LA STORIA ED IL CONCETTO DI BIOETICA
Tratto da: Rosalia AZZARO PULVIRENTI, La storia ed il concetto di Bioetica in: R.AZZARO et
al., Bioetica: le ragioni della vita e della scienza, in Prometheus n°22, 1996, pp.234, pp.26 – 53.
Cos'è la Bioetica?
Se tutti sanno cos'è la Bioetica, nessuno forse è in grado di precisare esattamente in che consista
Tale handicap è connaturato alla "giovane età" ed alla natura specifica della Bioetica, generata dal
connubio tra scienze non omologhe, ma anche dal modo di intenderla: si tratta di una ricerca
sistematica, in grado di fornire orientamenti nuovi e normativi, o solo di uno spazio aperto ad ogni
tipo di analisi descrittiva dei problemi morali, connessi all'ambito delle scienze della vita ed al
diritto relativo?
Una difficoltà reale consiste nel fatto che in ultima analisi, la Bioetica è riflessione morale da
applicare all'uomo stesso, più che a determinati "casi" o problemi medici o scientifici, da applicare
cioè da parte di un essere umano sulla pelle, per così dire, di altri esseri umani (o animali): questo
ha in sé un'enorme valenza, quand'anche non sia immediato il riflesso di un'azione o di una scelta
specifica ed il suo raggio possa estendersi ad un essere vivente in via di sviluppo o a generazioni
ancora da venire.
Un primo punto può essere concordato nell'affermazione che l'etica è per l'uomo, e non viceversa; e
questo proprio in quanto la libertà e quindi l'azione morale prendono origine dalla natura
intellettuale e morale dell'essere umano (è questo il significato corrente di "umanità", in senso
personale): natura umana universale, appartenente a tutti gli uomini e base dei diritti fondamentali
di ogni uomo.
Da ciò risulta chiaro anche, che la bio-etica non può prescindere dall'avere come fondamento la
ricerca sull'uomo stesso, sull'integralità specifica della sua natura. Non è possibile cioè eludere una
solida antropologia filosofica; in questo senso la prepotente "debolezza" del pensiero
contemporaneo potrebbe rivelarsi il tallone d'Achille della Bioetica stessa.
Ma un primo passo utile verso "l'accertamento d'identità" della Bioetica, è un breve excursusdella
sua genesi e dei primi sviluppi. Si tratta di una storia di fatti ma naturalmente anche di concetti,
quelli che reggono le correnti del pensiero etico, molto diversificate negli ultimi decenni. Su questo
duplice piano si svolgerà la nostra breve indagine.
I primi passi
I primi passi verso il riconoscimento della necessità di un'<etica per la vita> formalmente condivisa,
per tutelare anche giuridicamente l'essere umano dal rischio di essere assoggettato in ambito
medico-scientifico ad altri fini, che non lui stesso (fini scientifici, di Stato, di commercio, di arbitrio
individuale etc.), sono stati compiuti nella seconda metà del nostro secolo a seguito del Processo di
Norimberga; quando la World Medical Association, federazione di associazioni nazionali di medici,
adottò due codici di etica: la Dichiarazione di Ginevra del 1948, contemporanea alla Carta dei
Diritti dell'Uomo promulgata dall'ONU, ed il Codice Internazionale di Etica Medica del 1949.
La Dichiarazione si modellava coscientemente sul Giuramento di Ippocrate (il medico lavora per il
beneficio del paziente secondo l'abilità ed il giudizio propri), ma aggiungeva un nuovo impegno:
"La salute del mio paziente sarà la mia prima preoccupazione" (my first consideration).
In seguito si ebbe la nascita dell'OMS ed emersero numerosi Documenti, elaborati nelle moderne
Costituzioni e da Organismi internazionali ed europei, fino ai più recenti in materia dichiaratamente
di Bioetica.
Le origini del dibattito
Il dibattito che sta alla base di ciò che definiamo "Bioetica", è oggi scientifico e legislativo,
filosofico e teologico, ma non é solo accademico, caratterizzato com'è dal fatto di essere sortoa
latere della cronaca di eventi scientifici e medico-sociali, intrecciandovisi continuamente.
Esso si è irraggiato soprattutto dal mondo anglosassone, per motivi di ordine storico-teoretico e per
la specifica configurazione di quel tipo di società, caratterizzata dall'accelerato progresso
scientifico-tecnologico, la preminenza riconosciuta al valore della libertà individuale, la rapida
evoluzione multietnica con l'incrocio di diverse culture e concezioni etiche; tutti elementi che hanno
evidenziato l'esigenza di una dimensione etica diffusa e condivisa, come indispensabile integrazione
della visione della realtà offerta dalle scienze biomediche e sociali.
Coll'accrescersi dell'esponente potenziale di quei fattori, infatti, è cominciata a cadere la radicata
convinzione che il progresso scientifico sia comunque benefico per l'umanità (e per la biosfera, data
l'acuita sensibilità ecologica); i dubbi in tal senso si sono accentuati per l'uso industriale, oltre che
militare, dell'energia atomica. Si è cominciato quindi ad intravedere come reale il pericolo che il
"progresso" possa volgersi contro l'essere umano, contro la sua vita ed il rispetto dovuto ad identità
e libertà personali; da cui il fondato timore che un indiscriminato progresso scientifico, tecnologico
e tecnocratico, possa avere implicazoni negative ad ogni livello: etico e biologico, sociale e legale,
economico e politico.
L'assolutezza dei dati e delle teorie scientifico-sperimentali, d'altra parte, era stata messa in crisi già
da tempo, potremmo dire a partire dalla nuova fisica di Einstein; da un punto di vista teorico, poi,
essa era stata messa in discussione dall'empirismo logico dei filosofi analitici, nati dal Circolo di
Vienna, ed in seguito dalla teoria della "falsificabilità" di Karl Popper., che come tutti sanno ha
avuto un'eco considerevole nell'ambito della filosofia della scienza del XX secolo.
A sua volta, l'inoppugnabilità dell'equazione "possibilità = libertà di fare", cominciava ad essere
fortemente scossa, oltre che dalle contestazioni tradizionali, dai suoi esiti anche sociali tutt'altro che
positivi.
Radici filosofiche dell'etica medica anglosassone
Da un punto di vista teoretico, l'annotazione linguistica di una distinzione evidente nella lingua
inglese, tra ethic (= etica come morale) ed ethics (etica come filosofia morale), suggerisce la
differenza presente nella mentalità anglosassone tra una morale reale o pratica suggerita dalcommon
sense ed una riflessione morale astratta o di tipo razionale, che non può che dar luogo a varie
"filosofie" ed etiche, tutte relative, in quanto la verità o non esiste o è impossibile conoscerla: in
campo morale da questa impostazione deriva la cosiddetta "etica senza verità".
Tale impostazione deriva naturalmente dalla teoria empiristica della conoscenza (nata e cresciuta,
com'é noto, in terre anglosassoni), secondo la quale non é possibile conoscere nessuna verità
oggettiva se non di tipo sperimentale e perciò a fine utilitaristico: da cui il positivismo logico
abbinato al pragmatismo, che hanno avuto non poca influenza sulla Bioetica di lingua inglese, i cui
"filosofi morali" sono prevalentemente al seguito della filosofia analitica anglo-americana,
attualmente riferita dalla comunità Bioetica, con qualche ambivalenza, come "principalismo".
La critica di Hume al ragionamento induttivo (generalizzare i dati verificati sperimentalmente), il
quale non può avere secondo lui una certezza deduttiva, si estendeva infatti alla sfera etica: non
avrebbe senso quindi parlare di una verità morale o norma oggettiva, fondante l'agire, perché essa
non avrebbe alcun fondamento sulla realtà o almeno non sarebbe possibile accertare un
collegamento reale tra l'ought, ciò che si deve fare, e l'is, ciò che è.
