Il ritorno delle antiche religioni

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di Fabio Calabrese
Mi dispiace di averlo saputo con un certo ritardo, ma credo che la cosa non tolga nulla
all’importanza della notizia. La riferisce “L’indipendente” del 24 gennaio 2007 in un articolo a firma
di Mauro Frasca, Il ritorno dei pagani sull’Olimpo: una rappresentanza dei circa 40.000 pagani
ellenici ha ottenuto dalle autorità greche il permesso di celebrare un rito nel tempio di Giove
Olimpio ad Atene, e la cosa sembra essere un primo passo per il riconoscimento ufficiale della
religione “gentile” fra quelle ufficialmente ammesse, con il diritto di celebrare pubblicamente
funerali, matrimoni eccetera. Già oggi la neo-rinata comunità pagana ellenica è la quarta fede del
Paese dopo i 10 milioni circa di cristiani ortodossi, i 500.000 mussulmani ed 200.000 cattolici,
superando nettamente i 30.000 testimoni di Geova, i 30.000 protestanti ed i 5.000 ebrei.
Quattro anni fa, ad un precedente tentativo di celebrare un rito sempre sull’acropoli ateniese nel
tempio di Efesto, furono cacciati in malo modo dalle guardie archeologiche, oggi un tribunale ha
dato loro ragione, riconoscendo il loro diritto di riappropriarsi dei luoghi di culto che furono eretti
dai loro padri per la loro fede.
Puntualmente, vi sono state le prevedibili reazioni isteriche della Chiesa ortodossa. Ma come? –
verrebbe da chiedersi – questi cristiani oggi non sono tanto per l’ecumenismo, per il dialogo fra le
religioni? Ma quando si tratta di manifestazioni della più antica spiritualità autoctona d’Europa, ecco
scattare la più cieca, isterica intolleranza. Sarà mica perché i seguaci del “dio inchiodato” hanno
un’enorme coda di paglia? Sarà mica perché la cristianizzazione dell’Europa, la cancellazione –
evidentemente non così completa e non così definitiva come costoro pretendono – delle fedi europee
originarie è avvenuta in un’orgia di violenza? La verità pura e semplice che ogni storico che si
rispetti conosce, ma che ancora adesso ci si guarda bene dal rivelare al grosso pubblico, è che
l’Europa è stata cristianizzata a forza.
Dai massacri di pagani (migliaia di vittime) e la distruzione di templi per edificare al loro posto
chiese cristiane ordinata dall’imperatore Teodosio, a Carlo magno con la sua evangelizzazione a fil di
spada dei Sassoni, agli analoghi “sermoni” dei cavalieri teutonici contro gli Slavi, alla crociata contro
gli Albigesi nel XIII secolo, ai roghi degli eretici, a quelli delle presunte streghe, la verità è che nella
“conversione” dell’Europa al cristianesimo, la predicazione e la persuasione hanno tenuto un ruolo
assolutamente marginale rispetto alla conquista militare, alle stragi, alla violenza più brutale, alla
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persecuzione dei dissidenti, alla soppressione di ogni forma di pensiero “non allineato”.
L’articolo di Mauro Frasca precisa anche che il quasi-riconoscimento ufficiale del movimento
gentile ellenico, che va ad aggiungersi a quelli già ottenuti dagli analoghi movimenti islandese e
lituano, costituisce la punta dell’iceberg di un movimento molto più vasto che interessa tutta
l’Europa e ne trascende i confini. Negli Stati Uniti, ad esempio, la wicca conta ben 134.000 seguaci,
e recentemente la vedova di Patrick Steward, un sergente americano appunto adepto della wicca
caduto in combattimento in Afghanistan nel 2005, è riuscita, sempre con sentenza del tribunale, a
costringere l’United States Departement of Veteran Affairs ad ammettere i simboli wiccani nei
cimiteri dei caduti (perché, sia chiaro, ancora oggi i pagani non riescono ad ottenere senza lunghe
battaglie legali quei diritti che normalmente si riconoscono alle altre fedi; e questa ingiustizia è la
più chiara dimostrazione del permanere anche all’interno di istituzioni che si vorrebbero “laiche” di
una mentalità cristiana, e del fatto che il cristianesimo ha sempre costruito le sue posizioni
civettando con il potere, e mentendo nella maniera più spudorata tutte le volte che ha inteso
presentarsi come religione “dei poveri e degli umili”).
