comunicazione d`azienda nella network society - UPA

Corso di Alta Formazione UPA
COMUNICAZIONE D’AZIENDA
NELLA NETWORK SOCIETY
(IV EDIZIONE – 2016)
Dalla co-creazione di contenuti
all’esperienza di marca multicanale e contestuale
A cura degli studenti
del Corso di Alta Formazione
A cura degli studenti
del Corso di Alta Formazione UPA
COMUNICAZIONE D’AZIENDA
NELLA NETWORK SOCIETY
(IV EDIZIONE – 2016)
Dalla co-creazione di contenuti
all’esperienza di marca multicanale e contestuale
Prefazione: Patrizia Gilberti
Coordinamento e Editing: Serena Piazzi e Andrea Cuman
Progetto grafico: Ottavia Galbiati e Claudia Riboldi
Progetto editoriale: Valentina Barresi e Chiara M. Sammarco
Testi a cura di:
Valentina Barresi, Francesca Corbia, Daniela Stefania De Pascalis,
Simone Di Biasio, Ilenia Di Paola, Veronica Fanello,
Ottavia Galbiati, Pietro Gentile, Gemma Grimoldi, Stefano Iachella,
Francesca Invernizzi, Ida Maggi, Daniele Montani, Angela Nicolazzo,
Irene Pepe, Claudia Riboldi, Flavia Ricci, Vincenzo Romanelli,
Chiara Matia Sammarco, Chiara Terranova,
Gianluca Torti, Priscilla Zanda
www.upa.it/corsodialtaformazione
Distibuito in Licenza Creative Commons
CC BY-NC-ND
Indice
PREFAZIONE – A cura di Patrizia Gilberti
Sezione 1 - La rivoluzione digitale: quali trend e sfide nell’era dei «consum-autori»?
Fausto Colombo – Self & Society in the Networked era ...................................................................... p. 10
Guido Di Fraia – Comunicazione aziendale e social network ............................................................ p. 15
Francesco Morace – Comunicazione e paradigmi del futuro ............................................................. p. 21
Carlo Alberto Carnevale Maffè – Web 2.0 e nuovi modelli di business ............................................ p. 29
Paolo Iabichino – Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross-mediale .......... p. 35
Sezione 2 - Da mercanti d’attenzione a gestori di conversazioni: quali nuove frontiere
per il marketing?
2.1 Le basi per orientarsi nel cambiamento
Massimiliano Bruni – Fondamenti di economia aziendale ................................................................. p. 43
Paolo Bertozzi – Fondamenti di marketing ........................................................................................... p. 48
Paolo Bertozzi – Il processo del trade marketing ................................................................................. p. 55
Roberto Grandi – Marketing delle imprese culturali e creative .......................................................... p. 60
Leonardo Bellini – Logiche e sviluppi del mobile marketing .............................................................. p. 67
Gianluca Diegoli – Principi di e-commerce e social commerce ......................................................... p. 77
2.2 Nuove logiche e strategie in un immaginario affollato di narrazioni
Guido di Fraia – Il digital storytelling .................................................................................................... p. 88
Guido di Fraia – Creare valore con il content marketing: processi organizzativi e strumenti operativi ... p. 96
Stefano Pace – Lo co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research ......... p. 102
Sezione 3 - Da identità a reputazione: come cambia la brand communication nella network
society?
Roberto Grandi – Brand Communication tra media tradizionali e new media ............................ p. 110
Bernard Cova – La vita sociale delle marche: verso il brand sharing .............................................. p. 116
Elisabetta Baldini – Brand e identità di marca .................................................................................... p. 122
Vanni Codeluppi – Marketing retail 2.0 ............................................................................................... p. 130
Roberto Grandi - Comunicazione e Crisis Management .................................................................. p. 139
Sezione 4 - Dall’analisi dei dati alla pianificazione: quali azioni intraprendere?
Raffaele Pastore e Silvio Siliprandi – Le ricerche sui media .............................................................. p. 149
Alberto Dal Sasso – Lo scenario del mercato dell’advertising ........................................................... p. 156
Luca Marinaro – Il media planning integrato ..................................................................................... p. 162
Luca Marinaro – Media evolution: programmatic ............................................................................. p. 170
Sezione 5 - La cassetta degli attrezzi: quali strumenti per costruire relazioni di valore?
Chiara Colombo – Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy ....... p. 176
Andrea Testa - Google AdWords e Google Analytics ........................................................................ p. 182
Donatella Urrai – Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti ....................................... p. 195
Paolo Ciuccarelli – Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione ............................................ p. 203
Paola Nannelli - L’ascolto della rete e la social media intelligence .................................................... p. 209
Sylvaine Querne, Stefano Cirillo – Facebook: creatività, advertising e measurement ................... p. 216
Sezione 6 - Le norme del buon comunicatore: quali regole osservare?
Vincenzo Guggino, Monica Davò, Salvatore Pastorello – Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria p. 225
Paolina Testa – Pubblicità e comunicazione commerciale: il quadro normativo ........................... p. 231
Le Open Class
Paolo Iabichino, Fausto Colombo – Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà p. 239
Rosella Serra, Marianna Ghirlanda – Google: data driven digital strategy ..................................... p. 245
GLOSSARIO ........................................................................................................................................... p. 254
I PROJECT WORKS .............................................................................................................................. p. 283
AUTORI ................................................................................................................................................... p. 286
Prefazione
A cura di Patrizia Gilberti
A fine giugno si è conclusa la quarta edizione del
corso UPA di Alta Formazione “Comunicazione
d’azienda nella network society”, percorso
di formazione sviluppato a Milano nel solco
dell’esperienza veneziana del Master MCA,
ideato nel 1989 dal Comitato UPA Formazione.
Ogni anno l’ebook del Corso di Alta Formazione
raccoglie gli appunti degli allievi, arricchiti da
una breve bibliografia ragionata e da un glossario
sui concetti di maggior interesse trattati nel corso.
Le pagine che seguono, insieme agli articoli
scritti dagli studenti durante l’anno per il blog,
sono contributi “aperti” e rappresentano un
progressivo approfondimento e aggiornamento
dei temi trattati in aula nelle precedenti edizioni
del Corso.
La trasformazione a cui stiamo assistendo
richiede percorsi formativi in grado di fornire da
un lato le competenze sugli strumenti offerti dal
contesto digitale, dall’altro la capacità di cogliere
i segnali e le opportunità offerte da un sistema
in costante e rapido cambiamento. Fondamentali
restano dunque le basi della comunicazione
d’azienda e del marketing, oltre alla conoscenza
di tutti i canali che possono essere utilizzati per
entrare in contatto con un consumatore che
ricerca, sceglie e interagisce con la marca in modi
inediti.
Fil rouge del percorso formativo 2016 è stata
la comunicazione e la creazione di valore
condiviso, intesa come co-creazione di contenuti
ed esperienza di marca multicanale e contestuale.
In particolare nel corso sono stati presi in esame
i nuovi strumenti e le strategie di comunicazione
utili a stabilire una nuova e più attuale relazione
fondata sulla fiducia tra un brand e i suoi
stakeholder, nel contesto di un immaginario
sempre più affollato da narrazioni coinvolgenti.
Tra le novità di questo anno l’introduzione delle
“open class”: giornate su particolari tematiche
del percorso formativo aperte ad aziende e agli
Alumni. Nel primo incontro, Fausto Colombo
(Università Cattolica del Sacro Cuore) e Paolo
Iabichino (Group Ogilvy & Mather Italy) si sono
confrontati sull’attuale scenario socio-culturale
ed economico all’interno del quale è necessario
che marketing e comunicazione rivedano i propri
approcci al mercato.
Il secondo incontro ha avuto come protagonista
Google, con gli interventi di Rosella Serra e
Marianna Ghirlanda, sul tema “Data-Driven
Digital Strategy”. Partendo dalle più recenti
ricerche sull’uso dei device mobili, dei micromomenti di fruizione e della loro significatività
nei percorsi di scelta e consumo, le due relatrici
hanno mostrato come le aziende possono
leggere e analizzare questi segnali, attribuendo
a ogni touchpoint un peso specifico allo scopo
di migliorare la customer experience del
consumatore.
Elemento distintivo del Corso sono i Project
Work, realizzati insieme ad importanti aziende
ed istituzioni culturali sulla base delle loro
esigenze di marketing e comunicazione. I Project
Work quest’anno hanno visto il coinvolgimento
di Ferrero, Chateau d’Ax, La Feltrinelli, Expo in
Città, il Comitato del Gran Cavallo di Leonardo,
Fondazione Donizetti.
In particolare, partendo dal brief dell’azienda,
gli studenti hanno potuto mettere alla prova e
sviluppare diverse skill: la capacità di analizzare
una strategia di marketing, di comunicazione e il
modello di business dell’impresa, individuando i
punti di forza e di debolezza rispetto ai competitor
e al mercato. Con l’aiuto di modelli di analisi
specifici, ma anche di strumenti di monitoraggio
come quelli forniti da Blogmeter, i gruppi di
lavoro hanno potuto prendere confidenza con le
dinamiche conversazionali della rete e dei social,
e sviluppare una sensibilità ai numeri, raffinando
la capacità di individuare consumer insight.
Il lavoro di analisi ha consentito di elaborare
strategie e concept di comunicazione con un
approccio cross-mediale lavorando su una
dimensione progettuale relativa ai modelli di
scambio di valore, di targeting, di sviluppo di
proposte creative e di misurazione dei risultati.
Public speaking, preparazione degli output (slide e
documenti a supporto) e capacità di argomentare
le proprie scelte hanno completato un percorso
che si è concluso con la presentazione pubblica
dei loro progetti.
La realizzazione dei project work ha richiesto
agli studenti di mettere alla prova anche le loro
soft skills, in particolare il gioco di squadra e
l’autonomia di lavoro, la proattività e la capacità
di relazionarsi con background formativi e
professionali eterogenei.
Anche quest’anno UPA Academy, piattaforma di
social learning, all’interno della quale è confluito
il Blog del corso, è stato un utile supporto
all’attività didattica per la condivisione di tutti i
contenuti delle lezioni.
Attraverso questa piattaforma UPA intende
favorire la collaborazione tra studenti, tutor
e professori e lo scambio di conoscenze ed
esperienze mantenendo attiva l’aula anche “fuori
dall’aula”. Un luogo dove anche le aziende
interessate possono trovare risorse utili e i
curricula dei partecipanti ai corsi UPA, oltre al
programma dettagliato del corso con abstract e
clip video delle lezioni, e dove gli Alumni hanno
un’area dedicata su cui vengono caricati job
posting e aggiornamenti didattici.
Anche quest’anno a conclusione di questi cinque
intensi mesi, vorrei rivolgere anche a nome
dell’UPA un forte e sincero ringraziamento a
tutti coloro che hanno dato un contributo al
Corso rendendolo speciale.
Grazie, quindi:
• in particolare ai sostenitori e ai promotori del
Comitato UPA Formazione che, investendo
sulla formazione dei giovani, hanno reso possibile
tutto questo
• a Fausto Colombo - Università Cattolica
del Sacro Cuore, Guido Di Fraia – Università
IULM, Roberto Grandi – Università degli Studi
di Bologna, per il prezioso contributo dato
nel Comitato Scientifico che ha disegnato un
percorso di eccellenza caratterizzato da un utile
e necessario equilibrio tra contenuti teorici e
competenze pratiche
• ai docenti universitari e agli affermati
professionisti che hanno stimolato gli interessi
degli allievi con contaminazioni provenienti
da discipline diverse e ad Andrea Genovese,
coordinatore dei project work
• a Claudia Millo di Ferrero, a Tiziana De Icco,
a Lorena Maiocchi di Chateaux D’Ax, Davide
Surace di La Feltrinelli, Floriana Tessitore e
Andrea Compagnucci di Fondazione Donizetti,
Alvise De Sanctis di Expo in Città, Carlo
Orlandini, Rodrigo Rodriquez e Silvia Sassone
del Comitato del Gran Cavallo di Leonardo per
aver offerto agli allievi l’opportunità di mettersi
alla prova con i project works e per la grande
disponibilità dimostrata nel supportare il proprio
team
• a Serena Piazzi, tutor “ideale”, per la grande
professionalità e, ancor più, per le doti umane
dimostrate durante tutta la durata del corso;
• ad Andrea Cuman, immancabile punto di
riferimento del corso che, insieme a Serena, ha
anche coordinato l’ebook.
Tutti insieme hanno costruito la bussola e fornito
gli strumenti per il viaggio ai giovani navigatori
della network society.
Un augurio di cuore per un “radioso futuro” a:
Valentina, Francesca, Daniela, Simone, Ilenia,
Veronica, Ottavia, Pietro, Gemma, Stefano,
Francesca, Ida, Daniele, Angela, Giovanni,
Irene, Claudia, Flavia, Vincenzo, Chiara Matia,
Chiara, Gianluca, Priscilla.
Buon vento, ragazzi.
Si ringraziano:
Sostenitori
Promotori
Sezione 1
LA RIVOLUZIONE DIGITALE:
QUALI TREND E SFIDE
NELL’ERA DEI “CONSUM-AUTORI”?
SELF AND SOCIETY
IN THE NETWORKED ERA
Tratto dalla lezione di Fausto Colombo
«Se vi è un “linguaggio” digitale, esso è una commistione integrata di scritto e orale,
di simbolico e iconico, di visivo e sonoro»
DIGITAL REVOLUTION - DEVICE - INNOVAZIONE TECNOLOGICA
Rivoluzione è un termine che indica un
cambiamento radicale, un’espressione che
presuppone uno sconvolgimento dell’equilibrio,
dei costumi e delle abitudini.
È in corso (ormai da anni) una rivoluzione che
ha mutato l’approccio alla cultura, all’economia,
al lavoro. Una trasformazione che ha portato alla
diffusione di dispositivi digitali, strumenti di
comunicazione nuovi che hanno sconvolto
la vita del singolo e dell’intera società.
Attraverso l’introduzione di una lingua comune,
i mezzi di comunicazione tradizionale hanno
subito una riorganizzazione, l’informazione
viene scritta attraverso lo stesso linguaggio di
base, fatto di sequenze numeriche: i bit.
Lo sviluppo di device, sempre più connessi
alla rete, ha permesso la moltiplicazione dei
canali di accesso all’informazione. Un flusso
di informazioni in continua evoluzione,
che ha contaminato le nostre vite, entrando
prepotentemente in tutti i settori produttivi.
La tecnologia ha plasmato la società, cambiando
tutto, tutto ciò che è possibile tradurre
in un linguaggio binario.
Fig. 1 - Mappa di Arpanet nel 1974
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Self and society in the networked era
vasta scala. Per tutti gli anni Settanta ARPAnet
continua a svilupparsi in ambito universitario
e governativo, ma dal 1974, con l’avvento dello
standard di trasmissione TCP/IP (Transmission
Control Protocol/Internet Protocol), il progetto
della rete viene denominato Internet.
Ma quando è iniziata questa rivoluzione?
Dobbiamo tornare indietro nel tempo.
Anno 1969. L’agenzia del dipartimento della
Difesa degli Stati Uniti idea Arpanet: una rete di
comunicazione militare. Un progetto pensato,
durante la Guerra Fredda, per scopi difensivi,
diventato poi, negli anni ‘80, uno dei più grandi
progetti civili: internet, capace di connettere
tutto il mondo.
Un’interconnessione globale tra reti informatiche
di natura e di estensione diversa.
Nel 1958 il Governo degli Stati Uniti crea un
istituto di ricerca denominato ARPA (acronimo
di Advanced Research Projects Agency) con un
compito ambizioso: cercare soluzioni tecnologiche
innovative.
Fra gli incarichi dell’Agenzia quello di trovare una
soluzione alle problematiche legate alla sicurezza e
disponibilità di una rete di telecomunicazioni.
Il progetto viene sviluppato negli anni ‘60 durante
la guerra fredda con la collaborazione di varie
università americane, e, secondo molte fonti, lo
scopo principale era quello di costruire una rete di
comunicazione militare in grado
di resistere anche ad un attacco nucleare su
Nel 1966, poco prima della nascita di Arpanet,
anche i dispositivi si evolvono. Olivetti mette
in commercio Olivetti Programma 101, l’antenato
del personal computer, la prima calcolatrice
programmabile da scrivania al mondo.
Fino ad allora si era estranei al concetto di
informatica distribuita.
Non si immaginava che uno strumento del
genere potesse arrivare ad essere un dispositivo
di lavoro quotidiano. Bastano 10 anni a cambiare
questa convinzione.
Nel 1977 Steve Jobs e Steve Wozniac realizzano
il primo home computer con tastiera integrata,
un elaboratore user-friendly1, nasce Apple II.
Negli anni ’80 poi, assistiamo all’introduzione
delle prime tecnologie digitali leggere e mobili.
Nel 1984, con MAC, cambia il mondo del
computer. Un dispositivo compatto e intuitivo
che, grazie all’introduzione di un’interfaccia
Fig. 2 - Olivetti programma 101
Fig. 3 - Mac, 1984
F OC U S
User-friendly è un’espressione che indica la capacità di un dispositivo di essere di facile utilizzo.
1
11
Self and society in the networked era
esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi
elementi […]»3.
grafica semplice, ha permesso il passaggio da
una fruizione concessa solo a professionisti ad
una aperta anche agli amatori. Un passaggio dal
collettivo al casalingo, fino all’individuale.
Gli utenti iniziano ad appropriarsi dei mezzi.
Diventano co-attori del processo, creano
contenuti.
Siamo di fronte ad un’informazione che è
ritagliata sulle esigenze dei propri fruitori2.
Dire che il dispositivo sia rappresentato solo dalla
tecnologia è riduttivo; è ricerca, realizzazione,
azione. È costruito da chi lo vive e modificato
dall’azione del singolo.
È vissuto con approcci differenti nelle diverse
generazioni e agisce sull’individuo in tre diversi
modi:
Parlare solo di rivoluzione, però, oggi non basta.
La rivoluzione, in ambito digitale, è già avvenuta.
Adesso siamo immersi in una lunga crisi, la crisi
di una trasformazione in atto, i cui sviluppi non
sono ancora noti.
Una crisi che ha portato inevitabilmente ad
influenzare e modificare i rituali, l’approccio alla
cultura, la relazione che abbiamo con gli altri.
Una trasformazione della società in tutte le sue
forme, che ha contaminato le nostre vite nel
presente e ha reso obsoleti i vecchi valori.
Un cambiamento non solo tecnologico, quindi,
ma, soprattutto, antropologico, che ha portato ad
una riorganizzazione del cervello dell’individuo,
un adattamento al mondo circostante, fatto di
nuovi mezzi e nuovi stimoli.
La tecnologia diventa, di conseguenza, un bene
esistenziale, un bene che si evolve, alla portata di
tutti.
L’innovazione, quella vera, è stata ed è tuttora
capace di interpretare bisogni in movimento,
riuscendo ad entrare nei rituali d’uso, ad
adeguarsi e a plasmare le tecnologie.
Il dispositivo digitale rappresenta il vero driver
dell’evoluzione digitale, si evolve seguendo tappe
non lineari, adattandosi alle trasformazioni
sociali, economiche e culturali.
- Modifica il rapporto con tempo e
ritualità
L’individuo non ha più una concezione rituale
del tempo. L’evento rappresenta il punto che
scandisce il tempo, la connessione perenne al
mondo contrasta con la sua ritualità. Questa
percezione spazio temporale degli individui
causa la banalizzazione dei grandi eventi, che
perdono l’accezione stessa del proprio nome, e la
moltiplicazione dei piccoli avvenimenti, ai quali i
soggetti guardano con disattenzione.
Per secoli, poi, la comunicazione interpersonale
ha rappresentato di per sé un evento. Ha sempre
avuto una natura tale da riuscire ad isolare e
coinvolgere totalmente gli interlocutori, facendo
del ricordo, l’evento stesso. Progressivamente,
però, si è deritualizzata a causa della mancanza
di attenzione e dell’always on4, elementi che
contrastano con il concetto di rito. La ritualità
deve essere rinegoziata e recuperata.
- Dimensione dell’altro
Con l’avvento dei social network è diventata
abitudine comune far vedere se stessi, mostrare,
su una piazza connessa, quello che vogliamo
esprimere agli altri di noi, attraverso la nostra
attività. Un grande salotto collettivo in cui
vediamo e veniamo visti.
Il modo in cui ci si presenta è fondamentale. Gli
altri fanno il nostro stesso gioco, mostrando il
profilo migliore. Gli atteggiamenti assumono
È «[…] un insieme assolutamente eterogeneo
che implica discorsi, istituzioni, strutture
architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure
amministrative, enunciati scientifici, proposizioni
filosofiche, morali e filantropiche. […] Il dispositivo
N. Negroponte, Essere digitali, Sperlinkg & Kupfer, 2009
Da un’intervista apparsa nel 1977 sotto il titolo di Le Jeu de Michel Foucault (2001) pp. 299/300
4
L’espressione Always On indica la tendenza ad essere sempre connessi.
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Self and society in the networked era
un elemento a rischio se viene sostituito con una
conversazione elettronica.
Se non riusciamo a separarci dai nostri
smartphone, consumiamo le altre persone a
«spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla
stregua di pezzi di ricambio per sostenere il nostro
fragile io»5.
credibilità.
La percezione di visibilità sociale, poi, soddisfa
il bisogno di socializzazione dell’individuo, una
esigenza che è sostitutiva del benessere materiale.
Il possesso del mezzo fa stare bene, dà una
situazione di relativo benessere relazionale.
Le persone sembrano ricavare un senso
di benessere dalla capacità di mantenere e
implementare la propria rete sociale. Una
relazione virtuale focalizzata sulla mera
condivisione di stati d’animo e attività.
I social network, inoltre, lasciano aperto un canale
comunicativo che non impegna necessariamente
alla relazione costante, ma, al tempo stesso, non
la escludono.
I soggetti, spesso, arrivano a preferire il senso di
comunità che i social media trasmettono perché
non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di
una comunità reale.
- Individuale e collettivo
La distinzione tra spazio pubblico e spazio privato
oggi è sempre più difficile. Cosa rimane nostro
e cosa è condiviso con la massa? Conosciamo il
nostro pubblico in rete? Ci possiamo fidare della
collettività? Domande a cui la maggior parte
degli utenti non sa dare una risposta. Spesso ci si
rifugia in una condizione, quella dell’anonimato,
che fa comodo. Ma il gioco dell’anonimato è
voluto o siamo tenuti a farlo?
«Forse l’erosione dei valori umani è un prezzo
che la maggioranza delle persone è disposta a
pagare per la comodità “gratuita” di Google,
la confortevolezza di Facebook e la compagnia
affidabile degli Iphone»6.
- Conversazione e dialogo con l’altro
La virtualità libera l’individuo dall’emozionalità.
Incontrare le persone implica un coinvolgimento
emotivo. Coinvolgimento annullato, nelle
relazioni digitali, dalla barriera dello schermo.
In passato, avere uno scambio di informazioni
regolato con l’interlocutore era necessario.
Oggi, questa necessità, è venuta meno.
La
conversazione
presuppone
empatia,
coinvolgimento, pazienza, immedesimazione ed
immaginazione. Sul web la parola si sfoga, uno
sfogo che non viene recuperato in presenza.
Nella comunicazione sociale, l’altro, da
interlocutore diventa, inevitabilmente, spettatore.
Oggigiorno comunichiamo incessantemente,
senza tregua, ma sempre più raramente faccia a
faccia.
Il dialogo è principio organizzativo dell’umanità,
Se il digitale è una lunga crisi, noi, siamo
all’interno di lungo processo di adattamento.
Importante è razionalizzarlo, leggere il digitale
nel complesso della vita sociale, rileggere in
modo creativo condizioni già note. Il dispositivo
non deve sostituirsi al rapporto diretto, alla
conversazione interpersonale, ma deve integrarsi,
in maniera crescente.
L’individuo è essenziale in questo processo,
l’individuo deve mediare.
Ilenia Di Paola
Jonathan Franzen, Social solitudine, in The New York Times e la Repubblica, 11 ottobre 2015
Jonathan Franzen, Social solitudine, in The New York Times e la Repubblica, 11 ottobre 2015
5
6
13
Self and society in the networked era
Riferimenti bibliografici
Turkle S., The Second Self: Computers And The Human Spirit, Mit Press, 2005.
Turkle S., Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age; Penguin Press, 2015.
Piketty T., Il capitale nel XXI secolo, , Bompiani, 2014.
Negroponte N., Essere digitali, Sperlinkg & Kupfer, 2004.
Frazen J., Social solitudine, intervista a The New York times e la Repubblica, 11 ottobre 2015.
14
Comunicazione aziendale
e social network
Tratto dalla lezione di Guido di Fraia
«Lo scopo della comunicazione e del marketing al tempo dei social media dovrebbe essere quello
di costruire relazioni di valore con i pubblici di riferimento, ai quali fornire il contenuto giusto al
momento giusto, attraverso i giusti canali.»
marketing conversazionale - customer journey - SocialMediAbility
In piena era digitale, l’esplosione del web sociale fa
registrare un sensibile cambiamento delle logiche
attraverso cui ciascun soggetto “immerso” nella
rete si approccia quotidianamente ai consumi. Si
tratta di un’evoluzione che ha per protagonista
l’utente, negli anni divenuto progressivamente
più esperto nell’orientarsi rispetto alle proprie
decisioni di consumo e di spesa, grazie a una
maggiore quantità di fonti d’informazione
disponibili e consultabili.
Con l’avvento dei media digitali, e dei social
media in particolare, a cambiare non sono
soltanto le modalità e i canali di accesso alle
informazioni: si assiste piuttosto a un radicale
mutamento di paradigma nel rapporto tra
potere e comunicazione, dalle implicazioni
molto pragmatiche. Le aziende e i brand, infatti,
perdono il controllo di una comunicazione
sempre più reticolare e trasversale e la parola
passa in buona misura ai potenziali consumatori,
che hanno un impatto diretto sulla produzione di
beni e servizi. «We are entering a new age where
people participate in the economy like never
before. […] new forms of mass collaboration are
changing how goods and services are invented,
produced, marketed […] This change presents
far-reaching opportunities for every company
and person who gets connected1». Generare
1
2
relazioni di valore con i potenziali clienti
diventa allora essenziale per il mantenimento
della sintonia tra azienda e “pubblici connessi”
di riferimento. Relazioni, che non vanno
intese unicamente in termini di transazione
economica, bensì in termini di opportunità di
crescita culturale e sociale, in una dimensione
di trasparenza del valore del prodotto. Si pensi
a valori che si inseriscono nel paradigma etico,
come la responsabilità d’azienda, la trasparenza
dei processi produttivi e del riciclo o, ancora, alla
tracciabilità del prodotto.
Comunicazione e cambio di paradigma:
nei “mercati-conversazioni” la parola
è dell’utente-consumatore
Nel mondo digitale e dei social network,
dunque, «differenza sostanziale con l’offline è la
conversazione e la sua tracciabilità. Mentre nei
canali tradizionali, il feedback non ottiene un’eco
pari all’attività di promozione, online il rapporto è
ribaltato e, nei casi di insuccesso, è estremamente
maggiore la cronistoria dell’insuccesso rispetto
alla campagna pubblicitaria originale2 ».
Se, all’interno di tale marketing conversazionale,
la parola degli utenti-consumatori ha maggiore
D. Tapscott, A. D. Williams, Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everything, Portfolio, 2006, p. 10
G. Di Fraia (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 2011.
15
Comunicazione aziendale e Social Network
comunicazione, interazioni, esattamente come
farebbe un utente finale, perché sono arrivate
dopo e devono muoversi un passo alla volta
facendo attenzione a non rompere gli equilibri
esistenti4».
Costantemente connesso tramite device mobile,
l’utente-cliente riceve numerosi stimoli da
parte di altri interlocutori. Monitorarne il
comportamento attraverso le attività di marketing
e comunicazione significa intercettare, allora,
una serie di momenti informativi nei quali viene
coinvolto, che non originano sempre da una
necessità di beni o servizi, ma spesso dal bisogno
di reperire recensioni o consigli su articoli già
acquistati, come le istruzioni per l’uso o le guide
per l’ottimizzazione del loro utilizzo. All’interno
di tali momenti si inseriscono, ad esempio, altri
clienti che hanno già acquistato un prodotto
o usufruito di un servizio, oppure esperti che
forniscono analisi dettagliate, attraverso forum,
social o siti di comparazione di prodotti.
Il momento dell’acquisto vero e proprio è
preceduto e seguito, insomma, da scambi
relazionali tra utenti, prodotti e brand, che
consentono di compiere scelte sempre più mirate
e consapevoli. Il monitoraggio di tali fasi da parte
F OC U S
Le tesi del Cluetrain Manifesto
Gli autori del Cluetrain Manifesto3, invito
all’azione per le imprese che operano nel nuovo
mercato interconnesso, basano le loro 95 tesi sulla
constatazione che grazie al web i mercati si autoorganizzano più velocemente e sono sempre più
informati, intelligenti, desiderosi di qualità che
mancano alla maggior parte delle organizzazioni
aziendali. Assunto fondamentale da cui muovere
è la nuova equazione secondo cui nel mondo
digitale «i mercati sono conversazioni». In rete
non esistono segreti e i prodotti sono conosciuti
meglio delle stesse aziende: se una cosa è buona o
cattiva, tutti ne vengono a conoscenza. Nel 2015,
121 nuove tesi sono state diffuse con il nome di
New Clues: a sedici anni dalla pubblicazione del
manifesto, i nuovi indizi contemplano big data e
applicazioni e non mancano di citare i “monarchi
della rete”.
velocità di propagazione ed eco rispetto a
quante ne avesse offline, è fondamentale che le
aziende «si allineino per quel che concerne toni,
Fig. 1 - Moments of truth. Il viaggio del consumatore
3
4
R. Levine, C. Locke, D. Searls, D. Weinberger, The Cluetrain Manifesto, Perseus Books, 2000.
G. Di Fraia (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 2011.
16
Comunicazione aziendale e Social Network
delle aziende può servire non soltanto a soddisfare
i bisogni legati al consumo, ma a soddisfare il
cliente durante il suo intero customer journey5 o
viaggio del consumatore (fig. 1), in un’ottica di
customer-care (post vendita) o di formazione al
consumo responsabile (ex ante).
aziende devono utilizzare gli strumenti offerti dal
digitale per entrare in ascolto di quegli utenti che
parlano del loro brand in diversi luoghi virtuali,
da Facebook ai forum specialistici del settore di
riferimento, luoghi spesso privi di qualsiasi filtro,
dove comprendere quali sono i trend o qual è la
posizione dei competitor.
Il digitale consente di uscire dalla logica
meramente statistica per adottare il punto di
vista della comunicazione one-to-one, attraverso
cui entrare in relazione diretta con il proprio
interlocutore e conoscere quali contenuti
suscitano il suo interesse. Dopo avere creato
awareness, occorre coltivare la relazione con
ciascun utente, al fine di generare un lead7, ossia
un contatto profilato. Tra i vari possibili clienti si
intercettano quelli più sensibili al tipo di prodotto
proposto, si chiede loro il consenso a fornire
i propri contatti e si costruisce un database. Il
pregio della lead generation è la creazione di una
lista di possibili clienti realmente interessata e,
quindi, con una certa propensione all’acquisto del
prodotto o servizio offerto. Sono poi necessarie
delle piattaforme di Crm per gestire la relazione
instaurata, monitorare la ricezione dei contenuti
inviati al potenziale cliente e anticiparne le
attività future.
In definitiva, ciascuna azione improntata alla
conoscenza dell’utente e della propria reputazione
online diventa fondamentale per definire le leve
di marketing più adeguate, migliorare l’offerta,
avere una visione più realistica dei bisogni dei
clienti e del mercato di riferimento.
Conoscere l’utente: cosa sapere
e attraverso quali strumenti
per generare relazioni di valore
Primo passo da compiere è un ascolto attento,
per comprendere il coinvolgimento dei clienti
con il brand e orientarsi nei territori del buzz
(passaparola) in rete. Raggiungere il consumatore,
comunicare i propri valori e generare profitto è un
obiettivo cui tendere attraverso la fondamentale
creazione di engagement e di relazioni. Per
stabilire relazioni di valore con l’utente, l’azienda
deve anzitutto compiere una serie di passaggi
improntati alla sua conoscenza. Nello specifico,
deve imparare a:
• Conoscere l’utente e i suoi universi culturali (il
suo linguaggio, i suoi mondi di riferimento)
• Conoscere quali canali frequenta
• Conoscerne le fasi del processo decisionale
d’acquisto
• Conoscere in che tipo di relazione è con il suo
prodotto (cliente fedele, da fidelizzare, possibile
sponsor6).
Tra gli strumenti utilizzati per la conoscenza
dei potenziali clienti, emerge l’analisi delle
conversazioni in rete, un efficace evoluzione
delle più costose ricerche di mercato, funzionale
al raccoglimento e all’interpretazione dei dati
provenienti da fonti non strutturate, quali le
interazioni tra utenti su varie piattaforme come
i social media. Anziché limitarsi a misurare le
performance delle proprie attività sui social, le
La SocialMediAbility
delle Aziende Italiane
Luogo virtuale nonché strumento della
comunicazione condivisa per eccellenza sono
5
L’ espressione customer journey (o viaggio del consumatore) è utilizzata per indicare il percorso decisionale ed operativo che
il cliente attraversa, prima di compiere un determinato acquisto. Nell’era digitale risulta arricchito di nuove fasi e influenzato
da diversi canali, messaggi, device.
6
A tal proposito, può essere utile approfondire il concetto di brand advocates, persone individuate e selezionate sulla base
di specifiche caratteristiche, che hanno il compito di sostenere, promuovere e invogliare la conoscenza di un determinato
brand, prodotto o contenuto, grazie a una capacità di convincimento basata sul loro trust in un determinato settore d’azione.
7
La lead generation è un’ azione di marketing che consente di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o
servizi di un’azienda. Il messaggio di vendita viene veicolato soltanto ad alcuni consumatori, profilati grazie agli strumenti
di marketing strategico.
17
Comunicazione aziendale e Social Network
i social media, catalizzatori di attenzione con
i quali l’azienda si trova a fare i conti in un
mercato digitale dove la parola d’ordine è ‘esserci’.
Ma in quale misura e con checoinvolgimento
sono presenti le aziende italiane sui principali social
network?
A dircelo è la ricerca sulla SocialMediAbility8
realizzata dall’Osservatorio Social Media
dell’Università IULM, che dal 2010 fornisce
una panoramica sull’utilizzo dei social media
nell’universo aziendale italiano. L’indice di
SocialMediAbility (SMA) è un indicatore
sintetico della qualità complessiva dell’uso che
l’azienda fa dei social media come canali di
relazione, comunicazione e marketing.
Giunta alla sua quarta edizione, da maggio a
novembre 2015 la ricerca ha monitorato un
panel di 720 aziende; sei, i settori di attività presi
in considerazione: Alimentare, Arredamento,
Bancario, Hospitality, Moda&Design e B2B.
Realizzato in collaborazione con Blogmeter
seguendo un approccio di tipo qualiquantitativo, lo studio ha integrato per la prima
volta un campione di 120 aziende accomunate
da un modello di tipo B2B (manifattura, legno,
gomma e plastica, metallurgia), sostituendolo
alle Pubbliche Amministrazioni.
Altra novità introdotta nel 2015 è il potenziamento
dell’indicatore di SocialMediAbility. Sino al
2013, l’indice si basava su tre dimensioni quali
Orientamento, Attenzione-Cura (Gestione) ed
Efficacia, ma nel 2015 il macroindicatore relativo
alle performance è stato suddiviso in due ulteriori
dimensioni: Reachness, che misura la capacità
dell’azienda di raccogliere e raggiungere un
bacino di utenti attraverso i social (numero fan/
follower, iscritti ai canali) e General Engagement,
che fa riferimento alle performance in termini
di ingaggio e relazione con l’utente. Si è inoltre
aggiunta la dimensione Caring, data l’importanza
assunta dai canali social per le attività di customer care.
Per ogni settore considerato, è stato analizzato
un campione casuale di aziende, articolato per
dimensioni (grandi, medie, piccole) in grado di
rappresentare effettivamente “lo stato dell’arte”
del sistema, senza limitarsi a raccontare le best
performance delle (solite) grandi aziende. La
ricerca funziona tramite l’analisi desk, ovvero
l’analisi del contenuto: gli analisti prendono
in esame i siti e i canali social delle aziende. Di
seguito, si riportano alcuni tra i risultati più
significativi.
Il 75% delle aziende monitorate ha un sito brand
o istituzionale, tra esse in maggior misura quelle
operanti nei settori Alimentari e Banche. Quasi
la metà delle B2B, invece, è sprovvista di sito, così
come un terzo delle piccole aziende. Le maggiori
presenze web riguardano grandi e medie aziende.
Per quel che concerne il tasso di penetrazione
dei social media, il 73% delle aziende (escluse le
B2B) è presente su almeno un social network: un
notevole passo avanti rispetto al 32% del 2010.
Tra i social network utilizzati dalle aziende, il
79% ha attivato Facebook , il 55% YouTube,
il 48% Twitter (fig.2). Rispetto al 2013, cresce
la presenza su social media quali Instagram e
Pinterest.
Tra i settori considerati, il più attivo9, sia su
Facebook sia su Twitter, risulta quello bancario,
particolarmente produttivo nel social care,
l’insieme di attività di customer care realizzate sui
profili social.
Ottima l’integrazione tra sito e canali social:
l’82% delle aziende considerate presenta sul
proprio sito dei link che rimandano ai social
media, mentre nel 2010 ciò avveniva appena per
il 17%.
I risultati più negativi, invece, si registrano
rispetto alle strategie da adottare nell’utilizzo e
nella gestione dei social media, talvolta assenti o
non efficacemente implementate.
Tra gli scopi dello storytelling di un’azienda
La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV Edizione), Osservatorio sui Social Media , Università IULM, 28 gennaio
2016, http://www.slideshare.net/mastersocialmedia/la-socialmediability-delle-aziende-italiane-2016.
9
La pagina Facebook e l’account Twitter sono considerati attivi quando sono stati pubblicati almeno due post/tweet durante
il periodo di osservazione.
8
18
Comunicazione aziendale e Social Network
Fig. 2 - I social media attivati dalle aziende italiane. La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV Edizione).
emergono la brand awareness10, il marketing
di prodotto e la generazione di engagement.
L’analisi della tipologia dei contenuti veicolati
attraverso Facebook rivela come la maggior parte
di essi sia di tipo informativo-comunicativo del
prodotto e che solo in minima parte i contenuti
siano orientati a stimolare una reazione o una
relazione con l’utente, risultando nel complesso
molto autoreferenziali.
L’indice sintetico complessivo di SocialMediAbility
del 2015 si attesta a 2,7 punti, in rialzo rispetto al 2013
(1,91), ma l’indice sintetico SMA totale, che tiene
conto delle nuove dimensioni introdotte, è di 2,5.
Sebbene la ricerca metta in luce un graduale
incremento della sensibilità e dell’attenzione ai
social media da parte di aziende grandi, piccole
e medie, è necessario fare ancora molto per quel
che concerne le strategie con cui canali social
e siti attivati vengono effettivamente utilizzati,
nonché rispetto alle competenze con cui vengono
gestiti e orientati alle attività di marketing e
comunicazione aziendale.
Valentina Barresi
10
Il concetto di brand awareness (notorietà di marca) è legato al grado di riconoscibilità di un marchio e alla sua associazione a un determinato prodotto da parte dei potenziali consumatori. La sua creazione è obiettivo primario della pubblicità
nella fase iniziale del ciclo di vita di un prodotto. L’apice consiste nel raggiungimento del punto massimo di notorietà (top
of mind), allorché il marchio diventa il primo brand cui le persone pensano nel processo di acquisto di un prodotto o
servizio.
19
Comunicazione aziendale e Social Network
Riferimenti bibliografici
Di Fraia G. (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico
Hoepli Editore, Milano, 2011.
Levine R., Locke C., Searls D., Weinberger D., The Cluetrain Manifesto, Perseus Books, 2000.
Osservatorio sui Social Media, Università IULM, La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV
Edizione), 28 gennaio 2016.
Tapscott D., Williams A. D., Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everything, Portfolio,
2006.
20
Comunicazione
e paradigmi del futuro
Tratto dalla lezione di Francesco Morace
«In ogni luogo vi è un centro del mondo»
Mircea Eliade
Genius loci - Societing - Reputation management
Fig. 1 - The Great Beauty
Nullus locus sine genio: non esiste alcun luogo
che non abbia un genio. Così scriveva Servio nel
suo commento all’Eneide: più di duemila anni
or sono. Nullus locus Italiae sine genio: potrebbe
riscriversi in questo modo, oggi, il motto. Nessun
luogo d’Italia è senza genio. Non lo si consideri
(soltanto) alla stregua di un discorso politico o
poetico; si tratta di un punto di partenza impre-
scindibile per cominciare a discutere di futuro
dell’economia, ovvero del nostro avvenire. Non
occorre essere necessariamente visionari o futurologi, però il professor Francesco Morace,
sociologo e autore di saggi di successo, lo è ed
è convinto di questa potenza del genius loci, una
leva che è prima di tutto italiana. In soccorso
delle sue ipotesi arrivano ben 27 anni di ricerche
21
Comunicazione e paradigmi del futuro
presso il Future Concept Lab1 da lui stesso ideato nel 1987 per costruire unarete fitta di cool
hunters (sono 100 in tutto il mondo, 18 soltanto
a Milano). Più che di tendenze, a dire il vero, bisognerebbe parlare di “segnali deboli di cambiamento” da intercettare per tempo. E per tempo
significa: prima degli altri.
Tutto questo è legato a doppio filo con l’economia
italiana, ma soprattutto col cambio di paradigma
valoriale che nell’economia più in generale sta
accadendo. Il professor Francesco Morace ha accantonato questo termine latino (complesso per
i veloci flussi comunicazionali contemporanei),
coniandone però un altro molto simile per gamma di significato: l’Italian Factor2. È l’X-Factor
dell’Italia, ma non un reality show: presuppone la
capacità di trasformare una vocazione psicologica e un’attitudine culturale in un fattore economico che possa moltiplicare il valore delle nostre
attività e delle nostre imprese. Tre sono le parole
chiave per il futuro dell’Italia, i suoi standard
innovativi: verità, bellezza e vocazione.
Il genius loci è certamente l’Italian Factor, ma
non solo. Basti pensare che la “scoperta” delle
onde gravitazionali stava per essere fatta da un
gruppo di italiani, ma è made in Italy al 100% una
delle ricerche più entusiasmanti degli Anni Novanta: i neuroni specchio, descritti per la prima
volta negli Anni Novanta dal professor Giacomo
Rizzolatti dell’Università di Parma, oggi in odore
di Nobel.
È necessario in questa occasione riprendere
l’iniziale concetto di genius loci, e per spiegarlo
occorre partire da molto lontano: dagli antichi
romani. Il loro paganesimo aveva previsto per
ogni luogo la presenza di un “genio”, vale a dire
di una divinità atta a preservare e favorire la ricchezza di quello stesso posto. L’etimo della parola “genius”, in effetti, deriva dal verbo latino
“gignere” che significa “generare, creare”, ed era
utilizzata per identificare il Nume che costituiva
la forza creatrice, la “vis generandi” dell’uomo. Il
genius era una figura centrale nella religione romana. Si pensi a Napoli, non a caso città d’origine
dello stesso Morace. Il nome di una delle realtà
metropolitane italiane più note e affascinanti al
mondo era originariamente Parthenope. Secondo la mitologia classica Parthenope era la più
bella sirena dei mari che però non aveva raggiunto uno scopo per lei ineluttabile: sedurre Ulisse. Per questo motivo, per non essere riuscita
nell’intento, si era data la morte in mare e la leggenda vuole che il suo corpo per metà donna e
per l’altra metà pesce sia finito proprio sulle coste
del golfo di Napoli. La città assunse dunque a sua
divinità protettrice la sirena, e probabilmente
non è un caso che ancora oggi il luogo conservi
un fascino davanti al quale pochi riescono a sottarsi. Il genius loci è stato poi declinato nel tempo
anche in altri ambiti, tra cui l’architettura, la progettazione di spazi. Il primo a parlarne in un libro omonimo è stato Christian Norberg-Schulz,
il quale sosteneva che «proteggere e conservare
il genius loci significa concretizzarne l’essenza in
contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire
che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua
autorealizzazione».
1
2
F OC U S
I neuroni specchio
Prendiamo tra le mani una penna. Chi ci guarda
sa quello che vorremmo fare: iniziare a scrivere,
giocarci con le dita o, magari, lanciarla a un amico
durante la conferenza. Se chi ci guarda può in
qualche modo “giocare d’anticipo”, capirci, è grazie
ai neuroni specchio. Si racconta che la scoperta del
“sistema mirror” avvenne per caso: un ricercatore
aveva installato dei microelettrodi sensori nel
cervello di una scimmia (nella “corteccia”)
raggiungendo dei neuroni che si attivavano quando
la scimmia prendeva un’arachide da una ciotola.
Quando lui stesso prese un’arachide dalla ciotola
sotto gli occhi della scimmia, inaspettatamente, i
rivelatori di attività risuonarono: i neuroni della
scimmia si erano attivati. Quei medesimi neuroni,
che si attivavano quando la scimmia afferrava
un’arachide, lo facevano anche quando ad afferrare
www.futureconceptlab.com
Morace F., Santoro B., “Italian Factor. Come moltiplicare il valore di un Paese”, Egea, Milano, 2014
22
Comunicazione e paradigmi del futuro
l’arachide era il ricercatore e la scimmia non si
muoveva. Questo perché riconosciamo quel gesto,
anzi ci riconosciamo in quel gesto. Semplificando
ancora, si attivano i neuroni specchio anche
quando in un gruppo una persona sbadiglia e
pure altri prendono a farlo, o se qualcuno ride
molto e tutti si ritrovano a condividere quella
risata. Come spiegano Rizzolatti e Sinigaglia,
«al pari delle azioni, anche le emozioni risultano
immediatamente condivise: la percezione del
dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree
della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando
siamo noi a provare dolore o disgusto». Le nostre
sharing economy potrebbero giovare molto da
queste scoperte.
Una assoluta novità nel campo delle
neuroscienze che ha poi generato applicazioni
anche nell’economia e nel marketing. Secondo i
neuroscienziati che hanno condotto la ricerca,
il sistema mirror ci permette una rapida visione
di ciò che ci accade intorno, di provare le
emozioni altrui, immedesimandoci ed entrando
in empatia, e di imparare per imitazione.
L’attivazione dei neuroni specchio genererebbe
una rappresentazione motoria interna dell’atto
osservato dalla quale dovrebbe dipendere la
capacità di comprendere l’azione osservata e la
capacità di apprendere per imitazione. Ecco,
parliamo dell’imitazione e dell’emulazione:
qualcosa che non è strettamente legato all’invidia
o al desiderio di possedere di più di quanto
altri posseggono già. Sarebbe bene parlare
Fig. 2 - Neuroni specchio dell’anima
23
Comunicazione e paradigmi del futuro
infatti di empatia, e in questo modo si ritorna
all’aristotelicouomo come animale sociale, ma
soprattutto si arriva ad una nuova concezione
che non è quella dell’homo oeconomicus o lupo
divoratore di propri simili.
agli scambi simbolici (anche se differenti per
visione, anzi visionarietà) Jeremy Rifkin, tra gli
economisti più famosi al mondo. Nel suo saggio
“La società a costo marginale zero” lo studioso
americano analizza gli elementi protagonisti di
un processo in corso che tramite l’Internet delle
Cose e l’affermarsi dei commons collaborativi
porterebbe all’eclissi del capitalismo perché «una
parte sempre maggiore dei beni e servizi che
costituiscono la vita economica della società
muove verso il quasi azzeramento dei costi
marginali e diventa praticamente gratuita».
La gratuità, proprio quanto l’informazione,
dovrebbe contraddistinguere tante merci, anche
se per ora perlopiù non tangibili. La crisi attuale
ci ha portati ad allontanarci da un modello
economico che è insostenibile: la visione
finanziaria dell’economia ha fallito e non ci piace
più. Cerchiamo “esperienze”, più che prodotti,
tanto che la moneta di scambio diventa più
spesso la condivisione all’interno di una rete di
contatti “virtuali”. App come “Airbnb”, “Uber” e
“Blablacar” fondano la propria economia sulla
condivisione. Ma funzionano a patto che si
rispetti la verità di quanto si scrive e recensisce,
permettendoci di costruire (e diffondere) una
vera e propria (cultura della) reputazione.
Già nel 1976 Jean Baudrillard aveva scritto un
libro provocatorio, “Lo scambio simbolico e la
morte”, in cui sosteneva la teoria dello scambio
simbolico in opposizione ai valori capitalistici
di utilità e profitto monetario in favore di quelli
culturali: una rottura con le teorie marxiste e
con i valori di scambio e produzione così come
concepiti in quel momento. Baudrillard descrive
lo scambio simbolico come attività poetica e
culturale creativa che fornisce delle alternative
ai valori capitalistici della produzione. Il cambio
di paradigma sta proprio qui: si tratta di una
trasformazione che modifica la relazione con
l’economia, con il denaro e i servizi o i prodotti. Si
va, insomma, verso esperienze che sempre meno
si possono acquistare: la serenità, la socialità,
quindi la reputazione e l’affidabilità. E questo
già Baudrillard lo aveva capito, e lo si intuisce
leggendo un altro libro, “Lo specchio della
produzione”: «La relazione sociale simbolica è
il ciclo ininterrotto del dare e del ricevere che,
nello scambio primitivo, include il consumo del
‘surplus’ e dell’anti-produzione intenzionale».
Tali assunti oggi vengono utilizzati per cercare di
intercettare quelle “tendenze” secondo le quali il
marketing si sta evidentemente trasformando: si
dovrebbe piuttosto parlare di societing3, come ha
sottolineato per primo Fabris osservando che le
ricerche di mercato convergono verso una analisi
(sociologica) sempre più globale della società.
Dalle 4 P del Marketing si dovrebbe così passare
alle 4 P del Societing. Un passaggio epocale,
come dall’analogico al digitale. People, places,
plans e project, ovvero persone, posti, pensieri
e progetti.
Nel XXI secolo post-crisi la reputazione è
potere: l’Italiano detiene un forte potere in
tal senso, ma non lo sfrutta. La reputazione
stabilisce come ci vedono gli altri, cosa faranno
per noi: ad esempio se quella azienda ci
assumerà, se la banca ci concederà il fido, forse
persino chi ci amerà, sposandoci. Mediante la
tecnologia, in effetti, chiunque può accedere a
un tesoro di informazioni su di noi (abitudini
di acquisto, finanze, reti personali, la nostra
geolocalizzazione) in qualsiasi momento. È la
“Reputation Economy”, bellezza. Nell’economia
della Reputazione la tecnologia consente ad
aziende e individui di raccogliere tutti questi
dati, ma anche di aggregarli e analizzarli con
rapidità e precisione e la reputazione digitale sta
Ai giorni nostri è arrivato a conclusioni simili
relativamente al cambiamento di prospettiva e
Neologismo che fonde la sociologia col marketing; è stato coniato per primo da Giampaolo Fabris. Vedi: www.webmarketinggarden.it/dal-marketing-al-societing-le-10-tesi-di-giampaolo-fabris/
3
24
Comunicazione e paradigmi del futuro
usato il termine “fast”), bensì la tempestività,
la velocità di risposta: si tratta della stessa
differenza che i greci operavano per distinguere
il tempo del “kronos” dal tempo del “kairòs”;
solo quest’ultimo nella Grecia classica significava
adeguata reattività. In fondo ai nostri tempi
c’è gran richiesta di prodotti e servizi semplici
ed efficaci e al contempo capaci di soddisfare
esigenze in maniera precisa e diretta, incisiva
e rapida. Il cliente pretende che le sue richieste
siano esaudite ed anche di disporre con facilità e
tempestività dell’oggetto d’acquisto a qualunque
ora: felicità fruitiva e immediatezza d’uso sono
diventati dei “must”.
Non bisogna dimenticare un assunto: non
esiste ormai separazione tra ciò che è di prima
necessità da ciò che è soltanto di tendenza.
Altro paradigma da tenere d’occhio è quello del
“Crucial & Sustainable”, ovvero la questione
della crucialità e della priorità dei prodotti,
i quali divengono persino partner di vita.
Questo paradigma abbraccia anche il tema della
sostenibilità, dell’etica, la necessità di alimentare
comportamenti e stili di pensiero per minimizzare
gli impatti negativi sull’ecosistema e al tempo
stesso la capacità di restituire il giusto peso alle
risorse “core”, ai valori che contano. È aumentata
vistosamente la sensibilità per un cambiamento
legato ad una presa di coscienza collettiva (e non
più solo di nicchie elitarie) relativa all’ambiente e
alle sue priorità: il brand diventa un partner di vita.
Quarto e ultimo paradigma della comunicazione
è quello definibile “Unique & Universal”,
quello più vicino al concetto di “Italian Factor”
e di “genius loci”: avrà sempre più valore ciò
che si distingue come unico, pertanto locale,
e al tempo stesso universale, dunque globale.
Si innesta qui l’arcinoto concetto di “glocal”5,
caratteristica che aderisce molto facilmente al
profilo storico, culturale ed economico italiano.
Potrà essere più facilmente riconosciuta con
maggiore trasparenza la distintività dell’origine e
dei processi dei prodotti, i quali da locali passano
ad essere opzioni universali.
diventando la moneta più preziosa.
Uno dei maggiori interpreti di questa visione
del futuro è Michael Fertik, osservatore
delle dinamiche digitali e guru del reputation
management, che in un libro4 scritto con David
C. Thompson ci introduce a quegli strumenti
necessari per migliorare le nostre prospettive
professionali, finanziarie e sociali, magari anche
nascondendo le informazioni negative nella
rete. I dati sono le nostre impronte digitali
costantemente accessibili, in un’era in cui la
reputazione vale già più del denaro che abbiamo
in portafoglio. E l’Italia che reputazione ha? Anzi,
gli italiani che reputazione hanno dell’Italia?
L’Italia sembra non avere autostima: una
recente ricerca dimostra come il valore del Paese
percepito da chi lo abita sia inferiore di 27 punti
percentuali a quello percepito da chi viene a
lavorarci o a visitarlo. Non c’è che dire: anche
in questo siamo unici al mondo: riusciamo ad
essere fortemente campanilisti ed estremamente
esterofili.
Occorre evidentemente un cambio di prospettiva,
così come il cambio di prospettiva è avvenuto
già nella definizione di paradigmi (individuati
da Morace) che regolano i meccanismi della
comunicazione e del marketing che si apprestano
a confluire nel societing. Il “Trust & Share”, ad
esempio, ci fa comprendere come si sia passati da
una logica di fidelizzazione all’affidamento, quasi
empatico.
Empatia, sistema mirror, neuroni specchio:
il cerchio si chiude. Ora la sfida è rinnovare
quotidianamente lealtà e condivisione, puntare
sulla convergenza tra consumatore e azienda.
Solo così potrà generarsi una catena del valore
fondata sull’integrazione tra produttore e
consum-autore (secondo una felice intuizione di
Morace). La marca diviene una sorta di ambiente
comune in cui condividere ideali di fiducia, lealtà
e appartenenza. Il secondo paradigma vincente
è quello del “Quick & Deep”, dove l’aggettivo
inglese “quick” non indica la velocità (si sarebbe
Fertik M., Thompson D , “Reputation economy. Come ottimizzare il capitale delle nostre impronte digitali”, Egea, Milano,
2015
5
“Glocal”: termine che riassume globale e locale.
4
25
Comunicazione e paradigmi del futuro
Molti in questi anni si sono mostrati i fautori
della decrescita felice6, ma a dispetto della
vasta letteratura sul tema, è ancora il sociologo
Francesco Morace a parlare, al contrario, di
“crescita felice”, intendendo per essa una crescita
sana e sostenibile, basata sulla qualità reale e
completa dei prodotti e delle organizzazioni.
L’Italia può andare in questa direzione perché
ha la grande fortuna di produrre manufatti (ma
dovrebbe imparare a farlo anche nei servizi) che
entrano nella vita delle persone e influiscono
quindi sulla loro felicità. Tra gli esempi più
lampanti l’espresso di Illy: un prodotto accessibile,
eppure di elevata qualità, anche se non di lusso,
come si intende comunemente, ma sicuramente
in linea con il concetto di crescita felice; in una
sola parola: una eccellenza. «Parlando di crescita,
intesa come dimensioni, non credo – sostiene
Morace – che le aziende italiane debbano seguire
la strada dell’essere grandi o più grandi di quanto
il nostro codice genetico ci permetta di essere.
Si può essere piccoli e crescere seguendo questa
strada della crescita felice». Illy è, insomma,
un caffè di elevata qualità ad un prezzo medio:
qualcosa che fa avvicinare il consumatore al
concetto di felicità. Qui si entra in un altro campo
ampiamente dibattuto. Cos’è la felicità? Come si
misura? Si può misurare davvero la felicità?
Morace, difatti, parla nei suoi studi di intelligenza
contestuale, una particolare connotazione del
saper fare italiano, spesso confusa con “furbizia”.
L’intelligenza contestuale è saper cogliere al
primo sguardo, che è un altro modo di definire
la per certi versi strabiliante capacità di problem
Fig. 3 - Selfie busto di Caracalla
solving insita naturalmente negli italiani.Tutto
quanto sinora illustrato non è un panegirico
dell’Italia, quanto piuttosto un elogio alle
potenzialità inespresse del Belpaese, alla sfida
del futuro cui la nostra Penisola è già attrezzata.
Darwin non era italiano, e in questo frangente è
necessario citare i suoi studi, perché anch’egli si
interrogò sulla bellezza, tema alquanto dibattuto
in quanto generatore o meno di economia. Come
scrisse il teorico dell’evoluzionismo nei suoi
taccuini: «La bellezza è un sentimento istintivo, e
questo taglia il Nodo», affermando la relazione di
dipendenza dei nostri giudizi estetici dagli istinti
gradualmente sedimentatisi nella storia naturale
della nostra mente.
La bellezza magari non sarà un sentimento oggettivo, però recenti studi di neurofisiologia
stanno dimostrando la capacità di riconoscerla
secondo elementi piuttosto precisi. Il Rinasci-
Uno psicologo israeliano, David Kahneman,
nel 2002 vince il Nobel per l’economia. Sembra
arduo accostare psicologia ed economia,
economia e felicità, eppure Kahneman ha scritto
un libro intitolato esattamente “L’economia della
felicità”. La nascita del campo disciplinare della
economia cognitiva, oggi in pieno sviluppo, non
sarebbe certamente pensabile senza i suoi studi.
Il suo obiettivo è quello di esplorare il mondo
che “sta dietro” alle scelte e alle decisioni di un
individuo, ossia il mondo delle preferenze. Una
prima parte della teoria dell’economista psicologo
ruota attorno a un “programma di ricerca” che
conduce e approda alla teoria del framing delle
decisioni ossia della loro “contestualizzazione”.
6
La decrescita è una critica all’economia della crescita con un manifesto che si propone di ridurre il consumo delle merci
che non soddisfano nessun bisogno
26
Comunicazione e paradigmi del futuro
mento italiano è un’epoca storica che ogni nazione avrebbe voluto vivere, ed ancora oggi milioni
di visitatori giungono da ogni parte del mondo
per ammirarne i resti, per lasciarsene influenzare.
Riconoscere la bellezza significa ri-conoscere se
stessi: Socrate ce lo suggerì 2.500 anni fa.
Simone Di Biasio
27
Comunicazione e paradigmi del futuro
Riferimenti bibliografici
Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1990.
Darwin C., Taccuini filosofici, a cura di A. Attanasio, Utet, Torino, 2010.
Kahneman D., Economia della felicità, Il Sole 24 Ore Libri, Milano, 2007.
Morace F., Crescita felice. Percorsi di futuro civile, Egea, Milano, 2015.
Rifkin J., La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo
e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano, 2014.
Rizzolatti G., Sinigaglia Corrado, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio,
Raffaello Cortina, Milano, 2006.
28
Web 2.0 e nuovi modelli
di business
Tratto dalla lezione di Carlo Alberto Carnevale Maffè
«Chi si occupa di comunicazione si è trasformato da mercante d’attenzione a gestore di conversazioni e di esternalità»
conversation - commitment - externalities
con un forte connotato economico che può
essere descritta avvalendosi delle tre tesi della
microeconomia della comunicazione strategica, già
presentate al World Communication Forum di Davos:
1) Messagges become money
2) Communications become contracts
3) Conversations become commerce
La prima tesi aiuta a definire il ruolo della
comunicazione nella produzione di valore
economico. È sufficiente, infatti, pensare
all’importanza di aziende che basano il proprio
business sul valore prodotto dai flussi comunicativi,
come Whatsapp, Google o Facebook. Internet
ha permesso di assegnare ad ogni flusso di
comunicazione una concreta valenza economica,
patrimoniale, finanziaria.
Ma non solo: la comunicazione è denaro perché
produce un’enorme mole di metadati che permette
di profilare i clienti e anche perché, grazie alla
viralità1 di un messaggio e al word of mouth2,
L’avvento e la diffusione di internet hanno
trasformato radicalmente ogni mercato, annullando
le asimmetrie informative che prima esistevano fra
domanda e offerta. La domanda è così diventata
un soggetto autonomo, complicato, articolato
e coordinato capace di cercare informazioni,
acquistare prodotti, confrontare prezzi e valutare
recensioni in ogni angolo del globo. Internet,
nella sua versione 2.0, è uno strumento che può
organizzare in maniera innovativa il mercato e
l’incontro tra la domanda e l’offerta.
In questo contesto, ormai mutato, la comunicazione
strategica non può più essere definita come un’attività
che mira a divulgare dei contenuti coerenti e a
raggiungere target e obiettivi misurabili utilizzando
un determinato budget. Questa formula appare
ormai obsoleta e sterile, sia per le imprese che per
i consumatori, in quanto la comunicazione deve
diventare ascolto delle tendenze della domanda.
Grazie a internet, si è sviluppata una comunicazione
Fig. 1 - L’avvento di internet e dei social network ha impattato la comunicazione d’azienda
Un messaggio si definisce virale quando, grazie anche ai suoi aspetti non convenzionali, raggiungere un numero elevato di
destinatari
2
Con questo termine si indica il passaparola, cioè il modo diretto con cui si propaga un’informazione da un soggetto all’altro
all’interno di una comunità reticolare
1
29
Web 2.0 e i nuovi modelli di business
consente di risparmiare il costo dell’acquisto di
spazi pubblicitari.