Nell'effettuare questo salto indebito si cadrebbe nella naturalistic fallacy, espressione di Hume
ripresa dal "convenzionalismo" e portata in auge da gran parte dell'etica utilitarista contemporanea
di lingua inglese, e di riflesso italiana.
Il pregiudizio di partenza che vizia tale ragionamento, in base al quale ogni etica fondata sull'essere
umano reale vien ad essere tacciata di "dogmatismo", consiste in quella separazione tra rex
cogitans e rex estensa, dopo la quale non si riesce più a vedere nell'uomo stesso, proprio
quell'essere sui generis nel quale ed in base al quale bios ed ethos in realtà coesistono già, di fatto
(anche se non esattamente, data la differenza specifica). Non si compie dunque alcun "salto' nel
voler trapassare da una natura umana universale tale quale è-non solo materiale (extensa) ma anche
morale (cogitans)-alla considerazione di ciò che l'uomo devefare o non fare per essere veramente
"umano".
L'impostazione empirica, che nega la possibilità di passare da un fondamento reale (is) ad una
norma oggettiva dell'agire (ought), finisce così per negare, si potrebbe dire, la stessa bio-etica.
Anche di questo non è difficile trovare una conferma pratica di tipo semantico: recentemente si è
cominciato a prediligere, al suo posto, il termine bio-medica.
Dal punto di vista del ricontro storico, è stato di recente ricordato che l'influenza della concezione
filosofica dell'empirismo sull'etica medica ha lontane radici: "Nei tempi moderni il primo maggior
interesse nell'etica medica nel mondo Anglo-Sassone apparve nel diciottesimo secolo; l'esempio più
importante di un'etica medica di vasta portata é Lectures on the Duties and Qualifications of the
Physicians di John Gregory (1724-1773). Esso non dipende così tanto dalla tradizione Ippocratica
quanto dal più ampio pensiero filosofico del tempo, insclusi i moralisti Scozzesi come David Hume
e Frances Hutcheson". Questo riferimento alla morale empirica, collegata non ad un fondamento
universale ma ad un fine collettivo, rimane nel corso del tempo una costante dell'etica medica
anglosassone, che ha influenzato anche i Codici dell'American Medical Association.
Un primo frutto dell'e tica del tempo infatti, lo "schema di condotta professionale" Medical
Ethics (1789) di Thomas Percival, "diventa il fondamento dell'etica medica professionale AngloAmericana. Esso ha molti tratti in comune con il Giuramento Ippocratico, ma ci sono alcune
differenze di fondo. Esso focalizza molto dippiù l'etica istituzionale circa la cura della salute (...)Le
virtù religiose di purezza e santità del Giuramento d'Ippocrate sono rimpiazzate con le virtù <<che
sono essenziali al carattere di un gentleman>> (Percival 1927, 63), il medico deve <<unire la
delicatezza con la fermezza, la condiscendenza con l'autorità>> (Percival 1927, 71)". Mezzo secolo
più tardi la medicina americana fu coinvolta in una disputa tra diverse scuole: i documenti
testimoniano la grande preoccupazione dei professionisti ortodossi di distinguirsi da altri "selfconstituted" o praticanti di vario genere". Ciò diede luogo nel 1847 alla "Convenzione di
Philadelphia", dalla quale nacque l'American Medical Association (AMA) e fu varato il Code of
Medical Ethics, che seguiva come modello ilMedical Ethics di Percival: interi paragrafi sono usati
parola per parola; contiene tre sezioni che cominciano con"Dei doveri dei medici verso i loro
pazienti, e degli obblighi dei pazienti verso i loro medici", cui segue: "Dei doveri dei medici l'un
l'altro, e verso la professione in genere.
Dopo varie revisioni (1903, 1912, 1947) nel 1957 fu adottato un formato interamente nuovo,
denominato: <<Principles of Medical Ethics>>, che adottando succinti principi al posto di
documenti prolissi, varava di fatto quel principlism destinato a diventare una precisa tendenza della
Bioetica, non solo americana: che in mancanza di un riferimento a valori stabilisce una gerarchia di
principi generali "e talvolta banali", come quelli che raccomandano di <<rendere servizio
all'umanità>>. In esso "si attenua il linguaggio nel condannare altri professioniti come nonscientifici, e, in contrasto con il Giuramento d'Ippocrate, venne riconosciuta una chiara
responsabilità alla società tanto quanto all'individuo". Proprio in quegli anni, si aprivano le
primissime discussioni che si potrebbero definire senz'altro di "Bioetica", e che portarono "al più
sostanziale cambiamento nella storia dei codici di etica per medici", in quanto basato sui "diritti"
più che non sui "doveri" di medici e pazienti.
La ratifica ufficiale di tale tendenza si ebbe nel 1980, con la più recente revisione dei "Principles",
adottata nel 1981 dall'American Medical Association previo giudizio del suoJudicial Council; il
quale nel 1984 aggiunse come postille alcuni principi: sul dovere della riservatezza (AMA 1984, 19)
con eccezioni riguardo al benessere dell'individuo o della società (AMA, 1984, 26) e sulle riserve
circa il diritto al consenso informato come "controindicato", quando esso costituisca "una seria
minaccia psicologica a detrimento del paziente (AMA, 1984, 30).
"La vecchia nozione ippocratica che l'informazione può essere <<medicalmente controindicata>>
quando potrebbe sconvolgere il paziente, riprende la precedenza ancora una volta sulla nozione
filosofica più liberal del rispetto per l'autonomia individuale del paziente": ; l'esperienza ha
insegnato che non si aiuta né si tutela meglio il paziente (anche nei riguardi delle assicurazioni
sanitarie), accollandogli una responsabilità di cui il medico non può e non deve privarsi, e di cui lo
stesso malato- in ovvie condizioni di inferiorità- spesso si attende che egli si faccia carico.
Da tutto ciò comincia ad emergere la necessità di confrontare le varie dimensioni del reale,
sottoposte alla pressione del progresso economico e scientifico, con il valore supremo che vi é in
gioco, lo stesso essere umano nella sua integralità. Ed è proprio l'autentica istanza etica (una
riflessione di tipo morale che è insieme antropologia filosofica), quella che tiene il massimo conto,
come suo soggetto-oggetto, dell'uomo in tutta la sua complessità ed interezza.
Impresa scientifica ed ambito politico
La competenza tornerebbe insomma agli esperti del settore delle scienze sperimentali (biologi,
medici, etc.), mentre al vecchio paternalismo medico verrebbe a sostituirsi un nuovo paternalismo
politico-scientifico, in cui la scienza in un primo momento di nuovo "diventa una sorgente ed un
arbitro di sistemi, di valori e di convinzioni al più alto livello..."; in seconda battuta viene assunta
come "sistema sociale dinamico" tra i più potenti. In conseguenza di ciò, a scienziati e medici
opportunamente supportati da "eticisti" spetterebbero, sotto forma anzi di "dovere", alcune
competenze fondamentali (come quella di far nascere solo "bambini perfetti").
Il movimento verso un diffuso riconoscimento della dimensione sociale della conoscenza
scientifica, che nelle discussioni teoriche sembrava aver fiaccato la sua sicurezza, di fronte invece
alle conquiste dell'ultimo trentennio ed in mancanza di una corrispettiva responsabilità morale di
tipo adeguato, sembra così culminare nell'assunzione dell'impresa scientifica e del suo metodo
specifico, come protagonista anche in campo socio-politico.
L'equilibrio, nell'ambito delle scelte di tipo morale, dovrebbe essere garantito da uno "spettatore
simpatetico imparziale", invenzione dell'utilitarismo classico: un osservatorio "oggettivo" per
trovare il criterio morale, dal cui punto di vista giudicare le situazioni concrete, in vista di quel
calcolo dei costi e benefici che possa realmente incidere sul "massimizzare" il benessere e
"minimizzare" le sofferenze, del maggior numero di individui.
