre della parete sinistra della navata centrale
aprono sull’azzurro del cielo e quelle della parete destra sono scure perché si collocano subito
sotto il tetto. Osserviamo questo tetto dove sono dipinte con acribia, nella parte verso oriente,
le tegole e i tabelloni in cotto fra queste interposti. A un certo punto si vedono solo i tralicci di
legno che reggono le tegole del tetto: siamo appena sopra l’abside dalla calotta dipinta di
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verde; da ultimo ecco le travi incatenate che reggono il tetto stesso. Una grande apertura della
navata mediana nel presbiterio e il suo attacco con la zona architravata della navata centrale
mette in mostra proprio l’altare, col basamento, la mensa, il Cristo che domina il sistema e che
dialoga con Francesco visto peraltro secondo una diversa prospettiva che lo isola e lo esalta. E’
questo un interno, un esterno, oppure altro?
Nella tradizione medioevale gli interni-esterni sono fatto consueto, e ne ricordo ad esempio
uno, quello scolpito sullo stipite di sinistra della abbazia di Nonantola 20, ma in questo caso ad
Assisi c’è molto di più, sopra tutto la volontà di rappresentare non solo l’immagine della
chiesa di San Damiano, ma l’aspetto tecnico delle sue strutture facendolo con una precisione
che non è quella di un semplice disegnatore, vista la ricchezza dei particolari. Questo modo di
proporre la chiesa ci fa comprendere che questa immagine deriva da un codice di disegni, da
un codice di bottega, ben diverso da quelli a noi noti, che sono pochissimi. Ebbene, se la
ipotesi è corretta dobbiamo considerare se questo singolo caso è fatto isolato oppure se di
Giotto si possono restituire altri esempi di questa acribia progettuale e quindi se di Giotto si
possono ricostruire almeno in parte i modelli, il codice dove si conservano i diversi modelli,
per distinguere eventualmente altri generi di disegni e quindi comprendere di questi le
funzioni all’interno della bottega. Se la ipotesi non si ritiene azzardata sarà dunque possibile
stabilire, fin dal tempo di Assisi, la capacità di Giotto, dimostrata analizzando disegni dalle
diverse tipologie fissate nei codici di bottega, di una progettazione architettonica, o,
comunque, una capacità di rilevare gli edifici e da questi muovere per funzionali composizioni
e distinti racconti. Vediamo di fare alcuni altri esempi.
Uno dei campi più analizzati del ciclo assisiate è certo Il presepe di Greccio (Fig. 4). Tutti i
commentatori in genere hanno posto in evidenza la capacità analitica dell’artista, la volontà di
proporre, da un punto di vista inusuale, quello dei religiosi, dei francescani, la dimensione
della chiesa colta nell’area presbiteriale, prima del tramezzo che distingue la zona terminale
dell’edificio dalla navata. Proviamo a notare gli elementi che in modo analitico Giotto
rappresenta. Prima di tutto il tramezzo che fa da sfondo al pubblico composto di soli uomini, a
sinistra laici, alla destra religiosi tonsurati dunque francescani. Le donne si affollano nella zona
mediana del tramezzo e quindi esse pure adesso sono ammesse alla adorazione del Bambino.
Un leggio al centro propone una delle funzioni del coro mentre alla destra il ciborio che
sovrasta l’altare che riutilizza colonne romane (il colore rosso-violaceo) su cui capitelli corinzi
che reggono quattro timpani di marmo bianco, uno dei quali rappresenta due angeli ai lati di
una corona trionfale. Sul tramezzo si affacciano verso la navata, alla sinistra un pulpito al
quale si accede per una scala vista di scorcio e che è chiuso da una cornice sporgente sopra
specchiature ornate; quindi vediamo la croce al centro del tramezzo con in evidenza la
parchettatura del retro. Sul tramezzo sono distribuiti allungati candelieri. In primo piano in
basso Francesco in ginocchio depone il Bimbo nella culla di forma parallelepipeda mentre a
destra due minuscoli animali, asino e bue, suggeriscono una più articolata messa in scena.
Giotto dunque ha rappresentato una scena della Legenda Major di Bonaventura ma un altro
noto campo affrescato, quello con L’accertamento delle stimmate pone ulteriori problemi. Giotto
infatti vi rappresenta in primo piano il corpo di Francesco (Fig. 5) attorniato dai confratelli e
da laici mentre il sistema viene tagliato a due terzi di altezza da una transenna finemente
intarsiata, una transenna di legno retta a destra e sinistra da delle mensole, sulla quale sono
inseriti, alla sinistra, una Madonna con Bambino, al centro un Crocifisso, alla destra un
Angelo, tutte tavole dipinte, tutte inclinate in avanti, tutte rimpicciolite per far dominare
l’immagine del Santo in primo piano. Dall’alto, sospese evidentemente nella zona superiore
della navata, vediamo delle lampade pendenti di forma diversa. Dunque Giotto ha voluto
rappresentare qui la chiesa vista in controparte; come tutti i critici hanno notato, rispetto al
Presepe di Greccio qui il punto di vista è dal centro della navata della chiesa verso il presbiterio.
Fin qui gli studiosi, ma se si collega la prima immagine con la seconda possiamo forse inferire
qualcosa di più rispetto al modo di operare di Giotto e forse anche comprendere qualcosa di
più sul libro dei disegni, o magari dei modelli, significativo punto di passaggio dal dialogo
con la committenza alla esecuzione dell’opera. Come nella Visione di San Damiano l’immagine
dei dettagli architettonici è troppo attentamente segnata per non venire da uno schema
progettuale, così in questo caso le due ipotesi compositive, dall’interno del presbiterio oppure
dalla navata di una chiesa possono essere parte di un disegno, di uno schema entro il quale
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Giotto poteva inserire eventi diversi. Confermano questa impostazione le immagini delle tre
tavole sul tramezzo, ma forse l’angelo potrebbe essere una scultura tridimensionale, che
permettono di confermare questa nostra ipotesi, infatti sia la Madonna che il Crocifisso
rispondono bene a rapidi schizzi essi pure segnati su un libro di disegni, su un codice. Finora
abbiamo visto tre esempi, la immagine di una chiesa, San Damiano, quella di due interni di
chiesa rappresentati l’uno dall’interno del presbiterio e l’altro dalla navata maggiore. Ma in
questo ipotetico codice di disegni erano raffigurate solo questo genere di vedute?
Per rispondere conviene analizzare un campo dipinto, quello con La liberazione dal carcere di
Pietro d’Assisi, che non sempre la critica assegna alla mano di Giotto ma che comunque rientra
nel progetto generale che Giotto stesso elabora per Assisi21. Dunque la scena del Compianto si
compone alla sinistra di una singolare struttura a loggia con due livelli sovrapposti e ancora
sopra una torre, circondata da colonne architravate e con all’interno una struttura murata; alla
destra vediamo un cilindro da una porta centinata del quale escono delle figure. Interessa qui
porre in rilievo la struttura che sovrasta questo edificio cilindrico, ed è una colonna onoraria,
forse appunto la Traiana, anche se alle sculture elicoidali che la caratterizzano, scolpite in
marmo bianco, si aggiunge un campo elicoidale con un grande tralcio trionfale rosato che si
compone di foglie di quercia. In alto, al culmine della colonna onoraria, vediamo una loggia
retta da mensole, essa pure di marmo bianco. Dunque abbiamo qui un indizio di un altro
genere di disegni che potevano essere presenti nel codice o nei codici della officina giottesca,
quelli derivati da monumenti della Roma antica, ma già rielaborati in modo evidente. Si
osservi infatti il parapetto dell’edificio circolare: vediamo alla sinistra e alla destra due campi
con figure di angeli che però sembrano ripresi da fronti di sarcofagi romani. Quanto alla
scultura elicoidale vediamo soldati a piedi, con scudo a punta, dunque medioevale, che
seguono un condottiero che si rivolge a schiere che appaiono di barbari mentre nella striscia
sovrastante vediamo un combattimento di cavalieri. Le fonti dunque sono certamente la
Colonna Traiana stessa o anche la Antonina, comunque però riletta alla luce del mondo
contemporaneo. Un dipinto di questo tipo permette a noi di ipotizzare un’altra categoria di
disegni giotteschi, quelli desunti dall’antico.
Per capire meglio questo altro genere di disegni dobbiamo soffermarci su un campo molto
noto, quello dell’Omaggio del semplice (Fig. 6): la scena, è stato più volte notato dalla critica, si
svolge nella piazza di Assisi dove, al centro vediamo l’antico tempio della Minerva divenuto
fronte della chiesa medievale che è stata ricavata al suo interno, mentre alla sinistra vediamo il
palazzo pubblico con la torre; dall’assenza del sopralzo del 1305 della torre stessa possiamo
inferire un terminus ante di tutta la composizione. L’edificio alla sinistra, di sapore gotico, è
ripreso dal vero e quindi ancora oggi riconoscibile, come del resto la torre, meno agevole
identificare la struttura a doppia loggia sovrapposta alla destra. Ma quello che qui ci interessa
notare è come Giotto trascrive una fronte di tempio romano: le colonne sono scanalate e
sottilissime, reggono un architrave cosmatesco e un timpano dove due angeli reggono
idealmente un rosone mediano a sei partizioni lobate interne. Dunque quando Giotto evoca il
mondo antico non lo fa proporzionando le colonne come nella realtà, ma interviene a
modificare il modello come del resto abbiamo visto quando assume spunti per le vedute
urbane dalla colonna traiana. Vediamo adesso se possiamo individuare altre sicure tracce del
dialogo con l’antico di Giotto, un dialogo che tornerà naturalmente in grande evidenza anche
nella Cappella dell’Arena a Padova.
Ebbene, nella Estasi di San Francesco (Fig. 7) possiamo vedere la struttura di una grande città
alla sinistra nella quale si apre una porta affiancata da una coppia di alte torri: credo si tratti di
una precisa evocazione di Roma, delle mura aureliane e delle loro porte. Credo che sia sempre
Roma la città simbolo, il luogo mitico al quale Giotto si ispira e che comunque certo non può
identificarsi con Assisi o con un’altra città antica. A questo punto abbiamo individuata una
seconda importante categoria fra i disegni nel possibile codice di bottega di Giotto, quelli
legati ad appunti presi di monumenti antichi. E Giotto non deve avere disegnate solo le
architetture ma anche le sculture. Riprove? L’artista dunque deve avere preso appunti anche
minuziosi su diverse sculture antiche, come ad esempio nel caso della Visione del carro di fuoco
(Fig. 8) della Basilica Superiore dove la coppia di rossi cavalli allude al Marco Aurelio allora
davanti al Laterano ma anche forse ai cavalli dei Dioscuri: insomma la citazione aulica è
importante e il riferimento all’antico voluto come conferma anche la lavorazione della capsa
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della biga. Naturalmente il dialogo con l’antico propone nessi molto più numerosi ma
conviene a questo punto passare a una categoria diversa di immagini, quelle che Giotto
disegna da monumenti contemporanei.
La critica ha sempre posto in evidenza ne Il sogno di Innocenzo III (Fig. 9) la stretta aderenza
della immagine del portico della basilica e della torre retrostante con la realtà ricostruibile
dell’edificio stesso al tempo di Giotto, e questo fa pensare che colonne lisce con capitelli
corinzi, l’architrave di sapore arnolfiano, le porte inquadrate da cornici marmoree, tutto
intenda essere una rappresentazione di un edificio ben noto che Giotto intende esplicitamente
citare. Vi sono altri campi che rappresentano questa stessa scelta di Giotto? Anche se l’edificio
che domina la scena nel Compianto delle clarisse non è con certezza identificabile esso certo
muove da un edificio reale del quale Giotto ha schizzato con molti dettagli la facciata di sapore
gotico e densa di sculture, ad esempio nel timpano della porta maggiore e in alto al culmine
della struttura vediamo due angeli ai lati di un fornice tripartito. Al culmine del timpano
un’aquila domina la scena, forse ripresa da Nicola Pisano, ma in realtà il problema di questo
edificio è legato alla sua matrice culturale, semplicemente arnolfiana o comunque
medioitaliana oppure con riferimenti anche all’arte gotica di Francia? Il problema dovrà
trovare risposta nelle pagine che seguono, qui adesso conviene proporre l’analisi di un altro
edificio collocato alla sinistra del campo con la Cacciata dei diavoli da Arezzo, (Fig. 10) per
osservare l’abside e il campanile della chiesa che mostra evidenti riferimenti al gotico francese
mentre nel campanile con grande trifora al culmine Giotto sembra riflettere sulle torri gotiche
sempre di Francia e comunque proporre una specie di idea in nuce del progetto che disegnerà
e inizierà a realizzare alla fine della esistenza, il campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze.
Ad Assisi vediamo poi una serie di capsae, di singoli arredi, troni sotto un baldacchino, oppure
anche immagini di interni come ad esempio quello della Predica davanti a Onorio III, che
rispondono al medesimo tipo di scelte che Giotto ha proposto nei due edifici che ho appena
esaminato, una chiave nuova, gotica per la rappresentazione degli spazi e delle architetture
che torna anche nell’altro imponente interno, quello della Approvazione della regola (Fig. 11):
vedo qui le stesse mensole dipinte lungo la intera navata della Basilica Superiore. Le mensole
sono viste di fronte in asse divergente alla destra e alla sinistra, esse segnano lo spazio entro il
quale il papa approva la regola di Francesco che sta in ginocchio davanti a lui. Vorrei chiudere
con un’altra immagine di chiesa vista dall’interno e con dentro una serie di attori: la
Apparizione a fra Agostino e al vescovo di Assisi (Fig. 12) dove la chiesa viene rappresentata come
tagliata a metà delle tre navate e divenuta trasparente per la eliminazione dei muri d’ambito
ma non dei pilastri interni. In alto, sull’edificio, al culmine del timpano ecco una serie di statue
di marmo non identificabili ma certo di santi, mentre dietro vediamo due altane e, in basso a
destra, il Vescovo di Assisi in una stanza dalla ricca tappezzeria e segnata sopra da mensole
sporgenti.
Dunque nel libro di disegni di Giotto deve essere stato, per quanto concerne l’architettura,
denso di riferimenti all’antico, alla architettura gotica, agli spazi scenici di arredo che saranno
sviluppati fortemente a Padova, e avrà certo compreso anche le figure, un tema che però dovrà
essere preso in considerazione qui solo dopo quello, determinante, dell’immagine della città.
Resta da dire a questo punto della concezione generale della Basilica Superiore; la critica più
recente si orienta verso un inizio dei lavori alla chiesa, dopo le fasi costruttive di metà secolo e
dopo l’intervento del maestro oltramontano nel transetto nord, assolutamente programmato
fin dagli inizi, come ha per primo dimostrato il Belting22.
Vediamo dunque l’impianto architettonico generale dell’edificio come è noto ben anteriore
agli interventi dei frescanti da Cimabue a Torriti a Giotto e ai suoi collaboratori. La chiesa,
progettata attorno al 1228 e consacrata il 1253 muove da l’intreccio di due concezioni, la
grande aula, il grande spazio della navata centrale delle chiese monastiche cistercensi e
l’attenzione al gotico di Francia, in particolare l’abbazia di Saint Denis e forse anche la
cattedrale di Le Mans, comunque Notre Dame a Parigi, Chartres, Mantes, Reims importanti
per le gallerie in facciata, per il triforium all’interno, per il rapporto delle strutture stesse con la
luce e per la complessità dei sistemi di sostegno, oltre che per il racconto scolpito. La
costruzione ad Assisi di due basiliche sovrapposte, la inferiore e la superiore, propone
soluzioni del tutto nuove sia per gli accessi distinti alla Basilica Inferiore e per la venerazione
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delle reliquie del santo, sia per quelli alla Superiore destinata a momenti di riunione e
meditazione allargati. La costruzione della Basilica Superiore, con i suoi sistemi di partizione
sotto le quattro crociere della navata, i costoloni a toro, la scansione dei campi a fianco delle
finestre, lo stacco delle storie di Francesco, anche fisico, con la sporgenza del muro su cui sono
dipinte, sono tutti elementi che preesistono agli interventi dei pittori da Cimabue a Torriti e
forse a Giotto i quali sono vincolati, evidentemente dalla committenza papale, a una
medesima concezione dell’insieme: grandi crociere dipinte a simulare l’antico con tralci, ovuli,
anfore, fogliami, una dimensione del tutto nuova dei riquadri e delle cornici del racconto che
sarà ripresa nella navata, dopo Cimabue, dal Torriti ed infine dalla officina di Giotto e da
Giotto stesso. E qui, nella navata della Basilica Superiore, vediamo le mensole che segnano in
alto il limite delle immagini della vita di Francesco.