In Europa, oltre ai movimenti islandese, lituano e greco, hanno ottenuto una sorta di
riconoscimento ufficioso i 500 membri del Forn Sidr in Danimarca, una comunità pagana odinista
(ma non è questione di numeri quando si esce da due millenni di repressioni e persecuzioni; vi sono
poi movimenti che mirano alla restaurazione del paganesimo paleoslavo in Polonia, movimenti
druidici nelle Isole Britanniche, in Francia ed in Italia; in Italia vi sono anche movimenti che
vorrebbero restaurare il paganesimo romano.
Il Dipartimento per gli Affari Ecclesiastici del governo danese ha fatto premettere al suo quasiriconoscimento del Forn Sidr la dichiarazione di non avere nulla a che fare e l’impegno di non avere
nulla a che fare in futuro con gruppi neonazisti o satanisti; cosa della cui equità od opportunità si
potrebbe anche discutere, ma immaginatevi, provatevi solo ad immaginare se le Chiese cristiane e
quella cattolica in particolare, per poter svolgere la loro attività dovessero impegnarsi
preventivamente ad astenersi da ingerenze nella politica! Calmatevi, che rischiate di slogarvi le
mascelle!
Il defunto pontefice Giovanni Paolo II aveva il “pallino” delle radici spirituali dell’Europa che
voleva menzionate anche nella costituzione dell’Unione Europea, ed il suo successore Joseph
Ratzinger, Benedetto XVI si è mosso sulla medesima strada; non si può dire che in Europa non ci si
stia muovendo per accontentare quest’aspirazione dell’uno e dell’altro; peccato che queste radici
con il cristianesimo nulla abbiano a che fare.
Le radici spirituali dell’Europa non sono cristiane, non possono esserlo, per chiari ed evidenti
motivi.
La civiltà europea nasce dall’incontro, dalla fusione, dall’intersecarsi, ma anche dallo scontro di
quattro culture: greca, latina, celtica e germanica. Le prime tre sono più antiche del cristianesimo,
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che non vi ha apportato altro che elementi di dissoluzione e tentativi di scalzamento delle
popolazioni europee dalla loro matrice culturale originaria. La quarta, quella germanica, ebbe il suo
maggiore sviluppo in epoca medievale, già cristiana, ma anche qui il cristianesimo funse piuttosto da
antagonista e da elemento di dissoluzione. La mentalità ecclesiastica ed i suoi valori furono in
perenne antagonismo con la mentalità cavalleresca-feudale espressione del germanesimo, ed i suoi
valori basati non sull’ascetismo ma sull’aspirazione ad una vita eroica. Questo contrasto si espresse
per tutta l’epoca medievale nel conflitto fra papato ed impero poi nel 1516 con la riforma
protestante ed il distacco della Germania dal papato romano.
In secondo luogo, non è esagerato affermare che l’Europa ha sempre vissuto il cristianesimo
impostole con la violenza come una soffocante camicia di forza.
Nel XVIII secolo nacque in Europa il movimento illuminista; gli intellettuali più aperti, trovando
il consenso della borghesia che si andava affermando e l’appoggio dei sovrani più illuminati,
riuscirono a porre un freno all’ingerenza massiccia, al monopolio delle Chiese cristiane, soprattutto
di quella cattolica, nell’istruzione, nella cultura, nella politica, in ogni aspetto della vita civile: era
una reazione, in effetti, e pienamente giustificata, a due secoli di guerra civile europea che dalla
riforma protestante in poi, cattolici e riformati avevano scatenato, contendendosi l’Europa palmo a
palmo. La guerra dei Trent’anni (1618-1648) che distrusse la Germania e quasi ne sterminò la
popolazione, giungendo ad essere la guerra più distruttiva e brutale della storia umana fino alle due
guerre mondiali del XX secolo, non fu in effetti che l’episodio più acuto di una guerra civile
bisecolare che sconvolse quasi ogni angolo del Vecchio Continente. L’illuminismo e le rivoluzioni del
XIX secolo imposero la separazione fra Chiesa e stato, la laicità degli stati, la libertà di coscienza
come diritto inalienabile. Da allora in poi, non appena l’Europa ha cessato di essere costretta dai
roghi dell’inquisitore e dalla spada del crociato (Le crociate, ricordiamolo, non furono dirette solo
contro l’islam, vi fu la crociata contro gli Albigesi, ma anche, ad esempio, quella che nel 1204 pose
fine all’impero bizantino, e certamente “crociate” si potrebbero definire le campagne di sterminio
carolinge contro i Sassoni e quelle dei cavalieri teutonici contro gli Slavi), è iniziato un movimento di
scristianizzazione dell’Europa, lento ma inarrestabile e con ogni probabilità irreversibile. L’Europa
rigetta da sé il cristianesimo come quel corpo estraneo che in effetti è. Dove sono le “radici
cristiane” dell’Europa? Sono piuttosto le parole del grande Richard Wagner che vengono in mente:
“PER QUANTO L’INNESTO SULLE SUE RADICI DI UNA CULTURA CHE LE E’ ESTRANEA,
POSSA AVER PRODOTTO FRUTTI DI ALTISSIMA CIVILTA’, ESSO E’ COSTATO E CONTINUA A
COSTARE INNUMEREVOLI SOFFERENZE ALL’ANIMA DELL’EUROPA”.