Restando però la necessità di una normative ethics -termine che sta per "l'etica considerata come
scienza pratica o come raccomandazione delle norme da seguire"- è stato in proposito teorizzato,
dal neo-utilitarismo, il cosiddetto "utilitarismo della norma", che allarga la considerazione dal
semplice atto alle conseguenze della norma; "perciò considera giuste soltanto quelle azioni che sono
conformi a norme che possono essere sostenute in base a motivi utilitaristici". Esso propone di
sostituire al modello dello "spettatore" quello del "postulato di equiprobabilità", strumento che
dovrebbe garantire al giudizio o preferenza morale i requisiti di "imparzialità" ed "impersonalità",
volti non all'interesse personale ma piuttosto collettivo.
In conclusione, la distinzione tra ethic, o morale vera e propria di carattere individuale o di un
gruppo determinato ("moralità secolare") ed ethics, o discussione morale astratta che si intreccia
con una normativa da parte dagli Stati ("autorità morale secolare"), ha dato luogo a due tipi di
orientamento: l'uno, per il quale molte norme non sono di competenza morale dello Stato, come
quella circa la vendita di organi del corpo umano: "La ragione che porta a tollerare la vendita di
organi o l'offerta di incentivi finanziari non ha a che vedere con che cosa sia bene fare, ma con
quale forma di coercizione può essere impiegata da uno Stato secolare".
Secondo l'altro orientamento, affine al primo, la Bioetica è vista come "un luogo di incessante
elaborazione e confronto, senza immediate finalità normative, ma con l'obiettivo di fornire i
materiali necessari perché, se e quando appaia necessario, si giunga a definire sistemi normativi
diversi ed eventualmente integrati, affidati alla regola legislativa o amministrativa o giudiziaria, alla
deontologia, alla persuasione morale, al controllo sociale".
In conseguenza a tale impostazione si ipotizzano, per esempio, non solo come leciti ma giusti
gli screenings generalizzati, anche ad insaputa dei soggetti interessati: "Dove esiste un'assicurazione
sanitaria nazionale, la società e forse anche il governo potrebbero però esercitare pressioni al fine di
non avere bambini affetti da malattie lunghe e costose (...)Sono stati individuati dei geni definiti già
come il gene dell'omosessualità, il gene della violenza o il gene dell'alcolismo. Si dovrà
<<sistemarli>> tutti?".
Con la discussione sui vari problemi suscitati dalle diagnosi a tappeto (screenings), prenatali in
particolare, si riapre naturalmente "la controversia intorno al carattere eurocentrico del sistema dei
diritti fondamentali, all'autoritarismo che sarebbe latente nella logica universalistica, alla negazione
del pluralismo culturale che ne deriverebbe": questione dalle molteplici sfacettature, ma tutt'altro
che irrilevante, di cui appare però fin troppo facile disfarsi tramite l'uso retorico di condizionali e
affermando che "non é certo il caso di riaprire qui" (ivi).
Oltre all'influsso della filosofia empirica, è stato d'altronde notato che "un significativo numero di
medici e scienziati "particolarmente dei più anziani, sono stati potentemente influenzati dal
positivismo degli anni intorno al 1930. Si ha la sensazione di sentire sempre in sottofondo A.J.Ayer
- che c'era la scienza, che era solida e reale e sviluppava vera conoscenza, e che c'era l'etica, che era
religione, soggettività, questione di gusto, emotivismo, ma non un soggetto per un pubblico
discorso".
Appare oggi evidente come si corra il rischio di accentuare questa divaricazione tra "etica", ed
"etiche" regolamentate in vari modi dallo Stato, in definitiva secondo l'unico dogma del pluralismo
escludente ogni altra possibilità, ed un'unica norma: stare alla maggioranza dei consensi;. Ma quel
che é il caso di notare, è che questo trend sta assumendo una precisa direzione a favore del libero
mercato, come è stato sottolineato da Alain Touraine nel proporre una sua interpretazione delle
tendenze attuali: "La société et l'Etat se separent: la première se tourne vers l'éthique, le second vers
l'économie internationale".
Bioethics: nascita ed antefatti
Il termine Bioethics (bios +ethos) fu usato per la prima volta come é noto nel 1971 dall'oncologo
americano Van Rensselaer Potter, in un'opera dal titolo significativo: Bioethics, Bridge to the
future: per segnalare un nuovo ramo del sapere, capace di servirsi delle scienze della vita per
migliorare la "qualità della vita", con particolare riferimento alle responsabilità verso il futuro
dell'umanità; egli vede la Bioetica come una "urgente e necessaria sapienza atta a provvedere
all'indagine di come usare il pensiero per una più responsabile presenza dell'uomo nella promozione
delle qualità della sua vita".
Tale concetto astratto ma polivalente di "qualità", che nasce all'interno degli studi socio-economici
per poi emigrare in lidi ideologico-culturali (dall'ecologia alla "medicina dei desideri"), finirà con
l'assumere un suo peso specifico nell'ambito della Bioetica: fino a costituire un elemento
discriminante delle "nuove etiche", che privilegiano l'individualismo nelle scelte circa la "qualità
della vita", quasi in contrapposizione all'etica medica ed alla deontologia tradizionali, che
privilegiano il concetto di assoluta "non-disponibilità" (ovvero "sacralità") della vita umana di
qualsiasi tipo, da parte di chiunque, e tengono in massima considerazione un concetto più comune
di bene, nonché di "bene comune" non coincidente con quello grossolano di "benessere generale".
La stessa interpretazione che Potter da alla dizione "qualità della vita" va per esempio, come egli ha
chiarito, nel senso di "qualitativa presenza dell'uomo nella storia".
Proprio agli inizi degli ani '70 si cominciava ad avere notizia di sperimentazioni senza scrupoli,
come l'innesto di cellule tumorali su anziani (Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklin, 1966) o
l'iniezione di virus dell'epatite B su bambini (Willbrook State Hospital di New York, 1971),
effettuate ad insaputa dei pazienti.
Determinanti dal punto di vista bioetico furono però anche altri fattori, come la grande scoperta
scientifica (1971) del DNA ricombinante, con le conseguenti possibilità sia di geneterapia che di
interventi alterativi del patrimonio genetico; come anche la messa a punto di "facili" tecnologie
riproduttive, che diedero luogo nel 1976 in Inghilterra alla nascita della prima "bambina in
provetta".
Ma se ad allora risale l'imposizione del nome e la vita "ufficiale" della Bioetica come materia di
studio, è nel campo della riflessione teologica che essa trova storicamente la sua prima origine il
dibattito sulle questioni etiche relative alle scienze biologiche ed alle loro applicazioni; i filosofi
hanno poi dato "un apporto notevole" allo sviluppo, se non proprio "alla nascita" della Bioetica
"come campo di ricerca specifico".
Esso comincia in embrione nel 1954 con la pubblicazione di Moral and Medicine del teologo
episcopale Joseph Fletcher, intervento decisivo in quanto impostato non sulla morale riferita al
Decalogo, pilastro etico-giuridico della civiltà occidentale, ma sui <<diritti umani>>:
"Tesi fondamentale: fare libere scelte, basate sulla conoscenza delle opzioni disponibili. Si
sviluppano pertanto alcune proposizioni, definite "diritti del malato":
Diritto di conoscere la verità (diagnosi)
Diritto di controllare paternità e maternità (contraccezione)
Diritto di vincere la sterilità (inseminazione)
Diritto di impedire la riproduzione (sterilizzazione)
Diritto di morire (eutanasia)".
La profonda presa che la Bioetica ha esercitato specialmente negli ultimi anni, dipende secondo
alcuni proprio dal fatto che essa ha parlato tale "linguaggio dei diritti" (a fronte di istituzioni e
tecnologie come quelle sanitarie, divenute sempre più potenti); linguaggio familiare all'attuale
contesto occidentale, più che non quello delle virtù e dei doveri, tipico della tradizione etica sin dai
tempi di Ippocrate.