E’ stato più volte notato come le mensole dipinte da Giotto o dalla sua officina sono
simmetriche e presuppongono una visione in asse divergente dal centro alla periferia di
ciascun sistema di tre campi mentre in Cimabue ad esempio nei campi del transetto le mensole
sono orientate tutte nella stessa direzione; questo particolare tipo di soluzione ha suggerito di
differenziare e contrapporre a Cimabue Giotto, l’antico e il nuovo; in realtà si tratta di scelte
intercambiabili, o si utilizza infatti la prospettiva per angolo o la veduta assiale, ma i modelli
matematici sono i medesimi. D’altro canto strutture reali e dipinte si integrano nella navata
della Basilica Superiore. I pilastri compositi che dividono le quattro campate della chiesa, la
divisione degli spazi delle storie di Francesco in tre campi divisi da grandi pilastri compositi
salienti che scandiscono la parete nord e sud dell’edificio mentre ciascun riquadro è diviso da
colonne tortili dipinte che tutti hanno collegate ai Vassalletto, tutto questo suggerisce dei
rapporti con la cultura gotica di Francia ma impone anche di pensare a un diretto intervento
della committenza che deve avere pianificata la impostazione della decorazione a fresco a
partire dall’opera del così detto Maestro oltramontano che opera nel transetto nord. Oggi si
tende a porre l’inizio dei lavori attorno al 1288 quando Papa Niccolò IV inizia il suo pontificato
che finirà nel 1292. Serena Romano ha posto in particolare rilievo il punto di partenza di
Giotto dalle pitture romane del secondo stile per stabilire il ritmo e le divisioni dei campi a
fresco sia della parete nord della navata, dove Giotto opera direttamente, sia di quella sud
dove operano diversi aiuti23. Il nodo per acclarare i nessi con la pittura romana resta però
quello del che cosa allora Giotto potesse effettivamente vedere, certo non encausti di Pompei,
dipinti da Boscoreale, ed altro ancora; non è comunque improbabile che vi fossero altri
encausti romani simili a quelli citati e quindi visibili nel XIII secolo, dunque le tesi della
Romano possono essere condivise. Comunque, a ben riflettere, le fonti per comprendere le
scelte narrative, per le architetture come per le figure di Giotto, potrebbero essere state in
prevalenza delle sculture. Una questione da riconsiderare.
Vorrei adesso partire da due complessi immediatamente confrontabili e certo molte volte
confrontati: da una parte le quattro vele della crociera della prima campata della Basilica
Superiore, dall’altra le quattro vele della crociera della stessa chiesa, le vele della prima
campata attribuite a Giotto, quelle della crociera a Cimabue24.
3) Padova, il teatro medievale e le architetture dipinte dell’ultimo Giotto
Sulla cappella dell’Arena i recenti restauri hanno permesso di accertare una serie di fatti
significativi, ad esempio l’uso della tecnica a marmorino, ripresa dal mondo romano, che
viene utilizzata per determinati oggetti, sarcofagi ad esempio, o comunque sezioni di strutture
che evocano l’antico. I risultati di questa indagine sono ora analizzati in un volume a cura di
Giuseppe Basile al quale faccio rimando25. Abbiamo seguito le architetture dipinte ad Assisi
cercando di individuare i possibili schemi di queste nei libri di bottega di Giotto, adesso
l’indagine si posta a Padova dove Giotto stesso opera fra 1303 e 1305 realizzando un ciclo che
avrà grandissimo peso nella storia della pittura al settentrione, come del resto il precedente
viaggio a Rimini di Giotto stesso, forse appena prima del 1300, e il più tardo viaggio a Milano.
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Comunque il primo problema che ci si deve porre è quello della attribuzione a Giotto stesso
del progetto della cappella, come del resto già è suggerito dal Gioseffi26; su questo punto si
deve ripetere una osservazione, del resto proposta da molti altri studiosi: il modello della
cappella proposto da Enrico Scrovegni non presenta la torre, che fu costruita ma poi abbattuta,
e propone invece un transetto del quale si individua bene lo sporgere rispetto alla navata
dell’edificio. Certo, è vero che siamo davanti a una costruzione di tipo lombardo e che non ha
nulla a che fare con il campanile di Santa Maria del Fiore che Giotto progetta peraltro trenta
anni dopo, ma è evidente che l’edificio assume, proprio nella sua semplicità, una funzione
precisa, di contenitore pensato per le pitture che in esso devono essere realizzate. Dunque la
cappella. Addossata alla parete del grande palazzo degli Scrovegni all’Arena, viene modificata
all’interno proprio dagli affreschi che la negano come struttura chiusa, e la concepiscono come
una grande sala con appese raffigurazioni ma spalancata verso il cielo. Di questa architettura
dipinta si deve cercare la matrice, ma, prima, verifichiamone le strutture: in basso il basamento
a finti marmi, un basamento all’antica, dal quale partono delle fasce verticali che determinano
due grandi campi azzurri, il cielo, dove si affacciano stelle e clipei con figure, mentre due
arcate con polilobi e ancora figure traversano lo spazio. Al Giudizio Universale sulla
controfacciata, uno spazio segnato solo dal comporsi dei corpi e dall’invenzione in alto degli
angeli apocalittici che arrotolano il cielo come un grande foglio di pergamena, al Giudizio fa
riscontro alla zona absidale che probabilmente è da considerare sistemata più tardi rispetto al
momento della attività di Giotto, gli inizi del XIV secolo. Qui Giotto realizza lo spazio
simbolico dell’arco trionfale col Cristo in alto dipinto su una tavola mobile, sotto la
Annunciazione e in basso i due campi prospettici che propongono uno spazio fittizio forse per
le sepolture che saranno in realtà sistemate nella sagrestia accanto. Comunque la concezione
del sistema, compreso il Crocifisso ora al Museo Civico e la Madonna col Bambino di Giovanni
Pisano sull’altare, suggerisce una dimensione di racconto inusuale, come se i singoli campi
dipinti fossero dei grandi tessuti appesi a parete mentre in basso intriga molto la concezione
delle lastre a finto marmo intervallate dalle Virtù e dai Vizi.
L’intera bibliografia sulla cappella dell’Arena discute delle Virtù e dei Vizi in termini analitici,
confrontando sopra tutto le conseguenze della Iusticia e della Iniusticia, dunque del buono e
del cattivo governo. I termini delle scelte di Giotto, la rappresentazione quindi delle Virtù
stesse e dei Vizi come sculture in grisaille non è stata forse presa in adeguata considerazione.
Credo dunque che Giotto qui abbia tratto spunto dai resti delle sculture dei fori romani ancora
visibili o da altri visti al settentrione, dove le statue abbattute dai piedistalli, decapitate,
comunque proponevano entro uno spazio aperto, parallelepipedo, cinto da colonne, un
insieme di figure diversamente atteggiate. E, a ben vedere, il modello della Fides, della Caritas,
della Spes, ma anche della Infidelitas, della Ira, della Inconstantia sono citazioni da statue di
figure o divinità femminili del mondo antico; la Inconstantia muove dalla immagine della
Fortuna, mentre per la Justicia il riferimento diretto è a Giunone piuttosto che a Minerva, nesso
sottolineato anche dalle due statue che la figura reca in mano. La Iniusticia inoltre propone,
sotto una crollante porta di città, una figura di profilo che è un ritratto, attorno alber, mentre
sotto vediamo gli effetti di questo cattivo governo. La idea che unifica il basamento della
cappella, ripeto, è quella di un foro cristiano oltre il quale si innalza il sistema del racconto
della salvezza27. La dimensione delle pitture e la loro organizzazione sulle pareti lunghe della
cappella si deve riportare alla tradizione pittorica romana delle architetture illusionistiche
nelle quali qui si inseriscono i campi narrativi. Dunque nella Cappella vediamo, sotto, lo
spazio di un foro divenuto cristiano, sopra si scandisce il racconto dell’infanzia e sacrificio del
redentore, al culmine il cielo azzurro e stellato con la Madonna, Profeti e il Cristo nei clipei,
segni di salvezza.
Chiunque analizzi quindi le architetture dipinte della Cappella degli Scrovegni scopre rispetto
a quelle di Assisi una grande differenza, esse sono funzionali al racconto, certo, ma presentano
una minore ricchezza e varietà di motivi e sono soprattutto delle architetture spesso
riutilizzate e infatti le ritroviamo, viste dallo stesso punto di stazione o con punto di vista
spostato, dipinte in maniera che siano immediatamente riconoscibili. Questi fatti sono stati
notati dalla critica ma forse non ne sono state tratte le debite conseguenze. Proviamo dunque a
considerare quali sono le strutture dipinte che si ripetono, e sono non pochi casi, nel ciclo
dell’Arena, per cercare poi di scoprire il perché. Giotto usa una stessa struttura per il tempio,
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solo che stabilisce punti di vista diversi per la Cacciata di Gioacchino dal tempio e per la
Presentazione al tempio della Madonna (Fig. 13).
Consideriamo due scene, la Entrata di Cristo in Gerusalemme e la Salita al Calvario, in ambedue
vediamo al fondo, rispettivamente alla destra e alla sinistra, un porta urbica fiancheggiata da
due torri; banalmente si potrebbe dire che questa porta identifica la città stessa di
Gerusalemme, ma, a ben vedere, il riferimento è all’antico, e a qualche porta romana, diciamo
da San Sebastiano alle altre imponenti sulla cinta Aureliana. Dunque sembra improbabile la
identificazione, nella scena con Gioacchino ed Anna che si incontrano, della Porta Aurea con
l’arco di Augusto a Rimini e col ponte di Tiberio in quella città, semmai il dialogo di Giotto è
con le porte nelle mura aureliane mentre il ponte in primo piano potrebbe essere qualsiasi
ponte antico a Roma, da Ponte Milvio a quelli dell’isola Tiberina. Insomma la cultura di
Giotto, la sua esperienza dell’antico, mi sembra prevalentemente romana e certo si tratta di
una esperienza fissata su dei libri di disegni, dei codici di bottega che il pittore utilizza al
momento opportuno. La costruzione simmetrica dello spazio dell’Angelo della Annuncio ad
Anna della nascita di Maria (Fig. 14) pone lo stesso problema, la volontà comunque di utilizzare
scene disegnate con acribia ma, in questo ultimo caso, scene che possono inserirsi
perfettamente nello spazio architettato reale e costituire quindi una chiusura, una
terminazione dello spazio interno della cappella che al tempo di Giotto non era probabilmente
ancora ben definito anche se i muri d’ambito e le coperture dovevano essere allora tutti
costruiti mentre era stata esclusa la costruzione del transetto che pure era stato certo
progettato, come prova il modello presentato da Enrico Scrovegni. Dunque questo doppio
coro che, ripeto, propone una evidente variante rispetto al modello proposto da Enrico
Scrovegni, segna anche la consapevolezza da parte di Giotto che quel progetto, forse suo, è
stato ormai abbandonato per la soluzione che ancora oggi ci troviamo davanti.
Fra le immagini architettoniche più articolate ricordo quella della Strage degli Innocenti (Fig. 15)
dove alla sinistra vediamo un pulpito retto da colonne all’antica dal quale Erode dà l’ordine
della strage mentre, al fondo, vediamo un’imponente abside, oppure una struttura a pianta
centrale gotica, con enormi contrafforti che sostengono lo spazio centrale. Non siamo davanti a
un edificio di cultura italiana, Giotto quindi deve avere derivato questa architettura da altre
fonti, certo oltramontane. Un’altra scena, quella della Cacciata dei mercanti dal tempio,
propone una struttura parallelepipeda con bifore gotiche e un grande portico con colonne
antiche reimpiegate e tre grandi porte che fanno pensare a una struttura basilicale e a un
transetto; comunque il portico che si vede davanti agli ingressi altissimi alla basilica mostra in
alto, sul frontespizio, alla estrema sinistra e destra, due leoni, nella zona mediana due cavalli
da collegare forse alla tradizione del Marco Aurelio oppure a quella dei cavalli di Venezia al
San Marco. Nel timpano di centro vediamo tre grandi rose entro cerchio; il pulpito alla
estrema destra somiglia a quello del Tempio che abbiamo già analizzato e ancora somiglia al
pulpito che sta alle spalle dei Farisei che contrattano con Giuda il prezzo del tradimento. Per
quanto concerne le architetture credo non vi sia rapporto alcuno con il San Marco e con
Venezia, infatti Giotto con queste strutture intende semmai evocare l’immagine di una
grandiosa basilica paleocristiana.
Alla Cappella degli Scrovegni dunque Giotto propone un vero e proprio Mistero, anzi unisce
due misteri medioevali, quello della nascita e quello del sacrificio del Cristo e il quadro che
intende rappresentare si collega alla messa in scena annuale della Annunciazione dentro e
all’esterno della Cappella il giorno 25 marzo: le recenti indagini condotte in occasione del
restauro hanno permesso di scoprire un nesso diretto fra lo sportello ligneo con dipinto
l’Eterno posto in alto a occidente sopra l’arco trionfale e minuti frammenti di specchio sulla
aureola del Pantocratore del Giudizio al centro della controfacciata. Gli specchi nel giorno
della Annunciazione riflettono il raggio che proviene dallo sportello spalancato. Scene
intercambiabili, ripetute, citazioni intrecciate di elementi gotici e di modelli antichi, tutto fa
ritenere che a Padova Giotto si portasse altri libri di bottega rispetto a quelli utilizzati ad
Assisi, e proprio questa diversità fa comprendere le nuove funzioni che i dipinti padovani
assumono come scene teatrali, con arredi mobili veri e propri e per questo ripetuti in diversi
campi, mentre le citazioni dell’antico sono più marginali rispetto ad Assisi mentre le
architetture sono in genere rappresentate, specie quelle gotiche, con minore attenzione ai
particolari rispetto ad Assisi. Proviamo adesso a seguire, sempre seguendo il filo della ricerca
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su Giotto architetto, come il pittore rappresenta le architetture nei cicli di San Nicola e della
Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi e quindi a Firenze nelle cappelle Bardi e Peruzzi.
Poco importa in questa sede stabilire la autografia giottesca della cappella di San Nicola dove
operano diversi artisti formati alla sua officina: quanto alla cronologia la cappella dovrebbe
collegarsi al ritorno di Giotto ad Assisi nel 1309. Comunque sia qui a noi interessa
l’imponente sviluppo delle architetture che certo deriva dai libri di bottega di Giotto e la loro
evidente distanza da quelle, tanto più schematiche, della cappella della Arena, mentre queste
immagini si pongono in continuità con quelle della basilica Superiore, quelle delle storie
francescane. Veniamo dunque alla Cappella di San Nicola; la architettura che più colpisce è
quella che accompagna San Nicola che salva tre innocenti (Fig. 16) dalla decapitazione: è una
struttura gotica molto complessa con scorci prospettici abilmente costruiti in una visione delle
strutture in asse mentre due ali scorciano ai lati. Nella scena di San Nicola che perdona il
console vediamo una chiesa gotica, non legata alla cultura italiana ma a quella francese, solo in
apparenza collegabile a Siena oppure al progetto arnolfiano di Santa Maria del Fiore: ecco
dunque i pinnacoli, ecco i contrafforti a sinistra e destra retti da raffinati pilastri, ecco il
timpano e il doppio occhio che lo sovrasta. Vediamo ancora San Nicola che getta le verghe (o le
sfere) d’oro alle fanciulle povere (Fig. 17): la scena avviene davanti a una complessa architettura,
una stanza aperta da un lato verso di noi e sormontata da salienti e da mensole e specchiature
ornate di sculture.
Se adesso, sempre ad Assisi, esaminiamo la Cappella della Maddalena dalla critica (Fig. 18),
dopo Gnudi, assegnata a Giotto stesso, vediamo un prevalere di spazi aperti, di vedute su
ampi orizzonti di rocce intervallate dal verde; questi spazi non costruiti sono stati il leit motiv,
in alternanza alle architetture, delle storie francescane e di quelle della cappella dell’Arena.