I messaggi in certi casi possono persino diventare
un sussidio, cioè un invito all’acquisto grazie ad
una promozione, un voucher o un coupon.
La seconda tesi “Communications become
contract” significa che ogni sistematico scambio
di messaggi può essere letto, implicitamente,
come un impegno contrattuale reciproco tra
azienda e consumatore. In questo senso, il ruolo
di un’autentica comunicazione bidirezionale
sarebbe quello di proporre una negoziazione
degli accordi del contratto da cui far discendere
vincoli, obblighi, responsabilità.
Con il contratto il consumatore sigla un
impegno comportamentale costante: fedeltà ad
un brand, partecipazione in una community e
altri atteggiamenti proattivi. A sua volta l’offerta
s’impegna a premiare il behavioural commitment3
dei consumatori. La comunicazione diventa
anche un’occasione per individuare un service
level agreement4 e per prevedere l’andamento
delle vendite con evidenti ripercussioni positive
sugli aspetti di produzione e logistica.
La terza ed ultima tesi “Conversations become
commerce” si inserisce nel solco avviato dal
Cluetrain Manifesto5. Nel 1999, prima dell’avvento
del web 2.0, Rick Levine, Christopher Locke, Doc
Searls e David Weinberger avevano affermato
che “i mercati sono conversazioni”6.Appare
quindi chiaro che occuparsi di comunicazione
significa sempre più creare un complesso dialogo
fra aziende e rispettivi stakeholders. Con la
penetrazione di internet nella vita quotidiana
la transazione d’acquisto diventa quasi un fatto
accidentale, non un fine. A riprova del fatto che la
conversazione è diventata commercio possiamo
pensare ai like e ai retweet che rappresentano la
nuova moneta conversazionale di Facebook e
Twitter.
Fig. 2 - Copertina di “The cluetrain manifesto”
Alla luce di queste tre tesi innovative, internet
dovrebbe essere inteso non più come un canale
di comunicazione o di vendita, ma come un
ufficio notarile pubblico in cui viene sottoscritto
il “Contratto” tra l’azienda e i suoi clienti. Con
la sottoscrizione di un contratto l’impresa si
impegna a soddisfare le aspettative del cliente
che, in cambio, offrirà recensioni e altre attività
di rating7 e sharing8. Un contratto che non si
consuma con la vendita, ma diventa un impegno
a collaborare nel futuro con l’azienda, in modo
costante e non più occasionale od opportunistico.
Fig. 3 - Online esprimiamo il rating utilizzando una
scala da 1 a 5 stelle
3
Il behavioural commitment è letteralmente un impegno comportamentale. In questo contesto si fa riferimento ai comportamenti che il consumatore può intraprendere nei confronti di un brand o un marchio.
4
L’Accordo sul Livello del Servizio è uno strumento per definire le caratteristiche che deve rispettare chi eroga il servizio in
oggetto. Rappresenta un vero e proprio obbligo contrattuale.
5
http://www.cluetrain.com/
6
«Markets are conversations»
7
Valutazione pubblica di un determinato servizio, prodotto, luogo o brand. Rappresenta un indice di gradimento.
8
Atto consapevole di condivisione e diffusione di contenuti creati da aziende o da altri utenti
30
Web 2.0 e i nuovi modelli di business
- “Andate e venite”: il traffico in negozio e la
frequenza di acquisto sono comportamenti che
la comunicazione dovrebbe incentivare anche
per dar vita alla raccolta di metadati sui clienti.
- “Non venite, veniamo noi”: la comunicazione
può sfruttare le caratteristiche di internet per
raggiungere e coinvolgere i clienti, anche con
l’ideazione di branded content11.
Internet, lo abbiamo dimostrato in vari punti,può
essere interpretato come uno strumento
organizzativo del mercato che facilita il ruolo
della comunicazione nel concludere un patto
fra consumatori e imprese. Il nuovo sinallagma
contrattuale diventa quindi un impegno di
medio termine del cliente in cambio di una
maggiore efficienza della catena del valore
d’offerta (perché, in altre parole, se un cliente si
impegna a comprare in futuro, questa decisione
rende più efficiente la previsione e la produzione
dell’offerta).
A conferma di quanto appena descritto analizziamo
la costruzione della catena del valore aggiunto12 di
Google, inteso come un hub13 di flussi comunicativi
fra diversi attori interconnessi fra loro:
L’idea di una comunicazione che, grazie a
internet, mira alla conversazione con i vari
clienti dell’impresa, prende ispirazione da alcuni
semplici principi:
- “Venite già comprati”: il patto di acquisto si
realizza in anticipo rispetto all’ingresso nel punto
vendita. Sono sempre più diffusi i processi ROPO9
che portano i consumatori a formare la propria
decisione d’acquisto online per poi concretizzarla
in un secondo momento nel punto vendita.
- “Venite già spesati”: i clienti possono utilizzare
con maggior facilità voucher ed altre forme di
pagamento elettronico. L’azienda può sfruttare
questa leva monetaria per ridurre l’opportunismo
dei consumatori e per aumentare allo stesso
tempo la loro fedeltà.
- “Venite accompagnati”: per la maggior parte dei
clienti il consumo e l’acquisto sono fenomeni sociali
e non individuali. I social network invitano per loro
natura alla condivisione degli acquisti e producono,
di riflesso, visibilità e awareness10 per l’impresa.
Obiettivo della comunicazione nell’epoca del web
2.0 può essere quello di creare occasioni collettive
che invitino alla condivisione dell’acquisto.
Fig. 4 - Google e il Modello di Mercato Multilaterale
9
Research Online, Purchase Offline è un comportamento d’acquisto sempre più diffuso per cui i consumatori tendono a cercare online informazioni rilevanti prima di effettuare un acquisto offline
10
È la misura utilizzata per indicare la notorietà di una marca o di un prodotto
11
Il branded content indica l’ideazione, la produzione e la distribuzione di contenuti originali creati appositamente per veicolare un brand e i suoi valori
12
La catena del valore aggiunto (value chain) rappresenta una mappatura del sistema d’offerta. È un modello avanzato da
Michael Porter nel 1985.
13
L’hub è uno snodo interno ad una rete. In ambito aeronautico, ad esempio, è un aeroporto di grandi dimensioni che gestisce gran parte dei voli e dei servizi connessi.
31
Web 2.0 e i nuovi modelli di business
- merchant: l’inserzionista desidera comunicare
con possibili clienti catturando la loro attenzione
e, grazie ad un click, la loro intenzione
(d’acquisto);
- people: l’utente interroga il motore di ricerca
per consultare i contenuti indicizzati, in questo
modo produce un’esplicita attenzione e una
probabile intenzione, due beni molto scarsi e non
riproducibili;
- content provider: le società forniscono
informazioni e contenuti al motore di ricerca per
ricevere in cambio le visite degli utenti.
Google è riuscito a creare un business model
che, grazie a internet, ha rivoluzionato i
meccanismi di interazione e comunicazione tra
domanda e offerta. Nella sua catena del valore
aggiunto Google sfrutta le ugualmente le same
side externalities e le cross side externalities che
si formano nell’ambito del suo “ecosistema”:
ogni minuto passato su una pagina web da un
utente renderà quella pagina più accessibile per
gli altri utenti; correlativamente tale attenzione
(rappresentata dai click) viene offerta agli
inserzionisti.
Il motore di ricerca non stabilisce un listino prezzi
per le inserzioni, ma a definire il costo delle parole
chiave è l’interazione della domanda grazie a un
complesso sistema ad asta. La principale fonte
di revenue di questo modello è rappresentata
infatti dal denaro che gli inserzionisti investono
per occupare le prime posizioni nella SERP14.
Google può quindi esser rappresentato come una
piattaforma di scambio multilaterale che produce
esternalità positive per tutti gli attori.
La comunicazione ancora oggi può quindi creare
valore seguendo alcuni modelli standard:
- Curva della “S logistica”
È il caso della diffusione dei social network. Nel
momento del lancio gli utenti che utilizzano un
determinato social network sono pochi e quindi
il valore percepito è basso, ma quando viene
raggiunta la soglia della massa critica il valore
percepito aumenta esponenzialmente. Il numero
degli utenti ha quindi una esternalità positiva
sulla percezione del valore. Questo valore si
stabilizza quando l’arrivo di nuovi utenti non
aumenta il valore percepito dai fruitori stessi.
In questo modello la comunicazione può aiutare
l’azienda a raggiungere in minor tempo il livello
di massa critica.
F OC U S
Le esternalità sono fenomeni economici che si
riverberano su altri attori. Si distinguono in
positive se producono valore per l’intero sistema
e negative se producono svantaggi al contesto, in
same side se ricadono sugli attori dello stesso lato
del mercato e cross side se ricadono su attori di lati
diversi.
Ad esempio: i contenuti trash rappresentano
un’esternalità negativa di tipo cross side che si
ripercuote sull’azienda inserzionista che può non
apprezzare l’associazione del propri brand con tali
contenuti. L’attenzione che producono gli utenti è
un’esternalità positiva di tipo cross side che produce
valore per tutto il sistema.
Fig. 5 - Curva della “S Logistica”
14
Search Engine Results Page è la pagina dei risultati fornita dai motori di ricerca in risposta alle parole digitate da un utente
32
Web 2.0 e i nuovi modelli di business
- Curva del “wedding dress”
- Curva del “bene commodity”
È il caso del vestito da sposa o di altri beni
esclusivi. Quando il numero di consumatori è
di poche unità il valore percepito del prodotto è
altissimo, ma nel momento in cui l’uso del bene
si diffonde il valore si annulla completamente
fino a diventare –in alcuni casi- negativo. Il
numero di utenti ha quindi esternalità negative
sulla percezione del valore del prodotto.
In questo modello la comunicazione può
concorrere al posizionamento del bene nella
mente dei consumatori.
È il caso di prodotti di uso quotidiano, per cui il
volume di utenti non ha alcun tipo di esternalità
sul valore percepito.
La comunicazione può quindi diffondere al
maggior numero possibile di consumatori
l’utilizzo di un determinato prodotto o servizio.
Fig. 7 - Curva del “bene commodity”
In conclusione: chi si occupa di comunicazione
si è trasformato da mercante d’attenzione (sui
classici mass media) a gestore di conversazioni
e di esternalità (in un mondo costantemente
connesso a internet).
Fig. 6 - Curva del “wedding dress”
Stefano Iachella
33
Web 2.0 e i nuovi modelli di business
Riferimenti bibliografici
Owyang J., Sharing is the New Buying: How to Win in the Collaborative Economy
(http://www.slideshare.net/jeremiah_owyang/sharingnewbuying).
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Di Bari V. (a cura di), Web 2.0. Internet è cambiato. E voi? I consigli dei principali esperti italiani
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Poggiani A., Pratesi C. A., Marketing digitale. Come usare i nuovi media per il customer engagement,
McGraw-Hill, Milano, 2014.
Valacich J., Schneider C., Carignani A., Longo A., Negri L., Tecnologie e innovazione nei mercati
digitali. ICT e sistemi informativi, Pearson, Milano, 2015.
34
CREATIVITÀ E NUOVE FORME DI COMUNICAZIONE
PUBBLICITARIA CROSS MEDIALE
Tratto dalla lezione di Paolo Iabichino
«Il mestiere del creativo, così come lo conosciamo, potrebbe estinguersi nel giro di qualche mese.
Dobbiamo proiettare la nostra mente e la nostra professione verso l’advertising esperienziale»
EMPATIA - LOVEMARKS - MODELLO DELLE “QUATTRO E”
L’advertising classico si fonda su alcuni semplici
pr i nc ipi che han no aiut ato le impres e
a presidiare meglio il mercato in questi decenni.
Il primo caposaldo è rappresentato dalla Unique
Selling Proposition (USP)1, cioè la caratteristica
che riesce a differenziare un prodotto
dalla concorrenza e che può essere facilmente
veicolata ai consumatori attraverso la pubblicità.
La seconda certezza consiste nel cosiddetto
Modello delle “quattro P”, reso famoso negli anni
‘60 dal professore di marketing Philip Kotler.
Questo modello organizza in quattro aree le varie
attività del marketing operativo di un’impresa:
che hanno modificato e rinnovato la
figura del consumatore. Anche David
Ogilvy, uno dei grandi nomi della pubblicità,
sottolinea la necessità di rispetto – se non quasi
devozione - verso il consumatore. Sua è infatti
la frase «Il consumatore non è uno stupido.
Il consumatore è tua moglie».
La rivoluzione digitale, iniziata con la diffusione
del web, non riguarda esclusivamente i media
ma coinvolge l’intero habitat in cui le persone
sono immerse. Questo obbliga a pensare l’oggetto
creativo in maniera diversa rispetto al passato.
Solitamente, infatti, i creativi stabilivano
la scansione degli argomenti all’interno di un
contenuto pubblicitario che poteva godere della
consequenzialità nella fruizione dei contenuti
(pensiamo alla linearità di un semplice spot
tv o di una pubblicità cartacea). Adesso però
la scansione narrativa consequenziale è stata
surclassata da quella incrociata e il consumatore
decide come fruire il contenuto dell’oggetto
pubblicitario digitale (basti pensare a link,
hiperlink, immagini, gallery).
In questo contesto completamente rinnovato,
Kevin Roberts antepone la poetica del lovemark
• Product (Prodotto)
• Price (Prezzo)
• Placement (Punto di vendita)
• Promotion (Comunicazione)
Kotler, in anni successivi, aggiunge alle sopra
elencate “quattro P” la quinta P di People,
in linea con i cambiamenti avvenuti nella società
e nel marketing in seguito all’avvento di Internet.
Altri autori, allo stesso modo, parlano in contesti
simili di “consumAttore”2 e di “prosumer”3,
con il fine di descrivere le nuove caratteristiche
1
http://www.economist.com/node/14301696
Termine introdotto da Giampaolo Fabris, importante sociologo italiano che ha proposto il Societing, un
approccio al marketing di tipo socio-antropologico
3
Termine formato dalla fusione della parola producer e dalla parola consumer, introdotto da Alvin Toffler,
utilizzato per definire il protagonismo del consumatore contemporaneo
2
35
Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale
alla teoria del trademark. I lovemarks sono
marchi che occupano un posto privilegiato nella
mente –e nel cuore - del consumatore. L’impresa
e i propri prodotti dovrebbero quindi diventare
carismatici fino al punto di attirare i consumatori.
Una prova di questo “amore” è costituita da
quanto avvenuto contestualmente al restyling
del celebre marchio Gap: l’azienda nel 2010 lancia
la nuova versione del brand che sostituisce il
font Spire con l’Helvetica, ma questo nuovo logo
non riscontra il gradimento dei consumatori e
l’azienda si vede costretta a rimuoverlo dopo soli
tre mesi e a riproporre il vecchio logo.
dai propri prodotti4.
Oggi i creativi sono chiamati ad ampliare
il loro ruolo professionale fino a puntare
al miglioramento della vita delle persone.
Sensibilità e responsabilità sono due termini
chiave che diventano centrali in questo mestiere.
La domanda che dovrebbe guidare il lavoro
del pubblicitario è ben rappresentata in un
video di Apple del 2013 che descrive pensieri ed
emozioni alla base della progettazione di ogni
nuovo prodotto. La marca chiede: «What do we
want people to feel?».
Fig. 1 - Il restyling del logo Gap
L’ascolto della propria audience è fondamentale
all’interno della grammatica d’amore dei
lovemarks, come dimostra il caso Plasmon:
l’azienda nel 2016, accogliendo i suggerimenti
delle mamme, ha deciso di togliere l’olio di palma
Fig. 3 - Apple si chiede: «What do we want people to
feel?»
Fig. 2 - La campagna #tiabbiamo ascoltato di Plasmon
http://www.tiabbiamoascoltato.it/
4
36
Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale
of Truth (ZMOT), introdotto nel 2011 da Jim
Lecinski di Google. Lo ZMOT è il momento
in cui il consumatore si collega ad internet (ai
motori di ricerca e ai social network) per cercare
informazioni sulla base delle quali costruire
la decisione di un acquisto futuro, sia esso
in negozio o in e-commerce.
È quindi diventato urgente rinunciare
all’anacronistico Modello delle “quattro P”
e passare al nuovo modello delle “quattro E”5
prop osto d a Br i an Fe t he rston haug h,
Ceo di OgilvyOne:
• Da Product a Experience
• Da Price a Exchange
• Da Placement a Everyplace
• Da Promotion a Evangelism
Il consumatore, come lo abbiamo fin qui
descritto, può persino evangelizzare la propria
comunità, ovvero “diffondere il verbo” della
marca attraverso l’acquisto, il passaparola
e le sfaccettature dell’universo digitale. L’impresa
dovrebbe quindi adottare un vero e proprio
“credo” e prendere posizioni su temi pertinenti
al mondo della marca. La presa di posizione, così
descritta, fa arretrare la marca rispetto alla sua
funzione di prodotto e il racconto deve, di fatto,
fingersi disinteressato.
I prodotti poi devono riuscire a tener fede a queste
scelte, ovvero a riempire di azioni gli slogan
e le promesse.
Così ha fatto Dove, con la campagna Real Beauty
Sketches in cui ha raccontato la propria presa
di posizione sul tema della bellezza autentica,
declinato nel pay-off «You’re more beautiful than
you think».
In questo modello, la logica della transazione
economica diventa dinamica di scambio
di valore. La marca, insieme al prodotto,
trasferisce valore al consumatore che grazie alla
narrazione partecipata ricompensa la marca.
Così la marca entra nei feed esistenziali dei consumatori.
Il marketing quindi non dovrebbe ricercare
il consumer insight6 ma investigare le tensioni
culturali che il prodotto può colmare. Soprattutto
alla luce del fatto che le marche sono diventate
immersive, in quanto capaci di circondare
i loro pubblici. Questo è visibile nel passaggio
di paradigma avvenuto anche per quanto
riguarda il processo d’acquisto dei consumatori:
ai Moments of Truth7 si affianca lo Zero Moment
Fig. 4 - Campagna Dove Real Beauty Sketches
5
www.ogilvy.com/On-Our-Minds/Articles/the_4E_-are_in.aspx
6
Con questo termine di origine anglosassone si intende la comprensione da parte delle aziende dei bisogni
inespressi del consumatore col fine di creare prodotti e/o servizi capaci di colmare opportunità di consumo.
7
Nel marketing classico si individuano tre fasi del processo decisionale e d’acquisto: il consumatore riceve lo stimolo
da una campagna pubblicitaria (stimulus), entra nel punto vendita e riconosce il prodotto a scaffale (shelf) e, se
supera il primo Moment of Truth, procede all’acquisto. Il secondo Moment of Truth si ha poi con l’utilizzo.
37
Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale
del 2011 in Argentina.
In questa stessa direzione Vallelata ha creato
per Carosello reloaded una sfida in dialetto
in cui il prodotto non è protagonista
ma immerso in un racconto complesso.
Le riflessioni fin qui elaborate si sono
materializzate anche nella nuova campagna
di Levissima che mira a distanziarsi dallo storico
spot con Reinhold Messner in cui si evidenziava
la funzione di prodotto senza generare empatia
nel pubblico. Nel riposizionamento del prodotto
è stato necessario inserire una nuova narrazione
e, al contempo, proteggere il patrimonio valoriale
costruito con abilità negli anni. Il nuovo spot
quindi conferma la montagna come scenario
e amplia enormemente il tema della vetta
e della conquista che trova il suo fulcro
nella piattaforma online Everyday Climbers8.
La professionalità dei creativi pubblicitari
si avvicina quindi a quella degli autori televisivi
poiché sempre più spesso sono chiamati a creare
dei piccoli format televisivi in cui il contenuto
guida le narrazione del brand. Questo strumento
permette anche di abbracciare la poetica
del pubblico, aumentando l’empatia fra marca e fans.
È un’operazione riuscita alla perfezione a CocaCola con la campagna Open Happiness declinata,
fra gli altri, nello spot Friendship Machine
in occasione della Giornata dell’Amicizia
Fig. 6 - Spot Friendship Machine di Coca-Cola
F OC U S
Un progetto creativo degno di nota è quello
realizzato per Galbani. OgilvyOne ha creato l’App
gratuita In cucina guidi tu che contiene ricette che
possono essere sfogliate utilizzando solamente
la voce senza toccare lo schermo con le mani.
Fig. 5 - La campagna Levissima
https://www.levissima.it/climbers/
8
38
Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale
In questo modo è stato creato uno strumento
di comunicazione in grado di differenziarsi dalla
folta concorrenza nel campo delle ricette e
di rispondere a un quotidiano bisogno
dei consumatori. Alle audio-ricette si affiancano
altre funzioni speciali: Le mie ricette permette
di salvare le ricette preferite, La mia spesa è un
modo per elencare gli ingredienti di una specifica
ricetta in una comoda lista, Invito a cena consente
di inviare inviti agli amici con un’anteprima
del menù.
Pe r c on c lu d e re , l a f or mu l a prop o s t a
da Maurice Lévy, Chairman e CEO di Publicis
Groupe, in un’intervista del 20159 condensa
quanto qui espresso e argomentato: Quoziente
d’Intelligenza (del creativo e del pubblico),
sommato al Quoziente Emotivo della campagna
pubblicitaria, sommato al Quoziente Tecnologico
della campagna in ottica di viralità digitale,
sommato al “BloodyQuick” ovvero a una velocità
di lavoro “maledettamente rapida” forniscono
come risultato il fondamentale e tanto desiderato
Quoziente Creativo. Una formula necessaria
per l’attività professionale quotidiana dei nuovi
creativi pubblicitari.
Stefano Iachella
Fig. 7 - La formula proposta da Maurice Lévy
http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/06/01/news/maurice_levy_e_i_tre_quozienti_cos_
creiamo_la_pubblicit_perfetta-115854275/
9
39
Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale
Riferimenti bibliografici
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Roberts K., Lovemarks, PowerHouse Books, London, 2004.
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Milano, 2014.
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Thaler Richard H.; SunsteinCass R., Nudge - La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2009.
40
Sezione 2
DA MERCANTI D’ATTENZIONE
A GESTORI DI CONVERSAZIONI:
QUALI NUOVE FRONTIERE
PER IL MARKETING?
2.1 Le basi per orientarsi
nel cambiamento
FONDAMENTI
DI ECONOMIA AZIENDALE
Tratto dalla lezione di Massimiliano Bruni
«Per cogliere l’attenzione del consumatore è necessario avere un approccio più moderno e coraggioso,
dobbiamo accettare di sfidarci e allontanarci da quei cliché che sono stati magari di grande successo fino
a qualche anno fa, ma che sempre più dimostrano un po’ di stanchezza.»
KEY SUCCESS FACTOR - VALUE PROPOSITION - CONSUMER-CENTRIC
Costruire il successo aziendale
globale, occorre invece un pensiero strategico
che sappia accogliere e valorizzare le diverse
competenze, avvalendosi di team composti da
persone con sensibilità e provenienze differenti.
La comunicazione d’impresa, che ormai nelle
aziende è parte integrante e non più separata
del marketing, può avere un ruolo chiave nella
definizione di strategie vincenti per le aziende
purché sappia intraprendere strade nuove
capaci di catturare l’attenzione di consumatori, da
un lato sempre più evoluti e curiosi e, dall’altro,
sopraffatti da un’immensa mole di informazioni.
Il “successo” di un’azienda è un concetto
relativo, legato ad un percepito individuale che
può dipendere da un insieme di fattori, come
ad esempio la reputazione, l’affidabilità o la
sostenibilità. Tuttavia, una tale interpretazione
soggettiva dell’idea di successo aziendale
è di scarsa utilità, poiché si finirà sempre
per individuare all’interno di un’azienda un
qualche elemento di successo, rischiando così
di perdere le opportunità di miglioramento e
crescita. Occorrono, perciò, elementi univoci
e oggettivabili che aiutino a definire quanto
un’azienda è di successo. L’esigenza si propone
in modo particolarmente evidente per le
aziende italiane che, nella maggior parte dei
casi, finiscono per essere vittime di una visione
autoreferenziale, che punta a una leadership locale
rinunciando in partenza a provare a competere
con i top internazionali della categoria. Un
esempio eclatante, anche per il suo forte valore
simbolico, è quello del mercato vinicolo italiano,
in cui prevalgono categorizzazioni basate sulla
provenienza regionale (ottica product oriented)
invece che sul livello di prezzo (ottica market
oriented).
Per cogliere (e vincere) le sfide di un mercato ormai
Due esempi impattanti di utilizzo innovativo
della comunicazione d’azienda sono il branded
content1 “Rufus - The Real Hawk-Eye” di Stella
Fig. 1 - Frame del video di Stella Artois
“Rufus – The Real Hawk-Eye”
Branded content: un contenuto editoriale creato ad hoc per rappresentare e narrare i valori di una marca/
azienda.
1
43
Fondamenti di economia aziendale
Artois e quello della catena alberghiera ShangriLa “It’s in our nature”.
Il contenuto di Shangri-La è invece incentrato
sull’avventura di un solitario esploratore, perso in
una bufera in mezzo alla neve. Quando, stremato,
l’uomo si accascia a terra, viene avvicinato da
un branco di lupi che si corica al suo fianco,
riscaldandolo. Solo a quel punto viene esplicitata
la promessa della catena alberghiera: “To embrace
a stranger as one’s own. It’s in our nature”. La scelta
dei vocaboli è precisa: si parla di stranger e non
di customer, perché quando si viaggia in un paese
straniero ci si sente propriamente stranieri; si
parla di nature e non di mission, perché la nature
non è qualcosa che viene scelto aziendalmente, è
parte del DNA dell’azienda stessa.
Fig. 2 - Frame del video di Shangri-La
“It’s in our nature”
Il sistema circolare del consenso
Nel primo caso, il marchio di birra belga Stella
Artois (parte del gruppo InBev, maggiore
produttore di birra al mondo) ha realizzato un
contenuto video legato all’attività di Rufus, il
falco incaricato di tener lontani i piccioni dal
campo di Wimbledon (evento del quale Stella
Artois è sponsor). La presenza del brand si
palesa solo nel finale della clip, con l’immagine di
un’etichetta dipinta a mano che simboleggia un
chiaro richiamo all’artigianalità. Associandosi ad
un evento d’élite come la competizione tennistica
e alle prodezze di volo di Rufus, il brand riesce
efficacemente a trasmettere il suo messaggio:
“Stella Artois è il perfezionismo nel campo della
birra”.
Il punto di partenza di ogni strategia aziendale
di successo sono i bisogni dei consumatori, o
meglio, la percezione che i consumatori hanno
dei propri bisogni. Tali bisogni non possono
essere creati, al massimo, influenzati. Fa ancora
scuola l’esperienza di Michele Ferrero che negli
anni ’60 aveva definito il profilo della cliente tipo
(a cui aveva dato il nome Valeria), invitando i
suoi dipendenti a impegnarsi per comprendere
i bisogni di Valeria e, in un certo senso, starle
accanto.
Fig. 3 - Le 3 fasi del sistema circolare di consenso
44
Fondamenti di economia aziendale
F OC U S
Parlando con l’allora direttore de La Stampa
Mario Calabresi, Michele Ferrero spiegò la sua
concezione sulla centralità della signora Valeria:
«La Valeria è la mamma che fa la spesa, la
nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si
compra ogni giorno. […] La Valeria è la padrona
di tutto, l’amministratore delegato, colei che può
decidere del tuo successo o della tua fine, quella
che devi rispettare, che non devi mai tradire ma
capire fino in fondo». (Da un articolo pubblicato
su La Stampa il 15/02/15, giorno successivo alla
scomparsa di Michele Ferrero, che riportava parte
di un’intervista risalente a 5 anni prima).
svolgono ovviamente una funzione primaria
all’interno del processo; tuttavia è essenziale che
tutte le leve attivate siano coerenti.
Un esempio di comunicazione perfettamente in
linea con i bisogni del target è lo spot di Pan di
stelle Mooncake, con la sua atmosfera sofisticata
e onirica, destinato a un target di donne di
successo, con una vita attiva e per certi aspetti
stressante, a cui è rivolto l’invito di concedersi un
momento per coccolarsi e soddisfare la propria
golosità con un approccio indulgent.
L’obiettivo della Ferrero era (ed è tuttora) quello
di lavorare su tre specifiche share of market2 : la
share of mind, la share of heart e la share of stomach.
Attraverso la comprensione del consumatore, si
arriva all’individuazione dei key success factor3: i
criteri in base ai quali un prodotto sul mercato è
giudicato e scelto.
È sulla base dei bisogni dei clienti che si va a
definire la propria value proposition4, arrivando
a offrire sul mercato la propria unique selling
proposition5. Ed è in funzione di tali obiettivi che
le aziende, caratterizzate da risorse (tangibili e
intangibili) e competenze, devono organizzarsi,
tanto negli aspetti hard (ad esempio gli
organigrammi) quanto in quelli soft (le regole
di funzionamento). Questo processo in tre fasi
costituisce un sistema circolare del consenso,
e la sua applicazione sequenziale da parte delle
aziende è in grado di determinare successi e
insuccessi. Il marketing e la comunicazione
Fig. 4 - Frame dello spot di Pan di Stelle Mooncake
Un caso di studio: Nespresso
Il business della Nespresso è quello di servire al
proprio consumatore un caffè a casa o in ufficio.
Per definire la propria value proposition, l’azienda
è partita dal proprio target di riferimento e dai
bisogni di quest’ultimo. Il consumatore ideale ha
tra i 18 e i 65 anni, una capacità di spesa medio
alta e un’elevata disponibilità di spesa. La sua
nazionalità non conta: l’azienda ha un approccio
cosmopolita. Il consumatore della Nespresso
ricerca comfort, design, esclusività ed esperienza.
Share of market: è la quota che un’azienda vanta all’interno del suo mercato di riferimento.
Key success factor: fattori critici di successo, ovvero, la combinazione di elementi cruciali necessari
al raggiungimento degli obiettivi di business.
4
Value proposition: proposta di valore, vale a dire, ciò che identifica in modo preciso le caratteristiche
specifiche di un dato prodotto.
5
Unique selling proposition: letteralmente, è la “proposizione esclusiva di vendita”. Indica la caratteristica
prioritaria del prodotto, su cui è basata la proposta di vendita.
2
3
45
Fondamenti di economia aziendale
Nel consumo di caffè, questo tipo di consumer
richiede facilità d’uso, una certa attenzione
all’estetica, qualità e un’ampia gamma di gusti che
consenta di identificarsi con la propria bevanda.
Non cerca il made in Italy, ma genericamente
un Italian style. Per rispondere efficacemente
a queste esigenze, la Nestlé ha strutturato una
value proposition coerente in ogni suo elemento.
Per quanto riguarda il prodotto, ha optato per la
soluzione delle capsule: pratiche, pulite, costanti
nella prestazione, in alluminio, materiale con
un percepito meno cheap rispetto alla plastica.
La vastità della gamma (i gusti sono identificati
da un nome e da un rispettivo colore) si pone in
un’ottica consumer-centric6. Le macchine sono veri
e propri prodotti di design; i punti vendita delle
boutique con un coffee specialist; l’esistenza di un
club trasmette un’idea di esclusività. All’interno
della strategia complessiva, la comunicazione ha
saputo fare un sapiente utilizzo del testimonial,
George Clooney, che ha permesso di raccontare
la sofisticata atmosfera «Nespresso» senza essere
chiamato a presentarsi come un improbabile
«esperto di caffè».
Daniele Montani
Consumer-centric: letteralmente «cliente-centrica», strategia di marketing che mette le esigenze del cliente
al primo posto
6
46
Fondamenti di economia aziendale
Riferimenti bibliografici
Mazzei A., Strategia e management della comunicazione d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2015.
Mazzola P., Il piano industriale. Progettare e comunicare le strategie d’impresa, EGEA, Milano, 2013.
Musso P., Brand reloading.Nuove strategie per comunicare, rappresentare e raccontare la marca,
Franco Angeli, Milano, 2011.
Pastore A. Vernuccio M., Impresa e comunicazione. Principi e strumenti per il management, Apogeo,
Milano, 2008.
Pitteri D. Pellegrino A., Advertmarketing: nuove forme di comunicazione d’impresa, Carocci, Roma,
2010.
47
FONDAMENTI di marketing
Tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi
«Il marketing è conoscere i bisogni dei clienti e offrire loro delle risposte in beni e servizi
migliori dei concorrenti e in tempi più brevi»
cliente - bisogno - concorrenza
fondamentali: l’acquisizione dei clienti e il
mantenimento degli stessi. Un cliente decide
di acquistare o riacquistare un prodotto quando
ritiene di avere una preferenza verso un prodotto/
marca e la sua decisione di acquisto dipende dal
valore percepito nell’offerta dell’impresa rispetto
ai concorrenti. Il valore percepito dal cliente è
rappresentato dalla combinazione di benefici
e prestazioni offerte dal prodotto associate
alla conoscenza e percezione di tali benefici
(comunicazione), alla disponibilità/prossimità
fisica e cognitiva nel reperimento e acquisto
(distribuzione) e infine al costo/sacrificio da
sostenere per l’acquisizione e godimento dei
benefici e delle prestazioni (prezzo).
Dunque perseguire l’interesse del cliente
favorisce l’interesse dell’impresa, il cui obiettivo
sarà quello di aumentare i benefici riducendo i
costi rispetto ai propri concorrenti e ottenendo
così un vantaggio competitivo in termini di
incremento di quota di mercato.
Ma tutto questo le aziende hanno imparato a
capirlo nel corso del tempo. Infatti l’orientamento
al marketing è stato preceduto inizialmente
dall’orientamento alla produzione, il cui obiettivo
era offrire prodotti validi a prezzi onesti mediante
il perseguimento delle economie di scala e di
esperienza. I consumatori dell’epoca erano
interessati ad acquistare prodotti convenienti
Secondo alcuni esperti di marketing, una delle
prime riflessioni che dovrebbe fare chi lavora
in questo settore è chiedersi se sta rispondendo
al bisogno del cliente/pubblico, per evitare di
imbattersi in quella che Theodore Levitt ha
definito “marketing myopia”1 ossia l’eccessiva
concentrazione sul prodotto e la scarsa attenzione
ai gusti dei consumatori, che cambiano nel tempo.
Nella letteratura manageriale il concetto di
marketing è stato definito in diversi modi da
differenti autori, tuttavia si ritiene attribuire
a Philip Kotler, uno dei massimi esponenti
del marketing management, la più concisa
definizione:
«Il marketing è un processo sociale e manageriale
grazie al quale una persona o un gruppo ottiene
ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e
desideri creando, offrendo e scambiando prodotti
e valori con altri»2
Si tratta di una definizione molto interessante
perché, al di là della sua unicità, sottolinea che
il marketing è un processo costituito da fasi
coerenti e coordinate necessarie all’impresa per
accumulare il cosiddetto capitale relazionale,
vale a dire l’insieme delle relazioni qualitative e
quantitative che l’impresa stabilisce sul mercato
con i propri clienti. Ciò dipende da due fattori
Levitt T., Marketing Myopia, Harvard business school publishing corporation, Boston, 2008
Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004
1
2
48
Fondamenti di Marketing
anziché a soddisfare bisogni specifici. Un
limite di questo orientamentopoteva essere la
riduzione della capacità dell’impresa di apportare
innovazioni capaci di garantire una risposta
adeguata alle esigenze della domanda e alle
condotte della concorrenza.
Con il tempo l’orientamento alla produzione è
diventato orientamento alle vendite. L’obiettivo
dell’impresa oggi è aumentare al massimo i
volumi di vendita dei prodotti offerti sul mercato.
Ma poiché i consumatori non sono propensi
all’acquisto di maggiori quantitativi di prodotto,
per l’impresa inizia a diventare necessario inviare
adeguati stimoli ai consumatori.
mercato. In particolare l’elemento di passaggio
dalla parte analitica alla parte strategica è la
segmentazione3, attraverso la quale l’azienda
individua il target a cui rivolgere la propria
offerta. Alla segmentazione fa seguito il
posizionamento4, vale a dire come l’azienda
vuole essere riconosciuta dal suo target di
riferimento, successivamente si integra un lavoro
sul brand in termini di immagine e di reputazione.
Subentrano, quindi, obiettivi di natura economica
finanziaria legati alla concorrenza.
Nella fase di analisi si fa riferimento anzitutto
al cosiddetto ambiente di marketing5, vale a
dire l’insieme dei protagonisti e delle forze
esterne con cui l’impresa deve costantemente
confrontarsi e monitorare. Per questo motivo
viene suddiviso in micro ambiente (di cui
fanno parte stakeholder finanziari, fornitori,
stakeholder istituzionali, concorrenti diretti e
indiretti, domanda intermedia e finale) e macro
ambiente (in cui rientrano politico-istituzionale,
fisico, demografico, economico, tecnologico,
socio-culturale)6.
Il processo di marketing
Il processo di marketing viene in genere suddiviso
in tre fasi: analitica, strategica e operativa.
Tuttavia si è soliti includere la parte analitica in
quella strategica.
Queste tre fasi permettono di prendere delle
decisioni, di fare delle scelte strategiche di
Fig.1 - L’ambiente di marketing (macro e micro)
3
Implica l’identificazione di classi di consumatori che fra loro differiscono per ciò che si attendono dal prodotto, o per le
loro reazioni verso l’attività di marketing dell’impresa.
4
Consiste nel definire l’offerta dell’impresa al fine di consentirle di occupare una posizione distinta e apprezzata nella mente
del consumatore.
5
Espressione che racchiude l’insieme degli attori e delle forze esterne all’impresa e che ne influenzano la capacità di sviluppo e successo dati determinati confini spazio-temporali.
6
Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia),
Milano, 2012
49
Fondamenti di Marketing
consumatori e fare qualcosa che intervenga sul
loro sistema percettivo e motivante. Punto di
partenza per l’analisi del comportamento del
consumatore è il modello stimolo-risposta8
secondo cui i comportamenti e le decisioni
dell’acquirente, quindi la scelta della marca, del
prodotto, i tempi di acquisto e il potere di acquisto
rappresentano il risultato dell’ elaborazione di
ciò che sta dentro la cosiddetta black box del
consumatore.
Queste decisioni, insieme alle scelte di acquisto
del consumatore, possono essere influenzate da
diversi fattori:
La differenza tra il marketing e la strategia è
che il primo si occupa del mercato e quindi
delle relazioni di scambio, di vendite, prodotti
e consumatori; mentre la strategia riguarda
tutto lo sviluppo dell’impresa, e dunque anche
la gestione di altri aspetti, come ad esempio
in che modo reperire le risorse finanziarie,
in quanto tempo si pensa di rientrare con gli
investimenti, di quante persone si pensa di
aver bisogno per svolgere tutte queste attività.
Altra differenza è legata all’orizzonte temporale,
in quanto il piano di marketing ha una durata
di un anno mentre quello strategico ha una
durata media di quattro anni7.
• culturali, di cui fanno parte cultura, subcultura,
classe sociale
• sociali, di cui fanno parte gruppi di riferimento,
famiglia, ruolo e status
• personali, di cui fanno parte età e ciclo di
vita della famiglia, occupazione e situazione
economica, stile di vita, personalità e concetto di
sé
• psicologici, di cui fanno parte motivazione,
percezione,
apprendimento,
opinioni
e
atteggiamenti.
L’analisi della domanda
L’analisi della domanda si distingue in
quantitativa e qualitativa.
Quando si parla di domanda quantitativa
s’intende misurare il livello di diffusione del
prodotto messo in relazione con la domanda
complessiva potenziale.
Seguendo un approccio strutturalista
andranno ad esaminare nel dettaglio:
• domanda attuale e potenziale
• quota di mercato
• elasticità della domanda
• previsione delle vendite
si
Tra questi diversi aspetti, quello su cui occorre
fare un approfondimento è il concetto di
motivazione, secondo cui un bisogno diventa
un motivo per l’individuo quando ha raggiunto
un livello di intensità tale da spingere la persona
a ricercare il soddisfacimento del bisogno stesso.
In merito si è soliti fare riferimento a Maslow9
e alla sua teoria della motivazione attraverso la
quale ha spiegato il perché gli individui hanno
diversi bisogni in diversi momenti.
Secondo Maslow i bisogni umani sono disposti
secondo una gerarchia che va dal più pressante a
quello meno urgente. Per cui secondo l’intensità
con cui si presentano all’individuo si avranno: i
bisogni fisiologici, di sicurezza, sociali, stima e
autorealizzazione10.
La domanda qualitativa punta invece a
descrivere e interpretare il comportamento del
consumatore nelle fasi pre e post acquisto.
Un modello di comportamento
del consumatore
Il modello stimolo-risposta
Come già detto, scopo fondamentale del
marketing è capire i bisogni, le motivazioni dei
Bertozzi P., tratto dalla lezione Fondamenti di marketing, Corso di Alta Formazione UPA, Milano, 2016
Dalli D., Romani S., Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing. Franco Angeli,
Milano, 2004
9
Maslow A., Psicologo statunitense noto per aver ideato la gerarchia dei bisogni umani.
10
Maslow A. Motivation and Personality, Harper & Row, Publishers, Inc., 1954
7
8
50
Fondamenti di Marketing
Fig. 2 - Piramide dei bisogni di Maslow
Il marketing strategico
Al fine di comprendere il modo in cui i clienti
prendono effettivamente le proprie decisioni di
acquisto, i responsabili di marketing dovranno
identificare e quindi distinguere chi prende e/o
influenza la decisione da chi effettua l’acquisto.
Ecco allora che nel processo d’acquisto si
distinguono diversi soggetti che interpretano
dei ruoli specifici:
è il processo di marketing incentrato
sull’individuazione dei bisogni di individui e/o
organizzazioni11. Per perseguire questo obiettivo
si distinguono quattro fasi molto importanti.
La prima fase è l’analisi di segmentazione,
vale a dire la suddivisone dei prodotti-mercati
in gruppi di potenziali clienti che hanno
caratteristiche di omogeneità al loro interno
ma che sono eterogenei tra di loro in termini
di approccio alla marca e al prodotto. In merito
si distinguono diversi criteri di segmentazione
del mercato, che si sono evoluti nel corso del
tempo raffinandosi sempre di più, come la
segmentazione descrittiva, comportamentale,
in base ai benefici ricercati e allo stile di vita.
Come proponeva Abell12 un mercato di
riferimento si può delineare in base a tre
dimensioni: clienti, tecnologie, bisogni o
funzioni.
Il concetto di prodotto-mercato è conforme a
quello di orientamento al mercato e corrisponde
• Iniziatore: chi suscita l’idea, vale a dire chi
per primo avverte un bisogno e la possibile
soluzione dello stesso;
• Influenzatore: colui che indirizza, in modo
esplicito o meno, le capacità valutative del
decisore verso un determinato prodotto e/o
marca;
• Decisore: chi effettivamente decide il prodotto
da acquistare;
• Acquirente: chi sostiene i costi relativi
all’acquisto;
• Utilizzatore: il protagonista del processo di
consumo
La distinzione dei soggetti finali dipende dal tipo di mercato in cui opera l’azienda, quindi se è in un B2B o in un B2C.
Abell Derek F., fondatore e professore presso la scuola europea di management e tecnologia di Berlino. è autore di libri
inerenti il marketing strategico, il management e la leadership. Uno dei suoi contributi più significativi è appunto, il modello delle tre dimensioni di business.
11
12
51
Fondamenti di Marketing
• i produttori di beni sostitutivi, si tratta di
imprese che soddisfano stessi bisogni di mercato
utilizzando tecnologie diverse;
• concorrenti dormienti, rivolgono la loro
offerta a target diversi con tecnologie diverse
rispetto l’impresa di riferimento.
alla nozione di “unità strategica di business”
che aiuta a definire sei aspetti fondamentali
per l’implementazione della strategia d’impresa
che sono: i clienti da servire, il pacchetto di
benefici/attributi da fornire, i concorrenti
diretti da superare, le tecnologie sostitutive e i
concorrenti da tenere sotto controllo, la capacità
di acquisire e infine i principali attori con cui
rapportarsi sul mercato13.
Segue la seconda fase in cui una volta
individuati, i prodotti-mercati rappresentano
delle opportunità economiche di cui deve essere
misurata l’attrattività qualitativa e quantitativa che
dipenderà dalla competitività dell’impresa, vale a
dire dalla sua capacità di soddisfare i bisogni dei
clienti nel modo più efficiente possibile rispetto
ai concorrenti. Esistono diversi tipi di strategie di
copertura del mercato come:
Dunque il vantaggio competitivo di un’impresa
dipende dal potere di mercato acquisito grazie
alla strategia di differenziazione e dalla presenza
di una differenza di costo rispetto ai concorrenti
dovuta a una maggiore produttività e al controllo
dei costi stessi.
A questo punto si delinea la terza fase del
marketing strategico ovvero il posizionamento,
inteso come la decisione dell’impresa in merito
ai benefici che la marca deve possedere per
conquistare una posizione distintiva nella mente
del consumatore16.
Attraverso il posizionamento si delinea la
strategia di differenziazione dell’impresa basata
sull’analisi SWOT17 vale a dire l’identificazione
dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità
e delle minacce al fine di elaborare un adeguato
piano di marketing.
L’ obiettivo finale sarà delineare al meglio
l’immagine di marca che l’impresa intende
comunicare ai suoi clienti per essere riconosciuta
rispetto ai concorrenti. Per raggiungere questo
scopo si distinguono tre criteri di strategia di
differenziazione:
• la strategia di focalizzazione che punta
a raggiungere un’ elevata quota di mercato
all’interno di una nicchia ristretta;
• la copertura totale di mercato
• la strategia mista, attraverso la quale l’impresa
diversificherà la propria attività in termini di
funzioni e/o gruppi clienti14.
Al fine di comprendere e valutare la posizione
competitiva di un’impresa è opportuno fare
riferimento al modello delle cinque forze
competitive elaborato da Porter15 che distingue:
• i concorrenti diretti, si tratta di aziende che nel
confronto registrano un punteggio alto sia nella
soddisfazione dei bisogni che nella dotazione
tecnologica;
• i concorrenti potenziali, che registrano un
alto livello di dotazione tecnologica ma non
soddisfano gli stessi bisogni dell’azienda in
questione;
• del prodotto, fare leva sulla performance del
prodotto;
• di prezzo, per distinguersi dai concorrenti;
• dell’immagine, laddove le marche non sono
facilmente distinguibili per caratteristiche
tangibili.
Ciò che ottiene l’impresa dalla differenziazione è
13
Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia),
Milano, 2012
14
Bertozzi P., Frammento tratto dalla lezione Fondamenti di marketing, Corso di Alta Formazione UPA, Milano, 2016
15
Porter Michael E., Economista statunitense, è uno dei maggiori contribuenti della teoria della strategia manageriale.
16
Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia),
Milano, 2012
17
E’ uno strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), debolezza (Weaknesses), le
opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto o in un’impresa per il raggiungimento di un obiettivo.
52
Fondamenti di Marketing
il cosiddetto potere di mercato18, cioè la capacità
di poter imporre un prezzo superiore rispetto a
quello dei concorrenti diretti. Questo dipende
però dall’elasticità del prezzo della domanda
dell’impresa per il prodotto differenziato. Per
cui in sostanza il potere di mercato è legato alla
capacità dell’impresa di generare preferenza,
fedeltà del cliente e bassa sensibilità al prezzo19.
di adottare un prezzo di scrematura20 che
consiste nel fissare un prezzo elevato nella fase di
introduzione del ciclo di vita del prodotto che via
via diminuirà al passaggio alle altre fasi. L’idea di
fissare un prezzo alto nella fase iniziale potrebbe
essere legata al voler dare al prodotto un’aurea di
esclusività che, se percepita dal potenziale cliente,
permette a quest’ultimo di sottolineare la sua
condizione economica e sociale. In caso contrario
l’azienda può decidere di entrare nel mercato con
un prezzo di penetrazione21 che consiste nel
fissare un prezzo basso iniziale al fine di stimolare
i potenziali acquirenti all’acquisto raggiungendo
così un elevato vantaggio competitivo.
Il marketing operativo
Il marketing operativo è invece orientato
all’azione e la sua efficacia si estende in un
asse temporale di breve-medio termine
indirizzandosi a mercati/segmenti già esistenti.
Qui l’obiettivo è prettamente commerciale,
poiché verte sul raggiungimento di una quota
di mercato attraverso l’utilizzo delle variabili
legate al marketing mix (product, people, price,
promotion, place).
Ogni prodotto deve possedere un prezzo
accettabile dal mercato di riferimento, essere
disponibile in circuiti di distribuzione adeguati
alle abitudini di acquisto del target di riferimento
e infine essere sostenuto da un’attività di
comunicazione che lo renda noto e lo valorizzi.
Un brand per il cliente ricopre diverse funzioni in
quanto lo orienta nelle sue scelte ed è sinonimo
di identificazione, garanzia e personalizzazione.
Dal punto di vista dell’impresa il brand ha una
funzione di posizionamento, comunicazione e
capitalizzazione.
Quando si parla di politica dei prezzi è opportuno
tenere presente due concetti: differenziazione,
vale a dire stabilire prezzi diversi per prodotti
diversi e discriminazione, quando il differenziale
di prezzo tra un prodotto e un altro venduto a
due consumatori diversi non è giustificato da
una diversa struttura dei costi e pertanto si dovrà
convincere ciascuno a pagare il proprio prezzo.
Nel momento in cui l’impresa decide di lanciare
sul mercato un nuovo prodotto può stabilire
F OC U S
La quota di mercato di un’impresa esprime in
termini percentuali le vendite della marca “x” del
prodotto “y” rispetto al totale delle vendite del
prodotto “y” definiti determinati confini spaziotemporali. è rappresentabile mediante il prodotto
tra: la copertura ponderata e la penetrazione.
L’indice di copertura ponderata permette una
valutazione qualitativa della presenza dei prodotti
aziendali in punti vendita ad alta quota di mercato.
Si potranno così rapportare le vendite dei punti
vendita della marca “x” del prodotto “y” rispetto
alle vendite totali dei punti vendita in cui sono
presenti i prodotti “y”. La penetrazione invece
aiuta a definire il rapporto fra le vendite della
marca “x” del prodotto “y”, in quei punti vendita
in cui la marca “x” è presente, rispetto alle vendite
totali di prodotti “y” (di tutte le altre marche)
nei punti vendita in cui la marca “x” è presente.
Risulterà evidente che maggiore è la rilevanza dei
punti vendita in cui l’impresa è presente, maggiore
è la penetrazione in tali punti vendita, più alta
sarà la quota di mercato dell’impresa stessa.
Veronica Fanello
La possibilità dell’impresa di praticare prezzi di vendita superiori rispetto ai concorrenti.
Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004
20
L’azienda decide di applicare una strategia di scrematura quando vuole praticare un prezzo elevato al fine di garantirsi un
ritorno dell’investimento consistente e nel breve tempo.
21
La strategia di penetrazione consiste nell’applicare prezzi bassi al fine di raggiungere un’ elevata quota di mercato fin da
subito. La si adotta quando l’azienda presuppone che gli acquirenti siano sensibili al prezzo di vendita
18
19
53
Fondamenti di Marketing
Riferimenti bibliografici
Dalli D., Romani S., Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing. Franco Angeli, Milano, 2004.
Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004.
Lambin J.J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing
group Italia), Milano, 2012.
Levitt T., Marketing Myopia, Harvard business school publishing corporation, Boston, 2008.
Maslow A., Motivation and Personality, Harper & Row Publishers Inc, 1954.
54
IL PROCESSO
DEL TRADE MARKETING
Tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi
«È fondamentale che le idee, i progetti e le innovazioni riescano ad arrivare ai destinatari finali;
e per arrivarci spesso devono attraversare la “foresta” dei canali che oggi è sempre più complicata e articolata,
sia canali fisici che canali virtuali.»
STORE LOYALTY - MULTICANALITÀ - TRADE POSITIONING
Definizione e rilevanza
del trade marketing
format1 e forme di impresa eterogenei. Tale
processo di concentrazione e di differenziazione
ha mutato i rapporti di forza tra produttori e
distributori, riducendo le asimmetrie in termini
di dimensioni e di competenze: all’epoca della
distribuzione artigianale, il singolo negozio non
aveva alcun tipo di potere negoziale di fronte
al produttore e, pertanto, quest’ultimo poteva
gestire la distribuzione come una semplice leva;
oggi si assiste, da un lato, ad un aumento del
rischio commerciale del produttore (che in caso
di cessazione dei rapporti con un grande player
della distribuzione rischia di andare incontro ad
una consistente perdita di fatturato), dall’altro,
la relazione tra produttori e retailer è aumentata
in termini di qualità e contenuti. Anche il ruolo
della distribuzione è cambiato: i grandi player
del mondo retail si sono via via appropriati
di funzioni tipiche dei produttori (come il
marketing, la ricerca e lo sviluppo) e si sono fatti
interpreti dei bisogni funzionali ed emozionali dei
consumatori (si è diffuso il concetto di “shopping
esperienziale”). Seguendo processi imitativi,
i retailer hanno inoltre sviluppato marche
commerciali facendo branding con il marchio
insegna. Si è così giunti alla contrapposizione
tra la fidelizzazione alla marca (brand loyalty2) e
Si può arrivare a una definizione di trade
marketing per analogia con il (consumer)
marketing: se quest’ultimo è il processo finalizzato
alla comprensione e alla soddisfazione dei bisogni
dei clienti finali (vale a dire dei consumatori), il
primo si differenzia per la tipologia dei clienti,
che in questo caso sono quelli intermedi tra i
produttori e i consumatori, ossia i distributori
(sia all’ingrosso che al dettaglio). Si tratta perciò
dell’insieme di strategie e piani che riguardano
la leva “place” del processo di marketing e
dunque della comprensione di bisogni, criteri di
valutazione e preferenze dei distributori, al fine di
offrire prodotti e servizi migliori rispetto a quelli
dei competitor. Per i produttori, il trade marketing
riveste un ruolo sempre più centrale, a seguito
dei nuovi trend che sono andati a consolidarsi
nel corso degli ultimi decenni. In primis, si è
assistito ad una trasformazione strutturale dei
canali distributivi: la distribuzione artigianale,
costituita da imprese monofamiliari connotate
da un unico modello di servizio (la vendita
assistita), ha perso rilevanza a vantaggio di retailer
di dimensioni sempre maggiori, che adottano
Format: mix di servizi offerto da un retailer, che include l’assortimento. Quest’ultimo può variare, sia in
ampiezza (numero di categorie), che in profondità (numero di varianti all’interno di una categoria).
2
Brand loyalty: fedeltà di marca. Tendenza del consumatore a acquistare sempre la stessa marca all’interno di
una data classe di prodotto.
1
55
Il processo del trade marketing
la fidelizzazioneal punto vendita (storeloyalty3).
produttori hanno perso parte del loro controllo
su leve fondamentali e sono stati costretti a
trattare su un piano di parità con i grandi player
del retail. Uno dei campi di battaglia è quello
relativo alla space allocation5. Da un lato, c’è
l’industria che punta a posizionarsi sugli scaffali
meglio dei competitor, in qualità e in quantità.
Dall’altro, i retailer cercano (anche attraverso
software di space allocation) di trovare la
mediazione ideale tra gli obiettivi di marginalità
e i costi di rotazione, andando poi a collocare i
prodotti a più alta marginalità nelle posizioni più
qualitative (altezza occhi e mani, espositori etc.).
Alla luce della grande rilevanza conquistata dal
mondo retail e della sempre maggiore eterogeneità
dei canali distributivi (che diventano veri e
propri strumenti di segmentazione), i produttori
devono necessariamente adottare adeguate
strategie commerciali di trade marketing.
Il processo di trade marketing si compone di
3 fasi: trade marketing audit; strategia di trade
marketing e piano di trade marketing.
F OC U S
Un caso di studio: Esselunga contro Barilla. Negli
anni ’80, trovandosi a competere con la nuova
categoria degli iper-mercati, molto competitiva
a livello di pricing, Esselunga (che operava nella
categoria dei supermercati) decise di ridurre il
prezzo dei prodotti Barilla. In questo modo, ha
violato un tacito accordo che prevedeva, per i vari
format distributivi, prezzi allineati sui principali
marchi. Sotto la pressione dei supermercati
competitor di Esselunga, la Barilla cercò di
convincere quest’ultima ad alzare nuovamente i
prezzi. La decisione di Esselunga fu invece quella di
escludere i prodotti Barilla dai propri scaffali e di
comunicare ai propri consumatori l’intenzione di
Barilla di imporre un rialzo dei prezzi. Il braccio di
ferro si risolse, infine, con la vittoria di Esselunga,
che poté nuovamente distribuire i prodotti Barilla
ai prezzi degli iper.
Fase 1: trade marketing audit
Parallelamente, è aumentata l’efficacia del punto
vendita come canale di comunicazione rispetto
ai media tradizionali utilizzati dai produttori.
Oltretutto, la comunicazione dal punto di vista
dei retailer è bidirezionale: i retailer possono
comunicare ai consumatori ma anche raccogliere
velocemente ed efficacemente i feedback
provenienti da questi ultimi. Questo vantaggio,
unitamente alla possibilità di mostrare l’intera
gamma (esigenza particolarmente sentita dalle
“marche concept”4), ha spinto molti produttori
a divenire al contempo distributori, aprendo
negozi monomarca. In questo nuovo contesto, il
trade muta le sue condotte, arrivando a gestire
autonomamente (o a co-gestire con il produttore)
le politiche commerciali: prezzi, assortimenti,
promozioni, spazi espositivi. Di conseguenza, i
La prima fase del processo di trade marketing
consiste nell’analisi dei differenti canali, in
termini di: dimensione, livello di integrazione
verticale, livello di competizione tra i canali
e quota di mercato canalizzata. Per quanto
concerne la forma aziendale, si distinguono tre
livelli gerarchici: centrale, centri di distribuzione
e singoli punti vendita. I singoli player possono
essere strutturati diversamente rispetto a questi
tre livelli. Nel caso della grande distribuzione,
la sede centrale accentra le principali funzioni
(marketing, acquisti, finanza etc.) ed è
proprietaria dei centri di distribuzione e dei punti
vendita. La cosiddetta distribuzione organizzata
è sorta invece come reazione allo “stra-potere”
della grande distribuzione: i punti vendita si sono
Store loyalty: fedeltà all’insegna. La tendenza del consumatore a effettuare i suoi acquisti presso uno specifico
distributore.
4
Marca concept: evoluzione della marca prodotto. Il brand va a coprire categorie merceologiche diverse
rispetto a quella originale.
5
Space allocation: allocazione (dei prodotti) nello spazio. Si intende l’ottimizzazione degli spazi a scaffale.
3
56
Il processo del trade marketing
Per farlo, si parte dal fatturato realizzato attraverso
il cliente. Si arriva al margine lordo, sottraendo
al fatturato i resi, gli sconti in fattura, i premi
di fine anno e i costi standard di produzione.
Successivamente, sottraendo al margine lordo le
promozioni centralizzate e periferiche, si calcola
il margine netto. Infine, sottraendo al margine
netto le provvigioni e gli incentivi per gli agenti, i
costi relativi all’organizzazione di vendita, i costi
finanziari e quelli di distribuzione, si arriva alla
contribuzione del singolo cliente.
Per considerare simultaneamente gli elementi
chiave nella relazione con i singoli clienti,
Dickson propone un modello di mappatura che
considera, in ascissa, la quota di vendita della
marca sul totale portafoglio delle marche e, in
ordinata, il tasso reale di crescita delle vendite
del cliente.
I singoli clienti mappati sono poi rappresentati
attraverso un grafico a torta (la cui dimensione
indica il livello di fatturato) che considera le
varie voci di costo e i margini di contribuzione.
Attraverso il modello, il produttore può ricavare
preziose informazioni riguardanti le azioni da
intraprendere per ottimizzare la relazione con i
vari clienti (es.: ridurre i costi per aumentare la
marginalità, oppure intraprendere politiche che
portino ad una crescita della quota di vendita
della marca sul totale del portafoglio).
raggruppati in consorzi di acquisto, dotandosi di
magazzini e arrivando infine a creare una sede
centrale (è il caso di Conad). Anche i grossisti
(che corrispondono al livello dei centri di
distribuzione) hanno dovuto adottare strategie
per non essere tagliati fuori dal mercato, creando
unioni volontarie e arrivando ad aprire i propri
punti vendita (ne è esempio Selex). C’è infine il
caso di Coop: la cooperativa dei consumatori
che, a causa della proprietà estremamente
frazionata, segue prevalentemente le logiche
centralizzatrici della grande distribuzione, pur
sempre mantenendo centri di potere a livello
regionale. La tipologia di struttura verticale del
singolo distributore (gestione centralizzata vs
diffusa) condiziona le modalità con le quali il
produttore deve interfacciarsi con esso.
In considerazione delle performance e delle
condotte dei singoli retailer, i produttori
possono arrivare ad una “mappatura” dei
retailer, ad esempio, rispetto: al livello di
internazionalizzazione/modernizzazione
del
trade vs il livello di pressione promozionale; ai
ritardi medi di pagamento vs i tempi di pagamento
stabiliti da contratto o alla redditività del retailer
vs la qualità delle relazioni con lo stesso.
È essenziale per il produttore arrivare a definire
una contabilità analitica per cliente, in grado di
indicare la contribuzione di ogni singolo cliente.
Fig. 1 - Il modello di Dickson
57
Il processo del trade marketing
Fase 2: strategia di trade marketing
concept, le possibilità di controllo del canale
(assortimento, prezzi etc.)e i ricavi di sistema (le
entry fee8 dei franchising) e diretti di vendita.
Alla fase strategica appartiene anche la definizione
degli obiettivi di trade positioning: a partire
dall’analisi di segmentazione del trade, vengono
individuati i criteri di valutazione più rilevanti
e l’attuale posizionamento del cliente rispetto ai
competitor, per arrivare infine all’identificazione
degli obiettivi di ri-posizionamento.
Gli insight emersi durante la fase di audit
permettono di realizzare una trade segmentation
che guida le scelte delle aziende per quanto
riguarda le definizione delle strategie distributive
e delle politiche distributive nei canali serviti.