Tra il 1956 ed il 1970 si sviluppa un vivo dibattito tra lo stesso Fletcher ed il teologo metodista Paul
Ramsey (autore di Patient as Person e Fabricated Man), che si oppone alle conclusioni radicali del
primo in materia di libertà di scelta.
A Pio XII viene riconosciuto il merito di aver aperto, nel 1958, la questione della morte cerebrale
(brain death), per chiudere la quale si formò nel 1968 il primo Comitato di Bioetica, presso
l'Harvard Medical School.
Intanto tutta l'etica teologica riceve un nuovo impulso dal Concilio Ecumenico Vaticano II (19621965), che imposta un diverso modo di rapportarsi tra la Chiesa cattolica, la sua dottrina morale, e
tutte le altre realtà, laiche o religiose.
"L'istanza moderna di autonomia non ha mancato di esercitare un suo influsso anche nell'ambito
della teologia morale cattolica. Se questa, certamente, non ha mai inteso contrapporre la libertà
umana alla legge divina, né mettere in questione l'esistenza di un fondamento religioso ultimo delle
norme morali, è stata però provocata ad un profondo ripensamento del ruolo della ragione e della
fede nell'individuazione delle norme morali che si riferiscono a specifici comportamenti
<<intramondani>>, ossia verso se stessi, gli altri e il mondo delle cose.
Si deve riconoscere che all'origine di questo sforzo di ripensamento si trovano alcune istanze
positive, che peraltro appartengono, in buona parte, alla miglior tradizione del pensiero cattolico.
Sollecitati dal Concilio Vaticano II si è voluto favorire il dialogo con la cultura moderna, mettendo
in luce il carattere razionale-quindi universalmente comprensibile e comunicabile, -delle norme
morali appartenenti all'ambito della legge morale naturale. Si è inteso, inoltre, ribadire il carattere
interiore delle esigenze etiche che da essa derivano e che non si impongono alla volontà come un
obbligo, se non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della
coscienza morale".
E' da notare, che il primo esempio nella storia della Bioetica di una Commissione consultiva ad hoc,
è rappresentato dalla "Commissione Pontificia di studi sulla famiglia, la popolazione e la natalità",
composta da vari esperti anche "laici", la quale espresse oltre ad un rapporto di maggioranza uno di
minoranza, scelto poi da Paolo VI per l'elaborazione dell'Humanae vitae.
Nel 1967 il National Institut of Health fonda un comitato istituzionale per il controllo della ricerca
sui soggetti umani, mentre l'Index Medicus, fonte bibliografica primaria nelle scienze mediche,
comincia a catalogare gli aspetti etici.
Mentre assume un deciso avvio quel processo di "emancipazione" del paziente dal "paternalismo"
medico (che troverà in seguito una precisa espressione, nel riconoscimento del diritto del malato al
"consenso informato"), se fra il 1970 ed il 1975 l'etica teologica aveva svolto un ruolo determinante
nei lavori della "National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and
Behavioral Research", in seguito nella discussione prendono sempre più spazio i filosofi sociali e
morali, sempre più attenti a mettere in rilievo i pericoli morali di un'accettazione acritica, o poco
riflessiva, delle conquiste della medicina. Fu così che, secondo il provocatorio titolo di uno di essi,
"la Medicina salvò la vita all'Etica",
Nel 1969 sorgono in America i primi Centri di studio e ricerca dedicati alla Bioetica: Ramsey ed
Andre Hellengers fondano a Washington, presso la Gerogetown University, il Joseph and Rose
Kennedy Insitute for the Study of Human reproduction and Bioethics, più noto in seguito
come Kennedy Institute of Ethics; esso dà il via nel 1978 all'Encyclopedia of Bioethics, che diviene
un fermo punto di riferimentodella riflessione Bioetica;
Daniel Callahan, filosofo di Harward, insieme allo psichiatra Will Gaylin, fonda a New York
l'Institute of Society, Ethics and the Life Sciences, meglio noto come Hastings Center, che dal
giugno 1971 ha un prezioso strumento di diffusione e informazione Bioetica nella rivistaHastings
Center Report.
Intorno al 1970 si accende intanto il dibattito sul tema dell'aborto (che sta per venire legalizzato
anche nei paesi dell'Occidente): la Kennedy Foundation "da una svolta Bioetica ale sue attività con
la promozione di una <<Conferenza Internazionale sull'Aborto>> in Washington DC e col supporto
di istituzioni come la Carrol House nel John Hopkins Hospitaldi Baltimora dove Hellegers
lavorava. Con la sponsorizzazione della Kennedy Foundation, Hellegers lascerà Baltimore per
fondare a Washington DC il Kennedy Institute".
La legalizzazione dell'aborto segnerà per l'etica medica un silenzioso ma potente discrimine
riguardo al passato: per la prima volta i medici sono chiamati a contravvenire al Giuramento di
Ippocrate (che imponeva al medico di non agire mai contro la vita), effettuando un atto che in effetti
non si può qualificare "medico", in quanto non "cura" nessuno ma invece, "eliminando" qualcosa o
qualcuno, si limita ad impedire quello che la medicina e la morale hanno sempre considerato un
evento naturale e non patologico, come il parto (evento qualificato comunemente come "lieto", data
la nascita di un nuovo essere umano)
Una tale impostazione si poteva giustificare legalmente con quel codicillo, aggiunto nel 1948 nella
Dichiarazione di Ginevra che recitava: "La salute del paziente sarà la mia prima considerazione". Si
privilegiava la "salute" piuttosto che non la "vita" in tale codicillo, memori del crudele
mantenimento in vita di cavie umane nei lager); quando si abbandona però la protezione della
"vita" in alternativa a quella della salute, almeno nominalmente il senso dell'attività medica può
essere salvo: essa è pro-patient..
Una sottile ma netta conseguenza di questa rottura dell'impegno pro-life del medico, può essere
vista nel diverso orientamento che assume da allora il rapporto medico-paziente: il quale, da una
parte nutre minore fiducia nella professione medica come "missione" al servizio della vita, dall'altra
comincia a considerare il medico come operatore "tecnico" al servizio non solo della necessità di
cure, ma dei propri desideri, per quanto concerne la salute, il corpo, la bellezza etc.
La logica del contrattualismo
Come esito di questa impostazione, una larga parte della mentalità comune si andò orientando,
specialmente in Occidente, verso il contrattualismo: qualsiasi intervento é lecito purché frutto di un
libero accordo anche economico tra le parti, tra medico e paziente per l'eutanasia, per esempio, o tra
"donatore" povero e ricco bisognoso di organi umani, di materiale organico o genetico, di "utero in
affitto", etc.
La discussione sul carattere morale o semplicemente umano, di determinate scelte nell'ambito delle
scienze applicate alla medicina, viene a confluire ed a trasformarsi però, in questo modo, nella più
ampia questione a riguardo della giustizia sociale nell'accesso alle cure sanitarie in generale.
Nel 1971 l'opera A theory of justice di John Rawls apre un nuovo indirizzo nel pensiero eticosociale, non solo di lingua inglese, in quanto critica la teoria utilitaristica (carattere peculiare come
si è visto dell'etica anglo-americana, in ambito medico-scientifico), sostenendo che essa subordina il
"giusto" al "bene" (o benessere sociale).
La giustizia é invece per lui il valore intrinseco, il primum da cui va fatto dipendere il bene, che é
nient'altro che la "giustizia come equità"; esso non può essere subordinato alla "massimizzazione"
dell'utilità o della "felicità", la quale non può essere leggittimamente perseguita passando attraverso
la violazione dei principi di giustizia.
L'alternativa che egli propone all'utilitarismo è proprio il contrattualismo; esso "prende le mosse
dalla determinazione delle procedure migliori per stabilire i "principi" di giustizia, e cioè i principi
normativi fondamentali in base a cui regolare i rapporti sociali. Questi principi di giustizia possono
essere individuati immaginando che a sceglierli siano individui collocati in una ipotetica
<<posizione originaria>> che garantisce l'imparzialità della scelta in quanto un <<velo di
ignoranza>> impedisce agli individui di sapere quale sarà nella vita e nella socità la loro posizione
relativamente ai beni primari: la salute, la ricchezza, la cultura, la razza, la classe sociale, ecc.