Nella scena del Viaggio della Maddalena a Marsiglia vediamo al centro una grande barca ed alla
destra una città murata, con torri ai lati di una porta di accesso, una città di sapore gotico,
altre torri medioevali vediamo dentro lo spazio delle mura. La scena mostra in basso
l’approdo di due altre barche e davanti in primo piano una torre di avvistamento o forse un
faro.
Ma è nelle Cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce che Giotto sviluppa ulteriormente il suo
progetto architettonico sempre collegato alle inquadrature dei campi dipinti e che offre a
questi, come del resto in passato, ulteriori significati. Dunque nella cappella Peruzzi si
affrescano storie di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista. Lo spazio delle storie
del Battista è segnato da padiglioni e da capsae di stanze vedute in parte ad angolo sempre
eliminando la parete verso lo spettatore; l’architettura più complessa è quella del Convito di
Erode dove il pittore propone un grande edificio all’antica, timpano alla sinistra retto da
colonne di marmo con capitelli corinzi; la scena vede alla destra Salomè che riceve su un
vassoio la testa del Battista, quindi la stessa che inizia davanti ad Erode la danza mentre alla
estrema sinistra un musico con una viola è intento a suonare. Alla estrema sinistra vediamo
una torre con ampi loggiati, una torre che comunque non si collega a nulla del mondo delle
architetture del secolo XIII o del primo secolo XIV in Toscana. Torniamo alla struttura
principale dove Erode banchetta, quella che alla sinistra presenta un timpano; vediamo degli
idola, vediamo statue antiche dipinte a grisaille, un poco come le virtù e i vizi del basamento
della cappella della Arena che riprendono, spesso direttamente, immagini pagane. Forse però
nella cappella l’immagine più complessa fra quelle dove dominano le architetture è quella con
la Resurrezione di Drusiana (Fig. 19). La scena si svolge all’esterno di una grandiosa cinta
murata che appare inconfondibilmente una citazione delle mura aureliane, con tanto di porta
con doppie torri ai lati; Drusiana è al centro, avvolta da bianche bende, dietro stanno una serie
di figure; ancora dietro, quasi facendo corpo con la cinta delle mura, vediamo una architettura
singolare, a croce greca probabilmente, della quale sono visibili tre cupole che nella realtà
sarebbero evidentemente cinque: il paramento murario della struttura evoca modelli del XII
secolo anche se Giotto qui intende proporre una struttura all’antica. La Assunzione di San
Giovanni Evangelista avviene in una struttura analizzata come l’edificio dove Francesco prega
nella chiesa di San Damiano; anche qui Giotto propone una architettura basilicale antica: la
chiesa è retta da alte colonne di marmo con capitelli corinzi, una struttura della quale vediamo
la zona presbiteriale e anche la zona della fronte, una struttura come tagliata in mezzo per
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lasciare spazio alla figura del Santo che viene tratta al cielo. L’ornato appare cosmatesco ma il
riferimento che Giotto intende proporre è direttamente alla tradizione basilicale.
Nella Cappella Bardi diverse sono le scene della Storia di San Francesco che ci possono
interessare, fra queste la Rinuncia ai beni paterni di Francesco stesso (Fig. 20) riprende
ovviamente, dal libro di disegni dell’officina, la scena della Basilica Superiore, ma la novità più
interessante è la grandiosa architettura vista per angolo che sovrasta l’insieme e gli dà una
grande profondità. L’edificio è singolare, mura chiuse nella zona sottostante, sopra invece
quattro torri angolari fra le quali si inserisce un grande loggiato retto da colonne all’antica; alla
destra il quadrato sopra le mura è chiuso da una parete continua con sotto arcate aperte e
sopra archetti e un grande cornicione. Non credo che Giotto qui abbia voluto evocare l’antico,
semmai rappresentare una struttura le cui precise funzioni oggi non sappiamo ancora
riconoscere ma che comunque deve avere avuto un preciso valore simbolico nella Firenze del
primo terzo del ‘300 e oltre. Altre scene, come la Conferma della regola, propongono il consueto
padiglione in asse con due accessi laterali fitti di figure, padiglione sormontato da un timpano
con al centro il clipeo col Cristo e ai lati due angeli; sotto Francesco viene visto in ginocchio
davanti al pontefice. Sia qui che in altri campi, come la Apparizione di Francesco nel Capitolo
di Arles, oppure nelle Esequie di Francesco e accertamento della stimmate, Giotto riprende e
compone e ricompone disegni che aveva elaborati prima dell’inizio delle storie francescane
della Basilica Superiore, e sono i disegni del suo plausibile viaggio in Francia.
Che cosa concludere dunque da questo troppo schematico excursus sulla progettazione delle
strutture architettate da parte di Giotto? Prima di tutto che la ricostruzione dei suoi libri di
disegni, dei codici di bottega, resta un passaggio importante per comprendere il metodo di
lavoro dell’artista; non è pensabile questa continua serie di rimandi interni, che ritroviamo
ovunque nella sua ricerca, senza una forma precisa di annotazioni più o meno rifinite, che
certo dovevano anche essere divise per categorie. Come indicavo in precedenza abbiamo
immagini disegnate da edifici romani che vengono spesso riutilizzate, per esempio quelle
delle cinta di mura che ritengo le aureliane, le immagini delle porte sempre di età romana;
vengono quindi immagini delle basiliche paleocristiane che Giotto deve avere tratto proprio
dalle imponenti basiliche a Roma, da San Pietro e San Paolo fuori le Mura, da San Giovanni in
Laterano fino a Santa Maria Maggiore. Vengono quindi una serie di immagini di dettagli delle
architetture, absidi o fronti di chiese,esterni o interni delle navate, che solo in apparenza si
possono ricondurre al mondo gotico italiano, come troppe volte si afferma, e che invece
riflettono scelte architettoniche diverse, di Francia. Che Giotto sia andato in Francia, e quando,
è un problema da affrontare dopo gli studi fondanti di Cesare Gnudi28. Comunque il dialogo
di Giotto con la scultura gotica viene considerato alla fine di questo saggio e credo che possa
riservare anche qualche sorpresa.
Naturalmente i libri di disegno della officina giottesca erano ben altro da queste nostre
esemplificazioni; dovevano contenere schemi per le molte capsae entro le quali sistemare le più
diverse scene, e quindi dovevano comprendere le varianti dei sostegni, degli eventuali timpani
e sopra tutto dovevano contenere immagini diverse delle figure, forse distinte secondo un
sistema di gesti espressivi, e dovevano contenere disegni di animali, pecore e uccelli, buoi e
asini, cavalli e altro ancora. Sono questi i disegni che Giotto consegna agli allievi e che, grazie
proprio alla sua sempre più ampia officina, vengono diffusi da Rimini a Napoli, a Milano, a
Roma, a Firenze stessa creando un sistema unitario, una lingua pittorica che durerà tre
generazioni. E l’antico? A parte il problema dell’immagine della città che vedremo fra breve,
l’antico è un sistema di riferimenti che Giotto adotta e che per i contemporanei doveva essere
molto evidente. Se infatti l’immagine della Rinunzia ai beni nella piazza del Palazzo del
Capitano del Popolo ad Assisi propone il tempio romano di Minerva con le colonne antiche
della facciata che ancora oggi vediamo, si deve notare che queste sono assottigliate, diventano
esilissime colonne bianche; quindi dobbiamo pensare che Giotto, ogni volta che utilizza queste
sottili colonne, voglia alludere al mondo antico, al mondo romano, sia che la scena sia il
portico del Laterano negli affreschi della Basilica superiore, sia che si tratti della Danza di
Salomè, o dell’Annuncio a Zaccaria oppure la Ascensione di Giovanni alla Cappella Peruzzi in
Santa Croce.
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4) Quella antica città
Nella Basilica Superiore un affresco ben noto, La cacciata dei diavoli da Arezzo, pone diversi
problemi ed uno prima di tutti, da dove Giotto assume questa nuova immagine della città. La
città è lo spazio stesso della rappresentazione delle storie francescane, lo spazio dove vediamo
le chiese e i palazzi, lo spazio che si contrappone all’altro, quello della campagna, che il vero
Francesco abitava, grotte e capanne nel bosco, ma che adesso, dopo la accettazione tanto
ostacolata della regola, è costretto ad abbandonare29.
Quando il ciclo francescano della Chiesa Superiore è dipinto il confronto fra spirituali e
conventuali è risolto a favore dei secondi e Papa Niccolò IV (1288-1292) intraprende la
decorazione della Chiesa Superiore fissando un sistema di modelli, stabilendo un progetto che
comprende la organizzazione delle architetture entro cui dipingere i riquadri dal transetto alla
navata, dall’abside alla fronte dell’edificio. Per questo mi dovrò occupare qui di diversi aspetti
delle architetture, quelle rappresentate nelle vele di ingresso nella prima campata della
Basilica Superiore, gli scriptoria dei Padri della Chiesa, magari a confronto con le strutture di
Cimabue nella crociera dell’edificio, e le vedute di città, quelle simboliche di Cimabue stesso
nella crociera e l’altra, questa di Giotto, dove Arezzo è una città murata contemporanea, con
edifici e torri che si inerpicano sul dosso di un colle. Due paesaggi, due culture, da una parte
Cimabue, quello della Meta Romuli e della Piramide di Caio Cestio nel grande affresco col
Martirio di San Pietro nel transetto assisiate, dall’altra appunto Giotto con questa veduta di
città medievale senza monumenti, senza edifici simbolici, senza citazioni dall’antico. Come, da
quali fonti, Giotto ha scoperto questo nuovo spazio, questa nuova forma della città, questo
nuovo racconto che non troviamo né in Pietro Cavallini30, né in Jacopo Torriti31 e tanto meno
in Cimabue32.
Il problema della rappresentazione della città ha una lunga storia alle spalle che cercherò di
illustrare qui di seguito in modo molto schematico: il problema della città e della sua
immagine è sempre un sistema simbolico; chi utilizza un modello di rappresentazione della
città, un modello del passato, sceglie un sistema di significati che poi rielabora e trasmette al
proprio tempo ed oltre. Dobbiamo dunque vedere come Giotto scopra una diversa figura della
città e quale sia il senso di questa invenzione. Un tema che riguarda da vicino il rapporto di
Giotto con l’Antico.
Che cosa poteva dunque suggerire a Giotto una nuova rappresentazione della città? E perché
questa immagine è così importante nella storia della sua riflessione sull’antico, e sul mondo
paleocristiano e su quello medioevale? La città gioca una parte molto significativa nella storia
della pittura del tardo duecento ed oltre, sopra tutto quella di Cimabue e di Giotto, per non
parlare poi di Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini, e le ragioni sono molteplici.
Rappresentare la città vuole dire costruire uno spazio entro cui rappresentare gli eventi,
quindi vuole dire collegare uno spazio analizzabile, legato a momenti storici precisi, anche
contemporaneo, che sia un introibo, sia un punto di passaggio narrativo rivolto al pubblico.
Naturalmente questa è la logica, questa è la cultura, questo è il punto di vista di un
rivoluzionario come Cimabue e quindi di Giotto più ancora di lui, ma dove e come Giotto si
sia cercato e trovato i modelli per le sue immagini di città resta un problema aperto. Che storia
hanno avuto queste immagini di città, erano tutte funzionali alla innovazione di Giotto oppure
solo poche di queste lo sono state? Ripercorrere la storia della città, e ad esempio quella di
Roma 33 è certo affascinante ma ripercorrere i modelli di rappresentazione della città, di Roma
certo ma di ogni città, pone il problema delle fonti, quello delle diverse ideologie urbane che
trasformano i modi di rappresentazione e da ultimo pone il problema delle scelte. Appunto,
quale sarà la città che Cimabue, ma anche Pietro Cavallini, il Torriti e infine Giotto
sceglieranno? Certo, Giotto e gli altri avevano davanti le immagini delle basiliche, San Pietro,
San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura, ma questi spazi oggi sono per noi molto
difficili da restituire anche se di recente una serie di importanti contributi è stata proposta in
due volumi curati da Maria Andaloro e ai quali conviene fare rimando34.
La ricostruzione che oggi possiamo fare delle pareti di San Paolo Fuori le Mura è certo
approssimativa e derivata da disegni secenteschi35; nella chiesa erano dipinte Storie della vita
di San Paolo sulla parete nord, del Vecchio Testamento su quella sud, la Passione di Cristo era
dipinta in controfacciata e nell’Arco trionfale a mosaico vi erano scene apocalittiche36.
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Comunque nei disegni acquerellati si vedono in molte scene sfondi architettonici in
prospettiva, volta a volta ottagonali, parallelepipedi, spesso scorciati per angolo, ecco quindi
edifici con timpano, dunque religiosi, ma anche interni retti da colonne e con arcate oppure
ancora città chiuse da mura. La dimensione della città e la sua rappresentazione ancora legata
alla tradizione antica la vediamo oggi nell’oratorio di San Venanzio del Battistero Lateranense
eretto nel 640 da Giovanni IV e illustrato da mosaici sotto papa Teodoro, mosaici che si datano
alla metà del VII secolo. Ecco dunque sopra la conca absidale con il Pantocratore e gli otto
santi divisi in gruppi di quattro ai lati dell’abside stessa, in alto, a sinistra ed a destra, le città
di Gerusalemme e Betlemme chiuse da mura, con una porta aperta in direzione dello
spettatore, e all’interno delle mura, con veduta a volo d’uccello, i templi in prospettiva e
numerosi edifici retti da bianche colonne; dentro Gerusalemme si vede anche una grande
basilica 37.
La restituzione dei dipinti lungo la navata del San Pietro è fondata sopra tutto sui disegni
acquerellati di Giacomo Grimaldi del 161938 dove peraltro, per quanto è possibile ricostruire,
le architetture svolgono una funzione marginale; più interessante semmai la ricostruzione
dell’oratorio di Giovanni VII (705-706) sulla nave minore nord della basilica, dominato da
grandiose colonne tortili dipinte, eco evidentemente della recinzione presbiteriale39.
Nonostante il testo sia stato fortemente manomesso dai restauri è comunque Santa
Pudenziana (Fig. 21), il cui mosaico absidale si data al tempo di Innocenzo I e quindi fra 410 e
417, che pone i maggiori problemi e permette di intendere quantomeno alcune delle scelte di
Giotto, e questo perché quella rappresentazione della Gerusalemme Celeste è di fatto un
grande emiciclo che fa da sfondo al sistema in primo piano degli Apostoli e del Cristo40. Se
prescindiamo dagli interventi di restauro e dai rifacimenti della zona inferiore e della parte
destra con diverse figure e ci concentriamo sulle strutture che stanno dietro il Cristo in trono e
gli apostoli scopriamo che la forma a semicerchio allude alla perfezione celeste della città di
Gerusalemme alla fine dei tempi, una Gerusalemme segnata da grandi portici con pilastri e
decorazione delle arcate. Oltre questo portico coperto da un tetto a grandi tabelloni ecco la
città, alla sinistra un edificio a pianta centrale, alla destra una struttura con grandi arcate in
facciata, il tetto con un impluvium quadrato, affiancata da una edificio segnato da un filo di
merli; dietro ecco altre strutture mentre nel cielo dominano i segni evangelici simbolo della
fine dei tempi. La dimensione di queste strutture o di altri analoghe deve avere suggerito a
Giotto una serie di riflessioni sullo spazio e sulla funzione delle architetture e sul rapporto fra
queste e i personaggi.
Per noi oggi i mosaici lungo la navata e quelli dell’arco di trionfo di Santa Maria Maggiore
sono quanto di più vicino si possa immaginare ai grandi cicli perduti dal San Pietro in avanti. I
mosaici si datano al tempo di Sisto III (432-440) e propongono ancora una volta il rapporto fra
scene e strutture architettate, lungo la navata ridotte a edicole, portici con tende tirate, fronti
basilicali rette da colonne scanalate e capitelli corinzi. Nella Battaglia di Rafidin gli Amaleciti
escono dalla città per scontrarsi con le truppe di Giosuè e la città viene rappresentata chiusa da
mura ma vista dall’alto con le consuete immagini di templi ed altri edifici retti da colonne e
visti di scorcio; nella scena del Ritorno degli esploratori alla sinistra vediamo un tempio con
timpano, colonne scanalate e scalinata mentre, al fondo, una città chiusa da mura di forma
poligonale mostra al proprio interno templi. L’immagine della città torna ancora ne la Caduta
di Gerico e nello Assalto di Gabaon; la Caduta di Gerico presenta al centro una città quadrata
che, al suono della tromba di Giosuè, crolla come aprendo un intero lato delle mura; l’assalto a
Gabaon, città legata agli israeliti, propone lo stesso modello urbano, dunque alte mura e, oltre
queste, la veduta degli edifici concepiti come strutture romane di età imperiale. Nell’ arco di
trionfo alla sinistra e alla destra, subito sopra sei pecore per parte che sono in asse con le due
porte chiuse da tende e con in alto sospeso il crocefisso, vediamo le città di Gerusalemme e
Betlemme, iscritte in lettere d’oro (Hierusalem, Bethleem), città poligonali, dunque iscrivibili nel
cerchio, dunque perfette, città dalle torri in grande evidenza, le mura ricche di oro e di gemme.