Una delle questioni chiave da affrontare è
quella relativa alla multicanalità, vale a dire,
la decisione di arrivare al mercato attraverso
format differenziati anziché focalizzarsi su
una distribuzione selettiva o esclusiva. Tale
scelta porta, da un lato, dei benefici (si riduce
il rischio di dipendere dall’andamento di un
solo canale, si attua una pre-emptive strategy6)
e, dall’altro lato, degli svantaggi (costi legati
agli specifici servizi da fornire ai diversi canali,
rischio di comportamenti di free-ridership7 dei
consumatori). Nella gestione della multicanalità
le aziende possono differenziare in base al
canale, per quanto riguarda: le condizioni di
vendita, il livello dei servizi e dei servizi abbinati
(assicurazione, garanzia), il portafoglio dei
prodotti etc. Si può persino arrivare a sviluppare
differenti prodotti per i vari canali.
D’altro canto, molti produttori hanno optato per
l’integrazione a valle, aprendo negozi propri o
in franchising. Tale soluzione offre benefici per
quanto riguarda la comunicazione dei brand
Fase 3: piano di trade marketing
Il piano di trade marketing include obiettivi
strategici (che riguardano il trade positioning, i
criteri di valutazione e le condotte del trade) e
obiettivi operativi (che riguardano l’aumento
delle quote di mercato e dei fatturati e le attività
di promo-comunicazione per raggiungere i
consumatori finali). Le leve da attivare possono
riguardare: le condizioni di vendita (prezzi,
sconti, termini di pagamento); le promozioni al
trade (omaggi, premi); le attività di co-marketing
(pubblicità, sales promotion, in-store marketing9);
l’assistenza e la forza vendita; la formazione al
trade e la logistica (modalità, tempi e frequenza
di consegna).
Daniele Montani
Pre-emptive strategy: strategia preventiva attraverso la quale i produttori presidiano un canale per ridurre gli
spazi di entrata dei competitor, anticipando questi ultimi.
7
Free-ridership: comportamenti opportunistici del consumatore che, avendo a disposizione lo stesso prodotto
in differenti canali, raccoglie informazioni all’interno dei canali che offrono una migliore assistenza e poi
compie l’acquisto all’interno di canali in cui invece si punta su prezzi inferiori. Si genera così una conflittualità
tra i canali.
8
Entry fee: tariffe di entrata. Sono i costi che chi apre un franchising deve versare al detentore del marchio.
9
In-Store marketing: sono le attività di marketing all’interno del punto vendita. Includono stand dedicati,
distribuzione di materiale informativo sul prodotto o del prodotto stesso, dimostrazioni (demo) e promozioni
con buoni sconto o gadget.
6
58
Il processo del trade marketing
Riferimenti bibliografici
Fornari D., Trade marketing. Relazioni di filiera e strategie commerciali, Egea, Milano, 2009.
Foglio A., Vendere alla grande distribuzione. La strategia di vendita e di trade marketing, Franco Angeli,
Milano, 2014.
Castaldo S., Retail & channel management, Egea, Milano, 2008.
59
MARKETING DELLE IMPRESE
CULTURALI E CREATIVE
Tratto dalla lezione di Roberto Grandi
«Come il protagonista di Uno, nessuno e centomila, le città sentono che la rappresentazione
che hanno di sé non è quella che hanno tutti gli altri, perciò cercano di essere uno e centomila, ma non nessuno.»
CITY BRANDING - RIGENERAZIONE URBANA - EVENTO
Bologna e il city branding
e diventano dirette concorrenti delle grandi mete
vacanziere.
C’erano una volta le “città hub 1 ”: snodi
frequentatissimi, essenziali centri di passaggio
per tantissimi turisti e businessmen, che i gestori
delle imprese turistiche locali guardavano
arrivare e ripartire con placida rassegnazione.
Ed ecco che invece le città hub non esistono più;
o meglio, si reinventano. (Ri)scoprono la loro
natura turistica e la loro capacità attrattiva
Si tratta di città come Bergamo, Bologna,
Francoforte, che non rinunciano alla loro attività
di perno centrale per i traffici di passeggeri
nella loro regione, ma che vogliono essere
co-protagoniste di un business, quello turistico,
che oggi vale enormi quantità di denaro.
Bologna, in particolare, è stata recentemente
Fig. 1 - Bologna, non solo punto di passaggio ma anche città ricca di cultura e storia.
“Hub” è un termine inglese che letteralmente indica un fulcro, un perno. Una “città hub” è una città in cui i
traffici, non solo turistici ma anche di business, di quella regione geografica convergono e subito ripartono,
poiché non è la destinazione finale di chi vi approda.
1
60
Marketing delle imprese culturali e creative
oggetto di un rebranding coordinato dal Professor
Roberto Grandi, docente presso l’Università
felsinea; con tale rebranding si è scelto di procedere
alla valorizzazione della città puntando proprio
sulla sua caratteristica di perno, snodo centrale
di un’Italia che da sempre è apprezzatissima meta
turistica. Bologna, infatti, ha il quinto aeroporto
più trafficato del nostro Paese, con numeri in
forte crescita, oltre a un polo universitario fra
i più rinomati del mondo. Eppure, tanti fra i
turisti che atterrano nella città emiliana non
spendono poi qualche giorno delle loro vacanze
proprio nel luogo che li ha inizialmente accolti e
si dirigono subito verso mete internazionalmente
più conosciute.
da cui partire per raggiungere in pochissime
ore, grazie ai collegamenti ferroviari, luoghi di
grande interesse quali Milano, Venezia, Roma,
Verona, Firenze, ma anche la più vicina “Motor
Valley”, meta immancabile per gli appassionati di
Ferrari, Ducati e Lamborghini. Senza ovviamente
dimenticare ciò che Bologna stessa può offrire:
architettura, monumenti, arte, un invidiatissimo
patrimonio alimentare, spazi verdi…
Punto centrale del city branding2 di Bologna è
stata la creazione del logo della città: attraverso
un concorso lanciato a livello internazionale,
il team del Professor Grandi ha selezionato il
progetto3 di Matteo Bartoli e Michele Pastore,
i quali non si sono limitati a proporre un’unica
forma grafica, ma hanno creato un intero alfabeto
visivo a partire da una delle attrattive maggiori
del capoluogo emiliano: la sua storia millenaria
raccontata attraverso i monumenti e i simboli
in essi contenuti (il racconto della creazione del
logo è contenuto nella Tedx Talk bolognese del
Professor Grandi).
Che significa, quindi, sfruttare il proprio essere
una città hub? Non significa cercare di “sottrarre”
turisti alle altre città italiane per trattenerli
nel proprio territorio; al contrario, significa
incoraggiare gli ospiti a visitare altre mete ma
invitarli a farlo utilizzando Bologna come
punto d’appoggio, centralissima “casa base”
Fig. 2 - Alcune delle infinite combinazioni create a partire dal nuovo logo bolognese.
Si tratta di un processo comunicativo volto a migliorare la percezione e la reputazione di una città, che
vuole proporsi come luogo di valore per turisti, cittadini e potenziali nuovi abitanti. Si differenzia dal city
marketing, che invece vuole proporre il territorio come risorsa per i potenziali investitori e quindi ottimizzare
il rapporto fra essi e la città.
3
http://ebologna.it/
2
61
Marketing delle imprese culturali e creative
In un Paese in cui il turismo è (o dovrebbe essere)
fondamentale, un’attività come il city branding
può e deve diventare indispensabile.
È addirittura un passo avanti rispetto al “semplice”
city marketing: laddove il primo è rivolto
essenzialmente a figure esterne alla cittadinanza,
il city branding tiene conto anche di coloro che
il territorio lo vivono. E vivendolo – in una città
ideale questa sarebbe una naturale conseguenza,
ma si sa, nessuno è perfetto – possono diventarne
i primi fan, se non addirittura i primi attivi
sostenitori.
contrario, diventano metro di distinzione fra un
territorio e l’altro.
Ecco quindi l’obiettivo del city branding:
comunicare tutto il valore che la città in questione
ha agli occhi dei suoi “fruitori primari”: i cittadini.
Sul versante non opposto, bensì complementare,
opera il city marketing, strumento per
ottimizzare le relazioni fra il territorio stesso e
i potenziali investitori, che in questo territorio
devono vedere una risorsa.
Il Festivaletteratura, nato nel 1997 dall’idea
di otto cittadini mantovani, è un evento di cinque
giornate in cui scrittori, poeti, scienziati e artisti
di vario genere e soprattutto semplici appassionati
o curiosi si incontrano nella città lombarda per
“celebrare” la letteratura e l’arte con laboratori,
spettacoli e appuntamenti con gli autori.
La forza del Festival, che ha saputo donare
alla città un’attrattiva nuova, è senza dubbio
il numero cospicuo di volontari, soprattutto
i più giovani, che propagano l’entusiasmo
per un appuntamento che si trasforma anche
in una grande occasione turistica.
In questa fantomatica “gara” fra città, non è solo
l’idea a vincere: è anche la sua realizzazione, la
forza insita nel modo in cui viene proposta;
esempi di idee italiane vincenti in tempi recenti
sono state il Festivaletteratura4 di Mantova e il
Mart5 di Rovereto (Trento).
F OC U S
Il mercato in cui la città si mette in gioco è
presto definito: dal lato dell’offerta, la città
stessa, il valore aggiunto che può dare a chi
investe, economicamente e idealmente,
su di essa, i servizi che propone, le sue imprese,
tese a migliorare per aumentare la propria
competitività; dal lato della domanda, i turisti,
gli investitori esterni, coloro che potrebbero
trasferirvisi, ma anche le stesse imprese locali
e i cittadini, che ovviamente usufruiscono dei
servizi della città.
Di tali ser vizi godono anche i city user
(i pendolari, ad esempio), senza però pagarli;
di conseguenza, all’aumentare dei city user per
un’amministrazione locale crescono le spese
e diminuisce il reddito.
Un Rinascimento urbano:
la rigenerazione delle città
Nel corso degli anni Ottanta, iniziò a diffondersi
un nuovo modo di pensare le città: non più
semplici agglomerati urbani da amministrare
nella miglior maniera possibile, bensì generatori
e portatori di cultura, considerata da un punto di
vista più antropologico, legato a stili di vita, usi e
tradizioni delle popolazioni.
E se le città possono generare cultura, questa
cultura può essere sfruttata per generare flussi
di denaro; si può cioè puntare sulle imprese
culturali per produrre risultati economicamente
Naturalmente, nel momento in cui diverse
città competono per attirare domanda, le
infrastrutture a disposizione sono fondamentali:
se tutti i centri hanno ottime infrastrutture, la
competizione si giocherà su altri campi; in caso
4
5
http://www.festivaletteratura.it/it
http://www.mart.tn.it/default.jsp
62
Marketing delle imprese culturali e creative
positivi per la città: in due parole, cultural economy6.
In questo modo alcune città che prima godevano
di ben poca attrattiva turistica hanno potuto
subire un processo di rigenerazione ad opera
proprio delle imprese culturali, ad esempio
attraverso il riutilizzo di certi edifici rimasti
inutilizzati, segnando il passaggio dall’industria
tradizionale a quella culturale.
centro che nessuno avrebbe mai indicato come
significativo per il mondo della moda a una città
che è riuscita ad emergere e a portare quindi
capitale umano ed economico al proprio interno?
Nel momento in cui Anversa ha consapevolmente
scelto la strada del fashion per ritagliarsi il suo
spazio, ha ritenuto poco opportuno creare eventi
ad hoc; non solo sarebbe stato difficile costruirne
ex nihilo, ma persino complicato competere
con eventi esistenti e affermati da decenni come
quelli parigini, milanesi o newyorkesi.
Anversa ha così creato, a partire da un capitale
umano che già esisteva, una rete di scuole
e atelier, riuscendo a diventare un punto di
riferimento nel settore anche e soprattutto a
livello internazionale.
Uno degli esempi più clamorosi è Glasgow:
quarant’anni fa la città scozzese era distinta quasi
esclusivamente da attributi negativi: povertà,
violenza, alcolismo erano i tratti tipici con cui
veniva dipinto un luogo che oggi cerca di essere
diverso.
Negli anni Ottanta, gli spazi urbani sono stati
rigenerati e la città ha iniziato a proporsi al
mondo come un centro culturale, in particolare
artistico e musicale, di notevole valore. Nel
solo 2014, Glasgow ha visto aumentare il flusso
turistico del 37%.
Infine, è significativo citare l’esempio della
città basca di Bilbao, passata da importante
centro economico ottocentesco a città grigia e
deindustrializzata, trascinata nel bel mezzo della
violenta lotta nazionalista e separatista dell’ETA.
Per riqualificarla, nel 1991 è stata fondata
l’Associazione Bilbao Metropoli, che si è occupata
della ristrutturazione della città e del recupero
degli edifici abbandonati.
Non solo: i responsabili del progetto hanno capito
che serviva un’idea che attirasse l’attenzione sulla
città e sui lavori che vi erano stati compiuti.
È nato così il museo Guggenheim di Bilbao, che
insieme ad un’accurata city marketing strategy ha
portato alla rinascita della città.
I problemi sociali, che ovviamente non sono
scomparsi in un batter d’occhio, vengono
combattuti con una strategia di sviluppo
che prevede eventi culturali di fascino
internazionale, ma anche una rinascita che
coinvolge l’architettura stessa del territorio.
L’esempio più noto ed eclatante è quello del
quartiere Red Road, fondato negli anni Sessanta
e presto divenuto centro delle preoccupazioni
dell’amministrazione locale in quanto scenario di
violenze quotidiane: nell’ottobre del 2015 è stata
completata la demolizione dei tipici palazzoni
rossi che componevano il quartiere, azione non
solo concretamente utile all’estetica cittadina
ma anche simbolica, proprio per ciò che quelle
costruzioni rappresentavano.
Accanto alla rigenerazione, dunque, il marketing
ha sempre un posto d’onore: è il mezzo attraverso
cui la città e il territorio si promuovono, pronti
a trasformare poi i loro potenziali “clienti” e
l’accoglienza in ricchezza.
Glasgow non è, naturalmente, l’unico esempio
di rigenerazione urbana: Anversa, in Belgio, è
diventata una delle fashion city più importanti
d’Europa. Come è avvenuto il passaggio da un
Si tratta di una concezione per la quale la cultura e l’economia sono strettamente connesse, in quanto le
istituzioni economiche possono essere considerate in una dimensione culturale e le imprese culturali possono
generare ritorni economici.
6
63
Marketing delle imprese culturali e creative
Fig. 3 - Il Museo Guggenheim di Bilbao, simbolo della rigenerazione della città spagnola.
Il risveglio degli enti locali
Il legame tra cultura e territorio è terribilmente
difficile da spezzare.
Negli ultimi anni si è assistito a una sorta
di “presa di coscienza” da parte degli enti
locali per quanto riguarda la loro funzione di
promozione e valorizzazione del territorio,
specialmente in relazione a questioni legate
alla cultura. Sembrerebbe scontato che siano
le amministrazioni del luogo a dover gestire
le attività culturali, eppure paradossalmente
questa funzione veniva delegata, magari perché
considerata meno importante rispetto a faccende
puramente economiche o amministrative. Come
se fosse ancora possibile pensare che la cultura
non porti vantaggi in termini monetari.
L’ente locale, quindi, ha dalla sua la componente
della vicinanza al territorio e alla sua cultura, di
conseguenza li conosce indubbiamente meglio di
chiunque altro ed è in grado (o dovrebbe esserlo)
di adattarvi le sue attività in maniera efficace.
L’ente locale ha il vantaggio fondamentale di
conoscere anche la componente intangibile del
luogo in cui opera, ossia la sua “anima”, il sistema
di valori riconosciuto dai suoi abitanti, le loro
tradizioni… Al contrario, un’amministrazione
esterna potrebbe conoscerne solo le componenti
tangibili: la sua posizione geografica e le sue
caratteristiche morfologiche.
L’importanza degli enti locali nel lavoro di
gestione delle varie attività e organizzazioni
culturali è presto spiegata: tali eventi e
associazioni riflettono la loro opera sul territorio
stesso, fungono da collante sociale per chi quel
territorio lo vive e ne gestiscono il capitale
simbolico, poiché la cultura di un luogo, nelle
parole del Professor Grandi, «costituisce le
fondamenta dell’identità della popolazione, del
suo modo di essere e concepirsi»7.
Negli ultimi decenni, gli enti locali hanno saputo
cogliere l’aumento della rilevanza rivestita dagli
eventi e da quello che viene definito marketing
esperienziale8, ovvero l’importanza di mettere
sul piatto della bilancia che misura l’offerta e
la disponibilità all’acquisto anche l’esperienza
emozionale che da tale acquisto deriverebbe.
E chi può vendere emozionalità meglio di un
evento?
La citazione è tratta dalla lezione del Prof. Grandi.
È un tipo di marketing basato, più che sul valore in sé dei prodotti, sul valore che l’esperienza di acquisto e
consumo di essi riveste agli occhi del cliente.
7
8
64
Marketing delle imprese culturali e creative
Un evento, definibile come una manifestazione
complessa di un certo rilievo (anche solo
relativamente a un ambito locale) promossa
da un’organizzazione privata o pubblica, ha tre
caratteristiche fondamentali: è temporalmente
circoscritto, anche quando ciclicamente torna a
svolgersi; avviene in un luogo ben prestabilito
in un momento altrettanto prestabilito; possiede
una sua ritualità (specialmente se ripetuto nel
tempo) che impone comportamenti di carattere
inclusivo per chi vi partecipa e lo differenzia
dagli altri eventi, anche se molto simili.
web compreso, è l’indiscutibile protagonista
dell’evento perché lo rende tale e vi apporta la
sua dimensione emotiva, passionale, affettiva,
di condivisione. Proprio l’importanza di questa
dimensione di emozionalità fa dell’evento uno
strumento perfetto di marketing esperienziale e
relazionale: non contano tanto le caratteristiche
oggettive dell’evento, ma la percezione che chi vi
partecipa ha dell’esperienza totale. Esperienza
che nasce già nel momento in cui inizia il contatto
con l’evento e cresce l’attesa di parteciparvi e che
prosegue anche nei giorni seguenti, non solo nel
ricordo, ma anche attraverso il contatto concreto
che l’ente organizzatore dovrà mantenere con il
pubblico.
Inoltre, un evento ha sempre una funzione
comunicativa: non è mai fine a se stesso ma
persegue obiettivi più ampi; nel caso di una città,
l’obiettivo può essere quello di attirare l’attenzione
sul singolo prodotto (un museo, un monumento,
la stessa rigenerazione urbana, che siano da
lanciare o riposizionare) o su chi lo promuove.
Per questo motivo, nel programmarlo bisogna
prevedere e pianificare i livelli di visibilità
mediatica cui sarà soggetto, considerando anche
alcune caratteristiche intrinseche dell’evento
stesso (gli eventi culturali o sportivi, ad esempio,
sono per loro natura più soggetti a visibilità).
Gli eventi sono naturalmente solo un esempio di
come una città può portare avanti iniziative di
marketing. Marketing che oggi si configura come
necessario all’interno di uno scenario che vede
il movimento di grandi flussi turistici ma allo
stesso tempo un bisogno costante di alimentare
e, perché no, aumentare tali flussi, soprattutto
considerando l’agguerrita competitività fra le
città. Il prodotto-città, sulla scia del marketing
esperienziale e relazionale di cui sopra, deve
proporsi come una realtà capace di coinvolgere
fortemente la dimensione emotiva di chi la vive e
di chi entra in contatto con essa.
Tuttavia, non bisogna perdere di vista la
componente umana dell’evento, legata alla
sua funzione aggregante e relazionale: il
pubblico, che partecipi direttamente all’evento
o che vi entri in relazione attraverso i media,
Chiara Terranova
65
Marketing delle imprese culturali e creative
Riferimenti bibliografici
Dinnie K. (a cura di), City Branding: Theory and Cases,PalgraveMacmillan, Londra, 2010.
Grandi R., Prospero A. (a cura di), èBologna. Progetto City Branding, Urban Center, Bologna, 2015.
Ferrari S., Event marketing. I grandi eventi e gli eventi speciali come strumenti di marketing, Cedam,
Padova, 2012.
Marinelli G., Argano L., Dalla Sega P., Gli eventi culturali. Ideazione, progettazione, marketing,
comunicazione, Franco Angeli, Milano, 2005.
66
Logiche e sviluppi
del Mobile Marketing
Tratto dalla lezion di Leonardo Bellini
«In termini di strategia mobile, un errore da evitare è quello di provare a fare tutto.
Tutto significa niente.»
digital marketing - APP - business model
Lo scenario mobile
La penetrazione globale relativa alle reti social
da piattaforme mobili da parte dei mobileusers si attesta al 51% della popolazione
mondiale, con un correlato tasso di crescita
del 17% nel solo 2016, un ritmo notevolmente
più alto del tasso di partecipazione al mondo dei
social in generale2. Ad oggi, nell’ambito della
stessa popolazione mondiale iscritta sui social
network (31%), il 27% ne fa uso accedendo
da strumenti diversi da laptop o desktop. Lo
smartphone – coinvolto in un progressivo
fenomeno di “phableting”3- è il protagonista
della fruizione mobile, poiché erode la quota
di accesso alle risorse web dal tablet.
In termini di strategia aziendale, conoscere
le dinamiche sottostanti al processo di
digitalizzazione degli stili di vita e del mercato
è un requisito essenziale per delineare
strategicamente modalità di presenza nel
panorama mobile che minimizzino i costi
e le risorse impiegate nell’operazione,
massimizzando i benefici dell’inserirsi nella
quotidianità del consumatore e dilatando,
facilitandone, l’esperienza di consumo.
Dal punto di vista della strategia aziendale,
l’avanzare dell’era digitale si traduce nella
possibilità di estensione delle operazioni di
marketing alla piattaforma mobile, la cui
fruizione ha mostrato, nell’ultimo decennio in
particolare, tendenze interessanti in termini di
diffusione. Il fenomeno, se opportunamente
analizzato e declinato in una strategia adeguata
alle caratteristiche e agli obiettivi specifici
dell’azienda, offre alle imprese una preziosa
opportunità di consolidamento della brand
awareness1, accrescendo i margini potenziali
e attuali di profitto, sia per il b2b che, in
particolare, per il b2c.
L’universo della network society, termine che
descrive la nuova dimensione digitale e sociale
con cui si interfaccia l’azienda del nuovo
millennio, ingloba in sé i concetti di mobile e
di continua presenza sulle piattaforme social.
Le più recenti analisi statistiche tratteggiano
uno scenario perfettamente coerente con le
previsioni.
Brand awareness: È un concetto di marketing legato alla riconoscibilità del marchio,che serve a misurare il grado di
conoscenza del brand presso i consumatori. La conoscenza e riconoscibilità del brand si compone di due caratteri: un
aspetto quantitativo (la notorietà) e un aspetto qualitativo (l’immagine e la percezione). Il suo impatto sulle decisioni di
acquisto e di affiliazione del consumatore al brand è fondamentale.
2
Dati di We are Social, January 2016.
3
Phablet: è una parola composta da “phone” e “tablet” per indicare una particolare categoria di smartphone che assumono
le dimensioni tipiche di un mini-tablet
1
67
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
È opportuno concentrarsi sulle modalità
di approccio dell’utente all’universo mobile,
e analizzarle sotto molteplici punti di vista.
Oltre che comprendere la tipologia di devices
a cui la navigazione mobile è affidata, una
strategia di mobile marketing che si rispetti
deve tenere in considerazione anche il
problema della fruizione in senso temporale
per comprendere le tendenze di utilizzo dei
vari dispositivi associate ai diversi momenti
della giornata, oltre che i sistemi operativi
più utilizzati in dotazione a tali strumenti
e i canali social più frequentati, tra i quali
figurano in primo luogo Facebook, seguito
da Whatsapp, Tumblr, Instagram, Twitter,
LinkedIn, Viber, Snapchat e Pinterest.
F OC U S
Mobile Marketing: quali fonti per i dati
statistici.
È consigliata la consultazione periodica di
statistiche relative alla fruizione mobile. Tra le
fonti online più accreditate:
- Google Mobile Planet, una survey costantemente
aggiornata che permette di creare un proprio
report personale;
- ITU, una piattaforma che pubblica periodicamente
statistiche gratuite sul mobile trend;
- XyologicApp Download report, una preziosa
risorsa che mostra il livello di utilizzo delle diverse
applicazioni e piattaforme, fornendo statistiche
per ogni Paese.
Fig. 1 - I social networks più rilevanti, fonte: Social Media Trends, 2015 Research.
68
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
Occorre, in ultima istanza, fare il punto sulle
attività che sono svolte principalmente attraverso
l’utilizzo dei dispositivi mobile. L’esperienza
di navigazione è contrassegnata da un certo
grado di eterogeneità, per il quale ampio spazio
è dedicato al mobile messaging e alla fruizione
video, seguiti dalla consultazione delle mappe
attraverso le funzioni di geo-localizzazione,
il mobile gaming e il banking in mobility. Di
particolare interesse è l’ambito che occupa una
porzione maggiore del traffico dati dell’utente
mobile: le visite e l’acquisto dagli online retail
stores, che sta rilanciando l’e-commerce dopo
una fase di stallo. I dispositivi mobile e gli
smartphone, in particolare, hanno trasformato
il comportamento consumatori e la percezione
del web come risorsa di informazione,
supporto, entertainment e mezzo privilegiato
per un nuovo processo di acquisto dai caratteri
inediti, in cui spazio maggiore ha l’istinctive
purchasing4, grazie alla facilitazione promossa
dai motori di ricerca come attendibile fonte di
confronto tra i prezzi sul mercato.
innanzitutto focalizzarsi su alcuni interrogativi:
la necessità, per un determinato corporate brand,
di adottare una singola o molteplici modalità
di sviluppo della propria presenza mobile: un
sito web ottimizzato per la visualizzazione da
qualsiasi dispositivo portatile, piuttosto che una
Web Mobile App6, ovvero una configurazione
appositamente studiata per la fruizione mobile, o
concentrarsi sulla realizzazione di una specifica
Mobile App o “app nativa”7. Una scelta di senso
rispetto alla decisione di investire su una – o più di
una – di tali soluzioni richiede un’accurata analisi
del proprio target, che può consistere di pubblici
diversi, con attitudini, capacità e predisposizione
all’accesso da mobile potenzialmente differenti.
Uno spunto è fornito dalla comparazione del
livello di soddisfazione dell’utenza rispetto al
brand e dai tassi di conversione tra Desktop Web,
Mobile Web e Mobile App. Tendenzialmente, si
riscontreranno livelli di soddisfazione maggiori
nel Desktop Web, ma lo sviluppo della presenza
mobile è reso impellente dalla porzione temporale
che il mobile rappresenta nell’esperienza del
cliente-consumatore. Le tre diverse modalità
offrono potenzialmente agli utenti diversi livelli
di qualità del servizio, ma in generale non
esiste una regola standard: ogni brand ha
le sue caratteristiche in termini di pubblici
e di comunicabilità. Il sito web ottimizzato
per i diversi tipi di schermi e di device mobili
interessa ad oggi soltanto il 20% dei brand8.
È tuttavia il punto di partenza di una presenza
strategica mobile, insieme agli investimenti in
mobile advertising e mobile search, che facilitano
Molte opzioni, nessuna regola standard
La centralità della dimensione mobile nella
custom experience si traduce per l’azienda
nell’elaborazione di strategie di investimento
per l’adattamento delle proprie risorse web alla
piattaforma mobile. Le opportunità di brand
engagement5 e di ottimizzazione del ritorno
economico sono perseguibili attraverso diverse
modalità da ponderare opportunamente. Occorre
Istinctive purchasing: è il consumo di impulso, che non è preceduto dalle tradizionali fasi di analisi del prodotto ricercato e
ponderazione dei costi alternativi.
5
Brand engagement: è il processo di formazione di un attaccamento di tipo emozionale o razionale tra stakeholder interni e/o
esterni e il brand. In generale, il brand entra in connessione con il consumatore attraverso una serie di “touchpoint”, come
gli ambienti di retail, l’advertising o lo stesso prodotto o servizio.
6
Web Mobile App: Versione del sito web ottimizzato per la navigazione mobile e dall’apparenza del tutto simile a quella di
un’applicazione scaricabile dagli appstores (la Mobile App o App “nativa”). Si distingue da quest’ultima perché basata sul
linguaggio HTML5 e accessibile tramite navigazione via browser.
7
Mobile App o “App nativa”: Applicazione scaricabile sul dispositivo mobile attraverso un applicationstore (come Google
Play o Apple Store) e accessibile attraverso una specifica icona collocata sull’home screen. Le app native sono sviluppate
per una specifica piattaforma, e usufruiscono spesso di tutte le caratteristiche “native” del dispositivo, quali la fotocamera,
il GPS, la bussola, l’accelerometro. Utilizzano il sistema di notifiche del dispositivo e possono in molti casi operare anche
offline.
8
Dati di Google Research.
4
69
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
la rintracciabilità del sito via mobile browsing,
una modalità d’accesso in notevolecrescita9 che
registra una elevatissima frequenza di rimbalzo10.
La ragione chiave alla base dell’importanza del
Mobile Internet Design è il “Consumer Intent”11:
per uno stesso prodotto, l’acquisto via PC ha
luogo in un mese dalla ricerca tramite desktop
browsing e entro un’ ora via mobile.
del Mobile Social, il laddering suddividerebbe
l’utenza in cinque categorie di utilizzo del mobile:
inactives, talkers, communicators, entertainers,
superconnected. Ogni paese riporta statistiche
differenti in termini di profilazione, per cui è
importante per un’azienda definire la propria
audience sulla base del comportamento dei
diversi mercati in cui opera.
Il metodo POST per la Mobile Strategy
Di seguito, sono da definire gli objectives della
presenza mobile come drivers per realizzare
opportune scelte di investimento: brand
awareness, la stimolazione dei consumi, il
risparmio dei costi, o offrire una convenience per
il cliente. Da qui, associare metriche e KPI per il
Mobile (numero di download, frequenza, tempo e
circostanze di utilizzo, login, visite ripetute, ricavi
da ordini ricevuti e incremento nell’acquisizione
dei clienti), e valorizzare opportunamente le 5
aree chiave del Marketing (Discovery, Product
Evaluation, Purchase e Costumer Services).
Una Mobile Strategy efficace colloca la presenza
mobile all’interno di un piano integrato di
marketing. Nell’elaborazione, occorre tenere
conto di quattro elementi: la segmentazione
della mobile target audience, la definizione
di obiettivi e strategie, la selezione delle
tecnologie, degli strumenti e dei sistemi
operativi. Si tratta sostanzialmente di applicare
il metodo POST al contesto mobile: analisi delle
componenti People, Objectives, Strategies e
Technology.
Per l’elemento people, si deve analizzare il
mobile technographic, ovvero, i comportamenti
degli utenti mediati dalla tecnologia mobile,
funzionale alla profilazione della target audience.
Questa analisi permette di stabilire il grado di
multicanalità e gli scopi della fruizione mobile
da parte del consumatore. Può essere d’utilità
adottare la Technographics Ladder di Forrester12,
che segmenta l’utenza in base a date categorie
di comportamento e secondo livelli crescenti
di interazione: inattivi, spettatori, socievoli,
collezionisti, critici e creatori. Applicata al contesto
Conseguentemente, occorre fissare la propria
strategy in riferimento a quattro dimensioni
principali: la reach, ovvero, la copertura di utenza
raggiungibile tramite la presenza sul mobile
secondo diverse velocità di implementazione;
l’offering, in termini di prodotti, servizi o
informazioni; la value chain, ovvero il modello di
distribuzione della propria presenza mobile, che
può essere gratuita e diretta, o proporre servizi
premium via abbonamento o oneshot, ed è resa
visibile e promossa attraverso i Mobile Telcos13; il
commitment14.
Secondo SmartInsights (2014), la navigazione via mobile browsing sta crescendo annualmente del 150%; un terzo degli
utenti sarebbe inoltre disposto a cambiare brand nel caso in cui la mobile experience non fosse soddisfacente.
10
Google Analytics attesta un tasso di rimbalzo tramite accesso ai siti mobile pari al 79%.
11
Consumer intent: l’intenzione d’acquisto del potenziale consumatore. Il termine in questo contesto sta ad indicare l’effettiva
predisposizione all’acquisto dopo un periodo di tempo più o meno breve dalla ricerca di informazioni sul prodotto o
servizio.
12
Forrester è una tra le più influenti agenzie di ricerca e consulenza per il business, esperta nell’analitica dei fenomeni di
consumo e nello sviluppo di soluzioni digitali e strategie di crescita per le imprese. Sito web:https://www.forrester.com/
13
Il termine “mobile telcos” è la forma abbreviata di mobile telecommunication companies, in altri termini, gli operatori
telefonici.
14
Commitment: dall’inglese “impegno”, è inteso in questo caso come l’entità delle risorse temporali ed economiche da destinare al progetto.
9
70
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
è il presupposto di un modello di business, e
apporta dunque valore aggiunto al resto delle
proprie risorse web?» .
Nel caso in cui la risposta sia negativa, l’app
nativa rischia di rivelarsi soltanto un costo di
sviluppo e di marketing. In generale, soltanto
dopo essersi concentrati sul mobile site è
consigliabile estendere l’esperienza all’app nativa
per costruire relazioni di lungo periodo, offrendo
possibilmente servizi inediti e suppementari.
Il successo dell’app – che si misura
quantitativamente in termini di download
e frequenza di utilizzo, e qualitativamente,
attraverso le recensioni via store – risulterà tanto
più grande quanto più efficacemente soddisferà
una o più delle quattro tipologie di Consumer
Benefit: l’erogazione di contenuti e servizi superiori
ad altre piattaforme (deliverability), la facilità
nell’acquisizione di documentazione o l’invio di
segnalazioni (utility) e la creazione/fruizione di
contenuti multimediali (entertainment) oltre che
un’informationlevel preciso e puntuale.
Occorre in seguito definire il modello dei ricavi.
Le opzioni a disposizione sono le seguenti: app
nativa gratuita; gratuita con meccanismo inapppurchase16; a pagamento (via abbonamento
con la modalità freemium – versione free +
premium - o oneshotpurchase); sponsorizzata
o finanziata da pubblicità, in un’operazione
di co-marketing. Realizzare un’applicazione a
pagamento presenta pro e contro da valutare:
le apps acquistate sono quelle mantenute più
a lungo sui device; al tempo stesso, il fatto
che un’app sia a pagamento crea una barriera
istantanea e spontanea rispetto a tutte le altre app
gratuite. Le apps a pagamento sono generalmente
una minima parte del download totale di apps,
come conferma il fatto che il 95% dei mobileuser è restio rispetto al pagamento17. A questo
punto, la definizione delle piattaforme da
sviluppare dipenderà da 3 elementi: il target di
riferimento, il Technographics – ovvero, il mobile
Relativamente alla technology, l’analisi dei costi
di sviluppo, di promozione e manutenzione va di
pari passo con il livello di necessità nel progettare
ognuna delle modalità considerate, specie nel
caso in cui la Native App e la Mobile Web App
abbiano profili simili senza alcun valore aggiunto.
Entrambe le opzioni presentano determinati
vantaggi e svantaggi. La Native App offre la
possibilità di personalizzazione dei contenuti.
Se adeguatamente sviluppata, è utilizzabile per
alcuni strumenti integrati nel dispositivo anche
senza connessione; inoltre, la sua presenza fissa
sugli schermi del mobile device genera una più
intima affinità one-to-one con il brand. Esiste poi
un vantaggio di preferenza dagli utenti in termini
di tempo speso sulle applicazioni rispetto alla
navigazione via mobile browser (circa l’83% del
tempo), sebbene le Mobile Apps registrino un
impressionante tasso di mortalità15. Da questo
punto di vista, le Mobile Web Apps vantano
una maggiore competitività, connessione
più veloce e una tecnologia più recente,
performante e mento costosa. Un altro side effect
legato alle apps riguarda il lato dei guadagni: gli
AppStore di Apple e Google Play trattengono il
30% di commissione sulle vendite; nel caso del
sistema iOS, inoltre, Apple utilizza linee guida
più ferree per gli sviluppatori: la user-experience
è in un certo senso migliore, ma c’è un vaglio più
complicato da passare per l’approvazione.
Il valore aggiunto, il revenue model
e l’implementazione della Mobile App
Occorre
quindi
capire
se
sviluppare
un’applicazione nativa è davvero necessario
e prioritario – a prescindere dalle scelte dei
competitors - rispetto ad altre modalità alternative
o complementari, quali l’ottimizzazione del sito
web attuale o della propria presenza sui social.
La domanda cruciale da porsi è: «l’app nativa
Nielsen Mobile Media View Internet, May 2010.
In-apppurchase: è un meccanismo di advertisting di un’applicazione all’interno di un’altra, che permette di targetizzare
l’audience per tipo di comportamento, di device o sistema operativo, localizzazione e fascia oraria (con iAd Network per
Apple, per esempio, si può effettuare il download senza uscire dall’app primaria).
17
Dati diFlurry Analytics.
15
16
71
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
profile – dell’audience, e il/i marketplace su cui i
potenziali clienti sono maggiormente presenti.
E’ raccomandato l’utilizzo di una piattaforma
di Web Analytics (es. Google Analytics) per
ottenere un’analisi indicativa della distribuzione
dei dispositivi mobile della propria audience.
Segue dunque la realizzazione vera e propria
dell’app18, che presenterà un valore aggiunto
rispetto ai contenuti e ai servizi mobili se questi
non fanno leva sulle caratteristiche intrinseche
del telefono, le cosiddette “funzionalità native”,
spesso orientate alla creazione di community
e utilizzabili anche offline: localizzatore
GPS, messaging, fotocamera, videocamera,
accelerometro, registratore audio. In caso
contrario, una sterile erogazione di contenuti
informativi, che riproducano i contenuti online
senza interazione alcuna con gli elementi
del dispositivo, non giustifica la scelta di
sviluppare una mobile app nativa rispetto alla
Mobile WebApp o al sito ottimizzato. Di fatto,
la differenza tra Mobile app e Mobile Web App
sta sfumando: grazie all’HTML5, anche queste
ultime possono utilizzare alcune funzionalità
un tempo a disposizione solo delle applicazioni
native, sebbene in questo caso si renda necessaria
la connessione a una rete wifi o mobile.
La promozione:
il Mobile App Marketing.
Uno degli aspetti più delicati dello sviluppo
di un’app è la sua promozione. Il Mobile App
Marketing è un processo che deve interessare
trasversalmente tutte le sue fasi, a partire da
quella precedente al lancio, in un crescendo
promozionale che fa leva sui social network
e il potenziale virale del web. Si può partire
in particolare da un’esplorazione su Twitter e
da un tracking per identificare esperti e peers
potenzialmente interessati, attraverso un account
dedicato per l’App o attraverso un personal o un
corporate account che faccia leva sul capitale
umano già acquisito. La comunicazione in
questa fase deve essere il meno autoreferenziale
possibile, e concentrarsi sul fornire una soluzione
ai problemi e ai bisogni dei clienti, offrendo
sconti e condividendo link e risorse utili. Può
essere d’aiuto l’utilizzo di strumenti più efficaci
nel rintracciare i potenziali influencers su Twitter
Fig. 2 - Con Followerwonk è possibile analizzare la frequenza di attività dei propri followers in base all’orario
della giornata.
Tra le risorse web per la creazione di app, si suggerisce Goodbarber.com.
18
72
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
attraverso una ricerca per tag, come il directory
Wefollow, Followerwonko Twiangulate, o attivare
un feedreader quale Google Reader che cataloghi
e tracci le risorse, blog e peers identificati.
Il secondo passo è quello dell’email marketing,
ancora efficace e poco costosa. È importante
utilizzare uno strumento professionale che
permetta di gestire le liste il tracking del messaggio,
in particolare, che registri il delivery rate, l’open
rate e il click-through rate19. Si suggerisce a tal
proposito di utilizzare piattaforme di mailing
analysis quali Mail Chimp, ConstantContact e
ExactTarget. Nel caso in cui l’app non sia ancora
pronta, è possibile creare una Splash page, una
sorta di Landing Page di anteprima che riporti
la descrizione dell’app, basici elementi grafici,
un form per la raccolta di indirizzi email e
acquisizione di feedback, e utilizzare strumenti
come FacebookAds per la promozione. È
preferibile pubblicare la Splash page nello stesso
dominio su cui esisterà il sito web dell’app.
La terza fase, quella dello sviluppo, richiede
un’intensa attività di blogging (le piattaforme
sono molteplici, da Blogger a WordPress fino a
Tumblr o Posterous) per avviare un dialogo con
i potenziali clienti e con gli esperti, e realizzare
una Search Agent Optimization20 prima ancora
che l’app sia disponibile, per poi procedere con
un invio periodico della newsletter agli iscritti
sulla piattaforma blog o agli interessati sui canali
social. Il beta-testing, ovvero, il reclutare potenziali
tester per l’app, può essere utilizzato come parte
dell’attività di marketing. La fase successiva è
quella della preparazione dei contenuti di lancio,
che si traduce nella creazione del sito web di
supporto. Tra i requisiti, la funzionalità, un teaser
che metta in evidenza il valore aggiunto dell’app
e i punti di forza, alcuni contenuti tratti dal blog,
contatti mail e link con i canali social.
dello stato delle versioni attuali e degli
aggiornamenti, il prezzo e il collegamento per
l’acquisto via store, recensioni dei clienti più
influenti e un’apposita pagina dedicata alle FAQ
e al supporto. Indispensabile è in questo stadio
il coinvolgimento dei media con un preciso
storytelling che fornisca narrazioni coinvolgenti
attorno all’app e ai suoi autori, all’ispirazione e
alle sue fasi di sviluppo. Per capire quali saranno
gli attori più predisposti al co-promoting, si
possono utilizzare motori di ricerca e di social
media monitoring per capire chi sta parlando di
tali servizi al di fuori della community già nota,
monitorare e leggere siti e blog di recensione e
suddividere allora i contatti in due categorie
principali: in base alla probabilità di ricevere
risposta e in base alla tipologia del recensore, e
preparare dunque un apposito template. Una
strategia vincente è l’utilizzo di incentivi: codici
promozionali in cambio di recensioni; periodici
prezzi promozionali sponsorizzabili in modalità
cross-app, facendo cioè pubblicare il banner su
altre app e viceversa; indire un concorso –i premi
in palio saranno tipicamente codici promozionali
– in collaborazione con siti specializzati e affini
ad altro traffico. L’efficacia di una campagna
Mobile è tanto maggiore quanto più mirata,
sia il targeting definito per area geografica,
operatore telefonico, sistema o device, per fascia
oraria o tipologia di siti visitati dall’utente. La
crescita dei social network rende poi urgente
l’estensione della campagna di advertisting alle
piattaforme più diffuse. La ragione principale,
oltre alla dimensione planetaria che il
fenomeno sta raggiungendo, è il fatto che la
maggior parte dei potenziali clienti vive anche
sui social, e gran parte delle conversazioni
riguarda i brand e l’esperienza di prodotto,
influenzando il passaparola offline e le
decisioni di acquisto, incrementando i
trust 21.
In fase post-lancio, al website saranno aggiunti
sezioni informative per continue segnalazioni
19
Nell’ordine, I termini si riferiscono al tasso di ricezione, di lettura e di collegamento a un contenuto web tramite click dalla
mail.
20
Search Agent (o Engine) Optimization (SEO) : è un processo algoritmico che impatta la visibilità e il traffico di un sito o
pagina web tra i risultati (non sponsorizzati) dati da un motore di ricerca, sulla base della rilevanza dei contenuti e delle
keywords rispetto alla ricerca degli utenti.
73
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
Gli effetti di tali returns on investments22 sono misurabili.
Di grande utilità, una volta individuate le
metriche rilevanti per i propri obiettivi, è l’utilizzo
di piattaforme per tracciare l’andamento delle
proprie pagine sui social, quali Social Bakers.
Le conversazioni sono importanti anche sul
versante della qualitative analysis, per rilevare
un insight dei bisogni, interessi e opinioni degli
utenti, un vero e proprio capitale informativo per
il business.
Ogni social network si distingue in termini di
audience – ragion per cui si rende indispensabile
un profiling del proprio target sui social networkdi tone of voice e scopi, oltre che di strumenti che
può offrire alle aziende per la promozione.
Fig.3 - La classifica dei benefici derivanti dal Social Media Marketing, fonte: Social Media Examiner’sState of
Social Media 2014.
Global Consumers’ Purchase Behaviour Influencers, March 2014.
Returns on investments aka ROI: è una misura di performance, utilizzata per valutare l’efficienza in percentuale di un dato
investimento. Registra l’ammontare di ricavi su un investimento relativo al costo dell’investimento stesso.
21
22
74
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
la presenza sui social a rendere meno credibile
o poco seria la campagna marketing: la quota
di adulti professionisti che ne fa uso cresce
esponenzialmente. Non basta, creare una pagina
o un account sui social media per sancire in
modo definitivo la propria presenza, e aspettarsi
un ritorno positivo dalla sua sola esistenza.
Occorre una presenza continua per rispondere
in maniera adeguata e costante alle interazioni
degli utenti, e rigenerare e innovare ogni volta la
propria immagine.
Bisogna, in altre parole, avere un piano
strategico di content marketing con
appositi calendari editoriali, per adeguare
le tattiche e le modalità – variabili, per
esigenze dei programmatori – ai propri piani
e obiettivi di business, e concentrarsi sui
social media che riflettono maggiormente
il proprio ecosistema sociale di riferimento.
La strategia di content deve adattare
dunque a ogni social il proprio testo e,
opportunamente, sfruttare le dinamiche
di interazione della specifica network
community per raggiungere nella maniera
più efficace e meno costosa possibile gli
obiettivi preposti.
Il rischio è di una over-exposition e di
dispersione di risorse preziose.
F OC U S
Instagram, Tumblr e Pinterest: la forza delle
immagini.
La comunicazione visiva è notoriamente più
efficace di qualsiasi altro testo scritto, rispetto a
cui un’immagine riesce ad essere percepita fino a
50 volte più velocemente. Per suscitare interesse e
richiamare l’attenzione, la cura nella scelta delle
immagini per i propri canali di comunicazione
è essenziale. Instagram, Tumblr e Pinterest sono
social format basati sulla dimensione grafica.
Sono strumenti perfetti per aggregare contenuti
fotografici e tenerli in costante aggiornamento, e
catalogarli grazie all’utilizzo di un tag concettuale.
Inoltre, è possibile trasferire in automatico le
immagini per il brand da Instagram a Pinterest
a Tumblr con un semplice tool: IFTTT, che
permette di pubblicare i contenuti pubblicati su
una piattaforma in modo simultaneo su tutti gli
altri canali social.
La presenza sui social network:
alcuni miti da sfatare.
Approdare sui canali social richiede di estirpare
pregiudizi e miti radicati: innanzitutto, ogni
prodotto o servizio ha in sé un potenziale
attrattivo per il social network. Inoltre, non è
Angela Nicolazzo
75
Logiche e sviluppi del Mobile Marketing
Riferimenti bibliografici
Ask J., Bernoff J., Schadler T., TheMobile Mind Shift: Engineer Your Business to Win in the Mobile
Moment, Groundswell Press, 2014.
Bellini L.; Di Stasi Lorena, Aziende di successo sui Social Media: Creare valore e generare business,
Hoepli, 2014.
Cantamesse M., Facchini A., Meardi G, Digital Marketing: Le sfide da vincere: dalla soddisfazione del
cliente al ROI, Hoepli, 2016.
Fitzpatrick P Kawasaki G., L’arte dei social media: Consigli vincenti per profili efficaci, Hoepli, 2015.
Martin, C., The Third Screen: The ultimate guide to Mobile Marketing, ed. Paperback, Nicholas Brealey America, 2014.
Rowles D., Mobile Marketing: How Mobile Technology is Revolutionizing Marketing, Communications
and Advertising, ed. Paperback, Kogan Page, 2013.
76
PRINCIPI DI E-COMMERCE
E SOCIAL COMMERCE
Tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli
«Se rendi insoddisfatti i clienti nel mondo fisico, ognuno di loro potrebbe raccontarlo a 6 amici.
Se li rendi insoddisfatti su Internet, ognuno di loro potrebbe raccontarlo a 6000 amici.»
Jeff Bezoz, fondatore e CEO di Amazon.com
ECOMMERCE - STORE ONLINE - RETAIL
La morte dell’e-commerce1
chi commercia per via digitale: no need, no
money, no hurry, no desire, no trust.
Di questi, il più pericoloso è rappresentato,
per l’e-commerce, dalla mancanza di fiducia
da parte del potenziale consumatore. Specie,
viene sottolineato, nelle aree mediterranee, dove
incide un particolare fattore culturale. Per questo
motivo, ogni strategia di commercio online dovrà
necessariamente mettere al centro la creazione o
il rinforzo della fiducia nel compratore.
Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma con
l’avvento del web 2.0, peraltro così consolidato da
non essere più ascrivibile a novità, pare delinearsi
concretamente l’ipotesi di un tramonto definitivo
del commercio online. O almeno della sua
concezione tradizionale. La realtà, meno funerea
di quanto sembri, è che al grido di “Digital
first!” le attività di acquisto e vendita online
stanno gradualmente venendo inglobate in tutti
i canali dello scenario digitale, intersecandosi
indissolubilmente anche con la tradizionale
vendita retail. Inoltre, se un tempo l’acquisto di
beni online era prerogativa di pochi geek2, oggi
rappresenta una comune alternativa per l’uomo
della strada. E quel suffisso che denotava il
commercio per via digitale come un’entità a sé si
è dissolto, segnando il passaggio dall’e-commerce
al semplice commerce3. Semplice, ma non meno
complesso.
Come sottolinea Guy Kawasaki4, si pongono
cinque ostacoli particolarmente insidiosi, per
Tanti modi di fare e-commerce
La digitalizzazione dei canali di vendita
ha generato una ricchezza di possibilità
precedentemente
inimmaginabile.
Ma
quest’abbondanza deve essere gestita con
coscienza, senza tralasciare alcun aspetto: dai
social network alle chat, passando per il mobile
e per le opzioni di delivery5, i tracciati disegnati
dai touchpoint6 nel customer journey7 appaiono
sempre più come frattali interpretabili solo grazie
alla conoscenza delle formule alla base. E con ciò
L’acquisto di beni e servizi tramite il World Wide Web.
I c.d. “nerd” appassionati di tecnologie digitali
3
Per comodità espositiva nell’arco del capitolo continueremo, seppure forse impropriamente, a parlare di
e-commerce.
4
Manager, imprenditore e saggista statunitense, ex dipendente di Apple e attuale CEO di garage.com.
5
Lett: “consegna”.
6
Punti di contatto attraverso cui il cliente interagisce con un’impresa.
7
Consiste nella “mappa” di tutti i touchpoint adoperati dall’utente.
1
2
77
Principi di e-commerce e di social commerce
si rimodellano, quasi dalle fondamenta, i modelli
di business.
affidarsi ad un servizio di logistica capillare
ed efficiente può rappresentare una grossa
facilitazione.
Dubbi legittimi possono sorgere al pensiero che
su tali piattaforme sia necessaria un’estrema
competitività dal punto di vista del prezzo.
Di certo tale fattore non è secondario, ma non
mancano le strategie per ovviare a questo
problema: si può modulare la propria offerta con
sconti al cliente sulla spedizione, ad esempio, o
scegliere di risultare competitivi sui prodotti che
interessa maggiormente vendere.
Anche in termini di volumi di vendita sarà
necessario ragionare sulla propria presenza sui
canali e-commerce, che solitamente trattengono
un’importante percentuale per sé: maggiori
saranno le vendite, più alta sarà la convenienza
di possedere un canale digitale di vendita
“proprietario”. Emblematico l’esempio di alcune
aziende presenti su marketplace quali eBay, che
inseriscono talvolta coupon sconto all’interno
dei pacchi, in modo da dirottare il cliente sulla
propria piattaforma.
In ogni caso, per capire se vendere direttamente
Alla luce di questo panorama così vasto, le
aziende devono imparare a guardare più in
grande del “semplice” retail. Ma come decidere
se mantenere esclusivamente un marketplace8
o uno store? O addirittura entrambi? Spesso, è
consigliabile che la strategia di presenza preveda
un approccio misto. Per un’azienda proprietaria
di uno shop online potrebbe essere utile, ad
esempio, collocarsi al contempo anche su Amazon
e magari su un marketplace maggiormente
specializzato nel settore di riferimento, perché
tali canali costituiscono un’importante risorsa
nella fase in cui è necessario stimolare awareness9
verso il proprio brand o i propri prodotti.
Nondimeno, vi sono consistenti vantaggi per
coloro che intendono far leva sulle esportazioni:
in primo luogo, in termini di risorse: affidarsi ad
un canale già strutturato può essere più semplice
che dedicare una sezione del proprio sito a
ciascuno dei segmenti di mercato estero cui ci si
vuole rivolgere. Oltre a ciò, per le piccole imprese
Fig. 1 - Vantaggi e svantaggi dei principali marketplace digitali. Fonte: Gianluca Diegoli, www.digitalupdate.it
Sito Internet di intermediazione per la vendita di un bene o un servizio.
La notorietà (o consapevolezza) circa un dato brand.
8
9
78
Principi di e-commerce e di social commerce
subscription, o abbonamenti. Su tutti, spicca
Amazon Prime che prevede, oltre a servizi
premium quali abbonamenti a tv online, la
sospensione in toto, almeno in alcuni Paesi,
delle spese di spedizione. Tale opzione comporta
ovviamente costi notevoli. Ma, forte dei dati a sua
disposizione, Amazon ha potuto quantificare il
probabile volume di acquisto dei prospect (ovvero
dei potenziali sottoscrittori) Prime, rendendosi
conto che essi sono più numerosi degli acquirenti
non interessati all’opzione. Senza contare che le
sottoscrizioni generano revenue immediate e, al
contempo, costituiscono un elemento fidelizzante
che consente previsioni di vendita e continuità
finanziaria. Un altro esempio di tale genere è
Soap.com, che consente una spesa automatica di
panieri di beni il cui acquisto, per loro natura, è
reputato un’incombenza poco gradevole.
oppure indirettamente, è sempre bene cercare di
porsi i seguenti interrogativi: quanto margine ho?
Quanto tempo spende il mio cliente nell’acquisto?
Quanto è condiviso il customer journey con altri
prodotti? Esistono già intermediari ben radicati
con cui posso cooperare?
Modelli di business:
aprire un negozio è passé?
Abbiamo accennato all’estensione del ventaglio
di possibilità di commercio online in seguito
all’avvento del Web 2.0. Non solo in termini di
canali, ma anche attraverso nuovi modelli di
business, o versioni digitalizzate dei modelli
tradizionali. Più spesso, tramite ibridi che
integrano entrambi.
Una delle formule utilizzate è quella del daily
deal: coupon sconto con offerte disponibili per
un tempo limitato, utili per attività businessto-consumer che cercano innanzitutto di
farsi conoscere dai potenziali clienti. Di certo,
presentano dei punti deboli: in primo luogo,
piattaforme quali Groupon o Privalia consentono
un controllo dell’esperienza del cliente solo fino
al momento della transazione economica. Oltre a
ciò, la percentuale trattenuta dal prezzo di vendita
è consistente: risulterebbe dunque insostenibile
avvalersene nel medio/lungo periodo. D’altro
canto, la formula del countdown a tempo
costituisce un incentivo strategico, poiché nella
percezione del potenziale cliente ogni prodotto
“in scadenza” risulta più apprezzabile.
Anche il drop shipping, ovvero la vendita di beni
non posseduti fisicamente in un magazzino, sta
facendo la sua comparsa, con negozi interamente
virtuali i quali, al momento dell’ordine, si
avvalgono di altri store che si occupano della
spedizione. Anche in questo caso, minore sarà
il ruolo del proprio commerce, minori saranno
i ricavi.
Altri brand ed aziende optano invece per la
formula del club, con vendita esclusivamente
a soci.Un esempio apprezzabile è quello delle
F OC U S
Le subscription costituiscono anche una leva per
stuzzicare la curiosità. Esistono infatti molteplici
servizi che, tramite abbonamento, forniscono ad
esempio “happy box” mensili per il proprio amico
a quattro zampe, degustazioni di caffé... Oppure,
non senza un pizzico di ironia, pacchetti di beni
“per veri uomini”, come rasoi, creme da barba o
biancheria nel caso di Manpacks. Non mancano,
poi, modelli “win-win” come Degustabox, che
consente agli utenti di ricevere periodicamente
“cestini” di nuovi prodotti. Le aziende, che hanno
forte interesse ad effettuare preliminari ricerche
di mercato, offrendo alla piattaforma i propri
prodotti a costo zero ottengono in cambio un
campionamento verso persone che possono peraltro
condividere il loro prodotto e commentarlo.
Anche Cortilia, attraverso un sistema valoriale
basato sul Km 0, i piccoli produttori e la volontà
di sostenere una buona causa, gioca sull’effetto
“scatola misteriosa” ottenendo margini piuttosto
alti stimolando l’autostima del compratore, che
sente di aver agito in maniera etica.
79
Principi di e-commerce e di social commerce
Ovvero, di tutti quei servizi che declinano la
propria proposta di valore attraverso forme di
facilitazione nella consegna (delivery come
valore) o nella ricerca.
Dal momento che ormai lo showrooming12 è
assurto a fenomeno di massa, molte aziende
hanno promosso modelli omnichannel, in cui
ad esempio dopo un acquisto online è possibile
il reso in negozio.
Oppure, se nello store non è presente una
particolare taglia, si ha la possibilità di vedere il
prodotto della misura giusta consegnato a casa
propria.
Vi sono poi servizi come Indabox che offrono
la possibilità, dopo aver effettuato un acquisto
online, di recapitare il pacco presso un esercizio
convenzionato, il quale lo custodirà finché il
cliente non potrà ritirarlo in tutta comodità.
Anche Justeat.it, sito attraverso cui è possibile
ordinare a domicilio, è un servizio che fa della
consegna la propria value proposition.
Altre formule prevedono invece un click&collect
(acquista online e ritiro in negozio) come Tesco.
Retailer come Penguin offrono poi la possibilità,
similarmente al già menzionato Indabox, di
ritirare in loco le merci acquistate via web.
Perché una volta che il cliente è nei paraggi,
chissà che non approfitti dell’occasione per
fare un giro all’interno del negozio e magari
comprare qualcosa!
Non mancano piattaforme e applicazioni il
cui valore aggiunto consiste nel porsi come
intermediario editoriale per ciò che concerne
la produzione o la gestione “smart” di contenuti
relativi ai prodotti presenti, come Mallzee o
Shopbop. Riuscire a orientarsi può sembrare, a
prima vista, complicato.
Nella seconda metà del capitolo si cercherà di
fornire delle generali linee guida per capire
quali siano i tratti distintivi di un e-commerce
modello.
Tali modelli sono caratterizzati da alcuni tratti
comuni: uno su tutti, la necessità di costruire
un rapporto di fiducia, che spesso passa per
un’estrema ricercatezza del packaging, o l’utilizzo
dei social per far intuire ciò che l’utente potrebbe
trovare nella box. Non meno importante, il fatto
che tali modelli si inseriscano quasi sempre in
nicchie particolari, spesso basate su community,
fortemente interessate.
Grazie all’avvento del digitale, hanno visto la
luce anche molte forme di spesa automatica:
dalla “Internet of things”10 all’e-commerce of
things.
Di qui, l’introduzione di “Amazon Dash”, tasti
fisici connessi in rete via wifii con i marchi dei
prodotti più usati in casa. Con un semplice click,
il servizio inserisce quel prodotto nel carrello,
in modo da evitare dimenticanze.
E se «i mercati sono conversazioni», ecco
comparire forme ibride di conversational
commerce in cui l’approccio customer-based
fa della comunicazione interpersonale la sua
forza. Il contatto con l’azienda può avvenire
ad esempio tramite applicazioni di instant
messaging: un metodo efficace, diretto e, vista
la progressiva evoluzione dei chat-bot11, sempre
più a buon mercato.
Meriterebbe un’ampia digressione, ma qui si
accennerà per sommi capi alla vasta gamma
di modelli basati sulla condivisione, ove
il ruolo dello stakeholder è rappresentato
dalle persone. I servizi basati sullo sharing
commerce permettono infatti di accedere a
offerte vantaggiose per coloro che si avvalgono
del group buy, come la community di Vinix,
o di partecipare al processo di co-creazione o
selezione del prodotto, come Made.com.
Un’altra branca del settore del digital commerce
che denota una notevole vastità nella gamma
di opzioni è rappresentata da tutti quei servizi
che integrano e-commerce, retail e non solo.
Estensione di Internet al mondo degli oggetti
Software progettato per simulare conversazioni intelligenti con esseri umani tramite l’uso della voce e del
testo.
12
La tendenza a recarsi in uno store fisico, per poi provvedere all’acquisto del prodotto online.
10
11
80
Principi di e-commerce e di social commerce
Lo store online efficace
fanno aumentare, come comprovato da studi,
la sensazione di ansia: il rischio è che l’utente,
sopraffatto da tanta possibilità di scelta, vi
rinunci. Per questo motivo, nel tempo hanno
fatto la loro comparsa template (ossia “temi
grafici”) e home page abbastanza scarni (le
cosiddette homepage “emozionali”), ma anche
molte call to action e rinforzi positivi.
Le tre componenti base, per un efficace
e-commerce, possono essere riassunte in:
utilità, usabilità e coerenza.
Qui di seguito, analizzeremo alcuni temi
fondamentali per tradurre questi concetti in
pratica.
I primi siti di e-commerce non erano progettati
per un utilizzo tramite mobile. Si presentò però
un problema: un crollo del tasso di conversione13
per i siti non responsivi.
Di qui, l’intuizione: l’utente deve poter “salvare”
il lavoro per finirlo da PC, poiché le conversioni
da mobile sono più basse che da PC.
Questo perché il customer journey sfrutta
molteplici dispositivi e lo smartphone spesso è
la fonte dell’informazione.
Essere di fronte al PC è solitamente associato
ad un momento di lavoro: se l’utente adopera
il telefono, è probabile che sia più aperto alla
scoperta.
Sarà strategico dunque inserirsi in quel lasso di
tempo. Il retargeting14 desktop verso l’utente che
ha già effettuato una ricerca mobile è un’ottima
fonte di conversione.
Il contenuto deve essere un facilitatore
dell’offerta, per rendere il proprio prodotto o
servizio interessante, oltre che conveniente.
Non è necessario per forza un piano editoriale
iperstrutturato, ma ad esempio è possibile
sfruttare i canali social per offrire assistenza.