“Una cultura che le è estranea”; di questo appunto si tratta; nonostante due millenni di sforzi,
l’origine mediorientale, non-europea del cristianesimo rimane un marchio indelebile.
L’anno scorso, 2006 dell’Era Volgare, l’attuale pontefice (sempre che convenga al leader della
Chiesa cattolica questo titolo usurpato – come tutto il resto – all’antica religione romana) Benedetto
XVI tenne, nel corso della sua prima visita pastorale nella natia Germania, un discorso all’università
di Regensburg, che attirò l’attenzione soprattutto per un’espressione sull’islam giudicata offensiva
dalle comunità islamiche e prontamente ritrattata, ma questo però ha fatto passare inosservato il
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fatto che in questo discorso Joseph Ratzinger diceva anche altro, tornava ancora una volta sulle
“radici cristiane dell’Europa”, tormentone preferito del suo predecessore, con un’interessante
variante, mettendo a lato delle fonti bibliche ed evangeliche anche la “filosofia greca”.
Potremmo quasi dire che Ratzinger è stato più moderato (ed è certamente più colto) del suo
predecessore Wojtila, essendosi degnato di menzionare accanto alle radici ebraico – biblico –
cristiane, quelle greche.
Questa ammissione rende ancora più interessante un esame delle tre omissioni delle reali radici
dell’Europa: la costruzione politico – giuridico – amministrativa romana, l’immaginario celtico, le
tradizioni germaniche di fedeltà e di onore, soprattutto considerato che Joseph Ratzinger non è un
curato di campagna casualmente diventato papa, ma un teologo ed uno dei più acuti intelletti che la
Chiesa oggi possiede.
Che proprio un papa tedesco abbia omesso qualsiasi accenno al contributo delle radici
germaniche alla civiltà europea, non è purtroppo cosa che possa stupire: dal 1945 i Tedeschi sono
abituati, sono stati costretti con una sorta di schizofrenia indotta, a definire la propria identità in
termini di negazione del proprio passato e della propria storia; nondimeno, la concezione germanica
dello stato che nasce da rapporti personali fra governanti e governati, da un patto liberamente
sottoscritto ma che una volta contratto va osservato con una fedeltà che non ammette deroghe, è
alla base non solo del forte spirito identitario che ha caratterizzato il medioevo feudale e comunale,
ma, incontrandosi con la paideia greca e l’humanitas latina, ha generato la nostra concezione che
accorda alla persona, al singolo, ai suoi diritti, una centralità assolutamente sconosciuta in altre
culture.
Che anche i Celti in questo discorso rimangano fatalmente ignorati, stupisce ancora meno: dalle
radici celtiche abbiamo ereditato il folklore come forma di mitologia popolare, con creature
fantastiche come elfi e folletti, ed alcuni miti ancora vivi nella nostra cultura apparentemente
smagata: il Ciclo Bretone, Artù, Merlino, Excalibur, il Santo Graal sono presenze ancora vive, simboli
ancora forti nella nostra cultura: è il residuo maggiore di paganesimo che permane oggi in Europa,
che urta frontalmente contro la mentalità cristiana, e proprio per questo è per me una delle ragioni
che rendono degna di amore e d’interesse la cultura celtica.
Stupisce maggiormente la mancanza di qualsiasi riferimento alla tradizione romana da parte del
principale esponente di una Chiesa che si definisce pomposamente e falsamente “romana”. Forse la
cosa è più spiegabile alla luce di una riflessione del filosofo Denis De Rougemont, secondo il quale il
cristianesimo avrebbe portato in Europa “un terzo mondo di valori”, quelli del profetismo ebraico
“difficilmente conciliabili con la misura greca e totalmente contrari a quelli di Roma”.
Da Roma, la Chiesa cattolica “romana” ha ereditato parte della struttura amministrativa e la
lettera della sua cultura giuridica e letteraria, uccidendone totalmente lo spirito.