Le città all’interno mostrano la veduta a volo d’uccello di uno spazio dove templi, edifici a
pianta centrale come a Gerusalemme , grandi edifici basilicali come a Betlemme, riempiono
tutto lo spazio. Forse sono queste le strutture di città e gli arredi scenici ai quali Giotto si
ispira? Si interessa di questa dimensione paleocristiana delle immagini oppure le fonti di
Giotto, le scelte di Giotto possono essere anche altre? Se esaminiamo il mosaico absidale di San
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Lorenzo fuori le mura che si data alla fine del VI secolo (579-590) e dove vediamo (Fig. 22), fra
due finestre al centro e procedendo dalla sinistra, il vescovo Pelagio seguito da San Lorenzo,
San Pietro, il Pantocratore, San Paolo, Santo Stefano, Sant’Ippolito. Sotto le due finestre
vediamo ancora il mosaico con le due città, Gerusalemme (Fig. 23) e Betlemme (Fig. 24), che
mostrano una estesa cinta muraria ma non propongono di questa una immagine
geometrizzata ma, ad esempio, Gerusalemme si sviluppa dalla destra, dove vediamo la
grande porta, alla sinistra, e mostra in alto, in veduta a volo d’uccello, una grande basilica e
numerosi edifici in prospettiva; lo stesso si potrebbe dire per Betlemme pensata in modo
speculare e dove gli edifici in prospettiva si leggono assai bene. Sulla porta delle due città
vediamo le croci.
Se riflettiamo adesso sulle strutture urbane che Giotto propone vediamo che esiste un nesso,
esiste un rapporto con queste immagini paleocristiane che non può considerarsi casuale; le
strutture come di scena che accompagnano le figure in primo piano, le vedute a volo d’uccello
delle città simbolo, Gerusalemme e Betlemme, certo suggeriscono a Giotto molte soluzioni, ma
egli modificherà queste immagini in modo evidente alla luce di altre esperienze.
Proseguiamo a questo punto ad analizzare le immagini delle città, sempre Gerusalemme e
Betlemme, questa volta nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano (Fig. 25). Il mosaico si data fra
il VI e il VII secolo e alla base propone la fila delle pecorelle che muovono da due città,
Gerusalemme (Fig. 26) a sinistra, Betlemme a destra (Fig. 27). Purtroppo il rifacimento totale
della zona inferiore sinistra con una sequenza di irritanti falsi non permette di giudicare
neppure l’immagine di Gerusalemme mentre per Betlemme, pur con interventi di restauro,
vediamo le consuete mura, una grande porta dove sotto l’arco di ingresso sono sospese tre
lampade, e infine l’interno della città coi consueti templi ed edifici retti su pilastri oppure su
colonne. Si deve però osservare che progressivamente la duplice immagine delle città di
Gerusalemme e Betlemme si fa schematica, le mura diventano esagonali o ottagonali e
all’interno di esse la forma delle due città si fa sempre più stereotipa.
Un gruppo di mosaici che si assegnano al IX secolo e in genere al pontificato di Pasquale I
(817-824), da Santa Prassede a Santa Maria in Domnica, è utile per cogliere le profonde
trasformazioni a livello anche di racconto a Santa Prassede (Figg. 28, 29) stessa. Fra due esili
palme si svolge la grande scena dell’abside; in basso vediamo la ormai consueta processione di
pecorelle che muovono dalle città di Gerusalemme e Betlemme mentre al centro, su un rilievo,
vediamo l’Agnello col nimbo crucigero esattamente sotto i piedi del Pantocratore. Se
esaminiamo nei dettagli Gerusalemme e Betlemme vediamo che lo schema già considerato nei
cicli precedenti si rende più evidente. Gerusalemme con la porta con tre lampade sospese
propone, oltre le mura illustrate da pietre preziose al centro di quadrati, una veduta urbana
molto più schematica delle precedenti, come del resto a Betlemme dove si nota qualche
maggiore varietà nell’immagine degli edifici all’interno delle mura, edifici comunque
disegnati in modo molto più schematico rispetto alle figure delle due città in cicli precedenti.
Se adesso esaminiamo il mosaico absidale di San Marco (827-844) che propone lo stesso
schema di Santa Prassede con il bordo sottostante la calotta con le 12 pecore e al centro la
pecora con nimbo crociato (Figg. 30, 31), vediamo che come le figure si riducono
progressivamente ai contorni, pieghe e volti e braccia si appiattiscono; così accade alle
immagini delle due città. Gerusalemme infatti, come Betlemme, mostra un sistema di mura
arricchito da una decorazione di pietre preziose, secondo la narrazione apocalittica, e dentro
quello spazio sembra non esservi quasi nessun edificio, o comunque esso è rappresentato in
modo così schematico da non permettere alcun diretto riferimento alla tradizione precedente.
Potremmo così pensare che a Giotto siano interessate le vedute urbane con prospettive aeree,
particolari analitici ben descritti, uno spazio comunque calcolato e misurabile.
Se adesso consideriamo le immagini del San Clemente, la cui datazione di recente è stata
spostata verso gli inizi del secolo41, vediamo che le immagini delle due città propongono un
sistema diverso rispetto ai modelli precedenti, le mura con le loro pietre squadrate e i merli
sono meno prossime al dettato apocalittico delle mura gemmate, due grandi porte chiuse da
catenaccio illustrano le due città; a Gerusalemme vediamo i merli (Fig. 32) che chiudono il
perimetro retrostante della città mentre in primo piano vediamo un grande edificio con logge
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aperte e poi altre strutture all’interno della cinta muraria: lo stesso si dica per Betlemme (Fig.
33) al cui interno vediamo due edifici a pianta centrale, uno evidentemente il Santo Sepolcro.
Anche a Santa Maria in Trastevere, nel grande mosaico absidale, dove le figure sembrano
assumere, pur nella frontalità, un peso nuovo e un racconto retoricamente controllato, in
questi mosaici del tempo di Innocenzo II (1140-1143) vediamo nel bordo inferiore alla
partenza delle pecorelle in due file contrapposte e le immagini di Gerusalemme (Fig. 34) e di
Betlemme (Fig. 35). Ma questa volta le mura, le torri, gli edifici che svettano oltre le mura
merlate suggeriscono un disegno nuovo, e si veda in particolare Betlemme che mostra due tipi
di rivestimento in pietra delle mura, due grandi torri ai lati della porta con appese cinque
lampade, e poi, oltre le mura, viene rappresentata una notevole varietà di edifici. L’idea della
città sta dunque cambiando.
Credo che da tutto questo sia possibile concludere che Giotto poteva provare interesse per le
immagini urbane del primo tempo paleocristiano, e poteva averlo colpito la distribuzione
delle architetture in relazione alle figure nei grandi e distrutti cicli basilicali, anche se le scelte
del pittore saranno, anche a questo proposito, molto diverse. Quanto alla riduzione schematica
dell’ immagine di città che culmina nei mosaici del secolo VIII o del IX, questa non deve averlo
interessato e semmai saranno altre vedute di città a farlo riflettere. Semmai lo interessano le
immagini urbane a partire dal periodo della Riforma Gregoriana, dunque dall’XI al XII secolo,
le raffigurazioni che ho analizzato per ultime, da San Clemente e Santa Maria in Trastevere e
che non certo a caso intendevano evocare a loro volta vedute urbane antiche, del tempo
romano.
Il problema per noi a questo punto è come analizzare, con che testi, con quali punti di
riferimento la città e la sua nuova immagine quale la vediamo in Cimabue e quindi in Giotto;
infatti proporre l’immagine della città significa rivolgersi al passato e attraversarlo per cogliere
il senso del presente, per innovare. Noi cominceremo con le immagini di Cimabue e di Giotto,
poi analizzeremo altri artefici contemporanei, Cavallini e Torriti, quindi cercheremo di
verificare, più indietro, se vi siano altre fonti, non necessariamente dipinte ma scolpite, per
capire le novità proposte da Giotto ad Assisi. Fonti, innovazioni, che Giotto ritrova nel passato
romano e riscopre in coloro che questo passato prendono come sistema di riferimento, Nicola
Pisano, Arnolfo, Giovanni Pisano.
Per comprendere le radici, i modelli di Giotto conviene muovere da un confronto, molto ovvio
e ampiamente sperimentato dalla critica, quello fra le vele con gli Evangelisti della crociera della
Basilica Superiore di Assisi (Fig. 36) dipinte da Cimabue e le vele coi Padri della Chiesa della
crociera della prima campata ovest della stessa Basilica che la critica ritiene oggi dipinte da
Giotto (Fig. 37). Per le immagini conviene fare riferimento a le riproduzioni del corpus dei
Mirabilia Italiae che, per un caso fortunato, hanno chiuso la campagna di riprese di tutte la
Basilica, Inferiore e Superiore, appena prima delle distruzioni del terremoto che hanno
danneggiato fortemente una delle vele all’ingresso e l’arco coi santi e fatto scomparire, di fatto,
la vela con Judea di Cimabue42 (Fig. 38). Se di Cimabue consideriamo nell’insieme le quattro
vele vediamo che ciascuno degli evangelisti è seduto su uno scriptorium retto da una pedana
di legno tornito e scolpito e con davanti un leggio sul quale è aperto il codice e sotto, in un
ripiano, si intravedono altri volumina; quattro angeli scendono dal culmine della crociera per
ispirare gli evangelisti che davanti si trovano un complesso sistema di monumenti in forma di
città scorciata come in una veduta a volo d’uccello. La Judea sta davanti a Matteo, la Ytalia sta
davanti a Marco, la Ipnacchaia sta davanti a Luca, l’Asia sta davanti a Giovanni.
Soffermiamoci sulla perduta Judea per comprendere il metodo di lavoro di Cimabue: dentro le
mura di quella che probabilmente dovrebbe essere Gerusalemme43 vediamo un edificio a
pianta centrale dietro il quale sta una struttura longitudinale, forse una basilica, quindi il
pittore potrebbe avere voluto rappresentare il sistema del Santo Sepolcro, dalla rotonda alla
basilica. A parte le mura merlate e una porta e qualche edificio in scorcio, non sembra che sia
possibile identificare con certezza eventuali altri edifici. Nell’insieme sembra che il pittore
tenga conto di appunti presi da fonti diverse e intenda proporli qui in parte in prospettiva
unitaria in parte visti come monumenti staccati e con diverso punto di vista. Se adesso
passiamo alla vela con San Marco e con la Ytalia (Fig. 39) vediamo che le conoscenze del
pittore sono molto evidenti e dirette, riconosciamo subito, nell’insieme della scena, le mura
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aureliane che chiudono nella loro cerchia Roma e di Roma individuiamo alcuni monumenti
inconfondibili, Santa Maria Rotunda, alias il Pantheon, la torre delle Milizie, il Palazzo
senatorio, Castel Sant'Angelo, la Basilica di San Pietro con sulla fronte il mosaico con al centro
il Cristo, alla sinistra la Madonna, alla destra il San Pietro stesso; inoltre la Meta Romuli, e, di
recente identificata dalla Andaloro44, la Basilica dei SS. Apostoli e forse anche la Porta Sancti
Petri; tutto questo scardina la tradizione di immagine della città delle precedenti vedute,
dipinte o a mosaico, e pone il problema del rapporto fra queste immagini e il codice o i codici
di disegni con i quali certo Cimabue ha fissato l'immagine dei singoli edifici simbolici per
proporre una nuova veduta urbana, questa di Roma. Si deve osservare che qui ogni singolo
monumento sembra essere stato disegnato singolarmente e poi trascritto, riportato nella
composizione ad affresco nella sua prospettiva specifica e rappresentato in modo analitico. Le
stesse osservazioni potrebbero farsi per le altre vele, ma limitiamoci a queste.
Torneremo sugli altri affreschi di Cimabue nel transetto della Basilica Superiore per
comprendere il suo rapporto con l’antico ma adesso conviene soffermarsi sulle quattro vele
della crociera nella prima campata entrando nella Basilica, le vele dipinte da Giotto. Vi si
rappresentano Sant’Ambrogio, San Gregorio, Sant’Agostino (Fig. 40), San Gerolamo (Fig. 41);
rispetto a Cimabue le novità sono enormi: prima di tutto ogni vela è dominata da una
architettura in grande evidenza, anzi da due blocchi di architettura che tendono peraltro a
diventare un sistema tripartito e unitario, visto in prospettiva dal basso e convergente quindi
verso il culmine della crociera. Queste strutture sono, anzi rappresentano, un sistema gotico,
non certo quello proposto dai Vassalletto, dunque fingono una architettura che è quella del
gotico francese dei primi tre-quattro decenni del secolo XIII, un incontro, una attenzione al
mondo d’oltralpe che fa pensare alle esperienze parallele di Arnolfo. Torniamo alle Vele della
prima campata; qui ciascun Padre della Chiesa è direttamente ispirato dal Padre che sta sulla
nuvola al culmine di ciascun triangolo sferico e detta il testo sacro ad uno scriba di fronte a lui
posto all’interno di un altro micro-edificio. Il carattere pienamente gotico delle architetture e la
esattezza del loro disegno non lasciano dubbi sul passaggio attraverso un codice di appunti, di
schemi, di schizzi, ma la esattezza dei dettagli, del tavolo degli scribi, del basamento intagliato
del leggio su cui posano i libri dei Padri della Chiesa, fa comprendere che Giotto muove da
una visione dello spazio molto diversa e da una consapevolezza della prospettiva le cui
matrici non possono essere le stesse di Cimabue.
Vediamo adesso, sopra tutto nel transetto assisiate, come Cimabue risolve le vedute
architettoniche della città e come propone le citazioni dall’antico. Una immagine, quella nel
transetto meridionale, parete ovest, propone La caduta di Babilonia (Fig. 42): oltre una quinta
prospettica degna di un dipinto romano del II stile, vediamo il crollo di un sistema di edifici,
ciascuno letto nella sua prospettiva, scandito nelle sue volumetrie. Siamo davanti qui ad una
Babilonia riletta con gli occhi degli edifici occidentali, una Babilonia come Roma ma senza
edifici eponimi che caratterizzino l’immagine della città. Nel Cristo con la Vergine in gloria
Cimabue dipinge un grandioso trono da confrontare con la Maestà degli Uffizi, un trono che
non sembra fare riferimento né alla architettura gotica né a quella dei Vassalletto. Ma è forse
nel transetto settentrionale che meglio si intende il modo di pensare l’architettura e i
monumenti dell’antichità di Cimabue. Nella parete ovest, registro inferiore, vediamo San
Pietro e San Giovanni che guariscono uno storpio. Il primo piano delle tre figure trova
riscontro nello sfondo in tre edifici che alla sinistra e destra sembrano evocare le immagini di
città scolpite sui sarcofagi tardo-antichi. In mezzo vediamo una struttura a pianta centrale,
simile ad un battistero, aperta sul davanti con una grande porta sormontata da un timpano
triangolare. Nella scena con i Prodigi degli Apostoli (Fig. 43) vediamo di nuovo tre gruppi di
figure in primo piano e dietro, staccate, tre immagini architettoniche che ad essi
corrispondono, alla sinistra un campanile e forse una chiesa, alla destra lo scorcio di una città,
al centro un ciborio che però evoca quelli paleocristiani, non quelli arnolfiani, cibori che
avranno sempre casa nelle immagini dipinte da Giotto.