La scheda prodotto, come vedremo, rappresenta
uno spazio particolarmente congeniale
alla presentazione di contenuti: è possibile
descrivere i vantaggi che il cliente otterrà dopo
l’acquisto dello stesso e se ne possono raccontare
le ulteriori potenzialità, fidelizzando il cliente e
aumentando in tal caso la CLV15.
Il menu deve essere, ragionevolmente, semplice
da usare: una mappa per orientare l’utente
all’interno del sito, che consenta di raggiungere
le destinazioni principali con un click e che, se
possibile, contenga una sezione dedicata alle
promozioni.
La home page di un e-commerce deve essere il
più possibile chiara.
Occorrerà procedere a cerchi concentrici: in
principio, sarà bene esplicare il focus della
propria offerta.
In seguito, sarà opportuno illustrare l’unicità
della propria proposta di valore.
Poi sarà necessario fornire un’esperienza
utente accattivante, in grado di trattenere
l’utente facendo proseguire la navigazione ed
allettandolo con offerte-civetta che consentano
di guadagnare tempo.
Infine, sarà fondamentale inserire elementi
che consentono di rimanere in contatto con il
cliente, ma soprattutto di rassicurarlo.
Le home page “vetrina” con molti prodotti
Per quanto concerne categorie, filtri e ricerca,
bisogna fare in modo che il nostro percorso guidi
l’utente in maniera discreta, strutturando ogni
pagina come un’entità “indipendente”, ovvero
dotata di senso di per sé.
A proposito delle categorie, sarà importante
non scendere troppo nello specifico e l’uso dei
filtri dovrà essere gestito con cautela, poiché
conveniente solo per cataloghi-prodotto
particolarmente vasti.
La ricerca interna riveste un ruolo di grande
rilevanza: ha lo stesso ruolo del commesso che
chiede in negozio: «In cosa posso esserle utile?».
La percentuale di visitatori unici che hanno effettuato l’operazione desiderata visitando un sito.
Advertising online mirato basato sulle azioni del consumatore compiute precedentemente sul Web.
15
Customer Lifetime Value: la previsione dei profitti per tutto l’arco della relazione futura con il cliente.
13
14
81
Principi di e-commerce e di social commerce
Fig. 2 - La landing page perfetta per i produttori indipendenti di videogame, secondo IndieGirl.com
82
Principi di e-commerce e di social commerce
Oltre al contenuto, però, non si può prescindere
dal confronto con i prezzi dei competitor che
deve essere sistematico e continuo, perché anche
un solo articolo “fuori scala” può danneggiare
tutto il catalogo. Certo, non sarà possibile offrire
sempre un prezzo inferiore ai competitor. Sarà
dunque cura dello shop offrire dei bundle,
ossia dei “pacchetti” dove vengano associati
più articoli, oppure inserire offerte. Sistemi di
ricompense o premi fedeltà possono altresì avere
un ruolo rilevante.
Risulta di grande aiuto per l’utente che sa già che
cosa comprare: perciò, molti siti implementano
la funzione di autocomplete (che “indirizza”
anche la ricerca in base a quel che il sito vorrebbe
vendere).
La scheda prodotto deve essere sintetica e chiara.
Può contenere inviti all’azione, meglio se declinati
nelle tonalità del rosso o dell’arancio (mai nero o
bianco), in modo da catturare l’attenzione. Il testo
deve essere breve, possibilmente riassumendo
per punti le proprietà del prodotto.
Rappresenta l’occasione per creare storytelling
attorno all’oggetto in questione, pertanto deve
essere caratterizzata da originalità e unicità,
pur comprendendo elementi “canonici” quali
le icone per la condivisione sui social e i tipici
“cuoricini” da wishlist.
Il momento del checkout è solitamente il più
critico: vi si perdono il 70% delle possibili
conversioni. Più elementi vi contribuiscono:
la scarsa intuitività del processo da mobile; le
notifiche che sopraggiungono a distrarre l’utente;
il ripensamento dell’ultimo minuto; la scadenza
Fig. 3 - Questa product page di Made.com lascia che le immagini parlino da sé.
83
Principi di e-commerce e di social commerce
della sessione; il pagamento con doppia
autenticazione. Talvolta, facilitare il checkout
rappresenta una strategia più vincente della
generazione di traffico, che è costosa in termini
di budget e competenze.
vengono poste in negozio. Per far ciò, è necessaria
una stretta collaborazione con il customer care.
Inserire motivazioni all’acquisto, contrastare
le perplessità («Chissà che difficoltà pulire il
barbecue!») e soprattutto valorizzare i vantaggi
dell’articolo.
Play: sfruttare tutte le possibilità multimediali.
Al fine di mostrare la bontà di un prodotto, di
convincere all’acquisto o anche per intrattenere
l’utente, si è fatto sempre più intensivo l’utilizzo
di micro-video e gif animate. Tool come
Cinemagraph consentono di creare animazioni
dove il movimento interessa solo una piccola
porzione dell’immagine, consentendo tuttavia di
renderlo percepibile come un contenuto video.
Tre buone regole:
• eliminare header e footer;
• indicare in maniera chiara le spese di spedizione:
è il costo più sgradito al cliente, pertanto meglio
adottare policy specifiche invece di considerarla
una spesa operativa;
• evitare la registrazione obbligatoria: inutile
chiedere dati ai semplici visitatori, meglio
generare lead attraverso iscrizioni alla newsletter
o tramite un “guest checkout”.
Proof: «Solo gli altri possono convincere altri
ancora».
In un mondo in cui reperire le informazioni ha
un costo, spesso troppo alto per poter prendere
una decisione basandosi su elementi più che
esaustivi, non è infrequente che l’essere umano si
fidi del “branco”. Gli strumenti per intercettarne
le opinioni possono essere automatici, con
incentivi allo share, foto, curation anche da parte
di blogger e influencer, oppure si può trattare
di contenuti prodotti dall’azienda stessa, con il
racconto di esperienze, testimonial, interviste ai
clienti.
Una breve digressione a parte meritano le
recensioni: oltre a migliorare la conversazione
(rassicurando, informando, indirizzando),
migliorano il posizionamento SEO. La
social proof fa sentire meno solo il cliente al
momento dell’acquisto. Il dilemma di creare
strumenti proprietari per esprimere valutazioni,
oppure appoggiarsi a piattaforme preesistenti,
implementabili tramite app native o plugin, non
è risolvibile con una semplice formula. L’utente
tende a concedere la propria fiducia a strumenti
già noti, i quali però comportano il duplice
svantaggio di avere dei costi e di far esprimere
i giudizi sugli store in toto, anziché sui singoli
item.
E, più in generale, eliminare ogni funzione
inutile.
Oltre a ciò, è importante porre attenzione ad
elementi di marketing riassumibili come le “4 P”
per uno shop online efficace: People, Persuasion,
Play, Proof.
People: «Niente attira le persone come i loro
simili».
Mostrare il team aziendale ed i clienti,
narrarli secondo la formula “smart & pretty”
contribuiscono a reperire testimonial autentici,
che incarnano i valori del brand o del prodotto.
La sezione “Chi siamo” è importante quanto la
pagina prodotto: “siamo quelli che vi daranno
un certo tipo di vantaggio”. Esistono peraltro
strumenti di aggregazione automatica dei
contenuti pubblicati con determinati hashtag,
incorporabili anche nella scheda prodotto.
Persuasion: «Le persone rifuggono il rischio, e
pensano ai vantaggi»
Come convincere l’utente a compiere il grande
balzo dall’intention al purchase? Semplice:
utilizzando un linguaggio diretto, personale,
naturale, ricreando addirittura il tono
dell’acquirente, le domande che solitamente
84
Principi di e-commerce e di social commerce
offre molte possibilità circa le strategie per
avvicinare i clienti.
In generale, i tipi di piattaforma si dividono in
service e server. Quelle afferenti alla prima
tipologia si rivelano utili per vendere pochi
prodotti, con template personalizzabili che non
“bruciano” tutto il budget in piattaforma. La
seconda tipologia permette un uso estensivo
di estensioni ed è largamente personalizzabile.
Molte sono disponibili con licenze open-source,
ma hanno costi di manutenzione non indifferenti
e richiedono una particolare dimestichezza
tecnica.
E, ultimo ma non meno importante, mai
dimenticarsi di intercettare il parere di tester
pseudo-indipendenti: il c.d. “parere dello zio”,
in fin dei conti, potrebbe rivelare opportunità o
criticità non considerate.
Come ottenerle? Ad esempio attraverso
reminder, oppure – strategicamente –
selezionando e dividendo gli utenti soddisfatti
dagli insoddisfatti tramite form “guidati”,
rendendo pubblici unicamente i commenti
positivi. Altri store utilizzano notifiche pop-up
in tempo reale.
Un elemento strategico, specie per prodotti di
nicchia, è l’autorità di chi esprime il proprio
parere offrendo la propria competenza di
esperti, come ad esempio Patagonia che si
avvale di ambassador d’eccellenza quali alpinisti
professionisti.
Anche sottolineare la scarsità di un bene
determina un incentivo all’acquisto, poiché,
secondo la più classica delle leggi del mercato,
«meno ce n’è, più vale».
Last but not least, la scelta della piattaforma.
Giocare contro i colossi è inutile e
controproducente, ma la capacità di adattamento
Gemma Grimoldi
85
Principi di e-commerce e di social commerce
Riferimenti bibliografici
Diegoli G., Social commerce. Modelli di ecommerce attorno al cliente, Apogeo, Milano, 2013.
Cialdini R. B., Influence. The Psychology of Persuasion, Harperbusiness, New York City, 2007.
Di Fraia G. (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, 2012.
Sitografia
www.digitalupdate.it
www.minimarketing.it
http://goodui.org
www.crayon.co/f/ecommerce
86
2.2 Nuove logiche e strategie
in un immaginario
affollato di narrazioni
Il Digital Storytelling
Tratto dalla lezione di Guido Di Fraia
«La narrazione è un’esperienza di pensiero che esercita ad abitare mondi estranei e implica una
provocazione a essere e agire diversamente» P. Ricoeur, 1985
storytelling - marketing narrativo - storyselling
Al giorno d’oggi si parla molto di storytelling,
ogni cosa viene definita storytelling e spesso
questo termine viene abusato. Nasce sempre di
più l’esigenza di ridefinire in un modo nuovo il
rapporto tra storytelling e marketing.
Vale la pena dunque approfondire questo concetto
da un punto di vista teorico evidenziando le
conseguenze concettuali e da un punto di vista
operativo offrendo una cassetta degli attrezzi per
permettere di far lavorare insieme storytelling e
content marketing.
Alla base di tutti i concetti ci sono le storie: che
cosa sono e perché ci piacciono?
1.Cosa sono?
Ogni storia prevede la presenza di figure
abbastanza stabili e trasversali a tutte le
narrazioni e per poter esistere presuppone che
accada qualcosa.
Ci sono diversi modi per raccontare storie
e narrazioni e questi due termini vengono
erroneamente utilizzati come sinonimi.
88
Il digital storytelling
Le narrazioni sono forme attraverso cui
la nostra mente ci fa vivere in altre realtà
mentre le storie sono dei modi attraverso
cui si organizza la comunicazione umana e
rappresentano il medium per eccellenza. Gli
scambi comunicativi umani nascono attraverso
le storie in termini di evoluzione e quindi sono
un mediatore linguistico che consente alle nostre
menti di ordinare la realtà e di generare senso,
possiamo dire quindi che la narrazione è un
potentissimo generatore di senso. Attraverso
anche, ma non solo, la forma organizzativa della
narrazione, la nostra mente impone organicità
all’esperienza. L’esperienza infatti non è già di per
sé organizzata ma si organizza attraverso delle
forme della conoscenza, tra cui quella narrativa.
Sostanzialmente la narrazione è un elemento
trasversale a esperienza, conoscenza e memoria.
Le storie sono uno strumento attraverso cui
diamo forma alla realtà e sono estremamente
potenti rispetto al nostro modo di essere, di
pensare ed agire. Tutti i nostri discorsi nel
quotidiano sono delle micro-narrazioni e anche
quando progettiamo il futuro o raccontiamo il
passato usiamo storie.
Quando una persona vuole farsi conoscere
non usa il modello paradigmatico ma racconta
la sua storia ed è questa che la caratterizza e la
rende diversa dagli altri. Questa raccolta di fatti
può essere raccontata in modi diversi in base al
contesto in cui ci si trova.
3. Come funzionano?
Le storie funzionano su vari modelli, devono
assomigliare a qualcosa di vero per trasmettere
coerenza. Quando le percepiamo ci collocano in
uno spazio diverso, oltre al luogo in cui siamo
realmente (bilocazione spaziale), inoltre ci
attivano empaticamente perché ci riconosciamo
in esse. Le storie tanto più parlano di noi, tanto
più ci identifichiamo e le consideriamo credibili
ci crediamo.
Le storie, come tutte le forme linguistiche, sono
piene di vuoti e di spazi che hanno bisogno di
un importante lavoro per la loro “costruzione”.
Possiamo dire che le storie costruiscono la
nostra esperienza ed identità o meglio le storie
sono la nostra identità e le possiamo definire
ontologiche2.
2. Dove sono?
Per molto tempo il cervello umano è stato
considerato come una sorta di computer e questo
modo di pensare ha fatto perdere di vista la
dimensione narrativa del pensiero.
Si è scoperto successivamente che la nostra mente
funziona secondo due modalità:
- Modello paradigmatico: è proprio quello della
scienza che fa tassonomia ed organizza in modo
razionale;
- Modello narrativo: è tipico del ragionamento
quotidiano, parla di relazioni, è sensibile al
contesto.
Tre elementi contribuiscono a formare un
individuo:
• interazione con ambiente
• patrimonio genetico
• educazione
La storia è sempre legata al contesto, non è
possibile stabilire a priori se sia vera o falsa
e per questo motivo si dice infatti che le storie
sono caratterizzate da opacità referenziale: la
relazione che le storie hanno con la verità del
mondo è opaca perché secondo la referenza1
non ci può essere una storia “oggettiva” in tutto,
l’importanza è la sua coerenza interna.
Noi abbiamo accesso a quello che siamo solo
raccontandoci la nostra storia, è l’unico modo
per accedere al nostro mondo interiore.
Ciascuno di noi per tutta la vita si domanda: chi
sono? Per risponderci abbiamo due possibilità:
Referenza: rapporto tra referenti linguistici e il mondo
Ontologia: parte della filosofia che studia il concetto e la struttura dell’essere in generale, e non i fenomeni in cui si concretizza e specifica.
1
2
89
Il digital storytelling
Fig. 2 - Schema trance narrativo
o ci raccontiamo noi la nostra storia o ce la
facciamo raccontare dagli altri.
Le nostre storie identitarie sono sempre diverse,
non c’è mai fine alla ricerca perché le storie
assumono significato solo al termine della vita di
una persona.
trance narrativo, che prevede che il cervello si
trovi in uno status particolare. Portare chi ci
ascolta in questa sorta di trance è l’obiettivo da
prefissarsi.
Alcuni esperimenti scientifici hanno dimostrato
che la persona che racconta una storia ad un’altra,
attiva in quest’ultima le sue stesse strutture
celebrali. Le storie infatti cambiano la chimica
del cervello e generano comportamenti ed azioni.
4. Cosa ci fanno?
Se funziona bene, una storia fa raggiungere il
Fig. 3 - Durante il racconto i cervelli si sincronizzano
90
Il digital storytelling
5. Come sono fatte?
Le storie sono caratterizzate da questi elementi
che non sono sinonimi tra di loro ed è difficile
distinguerli:
6. Cosa ci fanno?
Che rapporto c’è tra storie e consumo? E che
cosa le aziende se ne possono fare delle storie?
Dagli anni ‘70 le merci sono state identificate
come segni che raccontano noi stessi agli altri.
Possiamo definire il consumo come un vettore
di senso perché attraverso gli acquisti diamo
consistenza a ciò che siamo.
Il consumo è soprattutto un consumo di storie
perché quando noi compriamo un brand,
lo compriamo per la storia che racchiude e
consumando quei prodotti raccontiamo agli altri
chi siamo.
• STORIA: rappresentata dai fatti così come
sono stati, cioè l’insieme degli eventi nella loro
relazione causa-effetto.
• RACCONTO: è il modo in cui questa storia
viene raccontata. È la forma discorsiva che
assume la storia, è la forma del condimento.
• NARRAZIONE: è l’azione del raccontare.
Bruner3 identifica la struttura della storia con i
seguenti elementi:
• la struttura “pentadica”: una storia per essere
grammaticalmente corretta e per essere compresa
dalla nostra mente deve essere caratterizzata da 5
elementi:
F OC U S
Rivista “Le Scienze”
Sociologia computazionale
Un esempio interessante di quello che diventerà
la ricerca sociale di mercato nei prossimi anni, è
la scienza sociale computazionale, che ci consente
di studiare la società attraverso le piattaforme
di ascolto e di analisi dei post. Tutto questo ci
permette di dare senso ai big data.
Lo studio che è stato pubblicato sulla rivista Le
Scienze consisteva nella rilevazione di differenze
e incompatibilità di mondi molto diversi (pagine
con notizie non veritiere vs pagine scientifiche)
presenti su Facebook.
e all’evoluzione della tribù e dei suoi rituali.
1. attore
2. scopo
3. azione
4. contesto
5. strumento
• intenzionalità ai soggetti: le storie funzionano
perché attribuiamo intenzionalità ai soggetti,
le storie in termine evolutivi sono nate perché
attraverso di esse è facile capire l’intenzionalità
dell’altro.
Perché le aziende dovrebbero raccontare le buone
storie?
• Componente ermeneutica: ciascuna storia è
fatta al suo interno di piccole storie.
Ci sono molte ragioni per cui conviene raccontare
buone storie, in particolare attraverso le storie è
possibile:
- generare trance narrativo: questo risultato
ricade in modo positivo sia sul brand sia sul
prodotto;
- diffondere temi e miti: le storie sono facilmente
divulgabili e quindi diventano mezzi attraverso
cui diffondere i contenuti che si vogliono far
veicolare, soprattutto grazie ai social;
• Violazione del canone: per essere una storia
deve accadere qualcosa di strano4.
• Incertezza: le storie acquisiscono un senso solo
alla fine.
• Appartenenza ad un genere: non ci può essere
storia senza che la nostra mente la riconduca ad
un genere.
Psicologo statunitense che ha contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva
Il Prof. Di Fraia non è pienamente d’accordo con questa visione perché a volte le storie hanno una funzione fatica
3
4
91
Il digital storytelling
Fig. 4 - La dinamica delle storie
- generare adesione informativa e culturale
cioè fare cultura attraverso le storie;
- veicolare grazie alla narratività comportamenti
di acquisto di prodotti, stili di vita ed idee.
e oggetti. La narrazione di consumo deve
intercettare la dinamica della vita in cui siamo
e proporci un viaggio di auto-riconoscimento
attraverso prodotti o servizi.
Si può dire che una storia raggiunge i suoi
obiettivi quando ha le seguenti caratteristiche:
- intrattiene chi ascolta
- genera trance narrativo
- aiuta a capire concetti complessi
- si ricorda
- muove emozioni
- fa identificare
- protegge confini o invoglia a superarli.
2. Impresa:
Ogni storia ha al suo interno qualche destino da
compiere per realizzare se stessi (la carriera, la
vita familiare, etc.).
Nella narrazione di consumo il destino da
realizzare è la promessa reale o ipotetica che il
prodotto o servizio fa al cliente consumatoreeroe nel suo viaggio (diminuirà la cellulite, sarà
più forte e performante, andrà più veloce, sarà
più ammirato, etc.)
Le buone storie hanno sempre lo stesso
canovaccio narrativo, i temi sono sempre gli
stessi: gioco, amore, lavoro, morte e religione,
mentre la dinamica è quella in figura 4.
3. La sfida:
Ogni narrazione implica che l’eroe affronti una
sfida. Deve essere messo alla prova per capire e
per capirsi, per scoprirsi e compiersi rischiando
di fallire. Di solito questa sfida corrisponde a
un punto debole dell’eroe, il cosiddetto “difetto
fatale” (fatal flaw ).
Nelle narrazioni di consumo conoscere il pubblico
significa sfidarlo sul suo tallone d’Achille: vuoi
davvero dimagrire? Vuoi davvero essere bella?
4. Avversario:
Più elementi ci sono, più le storie funzionano, ma
è necessario che ci siano almeno questi elementi
fondamentali:
1. Eroe:
Ogni racconto ha un eroe che è più o meno alla
ricerca di se stesso e del suo destino. Questo eroe
è in viaggio e nel suo percorso incontra persone
92
Il digital storytelling
aiuta sempre l’eroe a compiere la propria impresa.
Nelle storie di consumo l’aiutante è il brand e il
prodotto è l’oggetto magico.
Tutte le storie presentano un elemento oppositore.
Qualcuno o qualcosa che ostacola l’eroe nel
compimento di sé e della sua impresa. In una
narrazione commerciale bisogna mettere
qualche antagonista che ostacoli l’eroe: lo stress,
la noia, il partner, il tartaro, etc. Si può inserire
ciò che si vuole, ma più oppositori ci sono più
forte sarà l’effetto di riconoscimento tra il cliente
e il prodotto/servizio/azienda
9. Gran finale:
E vissero tutti felici e contenti. Tutto è bene quel
che finisce bene. La celebrazione del compimento
d’impresa, la vittoria sul fatal flaw. Nelle
narrazioni di consumo la visione della promessa
compiuta.
5. Il conflitto/trauma:
Tutti i racconti hanno una dinamica di lotta al
loro interno. Non necessariamente una guerra,
ma un contrasto, interno o esterno all’eroe.
Questo conflitto spesso è anche un trauma che
l’eroe deve superare per diventare valoroso. Nelle
narrazioni di consumo tutti i prodotti e servizi
dovrebbero essere raccontati per: curare, far
evadere, salvare gli eroi-consumatori dai propri
traumi e conflitti interiori.
Narrazioni 2.0
Cosa è cambiato nello storytelling aziendale con
l’avvento dei social media?
- da narrazioni monoautoriali a multiautoriali:
la narrazione aziendale prima era generata
dall’azienda mentre ora è soggetta a contenuti
generati anche dagli utenti (es. parodie) e la
narrazione ha così tanti autori.
- da una testualità a frammento: le narrazioni
costruite attraverso post su Facebook sono
frammenti. La testualità si è frammentata e si
passa all’ipertestualità.
- da contenuto aziendale chiuso a co-creazione
di storie: lo storytelling è diventato condiviso, e
potremmo dire che lo scopo della gestione social
è in gran parte quello di costruire una storia
condivisa.
- storie proprie e storie improprie: per storie
proprie si intendono quelle che hanno una
forma narrativa vera e propria che riconduce alla
grammatica della storia mentre le storie improprie
sono quelle storie che pur contribuendo alla
narrazione aziendale non hanno un format
narrativo e non si possono definire storytelling.
- Microstorie e macrostorie: Ci sono storie
che sono chiuse in se stesse e che chiamiamo
microstorie, mentre le macrostorie sono frutto
del processo aggregativo che il consumatore fa.
6. Tesoro:
In ogni narrazione c’è la presenza di qualche
ricchezza reale o virtuale, carnale o spirituale,
da raggiungere.Nelle narrazioni di consumo
la promessa fatta dal prodotto o servizio
diventa risorsa di vita e di prosperità che l’eroe
deve raggiungere e possedere per compiersi e
autorealizzarsi.
7. Oggetti magici:
Ogni storia presenta oggetti di potere di cui l’eroe
e anche l’avversario sono dotati. Nelle narrazioni
di consumo il prodotto o servizio, nella sua
essenza e desiderabilità è un oggetto magico che
dà il potere a chi lo possiede.
8. Aiutanti:
Tutti i racconti hanno al loro interno dei
personaggi che aiutano gli eroi a compiere la
propria impresa.Nelle narrazioni di consumo
l’impresa che fornisce un prodotto o un servizio
Si può pensare di passare dallo storytelling
aziendale al marketing narrativo?
Il concetto di partenza è che nel nuovo scenario
93
Il digital storytelling
- Per gli utenti
- Per il sistema più ampio: questo incontro deve
generare valore oltre che per i due attori anche
per la società in cui questa transazione viene a
generarsi.
del marketing 2.0 siamo passati da una logica
della transazione alla relazione, quello che le
aziende dovrebbero fare dunque è generare una
relazione con i brand, come fanno i social media.
Creare una relazione serve per fidelizzare nel
lungo periodo. Le aziende devono smettere di
parlare dei prodotti attraverso i loro canali social:
è necessario un cambiamento di mentalità da
parte delle imprese, che devono puntare invece
a instaurare una relazione con la persona. Lo
scopo dei canali social sarebbe quello di indurre
le persone ad aiutare le aziende a costruire uno
storytelling efficace. Il brand e le persone sono
degli attori di una storia che si incontrano e per
un periodo fanno un percorso insieme, perciò
lo scopo del brand è creare delle opportunità
per incontrare il cliente e accompagnarlo per un
tragitto della sua vita, facendolo diventare parte
del mondo della marca.
Queste storie devono generare valore a tre livelli:
- Per l’azienda
Questo è un primo elemento attraverso cui si
può pensare al marketing in termini narrativi e,
in tal caso, si può immaginare, usando le figure
retoriche, che tipo di ruolo può svolgere il brand
in relazione ai consumatori a cui si rivolge.
È il rapporto stesso tra brand e consumatore
che diventa modellizzante in termini narrativi
e questo ha delle ricadute enormi anche in
termini applicativi e pratici su tutta una serie
di dimensioni, come ad esempio il funnel di
acquisto, che dovrebbe essere ripensato in una
nuova ottica.
Chiara Sammarco
94
Il digital storytelling
Riferimenti bibliografici
Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Milano, Feltrinelli, 1997.
Di Fraia G., Storie con-fuse.Pensiero narrativo, Identità e Media, Milano, F. Angeli, 2004.
Fontana A., Manuale di Storytelling. Raccontare con efficacia prodotti, marchi e identità d’impresa,
Milano, Rizzoli Etas 2009.
Fontana A., Story Selling. Strategie del racconto per vendere se stessi, i propri prodotti, la propria azienda,
Milano, Rizzoli Etas, 2010.
Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Milano, F. Angeli, 2012.
Sitografia
https://www.facebook.com/osservatoriostorytelling?fref=ts
http://www.storytellinglab.org/
95
CREARE VALORE CON IL CONTENT MARKETING:
PROCESSI ORGANIZZATIVI E STRUMENTI OPERATIVI
Tratto dalla lezione di Guido Di Fraia
«Parola d’ordine: attrarre attraverso i contenuti che generano valore»
CONTENT MARKETING – TRANSMEDIALI – PERSONAS
Il processo di storytelling
essere riassunto in questo schema:
Il punto di partenza è l’analisi della audience,
ossia dei pubblici ai quali stiamo parlando, per
capire come realizzare al meglio una narrazione
organizzata transmediale e ideare gli elementi
narrativi decisivi.
Definito il nostro target occorre andare a costruire
dei veri e propri idealtipi che definiamo personas.
Essi sono dei soggetti aggregati sulla base di
Grazie al capitolo precedente abbiamo potuto
imparare che progettare uno storytelling
aziendale efficace significa generare empatia e
identificazione nei confronti delle persone alle
quali ci rivolgiamo.
Il modello di processo verso il quale orientarci
per costruire questa tipologia di storytelling può
OBIETTIVI
DI BUSINESS
Fig. 1 - Modello di processo di uno storytelling
96
Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi
caratteristiche e variabili socio-comportamentali,
quali possono essere gli interessi e lo stile di vita,
che ci permettono di profilare in maniera precisa
il pubblico al quale ci rivolgiamo.
Per poter “disegnare” correttamente queste
personas occorre catturarne e descriverne tre
caratteristiche fondamentali:
- la fase della vita: corrisponde a quel momento
della vita che il soggetto sta attraversando (da
non confondere con l’età anagrafica), che ci
aiuta a scoprire e capire in modo più profondo e
interiore la persona;
- gli snodi esistenziali: ossia quei macrotemi
di carattere profondo in merito ai quali quella
pecifica personas è sensibile;
- possibili e relativi fatal flavv: corrispondono a
quelle paure, insicurezze e difficoltà caratteristiche
di quel preciso periodo di vita precedentemente
definito.
To Business all’interno del quale è importante
intercettare i decisori, che sono comunque esseri
umani e persone vere, ma con interessi diversi
l’una dall’altra: un esempio lampante è quello
dei venditori e degli agenti di commercio, che
cercano grazie alla loro esperienza di capire la
vera natura degli acquirenti con i quali si devono
confrontare.
Gli obiettivi di business, e di conseguenza gli
obiettivi di marketing, danno origine a quello che
possiamo definire lo storytelling strategico, il cui
obiettivo deve diventare, per l’appunto, obiettivo
stesso di marketing.
Le fasi di realizzazione partono innanzitutto
dalla progettazione delle cinque dimensioni
strutturali basiche (definite da Jerome Bruner già
negli anni Settanta e delle quali abbiamo parlato
approfonditamente nel capitolo precedente) che,
ricordiamolo, sono: l’attore, l’azione, il contesto,
lo scopo e lo strumento.
Si può poi procedere con l’analisi degli universi
discorsivi che ci permettono di capire quale possa
essere la retorica più adatta per comunicare con
una determinata personas:
Per completare la definizione delle personas
occorre poi inquadrarle in maniera più
approfondita all’interno di un’immaginazione
sociologica.
Questo modello vale anche nell’ambito Business
Fig. 2 - Le aree semantiche dei diversi universi discorsivi, con chiavi enunciative differenti.
97
Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi
Il passo successivo consiste nel definire la trama,
ossia nella possibilità di generare un racconto
in vari modi diversi attraverso dei macromodelli narrativi (tragedia, epica, melodramma,
commedia) in base alle persone che ne
prendono parte, al livello di spinta eroica e al
compimento dell’impresa. Questa fase è seguita
successivamente dalla decisione finale della
scelta di genere.
generata con l’utente (e non il mero racconto del
prodotto), e l’obiettivo è quello di farla durare il
maggior tempo possibile.
Questa tecnica è nata nel mondo anglosassone
ed è in forte via di sviluppo sia nell’ambito
del business to consumer sia in quello del
business to business: in quest’ultimo settore è
paradossalmente più utilizzata rispetto al primo.
Occorre ricordare che nonostante “The content
is the king”1, senza strategia non si può andar
lontano: è fondamentale portare sempre il
contenuto giusto, alla persona giusta, nel
momento giusto.
Il materiale fino ad ora realizzato può essere poi
declinato in formati diversi che occupano a loro
volta differenti canali. In questa fase è più che
mai fondamentale avere un approccio strategico,
orizzontale e trasversale, non esclusivamente
affidato al creativo, che permetta di realizzare
contenuti transmediali mantenendo sempre ben
presenti gli obiettivi di marketing.
Le 6 fasi della costruzione
del content marketing
Il processo per la costruzione di content marketing
avviene in sei fasi: l’ascolto, la progettazione,
l’ideazione, la produzione, la disseminazione e,
infine, la verifica.
Nell’era attuale dove tutto è “social” e dove tutto è
“condiviso”, le aziende sono più che mai chiamate
a raccontare se stesse e a diventare editrici della
propria storia.
Manca purtroppo in Italia la cultura aziendale
necessaria per poter creare al meglio questi
contenuti; mancano le figure professionali
ma soprattutto vengono meno i processi che
permettono la creazione di modelli volti all’aiuto
della costruzione di queste narrazioni.
Fase 1) Ascolto dei pubblici
La fase di ascolto e analisi preliminare del nostro
target non deve essere mai tralasciata nell’ambito
del marketing e non poteva pertanto mancare
nell’applicazione di questo strumento. Lo scopo è
quello di individuare quello spazio di intersezione
Il content marketing
ASCOLTO
DEL PUBBLICO
Nasce in questo periodo di evoluzione dello
storytelling aziendale il content marketing, ossia
una tecnica di marketing che consente di creare e
condividere contenuti rilevanti di valore per attrarre
un target ben definito, con l’obiettivo di guidare
l’azione del cliente nel modo più proficuo possibile.
VALORE
DEL BRAND
Il content marketing si pone come punto di
convergenza in cui confluiscono marketing e
comunicazione aziendale e costituisce un metodo
strategico a cui tutte le aziende dovrebbero
approcciarsi. Nodo centrale è la relazione
1
Citazione di Guido Di Fraia durante la lezione del 29 Aprile 2016
98
INTERESSI DEL
PUBBLICO
Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi
quel momento con il brand.
Ogni contenuto di valore può viaggiare su quattro
dimensioni che corrispondono rispettivamente
ad altrettanti differenti obiettivi di contenuto:
- formativo/educativo col fine di insegnare
all’utente come utilizzare uno strumento, un
servizio ecc;
- ludico/ricreativo per intrattenere l’utente con
contenuti divertenti e piacevoli;
- informativo, per fornire all’utente dati e notizie
utili;
- stimolo all’interazione, per generare
coinvolgimento, dialogo e partecipazione attiva.
fra i due mondi costituiti dal valore del brand e
da quello degli interessi del pubblico.È possibile
avvicinarsi a questa fase utilizzando sia fonti
interne, sia fonti esterne, analizzando tutti i
canali e tutte le opportunità che permettono di
entrare in contatto con il proprio pubblico di
riferimento.
Tra le fonti interne è molto importante la rete
vendita, mentre tra le fonti esterne sempre
più rilevanti sono il social media listening e le
ricerche di mercato, senza tralasciare la fonte di
dati più grande al mondo: le chiavi di ricerca di
Google.
Terminata la prima parte di ascolto si può passare
ora alla costruzione e identificazione delle
personas in base all’immaginazione sociologica,
che permette di inserirle nel contesto più adatto
alle loro caratteristiche.
Occorre dettagliarne puntualmente e precisamente
la natura e le caratteristiche in modo da poter fare
leva sugli obiettivi e sulle sfide con le quali si deve
confrontare.
Ogni personas andrà quindi modellizzata in relazione
alla fase del customer journey in cui si trova.
Potremo pertanto riconoscere tre livelli di
personas differenti:
- le marketing personas: coloro che sono all’inizio
della relazione con il brand o con il prodotto;
- le buyers o users personas: coloro che hanno già
acquistato e utilizzano il prodotto;
- le fan personas (advocacy): i consumatori fedeli
che hanno allacciato una relazione duratura con
il brand.
Fase 3) Ideazione
Questa è la parte più creativa di tutto il processo,
all’interno della quale i contenuti vengono ideati
in base agli obiettivi perseguiti dalle diverse
personas definendone:
-
i contenuti;
-
il linguaggio;
-
i format;
-
la periodicità.
Esistono vari format attraverso i quali veicolare
i contenuti, è fondamentale pertanto conoscerne
le grammatiche e i linguaggi per ottenere un
risultato finale professionale e credibile.
Fase 4) Produzione
Arrivati a questo punto si può procedere con la
creazione vera e propria del contenuto. Spesso
nelle aziende ci si scontra con la dura realtà della
mancanza di risorse, tempo, processi e strumenti
per procedere con questa operazione.
Tuttavia esistono alcune piattaforme abilitanti che
permettono di costruire, approvare e veicolare i
contenuti dal primo all’ultimo step del processo.
Fase 2) Progettazione
Consiste nel mettere a punto la strategia dei
content in base agli obiettivi di business, agli
obiettivi di marketing, ai pubblici di riferimento,
alla tipologia dei contenuti e ai risultati attesi.
I content vengono generati non per una sola
personas, ma per più personas in base al livello
del funnel di acquisizione nel quale si trovano in
quel momento: il contenuto varia quindi in base
alla tipologia di relazione che stanno vivendo in
Fase 5) Disseminazione
Questa fase consiste nel far giungere i contenuti
ai relativi pubblici attraverso i canali più adatti
a loro. Uno strumento che può venire utile
in questo momento del processo è il Piano
99
Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi
- Siemens ha creato un sito con un gioco interattivo
per bambini chiamato The Human Body che
permette di costruire uno scheletro attraverso
immagini realizzate con le più avanzate tecnologie
e di testare le proprie conoscenze sul mondo
dell’alimentazione;
- The Mosaic Company, società che vende fosfati
e potassio, ha realizzato una serie di fiction audio dove vengono raccontate problematiche e
situazioni tipiche della coltivazione della soia;
- Alcatel – Lucent ha costruito una serie di sitcom
dove vengono raccontate problematiche aziendali
comuni;
- BNL ha creato alcuni portali i cui argomenti non
coincidono con il mondo della banca tradizionale:
ad esempio We are tennis è un portale dove
vengono inseganti trucchi e tecniche per giocare
a tennis. In questo modo viene a crearsi una
relazione con il pubblico che va al di là di quella
puramente finanziaria o di servizio on-line della
banca stessa.
Editoriale (in gergo il PED) che permette di
creare una vera e propria tabella all’interno
della quale si incrociano i contenuti, i canali e
le tempistiche di pubblicazione in un unico file,
solitamente condiviso fra i vari attori protagonisti
dell’elaborazione dei contenuti stessi (grafico,
account, cliente).
Fase 6) Verifica
Quest’ultimo passaggio ci consente di effettuare
analisi metriche dei risultati al fine di ottimizzare
costantemente contenuti e processi.
F OC U S
Best Practices
Di seguito alcuni esempi di utilizzo proficuo e
intelligente di content marketing:
- General Electric su Facebook
Di quali argomenti potrebbe parlare questa realtà?
Quali contenuti potrebbe generare?
La G.E. è riuscita a costruire un PED originale ed
interessante basato sull’argomento “come l’energia
può aiutare la scienza”. Un efficace argomento per
incuriosire sia il pubblico affezionato sia quello nuovo;
Priscilla Zanda
100
Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi
Riferimenti bibliografici
Fontana A. Storytelling d`impresa. La guida definitiva, Hoepli, 2016.
Di Fraia G. Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, 2011.
Di Fraia G. Social Media Marketing. Strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoepli, 2015.
Sitografia
www.contentmkt.it
101
La co-creazione nella comunicazione:
fra marketing e consumer research
Tratto dalla lezione di Stefano Pace
«Il web delle origini è inteso come un’enorme libreria, un’enorme piattaforma in cui tutte le informazioni del mondo
sono presenti e, per la prima volta nella storia, tutto diventa accessibile. Il portale rappresenta l’ingresso in questo
mondo (…), un mare magnum infinito. Google nasce sostanzialmente lì.»
remix – insight – coding
I trend emergenti del marketing
Oggi ci si interroga spesso sul modo in cui un
brand possa intercettare la nuova cultura digitale.
Per trovare risposta al quesito, è fondamentale
prendere in considerazione i trend emergenti.
reality: nella società odierna, così come è stata
pensata da Zuckerberg, viene a mancare una
parte essenziale della realtà, ovvero il corpo.
Quest’ultimo sparisce, dal momento che ciò che
conta non è più tanto la corporeità, quanto la
socialità.
In primis, la cosiddetta habit-forming technology: i social sono tecnologie che stanno
sfruttando, in maniera anche positiva, le
abitudini degli individui. Pertanto, un modo per
capire cosa siano i social network, è considerarli
nell’ottica dell’abitudine (habit): qualcosa che
viene compiuto in maniera routinaria, senza quasi
accorgersene. Sui social network, effettivamente,
si è soliti compiere dei micro-atti che non hanno
un senso effettivo, profondamente pensato, ma
che si presentano come azioni compiute senza
riflettere. Pertanto, si giunge ad affermare che
le piattaforme di successo sono quelle in grado
di creare abitudini, comportamenti routinari,
a bassissima intensità, che vengono ripetuti nel
corso del tempo. La tecnologia è entrata a far
parte delle nostre vite a tal punto che può essere
concepita come appendice del nostro corpo.
Perdere un dispositivo equivale a perdere una
parte di noi stessi.
Il secondo trend emergente concerne la virtual
Il terzo trend è denominato the stream (il flusso)
ed è stato individuato da un blogger iraniano,
Hossein Derakshan1, il quale è stato imprigionato
per sei anni ed è pertanto rimasto escluso dal
mondo digitale. Al termine della sua reclusione ha
ripreso ad utilizzare i blog e ha scoperto Facebook.
Il blogger si è reso conto, grazie al suo “sguardo
vergine” rispetto ai social network, che qualcosa
era cambiato nell’ambiente: prima dei social
network, internet veniva utilizzato come enorme
sistema di link interconnessi, in cui far scoprire
testi sconosciuti, posti all’interno di un testo che li
richiamava. È evidente che, al fine di poter dare una
corretta ed oggettiva definizione dei social network,
bisognerebbe estraniarsene e guardarli con occhio
oggettivo. La prospettiva del tutto obiettiva di
Derakshan gli ha consentito di scoprire un mondo,
quello dei social appunto, come un flusso, in cui si
entra e si eseguono azioni/operazioni, che sono il
risultato di complessi algoritmi.
Il quarto e ultimo trend è il cosiddetto FOMO2
L’articolo in lingua originale è all’indirizzo https://medium.com/matter/the-web-we-have-to-save-2eb1fe15a426#.
osql2d5j9
2
FOMO: acronimo di Fear of missing out. Si tratta della paura di perdere qualcosa che sta accadendo nel proprio
dispositivo l’ansia di perdere parti di conversazione sui social media.
1
102
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
In merito al concetto della creazione sul web,
è interessante prendere in considerazione un
fenomeno che ha preso piede negli ultimi anni:
il remix3.
Sostanzialmente si modifica qualcosa che già
esiste, in tutto o in parte. Un esempio di remix è
quello fatto tempo fa su un’immagine di Hillary
Clinton. L’allora Ministro degli Esteri si trovava
a bordo di un aereo militare e le era stata
scattata una foto, mentre scriveva sulla tastiera
del cellulare. L’immagine è stata remixata e, in
pochissimo tempo, sono stati creati migliaia
di remix, tutti aventi il medesimo schema:
persone potenti in un contesto parodistico.
Effettivamente, fare remix può apparire banale,
in realtà c’è un livello di sofisticazione tale
per cui esistono regole da seguire. In questo
specifico caso, erano necessari: un contesto
parodico, la risposta negativa di Hillary, il suo
comportamento condiscendente etc.
ovvero il timore di essere messi da parte. Per
superare il FOMO, sono necessarie esperienze
forti che permettano di staccarsi dal costante
flusso in cui ci si ritrova immersi.
I quattro trend analizzati concorrono a formare
il background all’interno del quale vanno
considerati elementi come banner pubblicitari,
promozioni e così via. L’approdo a questa fase è
stato il risultato di un graduale passaggio che ha
implicato quattro differenti stratificazioni.
Le 4 stratificazioni geologiche del web
Inizialmente, si parlava del web delle origini: il
web inteso come un’ enorme libreria/piattaforma,
all’interno della quale erano presenti tutte le
informazioni del mondo. In questa prima fase,
per la prima volta nella storia, tutto diventa
accessibile. I grandi player dell’ epoca erano
le imprese che rendevano possibile orientarsi
in quella enorme Babele di informazioni, con
l’intenzione di facilitare la navigazione, in modo
da garantirsi un vantaggio competitivo. Si tratta
di un primo strato al di sopra del quale si è andato
a sedimentare un secondo: la fase del replicare
(copiare, fare forward, etc.). È in questa fase che
ha preso vita il flusso: se un contenuto piaceva, lo
si metteva in attachment, lo si copiava o inviava
per e-mail. È l’epoca di Napster (lo YouTube delle
origini). Tutto questo si è stratificato, lo si continua
a fare ancor oggi (il retweet è essenzialmente
questo). La terza fase, quella attuale, viene
definita del creare (non si tratta più solo di
copiare e replicare, ma ci si impegna a creare
qualcosa). Tra i big player di quest’epoca si trova,
ad esempio, Wikipedia, che crea un qualcosa che
prima non esisteva (bit di conoscenza condivisi,
per creare voci di un’enorme enciclopedia). La
quarta fase, la più incerta, è quella dell’ agire: il
web è talmente importante che potrebbe persino
arrivare a cambiare la società. Si tratta tuttavia di
una supposizione, la cui veridicità è ancora da
confermare.
Fig. 1 - Esempio di Remix
Il remix è il risultato della modifica di un prodotto mediale attraverso l’aggiunta, la rimozione o il cambiamento
di una o più delle sue parti. Rappresenta una perfetta combinazione di creazione e replica.
3
103
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
A livello di marketing, le campagne migliori
sono quelle che consentono alle persone di
remixare, di creare, partendo da oggetti semplici
a cui viene dato spessore. È importante capire
che ormai si sta vivendo nell’era dei “makers”,
coloro che creano oggetti da rimettere in circolo.
Ne è esempio il romanzo “Pride and Prejudices
and Zombies”: il romanzo di Jane Austen è stato
modificato quel tanto da creare qualcosa di nuovo,
pur mantenendo inalterate le caratteristiche
di fondo. In rete vige ormai l’entropia creativa,
molto basata sul “play”: si tratta di un aspetto
collaterale della propria vita, qualcosa che viene
fatto mentre si è intenti a fare qualcosa di serio.
Questo conduce alla problematica del talento
sul web. Secondo la visione critica dello scrittore
Andrew Keen, la rete è piena di materiale di
scarto, da cui è pressoché impossibile che possa
nascere qualcosa. La questione è che il linguaggio
della rete è talmente accessibile che tutti possono
partecipare, con il loro livello di competenze. La
soluzione non consiste nell’impedire che il remix
avvenga, ma nel ricorrere a sistemi di filtraggio,
di selezione, che consentano di avere il remix che
effettivamente interessa. Questa è la vera sfida
di ogni social: continuare il flusso ma scoprire
in che modo riuscire a distinguere il mediocre
(che deve comunque continuare a esistere) dal
contenuto di qualità.
scrivere storie e articoli (una sorta di proprio
blog). È dunque l’utente stesso a riempire la
piattaforma di contenuti. Medium rappresenta
il tentativo, da parte del co-fondatore di Twitter
Evan Williams, di creare contenuto di qualità. Per
un brand, è fondamentale fornire ai consumatori
degli agganci: oggetti che possano esser remixati
dai (più o meno talentuosi) consumatori. I brand
migliori non creano tutto e nemmeno lasciano
creare tutto, ma riescono a creare uno spazio
destinato al remix, consentono alle persone di
giocare “in senso serio”.
F OC U S
Il progetto di social media marketing
dei Grammy Awards:
Grammy Award è un format di premi musicali
che qualche anno fa è stato arricchito grazie ai
social media. I Grammys avevano un problema:
erano percepiti come qualcosa di vecchio, tant’è
vero che venivano chiamati “grannys”. Il target
interessato (persone di età compresa tra i 18 e i 34
anni), rappresentavano solo il 14% della audience.
L’obiettivo, a quel punto, consisteva nel riuscire ad
incrementare l’engagement, svecchiando il brand,
aumentando l’audience e iniziando a parlare un
linguaggio più moderno. Il tutto, senza modificare
il format. A questo punto, la CBS (produttore dei
Grammys) ha sviluppato il progetto “We’re all
fans”, mediante cui mettere a sistema i social media
con la tv, il remix e la volontà dei consumatori di
partecipare con il brand. Il progetto consisteva nel
remixare gli artisti (protagonisti dei Grammys).
In primo luogo, si richiedeva il loro consenso e, in
secondo luogo, si invitavano i fan a produrre un
contenuto che, componendosi, formasse la foto
del loro artista preferito. I fan potevano iscriversi
al sito e caricare un video che li ritraesse mentre
cantavano il brano del proprio artista preferito e,
una volta postato il contenuto, questo si andava ad
aggiungere come frammento al mosaico fotografico
dell’artista. Più contenuto i fan inviavano, più
velocemente si formava l’immagine. Al termine del
progetto, è stato calcolato che il 36% del traffico
Il remix come strumento strategico
d’impresa
Ogni impresa, per riuscire ad utilizzare il remix
in maniera efficiente ed efficace all’interno della
propria strategia comunicativa, deve riuscire a
distaccarsi dall’arcaica idea per la quale possa
essere essa soltanto a creare contenuti e iniziare a
ragionare secondo una nuova ottica: creare le rive
dentro cui il fiume di contenuto possa crearsi. I
manager dovrebbero riuscire a predisporre una
piattaforma, che venga successivamente popolata
da contenuti di qualità, messi a disposizione dai
remixer. Ne è emblematico esempio Medium, un
meta-blog all’interno del quale ogni utente può
104
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
web sul sito è derivato dal caricamento del video
di Lady Gaga (che ha collezionato quasi 3 milioni
di visualizzazioni su YouTube). Nello specifico,
tra i risultati raggiunti con il progetto, vi sono: il
raggiungimento di 26 milioni di telespettatori, un
raddoppio della percentuale di penetrazione del
target interessato e il conseguimento di 2 milioni
di fan online.
quella qualitativa spesso non ha ipotesi: si va
sul campo e ci si lascia “inondare” dai dati, dai
contenuti, per fa sì che emerga un senso. Inoltre,
il metodo quantitativo assume che il rispondente
conosca ciò di cui sta parlando; viceversa,
l’assunto del qualitativo è che il rispondente
stesso non sappia ciò che fa (esiste un senso
superiore che lui/lei applica in qualità di agente,
senza sapere di farlo).
Una volta terminata la ricerca, si ottiene un
insight4. A questo punto, quando si è compreso
qualcosa sul soggetto, glielo si comunica e,
se la persona resta stupita, vuol dire che ha
capito un po’ meglio il suo comportamento. Si
tratta di un’operazione molto complessa, che
necessita di molto esercizio e di un protocollo.
Un modo per poter avere l’insight, e per potersi
distanziare rispetto ai dati, è quello di adottare
un protocollo di data assembly5. Questa può
prevedere, ad esempio, la trascrizione delle
interviste one to one con i rispondenti, oppure
blog, commenti e articoli scritti sull’argomento,
oggetto d’indagine.
A questo punto, la prima cosa che si fa
normalmente è quella di iniziare ad interpretare
i dati. In realtà, bisogna procedere attraverso
una corretta data analysis, attraverso un coding
(una codificazione), che è un modo con cui
esercitarsi a distanziarsi da ciò che si sta leggendo
(leggere un testo in modo da non attribuirne
un senso, ma far sì che questo emerga dal
testo). L’operazione di coding è stata concepita
all’interno della “Grounded theory”, sviluppata
anche in ambiente medico, poiché in un simile
contesto era necessario scavare nel vero senso
di ciò che le persone dicevano (ad esempio: “sto
bene/male, sono ottimista/pessimista”).
Il coding avviene attraverso tre step che, se
applicati in maniera routinaria, possono
avvicinare all’insight: il primo è l’open coding6.
Fig. 2 - Frame dal video “We are all fans”.
La consumer research
come ricerca qualitativa
Il primo passo da compiere quando si studia il
consumatore e ciò che produce, è sospendere il
proprio giudizio, ciò che implicitamente già si
sa su un dato argomento e riuscire a guardare
l’oggetto per come esso realmente è (spesso
qualcosa di molto diverso da ciò che si pensava
che fosse).
Successivamente, è fondamentale lo studio del
comportamento del consumatore. In questa
fase, rivestono notevole importanza le ricerche
di tipo qualitativo. A differenza della ricerca
quantitativa che presenta un’ipotesi da verificare,
Insight, letteralmente “visione interna”: è un termine di origine inglese usato in psicologia e definisce il concetto
di “intuizione”, nella forma immediata ed improvvisa.
5
Data assembly: processo di raccolta delle informazioni. Fase dell’analisi qualitativa durante la quale si prendono
annotazioni basate sull’osservazione, la registrazione di eventi o di interviste, la raccolta di documenti etc.
6
Open coding: codificazione dei contenuti. È lo stadio iniziale di un’analisi qualitativa di dati. Una volta
completata questa fase, si procede con l’axial coding e il selective coding. All’ultimo stadio della ricerca, queste
operazioni di codifica aiutano ad elaborare teorie, mediante un processo induttivo (Grounded Theory).
4
105
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
Fig. 3 - Schema Grounded Theory
Si tratta sostanzialmente di un attachment di
etichette alle diverse frasi/porzioni di testo; allo
scopo di riuscire a capire qual è il contenuto o
cosa evoca una determinata porzione di testo,
una determinata affermazione del consumatore,
come fosse separata da tutto il resto. Secondo step
è quello del cosiddetto axial coding7: si sposta
l’attenzione sui codici e le etichette per capire se
esistono collegamenti tra le categorie e riuscire
a formare, in qualche maniera, dei grappoli
tematici. Si tratta di un processo iterativo: si
fa open coding, poi axial coding e si ritorna sul
testo per capire se il senso che sta emergendo è
effettivamente quello contenuto al suo interno.
Questa operazione si ripete per più volte, per poi
giungere all’ultimo step: il selective coding8. Delle
categorie raggruppate, si identificano i grappoli
più rilevanti (i 2-3 temi importanti, contenuti
nel testo). A differenza del metodo quantitativo,
nel qualitativo non vi è mai l’assoluta certezza di
capire ciò che sta emergendo dal testo. L’unica
modalità con cui poter affermare di aver capito
ciò che il consumatore sta dicendo è l’insight: si
riporta l’insight alle persone intervistate e queste
ne danno una conferma. Nella ricerca qualitativa
va curata anche la presentazione finale: il data
display.
L’insight va comunicato adeguatamente all’audience, va condiviso.
A tal proposito, è emblematico l’esempio di
un primatologo che fa esperimenti ed effettua,
pertanto, ricerche di tipo quantitativo. La sua
domanda di ricerca concerne l’ipotetica esistenza
di un senso di giustizia nei primati.
7
Axial coding: scomposizione dei temi centrali durante l’analisi qualitativa dei dati. La codifica assiale fa
riferimento al processo che consiste nel mettere in relazione tra loro codici (categorie e concetti), mediante una
combinazione di ragionamento induttivo e deduttivo.
8
Selective coding: fase finale di analisi dei dati. Durante la codifica selettiva, categorie e concetti di base
(precedentemente identificati) vengono ulteriormente definiti, sviluppati, perfezionati e poi riuniti per
raccontare una storia più grande.
106
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
Fig 4 - Frame del video “Even monkeys understand justice and equity”.
Lo scienziato ha constatato che le persone non
restano colpite dai dati, quanto piuttosto dalle
reazioni emotive manifestate dai primati. È questo
che riesce a convincerle. Per questo motivo, ha deciso
di adottare un metodo qualitativo per comunicare
adeguatamente il suo insight. La componente
emotiva è dunque fondamentale. L’emozione è
effettivamente una forma di cognizione più evoluta:
riesce a dire, in pochi secondi, cose che ore e ore di
pensiero non riescono a comunicare.
Ida Maggi
107
La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research
Riferimenti bibliografici
L. Lawrence, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), ETAS, Milano, 2009.
D. della Porta, L’intervista qualitativa, Laterza, Roma-Bari, 2010.
P. Gallina, L’anima delle macchine. Tecnodestino, dipendenza tecnologica e uomo virtuale, Dedalo, Bari,
2015.
S. Spiggle, Analysis and Interpretation of Qualitative Data in Consumer Research, Journal of Consumer
Research, 1994, pp. 194-203.
108
Sezione 3
DA IDENTITÀ A REPUTAZIONE:
COME CAMBIA
LA BRAND COMMUNICATION
NELLA NETWORK SOCIETY?
BRAND COMMUNICATION
TRA MEDIA TRADIZIONALI E NEW MEDIA
Tratto dalla lezione di Roberto Grandi
«Non è possibile non avere un comportamento…ne consegue che non si può non comunicare.
L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio.»
COMUNICAZIONE D’IMPRESA - SOCIAL MEDIA - SOCIAL NETWORK
Qualunque comportamento comunica qualcosa:
anche il semplice guardarsi negli occhi è un
modo per comunicare con l’altro soggetto. È
impossibile avere un non-comportamento,
quindi la non-comunicazione non esiste.
Per affrontare un discorso sui cambiamenti che
negli ultimi quindici anni la comunicazione
d’impresa ha subito attraverso l’avvento dei
media digitali, si deve partire rispolverando il
concetto di comunicazione.
Il termine deriva dalla parola latina communico =
“mettere in comune”, “far partecipare”, che a sua
volta è formata dalle radici cum = con, e munire
= legare. Quando si parla di comunicazione ci
si riferisce quindi al processo di condivisione
e di scambio di messaggi (che possono essere
pensieri, opinioni, esperienze) attraverso un
canale e secondo un codice condiviso, tra un
sistema e un altro della stessa natura o di natura
diversa. Quindi la comunicazione presuppone
necessariamente una relazione, un’interazione.
La comunicazione d’impresa
Quando si parla di comunicazione d’impresa
ci si riferisce alla pianificazione e alla gestione
di sistemi di relazioni che utilizzano un insieme
di tecniche, strumenti e mezzi per attivare un
processo di comunicazione.
Utilizzano un testo e sono indirizzati verso una
serie ampia di pubblici di riferimento.
La comunicazione d’impresa si divide in
comunicazione interna (per i dipendenti) ed
esterna (per un pubblico più vasto ed eterogeneo).
È frequente ancora oggi trovare manager
e imprenditori che riferendosi alle proprie
aziende affermano di «non comunicare», «non
aver nulla da dire». Questo atteggiamento
dimostra un inconsapevole problema di
comprensione: neppure le imprese possono fare
a meno di comunicare.
Paul Watzlawick, uno dei fondatori della scuola
di Palo Alto, afferma che «se più persone sono
nello stesso luogo, si instaura automaticamente
un processo di comunicazione».
È quindi possibile interagire con gli altri
individui senza dover parlare. Questo perché
anche il silenzio comunica. Watzlawick arriva
così ad enunciare cinque assiomi che sintetizzano
le caratteristiche principali della comunicazione.
Il primo assioma è il più famoso e afferma:
«Non si può non comunicare», poiché «Ogni
comportamento ha valore di messaggio»1.
Gli ambiti della comunicazione d’impresa sono i
seguenti:
- Comunicazione di marketing
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli
interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971.
1
110
Brand communication tra media tradizionali e new media
Fig. 1 - La Volkswagen ha lavorato tutta la vita per trasmettere un’immagine che facesse riferimento
all’affidabilità e alla sicurezza. Quindi lo scandalo Dieselgate ha avuto un impatto ancora più devastante
poiché ha colpito il punto più sensibile della strategia su cui si fonda questo brand.
- Relazioni pubbliche
- Comunicazione interna
La comunicazione di marketing e le relazioni
pubbliche sono esempi di comunicazione esterna.
pubblica e i pubblici influenti al fine di
creare benevolenza (goodwill) e promuovere
un atteggiamento favorevole nei confronti
dell’impresa.
L’obiettivo è quello di comunicare in
modo positivo l’immagine dell’azienda per
aumentarne e migliorarne la reputazione.
La caratteristica di queste relazioni è che
al centro delle attività di comunicazione vi è
l’impresa. I servizi base che vengono utilizzati
sono le relazioni con i media e l’organizzazione
di eventi, ma andando più nello specifico
possiamo citare anche le sponsorizzazioni,
la comunicazione in situazioni di crisi, quella
finanziaria, ambientale, pubblica, per le piccole
e medie imprese e quella interculturale.
Con comunicazione di marketing si intende
quell’insieme di attività di comunicazione di
beni e/oservizi dell’impresa, rivolte agli utenti
e ai clienti, sia attuali che potenziali, che hanno
l’obiettivo di promuovere presso il pubblico di
riferimento tali beni e/o servizi.
Per fare alcuni esempi concreti si può pensare
alla pubblicità, alle brochure istituzionali,
all’editoria commerciale, alle pubblicazioni
tecnico-specialistiche, alle newsletter per i clienti,
alla comunicazione sul punto vendita, packaging
(qualunque spazio è un potenziale spazio
comunicativo), marketing diretto (insieme di
tecniche per ottenere una risposta diretta dal
pubblico), sales promotion, digital media.
La comunicazione interna invece non è altro
che l’insieme di attività di comunicazione rivolte
ai pubblici “interni” dell’impresa (dipendenti
in primis), il cui principale obiettivo è
creare senso di appartenenza nei confronti
dell’organizzazione di cui si fa parte e supportare
i flussi di lavoro.
Con relazioni pubbliche invece ci riferiamo a
quelle attività di comunicazione verso l’esterno
volte a influenzare e informare l’opinione
111
Brand communication tra media tradizionali e new media
Le imprese comunicano l’identità dell’azienda,
ossia ciò che la rende identificabile all’esterno e
che viene stabilita dall’azienda stessa. L’identità è
quindi un insieme di valori, un sistema filosofico.
I valori di base sono una sorta di invariante:
ciò che varia sono i modi di comunicarli
o rappresentarli. Immaginiamoci un iceberg: la
parte esterna, quella visibile, è l’insieme delle
rappresentazioni che le persone hanno e che
cambiano al variare della comunicazione, dei
prodotti e dei servizi, mentre la parte nascosta
è l’identità dell’impresa, invariabile. Valorizzare
e successivamente comunicare: solo dopo aver
stabilito l’identità di un’impresa si potrà iniziare
la fase della comunicazione. La comunicazione
diventa efficace quando vi sarà corrispondenza
fra l’immagine2 che l’azienda presenta e la sua
identità; quando i comportamenti adottati
coincideranno perfettamente con la proiezione
che l’impresa, l’ente o l’organizzazione ha voluto
dare di sé.
generando specifiche aspettative.
Se le performance del mio prodotto non sono
all’altezza delle attese create, i ritorni sono
negativi. L’immagine di un’impresa è una
cornice di senso: la percezione dei singoli
comportamenti viene valutata in modo diverso
in base alla cornice in cui viene inserita.
Se la comunicazione avviene tra due diretti
interessati è più semplice rispetto a quella che
avviene attraverso un medium di comunicazione
di massa.
In questo secondo caso si deve tenere in
considerazione:
- Il codice linguistico (non solo la lingua ma
anche la difficoltà delle parole);
- L’enciclopedia (la preparazione dei miei
destinatari);
Se nel primo caso il problema è proprio quello
di non capire, nel secondo caso si arriva al
fraintendimento.
- La competenza comunicativa (non tutti hanno
la stessa predisposizione e competenza nei
confronti degli stessi destinatari).
L’immagine non è figlia della mia
comunicazione, è l’insieme delle esperienze,
cognizioni, impressioni: è una costruzione
sociale che ha per fondamento l’opinione.
L’immagine ha come obiettivo quello di creare
delle aspettative e di fungere da cornice (frame).