Fabio Calabrese
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“Et facere et pati fortiter romanum est”, è da romani agire e sopportare con fermezza. Il romano
affronta le vicende della vita con un senso di equilibrio interiore, non perde il controllo di sé nei
momenti favorevoli e non si abbatte nelle sventure; ancora più del greco gli è proprio il senso della
misura. Un mio rimpianto docente del liceo ormai scomparso da molti anni, faceva notare come
Orazio traduca il “Nun chré methusthen” (“ora bisogna ubriacarsi” di Alceo con “Nunc est
bibendum”, il romano “beve”, non “si ubriaca”.
A differenza di quelle cristiane, le virtù romane sono virtù civiche: valore e disciplina in
battaglia, frugalità e parsimonia nell’amministrazione delle proprie cose, obbedienza filiale,
magnanimità e saggezza come pater familias, senso di appartenenza, fierezza di appartenere alla
propria civitas ed alla propria stirpe, preoccupazione per i suoi destini, forza d’animo nelle sventure,
moderazione nei successi.
La virtus romana non è la “virtù” cristiana, viene da vir, e significa appunto in ogni circostanza
riuscire ad essere e sapersi comportare da uomini.
Del concetto antico di virtù, curiosamente rimane una traccia negli erbari, nei bestiari, nei
lapidari medievali, laddove si parla delle “virtù” delle piante, degli animali, dei metalli: “virtù”
significa portare alla massima estrinsecazione, sviluppare ciò che è conforme alla propria Natura; è
un’idea esattamente opposta a quella del cristianesimo che implica l’andare contro la propria natura
che si suppone corrotta dal peccato originale.
A questo punto proprio il fatto che Joseph Ratzinger abbia menzionato il pensiero greco nel
discorso di Regensburg diventa sospetto. Su cosa si debba intendere per pensiero greco, infatti,
esiste quanto meno una grossa ambiguità, forse una mistificazione.
Come minimo occorre distinguere fra “la sapienza” greca e “la filosofia” greca o presunta tale.
Giorgio Colli, il nostro maggiore studioso del pensiero greco, faceva notare che la parola “filosofia”
che significa “amore per la sapienza” fu usata per la prima volta da Platone, ma in Platone essa ha
ancora il significato di una sapienza perduta da ritrovare, mentre l’idea “moderna” della filosofia
come un sapere mai prima posseduto da inventare ex novo, nasce solo con Aristotele.
Ora, si osservino bene i rapporti temporali: con Socrate, maestro di Platone siamo già a dopo la
guerra del Peloponneso che è considerata l’evento che pone fine alla civiltà ellenica classica, e con
Aristotele che fu il precettore di Alessandro Magno, siamo già nell’ellenismo.
In pratica, non considerando la fase sapienziale ma unicamente quella filosofica del pensiero
greco, e riducendo tutto quanto sta prima di Socrate nella categoria dei precursori sui quali non è il
caso di soffermarsi troppo, con una specie di gioco di prestidigitazione, è proprio il pensiero della
grecità classica che è stato fatto scomparire dalla nostra vista.
Fabio Calabrese
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Tra la sapienza ellenica e la “filosofia” ellenistica corre, potremmo dire, la stessa distanza che
c’è fra Leonida che si immola alle Termopili con i suoi trecento spartiati per sbarrare la strada ai
Persiani, ed Aristotele che si pone al servizio di Filippo II di Macedonia, il re straniero che minaccia
l’indipendenza delle città greche.
L’aspetto più interessante e forse più rilevante della sapienza greca è il suo contenuto etico, che
è bene illustrato da un episodio riguardante Solone, forse il più noto dei Sette Savi della tradizione
ellenica. Solone fu invitato alla corte di Creso, il re di Lidia il cui stesso nome è diventato sinonimo di
ricchezza. Dopo avergli mostrato i suoi tesori, Creso chiese al saggio greco se riteneva che egli fosse
un uomo felice. Solone rispose negativamente, ed allora Creso gli domandò:
“Chi conosci tu più felice di me?”
Solone rispose citando un qualsiasi cittadino ateniese che aveva onorevolmente servito la sua
città in guerra, era onesto e stimato dai suoi concittadini, aveva una moglie fedele e dei figli devoti.
Anni più tardi, Creso mosse guerra a Ciro, il re dei Persiani e fu pesantemente sconfitto e catturato.
Mentre stava per essere messo a morte, invocò ripetutamente il nome di Solone, avendo finalmente
compreso l’insegnamento del saggio greco. Incuriosito da quell’invocazione, Ciro chiese a Creso di
che si trattasse, e questi gli narrò dell’incontro avvenuto anni prima con il sapiente greco. Allora il re
dei Persiani graziò Creso e lo perdonò, pago di poter godere almeno del riflesso della saggezza di
Solone.