Le scene comunque che meglio ci fanno comprendere il senso delle architetture dipinte da
Cimabue sono due, La caduta di Simon Mago e La Crocifissione di San Pietro, cui aggiungerei La
decollazione di San Paolo. Ebbene, nella scena con La caduta di Simon Mago (Fig. 44), vediamo di
nuovo le figure in primo piano, Pietro alla sinistra, alla destra altre due immagini, Simon
Mago al centro in alto; dietro, alla sinistra, ecco una veduta di città rappresentata come se fosse
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antica, al centro un traliccio altissimo, alla destra una struttura edificata con al culmine un
ciborio che comunque è estraneo ad ogni riferimento all’arte gotica. Ne La crocifissione di Pietro
(Fig. 45) vediamo due gruppi di figure che si sovrappongono otticamente alla immagine di
due allungate piramidi mentre il centro del sistema è dominato dalla grande croce alla quale è
fissato Pietro. Le due piramidi sono una quella di Caio Cestio, l’altra è la Meta Romuli
riconoscibile da una fitta sovrapposizione di colonne e di arcate. É evidente che qui i
monumenti romani, certo attentamente disegnati anche da Cimabue in un codice di bottega, e
che sono pronti per essere usati, come tutte le architetture che abbiamo esaminato, come
elementi di sfondo, come possibili citazioni che però non entrano nella scena, non ne fanno
parte se non come profilo sul fondo. Così del resto anche ne La decollazione di San Paolo, alla
sinistra, vediamo un edificio a pianta centrale mentre i tre monti corrispondono alle figure in
primo piano. Se si riflette adesso sul Polittico Stefaneschi (Fig. 46), opera di Giotto con aiuti,
vediamo proprio nel campo con la Crocifissione di Pietro la capacità inventiva dell’artista: il
riferimento a Cimabue è ovvio a livello iconografico ma l’insieme acquista una spazialità ed
un racconto del tutto diverso, grazie allo spostamento in secondo piano del San Pietro
collocato esattamente a metà dello spazio fra le due piramidi, quella di Cestio e la Meta Romuli
e grazie all’intrecciarsi in primo piano delle passioni, della mimica, del complesso racconto
degli astanti. Lo stesso si deve dire per la Decollazione di Paolo dove lo spazio delle rocce che
scandisce il primo, come il secondo e terzo piano, fa da elemento unificatore ai vari episodi
della scena dove Giotto, intelligentemente, cita alla destra il cavallo del Marco Aurelio
contrapponendo i cavalli dei romani posti alla destra ai fedeli alla sinistra mentre al centro il
carnefice ripone nel fodero la spada. Curiosamente, alla destra, Giotto dipinge un edificio a
pianta centrale, forse un battistero, certo non di età gotica ma o tardo-antico ma forse
romanico, come a dire che il pittore vuole sempre storicizzare le proprie strutture architettate.
Se da quanto scritto finora possiamo trarre una riflessione, questa è certo relativa alle due vie,
molto distanti, che Giotto e Cimabue hanno percorso e questo appare anche più evidente in
considerazione del fatto che, con ogni probabilità, essi hanno operato l’uno subito dopo l’altro,
l’uno chiudendosi nella propria altissima tradizione aulica, di narratore dei monumenti
simbolici di una Roma certo sempre attentamente ripercorsa, annotata, disegnata, l’altro
invece sperimentatore da una parte dell’antico, dall’altra però scopritore di nuovi orizzonti, di
nuove ricerche, quelle che fanno riferimento all’arte gotica di Francia. Dunque Giotto ha una
consapevolezza di quelle strutture, come del resto si è visto nelle pagine che precedono, che
non è indiretta, e neppure mediata da codici di disegni di bottega altrui, ma da
sperimentazioni dirette. Chi voglia discutere del problema di Giotto architetto, che non appare
posto in evidenza dalle fonti se non allo scadere della sua esistenza, dovrebbe quanto meno a
questo punto tenere conto dell’organizzazione della officina giottesca, o forse delle officine
giottesche da Rimini e Napoli e Milano e naturalmente Firenze, ad Assisi, a Padova; nelle
officine certo l’accento doveva battere su Giotto pittore, come del resto voleva la committenza,
ma si deve riflettere su quanto il Giotto pittore abbia potuto incidere sulle varie imprese
pittoriche, sempre cicli significativi, sempre complessi di grande respiro. Porsi questo
problema sia per il Bargello a Firenze come per lo spazio del Refettorio e del Palazzo della
Ragione a Padova, per fare solo pochi esempi, deve farci riflettere su fino a che punto Giotto
modificava le strutture che gli si chiedeva di illustrare con affreschi. Dunque fino a che punto
Giotto, al servizio di committenti illustri quanto diversi, sarà intervenuto per modificare le
strutture che gli erano messe a disposizione per creare spazi funzionali alle sue scelte
pittoriche, troppe volte profondamente innovatrici e senza precedenti confrontabili, come nel
caso, per esempio, a Napoli, del ciclo degli Uomini famosi? E questi suoi interventi come per
esempio quello già discusso a Padova, non dovevano certo essere registrati dalle fonti ma
semplicemente essere considerati come la prima parte di un impegno di lavoro assunto dalla
officina giottesca nella sua complessa totalità.
Ma allora se Giotto non ha potuto fare riferimento a Cimabue, pur comprendendone la
civilissima e altissima esperienza, ha forse potuto tenere conto della pittura di Pietro Cavallini
o ancora di Torriti? A parte la cronologia relativa dei cicli dei due artefici attivi, il Cavallini a
Roma, il Torriti a Roma ed Assisi, cronologia che comunque vedrebbe Giotto in anticipo, salvo
a Santa Maria in Trastevere, rispetto a questi altri artisti, non sembra possibile porre in
relazione con Giotto i tanto diversi modi di rappresentare lo spazio e le architetture di Torriti
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stesso e di Cavallini. Partiamo dai mosaici di Santa Maria in Trastevere di Pietro Cavallini che
il Tomei45 data fra 1285 e 1290: nel campo con la Nascita di Maria le architetture fanno da
sfondo e sono comunque legate alla tradizione delle immagini di città all’antica, ma molto
semplificate; anche nella scena della Annunciazione, dove vediamo la Madonna dentro un
complesso sistema di architettura, un edificio dal sapore in parte romanico e in parte gotico,
anche qui dove lo spazio prospettico appare ben definito l’invenzione delle architetture non
sembra aprirsi verso la ricerca gotica, ad esempio i piccoli edifici che rispondono ai gruppi
delle figure in primo piano sono quelli stessi della Presentazione al tempio e nulla hanno a che
fare con i veri e propri arredi scenici di Giotto che si sono esaminati a Padova. Senza possibili
confronti restano gli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere mentre gli affreschi superstiti del
pittore a Napoli non permettono di leggere un confronto possibile con le attenzioni gotiche di
Giotto, quelle che, lo vedremo, caratterizzano anche e proprio le gestualità, la espressività
delle sue figure. Quanto a Torriti l’immagine del catino absidale di Santa Maria Maggiore, con
la citazione dal mosaico del San Clemente e con il grande cerchio con la Incoronazione della
Madonna in trono da parte del Cristo, questo non costruisce uno spazio narrativo ma semmai
appare evocare, come nella citazione del tralcio all’antica, iconografie diffuse fra il secolo XI
tardo e il XII secolo sia in occidente che a Bisanzio. Ancora più distante ed evocatore di
iconografie paleocristiane negli apostoli dell’emiciclo appare il mosaico absidale del San
Giovanni in Laterano, quale che sia la verifica del testo originario dopo le evidenti
manomissioni che esso ha subito. Possiamo dunque concludere che la invenzione di Giotto per
quelle che riguarda la immagine della città e poi, lo vedremo, delle figure e della loro
espressività, non muove né da Pietro Cavallini, grande pittore radicato nella tradizione
pittorica e musiva più alta della scena romana, né da Torriti che di quella cultura è un
autorevole, raffinato rappresentante46.
Ma allora la novità del racconto e della invenzione spaziale di Giotto da dove muove? Io credo
che i punti di riferimento siano diversi, e che quello più importante sia l’attenzione che Giotto
deve avere avuto per i sarcofagi antichi, per quei testi insomma che erano i più diffusi,
conosciuti e direttamente accessibili nei luoghi dove lo stesso Giotto certamente si è a lungo
fermato, e penso al nucleo dei sarcofagi che stavano attorno a Santa Maria del Fiore, ai
numerosi sarcofagi che erano attorno alla cattedrale di Pisa ora raccolti nel Camposanto47, ai
tanti sarcofagi che dovevano illustrare gli spazi davanti e attorno o anche all’interno delle
chiese romane, sarcofagi antichi dove molte volte si deponevano le più preziose reliquie. I
sarcofagi dunque spesso propongono ritmi e relazioni tra figure e spazi architettati, ad
esempio i sarcofagi con il Filosofo e i discepoli posti sotto arcata, o il Cristo e gli Apostoli
sempre sotto arcata scolpiti in età paleocristiana; altri e diversi sono gli spazi aperti alla lotta o
ai combattimenti sulle fronti scolpite di età ellenistica; e poi vi sono personaggi davanti a
imponenti vedute di architettura, oppure ancora il sarcofago stesso che è concepito come una
città chiusa da mura merlate. E credo siano importanti i sarcofagi che suggeriscono una nuova
dimensione retorica del racconto, proponendo dunque l’immagine della città. Certo, i
sarcofagi romani sono anche le fonti di Nicola de Apulia, Nicola Pisano, e in parte di Giovanni
Pisano e di Arnolfo, questi ultimi attenti però al mondo gotico francese del quale hanno avuto,
più ancora di Nicola Pisano, una diretta approfondita esperienza, ma Giotto ai sarcofagi ha
fatto riferimento diretto e da questi deve avere tratto numerosi spunti. Porto qui pochi esempi,
romani, milanesi, pisani certo però che questa indagine potrebbe essere molto sviluppata e
forse con ulteriori buoni frutti.
Ma allora quali possono essere stati i modelli dei sarcofagi romani che Giotto dovrebbe avere
veduto? La quantità stessa dei sarcofagi assicura della esistenza di un dialogo, ma questo,
comunque, non potrà essere restituito con certezza anche perché, salvo nel caso della Colonna
Traiana, non è agevole stabilire in età medioevale quali fossero i sarcofagi certamente
conosciuti. A Pisa era ben noto il sarcofago di Fedra nel quale viene sepolta Beatrice di
Canossa, sarcofago collocato in origine forse all’interno del Duomo, quindi vicino all’ingresso
dal lato del transetto sud, adesso al Camposanto. A Milano è collocato ab antiquo in
Sant’Ambrogio il sarcofago di Stilicone, sarcofago ora posto sotto il pulpito degli inizi del XIII
secolo ma con reimpieghi di lastre di fine XI o inizi del XII secolo e con numerosi interventi
che ne hanno modificati una serie di dettegli specie lungo le cornici in basso e nei timpani dei
lati brevi. A Modena attorno alla cattedrale erano distribuiti decine di sarcofagi romani
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variamente riscolpiti, fra questi ricordo quello di Publius Sabinus con il quarto lato scolpito da
un maestro di officina wiligelmica con una simbolica caccia al cervo-Cristo48. Comunque i
sarcofagi che si potevano vedere da Roma a Firenze a Pisa, ed anche al settentrione, da Verona
a Brescia alla citata Modena erano centinaia e centinaia, per cui converrà tenere conto di alcuni
pochi aspetti tipologici che devono avere interessato Giotto e che possono avergli offerto
spunti di riflessione.
Dunque i sarcofagi ad arcate sovrapposte divise da colonne, come nel caso di Giunio Basso
(Fig. 47), che si data 359 circa (Musei Vaticani), devono avere stimolato fortemente la ricerca di
Giotto, e proprio per il modo di raggruppare i personaggi e per come viene costruita la
sequenza narrativa, e penso al ciclo di Padova. Un altro sarcofago del IV secolo, conservato in
Vaticano, ha una costruzione complessa e, proprio per la rappresentazione della città, per noi
appare di particolare interesse; infatti mentre sulla fronte vediamo la Traditio legis (Fig. 48), alla
sinistra il sacrifico di Isacco, alla destra Cristo davanti a Pilato, sui lati brevi appaiono delle
immagini della città; così dunque sul lato minore destro, alle spalle di Mosé che fa scaturire
l’acqua e di Cristo che guarisce l’emorroissa (Fig. 49), vediamo una basilica di scorcio con i
tendaggi aperti , alla destra della basilica un edificio a pianta centrale, forse un Battistero,
mentre ancora a destra continua la rappresentazione dello spazio urbano. Ma è la scena dal
lato minore sinistro che appare forse la più intrigante e più ricca di spunti per la ricerca di
Giotto; la scena rappresenta la Predizione del rinnegamento di Cristo da parte di Pietro (Fig. 50). In
primo piano, alla destra, ecco il Cristo imberbe che ammonisce Pietro che gli sta di fronte:
analizziamo la scena tenendo anche conto dello sfondo per cogliere la ricchezza di una
imponente veduta urbana in prospettiva nella quale si vede alla sinistra una struttura
basilicale con un timpano che ne sovrasta la porta di accesso e le tende aperte; al centro un
edificio a pianta centrale, alla destra un edificio, tabelloni a chiudere il tetto, un edificio
basilicale alla destra e struttura a pianta centrale. Possiamo considerare altri sarcofagi e in
particolare quello detto di Stilicone al Sant’Ambrogio di Milano (IV secolo); esso fa parte di
una serie, detta a mura di città che vede altri pezzi sparsi in diversi musei, fra cui uno al
Louvre. Ebbene sulla fronte anteriore (Fig. 51) vediamo Cristo che insegna la Legge agli Apostoli
rappresentati sotto delle arcate che nello stesso tempo segnano quasi un limes fra interno ed
esterno; del resto gli Apostoli sono vestiti all’antica, e sotto i loro piedi vediamo sei pecorelle
per parte che si stringono al centro all’Agnello crucigero. Ancora sulla faccia posteriore del
sarcofago di Ambrogio vediamo le stesse immagini della città rappresentata alle spalle degli
Apostoli, in alto entro clipeo sono i ritratti dei defunti con alla sinistra I tre giovani nella fornace
che rifiutano di adorare Nabucodonosor (Fig. 52), alla destra L'adorazione dei Magi. Sui lati brevi
Ascesa di Elia sul carro di fuoco (Fig. 53), sotto le figure di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso
aggiunte in un secondo momento; l’altro lato breve propone il Sacrificio di Abramo (Fig. 54). Sia
i lati lunghi che brevi sono sottolineati dalla serie di arcate merlate che appunto fingono nel
sarcofago stesso una architettura di città. Dunque era ben possibile che Giotto si ispirasse alle
numerose immagini di vedute urbane scolpite nei sarcofagi le cui tipologie, figure sotto arcata
erano certo anche diffuse come lo erano le fronti di sarcofago del tipo ellenistico
completamente coperte da una scena continua che peraltro non era certo possibile trasferire
nelle scene dipinte se non utilizzandole per dei gruppi dove si accalcavano numerosi astanti.
Se la mediazione sulla veduta urbana delle fronti o dei lati brevi del sarcofagi tardoantichi
pagani o cristiani è un punto di partenza ragionevole per l’immagine della città dipinta da
Giotto e non solo per questa, essa viene confermata da un’altra fonte che Giotto non poteva
ignorare, quella delle vedute urbane rappresentate nella colonna Traiana (Figg. 55, 56, 57).
L’idea stessa di introdurre nell’immagine delle guerre daciche non solo ovviamente
l’imperatore, le truppe, i barbari, ma anche le immagini delle città, come anche quelle simili
degli accampamenti fortificati, deve avere suggerito a Giotto un rapporto continuo fra
racconto per via di figure e racconto con immagini di architetture, infatti nella colonna il
sistema è continuo e funzionale, le città non sono una aggiunta ma parte stessa della
narrazione. Ecco dunque un’altra possibile fonte della invenzione di Giotto. Questa complessa
immagine della città antica deve avere stimolato anche Cimabue, come si è veduto, ma il
fiorentino deve avere puntato sopra tutto su una visione staccata, non organica, non
contestuale, dei singoli monumenti romani da lui certo disegnati sui codici di bottega,
monumenti che poi saranno da lui singolarmente rappresentati e che vengono riutilizzati ad
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Assisi negli affreschi della Basilica Superiore, già prima esaminati. Giotto invece utilizza le
architetture, fin dal tempo di Assisi, con ben altra funzione, le vede strettamente correlate alle
figure, le rappresenta con molti particolari e le caratterizza come architetture gotiche, dunque
sembra volere uscire, Giotto, dalla semplice caratterizzazione della veduta urbana come
evocazione della città antica. Giotto propone altro insomma rispetto alle scelte di Cimabue e a
quelle di Cavallini e Torriti e Rusuti. Conviene a questo punto vedere se, da Nicola a Giovanni
Pisano ad Arnolfo l’ immagine della città abbia un qualche peso nella elaborazione delle
immagini proposta da Giotto.