I principi di giustizia stabiliti da questa<<posizione originaria>> comprendono <<l'uguale diritto
alla più estesa libertà fondamentale compatibilmente con una simile libertà per gli altri e
l'accettazione di ineguaglianze economiche e sociali, a patto che siano previste per il beneficio dei
più svantaggiati>>".
Un'impostazione di questo genere certo non esclude la realtà di forti gruppi interessati, che si
stabiliscono come privilegiati.
Utilitarismo: razionale e democratico?
Da un più attento esame, si può rilevare come anche l'utilitarismo di tipo contrattuale, favorisca una
vera e propria estrapolazione dei valori etici dalla dimensione razionale più tipicamente umana, in
una direzione non esattamente democratica.
In primo luogo perché i compiti dell'intelligenza ragionante non si riducono a quelli della
razionalità "calcolante", che calcola cioè il rapporto costi-benefici o l'equilibrio delle utilità e delle
libertà reciproche: capacità questa comune anche all'intelligenza artificiale opportunamente dotata
di dati e programmi. Non a caso ultimamente si é cominciato a chiedersi: "Può una cultura
tecnocratica essere democratica?". Ad una prima riflessione sull'interesse pubblico, comparato agli
interessi scientifici ed industriali, appaiono una serie di risposte che orientano verso una precisa
direzione: una società tecnologica può essere democratica, ma a condizione che la sua cultura non
sia tecnocratica, che la sua politica culturale e scientifica si assuma la responsabilità di stimolare
una pubblica e libera riflessione e discussione su temi d'interesse generale, come la Bioetica, alla
ricerca di un autentico "bene comune": e non si riduca, invece, ad elaborare processi di regolazione
volti a manipolare domande opposte. Nel qual caso, l'autorità di governo non verrebbe limitata dal
riconoscimento di diritti personali, ma dalla legittimazione di preferenze individuali o di gruppo:
come in fondo vuole l'etica dell'utilitarismo.
In secondo luogo, come è vero che l'intelligenza e l'umanità di un individuo non si limitano alla sua
capacità di astrazione, calcolo ed elaborazione simbolica, così è evidente che l'esperienza etica non
può ridursi ad essere il frutto di un contratto che gli uomini avrebbero interesse a stabilire, per
garantirsi reciprocamente libertà e sicurezza ognuno per sé medesimo, magari delegando alcuni
"migliori" tra loro, più "illuminati" od a ciò "deputati", a stabilirne i termini.
Al contrario, segno e misura della dimensione intellettuale e morale presente per natura in un
individuo del genere umano, e perciò della sua libera responsabilità, é stata sempre vista la sua
capacità di aprirsi al richiamo dell'altro - da - sè; anzi, come è stato detto, del "volto" dell'altro, in
un duplice senso: "ciò che lo manifesta" come presenza e "ciò che lo rende vulnerabile". "Accanto
alla phronesis, che è la virtù della deliberazione prudente (ricorda Gadamer) c'é l'assennatezza
(la sunesis, Etica Nicomachea, Z 11) che è una modificazione della virtù del sapere morale. Essa si
qualifica per il fatto che qui non si tratta di me ma dell'altro (...)quando, nel giudicare, uno è capace
di collocarsi pienamente nella concreta situazione in cui altri deve agire (...). Si vede anche di qui
che colui che ha assennatezza non si trova nella posizione di sapere e giudicare in maniera esterna e
<<disinteressata>>; ma è unito all'altro da uno specifico legame, in base al quale è egli stesso
coinvolto nella situazione che deve giudicare".
Certamente, le forme di distribuzione e finanziamento dei servizi sanitari hanno risvolti di politica
economica intrecciati ad implicazioni etiche notevoli: riguardo la razionalizzazione delle spese, la
priorità nelle cure, nonché l'effettiva relazione medico-paziente. Ma non si può ridurre la Bioetica a
politica di pianificazione sociale, come non la si può limitare alla migliore definizione legale dei
"nuovi" rapporti di parentela, come richiesto dalla tecnologia in campo riproduttivo.
Necessità di criteri di valutazione
Riassumendo, possiamo constatare che mentre l'evoluzione (o involuzione?) sociale e lo sviluppo
continuo delle tecnologie biomediche fanno insorgere continuamente questioni inedite per la morale
applicata, nei tradizionali settori dell'etica medica e della medicina legale, la riflessione etica di tipo
anglosassone pare orientarsi invece, più verso l'identificazione delle strategie adeguate a fornire
risposte di tipo socio-politico a garanzia delle libertà degli individui appartenenti a categorie già
protette in senso economico-sociale, che non verso l'identificazione di quel "bene per l'uomo", la
quale fornisca in sede legislativa e sociale criteri di intervento, veramente etici e perciò imparziali;
ma non asettici, specialmente nei confronti dei più deboli, come una società veramente civile e
democratica è chiamata a fare: perché il diritto non sia basato sulla forza, di qualsiasi genere, che
magari riconosce al meno dotato le stesse possibilità, sì, ma a titolo di "beneficio".
Un'impostazione empirica scientista di tipo neo-illuministico, che privilegia il punto di vista
"euristico" ed operativo più che non quello riflessivo, in campi che attengono l'etica ed il diritto
tanto quanto la ricerca scientifica e la prassi medico-sanitaria, rischia di ridurre il discorso bioetico
ad una sorta di "guardiano" del benessere collettivo e della libertà individuale, assecondando l'ideale
politic o-consumistico dominante.
Ma se l'etica è per l'uomo e non viceversa, non si può finire con l'escludere pregiudizialmente il
vero problema: quello dell'uomo, del bene che l'uomo è a se stesso, nel suo essere integrale; il
problema quindi del significato più profondo dell'agire umano, cioè del rapporto delle scelte di
azione-personale e sociale con la verità dell'uomo, con ciò che l'essere umano veramente é, ciò di
cui ha bisogno per essere felice e ciò che deve fare per esserlo, nella sua individualità e nel suo
essere con gli altri.
In questo quadro più completo, si comprende come sia effettivamente doveroso, oltre che possibile,
risalire razionalmente a dei criteri bioetici a partire dalla reale natura dell'uomo, alla quale
l'intelligenza riconosce quella "intenzionalità" morale, che é insita nell'essere umano (la cosiddetta
"coscienza", che pur se va adeguatamente coltivata e formata), prima ancora che ogni riflessione
astratta di tipo logico possa verificarne l'esistenza; dimensione morale che precede ed in qualche
modo "eccede" la riflessione, non essendo del tutto riconducibile, come la felicità personale,
all'attività razionale.
Si chiarisce anche quell'aspetto fondamentale dell'aspetto etico, che é l'obbligatorietà morale che
non contrasta la scelta personale, e come anzi essa possa coesistere con la più piena libertà
individuale, fino quasi a coincidere con essa in quella sua espressione massima, che é la libertà
della coscienza individuale: la libertà cioè di ognuno, di legittimamente obbedire a quello che la
propria intelligenza e senso morale gli fanno credere non solo giusto "oggettivamente", ma consono
al proprio essere umano soggettivo, adatto alla propria realizzazione piena, e quindi alla propria
felicità
Tale piena umanità, il modo più alto di essere uomo, è insieme un dato di natura ed una meta da
realizzare, come ogni uomo equilibrato intuisce, per una sua precisa esperienza interiore:
"appartiene alla costituzione dell'uomo che egli sia e debba essere uomo"; "farsi persona" è anzi,
afferma Emmanuel Mounier, il compito etico fondamentale.