Vivere secondo virtù è per la Sapienza greca l’unico modo per essere felici, una virtù concepita
allo stesso modo della virtus romana come conformità alla propria natura, e l’uomo non è separabile
dal cittadino, né la virtù dall’esercizio dei doveri civici. Tale separazione, ci spiegherà più tardi J. J.
Rousseau, avviene con il cristianesimo ed è caratteristica di esso.
Democrito sottolinea il valore della libertà per l’uomo:
“Preferisco vivere libero e povero in una democrazia, piuttosto che essere uno schiavo ricoperto
d’oro sotto una tirannide”.
Sotto una tirannide, infatti, non si può nemmeno dire di essere ricchi ma solo degli schiavi
coperti d’oro, poiché il tiranno può toglierti in qualsiasi momento quel che ritieni tuo.
Naturalmente, fosse vissuto nella nostra epoca, avesse conosciuto le nostre democrazie piene di
limitazioni alla libertà di pensiero, nelle quali esiste il reato d’opinione, Democrito si sarebbe reso
conto che “democrazia” può ben essere il nome di una tirannide ipocritamente mascherata.
La sapienza greca o la filosofia presocratica (la seconda è il prolungamento della prima) sono ben
consce della tragicità dell’esistenza in termini tali che il giudizio di De Rougemont che le vede
“difficilmente conciliabili” con il cristianesimo, è in effetti una sottovalutazione.
Fabio Calabrese
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“Da dove i viventi hanno origine”, spiega un memorabile frammento di Anassimandro, “là essi
necessariamente ritornano. Essi pagano l’uno all’altro il fio dell’ingiustizia commessa vivendo”.
L’esistenza è una catena ciclica cui i viventi, ossia tutti noi, siamo connessi, destinati a tornare là da
dove siamo venuti nell’eterno ripetersi di nascite e morti. Vivere significa commettere ingiustizia,
causare e ricevere dolore, un’ingiustizia di cui tutti noi salderemo immancabilmente il conto con il
nostro trapasso.
Eraclito ha scritto che “Omero ed Esiodo che supplicavano gli dei di dare pace al mondo, non
erano consapevoli di pregare per la sua morte”, poiché l’essenza stessa della vita è il conflitto. “La
guerra è madre e regina di tutte le cose”; non la guerra che talvolta gli uomini si fanno, ma la lotta
incessante tra predatori e prede, la morte di alcuni che è la sopravvivenza per altri, ed è essa a
generare le cose ed i viventi, a costruire i tipi più elevati, e pare quasi di toccare con venticinque
secoli d’anticipo il concetto darwiniano di selezione naturale. (Non a caso, Darwin è ancora oggi così
odiato dai fondamentalisti religiosi).
E’ una visione che potremmo definire un nichilismo aristocratico, capace di osservare con occhio
lucido tutta la tragicità e la precarietà della condizione umana senza cercare scappatoie
soprannaturali, è una visione che presuppone un’umanità sana che riesce ad apprezzare gli aspetti
positivi dell’esistenza pur essendo conscia della loro caducità, laddove il cristianesimo vuole l’uomo
malato per poterlo “redimere”.
A partire da Aristotele abbiamo la filosofia nel senso che ci siamo abituati a dare a questa parola,
come narcisistico esercizio intellettuale nel quale, come ebbe a dire Cicerone, “riceve maggiore
considerazione chi inventa una stranezza nuova, che chi ripete una verità già detta da altri”, la
cultura del mondo cosmopolita “globalizzato” ante litteram creato dalle conquiste di Alessandro,
dove s’infiltrano sempre più elementi non greci e non europei, i cui fermenti di dissoluzione si
attaccheranno come un contagio al mondo romano dopo che quest’ultimo l’avrà politicamente
assoggettato, il “terreno di coltura” su cui si svilupperà il cristianesimo. E’ senz’altro questo il
“pensiero greco” cui guarda Ratzinger.
Noi dobbiamo ribadire che le radici dell’Europa, quelle vere: il pensiero greco (quello autentico,
non la sua contraffazione ellenistica), Roma, il mondo celtico e quello germanico, non sono cristiane,
sono europee.
“Non si può dire”, ha detto qualcuno, “Se una rinascita del paganesimo in Europa sia oggi
possibile, di certo è necessaria”.
Negli ultimi anni i segnali che fanno presagire una tale rinascita, non hanno fatto altro che
moltiplicarsi. Cominciamo a scorgere la luce in fondo al lungo tunnel durato due millenni; il nostro
continente sta cominciando forse a ritrovare il contatto con le sue vere radici spirituali
Fabio Calabrese
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