Potrà forse stupire ma la raffigurazione della città è confinata, in Nicola Pisano49, in poche
zone e marginali, cornici in alto come nella Presentazione al Tempio del Battistero di Pisa
(1260) o nella zona superiore della lastra con la Natività dello stesso monumento. Le
architetture in Nicola fanno certo diretto riferimento, come collocazione, come incidenza sulle
scene narrative, al mondo romano, ma i modelli antichi di Nicola sono le fronti di sarcofago di
tipo ellenistico. L’intreccio di rapporti fra Giotto e Giovanni Pisano è complesso ma, per le
architetture, non si vedono riferimenti diretti e immediati, come del resto testimonia il Pulpito
di Pistoia (1301) dove le strutture architettate sono le cornici di base e di culmine, le colonne, le
arcate ma dove ogni singolo campo viene concepito come percorso da un vibrante moto
continuo che si propone davanti a noi, e lo stesso si dica per il pulpito del Duomo di Pisa
(1302-1310). Resta aperto il problema del dialogo fra Giotto ed Arnolfo50. Il nodo critico a
questo punto è il seguente: se Nicola Pisano non spiega, al di là dei riferimenti evidenti al
mondo romano, ma anche al mondo gotico di Francia attorno al 1220-1230 le scelte gotiche di
Giotto pittore da Assisi in avanti, se Giovanni Pisano va troppo avanti in termini di cronologia
rispetto allo stesso Giotto, si deve attribuire a Arnolfo di Cambio, ed a lui soltanto, l’insieme
delle invenzioni, delle scelte linguistiche, dei moti affettivi, degli spazi architettati che Giotto
propone già negli affreschi di Assisi e che lo accompagnano fino alle opere ulteriori, dalla
cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore alle cappelle Bardi e Peruzzi a Santa Croce a
Firenze? Certo di Arnolfo giustamente si citano come sempre i cibori, quello di San Paolo fuori
le mura a Roma (1285) e quello di Santa Cecilia (1293), ma forse i due importanti monumenti,
come del resto il complesso di Santa Maria Maggiore o il Monumento al cardinale De Braye, e
non bastano a spiegare la ricchezza, la complessità delle scelte di Giotto. Così, per capire la
città di Giotto, ma anche in essa gli attori, i protagonisti, dovremo uscire dagli spazi dalle terre
toscane o romane e proporre una formazione diversa, un dialogo con modelli diversi. Di
architettura, di scultura, certo, e dunque di racconto.
5) Giotto e l’Île de France: il dialogo con architetti e scultori dei primi decenni del XIII secolo
Certo, non è possibile adesso non fare riferimento ai saggi fondanti di Cesare Gnudi che per
primo ha aperto la strada verso la comprensione delle matrici di Giotto in Île de France51 ma si
deve anche dire che quasi mai questi studi innovativi hanno trovato seguito adeguato nella
bibliografia ulteriore forse proprio perché, nella grande querelle Firenze-Roma per le origini di
Giotto, la presentazione di una tesi nuova e rivoluzionaria come quella proposta da Gnudi
avrebbe costretto a revisioni sostanziali. Insomma sono sufficienti Nicola Pisano, Giovanni
Pisano, Arnolfo per spiegare Giotto da Assisi in poi e la sua novità? E sono sufficienti a
spiegare Giotto le ricerche di Nicola e Arnolfo e Giovanni Pisano sulle architetture che peraltro
non trovano precisi riscontri nelle immagini dipinte da Giotto? Certo, Nicola è come Arnolfo
architetto e scultore, ma per comprendere la formazione di Giotto si deve pensare ad
esperienze nel corso degli anni ’80 avanzati ed a cavallo tra Île de France Firenze e Roma.
Torniamo al problema della formazione di Giotto, anzi del suo nuovo modo di raccontare e
insieme al suo modo nuovissimo di impostare le figure, la loro collocazione nello spazio, la
loro capacità di racconto.
Per capire dobbiamo ora proporre una serie di immagini di sculture del grande ritorno
all’antico dei primi decenni del XIII secolo in Francia, per cogliere eventuali coincidenze di
invenzione, di rapporti, di spazi, di gesti nelle opere dipinte di Giotto, ma si deve anche
ricordare che gli spazi dipinti e le architetture in essi raffigurati, certo frutto di attente giornate
spese a disegnare le strutture spesso in fieri dei diversi cantieri delle cattedrali, non bastano a
spiegare Giotto semplicemente come pittore ma ce lo fanno vedere, fin dai suoi inizi, come
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geometra, matematico, dunque architetto. Per questo credo che, a questo punto, convenga
analizzare il grande progetto che ci è pervenuto per il campanile di Santa Maria del Fiore, ora
conservato a Siena, per poi giungere, dopo qualche indispensabile confronto con edifici
analoghi in Île de France, al dialogo di Giotto con le sculture, coi loro gesti, con la loro
espressività, con la scoperta attraverso quei volti e gesti, del ritratto, una scoperta che Giotto
introdurrà nelle sue opere molto più spesso e con maggiore consapevolezza di quanto in
genere si pensi.
Consideriamo dunque il progetto di Giotto conservato a Siena e attentamente analizzato da
Decio Gioseffi52: prima di tutto si deve osservare che non siamo in presenza di uno schizzo, un
abbozzo, ma di un disegno completo e finito, uno di quelli che si lasciano non in cantiere ma
alla committenza perché possa nel tempo proseguire i lavori secondo il disegno stesso. Del
campanile avrebbe potuto anche essere stato realizzato un modello, esso pure attentamente
misurato, scolpito, dipinto, ma non ne abbiamo notizia. Comunque il progetto che ci è
pervenuto è di altissimo interesse anche e proprio perché è la prova che Giotto propone una
soluzione, una immagine del campanile e quindi di Santa Maria del Fiore e di Firenze stessa
anche se questa immagine, appena dopo la sua morte, viene tradita, e proprio da Andrea
Pisano (si veda la Fig. 1).
Dunque se esaminiamo il progetto dal punto di vista tecnico stupisce prima di tutto la
ricchezza dei dettagli, la rifinitura dei campi di marmo colorati, l’analitica descrizione delle
bifore e delle trifore che lo caratterizzano e, al culmine, la trasparenza, la ricchezza della sua
cuspide. Quali dunque i modelli di Giotto, del progettista? Certo tutti francesi. E penso alla
cattedrale di Chartres e alla torre sud del 1142, a quella nord del 1134, sempre della fronte
occidentale; e penso alla cattedrale di Laon circa del 1190, sempre fronte occidentale, dove la
idea resta quella di un sistema completamente aperto, attraversato da finestre allungate e
dilatate, leggerissime, come del resto vediamo alla cattedrale di Chartres, iniziata nel 1194. La
stessa Notre Dame a Parigi sulla fronte occidentale propone due grandi torri aperte con grandi
finestre allungate che si datano 1225-40 la sud, 1235-50 la nord, per non parlare della cattedrale
di Reims iniziata nel 1210 e collegata a quella di Chartres, o di quella di Amiens, iniziata nel
1220 proprio sul modello di quella di Reims. L’immagine di queste cattedrali e delle loro
doppie torri in facciata prevede sempre spazi molto aperti e quindi una concezione delle
architetture che si fonda su enormi pilastri angolari e quindi non su muratore continue; l’altra
scelta tecnica importante è quella dell’incatenamento di queste strutture a vari livelli
attraverso il sistema dei ripiani che sovrastano o sottostanno alle grandi, allungate finestre; le
guglie, sempre previste ma non sempre realizzate, completano questi edifici profondamente
innovatori.
Nel progetto di Giotto la scansione dei riquadri chiusi è evidente solo in basso; qui, appena
oltre il basamento, vediamo un campo quadrato privo di aperture, subito dopo una monofora,
una bifora, una doppia bifora, un triplice bifora, infine il culmine con la grande cuspide, la
guglia anch’essa traforata da un sistema di finestre aperte a giro di orizzonte e collocate
proprio al punto di attacco con la sottostante canna. Ebbene, a conferma che il dialogo con
Andrea Pisano, incaricato della prosecuzione dei lavori dalla fabbriceria della cattedrale alla
morte di Giotto, quel dialogo non è nel segno previsto da Giotto stesso ma in completa rottura
con esso, basta la ricostruzione proposta dal Gioseffi del progetto giottesco a confronto con
quello di Andrea Pisano53. Andrea dunque comincia raddoppiando il sistema del basamento e
inserendo fra questa doppia cerchiatura gli esagoni scolpiti, ma la modifica più violenta è la
eliminazione delle aperture a piramide rovesciata del progetto di Giotto per una scelta
diversa, una canna quadrata con due grandi salienti intermedi, due paraste per ogni facciata
aggiunti ai forti angolari previsti nel progetto di Giotto. Nel progetto di Andrea Pisano
vediamo ben cinque piccole aperture in asse al centro di ogni lato della torre, cui segue uno
spazio aperto da archi acuti e sopra una guglia, molto più bassa di quella di Giotto, con una
cella alta, essa pure aperta, ma con le finestre che sono intervallate da guglie molto più spesse;
la differenza di altezza fra il progetto di Giotto e questo di Andrea Pisano è di ben 25 braccia a
sfavore del secondo.
Il Gioseffi distingue due progetti proposti dal Talenti54 (si veda la Fig. 2), ambedue peraltro
vogliono riprendere lo schema progettuale giottesco e il secondo intende realizzare anche la
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guglia terminale facendo superare così all’insieme della torre le 190 braccia. Comunque sia il
progetto del Talenti, pur condizionato dalla costruzione già avanzata di quello di Andrea
Pisano fino al secondo riquadro, apre subito una coppia di bifore che traversano per intero
ogni faccia e che interrompono quindi le paraste inventate da Andrea; le coppie di bifore sono
due e giungono quindi sotto la cella più alta attraversata da una trifora molto ampia per
ciascuna faccia. Sopra questa un cornicione marcapiano retto da mensole doveva fare da
basamento alla prevista guglia poi non realizzata perché la fabbriceria concentrerà i propri
sforzi economici sull’ampliamento della Cattedrale. Per comprendere il rapporto strettissimo
fra Giotto progettista e la cultura dell’Île de France dobbiamo vedere nel disegno originale di
Siena come si rappresenta il culmine del sistema, come vi si inseriscono sculture a giorno sia
nelle guglie laterali sia in quella centrale, e come il sistema del trafori, dei gattoni, dei salienti,
delle sculture a tutto tondo in cima ai pinnacoli presupponga qualcosa di molto diverso dalla
evocazione mediocre, dalla imitazione schematica delle forme d’oltralpe ma semmai imponga
di riconoscere una persuasa e convinta adesione alle più avanzate scoperte del mondo gotico
dopo Saint Denis e Chartres fino a Notre Dame, alla Sainte Chapelle e agli altri edifici come
Bourges oppure Laon, Amiens oppure Reims ai quali in parte ho fatto sopra riferimento.
Come dunque pensare che un progettista così consapevole e colto non abbia fin dall’inizio
sperimentato la cultura d’oltralpe? E se dico fin dall’inizio intendo certo prima di Assisi. E
come spiegare la novità dell’architettura dipinta in Giotto, diciamo dalle vele della prima
campata della basilica Superiore di Assisi e poi lungo la navata e quindi in tutti i suoi cicli se
non con la consapevolezza del gotico di Francia? E’ questa la novità, è questo il segno che
Giotto elabora, prima di tutti a questo livello di complessità, nel panorama della pittura e della
architettura dello scorcio del ‘200 nella penisola. É questa idea, del tutto gotica, della città, che
Giotto ha maturato fin dall’affresco assisiate con La cacciata dei diavoli da Arezzo (si veda la Fig.
9) e che del resto propone anche nelle figure. Dunque conviene tornare ai saggi di Cesare
Gnudi per prendere in considerazione i problemi dei personaggi, dei protagonisti o delle
figure di contorno, per verificare i loro modelli, i loro rapporti, la loro gestualità, la loro
espressività, il peso del ritratto in molte di queste figure.
Userò qui una serie di immagini da me riprese in Île de France e in Germania che fanno parte
della nuova invenzione del racconto scolpito in un periodo determinato, quello attorno al
1200-1240 e poco oltre, anche se riferimenti penso sia agevole trovare, sempre per le immagini
dipinte da Giotto, anche alla fase iniziale della creazione del nuovo linguaggio, diciamo dopo
Saint Denis e fino al portale occidentale di Chartres e alla Porte Sainte Anne di Notre Dame a
Parigi.
Cominciamo proprio dalla Porte Sainte Anne (1160 c.) a Notre Dame a Parigi55 e consideriamo
la Madonna col Bambino (Fig. 58) fra due colonne, sovrastata da una veduta di città antica nella
miglior tradizione delle fronti di sarcofago romane; ebbene il dialogo fra questa immagine e
molte altre che caratterizzano il primo Giotto ad Assisi, come ad esempio la figura femminile
della scena con Isacco che respinge Esaù, mi sembra plausibile. Le figure ai lati della Madonna
si confrontano con altre del lato sud, terza campata da ovest, ad esempio con La presentazione
di Gesù al tempio. A Bourges alla cattedrale, portale nord (1160 c.) (Fig. 59), vediamo un’altra
figura di Madonna, questa volta con Bambino, posta fra due arcate e sormontata dalla veduta
di un’altra città all’antica; sotto di essa vediamo il timpano con la Visitazione (Fig. 60) che si
confronta con alcuni dipinti della cappella della Arena, la Visitazione per esempio, ma anche
con la figura dell’Angelo sulla tomba del Cristo, l’angelo posto al centro, visto di fronte.
D’altro canto se vogliamo comprendere le radici anche narrative del Giudizio Finale della
controfacciata di Assisi non possiamo che considerare la ricca tradizione delle immagini dei
numerosi Giudizi di età gotica nell’Île de France, senza dimenticare che a monte di queste
pagine scolpite ve ne sono altre, altrettanto ricche, nei timpani “romanici” da Gislebertus in
qua. Ebbene, sempre a Bourges, ecco un grandioso Giudizio Finale, siamo attorno al 1240, che
illustra il portale centrale di facciata: vediamo dunque la Psicostasi (Fig. 61) con eletti e demoni
e ancora il campo coi demoni che torturano i dannati (Fig. 62), e quello con la grande pentola
(Fig. 63) dove saranno precipitati. Una ricerca attenta si potrebbe fare confrontando i vari
Giudizi Finali in Île de France, esaminando i singoli dettagli e confrontandoli con la scena
dipinta alla cappella dell’Arena in controfacciata: anche questo servirebbe per ricostruire i
codici di bottega densi di appunti di Giotto.
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Torniamo a Notre Dame a Parigi: nel basamento della porta centrale, nello strombo, vediamo
Virtù e Vizi collocate sotto archi polilobati e divise da doppie colonne; la lavorazione delle
figure, la loro qualità, ci riporta ad un periodo attorno al 1210 circa (Fig. 64) e ci fa pensare a
quanto Giotto deve avere riflettuto su questi testi per realizzare poi, alla Cappella dell’Arena, i
suoi Vizi e Virtù dipinti a grisaille..