Occorre quindi ribadire che nessuna seria analisi di tipo bio - etico può prescindere da
un'approfondita riflessione, di carattere teoretico e scientifico insieme, sull'uomo stesso e sulle sue
modalità di approccio alla realtà; non può cioè privarsi di una antropologia filosofica,
metafisicamente autonoma certo, ma non autosufficiente; se non altro perché le si richiede un
continuo confronto con le acquisizioni scientifiche di tipo sperimentale, ma anche con le più alte e
radicate tradizioni culturali della civiltà umana. Confronto che si richiede d'altronde a qualsiasi
scienza che si applichi allo studio dell'essere umano, il quale é un'unica realtà, un soggetto
personale di natura intellettuale che è anche un individuo della "specie" umana: non un "oggetto" di
studio o di prassi, o addirittura di sfruttamento economico.
Lo studio della storia del pensiero ha messo in evidenza come in Occidente dal XVII secolo,
quando la "nuova scienza" comincia ad affermare la propria identità in netto distacco dalle altre non
sperimentali, sia stato accantonato questo tipo di confronto.
Esso è reso oggi indispensabile, in quanto l'essere umano si ritrova non più protetto di fronte al dato
di fatto della rapida diffusione delle conquiste scientifiche e della dimensione economica potenziata
a livello internazionale, entrate in un rapporto sempre più stretto tra loro. Se infatti in un recente
passato, le discussioni epistemiologiche sulla ragione scientifica avevano condotto ad un
assestamento accettabile, dal punto di vista socio-politico (negare cioè alla scienza il carattere
di verità per riconoscerle quello di utilità), ai giorni nostri, senza tanti approfondimenti, si è
stabilizzato un forte intreccio tra slancio scientifico ed profitto economico, un risvolto reso talvolta
necessario dalla inadeguatezza o dal cattivo uso dei fondi pubblici per la ricerca.
Nessun'altra forza, se non quella dell'umana ragionevolezza tradotta in legge, può essere in grado di
fronteggiare il connubio mondiale tra due colossi, scienza ed economia, e rappresentare le precise
esigenze bioetiche a tutela di ognuno di noi, ma specialmente dei più deboli, i meno informati,
meno ricchi, meno rappresentati legalmente, più emarginati; esigenze di tutela, che dovrebbero
essere adeguate alla potenza d'impatto dei due fattori e che invece, non solo non possiedono una
fisionomia ed un'incisività a carattere internazionale, ma in alcuni paesi, anche tra quelli
"civilizzati" come il nostro, spesso sono aggirate o eluse.
Metabioetica e diritto
Oggi, forse, non c'è un tema di maggior impatto giuridico come la bioetica.
Ma a definire e rafforzare le proposte di legge in ambito bioetico, è importante anche l'attenzione
allo svolgimento storico-teoretico delle varie concezioni etiche? E' utile, per esempio, ad enucleare
le direttive ermeneutiche fondamentali sul "cosa é" l'uomo: "animale razionale" o "spirito
incarnato"? Una distinzione teoretica di questo genere coadiuva in modo fondamentale la chiarezza
d'impianto della Bioetica, non solo perché essa è di fatto presente nel dibattito attualmente in corso,
ma per consentire al dialogo, intellettuale e culturale, di non ridursi ad un insanabile conflitto tra
modelli culturali ed interessi diversi, che il diritto dovrebbe in qualche modo regolare col suo codice
binario di lecito- illecito.
La concezione del primo tipo risale com'é noto alla "meta - fisica" aristotelica, la quale considera
l'uomo come un essere appartenente al mondo della fusis (natura), ma emergente (meta: sopra) da
questa attraverso la sua razionalità: che viene vista sostanzialmente come unprocesso induttivo dal
"particolare" all'universale. Tale impostazione epistemiologica (episteme: segno), fatta propria e poi
criticata dalla gnoseologia empirica, dal punto di vista delle scienze di tipo sperimentale viene oggi
intesa come "un processo in cui si propongono formulazioni generali su classi di cose, sulla base di
una conoscenza concernente membri componenti particolari di tali classi; in modo meno rigoroso, è
un modo di ragionamento dal particolare all'universale. Purtroppo questo tipo di ragionamento non
ha alcuna validità logica e questa è la spina nella carne dell'intera filosofia della scienza e il punto
debole dei tentativi degli scienziati di conseguire una conoscenza vera e certa del mondo".
Il concetto tipico di Aristotele di "psiche"-anima come "vitalità originaria" - viene ripreso in questo
secolo dall'idealismo hegeliano, che come è noto nella coincidenza di razionale e reale vede il
segreto di quel processo vitale, che attraverso l'opposizione dialettica di tesi ed antitesi conduce alla
sintesi o coincidenza vitale di Idea e Storia. Secondo questa impostazione, la vita specifica
dell'uomo si riduce quindi ad essere nient'altro che una varietà della grande realtà che é la vita come
natura o "biosfera", e va quindi spiegata con le stesse categorie.
Si spiegano così i vari tentativi di comprendere l'esistenza umana a partire dal "dinamismo
animale", che non essendo però nell'uomo altrettanto "determinato" si tradurrebbe in apprendimento
e cultura. Un tale punto di vista ambisce, per esempio, a schiudere al "confronto tra culture
possibilità nuove quando non si chiude nel duello tra universali astratti, ma parte dalla
considerazione di un elemento del reale, il corpo". Risulta qui evidente come il vizio aristotelico di
vedere l'uomo sin dall'inizio - dall'anima vegetativa - solo come parte della natura fisica, non possa
che culminare in un artificio retorico, la sineddoche: la quale consiste nell'assunzione di una parte, il
corpo, per il tutto, che è l'essere umano. Il "confronto tra culture" o tra scienze, dovrebbe così
partire non da un elemento reale, l'uomo, ma da un altro perfettamente astratto, sia dal punto di vista
concreto che da quello morale, qual'é il corpo: che da solo esiste, é vero, ma in presenza di un
cadavere, non certo in modo tale da dover essere oggetto di particolari confronti culturali. Una delle
più alte definizioni moderne vede l'uomo, nella sua integralità, come "diritto sussistente (A.
Rosmini). Anche il diritto internazionale ed europeo va oggi orientandosi verso la direzione di una
compenetrazione tra sistema giuridico e sistema metaetico: affinché il soggetto e gli Stati stessi non
siano costretti ad una specie di schizofrenia, per la quale la contraddizione tra etica e diritto viene
pacificamente accettata.
La sperimentazione su embroni umani
E' lo stesso equivoco in cui si incorre quando si prende in considerazione il problema della
sperimentazione su embrioni e feti umani, solo dal punto di vista empirico di stampo materialistico:
in molti illustri ed anche sensibili studiosi, la mentalità scientifica è talmente assuefatta
all'impostazione sperimentale che per secoli ha proficuamente retto la ricerca, che in
quel quid umano non sanno vedere altro che un numero variabile di cellule o di giorni di sviluppo,
in base al quale attribuire la dizione convenzionale di "blastocisti - embrione - feto", considerandolo
appunto dal mero punto di vista materiale e trascurando assolutamente di prendere in esame
quell'attributo che lo qualifica come umano vivente, per cui non lo si può equiparare alla stregua
dell'embrione di animale.
La realtà di fatto è che, in molti Paesi civili, la riflessione etica e morale procede a latere della
ricerca scientifica, che galoppa per suo conto. Certo, in qualche modo semplifica e rende più facile
la ricerca, il non porsi il problema di cosa vuol dire umano per un essere vivente che, come tutti
ormai sanno, ha già in sé programmato il suo codice genetico, cioè la "tabella di marcia" del suo
autonomo sviluppo individuale: un esclusivo codice "personale" o struttura genetica non
modificabile da condizioni esterne, che è presente anche ai primissimi stadi, quando le cellule dello
zigote sono totipotenti (fino a sedici, possono ancora avere sviluppi differenziati), quando le parti
embrionarie non sono distinguibili da quelle extra-embrionarie, perché non é ancora terminato (15°
giorno) l'impianto che dà luogo all'unità "feto-placentare": le parti non si possono ancora
distinguere, ma tutto si possiede già in fieri e non cessa di svilupparsi programmato con la massima
esattezza; come ha confermato, per ultimo, la sci enza dei geni.omeotici, gli autentici coordinatori
dello sviluppo dell'embrione, fondata da Edward B.Lewis, lo studioso americano insignito del
Nobel per la medicina nel 1995 (insieme a due suoi allievi, Christiane Nusslein-Volhard ed Eric
Wieschauz: particolare non privo di significato è che gli esperimenti, relativi al controllo genetico
dello sviluppo precoce dell'embrione, sono stati effettuati non su embrioni umani ma su una mosca,
la Drosophila melanogaster).