Con una buona campagna, un’impresa può
alzare il livello di percezione dei suoi prodotti
I canali social
Le imprese sono state costrette a ripensare alle
proprie strategie e al proprio approccio alla
comunicazione in seguito all’avvento dei social
media, in particolare dei social network,
Fig. 2 - I simboli di “Rispondi”, “Re-tweet”, “Preferito” e “Altro” usati in Twitter
Per immagine riferita a un’impresa, ente o organizzazione si intende l’insieme di esperienze, cognizioni,
impressioni, opinion che gli individui si formano, in maniera diretta o indiretta, coscientemente o meno,
in relazione a quella data impresa, ente o organizzazione.
2
112
Brand communication tra media tradizionali e new media
Social Media
Quando si parla di Social Media ci si riferisce a
quelle tecnologie e pratiche online che le persone
utilizzano per condividere testi, immagini, video
e audio. Si differenziano dai media tradizionali
innanzitutto per il basso costo e quindi per la
possibilità offerta a chiunque di poter condividere
i propri contenuti (i media tradizionali - giornali,
riviste, televisione, cinema - richiedono ingenti
somme per essere utilizzati, oltre ad autorizzazioni
di vario tipo). Un’altra peculiarità dei social
media è la diffusione capillare e geograficamente
illimitata che i media tradizionali ovviamente
non possono vantare. Inoltre i media tradizionali
sono legati a delle scadenze di pubblicazione
non comprimibili, mentre i social media possono
sfruttare l’immediatezza. Infine, dal punto di
vista giuridico, i media tradizionali sono ritenuti
responsabili dei loro contenuti, cosa che non
avviene per i social media (quest’ultimo aspetto,
comprensibilmente, può risultare estremamente
pericoloso).
chiara e semplice: si individua un bisogno
del possibile cliente e lo si fornisce in modo
gratuito. All’inizio questo avveniva in modo
unidirezionale e attraverso il mezzo testuale: i
primi blog nascono nel 1999 e sono composti
da testi molto lunghi. L’1% degli utenti ne era il
creatore e il restante 99% il fruitore.
Ma negli ultimi dieci anni i social media si
sono evoluti verso contenuti più brevi (Twitter),
più ricchi di immagini (Facebook-InstagramPinterest) e più partecipativi (Tumblr).
Da una parte non c’è una produzione diretta del
contenuto, mentre dall’altra vi è un consumo più
strutturato: attraverso i tasti re-tweet o re-blog si dà
la possibilità all’utente di condividere contenuti
senza produrne di originali: il partecipante
diventa contemporaneamente il protagonista.
In più i social network si stanno velocemente
trasformando da testo-centrici a visivi.
L’utente vuole essere in grado di creare e
consumare in modo semplice e veloce. Si stanno
ponendo le basi per il cosiddetto image marketing.
Ma cos’hanno in comune tutti questi canali social?
Il modo migliore per crescere velocemente, come
hanno fatto Facebook, Twitter, Pinterest ecc. è
fornire un servizio gratuito per tutti i clienti
che le hanno obbligate a rivedere i propri metodi
di comunicazione. La logica dei social è molto
«There are no free lunches on the internet»
(J. Naughton)
F OC U S
Fig. 3 - Screencap del video “Dumb ways to Die” prodotto da Metro Trains Melbourne nel Novembre 2012 e
che diventò virale su YouTube con 92.9M di visualizzazioni
https://www.youtube.com/watch?v=IJNR2EpS0jw
3
113
Brand communication tra media tradizionali e new media
Ma esattamente come sostiene Naughton «Non
ci sono pranzi gratuiti sul web»: tutti questi social
network si mantengono grazie alla pubblicità,
che ha la possibilità di agire in modo più diretto e
preciso, basandosi su target specifici e riuscendo
a fare una comunicazione che sia meno intrusiva
della precedente (segmentazione del pubblico).
La comunicazione pubblicitaria tradizionale in
qualche modo selezionava i produttori (si pensi
ad esempio a come il prime-time televisivo non
è alla portata di tutti). Con la rete invece tutto
è alla portata di tutti e tutti possono diventare
produttori di contenuti interessanti.
La pubblicità tradizionale viveva di campagne di
una determinata durata, in rete invece posso fare
campagne pubblicitarie in modo continuativo
e tenendo in considerazione vari medium
(online advertising). Una strategia di marketing
resa possibile dall’avvento dei social network è
lo sfruttamento della viralità della rete: per le
immagini, ma soprattutto per i video, un’azienda
può investire anche solo nella fase della
produzione perché se il contenuto multimediale
creato presenta caratteristiche virali, verrà
condiviso e quindi diffuso online dagli utenti
stessi. Grazie ai moderni mezzi di comunicazione
di massa non vi è più bisogno di intermediari fra
F OC U S
Social Network
I Social Network nascono alla fine degli anni
novanta e diventano sempre più popolari con il
passare degli anni. Non sono altro che una rete
sociale gratuita e fruibile attraverso internet che
permette la comunicazione tra più soggetti e la
condivisione di informazioni testuali, fotografiche,
musicali o animate. Per entrare a far parte di
questa rete sociale è necessario fare una breve e
veloce iscrizione e solo dopo aver creato un proprio
account si ha la possibilità di sfruttare appieno
le potenzialità del Social Network prescelto. Le
motivazioni che spingono persone ed aziende ad
iscriversi a un determinato social network possono
essere di varia natura, ma generalmente l’obiettivo
è quello di creare delle relazioni sulla base di
interessi comuni.
l’azienda e il pubblico, ma è possibile rivolgersi
direttamente alla potenziale clientela.
Ottavia Galbiati
114
Brand communication tra media tradizionali e new media
Riferimenti bibliografici
Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli
interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971.
Pitteri D., Pellegrino A., Advertmarketing: nuove forme di comunicazione d’impresa, Carocci Editore,
Roma, 2012.
Gnasso S., Iabichino P., Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono, Hoepli,
Milano, 2014.
Alan J. D., Warren J.L., Social Network Theory and Educational Change, Harvard Education Press,
Cambridge, 2010.
Olins W., Brand New. Il future del branding nella società che cambia. Einaudi, Milano, 2015.
115
La vita sociale delle marche:
verso il brand sharing
Tratto dalla lezione di Bernard Cova
«Prima la marca rappresentava un sigillo di garanzia, oggi diventa un vero e proprio partner
dei consumatori»
Brand society - community,- marketing tribale
Nel corso degli ultimi anni è avvenuto un
profondo cambiamento nel modo in cui le persone
si relazionano con i brand di loro interesse. Il
cambiamento è stato il risultato prodotto da un
diverso modo di concepire le marche da parte
dei consumatori, a sua volta effetto di un diverso
modo di comunicare e proporsi da parte degli
stessi brand. La marca diventa oggi oggetto
di condivisione da parte del suo pubblico, per
cui non è più possibile fare comunicazione
spingendo la stessa verso i suoi consumatori,
ma al contrario diventa necessario instaurare
con essi un dialogo, rendendoli partecipi di una
vera e propria esperienza che amplia i confini del
consumo e trasforma la marca da funzionale a
iconica, vero e proprio simbolo di un’ esperienza
di partecipazione totalizzante. Questa situazione
produce inevitabilmente forti conseguenze
anche all’interno del reparto marketing delle
aziende, reparto che si trova a dover mettere in
discussione il suo approccio classico-razionale
alla comunicazione, per dare spazio ad un
orientamento che sia più emotivo e relazionale.
Assume sempre più importanza la partecipazione
ed il coinvolgimento del consumatore, che non è
più parte distante e sconnessa dal mondo della
marca ma diventa, al contrario, suo principale
partner. In questo modo viene meno il confine
tra società e mercato e tra marche e consumatori;
questi poli un tempo distanti e distinti oggi
si incontrano e si modellano l’uno con l’altro
fino a formare la “brand society”1. Questo
cambiamento è inoltre conseguenza diretta
della trasformazione continua che caratterizza le
società post-moderne; nulla è più certo e stabile,
tutto muta ed evolve costantemente ridefinendo
gli ambienti e i ruoli sociali un tempo fortemente
prescritti e rispettati.
Il lavoro definiva l’identità dell’individuo, il
suo spazio sociale e le modalità relazionali che
caratterizzavano la sua esistenza. Oggi invece,
tutto diventa più fluido e instabile contribuendo
a produrre quella che il sociologo polacco
Zygmund Bauman definisce “società liquida”.
Una società priva di riferimenti stabili per
l’individuo di oggi. Sulla stessa linea Georges
Ritzer sostiene «siamo passati da una società in
cui il nostro fulcro era il lavoro a una società in
cui il nostro fulcro è il consumo»2 per ribadire
la centralità che il consumo stesso oggi ha per
l’individuo e per la sua stessa esistenza, tanto da
soppiantare la dimensione lavoro.
In questo scenario trovano spazio anche gli
studi del marketing tribale3, concentrati su una
Bernard Cova definisce brand society la società post-moderna in cui i brand sono diventati un tutt’uno con la società e
con gli individui che la compongono.
2
G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi, e riti dell’iperconsumismo. Il Mulino, 2005.
3
Il marketing tribale è una strategia di marketing non convenzionale che mira a creare una comunità collegata al prodotto
o servizio che si intende promuovere
1
116
La vita sociale delle marche: verso il brand sharing.
concezione di consumo comunitarioche genera
valore attraverso relazioni e legami sociali e
che non si esaurisce attraverso l’acquisto e il
consumo di un singolo bene o servizio. I brand
in questo senso diventano quindi dei veri e
propri strumenti in grado di generare e favorire
l’aggregazione sociale, all’interno del quale il
ruolo dell’azienda diventa quello di lavorare a
sostegno della tribù3. Tra le imprese che sono
riuscite a creare delle vere e proprie comunità
di consumatori ci sono, ad esempio, Ducati,
Apple e Harley Davidson. Nel caso di queste
aziende infatti, il ruolo del marketing è quello di
fornire sostegno alle comunità, di rafforzare il
legame tra gli appassionati (non quindi semplici
consumatori) e il brand stesso. Il tutto avviene
lavorando sul senso di appartenenza alla tribù
e sulla condivisione non solo di uno stesso
stile di vita ma di una vera e propria filosofia
esistenziale, che diventa il collante naturale in
grado di favorire coesione e identificazione tra gli
stessi membri, anche attraverso la condivisione
di veri e propri rituali. Questo accade perché
la prospettiva predominante è cambiata:l’era
dell’individualismo è terminata e i brand sono
diventati parte integrante del vissuto delle
persone, le quali utilizzano le marche anche per
descrivere le loro azioni e i loro comportamenti,
il cosiddetto brand verbing5. Quando infatti una
marca entra realmente in contatto e instaura
una relazione con il proprio pubblico, smette
di essere solo oggetto per diventare strumento
di senso e parte essenziale della costruzione
del sé. Con il consumo infatti, gli individui
cercano di appagare bisogni di relazione sociale
e condivisione che vengono soddisfatti proprio
mediante l’appartenenza ad una tribù. Le tribù si
caratterizzano quindi per un’affinità di interessi
e passioni e sono per questo spesso composte
da individui con caratteristiche sociali e fisiche
eterogenee, situazione che ribadisce quindi la
maggior importanza data al valore di legame
piuttosto che al valore di consumo6.
Fig. 1 - Un gruppo di appassionati Harley Davidson
B. Cova, Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità,come valori del marketing mediterraneo, il Sole 24 Ore, 2010.
Con brand verbing si intende l’utilizzo di nomi di brand come verbi o sostantivi (es. to google, to hoover ecc..)
6
B. Cova, Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità, come valori del marketing mediterraneo, Ivi
4
5
117
La vita sociale delle marche: verso il brand sharing.
Fig. 2 - Uno dei cartelli presenti durante il percorso Tough Mudder
scarico di responsabilità in caso di infortuni
e decesso. Il target principale di questo tipo
di evento sono prevalentemente giovani
lavoratori professionisti e laureati, persone che
tendenzialmente conducono uno stile di vita
poco dinamico e povero di stimoli. Il caso Tough
Mudder è considerato un caso esemplare di
quanto la prospettiva e gli obiettivi del marketing
tradizionale si siano nell’epoca della brand society
completamente ribaltati, è una dimostrazione di
come l’esperienza di consumo non è di fatto più
riconducibile solo ad un mezzo per soddisfare
bisogni primari o secondari, come vengono
rigidamente intesi e classificati da Maslow, ma
come la piramide si allarghi per far spazio a
bisogni latenti e del tutto nuovi. Nessun manuale
o studioso di marketing avrebbe mai pensato che
il dolore fisico potesse essere proposto, venduto
e condiviso con largo successo e seguito presso
un pubblico così vasto ed eterogeneo. Il dolore
diventa quindi protagonista di un paradosso al
quale oggigiorno assistiamo:
Il caso considerato però più esemplare a riguardo
è Tough Mudder, un percorso ad ostacoli ideato
dalle forze speciali britanniche che prevede
diverse prove da superare per poterlo concludere.
L’idea di riproporre questo format per renderlo
accessibile a tutti è stata di Will Dean, giovane
laureato dell’università di Harvard, il quale
promuove la partecipazione al circuito come
alternativa diametralmente opposta a uno stile
di vita sedentario e da “dead man working”,
caratterizzante la maggior parte dei lavoratori
moderni.
Gli ostacoli di cui il percorso si compone vanno
da ripide pareti da scalare, sentieri con filo
spinato e guadi di fango da attraversare fino
ad arrivare ad una serie di scosse elettriche che
lungo il tragitto i partecipanti devono sopportare
per poter arrivare al traguardo finale.
La partecipazione all’evento è aperta a tutti,
unica richiesta è il pagamento di una quota di
iscrizione che si aggira intorno ai 130 dollari
e la firma di una liberatoria che sottoscrive lo
118
La vita sociale delle marche: verso il brand sharing.
in una società in cui il mercato farmaceutico
e in particolare quello degli antidolorifici è in
forte crescita, le persone ricercano il dolore
attraverso la partecipazione ad eventi estremi
come Tough Mudder.
La motivazione che spingerebbe tutte queste
persone a prendere parte ad un evento di
questo tipo sarebbe da ricondurre, secondo
gli studi etnografici condotti dal professor
Bernard Cova, al bisogno che alcune persone
hanno di resettare mente e corpo per favorire
una condizione di disconnessione totale dalla
quotidianità della vita reale, processo definito
dallo stesso professore “whitening”.
Il dolore fisico diventa il mezzo indispensabile
per ottenere una condizione di disconnessione
completa dalla realtà, un mezzo attraverso
cui fornire senso alla propria esistenza. Nel
caso di Tough Mudder si tratta inoltre di
dolore auto indotto, una sofferenza quindi
volontariamente ricercata che contribuisce
a rendere il tutto ancora più appagante.
Attorno al Tough Mudder si è sviluppata una
vera e propria comunità che raccoglie tutti
i partecipanti all’evento e che trasforma gli
stessi in prosumer7, non solo quindi semplici
consumatori ma anche principali produttori
dell’evento e di tutta l’esperienza ad esso legata.
Di questa comunità fanno infatti parte anche
tutti coloro che lavorano all’organizzazione
dell’evento, gruppi di volontari che con il loro
contributo assicurano il corretto svolgimento
Fig. 3 - Un gruppo di partecipanti fotografati alla fine del percorso Tough Mudder
7
Parola coniata dal futurologo Alvin Toffler e derivante dalla fusione dei termini producer e consumer. Il termine sottolinea quindi il duplice ruolo del consumatore post-moderno che non si limita solo a consumare beni ma diventa egli stesso
produttore di beni, contenuti e servizi.
119
La vita sociale delle marche: verso il brand sharing.
del percorso e l’assistenza necessaria ai
concorrenti durante tutto il tragitto. I “brand
volunteer” sono infatti una figura chiave del
Tough Mudder; oltre a fornire il supporto
necessario, svolgono anche il ruolo di veri e
propri motivatori, sostenendo e spronando il
morale dei partecipanti, soprattutto di quelli
maggiormente in difficoltà.
Un evento che esiste grazie quindi ai suoi
stessi partecipanti e collaboratori e che vive
e si rigenera grazie alla comunità di fedeli ed
appassionati che si è sviluppata nel corso delle
diverse edizioni.
Nella società post-moderna in cui il consumo
predomina, i brand hanno sostituito la
religione e la sua simbologia per proporsi
come fonte principale di senso e orientamento
nel mondo. Il consumo amplia quindi i suoi
confini e ridefinisce i suoi ambiti: diventa
quasi paradossalmente un atto di produzione
di esperienze che unitamente contribuiscono a
definire l’identità di ciascun individuo, identità
sempre più fluida e in costante evoluzione.
F OC U S
Marketing Tribale
Il principale esponente della corrente del marketing
tribale è il professor Bernard Cova il quale utilizza
e riprende il concetto di tribalismo sviluppato dallo
studioso Michel Maffesoli. Secondo il marketing
tribale, i consumatori non sono definibili come
mero “target” ma sono in primis soggetti facenti
parte di una tribù intesa come gruppo eterogeneo
(in termini di caratteristiche sociali obiettive) di
individui accumunati da una passione che viene
condivisa e rafforzata grazie ad un legame che
tra gli stessi si instaura, un ethos comune che
tra i membri si diffonde. Nel caso del marketing
e dei brand il legame viene quindi instaurato
tra i consumatori e il loro prodotto o brand di
riferimento. Gli elementi che quindi caratterizzano
maggiormente una tribù sono innanzi tutto il
legame, la tradizione o una passione comune
condivisa e una forte componente emozionale che
rinforza la relazione stessa e da senso all’esistenza
e all’evoluzione della tribù e dei suoi rituali.
Flavia Ricci
M. Kornberger, Brand Society, how brands transform management and lifestyle. Cambridge University Press. 2010
8
120
La vita sociale delle marche: verso il brand sharing.
Riferimenti bibliografici
Bauman Z., Modernità liquida, Editori Laterza, 2000.
Bauman Z., Consumo dunque sono, Editori Laterza, 2007.
Cova B., Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità, come valori del marketing mediterraneo,
il Sole 24 Ore, 2010.
Ritzer G., La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi, e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, 2005.
Kornberger M., Brand society. How brand transform management and lifestyle,
Cambridge University Press, 2010.
121
BRAND E IDENTITÀ DI MARCA
Tratto dalla lezione di Elisabetta Baldini
«Per occuparsi di corporate branding è necessario imparare a guardare
le situazioni con occhi diversi perché la mente, condizionata dalle abitudini,
va stimolata e allenata a non recepirle in maniera passiva.»
BRAND - BRAND IDENTITY - BRAND CHARACTER - REBRANDING
Elementi di un brand di successo
Ognuno di noi ha una identità, ed anche le
imprese hanno una “personalità”, che le distingue
e che trova la sua sintesi, ma non si esaurisce,
nell’insieme degli aspetti e degli elementi grafici
e comunicativi. La brand identity1 è un aspetto
fondamentale della marca perché contribuisce a
determinare la percezione e reputazione da parte
del pubblico agendo in prima battuta a livello
emozionale.
Avvenendo in primo luogo a livello istintivo
le persone non si interrogano sul perché della
propria reazione. Per occuparsi di corporate
branding è necessario imparare a guardare le
situazioni con occhi diversi perché la mente,
condizionata dalle abitudini, va stimolata e
allenata a non recepirle in maniera passiva.
Per questo l’architetto Elisabetta Baldini ci
porta come case study l’analisi di una delle
organizzazioni multinazionali di maggior
successo al mondo quotidianamente sotto gli
occhi di tutti: la Chiesa Cattolica.
Dunque ripercorriamone la storia, ovviamente
in termini di brand2.
Headquarter
Il primo punto di forza subito compreso
dall’organizzazione
Chiesa
Cattolica
è
l’importanza della sede fisica. In apparente
contrasto con uno dei precetti dell’organizzazione,
si è subito investito nella costruzione di una sede
grandiosa, senza risparmiare sulle parcelle dei
migliori architetti dell’epoca, perché avevano
già capito che la vicinanza è fondamentale nella
comunicazione e le relazioni hanno bisogno di
uno spazio fisico.
Un parallelismo con i giorni nostri potrebbe
essere il fenomeno dell’apertura dei flagship store
delle banche online, per non essere lontano dalle
persone.
Origine
Come molte realtà italiane nasce nel sommerso:
nelle catacombe, luoghi di incontro e relazione
nascosta, e cerca di rappresentare sé e il mondo
circostante.
Brand Identity: Ognuno di noi ha una identità. Anche le imprese hanno una personalità e dei comportamenti
che le distinguono e che trovano la loro sintesi nell’insieme degli aspetti e degli elementi grafici e
comunicativi. La brand identity è un aspetto fondamentale del brand perché contribuisce a determinare la
percezione e reputazione da parte del pubblico agendo in prima battuta a livello emozionale.
2
Brand: serie di elementi materiali e immateriali che identificano la personalità e le caratteristiche di un
prodotto, un’organizzazione o di un servizio. Facendo riferimento tanto alle caratteristiche fisiche e funzionali
quanto a quelle identitarie ed emozionali, che manifestandosi nella relazione con le persone, ne sono cocreatori. Parlare di brand significa occuparsi anche della narrazione che crea coerente al suo sistema valoriale
e dell’esperienza, sia digitale che offline, in cui viene esperito dalle persone.
1
122
Brand e identità di marca
Franchising
Grazie alla forte riconoscibilità del logo e
all’accettazione delle culture degli altri paesi, il
brand in questione mostra una grande capacità
di reinventarsi nel franchising.
Infatti le sedi sparse nel mondo sono costruite
secondo le modalità espressive locali purché vi
sia sempre, preferibilmente sulla sommità, la
croce che permette di riconoscere che si tratta
dell’organizzazione madre.
La croce, in quanto elemento segnaletico, ricorre
dappertutto, anche quando non si vede a occhio
nudo da lontano, c’è, esiste e da un occhio attento
viene percepita.
Logo
Leggenda vuole che l’origine del “logo” sia da
attribuirsi ad un sogno che Costantino fece
prima della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio, in
seguito alla quale l’Imperatore decise di adottare
il cristianesimo come religione di stato.
La scelta della croce è rivoluzionaria rispetto
al regime dell’epoca perché rimanda alla
crocefissione, pena a cui erano condannati coloro
che avevano commesso i crimini più efferati ed
era perciò simbolo di morte infamante.
Questa organizzazione quindi, attraverso il
posizionamento, riesce a trasformare un simbolo
disonorevole in un simbolo di redenzione.
Inoltre, la croce rappresenta un elemento positivo
ed efficace per altre tre sue caratteristiche:
è un logo antropomorfo, in quanto ricorda
un uomo con le braccia aperte, e ciò fa sì che
l’interlocutore vi si riconosca; è facilissimo da
rappresentare; ed è un segno che potremmo
definire “2.0” perché lo si può riprodurre con
mille varianti, anche di materiali, ma sarà sempre
riconoscibile come croce.
Architettura della sede
Dal proprio segno viene definito anche un
modello architettonico, che trasferisce la forma
del logo nel franchising grazie alla planimetria
a croce latina delle sedi. Chi visita e frequenta
i luoghi di culto magari non se ne accorge
nemmeno, visto l’interno spesso addobbato e
arricchito da dipinti e colonne e ciononostante
sono sempre state realizzate secondo tale schema
architettonico.
Fig. 1 - La croce sulla cupola di San Pietro
123
Brand e identità di marca
Logo dinamico e pervasivo
La modalità dinamica di saluto tra i fedeli diventa
elemento dinamico di relazione.
Il segno della croce si fa per entrare in chiesa come
codice identitario, ma la presenza pervasiva
di questa realtà è talmente forte che con il suo
simbolo vengono addirittura creati gioielli,
indossati non più solo da chi appartiene a questa
organizzazione, ma anche da coloro che non vi
associano un simbolo di fede.
delle risorse, targetizzate a seconda dei diversi
ordini e positioning. Balza agli occhi la differenza
tra il saio dei francescani e la tunica di un
cardinale.
CEO
Il leader, il Papa, rappresenta l’organizzazione e
ne è la voce ufficiale. Ogni CEO dà un contributo
in termini di vision e comunicazione, ma alla fine
l’organizzazione riesce a bypassare la visibilità del
leader per mantenersi negli anni.
Corporate identity e risorse interne
La Chiesa Cattolica ha un sistema normativo ben
definito per il comportamento dei suoi fedeli e
delle risorse interne. Perché più un’organizzazione
è estesa e più deve essere costrittiva e dotarsi di
regole che devono essere seguite da tutti e non
lasciate a scelte individuali che rischiano di
comunicare l’impresa in un modo diverso tra
loro e soprattutto distante da come l’azienda
vorrebbe essere percepita3.
Le risorse sono un touchpoint fondamentale con
il cliente finale. Quando un’azienda intraprende
un percorso di rebranding deve tenere a mente
che il dipendente con il suo comportamento può
vanificare lo sforzo dell’impresa.
La modalità di comportamento dei dipendenti di
Mc Donald’s è stata decisa e condivisa, ci sono
state le ore di formazione per imparare il codice
da riprodurre con il cliente finale.
Il rebranding deve essere gestito, non basta
cambiare gli elementi identitari grafico-visivi del
logo, c’è un altro 70% di lavoro in cui chi si occupa
del rebranding di un’organizzazione la forma sul
come gestire e valorizzare il proprio brand.
Collegamento a distanza
Viste le condizioni che rendevano e rendono
difficile il recarsi fisicamente in Chiesa per
soddisfare il precetto i fedeli potevano collegare
il loro device e collegarsi da remoto attraverso il
rosario. Uno strumento aziendale per collegarsi
alla propria organizzazione da casa in un epoca
in cui internet non si sapeva neanche che cosa
fosse.
Rapporto con i clienti
Questa organizzazione dà anche la possibilità
di rappresentarsi a chi ne condivide i precetti
ma non è una risorsa interna all’organizzazione
attraverso le spille. Inoltre, sono i primi che
chiamano i clienti “fedeli” e la fidelizzazione è
modalità aprioristica di relazione.
È l’unica organizzazione che ti segue in tutto il
ciclo di vita. La persona viene seguita in tutti i
momenti importanti della sua vita, dalla nascita
con il battesimo come “welcome party” nella
community sino a dopo il funerale.
«Brand is a promise»4
È l’unica organizzazione al mondo che ha basato
tutta la sua capacità di relazione su una promessa:
Organizzazione interna
Vi sono modalità di rappresentazione differenti
Ovviamente non sono assimilabili, ma anche i regimi totalitari hanno intuito le potenzialità di un
programma di corporate identity strumentale per arrivare a comunicare in maniera inequivocabile i propri
contenuti e per organizzare risorse e comportamenti delle persone. Un altro esempio di ente che mostra
chiaramente il concetto di corporate identity sono gli Stati Uniti d’America. Quando, atterrati in un aeroporto
americano, ci si mette in coda per i controlli doganali, si legge il motto “We are the face of our nation”
riportato sui gabbiotti del personale di frontiera. Consapevoli del ruolo che stanno esercitando, gli agenti della
polizia doganale in quel momento rappresentano il proprio paese anche davanti a chi non lo conosce.
4
«Simply put, a brand is a promise. By identifying and authenticating a product or service it delivers a pledge
of satisfaction and quality» Walter Landor.
3
124
Brand e identità di marca
la vita eterna. E non è neanche una promessa
verificabile.
di mostrare che cosa si intende per guardare il
mondo da un punto di vista laterale, capacità
necessaria per potersi occupare di rebranding.
Relazione multisensoriale
Con 2000 anni di anticipo sul concetto di brand
multisensoriale, la Chiesa Cattolica ha esteso
l’esperienza a tutti e cinque i sensi. Ora sono
consuetudini, quindi non le leggiamo come
elementi innovativi. Ad esempio Nike nei suoi
store usa l’essenza di erba fresca tagliata per
richiamare alla mente degli avventori il prato e
invogliare all’acquisto di attrezzature sportive da
utilizzare per andare a correre nel weekend.
Rebranding: che cos’è
Rebranding significa dare vita a una nuova
identità coerente per orientare la comunicazione
del brand in una direzione che sia rispondente
all’evoluzione della società, ridefinendo i valori
della marca senza tradirne le origini e i principi
fondamentali.
Ciò vuol dire reinterpretare da un punto di vista
del racconto e del contesto.
Ad esempio non si parla più di “pelliccia sintetica”
ma di “pelliccia ecologica”. È cambiata la cultura
della società: in passato indossare una pelliccia
sintetica significava non potersi permettere di
acquistarne una vera, al contrario oggigiorno chi
indossa una pelliccia reale viene marchiato come
una persona frivola e insensibile.
Inoltre abbiamo assistito ad un passaggio
dalla dimensione funzionale alla dimensione
valoriale. Non conta più il prerequisito
dell’elemento tecnico, ma quale valore quel
prodotto è in grado di trasferire a chi lo utilizza.
L’iPod quando è stato lanciato nel 2001 non è
stato raccontato attraverso le sue caratteristiche
tecniche (140 grammi, 5 GB) ma come “1000
Songs in Your Pocket”. Il prodotto diventa dunque
un elemento valoriale che racconta del suo
utilizzatore.
Gusto
• Il momento più alto della liturgia ha coinvolto il
senso del gusto con l’ostia.
Udito
• A partire dal 1100 cominciano a prendere piede
in questi spazi di relazione i canti gregoriani,
come codice linguistico internazionale e
momento aggregante.
Dato che la propagazione del suono soffre nella
chiese a capriata, mentre viene esaltata dalla
volta a botte, consapevole della caratteristica
dell’elemento sonoro come forza aggregatrice
enorme, la Chiesa decide che il modello
architettonico ufficiale delle proprie sedi sia la
volta a botte. Questo nonostante la volta a botte
abbia un costo di dieci volte superiore rispetto
alla basilica con le capriate, per via dello spessore
del muro.
Olfatto
• Incenso. La memoria olfattiva rimane in
maniera più forte nel tempo, e, anche se non ne
abbiamo memoria cosciente, continua a esistere.
Tatto
• Una cinquantina di anni fa viene introdotto il
gesto “scambiatevi un gesto di pace”, poiché il
toccare una persona accanto a sé dà più senso
al concetto di relazione. È il coronamento del
concetto di vicinanza e relazione.
Per creare un buon claim è necessario trovare
una idea forte, delle attese, una filosofia per
marcare la propria identità. Esso inoltre non deve
essere mai troppo descrittivo o circoscritto, per
non limitare il brand, che deve potersi muovere
in qualsiasi settore purché agisca coerentemente
con il proprio commitment.
Sulla filosofia di uno dei claim più efficaci e
belli della storia, “Connecting People” Nokia
potenzialmente avrebbe potuto progettare una
linea aerea, dei ristoranti.
Il caso del brand “Chiesa Cattolica” permette
125
Brand e identità di marca
La funzione del marchio è ricordare e riassumere
in un elemento simbolico il messaggio.
Il marchio è un elemento segnaletico percettivo
in cui l’azienda mette i suoi contenuti, ma
ognuno lo decodifica in modi diversi e a volte
senza conoscere che cosa ci sia dietro la scelta di
un determinato logo.
Un esempio è il logo della BMW, le cui quattro
suddivisioni in bianco e azzurro derivano
dall’elica stilizzata del primo core business
aziendale: BMW infatti inizialmente produceva
motori per aerei. Tuttavia questo richiamo ma
che non è leggibile da chi non conosce la storia
dell’azienda.
Al contrario alle persone è più facilmente noto il
brand character5, ovvero il valore distintivo del
brand rispetto ai competitors, che per la BMW è
l’ingegnerizzazione.
La brand identity guida il modo di comportarsi
dell’organizzazione e così come il nostro
comportamento è elemento fondante della nostra
identità, il brand è una promessa che viene fatta
verso l’esterno e che crea delle aspettative.
Fig. 2 - Il logo di BP British Petrolium
dopo il rebranding
Il segreto è introdurre il proprio punto di vista
su quel tema.
Uno storico caso di rebranding è stato quello di
BP British Petrolium.
L’obiettivo della multinazionale era quello di
non essere associata esclusivamente al mercato
britannico e all’immagine di una compagnia
petrolifera tradizionale, con l’intrinseca criticità
dell’avere l’opinione pubblica avversa. La chiave
utilizzata è consistita nel trovare una modalità
più contemporanea di rappresentare il proprio
business, cogliendo i segnali di cambiamento
della società e ponendo l’accento sul fatto che c’è
un modo diverso di fare il petroliere. In primis,
l’azienda ha creato un legame con valori che
oggi sono importanti: attenzione all’ambiente,
sicurezza dei dipendenti e modalità etiche.
Partendo da questi valori ha poi reinventato il
logo: un grande girasole verde e il claim Beyond
Petrolium (Oltre il petrolio).
Bisogna comunque tenere presente che «Essere
è comunicare» e che tutto comunica: dalla
presenza fisica, alle parole che usiamo, al silenzio
e al marchio ovviamente.
Fig. 3 - Il logo di BMW
Brand Character: rappresenta il patrimonio d’immagine che la marca è riuscita a (o vorrebbe) costruirsi nel
corso degli anni. Comprende l’insieme delle caratteristiche tangibili e intangibili, positive e negative, attribuite
dal cliente alla marca: il valore di tali caratteristiche dipende, ovviamente, dal complesso di relazioni col
mercato che una data marca è in grado di instaurare ed è proporzionale a quello dei prodotti o servizi a cui il
brand viene associato
5
126
Brand e identità di marca
family feeling che lo caratterizza e che deve essere
uguale in tutto il mondo.
Oltre allo spazio fisico anche la struttura fisica
ha un comportamento; e ciò non riguarda solo
le aziende che producono beni materiali ma
anche servizi. Ad esempio l’utenza elettricità ha
una struttura fisica: la bolletta. Le comunicazioni
sono un touch point nelle relazioni fondamentali
con il cliente. È il design del servizio a permettere
di migliorare il servizio. Nel caso delle utenze il
valore si trova nella creazione di una bolletta
comprensibile e trasparente.
Il motto della polizia di NYC, ad esempio,
promette “Courtesy, Professionalism e Respect”
quindi il cittadino si aspetta di essere trattato nel
rispetto di tali impegni.
F OC U S
Il caso della Polizia di NYC su Twitter
La polizia di New York ha provato sulla sua pelle che
cosa si intende quando si parla di crisis management
e dell’importanza di avere dei comportamenti
coerenti con la brand identity. Il claim che si legge
su tutte le auto della polizia newyorkese “Courtesy
Professionalism Respect” indica su quali valori si
deve basare il comportamento degli agenti del New
York Police Department.
Martedì 22 aprile 2014 il NYPD ha pubblicato una
fotografia di un uomo abbracciato a due agenti con
l’invito a taggarsi usando l’hashtag #myNYPD,
con l’obiettivo di raccogliere le esperienze degli
utenti di Twitter. L’azione era parte integrante della
strategia elaborata per la comunicazione sui social
media. L’invito è stato subito accolto ma l’hashtag è
stato ri-significato dagli utenti che lo hanno usato
per mostrare i comportamenti aggressivi ed ostili
della polizia newyorkese. Il mercoledì l’hashtag è
entrato nei trending topic di Twitter.
Rebranding: come si fa
La brand identity richiede pianificazione e
attenzione al cambiamento, perché nessuna meta
può essere raggiunta se non è prima pensata.
Così come il tempo permette e chiede all’identità
delle persone di cambiare comportamenti nelle
diverse fasi della vita che attraversa (bambino,
giovane, adulto e anziano) anche le imprese
devono considerare il fattore tempo nella gestione
della loro identità.
Nella progettazione del rebranding si parte
dell’analisi della realtà e della reputazione attuale,
ma ci si concentra sull’aspirazione. Il come
l’azienda si immagina e si percepisce tra 5 anni
deve essere raccontato come se fosse già parte
della cultura aziendale. Però bisogna cambiare
seguendo le attese e la cultura del mercato e
soprattutto è necessario prevedere corsi di
formazione e seminari sul valore del rebranding
a tutti i lavoratori dell’azienda, in quanto proprio
quest’ultimi sono il primo pubblico, oltre che
parte del comportamento dell’organizzazione.
Per riassumere: occorre raffigurare la realtà per
com’è la sua aspirazione, bisogna raccontare il
cambiamento partendo dai contenuti, ovvero dai
valori, attraverso sia un linguaggio che sia in
grado di esplicitarli e sia con elementi visivi, dal
momento che restano più impressi.
L’importanza del non deludere le aspettative
è chiara a Philips che con il claim «simplicity
for all» promette di superare la frustrazione
da tecnologia, consentendo ai consumatori di
utilizzarla senza dover leggere alcun libretto di
istruzioni. Philips infatti all’interno ha un board
che deve testare se davvero i prodotti funzionano
in modo così intuitivo. E se così non è essi
vengono rimandati al laboratorio, a riprova del
fatto che l’identità enunciata nel claim non può
essere tradita.
Inoltre l’identità riguarda anche gli spazi fisici:
quando entriamo in un punto vendita (da
McDonald’s a Hermès) vogliamo ritrovare il
Irene Pepe
127
Brand e identità di marca
Fig. 4 - Passaggi del rebranding
128
Brand e identità di marca
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129
MARKETING RETAIL 2.0
Tratto dalla lezione di Vanni Codeluppi
«In the factory we make cosmetics, in the store we sell hope» - C.Revson
VETRINA - IDENTITÀ DI MARCA - MODELLO GREIMASIANO
Gli spazi di vendita sono strumenti che servono
a rafforzare l’identità della marca e la relazione
esistente tra essa e i suoi consumatori.
Questo comporta la necessità di rendere coerenti
tali spazi con la strategia di comunicazione nella
quale si collocano.
Il punto vendita è, quindi, una componente
umana e sociale oggi vitale; si riesce a
costruire un rapporto di consumo solamente
se si costruisce una relazione “calda” con
l’acquirente, attraverso lo spazio di vendita, che
diventa luogo di coinvolgimento emotivo e di
comunicazione, in cui la marca possa esprimersi
così come fa attraverso tutti gli altri strumenti a
sua disposizione.
Può farlo anche con lo spazio di consumo,
quindi, che riprende elementi del patrimonio di
marca.
Lo spazio di vendita, per essere efficiente,
deve riuscire a sviluppare elementi sensoriali
d’identità di cui la marca è sinonimo.
Dato che il consumatore cerca nel punto vendita
una dimensione umana, sociale, un legame
col territorio, la marca deve essere in grado di
trasmettere informazioni, servizi e raccontare
la sua storia attraverso gli spazi di vendita,
costruendo un patrimonio esperienziale che
consolidi la propria relazione con il consumatore.
Dalla produzione alla distribuzione
Mentre la produzione progetta e realizza prodotti,
la distribuzione fa un lavoro di comunicazione
oltre che occuparsi della vendita. La vendita
è un rapporto che tradizionalmente si basava
sulla relazione umana tra venditore e acquirente;
attraverso questa relazione passava l’acquisto.
L’acquisto e, di conseguenza, il consumo è
uno strumento di costruzione dell’identità.
Scegliamo oggetti in base ai significati che questi
esprimono o che la società ha attribuito a essi. Il
nostro rapporto con gli oggetti di consumo parte
dalla necessità che noi esseri umani abbiamo in
un contesto sociale: costruirci un’ identità. Gli
oggetti di consumo hanno già un linguaggio in sé
attraverso cui possiamo comunicare diversi stati
d’animo e intenti: speranza, progetti esistenziali,
desideri. L’acquisto può essere, quindi, definito
come una promessa di realizzazione di desideri
personali.
In questo contesto, la relazione tra venditore
e acquirente, tradizionalmente essenziale nel
processo d’acquisto, è stata rimpiazzata del tutto
o in parte dal self service, conseguente a un
processo di strutturazione delle dinamiche di
compravendita che possiamo rintracciare a partire
130
Marketing retail 2.0
dalle dinamiche proprie dei grandi magazzini
parigini e poi, in generale, in Occidente, che ha
visto per primo il passaggio al prezzo fisso (come
sostitutivo della contrattazione) e che ha reso
sempre più superflua la figura del personale di
vendita, con un conseguente abbattimento dei
costi. Venuta meno la funzione relazionale del
venditore e, cioè, la comunicativa emozionale
in grado di creare e consolidare il rapporto con
l’acquirente, lo spazio di vendita e gli strumenti
che vengono utilizzati all’interno delle strutture
di vendita, sopperiscono alla sua funzione “calda”.
Il punto vendita diventa, quindi, una macchina
per comunicare e si dota di caratteristiche che lo
rendono unico e in grado di compensare questa
mancanza.
Basti pensare all’Antica Grecia e a Roma: le nostre
civiltà nascono intorno al commercio e le città si
sono sviluppate a partire dal mercato, delineando
il legame fondamentale da sempre esistito
tra sviluppo sociale e commercio. Quando le
città hanno deciso di commerciare e esportare
beni, si sono potenziate. Da lì la necessità di
esportare strutture commerciali verso l’esterno
(ne sono esempi i centri commerciali nelle zone
industriali o semplicemente fuori città) che,
però, hanno provocato l’effetto opposto: le città
stanno soffrendo, proprio perché private di una
struttura commerciale. In questo modo le città
muoiono dal punto di vista della vita sociale e
culturale, soprattutto nel momento dell’acquisto,
quando l’acquirente compra prodotti in funzione
degli obiettivi che deve soddisfare: il rapporto
che si stabilisce con il venditore o punto vendita
rappresenta la promessa di soddisfare i suoi
desideri, obiettivi, speranze.
configura come uno strumento di informazione,
acculturamento ma anche promozionale, utile
per il consumatore.
Una delle prime testimonianze che riguardano
la comparsa della vetrina ci viene fornita da un
viaggiatore francese in Inghilterra nel 1728 che
scriveva: «Quello che non abbiamo in Francia è
il vetro, che è molto bello e chiaro. Le botteghe
ne sono attorniate e di solito si dispone la merce
dietro i vetri, il che la protegge dalla polvere,
offrendola agli occhi dei passanti e formando un
bel vedere da ogni lato». In effetti, fino ai primi del
‘700 esistevano le botteghe e i mercati ma non le
vetrine, da subito utilizzate per la loro capacità di
presentare la merce, dato che i prodotti venivano
venduti all’esterno dei luoghi di produzione,
come botteghe e laboratori artigianali.
Va agli inglesi e alla Rivoluzione Industriale,
dunque, il merito dell’invenzione delle vetrine,
per due motivi:
1. La quantità di prodotti: le vetrine diventano
uno strumento promozionale;
2. L’allargamento delle città: per i negozianti
cambiano gli interlocutori, non più solo gli
acquirenti conosciuti ma masse di persone
prevalentemente sconosciute che bisogna attirare
in negozio.
Da qui il ruolo da subito fondamentale della
vetrina: attirare l’attenzione del passante
e costruire un discorso - uno spazio di
comunicazione in cui i contenuti vanno
organizzati secondo una logica ben precisa,
quella del teatro borghese che accompagna lo
sviluppo dei luoghi di consumo nel ‘800: uno
spazio povero razionalizzato attraverso corpi e
sistemi di illuminazione prestati al mondo dei
consumi.
In principio c’era la vetrina
Oggi consideriamo la vetrina come qualcosa
di poco interessante se non, addirittura, di
totalmente trascurabile. In realtà ha una storia
a partire dai primi decenni del ‘700, quando
fa la sua comparsa in Gran Bretagna. Essa si
La prima forma interessante di spazio
commerciale sviluppatasi a Parigi nei primi del
131
Marketing retail 2.0
‘700 è il passage: tante vetrine messe insieme
che creano un’unica vetrina a forma di galleria
commerciale e che ha dato vita all’ archetipo dei
centri commerciali odierni.
Walter Benjamin definiva il passage il «luogo della
borghesia ed esibizione del sé»1, una costante
che troviamo in tutti i luoghi di consumo, tali
in quanto permettono agli acquirenti di sentirsi
bene e favorire incontro e scambio.
a competere con le innovazioni proposte dai
grandi magazzini (come il prezzo fisso applicato
direttamente sui prodotti), i passage costruiti dopo
il 1860 punteranno sulla monumentalità, a scapito
della tradizionale funzione commerciale. A questa
categoria appartengono anche importanti gallerie
italiane come la Vittorio Emanuele II di Milano,
l’Umberto I di Napoli e la Subalpina di Torino.
Il filosofo e critico letterario tedesco Walter
Benjamin ė uno dei massimi teorici del fenomeno
dei passage; la sua opera più vasta e mai compiuta,
“Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e
materiali 1927-1940” descrive in modo dettagliato
le sfumature e gli aspetti sociologici di questi luoghi
di consumo.
La singola vetrina diventa, quindi, qualcosa di più,
estendendo il proprio modello di comunicazione
e di cultura attraverso l’esposizione e la
valorizzazione del prodotto, mettendo in scena
e producendo significato. Si estende diventando
prima passage, poi galleria monumentale (come
nel caso della galleria Vittorio Emanuele a
Milano) fino a trasformarsi in grandi magazzini e,
nel ‘900, grazie anche all’apporto degli americani,
centro commerciale, più ampio e ricco dal punto
di vista architettonico, in grado di amplificare
ulteriormente il discorso.
La vetrina e lo spazio urbano
Dall’evoluzione della vetrina e del punto vendita
emerge una stretta relazione tra spazio urbano,
mondo del retail e attività che le persone svolgono
nei punti vendita.
In questo la moda è sicuramente il settore che ha
saputo utilizzare al meglio il punto vendita come
strumento di comunicazione e marketing, tanto
da essere presa come esempio da altri settori.
Basti pensare a Giorgio Armani, stilista di fama
mondiale che inizia il suo percorso professionale
proprio come vetrinista della Rinascente, che con
la sua Milano ha saputo intrecciare un rapporto
quasi viscerale tanto da assurgerla a vera e propria
vetrina, come nel caso della maxi installazione
permanente in via Broletto. L’intera città diventa
vetrina estendendo, in questo modo, il dialogo
con la città e i cittadini/consumatori.
F OC U S
I passage sono la prima forma di galleria
commerciale coperta. Il primo passage fu
inaugurato a Parigi nel 1786, costruito nei giardini
del Palais Royale per volere del Duca D’Orléans;
con 355 negozi, diventò ben presto una della
maggiori attrazioni della città. Queste strutture
in vetro e ferro, illuminate a gas, si svilupparono
a Parigi in un periodo storico contraddistinto da
un forte aumento della popolazione urbana e dallo
sviluppo dei primi processi di industrializzazione
che porteranno in seguito alla seconda Rivoluzione
Industriale: spazi democratici che espletassero la
loro funzione commerciale ma che, allo stesso
tempo, fossero fonte di intrattenimento, occasioni
per vedere e farsi vedere.
A partire della seconda metà dell’Ottocento, il
modello del passage iniziò la sua fase di declino
a causa della concorrenza di un nuovo luogo di
consumo: il grande magazzino. Non riuscendo
La vetrina è qualcosa che fa parte del sistema
città, un unico spazio di dialogo in cui vi è una
compresenza di punti vendita, vetrine, persone,
vita sociale e urbana. E i giovani lo hanno capito
molto bene: sono proprio i movimenti giovanili
legati alle mode e alle culture che creano e
Benjamin W., Tiedemann R., ed., The Arcades Project, Belknap Press, Howard Eiland and Kevin McLaughlin,
New Yorl, 2002
1
132
Marketing retail 2.0
Floch e l’identità di marca
consolidano il proprio rapporto con gli spazi
urbani e con i punti vendita, a seconda dello stile
o della corrente di cui si sentono parte e che si
manifesta anche e soprattutto attraverso i loro
acquisti.
Cosa intendiamo noi per identità di marca?
Per citare il semiologo e pubblicitario Jean-Marie
Floch, «L’identità di marca è insieme differenza e
permanenza»2.
Un legame così profondo da influenzare lo
stesso sistema città (o parte di essa) e portando a
ripensarlo in un’ottica di marketing che ha come
obiettivo quello di attirare turisti e consumatori
(Las Vegas, New York – Times Square) o,
addirittura, da fondere il mondo dei consumi e
lo spazio urbano. È questo il caso di Celebration,
la città ideale di Disney di circa 20.000 abitanti
vicino a Orlando, Florida, esempio lampante di
una marca che progetta uno spazio urbano in
base alla sua visione.
Floch, allievo di Greimas, nei suoi studi applica
la semiotica al mondo del marketing e analizza
l’unione e la fusione di linguaggi e culture diverse.
Secondo Floch, l’analisi del linguaggio della
marca, consente di individuarne due elementi
identitari:
1. Differenza: valore che permette di costruire la
riconoscibilità, la distanza rispetto a qualcos’altro
(specificità);
2. Permanenza: il perdurare dei valori economici
industriali e sociali nel tempo (durata).
Ovviamente, i media hanno un ruolo importante
nella costruzione di modelli prodotti dal mondo
dei consumi delle marche: la rappresentazione
mediatica costruita attraverso il cinema, la
letteratura e la rete di un certo mondo influenza
i consumi, le tendenze e le percezioni e rafforza
l’identità della marca stessa.
Ci sono dei marchi che hanno un’identità molto
forte, come nel caso di Louis Vuitton.
La boutique di Louis Vuitton agli Champs-Élysées
si configura come uno spazio identitario molto
Fig. 1 - Louis Vuitton - Ginza, Tokyo
2
Floch J.M., Identità visive, Franco Angeli, Milano, 1997
133
Marketing retail 2.0
territoriale italiana. É innegabile che il concetto
di slow-food esistesse ancora prima di Farinetti,
ma il suo merito é quello di aver trasformato
l’esperienza conviviale e culturale intorno a esso in
prodotto commerciale. Allo stesso modo, gli spazi
fisici di Eataly sono stati concepiti rispecchiando
la storia e recuperando il fondamentale archetipo
del commercio: il mercato. Eataly Torino, ad
esempio, nasce dal recupero di una fabbrica di
alcolici nella zona del Lingotto, proprio vicino
allo “scrigno degli Agnelli” progettato da Renzo
Piano. In questo spazio si é ricreato lo spazio
archetipico del mercato che le persone possono
vivere in modo del tutto diverso rispetto ai
classici ipermercati moderni. Oltre alla funzione
strumentale dell’acquisto, gli acquirenti possono
vivere un’esperienza sociale legata alla scelta,
aiutati da una comunicazione identitaria molto
forte associata agli spazi.
Fig. 2 - Louis Vuitton - Champs Elysées, Parigi
forte che comunica continuamente attraverso
i segni di marca (in questo caso le iniziali) che
ritroviamo nei prodotti. Per Floch Louis Vuitton
è la prima vera marca poiché, oltre alla sua storia
e tradizione importanti, è stata capace di essere
(quasi ossessivamente) fedele alla sua identità.
Modello identitario che Louis Vuitton replica e
declina in tutti gli spazi di marca: ad esempio nella
sua boutique di Tokyo in cui persino la superficie
esterna del building diventa vetrina e strumento
di comunicazione dei segni, attraverso giochi di
illuminazione e attrazione del consumatore.
Fig. 4 - Ikea
Anche il settore dell’arredamento ha saputo far
proprio il concetto di identità di marca. É il caso
di Ikea, brand svedese che ha democratizzato
e reso accessibile economicamente un settore
storicamente considerato di lusso senza, però,
intaccarne il valore sociale. La marca, in questo
caso, ha un valore in sé, per cui il consumatore la
vive come qualcosa di prestigioso a prescindere
dall’effettivo investimento. Questo é un
fenomeno interessante, reso possibile attraverso
un’operazione di retail che consente di abbassare
il livello del prodotto senza perdere in prestigio
anzi, mantenendolo attraverso la forza del
Fig. 3 - Eataly Torino
La moda, quindi, ha lanciato un trend che è
stato progressivamente accolto da altri settori
merceologici, come quello del food. É il caso di
Eataly, il progetto di Oscar Farinetti, il quale
ha saputo costruire un discorso imprenditoriale
di successo a partire dal concetto di cibo
quale espressione della cultura, grazie alla
valorizzazione della tradizione culinaria
134
Marketing retail 2.0
marchio e degli spazi rafforzando, così, il proprio
valore aspirazionale.
questa coerenza di elementi che caratterizzano
l’identità di marca di Nike. Essi si configurano
come dei luoghi in cui il prodotto viene esibito
e valorizzato quasi attraverso un’esperienza di
museificazione della merce, grazie a tecnologia e
design di ultima generazione. E, proprio in fatto
di design, tutti gli elementi che lo caratterizzano
contribuiscono alla narrazione della marca e del
mondo che essa rappresenta: l’elemento grafico
dello swoosh é onnipresente e pervasivo, attraverso
forme circolari che ritroviamo dappertutto, dalle
sedute al pavimento. Inoltre, l’interattività e la
polisensorialità delle strutture contribuiscono
ulteriormente a coinvolgere gli acquirenti nella
narrazione epica della marca e delle storie degli
atleti che essa sponsorizza. Pervasività che rischia
di diventare saturazione, però, secondo Schmitt
&Simonson. Nel loro Marketing Aesthetics3, i due
autori prendono in considerazione il possibile
eccesso di coerenza che si può sviluppare nel
“sistema marca” e che può irrimediabilmente
avere un effetto boomerang, quello di portare
noia e saturazione, appunto, nei consumatori.
Il suggerimento dei due autori é di costruire un
discorso sulla marca che sia coinvolgente, ma
non soverchiante. Sulla scia di queste indicazioni,
Nike ha deciso di prestare molta attenzione
all’equilibrio nel rapporto marca-consumatore
e di evitare qualsiasi tipo di eccesso di coerenza
che avrebbe potuto danneggiarli.
Passando alla tecnologia, un altro brand che
ha saputo sfruttare la sua identità di marca al
meglio é Apple. Lo store situato nella 5th Avenue
di New York è, forse, l’esempio più chiaro di
vetrinizzazione: un cubo trasparente in cui la
forza della marca parla da sé, servendosi del suo
forte potere evocativo. Il bianco del logo, benché
un non-colore, esprime l’identità di Apple.
Progettato da Bohlin Cywinski Jackson, eredi del
Bahuaus, lo spazio è minimal, essenziale, dove la
vetrina é al centro della marca, rispecchiando la
filosofia e il design dei prodotti Apple.
Il caso Nike
In fatto di identità di marca, il brand Nike é
davvero un caso interessante, poiché ha saputo
costruire e rafforzare la sua identità attraverso
il legame tra la marca stessa ed i segni che la
identificano.
Nike nasce a Beaverton nel 1972 da un’idea di Phil
Knight e Bill Bowerman, due ex mezzofondisti, e
da subito costruisce intorno a sé un immaginario
basato su valori ed elementi coerenti fra loro, che
ne decreteranno il successo: il logo, lo “swoosh”
disegnato da Carolyn Davidson, esprime il
movimento di spinta, si sposa bene con il claim
“Just Do It” che esprime al meglio il concetto
di base della sfida individuale per il successo,
quell’ideologia sportiva individualista americana
da sempre contrapposta al concetto di gioco di
squadra tipicamente europeo. La coerenza degli
elementi della marca che lavorano sinergicamente
ha creato nel tempo un valore simbolico talmente
forte e evocativo in grado di coinvolgere il
consumatore nel discorso dell’identità di marca
facendo sì che anch’esso ne condividesse i valori
e si sentisse parte di esso.
Il modello greimasiano
di Jean-Marie Floch
Ogni marca sceglie un suo posizionamento, che
diventa la base su cui il marketing sviluppa dei
valori, intorno ai quali elabora testi, e quindi
messaggi, attraverso un processo opposto
rispetto a quello dei semiotici che, a partire da
un testo, ne sviscerano i valori fondamentali.
Per avere permanenza nel tempo (una delle due
caratteristiche principali dell’identità di marca)
ogni testo dovrà partire dal valore o dai valori
predefiniti in modo coerente.
I punti vendita Nike Town sono l’emblema di
Simonson A., Schmitt B.H., Marketing Aesthetics: The Strategic Management of Brands, Identity, and Image,
The Free Press, New York, 1997
3
135
Marketing retail 2.0
Sulla scia dell’analisi testuale propria della
semiologia e, in particolare, del quadrato
semiotico di Greimas, Jean-Marie Floch applica
questo modello al marketing, per studiare i diversi
tipi di consumatori, il loro comportamento e come
vengono elaborati mentalmente i testi/messaggi
delle marche dalle persone. A partire da uno
studio sui viaggiatori in metro ed estendendo il
modello alla sfera dei consumatori, Floch elabora
questo schema secondo cui essi seguono uno dei
modelli comportamentali espressi dal quadrato:
1. Pratico: il consumatore è attento agli aspetti
funzionali del prodotto;
2. Ludico: il consumatore predilige l’aspetto
giocoso del prodotto;
3. Utopico: il consumatore non si interessa della
funzionalità, ma del messaggio, del sogno che
gli viene raccontato;
4. Critico: il consumatore è attento alle
informazioni relative al prodotto.
soprattutto far conoscere il prodotto in maniera
credibile, oggettiva.
2. Pubblicità obliqua: si sfruttano le strategie
del paradosso e dell’ironia. La pubblicità obliqua
punta a ribaltare i luoghi comuni. Si rivolge
solitamente a un pubblico di nicchia (o che
aspira a esser tale) e non è immediatamente
comprensibile in tutti i suoi aspetti, ma richiede
una maggiore attività interpretativa.
3. Pubblicità mitica: c’è un “rivestimento” di
sogno del prodotto. La pubblicità mitica esalta
il prodotto come portatore di un valore di
base. Spesso il prodotto è solo il pretesto per
rappresentare un mondo che incarna i sogni e le
ambizioni del consumatore.
4. Pubblicità sostanziale: esiste un “iperrealismo”
del prodotto, del quale si enfatizzano gli aspetti
funzionali. La pubblicità sostanziale vuole porre
al centro dell’attenzione il prodotto di per sé.
Dell’oggetto vengono esaltate le doti materiali,
estetiche, la piacevolezza.
Fig. 5 - Floch - Quadrato semiotico dei modelli di
comportamento del consumatore
Fig. 5 - Floch - Quadrato semiotico dei modelli di
comportamento del consumatore
A questi modelli corrispondono forme di
comunicazione diverse che possano essere
efficaci per ognuna di queste categorie e, di
conseguenza, quattro modi di fare pubblicità da
parte delle imprese:
1. Pubblicità referenziale: il testo si mantiene
legato alla realtà. La pubblicità referenziale esalta
i valori pratici, l’utilità dell’oggetto. Il suo scopo è
Per ognuno di questi linguaggi pubblicitari,
Floch ha individuato degli esempi di campagne
pubblicitarie prodotte da quattro fra i più grandi
pubblicitari del 20esimo secolo:
Un headline che punta sulla spettacolare
prestazione del prodotto: «At 60 miles an hour
the loudest noise in this new Rolls-Royce comes
from the electric clock.»
136
Marketing retail 2.0
Il prodotto diviene parte di un discorso epico in
cui, attraverso un linguaggio mitico, il cowboy,
eroe a tutto tondo, risemantizza le sigarette con
il filtro prima considerate appannaggio del gentil
sesso, ora must have degli uomini più forti.
Fig. 7 - Pubblicità referenziale: David Ogilvy per
Rolls Royce (1958)
Fig. 9 - Pubblicità mitica: Leo Burnett per Marlboro
(1954)
Pubblicità indiretta che gioca con il consumatore
attraverso il linguaggio e le figure retoriche:
“Lemon”.
L’autore di Reality in Advertising (1961), presenta
in modo completo quello che è il vantaggio
competitivo del prodotto rispetto a tutti gli
altri della stessa categoria, fornendo tutte le
informazioni necessarie.
Fig. 10 - Pubblicità sostanziale: Rosser Reeves per
Viceroy (1960)
Fig. 8 - Pubblicità obliqua: Bill Bernbach per
Volkswagen Beetle (1959)
Daniela Stefania De Pascalis
137
Marketing retail 2.0
Riferimenti bibliografici
Bill Magazine, Tita Srl.
Codeluppi V., Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano, 2014 – capitolo 3.
Codeluppi V., Mi metto in Vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e le altre “vetrinizzazioni”,
Mimesis, Milano-Udine, 2015.
Floch J.M., Bricolage, Franco Angeli, Milano, 2013 - capitolo 14.
Floch J.M., Identità visive, Franco Angeli, Milano, 1997.
138
COMUNICAZIONE E CRISIS MANAGEMENT
Tratto dalla lezione di Roberto Grandi
«L’aspetto comunicativo della crisi colpisce l’immagine dell’impresa,
delegittimata e priva di fiducia. È necessaria quindi una risposta immediata ed efficace e,
possibilmente, preventivata in anticipo.»
REPUTATION - CRISIS COMMUNICATION - SOCIAL MEDIA
si trovano in una situazione di perturbazione,
alterazione, emergenza o transizione; ciò porta
a minare il rapporto di fiducia verso l’impresa,
così come la sua immagine, tanto da rischiare di
rendere inefficaci tutte le strategie normalmente
messe in atto. Svariate possono esserne le cause
scatenanti: eventi negativi di origine ambientale
o sanitaria, forze economiche e di mercato, errori
commessi dall’organizzazione stessa (imperizia,
scarsa professionalità, mancanza nei sistemi
di sicurezza, stime erronee, dimenticanze,
disonestà dei dipendenti) e molte altre ancora.
Quel che è certo è che nessuna azienda ne è
immune, si tratta solo di capire quale tipo di crisi
aspettarsi e quando essa si verificherà. Quando
ciò accade è infatti necessario che l’impresa
agisca in modo immediato ed efficace; a tal
proposito, a partire dagli anni ’90, ha iniziato
ad affermarsi una “cultura della crisi”, una
sorta di strategia preventiva, volta a supportare
le aziende nel crisis management, definendo
alcune linee guida. Prima fra tutte è sicuramente
la creazione di un’apposita sezione del sito web
aziendale, così come di un crisis team, in cui non
possono mancare figure quali avvocati, esperti di
mass media e rappresentante dell’impresa. Tali
accorgimenti però, non sempre vengono messi
in atto dalle imprese che spesso sottovalutano gli
effetti negativi portati dalla crisi. L’avvento dei
media digitali ha segnato un
Ogni impresa dovrebbe accertarsi che l’immagine
percepita dai propri stakeholder coincida con
quella progettata e, dunque, con i valori di base
cui fa riferimento la propria identità. Il ruolo
dell’immagine è di primaria importanza, in
quanto crea cornici di senso che contestualizzano
l’agire dell’impresa e che formano aspettative negli
individui. Questo elemento emerge soprattutto
nelle situazioni di crisi.
Ogni crisi ha carattere ambivalente. Ciò viene ben
espresso nella lingua cinese, nella quale il termine
“crisi” è rappresentato dalla combinazione
dell’ideogramma Wēi (paura o pericolo) con
l’ideogramma Jī (opportunità o desiderio).