Ma è a Chartres che troviamo i riferimenti più evidenti all’invenzione pittorica di Giotto. E in
particolare vediamo questo nei due transetti, quello sud e quello nord. Nell’architrave del
portale sinistro del transetto sud con il Martirio di Santo Stefano (Figg. 65, 66) (1210-20) nella
scansione dei panneggi, nel rallentato ritmo dei movimenti vediamo nessi e rapporti con gli
astanti e in genere con le figure dell’Omaggio di un uomo semplice dipinto da Giotto nella
Basilica Superiore. Quanto alla figura sotto arco trilobato dello stipite (Fig. 67) il rapporto
sembra con le figure sedute a terra del Sogno di Innocenzo III nella Basilica Superiore. Nel
timpano del portale del transetto nord (Fig. 68) domina la scena del Cristo e della Madonna
incoronata in trono fra due colonne che reggono una grande struttura lobata su cui affacciano
le consuete strutture urbane all’antica, immagine che fa riflettere sul peso dell’ architettura
nella pittura di Giotto fin dalle origini. Anche in questo caso mi sembra che i confronti siano
numerosi, ad esempio l’Eterno con Francesco della Cacciata dei diavoli da Arezzo, o col Sultano
della Prova del fuoco, ma è la idea dello spazio, del ritmo delle pieghe, della loro scansione a
persuadere. D’altro canto l’invenzione giottesca della scena con L’accertamento delle stimmate
oppure quella del Il commiato di Santa Chiara muovono da invenzioni scolpite come questa di
Chartres, sempre nel transetto sud, con la imponente rappresentazione della Morte della
Vergine (1205-10) (Fig. 69).
Ma i nessi più evidenti fra Giotto e le sculture di Chartres dei primi decenni del secolo XIII si
colgono nelle statue degli strombi dei portali, qui ad esempio quelli del transetto nord (Figg.
70, 71, 72, 73), dove vediamo, da una parte, la densità estrema del modellato, il ritmo sottile
delle pieghe che evoca l’antico, la controllata ma evidente espressività dei volti e dunque il
loro racconto, dall’altra, in immagini come quella con tre statue colonna del portale destro,
strombo sinistro, sempre nel transetto nord di Chartres (1220) vediamo quelle stesse scansioni
degli spazi, quella stessa densità della materia che caratterizza ad Assisi tanti gruppi di
astanti, diciamo da L’omaggio di un uomo semplice a Il dono del mantello al povero, a La rinuncia ai
beni (Fig. 74). Intendo dire che vediamo qui, nelle sculture chartriane, la matrice della
ispirazione di Giotto e dunque della sua invenzione.
Certo, Giotto deve avere compiuto un viaggio oltralpe, certo prima di iniziare a dipingere ad
Assisi, e deve essere stato un lungo viaggio, e questo gli sarà servito come punto di partenza,
come sistema di riferimento per tutte le altre sue opere ulteriori, ad esempio per Padova. Ed
infatti se consideriamo il transetto sud sempre della Cattedrale di Chartres, e in particolare il
portale centrale, vediamo, nell’architrave con il Giudizio Finale (1210-15), sia nei beati (Fig. 75)
che nei dannati (Fig. 76), un riferimento evidente al Giudizio Finale della controfacciata della
Cappella della Arena, per cui invece di proseguire a considerare quell’affresco come derivato
o comunque collegabile alla scena di analogo soggetto del Battistero di Firenze, sarà bene
persuadersi che le matrici anche iconografiche di Giotto sono nei grandiosi Giudizi Finali delle
Cattedrali gotiche di Francia.
Se ci soffermiamo sull’intradosso della volta del portale centrale di Chartres (Fig. 77), sempre
del transetto sud (1210-15) possiamo esaminare le coppie di figure collocate sotto un
baldacchino inteso come paesaggio scolpito di una ricchissima città gotica; queste figure si
collegano direttamente alle immagini della Cappella della Arena alle quali hanno certo
suggerito la scansione degli spazi, la compostezza dei gesti nella ritmica dei panneggi, la
pacata, densa espressività. Il timpano del portale destro (Fig. 78), sempre del transetto sud di
Chartres, mostra in alto il Cristo benedicente che evoca quello dipinto su tavola della zona
sovrastante l’arco trionfale della cappella dell’Arena mentre nel riquadro sottostante il San
Martino che dona il mantello al povero (Fig. 79), su un cavallo che propone una immagine non
certo aulica, sembra avere suggerito qualche idea per l’asino della Fuga in Egitto o quello della
Entrata di Cristo a Gerusalemme alla Cappella degli Scrovegni (Fig. 80).
Se adesso consideriamo il gruppo di statue colonna del portale destro del transetto (Fig. 81)
sud con San Martino, San Gerolamo, San Gregorio Magno (1220 c.) e San Avito (1230 c.)
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troviamo nessi con le figure del gruppo di sinistra e destra a Padova de La Visitazione, La
Presentazione di Gesù al Tempio, La Resurrezione di Lazzaro, La Cacciata dei mercanti dal tempio.
Intendo dire che la scansione delle figure, il ritmo delle pieghe, la composta gestualità, lo
spessore delle forme, tutto fa ritenere che Giotto abbia veduto queste immagini, le abbia
disegnate, se ne sia valso al suo ritorno ad Assisi come a Padova ed altrove. Se vogliamo
meglio comprendere il tipo di nessi tra figure e strutture gotiche, quelle che per esempio
abbiamo visto nelle vele della prima campata coi Padri della Chiesa, basterà considerare questi
due particolari del transetto sud, portale destro sempre di Chartres: ebbene qui, sotto
imponenti architetture gotiche, una cattedrale dal grande rosone scolpito e attorno altri edifici
di città, vediamo un vescovo benedicente (Fig. 82); sopra un vescovo in atto di pregare fra
l’altare e lo scranno traforato; un altro particolare: il Vescovo che assiste un infermo sovrastato
da una complessa, tripartita struttura urbana (Fig. 83). Infine una figura femminile seduta su
uno scranno e con la corona in mano del martirio si colloca sotto una dilatata veduta urbana
scolpita (Fig. 84).
Credo che Giotto, nel suo viaggio, si soffermasse certo sulle figure maggiori, sulle grandi porte
strombate con i santi e i profeti e gli angeli di dimensioni più grandi del naturale, ma credo
anche che disegnasse particolari, come nel caso di Bourges, sempre verso la metà del XIII
secolo. Ecco dunque un dettaglio con figure che si apprestano al sacrificio (Fig. 85) oppure
quello del Cristo che entra a Gerusalemme (Fig. 86), o ancora l’immagine dei pastori (Fig. 87): da
queste immagini mi sembra che il dialogo con le invenzioni giottesche all’Arena non possa
essere posto in dubbio sia per la scena col Sogno di Giacobbe che per la Natività di Gesù che per
la Entrata di Cristo a Gerusalemme o anche per la Fuga in Egitto, sempre a Padova nella cappella
dell’Arena. Alcune volte, nel caso di Giotto, i confronti sono stati fatti con Reims ma devo dire
che la esperienza di Giotto non si fissa su un singolo monumento ma semmai integra le
proprie conoscenze riprendendo, disegnando, copiando complessi diversi. Lo conferma del
resto l’architrave del portale nord di Reims stessa, dove le figure, il loro ritmo, la loro
spazialità, i loro gesti vengono ripresi da Giotto all’Arena in numerosi campi, ma credo che la
invenzione del racconto, la espressività dei dialoghi delle figure a Reims non possano non
avere pesato fortemente sulla ricerca di Giotto. Vediamo dunque le statue colonna del portale
centrale della cattedrale di Reims, che si datano attorno al 1245-55 e che vedono maestri
diversi a confronto, quello più legato al mondo gotico (Fig. 88) con l’Angelo sorridente e
quello attento alla citazione dell’antico (Fig. 89) coi grandi panneggi scanditi sul corpo delle
figure. Non sono in grado di dire se Giotto si è recato anche fuori dell’Île de France, a Bemberg
e Naumburg per esempio, ma credo che comunque le sue opere più avanzate, quelle dopo
Padova per esempio, le cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce e anche la Cappella della
Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi, e i suoi Cristi in Croce da quello di Santa Maria
Novella a quello bellissimo di Ognissanti rispecchiano in parte anche questa esperienza con la
nuova pacata rappresentazione delle immagini, con i raffinati allungamenti dei corpi, con una
controllata gestualità.
Confrontiamo dunque l’Angelo bendato (Fig. 90) di Bamberga (post 1237) con qualcuna delle
figure della Cappella della Maddalena ad Assisi, con quella ad esempio del Cristo del Noli me
tangere, o confrontiamo le coppie delle figure sotto arcata (Fig. 91) con quelle della
Resurrezione di Lazzaro della stessa cappella. Quanto al Cavaliere di Bamberga (Fig. 92)
l’aulico suo incedere nasce certo dalla visione di monumenti equestri romani, e forse dallo
stesso Marco Aurelio, o da monumenti analoghi perduti, ma a Giotto potrà avere suggerito
ancora una volta altri riferimenti, come ad esempio quello alla Visione del carro di Fuoco ad
Assisi.
Ma c’è un altro punto da tenere in considerazione: a Bamberga vediamo operare un maestro
molto simile a quello che evoca le statue antiche di Reims, e di questo si coglie la sublime
compostezza (Fig. 93), la espressività che vediamo molte volte nelle Cappelle Bardi e Peruzzi
in Santa Croce. Ma nelle cappelle vi è altro, qualcosa che era apparso devo dire anche ad
Assisi, una tendenza al racconto, una capacità di entrare nel dettaglio delle diverse espressioni
che Giotto ha certo veduto sui cantieri gotici di Francia, e forse non solo. Mi riferisco alle
imponenti statue della zona presbiteriale di Naumburg (post 1240) dove i ritratti sono in forte
evidenza, e i gesti si collegano alla espressività delle figure (Figg. 94, 95, 96, 97). Come non
pensare, nel ciclo assisiate, a Francesco che predica davanti a Onorio II e ai due ritratti del
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francescano e del pontefice, oppure alla Morte del Cavaliere di Celano con il dialogo fra la
donna e il volto esangue del cavaliere. Se poi andiamo a la cappella degli Scrovegni e vediamo
quello che certo è un ritratto, il supposto oste delle Nozze di Cana, scopriamo molte coincidenze
coi ritratti della zona terminale di Naumburg.
Iniziando questo saggio mi sono posto il problema di Giotto architetto non nei termini
tradizionali della verifica di costruzioni fatte, ma tenendo conto di una prospettiva più ampia:
Giotto si interessava di architettura, e di che architettura sopra tutto? Giotto ad Assisi mostra
una attenzione per le costruzioni che poi verrà elaborata, sviluppata per tutta la sua esistenza;
il confronto con altri pittori, da Torriti a Cavallini è improponibile, le architetture dipinte da
Giotto nascono da una esperienza diversa, diversa anche da quella di Cimabue. Non si può
negare che i due, Cimabue e Giotto appunto, abbiano relazioni precise, ma il modo di porsi
davanti alla architettura di Cimabue è un modo di tipo antiquario, è il modo del pittore che
con i propri libri di disegno rappresenta il mondo antico, anzi i monumenti del mondo antico.
La posizione di Giotto è diversa, quando rappresenta La cacciata dei diavoli da Arezzo la sua è
una veduta di città contemporanea, una città arrampicata su un monte, una città che avrà una
lunga storia perché verrà ripresa, sviluppata, riproposta sia da Ambrogio Lorenzetti nel Buono
e nel Cattivo Governo che da Simone Martini dalla Cappella della Basilica Inferiore di Assisi in
avanti. La città di Giotto è diversa, dialoga con il mondo antico, e sopra tutto con i sarcofagi
che devono essere stati per lui la fonte più immediata e disponibile per le rappresentazioni
degli spazi urbani assieme ad alcuni antichi superstiti mosaici compresi quelli, per noi perduti,
delle basiliche, ad esempio del San Pietro, ma è sopra tutto, la città di Giotto, una immagine
del mondo contemporaneo. Non per caso ho seguito, da Assisi e dalle quattro vele della prima
campata la immagine della città, e poco importa se in ciascuna delle vele si rappresentino due
scranni e un leggio, perché la loro è una architettura complessa, che rappresenta davvero uno
spazio articolato, dove gli edifici, strutture di gotiche cattedrali, potrebbero benissimo stare al
posto degli arredi dove si dispongono i Padri della Chiesa e i loro scribi.
Analizzare le architetture dipinte da Giotto ad Assisi vuole anche dire scoprire che, lungi dal
derivare dai Vassalletto oppure del gotico italiano, esse sono legate alle nuove lingue di
Francia e per questo forse non sono state adeguatamente considerate non riuscendo a
collocarle entro un preciso contesto storico. D’altro canto come spiegare quelle architetture
dipinte senza tenere conto del loro dialogo evidente con il progetto giottesco del campanile di
Santa Maria del Fiore? Un progetto che senza il gotico dell’Île de France, senza le traforate torri
di tante cattedrali edificate dalla fine del XII alla metà del XIII secolo sarebbe davvero
incomprensibile. Ho anche seguito l’architettura dipinta da Giotto nelle fasi ulteriori, dalla
Cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore di Assisi alle cappelle Bardi e Peruzzi in
Santa Croce a Firenze e sempre le architetture hanno proposto una cultura innovativa, diversa,
la cultura appunto della gotica Île de France. Certo, la Cappella dell’Arena appare un fatto a sé,
ma lo è perché rappresenta davvero un Mistero medioevale, anzi due misteri medievali, quello
della nascita e del martirio del Cristo, del resto proprio qui, alla cappella, ogni anno si
rappresenta dal 1305 il Mistero della Annunciazione. Dunque ecco il teatro dipinto e il teatro
rappresentato.
La esperienza di Giotto del mondo gotico non si limita alle architetture che comunque, con la
loro rivoluzionaria novità e complessità, fanno di lui una figura assolutamente diversa, e
isolata nel panorama dei contemporanei in Italia e in Francia e altrove in Occidente, ma si
estende altrove, anzi è probabile che Giotto intendesse proporre il ritratto, la gestualità, la
fisionomica, proprio sulla base della sua esperienza sui cantieri dell’Île de France e
probabilmente anche di quelli di Germania. Dunque Giotto scopre i gesti, la grammatica dei
gesti, l’espressività dei volti, lo spessore dei corpi, il loro muoversi e spaziare dentro i campi
delimitati delle fronti delle cattedrali, e li disegna, certo, e li riprende nelle sue opere da Assisi
in avanti. Le somiglianze sono evidenti. Non è vero che lo jubé di Bourges da solo spieghi la
cappella della Arena; Chartres e Notre Dame a Parigi, e penso ai transetti e alla facciata,
dunque alle parti più avanzate di quei monumenti, Bourges e Reims e poi ancora Bamberg e
Naumburg fanno capire che Giotto ha veduto e meditato sopra tutto sui maggiori complessi
scolpiti che vanno dal primo al quinto decennio del secolo XIII scegliendo quindi due
momenti precisi, quello della rinnovata narrazione degli inizi del XIII secolo e il ritorno al
classicismo più aulico che vediamo ad esempio a Reims circa una generazione più avanti.
26
Altre tappe le possiamo solo supporre, ho indicato Naumburg e ho indicato Bamberg, potevo
anche introdurre le immagini di Freiberg, ma credo che la esemplificazione portata sia
sufficiente. Non vi è composizione di Giotto che non abbia nessi, che non dialoghi col mondo
della scultura gotica di Francia della prima metà del XII secolo. Vi è di più: Giotto fin da Assisi
introduce il ritratto, sia quello di Francesco, a volte un poco stereotipato, che quello dei
pontefici che di altre figure, e la scoperta del ritratto è quella di Naumburg ma anche di molte
figure che abbiamo esaminato nelle fronti della cattedrali. E poi è il nesso fra le figure, il
dialogo fra gruppi e spazi vuoti, il rapporto dei gesti e quindi tra le figure stesse, tutto questo
nasce dalla scultura gotica di Francia. Certo, è vero, le storie di Nicola Pisano e Giotto sono
parallele, nel senso che le loro fonti sono sempre le sculture in Île de France, e quanto a
Giovanni Pisano la sua strada, rispetto a quella di Giotto, appare presto diversa mentre
Arnolfo è il grande evocatore del mondo gotico, il più importante a Roma e non solo. Ma
Giotto deve avere scelto la strada della Île de France autonomamente, deve avere scoperto
questa nuova dimensione prima di iniziare a dipingere ad Assisi, senza questa esperienza,
lunga, approfondita, la sua novità fin dalle Storie di Isacco sarebbe impensabile.