Di fatto, la ricerca scientifica si serve da decenni dello studio di cellule e tessuti fetali e le svariate
possibilità aperte da questo tipo di ricerca ruotano per la maggior parte attorno al tessuto nervoso;
ma se si esclude la scoperta del vaccino della poliomelite avvenuta nel 1954 sulla base di colture di
rene fetale, e le più recenti del vaccino anti-morbilloso e della pericolosità per il feto del vaccino
anti-rosolia, anche gli studi più informati, propensi all'uso della ricerca per mezzo di embrioni e feti,
debbono riconoscere che non è ancora "provata l'efficacia di questi trapianti", cioè di cellule e
tessuti fetali in pazienti affetti da patologie su base cellulare, (anzi nel caso del Parkinson è stata
esclusa), emofilia; mentre risultati "incoraggianti" ma modesti appaiono quelli ottenuti "con il
trapianto di tessuto pancreatico fetale in pazienti affetti da diabete di 1° tipo, utilizando come
donatori feti di 10-22 settimane".
Non si vuol certo negare qui l'importanza e la serietà dei progetti in corso, dallo "studio biochimico
dello sviluppo precoce del cervello" alla "possibilità di utilizzare tessuto neurale trapiantato per
facilitare la rigenerazione di tessuto nervoso", per non parlare del Progetto Genoma Umano.
Quel che non si può dare per scontato è che, dinnanzi ad una diffusa ansia di scoperte scientifiche e
di affermazione ideologica ed alla mondializzazione dei risvolti economici, siano spazzati via de
factu gravi problemi morali. Come quelli posti, per l'appunto, dal prelievo ed utilizzo di preembrioni ed embrioni (ottenuti attraverso la fertilizzazione in vitro) e feti (anche vivi, anche se non
più vitali): ciò che avviene in molti paesi (ieri la Svezia, oggi Gran Bretagna, USA, Australia) senza
limiti quanto al numero ed alla modalità; sebbene esista qualche regolamentazione di tipo etico che
dovrebbe costituire una garanzia dall'abuso indiscriminato.
Ma occorre anche porsi qualche domanda: assume un qualche spessore la questione etica o la stessa
etica scientifica, nel caso di ricerca con un mezzo così facile, nuovo, utile ed inesauribile, come gli
"esseri" o "enti" umani viventi nelle primissime fasi di sviluppo, prodotti appositamente in vitro e
privi di qualsiasi configurazione concettuale oltre che giuridica? E quale incremento vorticoso avrà
la prodzione e conseguente eliminazione di esseri umani in embrione, "se questi benefici verrano
confermati"? Quando cioè, dall'utilizzazione per scopi scientifici e terapeutici si passerà allo
sfruttamento su larga scala per scopi industriali ed economici: ché tale sarà l'exitus "positivo", per
dir così, di ogni ricerca sperimentale su embrioni e feti umani. Contro un factum di questa portata
non vale probabilmente alcunargumentum di tipo teoretico o morale: quand'anche la mentalità
scientifica e sociale si andasse aprendo ad una maggiore sensibilità, e dimestichezza con la
riflessione etica, anche le più evidenti resistenze morali, come si sa, sono facilmente passibili a
venir meno in persone o società, con problemi di salute o con interessi di lucro.
Nè si approda ad uno sbocco molto diverso da quello di tipo biologico - scientista o economico utilitarista, circa la natura dell'essere umano ed il rispetto che gli é dovuto, quando, all'interno dello
stesso cerchio limitato del verificabile sperimentalmente, ci si accosta al problema del cosa è l'uomo
dal punto di vista cerebro-culturale. Impostando cioè la cosiddetta mind-body question., come ha
proposto di recente un'opera. di Karl Popper, noto come il maggior critico odierno dell'induttivismo,
e dello scienziato John Eccles; il saggio, che mantiene un forte approccio dualistico.al rapporto tra
mente e corpo, .ha suscitato ampie risonanze nel mondo della cultura.
Ma anche qui, continuare a considerare l'essere umano come "animale razionale", significa in
qualche modo disconoscere che proprio l'integrale natura dell'essere umano nel sua unitotalità-quale
sua essenza specifica, non astratta ma reale-e non una sua dimensione pur così qualificante, come la
capacità razionale, costituisce di fatto quell'elemento universale sul quale costruire un codice
morale imparziale, valido per tutti perché comune a ciascuno, pur nel più attento rispetto di
posizioni e culture differenti, da tenere nella dovuta considerazione.
In effetti "non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può
negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle
culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo "qualcosa" è
precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione
perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale
nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere".
Nè l'elemento comune ad ogni essere umano può essere riconosciuto in quel fattore pur tipicamente
"umano", che è la "conoscenza oggettiva", intesa nel senso della maturità razionale - culturale, in
quanto molti per età o deficienze diverse ne possono essere privi; e nemmeno in quell'eredità
culturale chiamata da Popper "mondo 3", troppo varia e poliedrica per costituire un fattore
realmente unificante.
Magistero cattolico e bioetica
Ma é possibile compiere un ulteriore passo verso l'intesa tra varie culture ed un'etica più concorde?
"Se ci sforziamo di valutare le cose con obiettività, noi siamo in grado di vedere che, al di là di tutte
le differenze che contraddistinguono gli individui ed i popoli, c'è una fondamentale comunanza,
dato che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato
dell'esistenza personale. E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad
ogni cultura ed ad ogni nazione: qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo
e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita
umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di
Dio". Così afferma Giovanni Paolo II, nel suo discorso al'ONU nel cinquantesimo anniversario di
fondazione.
Tra parentesi: è giunta l'ora, forse, di liberarsi da quell'inveterata pratica culturale (che un pensatore
profondo e libero come Augusto Del Noce non sopportava, uno dei capostipiti l'aveva individuato
nel De Sanctis), che ci induce ad essere "portatori sani" di autentiche forme di discriminazione:
come quella, per cui il magistero ecclesiastico non viene apriori considerato referente legittimo, per
un discorso "moderno, scientifico, civile".
E' la stessa impostazione concettuale che si sforza di non riconoscere una sua "verità" alla natura
umana, cioè una sua precisa "essenza", un suo ordine specifico, universale in quantocomune a tutti
gli uomini, quella che tende necessariamente a relegare nello stretto ambito religioso qualsiasi
sforzo, in campo morale e normativo, di unità nella diversità; il solo tentativo viene bollato come
sintomo di un autoritarismo accettabile solo in ambito parenetico, cioè all'interno della spontanea ed
"irrazionale" assunzione di canoni, di tipo religioso, cattolicoin particolare (e pluribus unum).
Mentre "la verità sull'uomo è l'immutabile criterio con cui tutte le culture vengono giudicate".
Il Capo del cattolicesimo afferma piuttosto che "questa tensione tra particolare ed universale si può
considerare immanente all'essere umano", ma "è in forza della comunanza di natura gli uomini sono
spinti a sentirsi, quali sono, membri di un'unica grande famiglia"; pur se "per la concreta storicità di
questa stessa natura, essi sono necessariamente legati in modo più intensoa particolari gruppi
umani".