Per “crisi” si intende un evento straordinario,
che non può essere quindi gestito con strumenti
ordinari. In particolare, un’ impresa entra in
crisi quando gli elementi che la compongono
139
Comunicazione e crisis management
ulteriore spartiacque col passato, modificando
inevitabilmente i tempi (drasticamente ridotti)
e le modalità di azione in caso di criticità; tutto
infatti può diventare pubblico e virale nel giro
di poche ore: è necessario quindi agire in modo
tempestivo, trasparente e, se possibile, sfruttare
le potenzialità dei social media per fare di una
situazione di svantaggio, un’opportunità per
la propria impresa. I casi di seguito analizzati,
collocati in spazi temporali differenti, mostrano
le più o meno efficaci modalità di gestione della
crisi attuate dalle aziende, che hanno condotto
quindi a esiti ben differenti per le imprese stesse.
minime quantità di benzene. Il Presidente della
Perrier, senza conoscere ancora le cause della
contaminazione, fornisce una risposta confusa
ed ambigua, attribuendo la causa a un errore
umano che ha interessato una singola linea di
montaggio in USA. La reazione a questa poco
convincente dichiarazione è l’allarmismo tra i
mezzi di comunicazione di massa e il blocco
delle importazioni da parte di tutti gli acquirenti.
Il Presidente, a tal punto, ritira il prodotto
dal mercato e ritratta la versione fornita in
precedenza: la contaminazione è avvenuta infatti
alla fonte, a causa di una saturazione di benzene
ad un filtro per la purificazione dell’anidride
carbonica. Ciò rivela, tra l’altro, che era falsa
anche la pubblicizzazione del prodotto come
effervescente naturale. I danni di immagine, di
credibilità ed economici sono estremamente
rilevanti e portano al cambio prima del
management e poi della proprietà della Perrier,
seguito dal lancio della produzione di una nuova
linea di acqua minerale.
Caso Tylenol, Johnson&Johnson
Chicago, 1982. Sette persone muoiono avvelenate
dopo avere ingerito delle compresse dell’analgesico
Tylenol appartenenti ad uno stock contaminato
con cianuro da un ignoto avvelenatore
(product tampering). L’azienda reagisce in modo
impeccabile: ritira immediatamente il prodotto dal
mercato e mette allo studio una nuova confezione
impenetrabile alle manomissioni. Procede poi con
una comunicazione interna diretta ai dipendenti
per spiegare l’accaduto e informare sulle azioni da
intraprendere, seguita da una conferenza stampa
via satellite per tenere aggiornata l’opinione
pubblica internazionale. Da notare che, non
potendo far affidamento su una cultura della
crisi che allora non si era ancora sviluppata, J&J
ha agito semplicemente applicando la propria
mission, inscritta in quello che è conosciuto come
Our Credo. Grazie a una gestione immediata
e trasparente della crisi e attraverso un mix di
efficaci azioni strategiche e di comunicazione,
J&J ha recuperato in breve fiducia e credibilità,
oltre che la quasi totalità della propria quota di
mercato.
Caso Mercedes-Benz
Ottobre 1997. A pochi giorni dal debutto ufficiale
della Classe A di Mercedes, la vettura si ribalta
durante il test “Schiva Alce”, effettuato da un
giornalista per una testata specializzata. L’effetto
mediatico è immediato, soprattutto perché
vengono intaccati affidabilità e sicurezza, da
sempre valori di base dell’azienda tedesca.
In una conferenza stampa internazionale,
la dirigenza della Mercedes nega la propria
responsabilità in relazione alla stabilità della
vettura, chiamando in causa l’azienda Goodyear
per gli pneumatici e l’inattendibilità del test. Ciò
genera una crescente indignazione nell’opinione
pubblica internazionale. All’azienda tedesca si
rimproverano: reticenza, slealtà, incapacità
di ascolto delle esigenze del pubblico e poca
propensione al miglioramento del prodotto.
Finalmente, quasi un mese dopo, la svolta:
la direzione della Mercedes, presa coscienza
Caso Perrier
North Carolina, 1990. I tecnici di un laboratorio
statale individuano, nell’acqua minerale Perrier,
140
Comunicazione e crisis management
Caso National Rifle Association
della gravità della situazione, annuncia di voler
sospendere per tre mesi le vendite della vettura
per poterne modificare l’assetto, dotandola
dell’ESP (Electronic Stability Program).
Seguono poi le scuse con il pubblico e
l’ammissione delle proprie responsabilità.
La campagna pubblicitaria per il lancio della
nuova vettura ha il volto del campione tedesco
Boris Becker, la cui carriera fatta di “cadute” e
“risalite” lo rende un testimonial credibile e adatto
a quanto l’operazione intende comunicare. “Chi
non commette errori è forte. Ancora più forte
è invece chi impara dai propri errori”. Questo il
claim del geniale spot tedesco.
Il recupero è stato però tardivo: Mercedes ha
infatti registrato pesanti perdite sia nel 1997 che
nel 1998.
Luglio 2012, Colorado. In un cinema, durante la
proiezione della notte, avviene una sparatoria:
uno spettatore uccide 12 persone e ne ferisce 58.
Il mattino seguente, la National Rifle Association,
lobby in favore della distribuzione delle armi
in USA, attraverso un tweet, augura a tutti una
buona giornata, interrogando l’utenza circa
eventuali programmi per il week end.
Questo tipo di comunicazione, avvenuta a seguito di un
fatto tanto grave, genera lo sdegno dell’opinione pubblica.
Dopo qualche ora, la NRA reagisce scaricando
la responsabilità su un singolo individuo che,
evidentemente, era inconsapevole di quanto
accaduto in Colorado. Non si fa accenno ad
alcuna scusa o alle vittime dell’incidente.
Fig. 1 - Campagna pubblicitaria Mercedes Benz Classe A, anno 1998.
141
Comunicazione e crisis management
Fig. 2 - Tweet di NationalRifleAssociationla mattinasuccessiva alla sparatoria in Colorado
Fig. 3, 4, 5 - Reazioni della community al tweet pubblicato da NRA
causando un disastro ecologico nel Golfo
del Messico. 11 persone perdono la vita e 17
rimangono ferite. Greenpeace e l’opinione
pubblica si schierano immediatamente contro
British Petroleum, responsabile della piattaforma.
Su Facebook viene creata la community “Boycott
BP”, che raggiunge in pochissimo tempo
700.000like. Le proteste si estendono a suon di
commenti e hashtag anche su Twitter e vari blog.
La gestione della crisi sui social media è pessima:
Qualche ora dopo, l’account NRA viene cancellato.
Ciò mostra quanto possa essere rischioso
programmare qualsiasi tipo di comunicazione
senza assicurarsi che il frame nel quale è inserita,
nel frattempo, non sia cambiato.
British Petroleum
Aprile 2010. A causa di una valvola difettosa,
esplode la piattaforma Deepwater Horizon,
142
Comunicazione e crisis management
l’azienda mostra totale chiusura al dialogo con
la community, sottovalutando il potere dei
canali social. Il risultato? Nel giro di due mesi
le azioni BP perdono il 50% del loro valore, per
non parlare della corporate reputation altamente
danneggiata.
da Greenpeace, Nestlé si ritrova invece a dover
porgere le proprie scuse a causa della pessima
gestione dei social network.
Oltre ai casi sopra citati, è interessante analizzare
anche alcune delle migliori best practice nelle
soluzioni di management a situazioni di crisi.
Caso Nestlé
Altro caso di mal gestione degli account social
riguarda Nestlé. Nel 2010 Greenpeace lancia una
campagna accusando la multinazionale svizzera
di provocare la deforestazione in alcuni paesi
tropicali, producendo olio di palma proveniente
da fonti non rinnovabili. Nestlé comunica
prontamente la propria preoccupazione sul
tema, pronunciandosi a favore della lotta contro
la deforestazione, promettendo di usare solo olio
di palma proveniente da fonti sostenibili.
La vera crisi nasce però in seguito, quando
Nestlé inizia a rispondere sgarbatamente ai
commenti negativi da parte degli utenti di
Facebook, generando malcontento e sdegno
nella community. Ecco come, dopo aver gestito
egregiamente la situazione di criticità “sollevata”
Caso La Redoute
Gennaio 2012. Un utente individua un uomo
nudo in una delle foto del catalogo di prodotti
per bambini de “La Redoute”. Il fatto genera
non poco “clamore” nella community e parecchi
commenti ironici da parte degli utenti. L’azienda
decide quindi di sfruttare la situazione a
proprio vantaggio: lancia un contest, basato sul
crowdsourcing, in cui sfida gli utenti a “scovare”
altri errori nel proprio sito web; il vincitore si
sarebbe aggiudicato un total look. Ecco quindi
che, partendo da una criticità, viene messa in atto
una vera e propria operazione di marketing a costo
zero. La Redoute ne ha guadagnato in goodwill
nei confronti dell’impresa, aggiudicandosi più di
100000 fans su Facebook.
Caso FedEx
Fig. 6 - Reazioni della community all’atteggiamento di Nestlé
Un cliente FedEx divulga, tramite YouTube,
un video di una ripresa effettuata dalla propria
telecamera di sorveglianza, che ha filmato
un addetto FedEx consegnare un monitor pc
lanciandolo oltre il cancello di entrata.Il video ha
una diffusione virale.
FedEx, consapevole dei rischi di un’ulteriore
Fig. 7 - Messaggio postato su Facebook da Nestlé in risposta alla campagna di Greenpeace
143
Comunicazione e crisis management
Fig. 8 - Frame del Video “La Redoute (case study)- The naked man”.
Caso Oreo
diffusione, affronta il problema in prima persona,
parlando per voce di uno dei suoi massimi
rappresentanti, attraverso lo stesso canale
utilizzato dal cliente insoddisfatto: YouTube.
L’azienda porge innanzi tutto le proprie scuse,
evidenziando che il dipendente frettoloso non
lavora più in quella posizione.Annuncia inoltre
che il video “incriminato” sarà usato a supporto
della formazione interna sulla cura del cliente,
ribadendo i valori dell’azienda di attenzione
alla qualità del servizio. Diverso invece è il caso
seguente che, sebbene non riguardi un’impresa
in crisi, dimostra come quest’ultima abbia
compreso e saputo sfruttare le potenzialità dei
media digitali:
144
Durante il Super Bowl del febbraio 2013 avviene
un black out che oscura metà delle luci dello stadio
di New Orleans, costringendo la partita a fermarsi
per 34 minuti. L’account ufficiale su Twitterdel
brand Oreo twitta il seguente messaggio: “Power
out? No Problem. You can still dunk in the dark”.
Il tweet, accompagnato da un’immagine del
famoso biscotto, fa riferimento al fatto che anche
stando al buio, si può comunque gustare un
biscotto Oreo. È stato ritwittato 15mila volte nelle
prime 14 ore e la stessa immagine, su Facebook,
ha ricevuto 20mila likes. La genialità dell’idea,
sopraggiunta in modo tempestivo e mirato,
sfruttando la velocità dei social network, ha
trasformato una situazione di disagio legata allo
Comunicazione e crisis management
Fig. 9 - Frame del Video “La Redoute (case study)- The naked man”.
stadio in un plus per Oreo, che ha consolidato
così la propria immagine.
Come appreso dai casi sopra analizzati, se da un
lato l’avvento dei media digitali ha portato delle
sfide maggiori per le imprese, dall’altro però
queste ultime possono sfruttarne alcune funzioni
a proprio vantaggio. Attraverso l’analisi dei big
data, per esempio,si è in grado di apprendere, in
tempo reale, quali sono le conseguenze negative
delle proprie azioni e, quindi, “correggere il tiro”
quando necessario. Si pensi al “Diesel Gate” che
ha coinvolto Volkswagen lo scorso anno: dopo
aver ammesso la frode sui test anti inquinamento,
l’azienda si è scusata per l’accaduto, procedendo poi
con le dimissioni del proprio CEO, Winterkorn.
Attraverso una sentiment analysis è stata poi
in grado di ricevere un riscontro sull’azione
intrapresa: la percentuale di sentiment negativo
nei confronti di Volkswagen è diminuita,
rivelando quindi l’efficacia delle dimissioni a
livello di social media. L’analisi è stata poi estesa
a tutto il gruppo (Audi, Lamborghini, Bentley,
Bugatti, Skoda, Ducati); come chiaramente si
evince dall’immagine, il sentiment negativo ha
interessato solamente Volkswagen. In sintesi si
può affermare senza alcun dubbio che, da un
punto di vista comunicativo, ciò che accomuna
qualsiasi tipo di crisi è la ripercussione negativa
sul rapporto di credibilità e fiducia, presupposto
fondamentale per una comunicazione efficace.
Ciò va a danneggiare la reputazione e l’immagine
dell’impresa con ritorni negativi non solo
sui pubblici esterni, ma anche interni che
145
Comunicazione e crisis management
potrebbero non riconoscersi più nell’azienda che
rappresentano.
Per evitare ciò, e a fronte dei nuovi meccanismi
introdotti dai media digitali, è importante
impostare una comunicazione:
• Tempestiva (entro 12 ore dall’evento) ed il più
possibile esaustiva
• Continuamente aggiornata
• Centralizzata per essere coerente
• Trasparente e fortemente riferita ai valori
etici dichiarati
• Rivolta sia all’interno che all’esterno
• Aperta all’ascolto
Senza questi accorgimenti, il rischio è quello
di ottenere effetti ancora ben più gravi di quelli
apportati dalla crisi stessa.
Francesca Invernizzi
Fig. 10 - Sentiment analysis Gruppo Volkswagen a seguito delle dimissioni di Winterkorn. http://blog.
talkwalker.com/en/crisis-management-volkswagen-social-analytics/
146
Riferimenti bibliografici
Bland M., Communicating out of a crisis, Macmillan Business, London, 1998.
Mitroff I., Crisis Leadership: Planning for the Unthinkable, John Wiley & Sons Inc, 2006.
Poma L.,VecchiatoP., La guida del Sole 24 Ore al crisis management. Come comunicare la crisi: strategie
e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore Libri, 2012.
147
Sezione 4
DALL’ANALISI ALLA PIANIFICAZIONE:
QUALI AZIONI INTRAPRENDERE?
Le ricerche sui media
Tratto dalla lezione di Raffaele Pastore e Silvio Siliprandi
«Il televisore è un contenitore pieno di prodotti. Dentro ci sono detersivi, automobili, macchine fotografiche, cereali
per la prima colazione e altri televisori. Non sono i programmi a essere interrotti dalla pubblicità, ma è il contrario.»
Don De Lillo, “Americana”
Audience tv - Cross platform measurement - Viewability
C’era una volta chi guardava la tv. Oggi c’è chi
guarda la tv e con lo smartphone twitta. Poi c’è
chi guarda la tv sullo smartphone e dal tablet
cerca su Google le ultime uscite in libreria. In
più c’è chi guarda una serie tv sul tablet e con lo
smartphone condivide contenuti su Facebook.
Come si definisce questo pubblico? Risulta
difficile persino stabilire cosa sia una audience,
di fronte a tale indefinito panorama. Come si
determina lo share1 in questo contesto? Tanti
luoghi comuni circa le ricerche sui media sono
oggi da sfatare e, soprattutto, queste ultime
devono affrontare nuove sfide, nuove tipologie
di dati da decifrare che possono restituire,
se adeguatamente ottenuti e letti, aggiornate
mappe e guide della società. D’altronde sono
decine i diversi device a disposizione, altrettante
le piattaforme di accesso ai contenuti mediali,
più di centinaia i contenuti accessibili in
streaming o in asincrono: tutto ciò rappresenta
una sfida ai tradizionali paradigmi di audience
measurement.
1
Lo share è il rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma o in una fascia oraria e il
totale degli spettatori che contemporaneamente stavano usufruendo di altri canali mediante lo stesso media.
149
Le ricerche sui media
Il “post” della televisione. La tv è certamente
(in verità assieme alla radio) uno dei mezzi
di comunicazione di massa più pervasivi, se
non altro per la capacità di adattarsi a formati
sempre nuovi. Un dato, però, può balzare subito
all’occhio: il 4% della popolazione italiana non
ha un televisore. Non è un numero così basso,
peraltro in aumento dell’1% rispetto a 20 anni fa,
gli anni dell’egemonia televisiva incontrastata. La
verità è che la televisione si è spostata ovunque
e anche semplicemente dire “guardare la tv”
o “avere la tv” è oggi poco esaustivo, persino
scorretto. Le ricerche sui media in questo
momento si sviluppano, dunque, su diversi
fronti e naturalmente non riguardano soltanto
la dieta mediale televisiva. Raffaele Pastore,
Direttore Studi e Ricerche di Upa, ci ha restituito
un’ampia panoramica della misurazione
dell’audience in Italia. Sinora abbiamo parlato
soltanto di televisione, mentre in realtà si misura
evidentemente molto altro. Auditel, infatti, si
occupa di mercato televisivo, ma accanto ad
essa (forse la più nota istituzione di rilevamento
dati di ascolto) convivono Audiweb (per quanto
concerne il mondo della rete), Audipress (che
stima il numero dei lettori delle diverse testate),
Audioutdoor (che si occupa delle metriche
per la pubblicità “esterna”) e Audimovie (attiva
invece nella misurazione del medium cinema).
Audiradio è stata soppressa dal 2011, e ad oggi
non è stata sostituita da un ente simile, anche se si
sta lavorando in questa direzione. Nello specifico
Auditel è un “Joint Industry Commitee” (JIC),
organismo a controllo incrociato che riunisce
ogni componente del mercato televisivo:
investitori di pubblicità, agenzie, centri media e
imprese emittenti. Fornire numeri il più possibile
aderenti alla realtà è un modo per monitorare
il successo dei programmi offerti dalle varie
emittenti: ciò è fondamentale principalmente per
la pianificazione degli spazi pubblicitari, senza dei
quali la tv morirebbe in poco tempo. Per misurare
gli ascolti Auditel ha utilizzato il modello della
“famiglia televisiva”, costituita da chi sta in una
determinata casa e può guardare la tv. Oggi si
misurano in tutto 97 canali attraverso un panel
di 5.700 famiglie: per via della frammentazione,
però, sta emergendo che tale panel andrebbe
quantomeno triplicato creando un “superpanel”2
di circa 15.000 famiglie, numero evidentemente
più consono a restituire una immagine il più
fedele possibile del telespettatore italiano. Ciò
non è di fatto ancora accaduto, ma dal 2014 è
stato inserito in agenda. Una quota pari al 23% del
panel, peraltro, deve ruotare almeno per il 23%
all’anno, allo scopo di garantire la “freschezza”
della misurazione e il suo essere un’indagine
campionaria. Auditel deve inoltre preoccuparsi
delle famiglie straniere, delle famiglie senza tv,
dei cosiddetti “extended screen”, dell’analisi della
collocazione e del tipo di tv, nonché del “Time
Shifted Viewing” (TSV)3. Quest’ultimo rileva
gli ascolti differiti rispetto al momento della
trasmissione, per rispondere alle esigenze poste
da una progressiva diffusione delle tecnologie
di registrazione digitale. L’operazione “extended
screen”, invece, è tesa a rilevare gli ascolti su più
piattaforme di trasmissione dell’immagine, in
particolare sui pc, iniettando in quest’ultimo un
meter4 virtuale che restituisce dati di ascolto della
tv sul computer. Il meter costituisce, come per il
televisore, il cuore del processo di misurazione,
registrando le tracce audio del programma che
l’utente sta visionando: le trasforma in una firma
digitale e le trasmette al centro di elaborazione
per il riconoscimento del contenuto (tecnica di
audiomatching). Con 400 canali (198 nazionali
e 182 locali) irradiati dal cielo tramite antenne
e parabole o dal sottosuolo con il cavo, migliaia
di contenuti visti in diretta o differita su pc,
tablet e smartphone, misurare l’ascolto televisivo
rappresenta davvero un’impresa titanica. La tv
http://www.primaonline.it/2014/06/05/185749/nasce-il-super-panel-di-auditel-10mila-famiglie-in-piu/
Ascolti registrati oltre la giornata di messa in onda, vedi http://archivio.youmark.it/article/31478/news-Auditel,-le-nuoveregole-per-l’ascolto-differito---Time-Shifted-Viewing-(Tsv)-youmark
4
“Il meter è un sistema elettronico di rilevamento dell’audience. Si compone di tre elementi: l’unità di identificazione delle
frequenze (Mdu), il telecomando, l’unità di memoria e trasmettitore di informazioni (il meter vero e proprio)”, in Boni M.
I. (a cura di), “L’economia dietro il sipario: teatro, opera cinema, televisione”, EDT, Torino, pag. 141
2
3
150
Le ricerche sui media
sta diventando (o forse è già diventata) social,
ovvero un mezzo la cui fruizione stimola e
genera contenuti su altre piattaforme in modo
sincrono (e non), che si tratti di un tweet, di un
post su Facebook o di un hashtag su Instagram
(solo per citare i social più usati). Audiweb,
invece, fornisce al mercato un sistema integrato
di servizi per la definizione e la misurazione
dell’audience online, offrendo informazioni utili
ai centri media e agli editori per effettuare una
corretta pianificazione e gestione delle campagne
di comunicazione sul mercato. Il sistema di
rilevazione Audiweb ambisce a fornire un dato
obiettivo perché utilizza e integra differenti
fonti di dati: censuari provenienti dai contatori
dei siti, effettivi di navigazione registrati da un
panel rappresentativo della popolazione italiana
e socio-demografici degli individui collegati
provenienti dalla ricerca di base. La ricerca di
base quantitativa sulla diffusione dell’online in
Italia è realizzata in collaborazione con Doxa ed
è basata su un campione di 10.000 interviste face
to face: in questo modo fornisce la percentuale
di popolazione (11-74 anni) con accesso a
internet. I dati vengono integrati con il panel,
una rilevazione oggettiva realizzata attraverso un
software meter che registra la fruizione di internet
di un campione statisticamente rappresentativo
della popolazione italiana (dai 2 anni in su, ma
attenzione: non si può meterizzare il telefonino
di un minorenne), composto da circa 40 mila
panelisti. L’output è il report Audiweb Database,
che rende disponibili tutti i dati sulle navigazioni
degli individui collegati attraverso un computer
da casa, ufficio o altri luoghi, con un livello di
dettaglio molto ampio sui dati socio-demografici
dei navigatori. Sono 4000 le persone meterizzate,
di cui 2.500 online via smartphone e 1.500 con
tablet. Audiweb produce numeri importantissimi
per le aziende perché permette di valutare in
maniera piuttosto univoca, ad esempio, la tanto
chiacchierata “viewability”5. Un banner erogato
su una pagina è realmente visto dall’utente?
Capita a tutti di cercare immediatamente la
“x” per chiudere una pubblicità comparsa in
automatico su una pagina. Bisogna dunque
lavorare ad uno standard che porti dal concetto
di “impression servita” (served impression6) a
5
Effettiva visibilità dei contenuti pubblicitari, vedi www.digital4.biz/marketing/advertising/viewability-e-targeting-comele-metriche-cambiano-la-pubblicita-su-internet_43672157321.htm
6
Le impression vengono definite da uno standard nominato served impression indicante il fatto che sono state registrate
su un Ad server e il conteggio inizia quando l’annuncio stesso è completamente caricato in uno spazio visibile per l’utente
finale.
151
Le ricerche sui media
secondo8.
In Italia UPA e FCP (Federazione Concessionarie
Pubblicità), in rappresentanza diretta del punto di
vista e degli interessi di acquirenti e concessionarie
di spazi pubblicitari online, hanno dato vita a
un documento programmatico congiunto, che
intende fornire un quadro definitorio condiviso
dei concetti relativi alla viewability e indicazioni
pratiche immediatamente utilizzabili dagli
operatori del mercato. La maggior parte della
pubblicità su internet, specie quella monitorata in
Italia, risulta sbagliata perché ancora strettamente
legata a logiche televisive. E poi ci sono altri
evidenti problemi legati alla navigazione
“non umana” sul web: le stime più accreditate
sul fenomeno del traffico artificiale parlano
del 25% del traffico totale in USA e del 45% in
Europa. Il 40% delle unità pubblicitarie erogate
in un giorno medio sono generate, ad esempio,
da meno dell’1% degli utenti unici presenti
in rete: non può che trattarsi di robot, ovvero
“computer in batteria collegati alla rete governati
da software capaci di riprodurre gli schemi di
navigazione di una persona, o di target precisi
di persone”. Una pratica molto diffusa è anche
quella dei site under: quando si apre un sito sotto
se ne apre un altro con video advertising in auto
play senza audio che di fatto produce una visita,
un visitatore unico che ha visualizzato pubblicità.
Infine vi sono tecnologie che permettono di
comprimere intere pagine web in un unico pixel,
pixel site, e questo può essere “nascosto” in una
qualsiasi pagina con qualsiasi altro contenuto,
è praticamente invisibile ma genera traffico,
inconsapevole ma contabilizzato.
quello di “impression visualizzata” (viewable
impression7). Un banner può dirsi realmente
visto se:
1. per la display, il 50% dei pixel del banner viene
visualizzato dall’utente per almeno 1 secondo.
2. per i video, il 50% dei pixel del banner è
visualizzato dall’utente per almeno 2 secondi.
3. per la large display, il 30% dei pixel del banner
viene visualizzato dall’utente per almeno 1
F OC U S
La viewability
«Da quante persone è stato realmente visto il
contenuto pubblicitario che vi ho pagato a peso
d’oro su YouTube?»: questa la domanda che
spesso gli investitori rivolgono a quanti parlano
di viewability (gli svedesi dello IAB tentano di
dare qualche risposta in un documento dal titolo
“Viewable Mobile”9). Chissà se sono più coloro
che “skippano” la pubblicità sul noto portale
di video rispetto a quanti restano a guardarlo.
Ad ogni modo, quasi la metà di tutto il display
advertising non è posizionata dove gli utenti
dovrebbero vederla e solo un banner su due viene
realmente visto, mentre solo un utente su mille ci
clicca. Google a questo proposito ha pubblicato
un documento dal titolo evocativo, “L’importanza
di essere visti”, mentre Facebook ha lanciato una
sezione in cui narra le storie di successo, ovvero
quelle che vedono protagoniste le aziende che,
scegliendo di promuovere campagne advertising
sul social di Zuckerberg, hanno avuto un gran
ritorno in termini di ROI e conversioni. Se solo si
arrivasse alla radice esatta del termine, risulterebbe
quantomeno evidente che si tratta di una parola
composta: “view” e “ability”, ovvero l’abilità di farsi
vedere. I più bravi sono indiscutibilmente i più
abili a mettersi in mostra. Il concetto di impression
è dunque quasi da mandare in cantina, se è vero
quanto afferma Google, cioè che il 56.1% delle
impression non è visto dagli utenti.
Veniamo ad Audipress. Si tratta di una società
promossa nel 1992 dall’Upa (Utenti Pubblicità
Associati), da Assocomunicazione e dalla Fieg,
(la Federazione Italiana Editori Giornali) sul
modello dell’Auditel televisivo, per raccogliere
e pubblicare dati sulla diffusione della stampa
Si definisce viewable impression lo standard che conteggia le impression quando sono visibili per non meno del 50%
all’utente e per almeno 1 secondo.
8
http://measurementnow.net/what-is-3ms/#.V1aSe_mLTIU
9
iabsverige.se/wp-content/uploads/FAQ_IAB_Viewable_Mobile2016.pdf
7
152
Le ricerche sui media
77 minuti al giorno: è il secondo maggior
tempo impiegato dopo quello davanti alla
tv e questo fa delle smart cities un medium a
tutti gli effetti. Affissioni gigantesche su alcuni
dei monumenti più in vista della città, schermi
al centro della piazza principale, manifesti alla
banchina della metropolitana o alla fermata
del tram. Si può misurare tutto questo. Lo fa
Audioutdoor, la prima metodologia di ricerca al
mondo che utilizza il rilevatore satellitare GPS
per la stima della audience dell’affissione. Questa
ricerca integration data riesce a coprire quattro
nuovi ambienti: la dinamica, gli aeroporti,
le metropolitane e le autostrade. In fondo il
concetto di “fuori casa” è cambiato, sia dal punto
di vista del numero – e della qualità – dei punti
di contatto con il consumatore, sia dal punto di
vista del tempo di esposizione, stimato oggi a
quasi 2 ore al giorno con punte, per alcuni target,
oltre questa soglia.
Molte incipienti tecnologie provano sin d’ora a
“riconoscerci”: microcamere nelle grandi stazioni
che provano a stimare il numero di persone (e
loro caratteristiche) che rimangono a guardare
un video sullo schermo, schermi intelligenti che
italiana. Fornisce i dati di lettura dei quotidiani,
dei supplementi di quotidiani, dei settimanali
e dei mensili, oltre alle informazioni sociodemografiche dei lettori, per 125 testate
attualmente in rilevazione. Dal 2014 l’indagine
rileva la lettura complessiva della testata nelle
sue diverse versioni, cartacea e digitale. Per
l’ultima rilevazione in ordine di tempo di
maggio sono state eseguite 47.308 interviste
personali su un campione rappresentativo della
popolazione italiana di 14 anni e oltre, condotte
con il sistema CAPI Doppio Schermo, lungo
un calendario di rilevazione di 38 settimane
complessive, dal 7 aprile 2015 al 27 marzo 2016.
Audipress rappresenta chiaramente la maniera
più trasparente per confrontare tiratura e lettura
dei giornali.
Quando siamo fuori casa (“out of home”, OOH),
invece, cosa succede? Non si spengono mai del
tutto gli schermi e intorno a noi non abbiamo
soltanto architetture naturali ed artificiali. Le
città, anzi, oggi sono sempre più agglomerati
urbani interconnessi e intelligenti dove il tempo
speso dai cittadini a percorrerle è di oltre
153
Le ricerche sui media
ci mostrano soltanto quanto è affine ai nostri
gusti. Il futuro sembra ora, invece deve ancora
venire.
Ci si chiede spesso se dati empirici supportano
la vulgata secondo cui i comportamenti degli
ultracinquantenni differiscono molto da
quelli dei ventenni, specie se ci si riferisce alla
questione digitale, al consumo mediale, o più
“semplicemente” a come si guarda l’advertising,
la pubblicità sempre più ubiqua. La verità,
così come illustrato anche da Silvio Siliprandi,
amministratore delegato di Gfk Eurisko, è che
digital si nasce, ma digitali si diventa.
E questo è dimostrato per di più dal fatto che
la fascia di popolazione tra i 14 e i 34 anni fa
sostanzialmente le stesse cose su internet della
fascia degli ultracinquantacinquenni. Forse anche
perché le barriere psicologiche di inadeguatezza
da digitale si stanno fortemente erodendo:
solo il 63% degli ultracinquantacinquenni oggi
ritiene di non saper stare al passo con i tempi,
mentre la percentuale era più alta di 10 punti 5
anni fa. Dire che la società sta cambiando risulta
ora persino retorico, perché è già cambiata. Gli
stimoli ci arrivano da ovunque, ma il tempo
a disposizione per goderne rimane invariato.
Mentre la crossmedialità cresce sempre più, la tv
continua ad assorbire la maggior parte del time
budget. Forse occorre ammettere che, tra tutti
i media, la televisione ha avuto il coraggio di
rimettersi in discussione, di cambiare, e questo
l’ha premiata considerato anche il fatto con
l’evoluzione della società cresce l’attenzione per i
contenuti, piuttosto che per i contenitori. Come se
dicessimo infine: non c’importa dove guardiamo
queste potentissime immagini, l’importante è
che siano immagini e potentissime.
Simone Di Biasio
154
Le ricerche sui media
Riferimenti bibliografici
Capecchi S., L’ audience «attiva». Effetti e usi sociali dei media, Carocci, 2015.
Colletti G. e Materia A., Social TV. Guida alla nuova tv nell’era di Facebook e Twitter,
Il Sole 24 Ore, 2014.
Vaccaro C., Native advertising. La nuova pubblicità. Amplificare e monetizzare i contenuti online,
Hoepli, 2016.
155
Lo scenario del mercato
dell’advertising
Tratto dalla lezione di Alberto Dal Sasso
«La tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato l’industria televisiva da semplice e locale
a complessa e globale.»
Media - Advertising - Ricerche di mercato
L’area Buy comprende anche Bases, una società
che Nielsen ha acquistato circa dieci anni fa e che
si occupa di modellistica previsionale.
In pratica Bases, seguendo un approccio
statistico, mette a sistema le informazioni più
disparate per identificare eventuali problemi
in fase di lancio, fornire supporto nei pre lanci,
capire il tipo di impatto che il prodotto potrebbe
avere sul mercato. Per fare tutto questo vengono
inseriti precisi parametri di riferimento, che
possono essere raggruppati nelle note quattro
P2 di Kotler. Successivamente vengono effettuate
delle simulazioni di successo di un prodotto
cambiando questi parametri e definendo dove si
intende lanciare il prodotto sul mercato. L’ultima
attività che rientra nella macro area legata al Buy
è la In Store Observation, vale a dire il marketing
all’interno dei punti di vendita. Ci si occupa
di capire e osservare come è più opportuno
posizionare i prodotti a scaffale e come lo fanno
i competitor.
La seconda macro area di azione in cui opera
Nielsen è denominata Watch.
Si tratta dell’area storica dell’azienda che mentre
in passato aveva un peso pari al 40% oggi ha
raggiunto il 60% grazie al forte sviluppo che
ha avuto e continua ad avere l’innovazione nel
mercato dei media.
Lo studio dello scenario mediale aiuta le imprese
a conoscere la situazione futura e quindi a capire
come vi dovranno operare, se cioè saranno necessari dei cambiamenti, se si dovranno prendere
delle decisioni e/o attivare nuovi interventi di
comunicazione.
Per fare questo Nielsen offre, da moltissimi anni,
due tipologie di servizio suddivise in due macro
aree di azione, vale a dire l’area Buy e l’area Watch.
Nella prima rientrano il Consumer e Retail
Tracking, che misura ciò che accade nei punti di
vendita in termini di quote di mercato, copertura
ponderata e numerica, pressioni promozionali,
con l’obiettivo di dare un feedback concreto
delle performance aziendali rispetto a quelle dei
propri competitor, prendendo a riferimento i
dati aziendali di sell in e sell out.
La Consumer Research permette di capire, nel
momento in cui un prodotto esce da scaffale,
chi lo ha acquistato. Per raggiungere questo
obiettivo, Nielsen ha costruito un panel composto
da circa 4000 famiglie, che in modo costante
e continuativo, attraverso una penna ottica,
scansionano i codici EAN1 in totale autonomia
trasmettendo queste informazioni ai server
della società. Una volta che queste indicazioni
arrivano in azienda si potrà sapere chi acquista e
chi consuma il tipo di prodotto in questione.
1
Il codice EAN (European Article Number) è una famiglia di codici a barre usata per la marcatura di prodotti destinati
alla vendita al dettaglio.
2
Product, Price, Promotion, Place
156
Lo scenario del mercato dell’advertising
Fig. 1 - Source Qualcomm (4,700 respondents online / 300 by phone)
poiché sono in grado di connettersi a più dispositivi tecnologici contemporaneamente ed essere
sempre aggiornati su tutto.
In questo scenario è cambiato anche il processo
di acquisto dei prodotti. Infatti, mentre tanto
tempo fa il marketing sapeva come e dove far
trovare il prodotto giusto al cliente giusto, oggi le
personas3 hanno cambiato il modo di fare acquisti
preferendo, ad esempio, la modalità online.
È chiaro, però, che non tutti sono proiettati verso
questo nuovo approccio d’acquisto, tutto dipende
da una serie di variabili come l’età, lo stile di vita
e il proprio status sociale.
Ecco allora che il mercato è diventato
estremamente complesso e allo stesso tempo
ricco di novità.
Oggi il problema che si stanno ponendo molte
società come Auditel4 è chiedersi come misurare
il cambiamento delle modalità di fruizione dei
mezzi di comunicazione e, in particolare dei
video, da parte delle persone.
Anche perché il video on demand ha cambiato
totalmente la possibilità di fare business da
In particolare, in questa area, la società si occupa
di misurare i trend pubblicitari (ovvero dove le
aziende investono e in che percentuale lo fanno);
le audience web e tv; gli indici di misurazione
online attraverso l’incrocio di informazioni
derivanti dal web e dal mobile.
Secondo un’indagine condotta da Qualcomm,
che risale a un paio di anni fa, circa il 16% delle
persone tiene il proprio smartphone in camera
da letto e il 68% ha confermato di tenerlo nel
letto. Mentre solo il 13% ha risposto di tenere il
proprio cellulare in qualunque posto.
Si tratta di un’informazione importante che
suscita una serie di riflessioni. Prima fra tutte il
fatto che nella società attuale tutto cambia molto
velocemente, soprattutto le abitudini e il ruolo del
consumatore, che ha acquisito un potere molto
più forte rispetto al passato, grazie ai diversi
device di cui oggi dispone e attraverso i quali può
ottenere una grandissima mole di informazioni.
Basti pensare che se nei primi anni Novanta si
navigava in rete quasi esclusivamente da desktop,
oggi le persone sono sempre più multichannel,
3
Si definiscono “personas” archetipi di utenti creati per offrire una maggior comprensione del target a cui s’intende
rivolgere la propria offerta.
4
Auditel è la società che si occupa della rilevazione dei dati di ascolto televisivo.
157
Lo scenario del mercato dell’advertising
parte delle aziende. Infatti fino a ieri sull’online
si pianificava attraverso degli ad server, mentre
sulla tv lineare era opportuno fare delle stime in
funzione del prodotto editoriale per raggiungere
il consumatore con dei break.
Oggi invece, grazie al programmatic5 è possibile
che non tutti vedano lo stesso annuncio
pubblicitario, mentre nel caso della tv lineare
ciò non succede perché il commercial è lo stesso
per tutti coloro che stanno guardando lo stesso
programma.
Negli Stati Uniti, un over the top della tv online
come Netflix6 sta scardinando il classico modello
pubblicitario in quanto di fatto non necessita di
misurazione delle audience televisive perché il
suo modello di rating è legato alle sottoscrizioni.
Per quanto riguarda l’Italia nel 2000, fino
all’arrivo di Sky venivano misurate solo sette
emittenti. Oggi ne esistono circa 250 e questo ha
dato origine a una forte complessità di gestione.
Le prime emittenti sono reputate le più
importanti in termini di raccolta pubblicitaria,
anche perché tutte quelle che si sono aggiunte
vantano un’audience più bassa.
Gli investimenti pubblicitari in Italia
Dopo gli ultimi anni, durante i quali l’Italia è stata
colpita da una pesante crisi economica che ha
avuto ripercussioni negative sugli investimenti
pubblicitari, nel 2015 quest’ultimi sono tornati a
crescere, facendo ben sperare in un’uscita dalla
crisi e in un consolidamento della crescita nel
corso del 2016. Basti pensare che in anni come
il 2009 e il 2012 il mercato pubblicitario ha
registrato una perdita pari al 10-15%, (come è
accaduto tra il 1997/98, ndr.), perdendo un terzo
della propria dimensione dal 2008 al 2014.
Fig. 2 - Investimenti pubblicitari in Italia negli ultimi 25 anni
Il Programmatic è un processo tecnologico utile per acquistare e vendere pubblicità digitale, ed è orientato ad una più
efficiente attività di advertising, sia in termini di ottimizzazione dei costi, sia in termini di coinvolgimento del target
6
Netflix è una società statunitense che offre un servizio di noleggio di DVD e videogiochi via Internet e anche un servizio
di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento
5
158
Lo scenario del mercato dell’advertising
Risulta interessante anche il dato relativo agli
investimenti pubblicitari netti osservati dal 1972
al 2015 sui diversi mezzi di comunicazione.
Nel dettaglio, si può notare come, se negli anni ’70
la stampa copriva circa il 60% degli investimenti
pubblicitari, pian piano si è registrato un lento
decremento, a differenza della TV e della radio
che hanno resistito ai cambiamenti nonostante
l’entrata dei nuovi mezzi di comunicazione
digitale.
Fig. 3 - Investimenti pubblicitari e mezzi
Queste indagini legate all’andamento dei media
servono anche per capire dove e come le aziende
si muovono nel mercato di riferimento dato uno
specifico asse temporale.
Ad esempio tra i dieci settori top spender dal
2005 al 2015 si è registrata una lieve crescita
degli investimenti pubblicitari da parte della
distribuzione e dei farmaceutici.
Fig. 4 - Investimenti pubblicitari e settori
159
Lo scenario del mercato dell’advertising
La costruzione di questa banca dati avviene
partendo dal singolo spot, monitorando ogni
volta che viene lanciato un nuovo spot da una
determinata azienda. Si pensi ad esempio a
Levissima.
Levissima, insieme agli altri brand di acque
minerali, ogni giorno investe una certa cifra
per ogni singolo spot. L’investimento di quella
giornata legato alle acque minerali, come classe
di prodotto, rientra nell’investimento totale del
settore “largo consumo”.
Quindi ogni singolo spot insieme agli annunci
e a tutte le altre informazioni di cui si dispone
vengono valorizzati a lordo e a netto (sconto
stimato mese per mese, ndr.) e si costruisce
la banca dati per settore, categoria e classe di
prodotto. Facendo il percorso a ritroso, se si
mettono insieme tutti i prodotti di largo consumo
si potrà capire quanto vale e a quanto ammonta
il fatturato sia generale che dettagliato del macro
settore di riferimento.
Tutto ciò permette di analizzare anche le
singole campagne di comunicazione e di
avere tutte le informazioni inerenti la strategia
di comunicazione dei competitor. Inoltre
aggiungendo i GRP, che derivano dal dato Auditel,
si potrà sapere da una parte a quanto ammonta
l’investimento e dall’altra a quanto ammontano
i GRP rispetto al benchmark di mercato che il
centro media può costruire.
Pertanto il cambiamento tecnologico, che fa sì
che tutto si espanda in milioni di dati diversi,
permette, a chi lavora in istituti di ricerca, di fare
sempre più sistema.
F OC U S
L’acronimo GRP sta per Gross Rating Point. Il GRP
misura la qualità di comunicazione prodotta da un
piano mezzi sul suo target group e, più in generale,
è utile per confrontare piani media diversi. È dato
dal rapporto percentuale tra il numero di contatti
lordi realizzati dal piano rispetto a un determinato
target e l’entità stessa del target; in alternativa,
può essere calcolato moltiplicando la copertura
ottenuta (percentuale raggiunta del target) per
la frequenza media (numero di volte in cui gli
individui del target sono esposti al messaggio).
Veronica Fanello
160
Lo scenario del mercato dell’advertising
Riferimenti bibliografici
Sisti A., De Nardis A., Pavone L., La pubblicità del futuro. Programmatic Buying e Real Time Bidding
per comunicare in tempo reale, Hoepli, 2015.
Kotler P., Marketing management, Pearson, 2014.
161
IL MEDIA PLANNING
INTEGRATO
Tratto dalla lezione di Luca Marinaro
«Se l’efficacia della pubblicità dovesse essere misurata sulle vendite a breve termine, è probabile che avrebbe vita breve, perché
sembrerebbe inutile. Ma se un’azienda smettesse di investire in campagne pubblicitarie nel medio e lungo termine vedrebbe impoverito il proprio marchio e sicuramente il fatturato ne risentirebbe»
MEDIA AGENCY - TOP OF MIND - MODELLO POE
Cosa fa una Media Agency
per il ruolo dei centri media la presenza di un
potenziale conflitto di interessi.
In che senso?
Le agenzie media per la loro intermediazione
non solo ricevono un agency fee dall’advertiser,
ma anche un compenso dai media owners in
funzione degli spazi venduti. Anzi, ultimamente
è questa seconda voce a rappresentare l’entrata
più significativa per le agenzie media. Ma queste
ultime dovrebbero anteporre gli interessi delle
aziende advertiser e, quindi, acquistare spazi
pubblicitari in funzione del raggiungimento dei
potenziali consumatori dell’azienda e non dei
compensi ricevuti dai media owner.
La struttura di tale modello di business e
la sua relativa potenziale ambiguità però si
riscontrano anche in altri settori, laddove sussista
un’intermediazione.
Per fare un esempio: anche i supermercati
guadagnano sia dal consumatore che compra i
prodotti, sia dalle aziende che pagano per avere
i propri prodotti esposti.
Il mondo della comunicazione può essere inteso
come un mercato che, globalmente, ha una
portata di 8 miliardi di euro. L’80% di questa
somma è concentrato in 5 holding multinazionali
di pubblicità quotate in borsa, e cioè Wpp,
OmnicomGroup, PublicisGroupe, Ipg e Dentsu.
Tali grandi agglomerati, cresciuti per acquisizioni,
agiscono poi mediante diverse agenzie.
Che ruolo ha in questo scenario un’agenzia media?
Quello di gestire una transazione fra il media
owner1 e l’advertiser2. In questo modo, il media
owner mette a disposizione i propri spazi
all’advertiser che li utilizza, dietro pagamento di
un compenso, per raggiungere i propri potenziali
consumatori.
In questa relazione l’agenzia media, come
anticipato, gestisce la transazione, perché ha
mandato da parte dell’azienda ad acquistare tali
spazi, dietro pagamento di un cosiddetto agency
fee. Tale compenso può avere natura fissa, sulla
base dei semplici costi di gestione, percentuale, se si
basa sul volume degli investimenti dell’advertiser
o, ancora, su obiettivi-performance.
Il modello di business è piuttosto complesso
e presenta elementi di ambiguità, almeno nel
nostro Paese dove, nel tempo, si sono prodotti
effetti distorsivi del mercato che hanno generato
La comunicazione è un mercato:
struttura ed evoluzione
Se il 2012 è stato l’annus horribilis per il mercato,
il 2016 sembra essere quello di una (timida)
ripresa: il Pil dovrebbe assestarsi intorno al
Media owner: tipicamente un editore che raggiunge un’audience mediante la propria attività editoriale.
Advertiser: azienda che ha interesse a pubblicizzare il proprio prodotto.
1
2
162
Il media planning integrato
nascita della tv on demand.
Organizzare una campagna pubblicitaria
che realizzi grandi numeri diventa così assai
complesso: se solo una decina d’anni fa bastava
mandare uno spot in prima serata, ora è
necessario realizzarne numerosi e pianificare
così sulle centinaia di emittenti esistenti.
+1,3%, aumento dovuto a una leggera ripresa dei
consumi.
E il mercato pubblicitario?
Il dato più rilevante è relativo alla crescita degli
investimenti online che, secondo una stima,
quest’anno varrebbero il 26,24% del mercato
(nel 2012 erano al 18,22%), mentre continua
il trend negativo della stampa: quotidiani e
periodici insieme raggiungerebbero circa il
15% (nel 2012 erano al 22%).
Dal canto suo la radio mostra una certa
stabilità: quasi al 6% da 4 anni.
La televisione resta leader, con il 47,28% del
totale degli investimenti ma sta comunque,
anno dopo anno, perdendo terreno. I principali
player televisivi continuano a essere Rai e
Mediaset che, insieme, rappresentano il 70%
dello share medio giornaliero. Interessante
il dato secondo cui Mediaset, pur ottenendo
circa il 25% dello share, raccolga il 58% degli
investimenti in tv.
Emerge dunque che la quota di internet ha
superato il totale stampa, diventando il secondo
mezzo in termini di raccolta pubblicitaria: un
dato particolarmente interessante è quello
relativo ai video online, che raccolgono il
18,5% del totale degli investimenti online.
Ma come sarà la tv del futuro?
Due tentativi di definizione possono illuminare
sull’argomento.
Secondo Tim Cook, Ceo di Apple, «La tv è una
app, completamente interattiva e interconnessa.
Con accesso ad AppStore, un telecomando
touch capace di leggere il movimento, una TV
che si comanda anche con la voce».
Per Reed Hastings, Ceo di Netflix, «La tv del
futuro sarà un grande Ipad: uno schermo
connesso in cui i canali saranno rimpiazzati
dalle applicazioni e ognuno potrà scegliere di
vedere quello che vuole, quando lo vuole».
Un altro fenomeno degno di nota è quello
della social tv, che realizza un’integrazione
tra tv e internet: si creano, cioè, sui social
network community istantanee di commento
relative a programmi televisivi. In Italia questa
pratica coinvolge 6,8 milioni di persone
(molto successo in questo senso lo ha avuto il
programma XFactor).
E chi spende di più in pubblicità?
Sembrerebbe che il settore alimentare si
collochi al primo posto, con uno share del
14,7%, l’automotive si attesterebbe al 10,3%,
mentre l’ultimo gradino del podio spetta alla
distribuzione, con un 6,6%.
Da sottolineare due dati assai significativi:
rispetto al totale della popolazione, la fascia
di età che va dai 18 ai 34 anni trascorre più
tempo su internet, soprattutto attraverso
dispositivi mobili, e nel digitale video e
social sono le categorie che continuano a
registrare le performance migliori anno su
anno.Cresce la frammentazione dell’audience
perché è aumentata l’offerta: basti pensare
alla moltiplicazione dei canali televisivi e alla
Fig. 1 - Il fenomeno della social tv
Da una ricerca di Eurisko New Media i
programmi TV che vengono più seguiti
mentre si naviga su internet sono per il
39,1% quelli di intrattenimento, per il 30,3%
163
Il media planning integrato
Fig. 2 - La social tv coinvolge in Italia circa 6,8 milioni di persone
Come si misura l’efficacia
di una campagna pubblicitaria
quelli di attualità, mentre i telegiornali sono
al 29,8%.
Per quanto riguarda la stampa, si è notato
come le testate giornalistiche autorevoli
abbiano avuto successo nella digitalizzazione
dei propri contenuti: i media brand più
riconosciuti infatti generano traffico online.
Un’azienda che investe in pubblicità si aspetta dei
risultati, intesi come ritorni sugli investimenti
(ROI): esistono diversi gradi di questo ritorno,
a ciascuno dei quali corrispondono variabili
possibili da misurare e correlare all’investimento
pubblicitario.
Il primo, definito grado zero, è il presupposto per
gli altri e rende conto di quanti soggetti sono stati
esposti alla campagna pubblicitaria. Le misure
dell’esposizione possono essere calcolate in diversi
modi, ad esempio in contatti: si può trattare di
contatti lordi, che misurano quante volte un
annuncio è stato visto, indipendentemente dal
numero di persone esposte, di contatti netti
che, invece, esprimono il numero di persone
esposte all’annuncio almeno una volta e di Grp4,
che rappresentano i contatti lordi in rapporto
all’entità del target.
La prospettiva generale?
È probabile che, essendo tutti sempre più
connessi al web, sarà possibile erogare
pubblicità su misura per l’abbonato.
Tuttavia, resta ancora da risolvere il
problema dell’Ad-Blocking, che è sempre
più adottato dagli utenti per bloccare la
pubblicità 3.
Ora come ora, comunque, per quanto la
pubblicità sul web continui ad aumentare,
la televisione permane ancora in termini
generali il mezzo più efficace sul quale
realizzare una campagna pubblicitaria.
Adblock: si tratta di un plugin per il browser internet che fa da filtro alla pubblicità. In altre parole blocca
(non fa visualizzare) qualsiasi annuncio che si potrebbe trovare sul web (come i pop-up, la pubblicità prima
dei video di YouTube, la pubblicità di Google…).
4
I Grp possono essere calcolati dividendo i contatti lordi per l’entità del target e moltiplicando il tutto per
cento.
3
164
Il media planning integrato
indicatore al digital classico come, ad esempio, la
copertura dei post su Facebook: tali misuratori
tendono sostanzialmente a restituire i tassi di
coinvolgimento degli utenti.
F OC U S
Fenomeno del doppio schermo
Secondo una ricerca di Eurisko New Media sempre
più persone utilizzano la TV e il tablet (e/o lo
smartphone) contemporaneamente. In Italia sono
11,9 milioni (36,2%) il numero di utenti internet
che navigano da casa e allo stesso tempo guardano
la tv: si tratterebbe di una pratica effettuata in
media 5-6 volte alla settimana, con una durata di
58 minuti medi a sessione.
Il 39 per cento delle persone che effettuano questa
pratica guardano la TV e nel frattempo un
computer, il 44% lo smartphone mentre il 14% un
tablet.
Il secondo gradino per misurare l’efficacia della
pubblicità è costituito dalla risposta cognitiva:
cosa ricorda del marchio chi ci è entrato in contatto
attraverso la campagna pubblicitaria?
Per rispondere a questa domanda il mezzo classico
è quello delle interviste, per lo più effettuate
online. Si comincia con il definire la categoria
di riferimento (alimentare, automotive…) e poi
si chiede: «qual è la prima marca della categoria
x che le viene in mente?» La risposta definisce il
cosiddetto top of mind, cioè la marca “forte” che
la persona ha in mente in riferimento a quella
determinata categoria.
La seconda domanda («Oltre a questa, quali altre
marche ricorda?») definisce la brand awareness
spontanea, la terza («ricorda di aver sentito la
marca y?») quella sollecitata. La somma di queste
ultime viene chiamata brand awareness totale. Se
la marca per cui è stata realizzato la campagna
rientra in una di queste tre risposte è probabile
che la marca stessa sia nel paniere degli acquisti
della persona intervistata.
La stessa operazione si effettua sull’efficacia della
pubblicità in sé al fine di valutare l’attinenza del
ricordo con la marca pubblicizzata.
Un altro modo per calcolare la misura
dell’esposizione è la copertura (o reach
percentuale) che misura la percentuale del
target esposta alla campagna pubblicitaria e si
rappresenta con il rapporto percentuale tra i
contatti netti e l’entità del target.
Infine c’è la frequenza5 (o OTS, “opportunity to
see”), cioè il numero medio di volte in cui un
individuo è stato esposto al messaggio.
Nel mondo digital esistono poi specifici indicatori
di prestazione chiave (KPI), parametri con i
quali misurare una campagna di web marketing.
Essi si distinguono a seconda degli obiettivi della
campagna: se quest’ultima mira a quantificare
l’esposizione, allora tali indicatori saranno
sostanzialmente identici a quelli delle campagne
tradizionali con qualche piccola distinzione
terminologica (ad esempio i contatti lordi
si chiamano impression). Se, però, l’obiettivo
è la misurazione dell’azione, allora saranno
importanti il numero di click, il click through rate
(CTR, quanti acquisti rispetto ai click), e i cost
per click (CPC), giusto per fare qualche esempio.
Il terzo gradino è costituito dalla risposta
affettiva che le persone danno: ciò serve a capire
se la campagna pubblicitaria è stata in grado di
spostare l’opinione e/o di modificare il percepito.
Uno degli strumenti che si possono utilizzare a
questo scopo è l’analisi del pre e del post campagna
pubblicitaria sugli attributi d’immagine che gli
intervistati danno alla marca, o sull’intenzione
all’acquisto.
Il quarto e ultimo gradino si riferisce, invece, alla
risposta comportamentale: la campagna ha fatto
vendere oppure no?
Ad articolare ulteriormente il panorama ci sono
le metriche social, che aggiungono qualche
La frequenza si calcola dividendo i contatti lordi con quelli netti.
5
165
Il media planning integrato
Fig. 3 - Un esempio di analisi sugli attributi d’immagine
Strategia
e comunicazione integrata
Tale ultima fase si misura soprattutto attraverso
le vendite, ma è assai complesso, se non
impossibile, instaurare un nesso di causalità
diretto tra campagna e aumento del sell out.
Questo perché troppe sono le variabili che
intervengono, basti pensare ad esempio alle
promozioni che, da sole, spiegano spesso gran
parte delle vendite. Ma poi anche il prezzo, i
competitor, la distribuzione.
E quindi? Se ne deve forse dedurre l’inutilità della
pubblicità?
Già John Wanamaker circa un secolo fa dichiarò:
«So che metà dei soldi che spendo in pubblicità
è completamente buttata via. Il problema è che
non so quale metà sia».
Ciò a significare che, se viene valutata l’efficacia
della pubblicità sulle vendite a breve termine,
è probabile che non ne emergerebbe l’utilità.
Ma se un’azienda smettesse di investire in
campagne pubblicitarie, nel medio e lungo
termine vedrebbe impoverito il proprio marchio
e sicuramente ne risentirebbero le vendite.
Cosa fa un’azienda quando vuole comunicare?
È essenziale pianificare la comunicazione.
In primo luogo è necessario definire il
posizionamento che si vuole ottenere, cioè il
che cosa dire a chi e, poi, la strategia vera e
propria che si divide in strategia creativa (come
dirlo), e media (dove dirlo), passando per la
temporizzazione (quando, per quante volte e
per quanto tempo comunicare). Salvo che nella
strategia creativa, l’agenzia media è presente in
tutte le altre fasi della campagna.
In ultima analisi è ovviamente necessaria la
verifica dei risultati poiché, se tale struttura era
sicuramente valida in un ecosistema di mezzi di
comunicazione “classici”, ora che l’universo della
comunicazione si è fatto più complesso sono
necessari schemi diversi.
Tra questi è ormai consolidato il modello che
166
Il media planning integrato
classifica i mezzi secondo tre categorie: pagati,
di proprietà e guadagnati;il cosiddetto modello
POE (Paid-Owned-Earned).
isolare le diverse finalità della comunicazione
e definire le consumer experience in grado di
determinare il successo.
Paid media: sono gli spazi pubblicitari a
pagamento che garantiscono la presenza in
un contesto determinato (come gli spot TV) e
rappresentano la tipologia che più si avvicina
ai mezzi classici. Sono il primo contatto con il
consumatore, quello che in primis attira la sua
attenzione generando awareness. Anche se la
maggior parte dei consumatori ammette il basso
livello di fiducia in confronto alla TV, radio o
stampa, questa tipologia di advertising è mirata,
e integrata nel modo corretto genera un impatto
immediato.
Le richieste del consumatore rispetto al prodotto
commerciale sono:
1. Conoscenza;
2. Emozione;
3. Spiegazione;
4. Acquisto;
5. Uso;
6. Legame;
7. Parlare.
Di conseguenza le azioni che il brand dovrà
mettere in atto rispetto alle esigenze del
consumatore sono le seguenti:
1. Informazioni generali;
2. Coinvolgimento emotivo;
3. Aiutare nella scelta;
4. Convertire in azione;
5. Massimizzare l’esperienza;
6. Premiare gli utilizzatori;
7. Facilitare Wom6
Owned media: sono i canali di proprietà costruiti
dal brand dove si ha il completo controllo
di ciò che si pubblica (sito web, pagina FB).
Hanno lo scopo di creare coinvolgimento con il
consumatore e diventare una sorta di punto di
riferimento, un luogo controllato completamente
dal brand che racconta e trasmette i propri valori
creando engagement e informando allo stesso
tempo.
La Touchpoints ROI Tracker è una metodologia
di ricerca progettata per identificare il contributo
di ogni forma di contatto fornendo metriche in
grado di quantificare e rendere comparabili i
contatti paid, owned ed earned.
Il potenziale influenzante di ogni singolo
touchpoint, nell’ambito di una categoria
merceologica (combinando componenti razionali
ed emotive) e la Brand Association che identifica
il diverso utilizzo dei touchpoints da parte delle
marche mostra punti di forza e debolezza nel
marketing mix.
Esistono poi una Touchpoint Influence che
identifica l’influenza relativa di ciascun
Touchpoint sulla decisione d’acquisto nella
categoria, una Brand Recall in Touchpoint da cui
si può evincere la percentuale di consumatori che
ricorda ciascun Brand per ciascun Touchpoint e
una Brand Experience Point che è il contributo
Earned media: sono i cosiddetti canali
guadagnati, il valore aggiunto generato dalle
conversazioni degli utenti che diventano il canale
stesso (traffico nel sito, contenuto commentato e
condiviso, fan page, i contenuti user-generated).
La gestione della comunicazione integrata si
sviluppa lungo quattro direttrici:
1. Definire gli obiettivi attraverso il Consumer
Pathway;
2. Misurare l’efficacia dei mezzi attraverso i
Touchpoints Roi Tracker;
3. Definire l’architettura del piano attraverso la
Brand Experience Map;
4. Misurare i risultati con il supporto dell’Analisi
Pre-Post, detta anche Modellistica.
Il Consumer Pathway rappresenta il metodo per
Nell’ambito del marketing il passaparola (indicato con l’espressione word of mouth) indica il diffondersi,
attraverso una rete sociale, di informazioni e/o consigli tra consumatori.
6
167
Il media planning integrato
Fig. 4 - Il Consumer Pathway
relativo di ciascun Touchpoint alle vendite di una
specifica marca.
La Brand Experience è la sintesi di potenziale
influenzante e brand association e può essere
calcolata, per ogni singolo contatto e brand,
come prodotto aritmetico delle 2 metriche. Può
essere anche espressa sotto forma di percentuale
ed è calcolata rispetto al totale di esperienza di
marca prodotto dalla categoria di riferimento.
Un’elevata associazione ai contatti più
influenzanti consentirà un risultato complessivo
(in termini di esperienza di marca sviluppata)
più elevato.
Gianluca Torti
168
Il media planning integrato
Riferimenti bibliografici
Meroni V., Pianificare la pubblicità. Manuale delle tecniche più avanzate di comunicazione, pianficiazione
pubblicitaria e verifica dei risultati, Editore Franco Angeli, Milano, 2003.
Ferraresi M., Mortara A., Sylwan G., Manuale di teorie e tecniche della pubblicità, Carocci Editore,
Roma 2009.
Brioschi E.T., Dalla pubblicità alla comunicazione d’azienda. Problematiche, metodologie e questioni
aperte, Vita e Pensiero, Milano, 2013.
Bonori V., Tassinari G., Misurare il ritorno della pubblicità, Gruppo 24 Ore, 2011.
Burcher N., Paid Owned Earned: Maximising Marketing Returns in a Socially Connected World,
Kogan Page Publishers, 2012.
169
MEDIA EVOLUTION: PROGRAMMATIC
Tratto dalla lezione di Luca Marinaro
«Oggi un’agenzia deve possedere gli strumenti concettuali e metodologici per guidare l’integrazione dei contenuti
su tutti i punti di contatto tra la marca e il consumatore, garantendo l’efficacia in termini di risultato
e l’efficienza economica dell’investimento»
Programmatic Buying - Media Center - Publisher
Uno dei nuovi fenomeni che si stanno
imponendo nel mercato pubblicitario è quello
del cosiddetto programmatic buying.
Il programmatic
buying è una forma
automatizzata d’acquisto che utilizza la
tecnologia, dunque i computer, gli algoritmi
e i big data per ottimizzare l’acquisto di spazi
pubblicitari. Il mercato pubblicitario ha
cominciato a prestare molta attenzione a questo
nuovo modo di operare, che è in fortissima
crescita. Negli Stati Uniti, nel 2014, il 60% dello
spazio pubblicitario venduto è stato acquistato in
modalità programmatic. In Italia, la percentuale
è più modesta e pari al 15%. Questo modello di
acquisto si sta sviluppando e sta avendo successo
per vari motivi.