Giotto dunque anche architetto? Le sue conoscenze di matematica e di geometria lo
confermano, la complessità delle costruzioni dipinte che egli rappresenta ne fanno comunque
un innovatore nel mondo della pittura. I suoi libri di disegno, sui quali ho cercato di costruire
delle ipotesi di lavoro, devono essere stati ricchissimi, diciamo ben diversi dal taccuino di
Villard di Honnecourt, puntati dunque sulla analisi dei monumenti ma anche sulla attenta
copia delle figure, delle statue dei maggiori cantieri, in parte ancora non chiusi, dell’Île de
France. Spero quindi di avere dimostrato che Giotto non è stato architetto solo alla fine della
esistenza ma che la sua fama doveva essere tale anche come progettista in quanto capo di una
vasta officina, che la città di Firenze non poteva rinunciare a competenze acclarate come le sue.
Per questo Firenze gli affida la sorveglianza e il restauro delle mura e di ogni costruzione
pubblica, e la progettazione del campanile. Giotto del resto aveva da costruire, in quello stesso
periodo, il ponte alla Carraia portato via dalla piena dell’Arno. Che cosa abbia costruito prima
Giotto non è dato di sapere, Un giorno forse troveremo altre prove di questa sua complessa
esperienza; la sola ipotesi che possiamo fare adesso è che Giotto comunque organizzasse, con
le sue competenze di progettista, le strutture destinate a contenere i suoi dipinti a fresco: non
solo dunque la Cappella dell’Arena ma anche quelle di Santa Croce e quella della Maddalena
ad Assisi ed altri luoghi ancora, come gli spazi per gli Uomini Famosi dipinti a Napoli. Certo,
ipotesi, solo ipotesi, che però fanno comprendere quali potevano essere i libri di disegno
dell’artista passati poi alla bottega, una bottega che per almeno due e forse tre generazioni
echeggerà, quasi sempre senza comprenderne la portata, le strutture, le architetture dipinte nei
precedenti decenni dal maestro trasformandole in sfondi, mari anche in immagini di contorno.
D. Gioseffi, Giotto architetto, Milano 1963.
G. Villani, Cronica ed. Gherardi Dragomanni, Firenze 1844-45: “e in questo tempo e istante si cominciò a fondare il nuovo
ponte alla Carraia, il quale era caduto per lo diluvio e fu compiuto di fare in calen di gennaio 1336 -ma per noi 1337- e
costò più di venticinquemila fiorini d’oro e restringesi due pile al vecchio”.
3 D. Gioseffi, Giotto architetto cit., p. 69.
4 Ivi, p. 62.
5 Ibidem.
6 C. Gnudi, Giotto, Milano 1959.
7 J. White, The Birth and Ribirth of Pictorial Space, London 1957, ed. cons. Id., Nascita e rinascita dello spazio pittorico, Milano
1971; lo studio nasce come tesi di dottorato e viene pubblicato poi nella serie del Warburg di Londra.
8 Ibidem. Il dibattito su "Giotto-non Giotto" fra Assisi e Padova suggerisce all'autore prudenza attributiva.
9 G. Previtali, Giotto, Milano 1967.
10 L. Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985.
11 F. Flores D'Arcais, Giotto, Milano 1995.
12 D. Gioseffi, Giotto architetto cit; Gioseffi aveva suggerito dall’ingresso delle due cappelle.
13 C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico, Giotto e la Cappella degli Scrovegni, Torino 2008.
14 S. Romano, La O di Giotto, Milano 2008.
15 Ibidem. La studiosa cita dunque John Pecham e la sua Perspectiva communis scritta fra 1277 e 1279 presso la corte
pontificia, il Liber de visu di Euclide, il Liber de aspectuibus di Alhazem allora tradotti, ricorda quindi Michele Scoto che
traduce Aristotele per la corte di Manfredi, come ad esempio il trattato Psuedoaristotelico Phisiognomica tradotto da
Bartolomeo da Messina appunto per Manfredi fra 1258 e 1266.
16 Ivi, p. 203.
1
2
27
Ivi, p. 198.
Ivi, p. 200.
19 M. M. Donato, Memorie degli artisti, memoria dell’antico intorno alle firme di Giotto, e di altri, in Medioevo il tempo degli
antichi, Atti del convegno internazionale di studi, 24-28 settembre 2003, a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2006, pp. 522546.
20 Si tratta di un’opera della officina di Wiligelmo che si data attorno all’ultimo decennio del secolo XI; in proposito si
veda Scheda n. 1, Le sculture e l’arredo delle abbazie precedenti l’attuale; Scheda n. 2, Il protiro e il portone; Scheda n. 3, Wiligelmo
e Nonatola il pulpito e il portale; Scheda n. 4, I leoni del protiro di Nonatola; cheda n. 5, Il racconto del tralcio a Nonatola e il suo
autore; Scheda n. 6, Il problema del racconto degli stipiti nonatolani; Scheda n. 7, Anselmo Astolfo Adriano e le forme dell’abbazia;
Scheda n. 8, Le storie dell’infanzia di Cristo a Nonantola; Scheda n. 9, Le storie dell’Infanzia di Cristo al duomo di Piacenza e lo
stipite destro nonatolano e il loro autore, in A. Calzona, Nonantola: l’abbazia “lombarda” e quella della Riforma, in Lanfranco e
Wiligelmo. Il Duomo di Modena Catalogo della mostra, Modena, Palazzo Comunale, giugno-settembre 1984, Modena 1984,
pp. 733-737.
21 La idea della progettazione giottesca di tutto il ciclo, poi eseguito da altri pittori nella parete di sinistra entrando nella
basilica, è in genere accolta dalla critica: si veda L. Bellosi, La pecora di Giotto cit.; quando alla attribuzione del campo
mentre il Previtali lo assegna a Giotto, G. Perevitali, Giotto cit., p. 195, Francesca Flores d’Arcais lo attribuisce al “Maestro
del crocifisso di Montefalco”, si veda dunque: F. Flores d’Arcais, Giotto cit., p. 83.
22 N. H. Belting, Die obere Kirche von San Francesco in Assisi. Ihre Decoration als Aufgabe und die Genese einer neue
Wandmalerei, Berlin 1977. Il Belting è stato seguito dal Bellosi e da molti altri studiosi. Su alcuni dei problemi giotteschi
che sono affrontati in queste pagine si vedano inoltre J. Gardner, Pope Nicholas IV and the Decoration of Santa Maria
Maggiore, "Zeitschrift fùr Kunstgeschichte", XXXVI 1973, pp. 1-50; J. Gardner, The Stefaneschi Altarpiece: a Reconsideration,
"Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", XXXVII 1974, pp. 57-103; M. Boskovits, Cimabue e i precursori di Giotto,
Firenze 1976; L. Bellosi, La rappresentazione dello spazio, in Storia dell’arte, vol. IV, Torino 1980; J. Gardner, The Louvre
stigmatization and the problem of the narrative Altarpieces, "Zeitschrift fùr Kunstgeschicte", XLV 1982 pp. 217-248; L. Bellosi,
La decorazione della basilica superiore e la pittura romana di fine duecento, in Roma 1300, Roma 1983 pp. 93-101; C. Brandi,
Giotto, Milano 1983; S. Maddalo, Bonifacio VIII e Jacopo Stefaneschi. Ipotesi di lettura dell’affresco della loggia lateranense, "Studi
romani", XXXI, 1983 pp. 129-150; D. Gioseffi, Marginalia giotteschi, "Antichità viva", XXVI, 1987, pp. 12-19; M. Andaloro,
Ancora una volta sull’Ytalia di Cimabue, “Arte Medioevale”, II 1984, pp. 143-177; A. M. Romanini, Gli occhi di Isacco.
Classicismo e curiosità scientifica tra Arnolfo e Giotto, "Arte medievale", ser.1, II 1987/1-2, pp. 1-56; A. M. Romanini, Arnolfo
alle origini di Giotto, l’enigma del Maestro di Isacco, "Storia dell’arte", LXV 1989, pp. 5-26; A. Tomei, I due angeli della Navicella
di Giotto in Fragmenta Picta, Catalogo della mostra, Roma, Castel Sant'Angelo, 15 dicembre 1989-18 febbraio 1990, a cura
di M. Andaloro, Roma 1989, pp. 155-161; A. Tomei, Jacobus Torriti pictor. Una vicenda figurativa del tardo Duecento romano,
Roma 1990; A. Tomei, Pietro Cavallini, Milano 2000; D. Cooper, J. Robson, Pope Nicholas IV and the upper Church at Assisi,
“Apollo”, CLVII 2003, pp. 31-35; F. Flores d’Arcais, Elementi decorativi di ispirazione classica nelle architetture dipinte della
cappella degli Scrovegni, in Arti a confronto, studi in onore di Anna Maria Matteucci, a cura di Deanna Lenzi, Bologna 2004,
pp. 81-84; L. Bellosi, “Nicholaus IV fieri Precepit”. Una testimonianza di valore inestimabile sulla decorazione murale della
Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, 126-127, "Prospettiva", 2007, pp. 2-14. A proposito di questo saggio, che si
ricollega alla scoperta del Cooper e della Robson pubblicata su “Apollo”, si deve osservare che lo studioso fin da “La
pecora di Giotto” del 1985 aveva ristretto i termini delle pitture della navata della chiesa superiore di Assisi al periodo
del pontificato di Niccolo IV.
23 S. Romano, La O di Giotto cit., pp. 9-59 e ill. da 1 a 42; per la studiosa i riferimenti al mondo romano delle pitture del II
stile sono evidenti; ella cita le ricostruzioni degli affreschi in San Pietro, perduti, i mosaici di Santa Maria Maggiore sia
lungo la navata che nella zona absidale; per i riferimenti all’antico la Romano ricorda anche gli affreschi del Metropolitan
di New York provenienti da Boscoreale, e ancora scene del ciclo della Odissea ora in Vaticano, la Villa dei Misteri a
Pompei ed altro ancora.
24 Per questi dipinti si deve fare riferimento ormai alle immagini della campagna fotografica realizzata subito prima del
terremoto per il corpus dei Mirabilia Italiae: La Basilica di San Francesco ad Assisi, a cura di G. Bonsanti, 4 voll., Modena 2002
(Mirabilia Italiae, 11).
25 Giotto: La cappella degli Scrovegni, a cura di G. Basile, Milano 1992.
26 D. Gioseffi, Giotto architetto cit.
27 Sul problema in generale della interpretazione del sistema e di alcuni particolari della Cappella si veda il recente
volume di G. Pisani, I volti segreti di Giotto. Le rivelazioni della Cappella degli Scrovegni, Milano 2008.
28 C. Gnudi, L’arte gotica in Francia e in Italia, Torino 1982; lo studioso, pur dimostrando la conoscenza da parte di Giotto
dello Jubé di Bourges e quindi anche della scultura dell’Ile de France, non indica con precisione il momento in cui Giotto
sarebbe andato in Île de France.
29 Su San Francesco si vedano prima di tutto le Fonti francescane, Dizionario francescano. Spiritualità, a cura di E. Caroli,
Padova, 1983; ed inoltre Kajetan Esser Ofm, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Padova 1982; interessante il confronto fra
diverse biografie del santo, o su temi del francescanesimo, tagliate tutte da punti di vista diversi, ne cito alcune: O.
Capitani, Figure e motivi del francescanesimo medioevale, Bologna 2000; F. Cardini, Francesco d’Assisi, Milano 1989; J. Le
Goff, San Francesco d’Assisi, Bari 2000; C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino 1995; R. Manselli, San
Francesco d’Assisi, Milano 2002; P. Sabatier, Vie de saint François d'Assise, Paris 1893, ed. cons. Id., Vita di San Francesco
d’Assisi, Milano 1978. Inoltre sulla immagine di Francesco si veda: C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate,
Torino 1993.
30 Su Cavallini si veda: A. Tomei, Pietro Cavallini cit.
31 Su Torriti si veda: A. Tomei, Jacobus Torriti Pictor cit..
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18
28
Su Cimabue si veda: L. Bellosi, Cimabue, apparati a cura di G. Ragionieri, Milano 1998.
R. Krautheimer, Rome, Profile of a City, 312-1308, Princeton 1980.
34 M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini, in M. Andaloro, S. Romano, La pittura medievale a Roma, 3121431. Atlante, Milano 2006; M. Andaloro, Atlante, percorsi visivi, Milano 2006.
35 Cod. Vat. Lat. 4406l.
36 M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico cit., pp. 97-124.
37 Ivi,p. 211.
38 Il codice è conservato alla vaticana: Cod. Barb. Lat. 2733.
39 M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico cit., pp. 20-44; F. R Moretti, P Liverani, I mosaici antichi di San Pietro in Vaticano in
età costantiniana, in M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico cit., pp. 87-91. P. Pogliani, I ritratti clipeati a mosaico dal cimitero di
Ciriaca presso San lorenzo fuori le mura e conservati nei Musei Vaticani, in M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico cit., pp. 92-96.
F. R. Moretti, Storie cristologiche della Cappella cristiana nell'area del complesso ospedaliero San Giovanni, in M. Andaloro,
L’orizzonte tardoantico cit., pp. 97-104. S. Piazza, La decorazione absidale dell'oratorio del Monte della Giustizia, in M. Andaloro,
L’orizzonte tardoantico cit., pp. 105-107.
40 M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico cit., pp. 307-314; M. Andaloro, Il mosaico absidale di Santa Pudenziana, in L’orizzonte
tardoantico cit., pp.114-124.
41 Stefano Riccioni ha suggerito il 1118 ma io ritengo che si possa anticipare agli inizi del primo decennio la realizzazione
del mosaico. S. Riccioni, Il mosaico absidale di S. Clemente a Roma: exemplum della chiesa riformata, Spoleto 2006.
42 Si deva dunque La Basilica di San Francesco ad Assisi, a cura di G. Bonsanti cit.
43 M. Andaloro, Ancora una volta sull'Ytalia di Cimabue cit.
44 Il saggio della Andaloro collega a Papa Niccolò III Orsini il sistema di racconto proposto da Cimabue nell'affresco con
la Ytalia ad Assisi. La studiosa coglie i nessi fra i singoli monumenti e il loro significato generale che è legato appunto
alla presa del potere del pontefice all'interno del senato romano. La lettura dei singoli monumenti raffigurati è raffinata.
Alla fine saggio la studiosa pone il problema dei codici di officina di Cimabue e della loro trascrizione sulla volta ad
affresco.
45 A. Tomei, Pietro Cavallini cit., pp. 23-51.
46 Rinvio dunque sulla vicenda dei due artefici, i loro rapporti con la tradizione, la analisi delle loro opere ai due volumi
di Alessandro Tomei: A. Tomei, Jacobus Torriti pictor cit. e Id., Pietro Cavallini cit.
47 Si veda il volume P. E. Arias, E. Cristiani, E. Gabba, Camposanto monumentale di Pisa. Le antichità, Pisa 1977; A. C.
Quintavalle, Quei campi dei miracoli, in Rilavorazione dell’antico nel medioevo, a cura di M. D’Onofrio, Roma 2003, pp. 15-28.
48 A. C. Quintavalle, L’antico ritrovato, città, architettura, figura. Il San Caprasio di Aulla, il castello di Berceto, i sarcofagi del
Sant Ambrogio di Milano e il Duomo di Mantova, in Medieovo: Immagini e Ideologie. Atti del convegno internazionale di studi,
Parma, 23-27 settembre 2002, a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2005, pp. 337-370.
49 M. L. Testi Cristiani, Nicola Pisano architetto scultore, Pisa 1987.
50 Rinvio, per una trattazione monografica al volume di Angiola Maria Romanini (Ead., Arnolfo di Cambio, Milano 1969) e
ricordo, sempre della Romanini, i saggi su Arnolfo e Giotto ai quali ho già fatto in precedenza riferimento; ricordo
inoltre: Arnolfo alle origini del rinascimento fiorentino, a cura di E. Neri Lusanna, Firenze 2005 alla cui ampia bibliografia
bisogna fare riferimento; ed ancora: Bonifacio VIII e il suo tempo, anno 1300 il primo giubileo a cura di M. Righetti Tosti
Croce, Milano 2000.
51 C. Gnudi, L’arte gotica in Francia e in Italia, Torino 1982.
52 D. Gioseffi, Giotto architetto cit.
53 Ivi, fig. 76 p. 222.
54 Ivi, p. 223 vedine la ricostruzione a p. 223.
55 In genere, per la cronologia delle sculture della prima generazione gotica e per le altre del XII secolo, ho mantenuto le
datazioni proposte da Sauerlàander nel noto volume del 1970: W. Sauerlàander, Gotiche Skuloptur in Frankreich 1140-1270,
Mùnchen 1970.
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