Proprio questa comunanza di natura costituisce, pur nella straordinaria diversità del genenre umano,
la "struttura interiore di tale movimento mondiale", del riconoscimento cioè di "queidiritti
universali di cui l'uomo gode per il semplice fatto di essere tale"; anzi proprio "questo suo carattere
planetario ce ne offre una prima e fondamentale "cifra", confermando come vi siano realmente dei
diritti umani universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispecchiano le esigenze
obiettive ed imprescindibili di una legge morale universale. Ben lungi dall'essere affermazioni
astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo
e di ogni gruppo sociale. Ci ricordano anche che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di
senso, ma che al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il
dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio ad un
secolo di persuasione, dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e
comune, circa il futuro dell'uomo". La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella
sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro
(...) una cosa è affermare il legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare
qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana".
Non si può fare a meno di notare, qui, come le parole dirette al reale riconoscimento inter-nazionale
dei diritti di ogni uomo e di una democrazia autentica, si attaglino perfettamente al nostro discorso,
sulla concreta possibilità di una Bioetica al servizio dell'essere umano e dell'intera biosfera
Sintende forse, con questo, imporre un'unica visione dell'uomo, una sola concezione morale, magari
attraverso una cultura o una religione "superiore"? Risponde lo stesso Autore: "A nessuno è
permesso di soffocare tali diritti usando il potere coercitivo per imporre una risposta al mistero
dell'uomo". Quali diritti? "Il diritto fondamentale alla libertà di religione e alla libertà di coscienza,
quali pilastri essenziali della struttura dei diritti umani e fondamento di ogni società veramente
libera. (...) Estraniarsi dalla realtà della diversità - o, peggio, tentare di estinguere quella diversità significa precludersi la possibilità di sondare le profondità del mistero della vita umana. La verità
sull'uomo è l'immutabile criterio con cui tutte le culture vengono giudicate; ma ogni cultura ha
qualcosa da insegnare circa l'una dimensione o l'altra di quella complessa verità".
Questa è in definitiva l'altra direttiva fondamentale dell'ermeneutica antropologica contemporanea;
essa si incentra su di una concezione dell'uomo come "spirito incarnato", essere "capace di sapienza
e di virtù", in quanto persona intelligente e libera, depositaria di un mistero che la trascende, dotata
della capacitàdi riflettere e di scegliere-e dunque capace di sapienza e di virtù".
Concepire l'uomo come persona vuol dire semplicemente concepirlo nella sua integralità ed
interezza: "Io sono persona fin dalla mia esistenza più elementare e la mia esistenza incarnata è un
fattore essenziale nel mio modo di essere personale".
L'umanesimo personalista odierno é sostenuto, in gran parte, dalla dottrina cattolica in materia di
morale applicata alle questioni relative alla prassi medico clinica ed alla ricerca scientifica; ma ha
una sua tradizione culturale "laica", espressa nel pensiero moderno dalla linea Cartesio - Vico Rosmini, come nel pensiero contemporaneo dal "personalismo" francese ed in parte dalla
fenomenologia tedesca; tale tradizione è presente come motivo ispiratore di fondo delle principali
Costituzioni moderne, tra cui in particolare la Costituzione Italiana e laDichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo, formulata dalle Nazioni Unite nel 1948.
Negli ultimi trent'anni in particolare, la dottrina cattolica si è fatta paladina di questa concezione
unitaria della persona umana, per superare la presunta contrapposizione tra una natura umana intesa
come "presupposto materiale" e "libertà" umana, come assoluto potere dell'uomo su di sè. Essa ha
sempre insistito "sull'unità dell'essere umano, la cui anima razionale che é per se et essentialiter la
forma del corpo. L'anima spirituale ed immortale è il principio di unità dell'essere umano è ciò per
cui esso esiste come un tutto - corpore et anima unus - in quanto persona".
Ma più di recente, si può affermare che si sia accentuata la comprensione del "vero significato della
legge naturale: essa si riferisce alla natura propria ed originale dell'uomo, alla "natura della persona
umana", che è la persona stessa nell'unità di spirito e di corpo, nell'unità delle sue inlinazioni di
ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al
perseguimento del suo fine. (...) In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua 'totalità
unificata", cioè "anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale", si può
leggere il significato specificamente umano del corpo".
Viene anche chiarito "per quale motivo questa legge si chiama legge naturale: viene detta così non
in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della
natura umana." L'uomo, essere moralmente ragionevole, è capace di distinguere il bene dal male
"grazie alla luce della ragione naturale, riflesso nell'uomo dello splendore del volto di Dio".
L'intelligenza ragionevole della natura umana, che è anche met-fisica o spirituale e non solo
biologico-animale, ha infatti una sua caratteristica specifica, possiede il "senso" del bene (e del
male).
Questo riflesso dello "splendore della Verità" è la ragione naturale, intesa come espressionedella
natura dell'uomo nella sua integralità, comprensiva cioè di tutte le potenzialità insite nella sua
natura intellettuale e fisica, ideale e morale, ma comunque aperta "all'infinito" all'altro ed
all'oltre da sé: e non natura umana o ragione umana, ridotte solo ad una delle sue dimensioni
dissociata dalle altre, corporeità, intelletto razionale, libertà della volontà, etc. Un tale "razionalismo
aperto", come lo chiamava Gaston Bachelard, costituisce il futuro della Bioetica, in quanto possibile
terreno d'intesa per la costruzione di un autentico personalismo, di un umanesimo autonomo rispetto
alle scelta religiosa ma non necessariamente autosufficiente, del tutto slegato o in conflitto con essa.
E' altrettanto vero, che esso costituisce una sfida anche per la fede, cattolica in particolare: "alla
fede cristiana nella sua essenza spetta il compito di ricercare la propria ragione e in essa la ragione
stessa, la razionalità del reale".
La dialettica tra bioetica e democrazia
Non é nuovo questo collegamento tra etica per la vita e democrazia, la storia stessa del nostro
secolo ha dimostrato che "la democrazia non può esistere senza un impegno condiviso verso certe
verità morali sulla persona umana e la comunità umana. La questione fondamentale che una società
democratica si pone è: come dovremo vivere insieme? Nel cercare una risposta a questa domanda,
può la società eludere la verità ed il ragionamento morali?".
Infatti "la democrazia serve ciò che è vero e giusto quando tutela la dignità di ogni persona umana,
quando rispetta gli inviolabili ed inalienabili diritti umani, quando fa del bene comune il fine e il
criterio regolatori di tutta la vita pubblica e sociale. Tuttavia, questi stessi valori devono avere un
contenuto oggettivo. Altrimenti corrispondono soltanto al potere della maggioranza o ai desideri di
chi grida più forte. Se un atteggiamento di scetticismo dovesse riuscire a mettere in dubbio perfino i
principi fondamentali della legge morale, lo stesso sistema democratico verrebbe scosso alla base".
La dialettica tra etica e democrazia, insomma, corrisponde a quella tra verità e libertà; libertà che
"è la misura della dignità e della grandezza dell'uomo", ma pure"non è semplicemente assenza di
tirannia o di oppressione, nè è licenza di fare tutto ciò che si vuole. La libertà possiede una
<<logica>> interna che la qualifica e la nobilita, : essa è ordinata alla verità e si realizza nella
ricerca e nell'attuazione della verità. Staccata dalla verità della persona umana essa scade, nella vita
individuale, in licenza e, nella vita politica, nell'arbitrio dei più forti e in arroganza del potere".
Licenza individuale, arbitrio dei più forti, arroganza del potere: ecco a cosa si riduce la Bioetica
staccata dal suo fondamento che è l'uomo stesso nella sua più intima "verità", cioè "dignità" di
creatura unica e irripetibile, costituzionalmente tesa a superare i suoi limiti. "Quando, per un tragico
oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi
fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue
fondamenta, riducendosi - come pure la stessa Bioetica- ad un puro meccanismo di regolazione
empirica dei diversi e contrapposti intere ssi. (...)Negli stessi regimi partecipativi infatti, la
regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi più capaci di
manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale
situazione, la democrazia - la bioetica - diventa facilmente una parola vuota".