170
Media evolution: programmatic
Uno degli aspetti più interessanti è il precision
targeting1.
Se nel modello di acquisto precedente al
programmatic si compravano spazi circoscritti dentro
una determinata posizione, adesso l’acquisto avviene
in real time (millisecondi) ed è rivolto solo alle
impression2 che servono a quella specifica campagna
pubblicitaria. Un esempio che può essere utile per
spiegare questo tipo di operazione è il seguente.
Una persona va a visitare un sito di automobili. Nello
stesso periodo quella persona ha effettuato delle
ricerche sugli ultimi modelli di una marca di auto.
Presupponiamo ad esempio che la sua attenzione
sia stata rivolta al brand Mercedes. Premesso che
tutte le attività di navigazione internet sono tracciate
attraverso cookies, registrazione ai siti, etc. , nel
momento in cui quella persona entra nel sito di
automobili è molto probabile che un annuncio
pubblicitario della Mercedes faccia capolino su
quella pagina. In sintesi, se prima le persone che
accedevano a un sito internet vedevano tutte la stessa
pubblicità, adesso quelle stesse persone vedranno
degli annunci personalizzati.
Oltre a questo, c’’è una Reach Audience at Scale3
perché la gestione dei dati continuativa permette
una gestione real time degli stessi e di conseguenza
produce un aumento della redditività della campagna.
Le potenzialità sono enormi: la pubblicità viene
erogata in base al tipo di persona che sta fruendo di
uno specifico contenuto.
Possiamo dunque spingerci a dire che non si
acquistano più spazi pubblicitari ma si compra
invece una audience4 perché grazie alla possibilità
di tracciare praticamente quasi tutto si possono
targettizzare specifici interessi.
In questo modo viene superato una volta per tutte
il concetto di target socio-demografico che tanta
fortuna ha avuto nell’era pre-programmatic.
Tra le varie attività che si possono fare con il
programmatic buying merita particolare attenzione
la pratica del remarketing5, che si basa sul concetto
di pubblicità diretta.
Il remarketing funziona in questo modo: una
persona visita un sito internet, viene tracciata e
successivamente riceve uno sconto specifico di cui
può usufruire sul prodotto che aveva cercato.
Fig. 2 - L’ecosistema del Programmatic Buying
Il target specifico e preciso, ad esempio il segmento di persone che sta guardando un determinato sito web in un determinato momento.
2
L’impression rappresenta il numero di volte che un certo oggetto sociale (post, tweet, foto, video) ha avuto la possibilità di
essere visto da un certo pubblico. Esprime un valore potenziale, potremmo dire lordo, nel senso che non tiene conto della
frequenza del messaggio pubblicato, dei metodi di visualizzazione dello stesso, della duplicazione dell’audience.
3
La reach è il numero di individui o account unici che hanno avuto la possibilità di vedere un certo oggetto sociale. É un
dato netto nel senso che considera la persona e non le volte che ha visto il contenuto, magari da più dispositivi.
4
Platea di destinatari della campagna pubblicitaria.
5
Strumento e tecnica del marketing basato principalmente sugli sconti e le promozioni rivolte al singolo consumatore.
1
171
Media evolution: programmatic
Fino ad oggi, il modus operandi del centro
media era strettamente correlato all’editore.
Un editore, che poteva essere il proprietario di
un quotidiano, di un sito internet o di una rete
televisiva metteva a disposizione degli spazi
pubblicitari acquistabili. Il lavoro dell’agenzia
media era occupare quegli spazi nel modo
più proficuo possibile. Con il programmatic,
al contrario, la figura del publisher non è più
centrale come poteva essere nelle trattative
precedenti. Le conseguenze, positive o negative
che siano, non sono ancora del tutto palesate.
Ci troviamo di fronte a un processo industriale
del tutto nuovo e sicuramente rivoluzionario sia
dal punto di vista delle possibilità tecnologiche
che dal punto di vista delle relazioni umane. Le
macchine sostituiscono le persone nel processo
di acquisto di spazi pubblicitari: saranno loro a
decidere e a valutare se valga la pena comprare
un determinato spazio. Le negoziazioni vengono
sostituite dagli algoritmi. I fattori che hanno
permesso e stanno permettendo lo sviluppo del
programmatic sono vari. Uno di questi è il fatto
che ci sia una enorme disponibilità di dati per
identificare i consumatori (cookie6), l’altro è
che ci sia una buona fetta di spazi e di contatti
invenduta, dove poter inserire dei contenuti.
Inoltre c’è a disposizione una tecnologia di alto
livello e oggetto di un miglioramento continuo,
che permette con grossa facilità e in pochissimo
tempo di analizzare tutta questa mole di dati che
vengono prodotti dagli utenti. I computer sono
molto più potenti rispetto al passato e numerosi
software prima non esistevano.
degli utenti al proprio sito web.
Poi ci sono i dati venduti da un publisher, ad
esempio Facebook oppure Google, che hanno a
disposizione i dati dei propri iscritti. Infine ci sono
i dati forniti da aziende attive proprio in questo
settore. Si tratta dei cosiddetti dati di terze parti,
che vengono raccolti e messi sul mercato pronti ad
essere venduti. Una volta ottenuti i dati, occorre
creare un’intermediazione. A questo punto
intervengono i software che mettono insieme
l’inventory7 dei siti web e i software che permettono
di biddare8 tutto quello spazio acquistabile che
viene messo sul mercato. Avremo quindi dei
software chiamati DSPs per identificare quelle
piattaforme di acquisto media che permettono
l’ottimizzazione e il bidding9 dinamico attraverso
multipli Ad Exchange10 e fonti di inventory e
dati, e software SSPs che identificano piattaforme
tecnologiche che rappresentano i fornitori di
advertising online e garantiscono la disponibilità
dell’inventory.
Il Programmatic ha dato una scossa decisamente
forte allo status quo del mondo sempre più
complesso della pubblicità. Tornando alla
percentuale italiana degli spazi pubblicitari
comprati in modalità Programmatic, che si attesta
al 15%, resta da capire se questa percentuale in
futuro potrà salire fino al 100%.
F OC U S
Le parole chiave del Programmatic
Ad Network: aziende che si occupano della gestione
degli annunci pubblicitari nell’ambiente online. La
locuzione è la contrazione di Advertising Network,
ossia rete pubblicitaria. La funzione fondamentale
svolta da un Ad Network è l’intermediazione tra
I dati che consentono di individuare le
caratteristiche dei consumatori sono di tre tipi.
I primi sono forniti dalle aziende, che quest’ultime
ottengono ad esempio attraverso la registrazione
Gettoni identificativi utilizzati dai server per identificare i browser durante la navigazione web.
Magazzino, deposito di contentuti e spazi pubblicitari.
8
Comprare all’asta in real time.
9
Metodo che permette all’inserzionista di scegliere, in modo sempre più mirato, le proprie campagne pubblicitarie oltre a
dare la possibilità all’advertiser di partecipare direttamente alle aste saltando gli intermediari (concessionarie e network
pubblicitari) utilizzando una piattaforma dedicata.
10
Piattaforma software che permette all’advertiser di “piazzare le puntate” in tempo reale. Le prime piattaforme sono state AdEcn
(acquistata da Microsoft nel 2007 ma ora trasformatasi in BingAds), Right Media (di Yahoo dal 2007) e Double Click (Google).
L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto della campagna display in meno di 100 millisecondi e la fa apparire sulla
pagina nel momento in cui viene caricata dall’utente.
6
7
172
Media evolution: programmatic
gli Advertiser, cioè gli inserzionisti che vogliono
acquistare spazi sul web per promuovere prodotti
e servizi, e i Publisher, cioè i proprietari di siti
web che offrono gli spazi in cui sono collocate le
inserzioni.
(di Yahoo dal 2007) e Double Click (Google).
L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto
della campagna display in meno di 100 millisecondi
e la fa apparire sulla pagina nel momento in cui
viene caricata dall’utente.
Supply Side Platform: piattaforma tecnologica
ottimizzata per consentire ai Publisher di vendere
spazi in modalità automatizzata. Può essere
specializzata per tipologia di inventory (display,
video, mobile) o essere utilizzata per tutte le
tipologie di inventory. Tra i player: Pubmatic,
Open X, AppNexus, Rubicon.
Agency Trading Desk: aziende specializzate che
affiancano l’Advertiser o le agenzie nella gestione
delle attività di programmatic advertising, offrendo
solitamente una loro piattaforma connessa con Ad
Exchange.
Si differenziano in Agency Trading Desk (ATD),
interni ai centri media e Independent Trading
Desk (ITD), indipendenti dai centri media.
Demand Side Platform: piattaforma tecnologica
ottimizzata per consentire agli Advertisers di
acquistare spazi in modalità automatizzata. Può
essere specializzata per tipologia di inventory
(display, video, mobile,) o essere utilizzata per
tutte le tipologie di inventory. Tra i player: Google
(DBM), Turn, Mediamath, DataXu.
Data Manager Platform: piattaforma che
gestisce e aggrega diversi tipi di dati da fonti
online, offline e mobile. In altre parole, è una
piattaforma tecnologica che trasforma enormi
quantità di dati relativi alle caratteristiche e al
comportamento degli utenti in azioni rivolte
a loro che possono essere pianificate, erogate e
misurate in tempo reale.
Ad Exchange: piattaforma software che
permette all’Advertiser di “piazzare le puntate”
in tempo reale. Le prime piattaforme sono state
AdEcn (acquistata da Microsoft nel 2007 ma
ora trasformatasi in BingAds), Right Media
Vincenzo Romanelli
173
Media evolution: programmatic
Riferimenti bibliografici
Sisti A., De Nardis A., Pavone L., La pubblicità del futuro. Programmatic Buying e Real Time Bidding
per comunicare in tempo reale, Hoepli, 2015.
174
Sezione 5
LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI:
QUALI STRUMENTI
PER COSTRUIRE RELAZIONI
DI VALORE?
LE AZIENDE TRASFORMABILI:
LA SFIDA DELLA DIGITAL
TRANSFORMATION ECONOMY
Tratto dalla lezione di Chiara Colombo
«Percepiamo di trovarci in un momento in cui le strutture del passato sono ancora in piedi ma troppo deboli
per riprendersi, mentre quelle nuove non sono sufficientemente forti per prendere il sopravvento.»
WEB 2.0 - DIGITALIZZAZIONE DEI PROCESSI AZIENDALI - COMMUNITY
Il talento del Web
Si può sostenere che lo sviluppo della tecnologia
digitale e quello dei dispositivi siano dei concetti
così profondamente uniti da non poter essere
scissi. In questo senso, i supporti digitali sono
dispositivi nel senso che ne diede Michel
Foucault1, intendendo come dispositivo una rete
eterogenea di elementi, comprendente non solo
la tecnologia digitale ma anche i modi in cui gli
utenti la utilizzano. In questo senso lo sviluppo
della tecnologia digitale si è costituito come un
mix perfetto di elementi che sta modificando
in profondità non solo la socialità ma anche
l’espressione della creatività. In un momento
in cui il Passato appare estraneo e il Futuro
nebuloso, le persone sembrano aver recuperato
attraverso il web 2.0 la fiducia nel presente della
loro creatività.
Nel 2005 Barry Diller, CEO di InterActivCorp,
durante una conversazione informale nel
contesto di una conferenza sul Web 2.0 sostenne
che non c’era abbastanza talento nel mondo
per temere che la produzione sul web potesse
costituire una seria minaccia per l’industria
dell’intrattenimento.
In poco più di dieci anni da allora, la produzione
di contenuti disponibili sul web è letteralmente
esplosa: app, contenuti virali, video amatoriali,
serie autoprodotte, blog e molto altro sono
visualizzati da milioni di persone sugli schermi
dei loro pc, smartphone o tablet. Nella capacità
di avere successo attirando visualizzazioni e
condivisioni, sul Web 2.0 i talenti non mancano,
così come non mancano le possibilità di
espressione creativa.
F OC U S
Il termine Web 2.0 venne introdotto nel 2004
nell’ambito di un ciclo di conferenze promosse
dalla O’Reilly Media, aventi per oggetto una
nuova generazione di servizi Internet che
enfatizzano la collaborazione online e la
condivisione tra utenti. Più specificatamente, a
Tale sviluppo non sarebbe stato possibile senza il
contestuale sviluppo tecnologico, principalmente
nel settore della tecnologia digitale e dei
dispositivi che permettono agli utilizzatori di
sfruttare al massimo del potenzialità del Web 2.0.
«Ciò che io cerco di individuare con questo nome è, in primo luogo, un insieme assolutamente eterogeneo
che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative,
enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del nondetto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi»
Da un’intervista apparsa nel 1977 sotto il titolo di «Le jeu de Michel Foucault (2001)» pp.299-300.
1
176
Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy
caratterizzare le applicazioniWeb 2.0 sono una
serie di caratteristiche di tipo tecnologico (accesso
ad applicazioni attraverso il web, nuovi linguaggi
di programmazione) e psico-sociale (facilità d’uso,
possibilità espressive per gli utenti, accessibilità,
dimensione comunitaria).
le preferenze sui social. Gli utenti dei social
network sono sempre più spesso connessi, e di
conseguenza si moltiplicano le esperienze di
instant marketing3, con il quale le aziende più
«reattive» comunicano se stesse e i loro prodotti
attraverso contenuti offerti sui social network
contestualmente ad altri eventi o accadimenti.
In questo senso, un esempio è costituito dalla
campagna social di Coca-Cola in occasione
dell’edizione del 2012 del SuperBowl4, o da quella
della birra Ceres su Facebook. Il passo successivo
nel processo di digitalizzazione è costituito dal
proximity marketing5, consistente nell’utilizzare
i social network per coinvolgere i consumers al
di fuori dell’ambiente digitale (tramite tecnologia
Bluetooth), proponendo offerte e sconti tramite
messaggi ad hoc sui dispositivi digitali quando
il possibile acquirente si trova in prossimità del
luogo di acquisto. Se il marketing è stato il primo
processo a digitalizzarsi, la fase successiva deve
prevedere la digitalizzazione del customer care,
in particolare nella forma del social customer
care. La digitalizzazione di tale processo oltre
ad essere particolarmente complessa, comporta
anche dei rischi, costituiti dal fatto che in questo
ambito alcuni errori di comunicazione possono
avere effetti indesiderati6. Per evitare errori e gaffe
sui social network, le aziende più attente si sono
dotate di social media policies e di procedure da
seguire in caso di “incidenti”.
La digitalizzazione
dei processi aziendali
In ambito business, le aziende hanno capito
immediatamente che sono cambiati i soggetti con
i quali una realtà imprenditoriale si confronta.
Clienti, consumatori e non solo sono diventati
social customer che acquistano online e agiscono
sulla base di input derivanti proprio dall’attività
dei social. È cambiato anche il modo con cui i
consumatori accolgono nuovi prodotti. Preceduti
da campagne sui principali media e social
network, i nuovi prodotti trovano un pubblico
già pronto e soprattutto informato, motivo per
cui il successo (o l’insuccesso) di un prodotto è
misurabile fin dai primi tempi di presenza sul
mercato. Non casualmente, il primo processo
aziendale a trasformarsi in senso digitale è
stato il marketing, diventando social media
marketing2. I processi di marketing coinvolgono
oggi sempre più i social network, monitorando
Il social media marketing o marketing nei social media è quella branca del marketing che si occupa di
generare visibilità su social media, comunità virtuali e aggregatori 2.0. Il social media marketing racchiude
una serie di pratiche che vanno dalla gestione dei rapporti online (PR 2.0) all’ottimizzazione delle pagine web
fatta per i social media (SMO, Social Media Optimization).
3
L’instant marketing è una pratica di digital marketing che prevede di offrire contenuti sul Web 2.0
strettamente collegati ad un evento specifico.
4
La campagna è consistita nell’offrire da un sito accessibile mediante il profilo Facebook dei video con gli orsi
polari testimonial della bibita che «vivevano» la partita contemporaneamente ai telespettatori.
5
Il marketing di prossimità (proximity marketing) è una tecnica di marketing che opera su un’area geografica
delimitata e precisa attraverso tecnologie di comunicazione di tipo visuale e mobile con lo scopo di
promuovere la vendita di prodotti e servizi.
6
Si fa riferimento al caso Algida, e alle equivoche forme di un gelato al cioccolato la cui immagine è stata
postata dall’azienda stessa sulla pagina Facebook. In questo caso Algida gestì la gaffe ammettendo l’errore e
ricorrendo all’ironia. Lo stesso non si può dire per Barilla, che in occasione della sfortunata dichiarazione
di Guido Barilla sul fatto che mai sarebbe comparsa una famiglia gay in uno spot della pasta, si limitò a
pubblicare uno scarno comunicato stampa sulle pagine social. Ancora peggiore fu l’errore di Groupalia, che
sfruttò cinicamente il terremoto in Emilia per promuovere le vacanze alle Bahamas.
2
177
Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy
Da una ricerca promossa da McKinsey& Co.,
emerge che se le aziende digitalizzassero
al massimo livello i loro processi aziendali
conseguirebbero un risparmio pari a 1.300
miliardi di dollari. Tuttavia chi si approccia
a questa tematica si trova di fonte a processi
aziendali consolidati da decenni di pratica
quotidiana che non sono facilmente rinnovabili.
Per questo motivo, è consigliabile per il consulente
esterno, o per la risorsa interna incaricata di
questo compito, comportarsi con equilibrio e
soprattutto con metodo.
All’estremo opposto si può cadere nell’errore
di affidare l’innovazione dei processi aziendali
unicamente alla partecipazione di tutti i
potenziali portatori di interessi.
La partecipazione è utile, ma questa deve essere
guidata.
Un esempio tratto dalla storia dell’arte può venire
in aiuto. Nel 1957 Pablo Picasso trasformò in
senso cubista Las Meninas di Velázquez.
Il pittore di Malaga operò per gradi, prima
concentrandosi sui singoli elementi del quadro,
utilizzati come soggetti singoli per opere diverse,
per poi passare alla ricostruzione armonica
e cubista del quadro nell’insieme, anche
aumentando, in una versione successiva, il grado
di distanziamento dell’originale in favore di un
maggior astrattismo.
Applicata ai processi aziendali la lezione può
essere riassunta in 3 punti fondamentali:
Ogni community, infatti, ha in sé un elemento
stabile e identificabile, perché rispondente a tre
quesiti fondamentali:
L’ambiente digitale che più facilmente può
costituire un processo innovativo per un processo
aziendale è quello della community, dove può
realizzarsi l’equilibrio migliore tra partecipazione
e direzione.
1. Chi collabora? –definizione del target
2. Dove collabora? –individuazione dei tool
3. Perché collabora? –individuazione della value
proposition
Se manca la definizione di uno solo di questi
elementi – senza gli utenti, senza una motivazione
a interagire o senza una piattaforma che supporti
questa interazione – non si può parlare di vera e
propria community.
1. Tutte le organizzazioni hanno in sé un certo
grado di trasformabilità;
2. Il processo di trasformazione deve avvenire in
maniera prima di tutto analitica, individuando
alcuni elementi chiave da cui partire;
3. Dagli elementi si deve sempre però
ricostruire un quadro d’insieme (sintesi) che
sia innanzitutto coerente e la cui efficacia sia
garantita dall’applicazione del giusto indice di
trasformabilità che meglio si adatta alla cultura
organizzativa in cui ci si muove.
Tuttavia, una volta garantitane la presenza, il
loro contenuto (la risposta, cioè, da dare alle
domande) e gli altri componenti in gioco possono
e devono essere liberamente scelti dagli utenti
che andranno ad abitare una o l’altra particolare
community.
Tuttavia il rischio per una community è il
“ristagno”, cioè che il grado di coinvolgimento
degli utenti sia basso, tanto da rendere inutile lo
strumento stesso.
Per evitare questo rischio è necessario predisporre
uno schema che chiarisca quali devono essere gli
elementi essenziali della community stessa.
Se queste devono essere le direttrici
dell’innovazione aziendale, l’innovatore deve
guardarsi da due errori. Il primo consiste nella
tentazione di agire come Prometeo, cercando di
innovare i processi unicamente dall’alto e sulla
base di premesse teoriche, perdendo di vista la
realtà aziendale.
Questo schema, denominato Community
Design Canvas (CDC) permette di individuare
efficacemente gli elementi fondamentali (Value
178
Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy
proposition, Target, e Tool) oltre a quelli necessari
per la concreta applicazione sul processo
aziendale (Partner, Attività, Risorse Chiave,
Relazione tra utenti).
La lettura da sinistra verso destra dello schema
consente un’interpretazione più gestionale:
vengono infatti attivati certi specifici partner,
in grado di fornire agli utenti le risorse
per implementare determinate attività che
concorrono a un scopo preciso, portato avanti
da una comunità di utenti che si relazionano
in un determinato modo all’interno di quella
piattaforma.
A titolo di esempio si riporta un CDC relativo
alla creazione di una community ideata per la
digitalizzazione della gestione del customer care.
Si precisa che sono chiamati a partecipare alla
compilazione del CDC i soggetti compresi nel
target della community stessa. In questo modo
si garantisce che il processo di digitalizzazione
sia sufficientemente condiviso dai futuri
utilizzatori. L’utilizzazione di uno schema rigido
consente il raggiungimento di un certo grado di
standardizzazione e la ricomposizione verso una
visione d’insieme.
La realizzazione di una community corrisponde
al primo livello di digitalizzazione di un processo
aziendale. In una prospettiva più ampia, è
possibile ricostruire l’intera organizzazione
aziendale alla luce delle innovazioni digitali,
considerando i mega processi (Marketing,
Customer Care, Human Resources) e i singoli
processi.
Giovanni Paon
Fig. 1 - Tratta da: Colombo C., Tra controllo e partecipazione: l’unità di misura delle organizzazioni
trasformabili.
179
Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy
Fig. 2 - Tratta da: Colombo C., Tra controllo e partecipazione: l’unità di misura delle organizzazioni
trasformabili.
180
Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy
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181
GOOGLE ADWORDS
E GOOGLE ANALYTICS
Tratto dalla lezione di Andrea Testa
«La vostra volontà di scelta è un palliativo.
Google sa chi sceglierete, ma vi mostrerà più risultati per darvi l’idea di scegliere»
MOBILE - WEB ANALYTICS - SEO - SERP - FUNNEL
Genesi di Google
Tuttavia si trattava di dati anonimi e parziali.
Per rispondere all’esigenza di avere dei dati
completi nacque Google Chrome4. Esistevano
già Internet Explorer e Firefox che lo stava
attaccando. Chrome diventò però in breve tempo
utilizzato dal 50% degli utenti5. In questo modo
oggi Google è in grado di avere i dati completi
del 50% di tutti gli utenti che accedono alla rete.
Google Adwords6 nasce come evoluzione di
questo processo e origina il 94% degli incassi di
Google. In parole semplici Google Adwords è la
pubblicità che si trova nei primi tre risultati di
ricerca e che sino a poco tempo fa era presente
anche nella colonna di destra. Recentemente
Google ha eliminato la colonna di destra
diminuendo il numero di spazi da 11 a 8 ma
migliorando al contempo il servizio. La colonna
di destra infatti veniva percepita dall’utente come
una vera pubblicità e rendeva meno nella SERP7.
C’era una volta Altavista, il primo motore di
ricerca disponibile, che funzionava benissimo ma
a partire da pagina 11. I risultati delle prime dieci
pagine infatti avevano tutti o quasi a che vedere
con la pornografia, perché l’algoritmo mostrava
i risultati in base a dei codici e non agli utenti.
Matt Cutts1 di Google trovò il modo di mostrare
i risultati più interessanti, più velocemente.
Inizialmente la velocità non veniva percepita
dall’utente per via della numerosità dei risultati
che Google caricava e che faceva sembrare che la
pagina non fosse mai caricata del tutto. Una volta
inserito il footer2 Google venne riconosciuto
come il motore di ricerca più veloce.
Il secondo passo importante fu la creazione di
Google Analytics che consentiva di ottenere i dati
relativi ai movimenti effettuati da tutti gli utenti.
Head of Google’s Webspam team, https://www.mattcutts.com/blog/about-me/
In italiano “piè di pagina”, la parte bassa di una pagina viene indicata spesso con i termini inglesi footer o page
footer quando si tratta di pagina visualizzata su un computer o su un altro dispositivo informatico
3
«Google Analytics non solo ti permette di misurare vendite e conversioni, ma ti offre anche dati aggiornati su
come i visitatori utilizzano il tuo sito, come sono arrivati sul tuo sito e che cosa puoi fare per incentivarli a tornare.»
dal sito di Google Analytics, https://www.google.com/intl/it_it/analytics/
4
«Chrome è un browser web veloce, semplice e sicuro ideato per il Web moderno» dal sito di Google Chrome,
https://www.google.it/chrome/browser/desktop/index.html
5
Dati estrapolati da gs.statcounter.com
6
«Il tuo annuncio su Google: Raggiungi i tuoi clienti proprio quando cercano su Google quello che offri. Paghi solo
se fanno clic per visitare il tuo sito web o chiamarti» dal sito di Google Adwords, https://www.google.it/adwords/
7
SERP: Search Engine Result Page. Nella SERP ci sono un sacco di dati, risultati a pagamento, video, immagini,
indicazioni stradali, knowledge graphs…
1
2
182
Google AdWords e Google Analytics
Fig. 1 - Un esempio di Serp in cui si vedono gli annunci sponsorizzati e sulla destra Google Shopping
Il mobile e i nuovi scenari digitali
circa 150 volte al giorno, e per i motivi più
disparati, fra i quali, come si accennava, lo
shopping.
Sebbene infatti esista ancora, specialmente in
un mercato ancora acerbo come quello italiano,
una certa diffidenza e resistenza all’acquisto
attraverso lo smartphone, questa è un’abitudine
che certamente va diffondendosi, così che le
percentuali di conversione da mobile sono in
aumento.
Il mondo del web ci ha abituati a cambiamenti
continui: nuove tecnologie, nuove tendenze,
nuovi strumenti fanno improvvisamente la loro
apparizione sulla scena costringendo addetti ai
lavori e semplici internauti ad accelerare il passo
per non rimanere indietro.
Questi cambiamenti, a volte, sono di lieve entità;
altre volte, sono di dimensioni più importanti,
proprio come nel caso della piattaforma Google
AdWords (come già detto, il sistema di advertising
di Google) e di Google Analytics (servizio di
web analytics, appunto), pronti a rigenerarsi
per offrire ai loro clienti un servizio migliore e
più attento al mutare del panorama tecnologico
e sociale. Non bisogna dimenticare, infatti, che
i nuovi media non cambiano mai seguendo un
percorso autonomo e distante dalla società in cui
nascono; al contrario, i mutamenti avvengono a
partire dalle nuove esigenze che caratterizzano
una o più comunità, rispecchiando il modo in
cui la società stessa sta già cambiando.
E come stanno cambiando, dunque, la nostra
società e il nostro modo di approcciarci al web?
È sufficiente fare una passeggiata in centro per
capirlo: fotografie, social network, shopping,
musica, televisione, relazioni interpersonali…
tutto ruota attorno al telefono cellulare.
Mediamente, infatti, il mobile viene utilizzato
E laddove invece non si arrivi (ancora) a
comprare utilizzando lo smartphone, esso è
comunque parte integrante – e fondamentale –
del processo di acquisto. Infatti, su un totale di
cento utenti abituali del mobile, ben il 90% lo
utilizza per quella che viene definita come la fase
pre-shopping: si cercano offerte e promozioni, ci si
informa sugli orari di apertura dei punti vendita
fisici, si confrontano prodotti… Sempre fra questi
100 utenti mobile-used, se ne trovano 33 che
preferiscono utilizzarlo per trovare informazioni
sui prodotti piuttosto che domandare aiuto ai
commessi in fase d’acquisto.
Un altro dato interessante riguarda invece
coloro che abitualmente comprano attraverso
lo smartphone: dall’84% il cellulare viene
consultato anche nel momento in cui ci si accinge
all’acquisto nello store fisico, per essere certi che
183
Google AdWords e Google Analytics
non vi siano offerte e prezzi migliori online.
Tutte queste statistiche in fondo portano ad
un’unica conclusione: il mobile viene utilizzato
come strumento di confronto e discriminazione
fra prodotti e fra negozi (meglio comprare
lo stesso prodotto online? esiste uno store a
pochi chilometri da qui che applica un prezzo
migliore?) e come preciso ed esaustivo fornitore
di informazioni tecniche, opinioni e recensioni.
utilizzato per accelerare l’acquisto contro il rischio
di perdere offerte o esaurire la disponibilità del
prodotto;
• Abbigliamento e accessori: il mobile sfrutta la
compulsione, lo stato d’animo momentaneo che
porta ad acquistare immediatamente un prodotto
(meglio se già conosciuto) che istintivamente
piace molto;
• Settore immobiliare: il mobile qui “tiene
sul percorso”, cioè consente di avere sempre
a portata di click la casa che interessa e ciò
aumenta le possibilità che l’immobile venga poi
effettivamente comperato;
• Regali: come nel turismo, il mobile consente di
allontanare la paura di perdere il prodotto giusto
attraverso il suo acquisto immediato; inoltre,
lo schermo di dimensioni ridotte rispetto al
computer permette di tenere un’azione
Esempi pratici di come il mobile aiuti in maniera
differente in settori merceologici differenti
vengono da Andrea Testa, che per ogni categoria
individua il “momento di verità” nell’utilizzo del
cellulare8:
• Turismo: nella fase iniziale del percorso
d’acquisto, il mobile fornisce stimoli e idee per
iniziare la ricerca; successivamente, potrà essere
F OC U S
Fig. 2 - Tutto il nostro mondo oggi è racchiuso in uno smartphone
Perché spesso e volentieri si utilizza il cellulare proprio in quella fase dell’acquisto?
8
184
Google AdWords e Google Analytics
appartenente alla sfera privata lontana da sguardi
indiscreti;
• Ristorazione: in caso di bisogno, il mobile
è certamente il primo strumento cui si fa
riferimento per trovare un ristorante o affini
nelle vicinanze;
• Cibi e bevande: il mobile viene in soccorso,
anche solamente con informazioni utili, nel
momento in cui ciò che si cerca non è presente
sugli scaffali dei negozi fisici.
da mobile e da computer, evitando quindi che
venga conteggiato due volte), l’iscrizione alla
newsletter, la condivisione di un contenuto e sì,
naturalmente anche un acquisto.
AdWords e il funnel10 d’acquisto
Un mutamento come quello sopra descritto
richiede che le piattaforme di online advertising
e le loro logiche di funzionamento vengano
ripensate in riferimento al mobile. AdWords ha
deciso di fare proprio questo.
Alla luce di tutto ciò, va da sé che il sito che
accoglie il visitatore bisognoso di informazioni
o prodotti deve essere capace di fornire una
risposta adeguata alle necessità dell’utente,
pena la perdita del cliente stesso. Il 57% degli
internauti, infatti, difficilmente rimane sul
sito di un’azienda che non sia ottimizzato per
il mobile e il 61% cambia sito se non incontra
rapidamente ciò di cui necessita. Quasi sette
utenti su dieci sono più portati ad acquistare su
un sito ottimizzato, ma ciò non esclude l’utilizzo
del computer: l’ideale cui tendere è poter fornire
all’utente un servizio che lo faccia sentire a suo
agio in qualsiasi momento, qualunque device stia
utilizzando.
Come si accennava, AdWords è una piattaforma
di Google che gestisce l’inserimento di online
advertising e che consente di far apparire
il proprio annuncio sulla base della ricerca
effettuata dall’utente. Se la ricerca, chiamata
query, è la domanda che l’utente pone a Google,
i risultati che compaiono sono le risposte; fra
queste risposte, l’azienda ha la possibilità di
inserire il proprio annuncio pubblicitario, che
deve appunto essere una delle soluzioni al quesito
che l’internauta pone.
Per questo motivo, il sistema AdWords funziona
sulla base di parole chiave, ovvero termini
che l’azienda sceglie come identificativi del
suo annuncio e che se digitati dall’utente lo
porteranno ad apparire tra i risultati. Tali parole
chiave possono essere inserite selezionando il
tipo di corrispondenza che farà in modo che
l’annuncio compaia o meno in determinate query,
In termini pratici, le corrispondenze AdWords
sono cinque:
• Generica: se la parola chiave che identifica
l’annuncio è hotel a Roma, esso comparirà non
solo con ricerche molto attinenti (hotel a Roma
Un sito web agevolmente navigabile è solo un
tassello del mosaico che, se ben composto, può
portare l’utente a convertire. Ma quando di parla
di conversione9, cosa si intende esattamente?
Una conversione è l’obiettivo di ogni azienda,
ma non si tratta necessariamente di una
transazione economica: convertire significa più
genericamente compiere un’azione desiderata
dall’azienda. L’azione, cioè, che l’azienda si è
posta come obiettivo: la registrazione al sito
(importante perché l’utente loggato permette al
sistema di analisi di identificarlo quando accede
Non necessariamente transazione economica, una conversione è l’azione desiderata dall’azienda e compiuta
dall’utente (engagement sui social, condivisione di contenuti, registrazione al sito di ecommerce, iscrizione
alla newsletter, acquisto…).
10
Letteralmente “imbuto”, il funnel è una riproduzione grafica del percorso d’acquisto dei consumatori.
Prevede una fase iniziale di awareness (conoscenza del prodotto), una successiva di interest (interesse
per il prodotto), la consideration (ricerca di informazioni a riguardo), l’intent (manifestazione della volontà
di comprare) e una fase finale di purchase in cui avviene l’acquisto.
9
185
Google AdWords e Google Analytics
4 stelle, hotel con piscina a Roma ecc.), ma anche
con query meno mirate (b&b a Roma, rent a car
Roma o addirittura campeggio a Viterbo), purché
ci sia correlazione e assonanza semantica fra
ricerca e keyword; la corrispondenza generica
viene utilizzata quando si cercano opportunità
a cui non si aveva pensato o si vuole allargare il
proprio raggio d’azione;
• Generica modificata: la parola chiave contiene
il marcatore + che la costringe ad apparire nella
query, ad esempio +hotel a +Roma (nella sua
ricerca l’utente dovrà aver scritto sia hotel che
Roma);
• Frase: il marcatore “ ” fa sì che l’annuncio
venga mostrato solo laddove la query presenta
unito tutto il contenuto delle virgolette (pur
con varianti simili che comprendono plurali e
singolari, errori, sinonimi…); ad esempio “hotel
a Roma” apparirà con ricerche come hotel a Roma
4 stelle ma non con hotel economico a Roma;
• Esatta: grazie al marcatore [ ] l’annuncio [hotel
a Roma] potrà comparire solo se la query sarà
esattamente hotel a Roma (si considerano anche
le varianti simili di cui sopra);
• Inversa: il marcatore - esclude le query che
contengono determinate parole; ad esempio,
hotel a Roma -piscina non verrà preso in
considerazione dalle ricerche
includono la parola piscina.
che
invece
Per sapere quali parole chiave e quali
corrispondenze utilizzare, bisogna naturalmente
raccogliere informazioni sugli utenti (il
dispositivo utilizzato, la località, l’orario della
ricerca…), ricordando sempre che l’obiettivo
dell’annuncio AdWords non è essere il primo
risultato, ma fornire un contenuto di qualità,
affinché l’utente continui ad usare Google e a
cliccare sui risultati a pagamento per soddisfare
le sue esigenze. Ogni query, infatti, corrisponde a
un bisogno del cliente, bisogno che va a collocarsi
in un punto preciso del funnel d’acquisto.
Il funnel d’acquisto altro non è che un imbuto
che riproduce il percorso del cliente (o potenziale
tale) dal momento in cui viene a conoscenza di un
certo prodotto (awareness, fase che nel marketing
online si fonde con l’interest, quando l’utente si
scopre interessato al prodotto) al momento in
cui effettivamente acquista, e acquista un brand
preciso (in-market o purchase), passando per la
fase in cui l’utente si informa (consideration) e
quella in cui manifesta la volontà di acquistare e
si muove per farlo (intent).
Fig. 3 - Le quattro fasi del funnel
186
Google AdWords e Google Analytics
Falsi miti su Google AdWords
Anche l’azienda ha obiettivi che corrispondono
a fasi del funnel: ad esempio, può cercare nuovi
potenziali clienti (awareness), può tentare di
emergere nel mercato (consideration), può porsi
la meta di maggiori vendite (purchase).
• Perché un brand dovrebbe usare Google
Adwords
La ricerca è una parte importante del customer
journey. 1.3 milioni di persone (il 49%)11 usano
la ricerca nel suo percorso di acquisto, e la
percentuale di persone che nel fare un acquisto
online usa i motori di ricerca sale al 58% se
analizziamo solo coloro che inseriscono un
prodotto in carrello. Google ha quindi un
ruolo fondamentale nella customer journey.
Il 27% di coloro che accedono all’area di
acquisto, usa un termine di ricerca generico.
Il nome di coloro che usano il brand nella
query è molto alto.
Lavorare sulle chiavi brandizzate, traduce gli
accessi dall’awareness alle vendite.
Nella Top 10 dei merchant italiani, sette sono
“dot com” (Amazon, eBay, Banzai commerce,
iBS, Privalia, Vente-Privee.com, Yoox.
com), e solo tre (Esselunga, LuisaviaRoma
e MediaWorld) sono imprese tradizionali:
curioso che nel Regno Unito la percentuale sia
esattamente rovesciata.
• Google Adwords non è un’asta.
Il prezzo non è l’unica variabile a determinare
la propria posizione in Adwords, poiché a
contare è anche la qualità. Un sito con un
punteggio minore ha l’opportunità di essere
visualizzato prima ma ad un costo maggiore. Se
a fronte dell’opportunità di essere più in alto di
un altro sito non ottiene più clic (CTR) allora
perde punti nella visualizzazione di Google. Se
la qualità del sito è alta, pagherà il clic il meno
possibile.
• Non bisogna dare per scontato il brand.
Alcune aziende/marche credono di essere così
forti da non aver bisogno di investire su se
stesse. Ma bisogna invece proteggere il proprio
brand quando è forte, poiché esso rappresenta
un vero e proprio tesoro12.
Tuttavia, quello che deve fare nel creare un
annuncio AdWords è considerare non solo il
proprio obiettivo ma anche e soprattutto i bisogni
dell’utente: alcune parole chiave rimanderanno
a una fase del funnel piuttosto che a un’altra
(ad esempio, pere riconduce all’awareness,
proprietà della pera alla consideration, vendita
pere all’intent), perciò sarà inutile creare annunci
finalizzati solo alla vendita.
Gli utenti ancora in fasi precedenti avranno
infatti bisogno di cercare e scoprire, sicuramente
non saranno pronti a comprare; di conseguenza
bisognerà fornire loro annunci di pari passo con
il loro percorso nel funnel.
F OC U S
La pubblicità su Gmail
Gmail è uno strumento meno usato di altri a scopo
pubblicitario, eppure ha notevoli potenzialità, date
da una configurazione personalizzabile che rende
facile l’utilizzo e dalla possibilità di raggiungere
con precisione il proprio target. Inoltre, ha costi
piuttosto bassi, ma richiede certamente molta
attenzione e cura. Una campagna Gmail può
persino permettere di ottenere viralità, poiché
alcuni di questi annunci, una volta ricevuti dagli
utenti, possono essere inoltrati.
Grazie al sistema Gmail, si può poi giocare
d’anticipo sui concorrenti, “agganciando” gli utenti
con la propria pubblicità nel momento in cui nelle
loro mail appare il nome dei competitor, di un loro
prodotto o di un loro evento, cercando di cancellare
in questo modo l’attenzione data all’avversario.
Tutti i dati riportati in questa sezione sono relativi solo al verticale del caffè e solo all’Italia.
Per approfondimento il caso di Davide e Golia: https://www.ted.com/talks/malcolm_gladwell_the_unheard_
story_of_david_and_goliath?language=it)
11
12
187
Google AdWords e Google Analytics
Fig. 4 - Le funzioni di Google Adwords
La web analytics
di click: se ad esempio un utente atterra sul
sito dopo una ricerca, ne esce e dopo qualche
minuto rientra attraverso la stessa parola chiave,
Google Analytics calcola che la visita sia una
sola; per Google AdWords, invece, l’annuncio
ha ottenuto due click. Al contrario, se l’utente
clicca su un annuncio AdWords, visita il sito
e lo salva nei preferiti per rientrarvi il giorno
seguente proprio attraverso il segnalibro, il
sistema calcolerà due visite ma un solo click,
quello grazie al quale l’utente è atterrato sul
sito la prima volta.
La web analytics si occupa di tutto ciò che
accade sui siti web, da cui è utile separare ciò
che succede invece sui social media, di cui si
occupa invece la social analytics. Gli elementi
chiave su cui la web analytics basa la sua azione
sono due: dimensioni e metriche.
Se con dimensioni intendiamo quelli che sono
gli attributi degli oggetti in questione, vale a
dire le parole chiave, i browser utilizzati, le
località da cui provengono (e a cui possono
essere dirette) le query, le caratteristiche
della campagna di advertising, al contrario
le metriche riguardano l’aspetto numerico:
la quantità di visite, il numero di pagine per
visita, la frequenza di rimbalzo13 (bounce rate),
il numero di conversioni e il loro tasso, la
durata delle visite.
Per misurare il traffico di un sito, infine,
Analytics utilizza parametri quali le parole
chiave, il numero di persone entrate e uscite da
una determinata pagina, la sorgente – ovvero
il punto di partenza che porta l’utente sul sito,
ad esempio Google o un altro sito che contiene
un banner o un link (referral) e il mezzo
(le ricerche organiche di Google o Google
AdWords).
A questo punto occorre sottolineare che esiste
una differenza tra numero di visite e numero
La bounce rate è la percentuale di visite al sito che hanno registrato la presenza dell’utente su una sola
pagina; il navigante, quindi, ha abbandonato il sito senza visitare altre pagine. Non necessariamente
questo corrisponde a un disinteresse, può anche trattarsi di utenti che hanno trovato ciò che cercavano
immediatamente, senza bisogno di navigare ulteriormente nel sito.
13
188
Google AdWords e Google Analytics
Consigli pratici
• L’annuncio deve convincere l’utente che
cliccando troverà la risposta alla sua domanda
(prestare molta attenzione alla fase del funnel
in cui si trova, è inutile ad esempio cercare di
vendere qualcosa di non ancora richiesto);
Google AdWords
È necessario iniziare con una premessa: l’obiettivo
non è essere primi, ma ottenere accessi, che
devono necessariamente essere qualitativamente
molto alti.
Quello che conta non è il numero di ricerche,
ma la percentuale di conversione.
• Utilizzare parole chiave nel testo;
• Predisporre un annuncio chiaro;
• Proporre vantaggi (proporre vasta gamma,
scelta, assistenza, informazioni);
QS x CPC = Ranking
Quando si utilizza AdWords, questa è la formula
da tenere sempre a mente, in quanto ne spiega
la logica di funzionamento: punteggio di qualità
per CPC (costo per click) determinano il ranking.
• Call to action (non necessariamente vendita);
• Prezzi, offerte, promo (non necessariamente
sconti).
Qual è la chiave migliore?
La chiave migliore è quella che esprime il bisogno
dell’utente nel momento in cui viene cercata,
ovvero quella che corrisponde esattamente al
suo intento, che fornisce il risultato migliore da
consultare tramite il device utilizzato (come), nel
luogo in cui si trova (dove) e all’orario corretto
(quando).
Tips & Tricks
• I punti esclamativi funzionano, attirano
l’attenzione.
• I numeri sono molto visibili perché spezzano
l’annuncio, meglio metterli a inizio frase, perché
altrimenti, scorrendo verso il basso, l’occhio
rischia di non vederli.
Stare sempre attenti all’analisi delle query di
ricerca consente di capire quali sono quelle che
hanno attivato un certo tipo di annuncio e quindi
se l’annuncio proposto corrisponde davvero ai
bisogni dell’utente.
• Non sottovalutare la visibilità degli elementi,
in quanto il tempo dedicato dagli utenti ad ogni
annuncio è pochissimo.
Come creare un annuncio che funziona
Domanda tipo di qualsiasi cliente:
• L’URL di visualizzazione mostrato nella SERP
condiziona il click dell’utente, è consigliabile
provarne diversi per vedere quali attirano di più
i click degli utenti (mettendo in pausa gli annunci
con CTR più basso).
• Come faccio a trovare altri clienti? (Awareness)
• Come faccio a emergere in un marketplace così
affollato? (Consideration)
• Come faccio a far aumentare le vendite e a far
crescere la mia attività? (Purchase)
• Migliorare l’usabilità della ricerca su mobile:
ad esempio cercando una pizzeria tramite
smartphone, non si digita anche il luogo, perché
con il GPS si dà per scontato che verranno
mostrate prima le pizzerie più vicine.
Per ottenere risultati in linea con ognuno di
questi obiettivi, in fase di creazione dell’annuncio
è importante considerare i seguenti punti:
189
Google AdWords e Google Analytics
Case Studies
COFFEE POWER
Ottenere successo con un e-commerce
TURISMO
Come ottimizzare le campagne travel
Coffee Power, e-commerce di caffè, inizialmente
puntava molto su chiavi a corrispondenza
generica (capsule caffè > awareness), ma in
realtà quel tipo di chiavi viene ricercato solo
da chi si sta ancora informando sull’acquisto
di una macchina con capsule, non da chi è
effettivamente interessato all’acquisto di caffè
(che cerca piuttosto chiavi più specifiche).
Conseguenze: CTR bassissimo e quindi CPC
altissimo.
Premesse:
Nel turismo la chiave generica ha molto più peso,
perché l’utente di norma non parte già con le idee
chiare. Quasi il 70% delle ricerche da mobile si
concretizza in una prenotazione nell’arco di un
giorno. È molto facile che si usi il mobile quando
si hanno già le idee chiare, mentre per avere
informazioni generiche l’utente è più comodo
navigando da desktop. Nel 67% dei casi, l’inizio
della prenotazione è online (ricerca innesto).
Nel 42% dei casi YouTube è stata una fonte di
ispirazione per la prenotazione di un viaggio.
Cosa fare:
• Iniziare a creare delle inverse, eliminando le
voci non pertinenti, ad es –lavazza (marchio non
venduto) o togliere voci che creano perplessità o
negative, ad es -inquinamento, -ecosostenibilità.
Cosa fare:
• Investire sul proprio nome.
Se si utilizza il nome della propria struttura come
chiave, il CPC sarà sicuramente più basso rispetto
a quello per le piattaforme di prenotazione
(rilevanza per contenuto, ad es. dominio = nome).
Non conviene investire sul proprio nome solo se
il tasso di conversione sulle piattaforme turistiche
(es. booking) è così alto che queste possono
permettersi di pagare cifre molto elevate per ogni
click.
• Attivazione campagna shopping: solo con
le campagne shopping l’annuncio viene
visualizzato sia nella ricerca, sia anche come
display sul sito che viene cliccato.
• Associare ad ogni specifica ricerca un banner
distinto.
Creare dei profili di utenti specifici, inserendo
per ognuno interessi e URL che potrebbe visitare
(anche possibili competitors): AdWords crea
dei cluster con tali caratteristiche ed è possibile
selezionare tra di essi il target di riferimento.
• Creare liste di affinità personalizzata, segmenti
di pubblico per affinità.
• Search: acquistare parole chiave e mostrare gli
annunci nella rete di ricerca di Google, per andare
ad agire sulle fasi del funnel della consideration/
intent e sulla purchase.
• Individuare i momenti in cui l’utente ha
veramente bisogno del prodotto per fare
campagna awareness (es. caffè: pausa caffè,
mattina).
• Display: mostrare gli annunci sulla rete display
di Google per creare awareness sui segmenti.
Risultati:
Se il cliente trova il gusto che gli piace ad un
prezzo conveniente, sarà portato ad acquistare
sempre lo stesso gusto, sempre sullo stesso shoponline e più volte all’anno > alta fidelizzazione.
• Remarketing: mostrare gli annunci a chi è già
stato sul sito.
Sfruttare i video per andare ad influenzare chi si
trova nella fase di interest/consideration.
190
Google AdWords e Google Analytics
Strumenti per analizzare le chiavi più adatte
Più il CTR sale, più sale la qualità, quindi
AdWords fa pagare meno i click e di conseguenza
scende il CPC.
Google Trends
Trends fornisce grafici che mostrano quanto una
chiave è stata cercata nel corso degli anni.
Se dovesse essere presente un calo, questo
va considerato non solo prendendo in
considerazione una una sola chiave, ma valutando
diversi termini, in quanto cambiando i termini
della ricerca si possono ottenere risultati diversi
(ad es. campeggio potrebbe essere più forte di
hotel).
Es.
1000 impressions
CTR 10%
100 click
CPC 2€
Costo: 200€
Se il mio CTR diventasse del 20%, continuerei a
fare 100 click, ma avrei 500 impressions:
Quindi:
500 impressions
CTR 20%
100 click
CPC 2€
Costo: 200€
I valori indicati nei grafici sono espressi con un
massimo di 100 (per capire a quanto corrisponde
questo valore, è necessario confrontare con
volumi di SEMrush).
Google Correlate
Mostra quali altre ricerche sono state fatte
contemporaneamente alla propria parola chiave.
È un comparatore di grafici, associa quelli con
andamento simile.
Aggiungendo però il fattore qualità otterrei:
1000 impressions
CTR 20%
200 click
CPC 1€
Costo: 200€
A parità di budget, si otterrebbe il doppio dei
click14.
SEMrush
Sul mercato selezionato dà 3 risultati:
• Volume: confrontando le date con i grafici di
Google Trends, consente di verificare a quanto
corrisponde il valore fornito da Google Trends.
• CPC: presunto, medio
• SERP
Strategia di offerta flessibile
La strategia di offerta flessibile consente di
ottimizzare automaticamente le offerte per le
parole chiave a basso rendimento, andando a
lavorare anche a livello di specifico elemento.
Tips&Tricks
Quanto investire su una chiave?
Per capire quanto investire su una chiave per
essere primi, non si deve moltiplicare il CPC
per il volume, in quanto il volume indica quante
volte il termine è stato ricercato, non quante volte
è stato cliccato.
Si deve quindi recuperare il CTR, in quanto la
spesa che il cliente dovrà sostenere è il CTR del
volume.
Es: Fruttivendolo
Obiettivi: vendere mele, vendere pere
Campagna: frutta
Gruppo annunci: mele, pere
Parole chiave: +mele, +pere
Il dimezzamento del costo per clic è puramente esemplificativo.
14
191
Google AdWords e Google Analytics
Annunci Gmail
Si paga solo il click sulla collapsed ad (ovvero
l’annuncio in forma ridotta), tutti i click successivi
sono gratuiti.
Creo annuncio:
Titolo: Mele e Pere Alta Qualità (mettere le parole
importanti con iniziale maiuscola)
Riga descrizione 1: Mele e Pere dell’Alto Adige.
(il punto porta la prima riga di descrizione
accanto al titolo)
Riga descrizione 2: compra ora al miglior prezzo
Tre tipologie di interazione possibili:
• Click verso il sito web;
• Salvare come messaggio di posta il banner/l’adv;
• Posso inoltrarlo come mail (ciò offre grandi
possibilità di visualizzazioni gratis, in quanto si
paga solo il primo click sul collapsed, non i click
successivi sui banner).
Budget: 10€ al giorno
“mela” viene cercata il 120% in più di “pera”
• Comprando solo “mele”
10€/0,88(CPC)= 11 click
Web Analytics
Case Study: E-commerce di scarpe
• Comprando solo “pere”
10€/0,27 (CPC)= 37 click
Obiettivo: vendere.
Dato che le mele sono più cercate, vanno a
cannibalizzare le pere (per cui si paga, ma non
servono per ottenere click).
Customer journey:
• L’utente entra nel sito;
• Cerca la categoria/prodotto;
• Legge i commenti;
• Aggiunge al carrello;
• Fasi del check-out;
• Paga.
Meglio creare 2 annunci separati, in modo anche
da rispondere meglio alle richieste di chi cerca,
magari dividendo il budget, 5€ per “mele” e 5€
per “pere”.
Problema: alta frequenza di rimbalzo.
Keyword Insertion
A prescindere dalla query, è possibile creare un
unico annuncio che si forma automaticamente:
Per capire dov’è il problema, bisogna innanzitutto
creare eventi specifici, per capire in che punti
si sofferma l’utente e dove invece abbandona la
pagina (lettura commenti, evento di inserimento
in carrello, evento “avanti” per tracciare tutte le
fasi di check-out che avvengono per tab, non su
pagine diverse).
{KeyWord:parola chiave}
Esistono 4 varianti:
Keyword: maiuscola prima lettera della prima
parola;
KeyWord: tutte le parole con iniziale maiuscola;
KEYword: solo 1ª parola tutta maiuscola;
KeyWORD: iniziale della prima parola, tutte le
successive tutte maiuscole.
Evento: misuratore di performance che porta
all’obiettivo
Analizzare il percorso determinando i KPI
(Key Performance Indicators).
Es. bounce rate, inserimenti in carrello.
N.B.: Non è consentito scrivere tutto maiuscolo,
tali annunci vengono segnalati e si rischia la
sospensione dell’account AdWords.
192
Google AdWords e Google Analytics
Aggiungere segmenti all’analisi: per monitorare
il comportamento di un determinato gruppo
di utenti, per esempio quelli che non hanno
rimbalzato (sessioni senza rimbalzo > per capire
quanto è profonda una visita).
Le analisi devono essere fatte sulla base di due
parametri:
• Cos’è successo un anno fa (es. aprile 2016 su
aprile 2015);
• Confronto tra due differenti periodi per valutare
quando le performance sono state migliori (es.
aprile su marzo 2016 in confronto ad aprile su
marzo 2015).
Importante: mai fare un’analisi basandosi sul
mese precedente, perché ogni mese ha una
storicità diversa.
Irene Pepe
Claudia Riboldi
Chiara Terranova
193
Google AdWords e Google Analytics
Riferimenti bibliografici
Andrea Testa, Fare Business col Digital Marketing, EPC Editore, Roma, 2015.
Andrea Testa, Guido Di Fraia, I segreti di Google AdWords, Hoepli, Milano, 2013.
Avinash Kaushik, Web Analytics 2.0. Misurare il successo online nell’era del web 2.0, Hoepli,
Milano, 2009.
194
VIDEO DIGITAL LANDSCAPE:
LE NUOVE TENDENZE EMERGENTI
Tratto dalla lezione di Donatella Urrai
«Odio i pre-roll. Bisognerebbe sparissero.
Inquinano l’ambiente della pubblicità online in modo non più sostenibile»
VIEWABILITY - MISURABILITÀ - VIDEO NATIVI
In questi ultimi anni stiamo assistendo a una
rivoluzione copernicana nell’ambito del video
e, di conseguenza, delle pubblicità veicolate
attraverso di esso.
Cinquant’anni fa c’era la televisione in bianco
e nero, condivisa da più famiglie. Oggi la
disponibilità del mezzo televisivo è di 635 canali,
e la fruizione quotidiana supera i 100 minuti a
persona.
Per quanto riguarda i video on demand su digitale,
si parla di oltre 400 canali per un consumo
maggiore di 20 minuti al giorno per persona.
Inoltre, circa il 77% dei video sono visti su
piattaforme social: basti pensare che YouTube
conta quasi 9 milioni di utenti, e su Snapchat
vengono uplodati e fruiti circa 10 miliardi di
video ogni giorno.
Tra le tendenze che più stanno prendendo piede,
c’è il crescente investimento da parte delle aziende
nei video pubblicitari cosiddetti nativi1.
e di “servire”, così, il video native più idoneo,
adattandolo allo schermo utilizzato. A questo
viene anche associata la compravendita in tempo
reale mediante real time bidding, impression per
impression, del video pubblicitario stesso.
Il successo di questo sistema risiede soprattutto
nel fatto che la fruizione del web è sempre più
personalizzata e crossmediale, nel senso che
l’utente fruisce dei contenuti in multiscreen
(desktop, mobile, tablet): il programmatic
consente, quindi, di proporre il video giusto
all’utente corretto nel momento più opportuno
della giornata, sulla base degli interessi della
persona.
Come detto, il programmatic è strutturato come
un’asta virtuale che consente l’incontro del
volume di spazi a disposizione da una parte, e dei
prezzi proposti per gli spazi stessi dall’altra: tutta
la parte d’acquisto è automatizzata.
L’onda del programmatic
Secondo gli analisti il fenomeno finora riservato a
desktop e mobile, è destinato a coinvolgere anche
la televisione. In effetti, i trend di crescita parlano
chiaro: se nel 2014 solo un quarto del volume
di scambi era riconducibile al programmatic
marketing, nel 2019 la torta sarà spartita a metà
tra programmatic e non programmatic.
Ma l’onda più travolgente che ha sconvolto
l’universo del video advertising è il fenomeno
del programmatic, caratterizzato da sistemi di
automazione della compravendita online di
video pubblicitari, in grado di riconoscere le
preferenze e le abitudini di consumo dell’utente
Si tratta di pagine video che si aprono outstream durante la fruizione di una pagina, senza necessariamente
essere player video.
1
195
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
Fig. 1 - Nel grafico la fotografia della crescita del programmatic che, secondo le previsioni degli esperti,
nel 2019 arriverà a coprire la metà del mercato.
Da segnalare, anche la crescente importanza
dei video, sia su desktop sia su mobile, rispetto
ai banner, negli investimenti globali in modalità
programmatic: se nel 2015 essi rappresentavano
soltanto il 26% degli investimenti, nel 2019 sono
destinati a raggiungere quota 55%.
Fig. 2 - In questo grafico le previsioni di incremento dell’utilizzo dei video: nel 2019 dovrebbero essere
il 55% del totale degli investimenti pubblicitari in programmatic. Da notare anche il forte incremento
degli investimenti nel mobile video, che passa da un 8% del totale nel 2015 a un previsto 28% nel 2019.
196
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
Science, l’11,6% dei video pubblicitari ricade
nel cosiddetto “traffico fraudolento”, ovvero
generato non da esseri umani, ma da algoritmi
che simulano l’esperienza umana (frodi online e
bot2).
Altro dato: ben il 63% degli annunci pubblicitari
pre-roll3 viene erogato ma non raggiunge l’utente,
non viene visto, cioè, dal potenziale cliente.
Percentuale che raggiunge il 78% per i preroll non
premium (cioè non erogati in testate prestigiose,
autorevoli o particolarmente seguite). Da subito
va sottolineata la differenza tra i video instream,
che sono soprattutto i pre-roll, e quelli outstream,
che invece non hanno bisogno di un player fisso
per essere erogati, non sono invasivi ma si aprono
tra un contenuto e l’altro e, se non vengono
visualizzati, si bloccano.
In ultima analisi, ciò che emerge dalla ricerca è
che ben il 54% dell’advertising online non viene
visto.
Ma quali sono le motivazioni di questo spreco?
In ultima analisi, non si può non segnalare
la vertiginosa crescita degli investimenti
pubblicitari su mobile, rispetto a quelli su
desktop: nel 2015, infatti, il mobile catalizzava
circa il 28% degli investimenti, mentre nel 2019
la percentuale salirà al 50%.
Tutto questo porterà anche a un cambiamento nel
ruolo delle agenzie pubblicitarie, che dovranno
occuparsi maggiormente di consulenza
strategica, contenuti e creatività, piuttosto che di
mera compravendita di spazi pubblicitari.
Ma emerge anche l’importanza di un’altra
figura chiave, e cioè quella del professionista,
informatico o ingegnere, in grado di interpretare
i big data elaborati dai robot e di dirigere così la
campagna pubblicitaria sulla base dei riscontri
individuati.
D’altro canto il programmatic è ormai una realtà:
il tasso di crescita del fenomeno è, per il periodo
2014-2019, del 31% a livello globale, mentre
per l’area europea del 28% ma, nel Vecchio
Continente, l’Italia è seconda solo alla Germania
in investimenti di questo tipo.
1) Le frodi online e i bot (come anticipato);
2) Gli ad blocker;
3) Il fatto che il video parta prima di poter essere
visualizzato;
4) Il fatto che gli utenti, infastiditi, lascino la
pagina.
Pensare outstream
Nel settembre 2015 il vicepresidente della Global
Media Innovation and Ventures di Unilever Babs
Rangaiah disse: «Il modo in cui oggi misuriamo
la pubblicità digitale ha qualcosa di assurdo».
E, in effetti, una delle domande che le aziende
si pongono sempre di più è: «Quanto di ciò che
viene investito in pubblicità va perso?»
Questione che, declinata sul mezzo video, si
traduce nella ricerca dei criteri che possano
aiutare il brand a capire se la campagna video
pianificata è valida, raggiunga, cioè, standard
qualitativi premium e possa essere misurata in
modo trasparente.
Secondo un report effettuato da Integral Ad
Quel che è certo è che si apre un problema per
le aziende relativamente alla viewability4: quante
views si possono davvero definire complete?
Come si può misurare questo dato?
A tal proposito è importante il sistema del
completion rate, che consiste in un sistema di
acquisto basato sul cost per view: l’azienda paga
solo se il video viene visualizzato dall’utente fino
alla fine.
La completion rate individua, quindi, il rapporto
tra il numero di volte in cui è stato fatto partire il
Nei Paesi anglosassoni, con bot s’intende un programma autonomo che nei social network fa credere
all’utente di comunicare con un’altra persona umana. Questi bot migliorano di anno in anno ed è sempre più
difficile distinguerli.
3
Video che partono in automatico prima di un contenuto editoriale.
4
La viewability (visibilità) è una metrica di pubblicità online utilizzata per misurare il tasso di impression
visualizzabili.
2
197
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
video e il numero di visualizzazioni complete che
erano state acquistate. È un indice significativo
per misurare la validità di una campagna: più è
alto, più video sono stati visti fino alla fine. Esso
aiuta a capire se tali video sono stati erogati
nell’ambiente giusto.
Ma attenzione: secondo Integral Ad Sciences,
una campagna video che raggiungesse
l’apparentemente pregevole risultato di una
completion rate di 88,8 nel primo quarto del
video, in realtà, in termini di visualizzazioni
effettive in pagina, avrebbe raggiunto un range
che va dal 26 al 29%.
Cosa significa questo?
Che i tradizionali sistemi di misurazione di
viewability sono fallaci e non tengono conto di
quanti davvero hanno visto in pagina il video
erogato: l’utente può aver fatto partire il video, ma
contemporaneamente aver aperto altre pagine, o
scrollato, o letto mail e scritto in chat.
Ciò che i brand dovrebbero desumere da questa
ricerca è l’opportunità di acquistare video che
di default garantiscano la misurabilità della
viewability, come i native (i citati outstream),
che si aprono tra un contenuto e l’altro, non
partono da soli e vanno avanti solo se sono in
pagina, altrimenti si bloccano (come i video
di Facebook). Tali video non solo non sono
intrusivi, ma danno anche la possibilità di avere
una viewability completa.
consentono una lettura semantica dell’articolo
all’interno del quale dovrebbe essere erogato il
video, così da riconoscere eventuali keyword
“vietate” ed evitare contesti inopportuni o
addirittura pericolosi per la reputazione del
brand.
Sempre secondo la ricerca di IntegralAd Science,
oltre il 15% dei video pubblicitari online sono
visti in contesti che potrebbero essere considerati,
appunto, “pericolosi” per il brand.
Per abbattere i costi, però, spesso accade che i
brand pubblichino i propri video in ambienti
non premium (in coda lunga) senza controllo
semantico senza, in definitiva, avere la possibilità
di verificare il content-risk.
Ma torniamo al controverso concetto di
viewability che, di per sé, non è affatto unanime.
Basti pensare al gap tra le norme del MRC (Media
Rating Council) che definirebbero i criteri in
termini di advertising digitale, rispetto alla realtà
delle esigenze dei brand.
Secondo tali regolamentazioni, ad esempio, un
video può considerarsi visto se su un desktop
permane per due secondi su metà dello schermo,
stessa cosa per un video fruito su dispositivo
mobile. E sulla carta le aziende dovrebbero
investire in relazione a tali standard. Ma,
ovviamente, in questo modo non si viene incontro
alle esigenze del cliente che, invece, chiede una
visualizzazione di almeno 30 secondi su una
superficie che raggiunga il 70% dello schermo
e in modalità click to play (cioè video visti
intenzionalmente e non a partenza automatica).
In ogni caso, va ribadito il concetto dell’opportunità
da parte delle aziende di utilizzare video native
rispetto ai pre-roll.
Se, infatti, questi ultimi hanno quasi il 12% di
possibilità di finire nelle maglie delle frodi, quelli
native meno dell’1%. Inoltre, i preroll hanno una
completion rate che arriva a un quasi 80% a fronte
del 100% dei native, con una viewability che nei
primi raggiunge il 32%, mentre nei secondi il 91.
E, in termini di rischio per l’immagine, i preroll sono a più del 15%, mentre i native a meno
dell’1%.
Da non sottovalutare in relazione alla misurabilità
del successo di una campagna, anche l’importanza
che la campagna stessa compaia nell’ambiente
più appropriato: tanti sono stati i casi di pre-roll
partiti prima di un contenuto assolutamente
inappropriato.
Un esempio?
Un pre-roll di un noto farmaco contro il
mal di testa mostrato prima di un video che
documentava alcune macabre decapitazioni da
parte dell’Isis.
Come ovviare a questa problematica?
Esistono piattaforme che, oltre a bloccare il
cosiddetto traffico non umano per evitare frodi,
198
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
Fig. 3 - In questa immagine dati che certificano in modo netto la maggior funzionalità dei video native
rispetto ai pre-roll
Emerge, peraltro, l’importanza di pensare crossscreen da parte dei brand: le strategie basate su
campagne isolate le une dalle altre non hanno
efficacia.
Oggi le aziende devono pensare a strategie
video che siano sostenibili, che non urtino, cioè,
l’esperienza di navigazione dell’utente.
Di conseguenza, le campagne vanno anche
monitorate cross screen perché si stima che, con
tale pianificazione, si raggiunga più del 60% del
target.
Fig. 4 - Per essere efficaci le strategie di comunicazione devono essere ideate in chiave cross-screen
199
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
L’onda del mobile
Una campagna adv è vincente quando intercetta
i native moments dell’utente, ne cattura cioè
l’attenzione senza disturbare, perché è sul device
adatto e nel momento più opportuno.
E non si può prescindere da un dato ormai
rivoluzionario: su 100 fruitori del web, 71
navigano da mobile.
Fig. 5 - Frame Spot Volvo Trucks
L’onda del video
Se poi si vuole raggiungere un’azione, siamo cioè
a un passo dall’acquisto, è opportuno un video
lungo, quasi come un film e rivolto principalmente
agli influencer. Si tratta di veri cortometraggi che
utilizzano il linguaggio del cinema, come per
la pubblicità di Johnnie Walker, con attori del
calibro di Jude Law e Giancarlo Giannini, che ha
avuto 12 milioni di visualizzazioni.
Il video è più efficace di altre forme di advertising
digitale, perché garantisce un’esperienza più
immersiva e multisensoriale, che influenza
maggiormente l’utente all’acquisto.
Ma quali regole seguire per realizzare video
“ingaggianti”?
Sicuramente il concetto del native, cioè
appropriato all’ambiente di navigazione, ha un
valore.
E, nonostante negli anni gli advertiser abbiano
prediletto l’inizio e la fine della pagina web per
collocare i banner, si è scoperto che è, invece, il
centro della pagina il punto in cui si focalizza
l’attenzione dell’utente.
E i contenuti?
Per generare interesse nei confronti del prodotto
il video dev’essere ispirazionale, utile e di
intrattenimento.
Alcuni studi hanno individuato le caratteristiche
più appropriate che i video dovrebbero possedere
in relazione agli obiettivi da raggiungere.
E quindi, ad esempio, per aumentare la brand
awareness è preferibile uno tendenzialmente
corto, che utilizzi uno storytelling emozionale,
sorprendente e provocatorio, idoneo a raccontare
la marca e, fondamentalmente, d’impatto.
D’altro canto, se l’obiettivo è innescare desiderio
e interesse per il prodotto, è preferibile un
video di media lunghezza, interattivo, ma anche
informativo e ironico, come quello di Volvo
Trucks.
Fig. 6 - Frame Spot Johnnie Walker
Un altro trend si rifà all’utilizzo dei linguaggi
universali dell’arte: tra le campagne più di
successo, degna di nota è di certo quella di
Bottega Veneta in collaborazione con Araki.
Fig. 7 - Frame Spot Bottega Veneta
200
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
In ultima analisi, quali sono le raccomandazioni
per costruire video pubblicitari efficaci?
È necessario attenersi a 4 regole auree:
1) Avere chiaro l’obiettivo da raggiungere con
il video, se è all’inizio o alla fine del cosiddetto
funnel d’acquisto5;
2) Adattare l’idea del video allo schermo dove
verrà fruito: lungo o breve, non va semplicemente
pensato per la tv ed esportato su altri schermi.
Bisogna cioè pensare digitale;
3) Rispettare l’utente: non vanno usati formati
invasivi come i pre-roll, ma nativi, lasciando così
libera la scelta;
4) Studiare il formato video idoneo a facilitare
il più possibile la viewability: se un video risulta
completo, non significa che sia stato visto in
pagina;
Troppo spesso, però, questi criteri non vengono
rispettati e la pubblicità diventa un nemico
da ostacolare: una ricerca rivela, infatti, che
il 74% delle persone costrette a guardare un
annuncio video, prima del contenuto desiderato,
percepisce la propria esperienza di navigazione
come penalizzata.
Ecco perché sono sempre più diffusi gli ad-blocker,
software che, se installati, bloccano la pubblicità
invasiva, come i pre-roll e i pop-up.
Nel mondo sono circa 200 milioni le persone
che li usano e si calcola che globalmente stiano
arrecando al mercato della pubblicità un danno
economico di circa 22 miliardi di euro.
Le motivazioni?
Secondo l’indagine “Profile of an Ad Blocker”
realizzata da ResearchNow, il 67% degli utenti
afferma che gli annunci pubblicitari rallentano il
sito web, il 59% che sono fastidiosi, e, tra tutti,
quelli considerati più intrusivi sono i pre-roll.
Molto interessante il dato secondo cui il 47% degli
utenti disinstallerebbe un ad-blocker se ci fosse
la possibilità di chiudere un annuncio, il 40% se
detto annuncio fosse “skippabile” dall’inizio e il
25% se lo fosse dopo i primi 5 secondi.
In ultima analisi, esistono dei punti fermi da
seguire per creare un’esperienza ottimale di
navigazione e rendere pertanto l’advertising più
efficace, e sono:
F OC U S
Video vincenti
La piattaforma Teads ha individuato altri elementi
che possono essere utili per realizzare video
pubblicitari strategicamente d’impatto, eccone
alcuni:
• Cominciare con un “Bang”, in modo cioè
accattivante, così da catturare l’attenzione da
subito;
• Concentrarsi sullo storytelling, raccontando una
storia avvincente che abbia un tessuto narrativo
basato sulle emozioni;
• Puntare sulla sorpresa, ma non sullo shock.
Quindi evitare di risultare eccessivi;
• Farli partire senza audio: sarà poi l’utente a
decidere se attivarlo oppure no.
1) Utilizzare formati pubblicitari senza interferire
con l’esperienza di navigazione dell’utente;
2) Dare possibilità di scelta agli utenti;
3) Limitare l’uso di formati intrusivi come i
pre -roll;
4) Distribuire formati sviluppati per il mobile
così da migliorare la percezione del contenuto
pubblicitario;
5) Individuare un target strategico per
assicurare la rilevanza dell’annuncio rispetto al
contenuto e al contesto nel quale viene distribuito.
AdBlocker
Una regola base in relazione alle pubblicità video
online è il non essere invasivi e fastidiosi.
La pubblicità infatti dev’essere interessante e
rispettare l’utente, messo nelle condizioni di
scegliere se vederla oppure no.
Gianluca Torti
Il funnel è il processo attraverso il quale i potenziali clienti passano dalla prima consapevolezza del marchio
al post-vendita.
5
201
Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti
Riferimenti bibliografici
Caiazzo D., Febbraio A., Lisiero U., Viral video. Content is King, Distribution is Queen,
Fausto Lupetti Editore, 2013.
Vaccaro A., Conti L., Native advertising. La nuova pubblicità. Amplificare e monetizzare
i contenuti online, Hoepli, Milano, 2016.
202
BIG DATA E VISUALIZZAZIONE
TRA ANALISI E NARRAZIONE
Tratto dalla lezione di Paolo Ciuccarelli
«La narrazione è un’esperienza di pensiero che esercita ad abitare mondi estranei
e implica «una provocazione a essere e agire diversamente» - P. Ricoeur, 1985
big data - open data - infografica
Quello dei big data è un fenomeno sempre più
presente e in costante evoluzione.
Ancora oggi si pensa che per un uso corretto
dei dati sia sufficiente estrarli, ma questa sola
operazione non permette di utilizzarli al fine di
ottenere un vantaggio competitivo sul mercato.
Cisco ha definito i dati come il nuovo petrolio e il
paragone è molto corretto in quanto il petrolio,
come il dato, si trasforma e si può utilizzare in
modi differenti. IBM afferma che i dati costeranno
sempre meno perché il valore non è nel dato,
nell’estrazione di esso e nella sua disponibilità,
ma risiede nel valore che gli si attribuisce.
Tim Bernerds – Lee1 diceva che i dati devono
essere grezzi. Uno dei metodi che risulta
più efficace consiste nell’iniziare a lavorare
direttamente dalla fase di estrazione perché già
nella visualizzazione di questo momento si riesce
ad individuare il fenomeno ed eventualmente ad
apportare modifiche alla ricerca o a effettuare
delle integrazioni con ulteriori dati. Il lavoro
non consiste solo nella visualizzazione dei dati,
che costituisce solo una parte del processo, ma
nel fornire delle risposte utili per prendere le
decisioni. Ma che cosa sono gli open data?
Sono dati disponibili che vengono forniti. Sono
trasformabili e soprattutto devono essere in
formato standard e non proprietari.
Diversi sono i siti che offrono gli open data ed
è importante ricordare che a livello istituzionale
1
il primo sito governativo di open data con .gov
è stato aperto da Obama nel 2008. Miliardi di
dati sono potenzialmente utilizzabili, ma il vero
problema non è avere i dati ma trasformare quei
numeri in valore, dando ad essi il significato
corretto.
Un’ operazione non sempre facile in quanto
le aziende spesso hanno paura a condividere
i propri dati, anche se la combinazione di dati
provenienti da diversi fonti consentirebbe di
individuare in modo più completo i fenomeni.
Il caso: car sharing
Dal sito di una compagnia di car sharing sono
stati estrapolati i dati della settimana e per
poter analizzare il fenomeno è stato necessario
analizzarli da diversi punti di vista.
Dopo aver estratto un dataset molto semplice
composto da un excel con pochi dati (noleggi
singoli a settimana, data e presa di consegna e
location) si è cominciato a “giocare” con i numeri.
I risultati derivanti dalle diverse combinazioni
hanno permesso di avere una panoramica sui
diversi comportamenti degli utilizzatori del
car sharing, identificando ad esempio le ore di
maggior noleggio, le zone, gli orari, etc.
Molte le rappresentazioni visive derivanti dall’uso
dei dati, tra cui il diagramma di Voronoi, che ha
permesso di capire il percorso per raggiungere la
macchina.
informatico britannico e co-inventore insieme a Robert Cailliau del World Wide Web.
203
Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione
Fig. 1 - Rappresentazione visiva di una settimana di utilizzo del Car Sharing a Milano
Cos’è la visualizzazione dei dati?
non solo, per rappresentare il flusso di merci tra
un paese all’altro.
Nel 1869 Minard rappresentò la campagna di
Napoleone in Russia e la sua rappresentazione
è stata definita come uno dei migliori grafici
statistici mai prodotti. Minard utilizzò due colori
per raccontare il flusso dei soldati: andata e ritorno
con il senso di marcia, mettendo in evidenza
anche i fiumi. Nel 1971 Minard sostituì alle parole
delle immagini corrispondenti matematicamente
proporzionate, che a colpo d’occhio erano in
grado di comunicare gli elementi importanti
di un fenomeno senza bisogno di ulteriori
spiegazioni. Un altro aspetto importante da
considerare è l’efficacia del linguaggio. Il cervello
è una macchina, cerca pattern3. Connettere cose
logiche (es. costellazioni nel cielo) è il modo che
usa il cervello per creare correlazioni mentali, e
lo stesso procedimento avviene con i database.
Le visualizzazioni lavorano proprio costruendo
pattern e sono molto efficaci perché il nostro è
un pensiero visuale. Anche l’insight è un vedere
attraverso, simile al pattern (ad esempio si può
Essa è stata definita come “la visualizzazione di
dati astratti” perché in realtà la data visualization
era la costola della science visualization che era
la rappresentazione di fenomeni reali (es. corpo
umano)2.
La data visualization è un terreno molto
interessante, come ci conferma anche Google
Trends. Ci sono molti investimenti in questo
settore anche da parte dei giornali, che utilizzano
la data visualization come nuovo linguaggio. È il
caso ad esempio del Corriere della Sera.
La visualizzazione dei dati è importante perché
l’immagine è più immediata, dal momento che
il linguaggio visuale è gestito meglio dal nostro
sistema sensoriale cognitivo. La vista in una
frazione di tempo è in grado di fornirci infatti
moltissime informazioni. La data visualization
non è un fenomeno così nuovo, basti pensare che
ci sono casi di visualizzazione dei dati risalenti al
1858, quando Charles Minard, ingegnere civile
con una grossa passione per dati e geografia, mise
a sistema per la prima volta alcuni dati statistici e
2
3
Few S., 2014
Pattern inteso come configurazione di stimoli che si presentano a costituire un’unità percettiva
204
Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione
Fig. 2 - La campagna di Napoleone in Russia rappresentata da Charles Minard
ricorrere a delle barrette colorate per imparare
i numeri). La scienza ha sempre lavorato con
i dati, ma anche con le immagini. Nel 1600
Cartesio ha generato gli assi cartesiani, rendendo
possibile la visualizzazione di miriadi di dati. Nel
1700 Edmund Halley fu il primo a costruire
grafici con gli assi cartesiani. Poi tra ‘700 e ‘800
arrivò William Playfair che inventò tantissime
delle tecniche che ancora oggi si usano (linee di
tendenza, torte etc.). La visualizzazione veniva
utilizzata come strumento cognitivo naturale.
Ad un certo punto, in epoca moderna, si cominciò
a comprendere che i dati potevano essere usati in
modo pragmatico.
F OC U S
Nel 1854 ci fu un evento che dimostrò l’effettiva
importanza della rappresentazione visiva dei dati:
l’esplosione del colera in Inghilterra. John Snow,
medico inglese, creò la “Ghost map”. Era convinzione
comune che le epidemie si diffondevano attraverso
l’aria. Snow scoprì qualcosa di diverso: raccolse casa
per casa i dati relativi a coloro che erano morti a causa
del colera, collocò tutti i dati sulla mappa della città
e si accorse che tutte le morti si concentravano in un
punto di Londra, nei pressi di una pompa dell’acqua,
che identificò dunque come focolaio.
Fig. 3 - La “Ghost Map” di John Snow
205
Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione
F OC U S
possibile analizzarli attraverso metodi standard,
ma essi devono essere strutturati perché si possa
arrivare a conoscerli in modo approfondito.
C’è un grosso gap tra le origini storiche della
visualizzazione dei dati, che nasce con l’analisi
scientifica, e l’approccio narrativo della
visualizzazione dei dati che si usa nei media,
sintetizzato dall’infografica e osservato con
avversione da chi si basa sul primo tipo di
approccio. Da 4 o 5 anni per fortuna le cose
stanno cambiando, grazie all’utilizzo di strumenti
linguistici volti ad arricchire la modalità
d’espressione rispetto al fenomeno da raccontare.
Oggi l’approccio efficientista e meccanicistico
impera insieme all’approccio analitico (analytics,
dashboard etc.) soprattutto per chi si occupa
di business intelligence, utilizzando diversi
widget per ottimizzare le capacità mentali. Ad
esempio, Google handgram (data visualization)
è ancora molto più presente nei libri rispetto
all’infografica. Le persone comuni invece sono
più propense e vicine all’infografica (media)
rispetto all’approccio più scientifico dei data
visualization, perché usa un linguaggio più
semplice da comprendere. Il padre dell’infografica
è Nigel Bones, che negli anni ‘80 ha creato il noto
Snapshot. Il gap tra i due mondi, quello orientato
all’approccio analitico e quello invece che
predilige quello narrativo, è ancora consistente.
Quello che si sta affermando oggi è un
approccio “ibrido”, che utilizza un linguaggio
più comprensibile rispetto a quello analitico e
scientifico, per coinvolgere maggiormente le
persone. Perché il dato sia usufruibile da chiunque
infatti, occorre necessariamente semplificare
Florence Nightingale (appassionata di questioni
sociali e nata nel 1820 a Firenze) fu la prima ad
applicare il metodo scientifico dell’utilizzo statistico
dei dati. Secondo la Florence la maggior parte dei
decessi dei soldati, durante la guerra di Crimea,
non avveniva nei campi di battaglia, bensì negli
ospedali per mancanza di infermieri. A tal proposito,
presentando i dati raccolti al governo, riuscì a
realizzare il suo progetto di fondazione dell’assistenza
infermieristica moderna.
Nel 1860 nasce la tavola dell’atlante statistico della
Francia grazie ai dati di Minard4. I dati si possono
rappresentare anche con rappresentazioni
figurative, che evocano cose esistenti: si
parla in questo caso di pittogrammi che non
esistevano prima del 1930. Il picture language
si è diffuso subito dalla Germania agli USA, con
le visualizzazioni di tantissimi atlanti statistici.
Ad accomunare tutti questi personaggi è il fatto
che non erano grafici di mestiere. Otto Neurath
è il primo della storia ad assumere un grafico
per portare avanti il suo progetto, allo scopo di
convincere il governo ma anche il popolo della
veridicità delle sue affermazioni.
La tree-map usata per rappresentare gerarchie
di categorie di dati, esiste dal 1870 anche se
solo con la versione 2016 di Office viene inclusa
come fattore nuovo nelle new charts: waterfall,
histogram, ppt, treemap, etc., esistono moltissimi
strumenti già inventati in passato che ancora oggi
non sono state ri-scoperti.
I fenomeni sono di per sé complessi, perciò non è
Fig. 4 - Approccio scientifico e approccio narrativo
4
http://www.datavis.ca/milestones/index.php?query=Minard
206
Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione
e dei dati, rappresentandoli ad hoc e secondo
il The Guardian non bisogna mai credere alla
visualizzazione dei dati, perché di fatto non esiste
una visualizzazione oggettiva. Tutto dipende da
tre cose: utente, contesto, scopo. L’unico modo
per avvicinarsi all’oggettività è moltiplicare la
soggettività, avendo piena consapevolezza che
non può sussistere una vera rappresentazione
oggettiva. Un caso di visualizzazione “ibrida” c’è
stato nel 2010, quando è stato creato un grafico
del New York Time con un impianto narrativo
di 6 slideshow. Un altro caso storico è stata la
rappresentazione delle persone uccise con arma
da fuoco negli Stati Uniti nel 2010, con età
compresa tra 0-100 anni. Con un colore sono
stati rappresentati gli anni che avrebbero potuto
vivere le persone se non fossero state uccise (parte
narrativa), poi c’è la parte analitica che può essere
affrontata e capita grazie alla parte narrativa che
offre gli strumenti per comprenderla. Si può
anche citare l’esempio del 1° progetto di business
intelligence, risalente al 2008, ovvero una
dashboard analitica di dati inerenti tante scuole,
creata da una ragazza americana, finanziata dalla
US Navy. Il tool analitico funzionava talmente
bene che si decise di metterlo a disposizione
dei genitori per aiutarli a decidere quale scuola
scegliere per i propri figli. I genitori tuttavia
non lo valorizzarono. Allora il prototipo fu
ripensato in modo da renderlo intellegibile anche
per i genitori grazie ad un processo narrativo
precedentemente avviato, cioè ponendo alcune
domande ai genitori in merito ai diversi criteri
di scelta della scuola, che andavano a scremare i
dati raccolti a seconda delle loro risposte. Oggi
infine siamo giunti a lavorare sui big data, anche
perché i social media fanno ricorso a infiniti
dati in tempo reale. Sulla base di questi sono
stati creati diversi “cruscotti” per visualizzare
i dati con differenti fini. Si sta andando inoltre
verso la verbalizzazione del dato, ovvero verso
il ritorno al testo basato sui dati, per facilitarne
la comprensione anche ad un pubblico non
necessariamente edotto.
l’output dell’analisi.
Ciò che rende l’approccio ibrido “preferibile”
rispetto al metodo analitico e a quello scientifico,
è che la mera visualizzazione del dato analitico/
scientifico da solo non dà la risposta alle domande
strategiche: dunque il dato in sé non può bastare.
I confini dell’intelligence sono in continua
evoluzione. Nel 2004 il ricercatore sentiva
il bisogno di ricercare i dati da solo senza
entrare in contatto con chi li possedeva e chi li
rappresentava tramite Power Point. Oggi questa
esigenza è sempre più sentita, infatti si ricerca il
dato grezzo e non un prodotto finito elaborato
da altri. Quest’ approccio varia a seconda del
livello di conoscenza che le persone hanno di
un determinato fenomeno, che influenza la loro
interpretazione e di conseguenza gli obiettivi
finali; ma un altro rischio che si può correre è
non saper cogliere nulla dalla visualizzazione del
dato grezzo. La scienza ha un linguaggio proprio
e non sempre è di comune comprensione.
Ad esempio nel 1999 ha avuto inizio il processo
di digitalizzazione delle banche, borsa e trading
online. Le linee di trend del mercato ovviamente
influenzavano il trader, ma se ci si limita soltanto
alla lettura del grafico degli andamenti senza
avere altre conoscenze e cognizioni del fenomeno
si ha certamente una visione solo parziale e
probabilmente fuorviante. Ci sono sempre
due obiettivi da focalizzare: data analytics e
communication, che vanno amalgamati bene
insieme, dal momento che sono entrambi parte
parte del vero obiettivo comune. Nel 2014 si è
iniziato a lavorare proprio mixando i due obiettivi.
Molti infatti stanno dotando gli strumenti di
visual analytics con strumenti narrativi che
raccontino i dati agevolandone la comprensione.
Il dato nuovo è la base della notizia, dopodiché
bisogna saperla comunicare. Riepilogando,
quindi, non esiste la sola visualizzazione del
dato e non esiste una visualizzazione migliore di
un’altra, perché dipende sempre dalle conoscenze
e competenze del soggetto che le vede. Ciò
che cambia è quindi la visual perception. A tal
proposito molti giocano sul linguaggio dei numeri
Chiara Sammarco
207
Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione
Riferimenti bibliografici
Cairo A., The functional art : an introduction to information graphics and visualization, Berkeley,
California: New Riders, 2013.
Tufte E. R., Visual explanations : images and quantities, evidence and narrative, Cheshire, Conn.:
Graphics Press, 1997.
Ciuccarelli P., Lupi G., Simeone L., Visualizing the data city: social media as a source of knowledge
for urban planning and management, Cham, Springer, 2014 Serie: SpringerBriefs in applied sciences
and technology.
208
L’ascolto della rete
e la social media intelligence
Tratto dalla lezione di Paola Nannelli
«L’ascolto deve essere motivato da obiettivi ben precisi:
avere un corretto brief è importante»
Social Media Intelligence – Real Time Marketing – Influencer Marketing
L’inarrestabile evoluzione tecnologica e la
spiccata tendenza dei contenuti web a diventare
virali hanno reso il web un canale privilegiato per
la rilevazione di dati ed informazioni per finalità
di ricerca. Proprio in tale ambito operano realtà
come Blogmeter, dal 2007 leader in Italia nella
social media intelligence (SMI). Si tratta infatti
di un’azienda specializzata nel fornire soluzioni
di social media monitoring, analytics e management ad agenzie e aziende. Ciò avviene
attraverso l’utilizzo di strumenti in grado di
monitorare, analizzare e gestire conversazioni
ed interazioni sui social media, che si combinano
con un team di analisti e ricercatori esperti nelle
dinamiche dei social media.
Fig.1 - Social media in Italia: tempo d’uso.
Elaborazione Vincenzo Cosenza su dati
“Audiweb powered by Nielsen”
Social media: ascolto e analisi
Per impostare una social media strategy, è
anzitutto utile identificare dove poter intercettare
gli utenti, e quindi i canali maggiormente
presidiati dal proprio pubblico di riferimento.
Secondo recenti stime1, Facebook è leader nel
mondo a li-vello di utilizzo, seguito da Twitter e
Instagram. Focalizzandosi sul panorama italiano,
Facebook e Instagram occupano rispettivamente
primo e secondo posto per tempo d’uso. Il colosso
di Zuckerberg, inoltre, registra il più alto numero
di visitatori mensili, seguito da Google Plus.
1
Fig. 2. - Social media in Italia: visitatori
mensili. Elaborazione Vincenzo Cosenza su
dati “Audiweb powered by Nielsen”
Fonte: SimilarWeb/Alexa, gennaio 2016.
209
L’ascolto della rete e la social media intelligence
Tali dati devono essere però interpretati al meglio
per scongiurarne un utilizzo inappropriato.
No-nostante la performance registrata, infatti,
Google Plus non si caratterizza come piattaforma
particolarmente engaging: non è un mistero che
ben pochi siano gli utenti realmente attivi su tale
social, poiché per lo più si tratta di profili creati
per avere accesso alle attività sui ben più popolati
servizi di Google, quali Gmail o YouTube. Altro
dato inte-ressante riguarda Snapchat, che supera
addirittura Instagram per tempo di utilizzo
ma, al contempo, è caratterizzato da un’utenza
particolarmente ri-stretta. È importante quindi
tenere in considerazione anche tali aspetti e saper
leggere correttamente i dati, prima di impostare
una qualsiasi strategia di business.
Per ottenere, dunque, dati relativi al mondo dei
social, è ineludibile il ricorso alla Social Media
Research (SMR): essa fa riferimento a tutte le
tecniche d’indagine in grado di rilevare dati sulle
fonti online di natura principalmente social, vale
a dire piattaforme virtuali, generalmente non
finalizzate alla ricerca di mercato, a cui gli utenti
accedono per creare e condividere contenuti
testuali, immagini, video e audio. A differenza
quindi di una “ricerca classica”, la SMR si focalizza
sul solo ascolto, senza interagire con il pubblico:
questo perché immedesimarsi nell’utente è di
rilevante importanza per proporre contenuti e
azioni che creino interesse ed engagement.
Perché è quindi utile analizzare i social media? I
vantaggi possono essere vari:
• Analizzare la reputazione online;
• Analizzare la percezione online di un brand,
prodotto, tema o personaggio;
• Misurare il ritorno delle attività di social media
marketing;
• Profilare e segmentare i fan per generare nuovi
lead2;
• Coinvolgere e supportare i consumatori sui
social network.
I benefici che derivano dall’analisi dei social media
interessano l’azienda nel suo complesso, favorendo
l’interazione tra i dipartimenti interni che trovano
così nuove occasioni di maggiore integrazione, in
passato assai meno frequenti.
In particolare, il monitoraggio dei social è utile a:
• Marketing e comunicazione, per l’analisi dei
bisogni del consumatore e del linguaggio da
esso utilizzato;
• Relazioni Pubbliche, per l’analisi della
reputazione dell’azienda/brand/prodotti e
l’individuazione di possibili opinion leader;
• Ricerche di mercato, per l’analisi dei trend di
mercato in generale e lo studio dei competitor;
• Ricerca e sviluppo, per il lancio di nuovi
prodotti/servizi e il miglioramento di quelli
già esistenti;
• CRM, per ottenere un feedback sul lancio dei
nuovi prodotti/servizi e individuare eventuali problemi;
• HR, per l’Employer Branding (utile a
un’efficace selezione del personale) e la gestione dei rapporti industriali.
Il work flow della social media intelligence si
compone di quattro fasi essenziali (Fig.3):
Fig. 3 - Social Media Intelligence: work flow
Ascolto, selezione, classificazione e analisi si
susseguono in un circuito in continuo movimento.
Una volta individuati e analizzati i dati necessari
per impostare le proprie azioni strategiche, è
necessario continuare ad ascoltare la rete per
assicurarsi che la comunicazione veicolata al
proprio pubblico sia sempre pertinente e in linea
con gli interessi di quest’ultimo.
In particolare l’ascolto dei social media, definito
anche come social media monitoring o social
media listening, si configura come attività sistematica e pianificata di ascolto del passaparola
che ha luogo sui social media, finalizzata a
comprendere e misurare quando, quanto e come
gli utenti parlino di un’azienda, personaggio,
brand, settore o tema.
l lead rappresenta un potenziale cliente che mostra interesse, a vari livelli, nei confronti di un brand/prodotto o servizio
2
210
L’ascolto della rete e la social media intelligence
Lo strumento di Blogmeter utile al social media
monitoring si avvale nello specifico di due asset
tecnologici molto importanti:
• Motore semantico proprietario: permette
un’analisi accurata della polarità dei messaggi
grazie a focus settoriali. Consente, dunque,
una rilevazione di emozioni, percezioni e
valori legati a brand e personaggi, e quindi
il relativo sentiment3 (negativo, positivo
o neutro). Poiché non tutti i messaggi
si prestano ad un’analisi del sentiment
automatizzata, è possibile, qualora richiesto,
effettuarla manualmente, attraverso un
apposito team di analisti.
Se ne distinguono tre diverse tipologie:
• Storico: è utile per l’ascolto retroattivo e
quindi per analizzare conversazioni avvenute
in passato, generalmente non più di un anno,
su un particolare tema. Questo tipo di ascolto
permette, ad esempio, di confrontare dati di
periodi differenti in modo da poter verificare
l’andamento nel tempo delle strategie messe
in atto.
• On track: è un tipo di ascolto continuativo.
• Real time: è una modalità di listening che
si è adeguata alle nuove tendenze apportate
dal digitale: le conversazioni avvengono live
ed è quindi necessario un real time listening.
Molte grandi aziende si sono ormai attrezzate
con social rooms, stanze per il monitoraggio
in tempo reale delle conversazioni online,
in particolare per tenere costantemente
sotto controllo i “temi caldi” che potrebbero
provocare focolai di crisi. L’ascolto in real
time, inoltre, risulta un valido strumento
anche per ottenere un vantaggio competitivo,
monitorando le conversazioni relative a
determinate azioni intraprese, quali un evento
o il lancio di un nuovo prodotto/servizio,
oppure per trarre il massimo beneficio da
una situazione di crisi di un competitor.
• Indice di rilevanza sintetico: indica
il parametro sintetico di misurazione
della rilevanza di un post, strumentale
all’attivazione di alert qualificati e alla
valutazione del rischio reputazionale,
aggiuntivo rispetto alle me-triche di rilevanza
specifiche della fonte.
Una possibile problematica nel processo di
ascolto è legata alla gestione degli omonimi,
sinonimi, o di ambiguità linguistiche. Come
già espresso in precedenza, la classificazione
dei messaggi è automatica, ma non tutto è
automatizzabile. È questo il caso, per esempio,
dei tre marchi presenti in figura:
Fig. 4 - Il processo di ascolto: alcuni esempi di ambiguità linguistiche
Il sentiment è un indice che misura le emozioni, percezioni e valori (positivi, negativi o neutri) degli utenti legati a un
determinato brand, personaggio, prodotto o tema.
3
211
L’ascolto della rete e la social media intelligence
In questi casi sarà indispensabile l’intervento di
un analista del linguaggio per la disambiguazione dei contenuti dei messaggi. Tale operazione
richiederà, ovviamente, un esborso economico
maggiore rispetto a una gestione unicamente
automatizzata.
Ma come si configura nello specifico un processo
di social media listening? Si tratta di un percorso
che, dal generale al particolare, permette di
identificare e analizzare i dati utili per la propria
strategia di business. Il tool utile a tale scopo
andrà quindi correttamente impostato seguendo
precisi passaggi, ciascuno dei quali indaga un
ambito ben preciso:
1. Brand Presence:
Share of buzz: identifica quanto si parla di un
determinato argomento/brand e quindi conteggia
il numero esatto di citazioni e post sull’oggetto.
In questo modo, per esempio, le imprese sono in
grado di quantificare la propria brand presence
per capire come muoversi all’interno del mercato
di riferimento rispetto ai competitor.
Trend temporale: specifica che tipo di impatto
sul buzz4 può avere nel tempo una campagna
on e/o offline. I trend temporali sono quindi
particolarmente utili perché permettono di
identificare i picchi di volume di conversazioni,
ad esempio in concomitanza di un lancio di
prodotto, di un evento o di una situazione di crisi.
2. Topic Analysis:
Share of topic: individua le tematiche più discusse
e le conversazioni più dibattute in relazione al
proprio business.
Concept cloud: identifica i concetti più ricorrenti
in relazione all’oggetto dell’analisi.
3. Sentiment ed emotion analysis:
Analizza in che modo si parla dell’oggetto
dell’analisi (bene, male, in modo neutro), oltre
che i topic più critici. Inoltre mette in evidenza
le emozioni suscitate, evidenziando se ci siano
criticità anche in termini emotivi.
4. Analisi fonti:
Share of buzz per dominio: indica dove si parla
di un determinato argomento (blog, forum,
social network, siti di Q&A ecc..). Qualora non
fosse presente buzz online, sarebbe opportuno
monitorare un tema/prodotto/servizio affine a
quello di proprio interesse per identificare dove
se ne parla maggiormente.
5. Analisi autori:
Identificazione
influencer:
Permette
di
individuare i soggetti (blogger, clienti, etc.) che
parlano con maggiore assiduità dell’oggetto di
ricerca sui social media. Una volta identificati,
è opportuno selezionare i più influenti per il
proprio pubblico, che siano al tempo stesso
il più credibili possibile relativamente al
tema in questione, capaci quindi di creare,
legittimamente, interesse ed engagement e
“trascinare” le conversazioni.
F OC U S
Tips and tricks sull’ascolto della rete
1. Individuare l’owner dell’ascolto (Chi utilizzerà e
beneficerà dell’ascolto? Marketing, PR, CRM, HR,
ecc.);
2. Stabilire quando realizzare l’ascolto (Prima?
Durante? Dopo?);
3. Definire l’oggetto dell’ascolto (in funzione degli
obiettivi di ricerca, dipendenti a loro volta dagli
obiettivi aziendali) e un termine di paragone
(competitors, benchmark di settore, ecc.);
4. Decidere quali lingue e quali mercati monitorare
(non sempre ad un mercato corrisponde una
sola lingua e ad una lingua corrisponde un solo
mercato);
5. Trovare il budget (tool gratuiti o a pagamento?);
6. Definire il tipo di analisi (qualitativa o
quantitativa?);
7. Fissare il tipo di impegno interno (chi eseguirà
l’analisi?).
Evoluzione dell’ascolto e nuove sfide
Una delle più importanti sfide derivanti
dall’evoluzione del processo di ascolto è il real
time marketing, un approccio al mercato che
“Buzz” è un termine onomatopeico di origine inglese che designa un brusio incontrollato. Indica l’insieme delle conversazioni che si generano sul web in riferimento a un determinato argomento.
4
212
L’ascolto della rete e la social media intelligence
“metriche d’azione” (o “actionable metrics”),
vale a dire condivisioni, like, commenti, etc.
Sulla base di queste ultime si potranno poi
dedurre da un lato i KPI e dall’altro i parametri
di rilevanza (PdR) degli influencer, scartando le
“metriche di vanità” (o “vanity metrics”), ovvero
degli indicatori che, a differenza delle actionable
metrics, instillano un falso senso di sicurezza,
ma non rispondono a domande chiave o non
consentono di prendere decisioni consapevoli
(ne è un esempio il numero dei fan di una pagina
o di un profilo).
fa leva sulla capacità aziendale di rispondere
tempestivamente a eventi e stimoli esterni, siano
essi prevedibili o meno. Ad oggi l’unico social che
si dimostra concretamente reattivo ed efficace
per l’implementazione del real time marketing è
Twitter. Blogmeter è in grado infatti di rilevare
i tweet degli utenti attraverso il tool Blogmeter
Now, il quale fornisce dei feedback immediati
per migliorare la propria strategia, oltre che
widget personalizzati per eventi e programmi.
Blogmeter Now risulta uno strumento molto utile
soprattutto in termini di discovery, ovvero per
andare a indagare e scoprire tendenze al di fuori
del proprio settore/ambito di ricerca e sviluppare
maggiore consapevolezza dei contenuti più
rilevanti da proporre al proprio pubblico. Se è
vero infatti che la creatività premia, è altrettanto
vero che deve essere supportata da una buona
base di evidence che giustifichi la scelta del tipo
di comunicazione e delle strategie impostate.
Ulteriore fenomeno in continuo sviluppo è
rappresentato dall’influencer marketing, che,
nel corso degli anni, si è trasformato in un
vero e proprio Paid Media5, rientrando nelle
voci di spending annuali delle aziende. Esso si
basa sullo sviluppo di relazioni con personaggi
che possiedono una certa influenza su una
determinata fa-scia di pubblico e che sono quindi
in grado di incrementare la visibilità a prodotti/
servizi/brand. I criteri di scelta di un influencer
sono diventati nel tempo sempre più complessi
e sofisticati, e-sattamente come quelli della scelta
di una pianificazione o attività di comunicazione
classica, con alcuni parametri specifici dotati
dalla peculiarità del mezzo.
Individuare l’influencer giusto è fondamentale
per rispondere alle esigenze e agli obiettivi
(KPI6) posti all’inizio della campagna. È quindi
estremamente importante essere ben consapevoli
degli obiettivi che si vogliono raggiungere con
una campagna di influencer marketing: solo
dopo averli identificati sarà possibile definire le
Diversi sono i parametri di rilevanza che, grazie
alla piattaforma di Blogmeter, possono essere
analizzati per una scelta accurata degli influencer:
• Settore di influenza
• Piattaforme social attive
• Ampiezza e geografia dell’audience
• Grafo sociale (engagement e relazioni)
• Tipologia di audience (Facebook, ad
oggi, è l’unico social che permette una
targettizzazione approfondita dell’audience)
• Credibilità e rilevanza
• Contenuti
È necessario però sottolineare che, ad oggi, in
Italia l’influencer marketing risulta un settore
ancora poco regolamentato, a discapito della
trasparenza verso gli utenti. In mancanza di
direttive specifiche, infatti, sempre più spesso
accade che i web influencer omettano di essere
stati retribuiti per determinati contenuti postati
sui propri profili, generando così diffidenza da
parte del pubblico. Proprio per questo motivo
acquisisce ancora più importanza la credibilità
dell’influencer selezionato rispetto ai propri
o-biettivi di business.
Una volta implementata la propria strategia di
influencer marketing, è possibile misurare la social
performance: il continuo ascolto dei social e del
I Paid Media sono tutti quegli strumenti di comunicazione che vengono acquistati da un’azienda per ottenere visibilità;
rientrano in questa categoria le inserzioni pubblicitarie a stampa, gli spot radio o tv, le sponsorizzazioni, i mezzi outdoor, il
direct marketing etc.
6
Il termine KPI (Key Performance Indicator) sta ad indicare un insieme di metriche, come il numero delle visite o delle
conversioni, fondamentali per valutare il successo di una campagna di marketing
5
213
L’ascolto della rete e la social media intelligence
web permettono infatti di ottenere un feedback
costante e immediato rispetto alle actionable
metrics e al sentiment legato all’influencer.
In genere, le attività “one shot”, basate cioè su
un singolo post, non sono particolarmente
performanti in termini di ROI ; è consigliabile,
piuttosto, incrementare la frequenza dei post,
avvalendosi degli influencers in ottica di
storytelling.
Per maggiori curiosità su questo tema può essere
utile visitare il sito di Blogmeter, www.blogmeter.
it, dove è disponibile la Top Social Celebrities,
un osservatorio periodico sui testimonial più
influenti in rete.
Francesca Invernizzi
214
L’ascolto della rete e la social media intelligence
Riferimenti bibliografici
Cherubini S., Pattuglia S., Entertainment e Comunicazione - Target Strategie Media,
Franco Angeli, 2012.
Di Fraia G., Social media marketing, strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoepli, 2015.
Pancaldi V., L’azienda centrata sull’ascolto del cliente, Franco Angeli, 2013.
Sitografia
www.blogmeter.it
215
FACEBOOK: CREATIVITÀ,
ADVERTISING E MEASUREMENT
Tratto dalla lezione di Sylvain Querné e Stefano Cirillo
«Facebook non è nata con l’obiettivo di rendere il mondo più aperto e connesso, questa è una mission
che si è sviluppata nel tempo. Facebook si è adattato alle persone e alla loro esigenza di comunicare»
FACEBOOK ADVERTISING - SOCIAL NETWORK - MEASUREMENT
Facebook e la sua evoluzione
servizi e, nel giro di una decina di anni, di attuare
cambiamenti tecnologici molto più importanti
come:
• Internet.org, che ha l’obiettivo di collegare
il miliardo e mezzo di persone nel mondo non
ancora connesse;
• L’intelligenza artificiale, che permetterà di
creare servizi sempre più personalizzati per le
aziende: su Facebook Messenger sarà possibile
ordinare dei fiori o la pizza, perché a rispondere
sarà un’intelligenza artificiale in grado di
interagire con il cliente;
• Oculus, per la realtà virtuale;
• Aquila, ovvero un drone largo come un boing
737 capace di volare per 90 giorni a grandi altezze
e di coprire con la connessione internet migliaia
di km quadrati.
Era il gennaio 2004 quando il giovane Marc
Zuckerberg decise di acquistare il dominio
Thefacebook.com dando inizio all’era dei social
networksites e arrivando nel giro di 10 anni a
collegare milioni di persone, tanto che nel corso
degli anni Facebook si è posta come mission
quella di rendere il mondo più aperto e connesso.
Oggi Facebook è rappresentato da 5 principali
applicazioni: Facebook, WhatsApp, Instagram,
Messanger e i Gruppi.
Fig. 1 - internet.org
WhatsApp ad oggi collega 1 miliardo di persone,
Instagram 400 milioni. Dal punto di vista
dell’azienda le due applicazioni sono arrivate alla
loro maturità.
Nei prossimi anni Facebook si è posta l’obiettivo
di sviluppare nuovi modi di comunicare e nuovi
Fig. 2 - Mark Zuckerberg durante la presentazione
di apertura della F8 a San Francisco, Stati Uniti.
216
Facebook: creatività, advertising e measurement
collegati da mobile e che l’80% del tempo speso
dalle persone online viene trascorso su device
mobili. Non solo Facebook, ma più in generale le
aziende hanno notato che il traffico proveniente
da mobile ormai supera quello proveniente da
desktop. Questa tendenza è confermata anche
dal fatto che oggi al mondo ci sono più SIM
che persone. In Italia abbiamo in media 1,4
SIM a testa. La metà della popolazione globale
ha accesso alla telefonia e ogni giorno 600 mila
persone in più hanno accesso ai dispositivi
mobili. Ne possiamo desumere che il mobile sia
destinato a crescere ancora. Man mano che il
mobile si evolve in forme sempre più interattive,
diviene uno strumento sempre più importante e
indispensabile.
Fig. 3 - La platea mentre prova i nuovi Oculus Rift
presentati nel corso della conferenza F8
La decisione di sviluppare tecnologie che non
hanno niente a che vedere con i social network
pone le proprie radici nella mission di Facebook,
ovvero rendere il mondo connesso, migliorare la
qualità della vita e far comunicare le persone nel
miglior modo possibile.
In Italia lo smartphone è il mezzo più utilizzato
dai soggetti di età compresa tra i 16 e i 45 anni,
anche rispetto al mezzo televisivo. Per quanto
riguarda il tempo trascorso a guardare video, il
36% del tempo è impiegato a guardare la tv, che
detiene il primato di mezzo più utilizzato, ma lo
smartphone vanta una percentuale quasi uguale.
Il 12% del tempo è dedicato ai video on-demand,
il 19% è invece, il tempo speso a guardare i video
da desktop. Nel complesso il 52% del tempo
Alcuni dati
Il crescente sviluppo del mobile ha trainato
lo sviluppo del social network. Il mobile sta
cambiando e ha cambiato il nostro modo di
comunicare; nello specifico caso di Facebook
(l’applicazione mobile è nata nel 2008) i dati
ci dicono che i 4/5 della popolazione sono
Fig. 4 - Il drone aquila
217
Facebook: creatività, advertising e measurement
Fig. 5 - Smartphone
italiani, 1 su 3, accedono ogni giorno da mobile.
Se paragoniamo questo dato agli altri mezzi di
comunicazione si può notare che è circa il 30%
in più rispetto alla stampa, tre volte superiore
rispetto alla radio e più del doppio rispetto al
prime time televisivo.
Un’altra tendenza interessante riguarda il
consumo dei mezzi di comunicazione. Con
l’avanzare del multi-screening1, si è arrivati a
consumare in 5 ore fino a 7 ore di contenuti, ciò
significa che consumiamo più ore di contenuti di
quelle che effettivamente impieghiamo. Questo
accade perché contemporaneamente utilizziamo
più mezzi: ad esempio mentre guardiamo la
televisione spesso controlliamo il nostro account
Facebook con lo smartphone.
trascorso per guardare i video è speso su mezzi
digitali, che superano così il tempo dedicato alla
visione dell’apparecchio televisivo.
Per quanto riguarda il mobile, nello specifico
caso di Facebook l’azienda offre tre servizi che
hanno raggiunto la soglia di utilizzo mensile di
un miliardo di persone: WhatsApp è utilizzata
mensilmente da 1 miliardo di persone, Messenger
da 900 milioni, mentre Instagram da 400 milioni,
sempre su base mensile.
I dati giornalieri invece dimostrano che Facebook
è ormai divenuto un fenomeno di larga scala,
poiché la piattaforma a livello globale è utilizzata
da 1 miliardo di persone al giorno. Il 65% delle
persone che accedono a Facebook ogni mese vi
accedono ogni giorno, e 934 milioni di persone
invece vi accedono ogni giorno da mobile. In
sintesi ciò significa che la maggior parte delle
persone accede a Facebook tutti i giorni e lo fa
da mobile.
Se guardiamo all’Italia invece il dato cresce: nel
nostro Paese accedono a Facebook 27 milioni
di persone su base mensile, di cui 25 milioni da
mobile. L’81%, ovvero 8 persone su 10, accede
ogni giorno: questo significa che 20 milioni di
Date tali premesse, come è cambiato il modo di
comunicare per le aziende?
Oggi le imprese si trovano a dover fare i conti
con un soggetto sempre più consapevole. Il
contesto nel quale è immerso il consumatore è
caratterizzato da un’overdose di informazione,
dunque il percorso di acquisto non è più lineare.
Tutto ciò che il consumatore desidera diventa a
Il multi-screening è la tendenza ad utilizzare più di un mezzo contemporaneamente.
1
218
Facebook: creatività, advertising e measurement
portata di “pollice”, ogni informazione, prodotto
o servizio è a sua disposizione.
In un ambiente così caotico, dove tutto compete
con tutto, uno degli obiettivi di Facebook è
semplificare, tentando di rendere l’accesso
alle informazioni e alla comunicazione molto
più semplice e piacevole. Tale obiettivo
viene raggiunto non attraverso la ricerca del
contenuto, bensì attraverso la scoperta del
contenuto. Attraverso complessi algoritmi,
Facebook riesce a fornire a ciascun soggetto
presente sulla propria piattaforma, un contenuto
diverso e personalizzato. In quest’ottica di
scoperta del contenuto, Facebook offre alle
aziende un’opportunità, quella di poter offrire
l’informazione giusta, nel posto giusto e al
momento giusto, ma soprattutto alle persone
giuste.
Oggi ci troviamo all’interno di un cambiamento
epocale del modo di vivere e accedere
all’informazione. Abbiamo attraversato e stiamo
attraversando tre cambiamenti di paradigma
che stanno avvenendo sinergicamente:
Contemporaneamente, l’introduzione di nuove
tecnologie come i filtri per modificare le foto,
il 3G e il Wi-Fi, ha accelerato la pervasività del
fenomeno.
• Il mobile: Facebook è stato in grado di intuire
che il passaggio di testimone che avvenne negli
anni Cinquanta tra radio e televisione, era
destinato ad avvenire anche tra desktop e mobile.
Zuckerberg ha reso Facebook un’azienda mobile
first, tanto che ad oggi circa l’80% delle revenue
provengono da mobile.
• I video: negli ultimi anni il tempo trascorso a
guardare i video è quadruplicato. Facebook ha
introdotto l’auto-play, che permette di far partire
il video in automatico senza audio, rispondendo
così all’esigenza di guardare video su mobile,
ma nel rispetto di chi sta accanto. Il fenomeno
sempre più crescente dei video è confermato dai
dati: nel 2013 i video visti ogni giorno erano 1
miliardo e nel 2015 si è arrivati a 8 miliardi. Il
75% delle persone guarda almeno un video al
giorno e il 70% di essi lo fa da mobile.
1. La fruizione di internet da 100% desktop ora è
mobile first;
2. Si è passati dalla ricerca alla scoperta del
contenuto, perché oggi è il contenuto stesso ad
andare verso il soggetto;
3. Le immagini stanno diventando sempre più
importanti anche perché leggere è un processo
molto più lento, mentre il nostro cervello ha la
capacità di ricordare un’immagine vista anche
solo per 13 millisecondi.
F OC U S
Ice Bucket Challenge
L’Ice Bucket Challenge è una campagna virale
lanciata dalla ASL Association (Associazione
statunitense contro la SLA) con lo scopo di
sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sclerosi
laterale amiotroficae di incentivare le donazioni
per la ricerca.
Il fenomeno si è diffuso in modo virale sui social
media nei mesi di luglio e agosto 2014.
L’Ice Bucket Challenge consiste in una sfida a
rovesciarsi addosso un secchio di acqua gelata
con tanto di cubetti di ghiaccio che letteralmente
paralizza i muscoli del corpo, proprio come
succede per i malati di SLA che nonostante
rimangano mentalmente lucidi, perdono l’utilizzo
del proprio corpo. Chi subisce il gavettone nomina
altre tre persone, che avranno 24 ore di tempo per
raccogliere il guanto, fare la donazione e ripetere
Parallelamente anche in Facebook sono avvenuti
tre importanti cambiamenti:
• Le fotografie: inizialmente gli strumenti
per caricare le foto su Facebook erano poco
customizzati, l’unica attività permessa era
l’upload delle foto. A partire dal 2010 Facebook
ha dato la possibilità di taggare le foto e questa
nuova opzione ha fatto si che avvenisse una larga
diffusione delle fotografie sulla piattaforma.
219
Facebook: creatività, advertising e measurement
l’intera operazione. Il tutto viene filmato e postato
su Internet. 440 milioni di persone hanno visto
almeno 1 video di Ice bucket challenge, quindi
circa 1 persona su 3, per un totale di 10 miliardi
di video visualizzati. Inoltre, nell’arco dei primi 30
giorni di campagna, 3 milioni di persone hanno
fatto una donazione, permettendo all’associazione
di raccogliere 100 milioni di dollari, che è 36
volte la cifra raccolta negli stessi giorni nell’anno
precedente.
una ricerca, si è basata sulla convinzione che a una
tale tipologia di giocattoli sarebbe stato interessato
solo un pubblico maschile.
F OC U S
L’importanza della ricerca
e il caso Star Wars
Fig. 6 - Action figure Star Wars raffigurante Rey
Perché la misurazione e le ricerche sono importanti
per le aziende?
Per capirlo, si farà riferimento a un caso in cui
la ricerca non è stata utilizzata e questo ha
rappresentato un problema per l’azienda. Stiamo
parlando del caso legato a “Star Wars” che ha
coinvolto Hasbro.
Il merchandise della saga cinematografica, gestito
da Hasbro, spazia dal monopoli alle action
figure. L’azienda ha ipotizzato che una saga di
fantascienza potesse interessare solo ai maschi
e che quest’ultimi non fossero interessati a un
giocattolo che rappresentasse una donna.
Hanno così creato una serie di giocatoli
estromettendo la figura di Rey, il personaggio
principale femminile dell’ultimo film della saga,
ma stando a quel che si è letto sui social network
e sui giornali, Rey è proprio il personaggio più
apprezzato del nuovo “Star Wars” da parte del
pubblico, a tal punto che gli appassionati hanno
lanciato l’hashtag #WheresRay, ponendo Hasbro
al centro di un caso mediatico e costringendo
l’azienda a rimandare in fabbricazione tutti i
giocattoli per inserireil personaggio di Rey. Questo
è accaduto perché l’azienda, invece di effettuare
I problemi della misurazione
Oggi esistono due grandi mondi:
1. I media tradizionali (tv, radio e stampa)
2. I media digitali
Il problema di queste due tipologie di mezzi è
che parlano due lingue differenti. Nei media
tradizionali si vendono e si comprano GRP
target2, nel digitale invece si compra e si acquista
per CPM3. Gli inserzionisti che pubblicano
annunci CPM impostano il prezzo addebitabile
per la pubblicazione di mille annunci e pagano
ogni volta che un annuncio viene visualizzato.
Esistono diversi sistemi di misurazione che
permettono di misurare l’impatto delle campagne
o gli accessi al web, ma le metriche di misurazione
non sempre riescono a essere integrate e questo
rende il processo più complicato.
I problemi di misurazione possono però essere
causati anche da altri fattori, vediamone tre:
Il Gross Rating Point è una metrica che permette di sapere la percentuale di persone che, in media, sono state
sottoposte ad una campagna pubblicitaria.
3
CPM indica il costo per 1000 impressioni.
2
220
Facebook: creatività, advertising e measurement
1. La prima difficoltà riguarda la mancanza
di informazioni precise relativamente al
collegamento tra l’esposizione e il device
utilizzato. Ogni soggetto utilizza più di un device;
su Facebook il 65% delle impression avviene
sui dispositivi mobili, ossia mobile o tablet,
ma spesso la conversione avviene sul desktop e
questa dinamica comporta dei problemi in sede
di misurazione. Dal momento che la misurazione
tiene conto del device e non della persona, infatti,
se l’utente cambia dispositivo per la conversione,
questo genera delle complessità.
“ricevi lo sconto” perché in questi determinati
casi esistono correlazioni solide tra il click e le
conversioni.
Invece non esiste nessun dato che certifichi che
le persone che cliccano di più su un annuncio
generino più valore per l’azienda.
Una strategia vincente è quella di ottimizzare la
reach, ossia cercare di colpire il più alto numero
possibile di utenti che rientri nel proprio target e
che abbia quindi determinate caratteristiche.
2. Il secondo problema riguarda l’utilizzo dei
cookie. Il cookie è un file di testo nel quale
vengono memorizzate delle informazioni che
i vari siti web possono utilizzare per facilitare
la navigazione dell’utente. Il limite dei cookie
è che permette di riconoscere solo il browser e
ogni utente è rappresentato da circa 4-5 browser,
quindi diventa problematico stimare le persone
che sono state realmente esposte a una campagna.
Facebook ha creato un framework di misurazione
che aiuta gli advertiser a pianificare le proprie
campagne pubblicitarie, chiamato RRR Reach
Resonance Reaction, in cui si vanno a catalogare
diverse tipologie di campagne a seconda degli
obiettivi:
• Area reach: quante persone sono state esposte
alla campagna pubblicitaria?
• Area resonance: dopo la campagna la persona si
ricorda la campagna pubblicitaria che ha visto?
• Area reaction: che cosa ha generato la campagna
in termini di conversioni (vendite, iscritti, ecc)?
Il Framework RRR
3. La terza problematica è l’utilizzo del click come
metrica per valutare una campagna o l’accesso
ai siti. Il Click-through rate4 è una metrica che
indica quante persone esposte a una campagna
pubblicitaria hanno cliccato sull’annuncio. Ma in
realtà il click non è una metrica attendibile, per
due ragioni:
Area reach:
per quanto riguarda le campagne si è notato che
ottimizzare la reach è sempre la strategia migliore.
All’interno di un target definito dall’azienda,
bisogna cercare di colpire il maggior numero
di persone possibili con la frequenza adeguata,
affinché si abbia la più alta possibilità che queste
persone vadano a convertire.
Dal punto di vista della reach, Facebook assolve
un ruolo importante, si può affermare che
ormai questo social network può essere definito
a tutti gli effetti un mezzo di comunicazione,
avendo raggiunto una dimensione pari al mezzo
televisivo. Ciò sta a dimostrare l’importanza
di investire anche su Facebook, perché esso
rappresenta un ulteriore medium nel quale
costruire una reach incrementale. Immaginando
un tipico piano media in cui sono presenti sia
• spesso si clicca sugli annunci per sbaglio;
• esistono soggetti che in seguito all’esposizione a
una campagna, non cliccano sull’annuncio, ma se
la ricordano e in un secondo momento visitano il
sito per approfondire.
Gli annunci dunque possono generare valore, ma
il click non è la metrica di misurazione corretta.
Nella maggior parte dei casi tra click e revenue
non c’è correlazione.
Le campagne CPC (click per click)5 sono utili solo
nei casi in cui esista una call to action ben precisa,
come per esempio “partecipa al concorso”,
Click-through rate è una metrica che misura l’efficacia di una campagna pubblicitaria online.
Il CPC è il costo che si paga ogni volta che un utente clicca sull’annuncio.
4
5
221
Facebook: creatività, advertising e measurement
la televisione che i media digitali, Facebook è
in grado di generare una reach incrementale di
12 punti percentuali in più, ciò significa che è
in grado di raggiungere un pubblico che è stato
esposto esclusivamente a Facebook e che non si è
riusciti a raggiungere tramite il mezzo televisivo.
Pensiamo ad esempio ai light tv viewer6, che
rappresentano un target molto interessante per
le aziende: su questi utenti Facebook riesce a
raggiungere una reach più alta nel 14% dei casi
per persone esposte esclusivamente su Facebook,
mentre per coloro che hanno una scarsa fruizione
televisiva, ma che comunque vengono esposte
alla pubblicità su questo media, Facebook ha la
capacità di aumentare la frequenza nel 18% dei
casi. In conclusione, grazie a Facebookle aziende
riescono a raggiungerei light tv viewer più volte e
a migliorare quindi l’efficacia delle loro campagne
televisive.
che una campagna focalizzata sul prodotto è
generalmente molto efficace.
Al fine di ottenere buoni risultati è preferibile
raggiungere meno persone ma con una frequenza
alta, piuttosto che raggiungere molte persone ma
con una frequenza molto bassa. Si è verificato
che, per far sì che l’attività generi dei risultati,
è necessario ottenere almeno 3 impression a
settimana a persona.
Su Facebook, oggi, il tipo di comunicazione
più efficace è il video. In termini di brand
awareness i primi 10 secondi di video sono i più
importanti: fino al 74% dell’impatto totale sulla
brand awareness è dato dalle persone che hanno
visualizzato il video per i primi secondi.
Grazie al sistema chiamato Facebook commercial
pixel8, inserendo un apposito codice nel proprio
sito la piattaforma è in grado di tracciare le
conversioni avvenute grazie alla pubblicità su
Facebook.
Il sistema si basa sullo studio di due gruppi con
le medesime caratteristiche socio-demografiche
esposti con la stessa frequenza agli stessi
contenuti pubblicitari, ma su media differenti:
uno dei due gruppi viene esposto anche alla
pubblicità su Facebook. In questo modo è
possibile verificare quante persone esposte alla
pubblicità su Facebook hanno effettivamente
acquistato il prodotto, capire chi è la persona
che ha comprato il prodotto e capire anche a
quale dei due gruppi questa persona appartenga.
A questo punto, dal momento che i due gruppi
sono uguali, si può dire che se c’è un incremento
di conversioni, queste sono dovute all’unico
elemento di differenza dei due gruppi, ovvero la
pubblicità su Facebook.
Area resonance:
Facebook è in grado di capire se una persona è
stata esposta a una campagna pubblicitaria sulla
propria piattaforma o meno, e tramite un test
su due gruppi con stesse caratteristiche sociodemografiche, si è in grado di comprendere se
grazie alla campagna su Facebook l’azienda sia
riuscita ad aumentare la propria brand awareness7.
Esistono tre aree di indagine per quanto riguarda
l’area della resonance:
• il ricordo della campagna
• il ricordo del prodotto
• la raccomandazione del prodotto
Per quanto riguarda in particolare l’analisi del
ricordo, sono state formulate delle linee guida
per aiutare a creare dei contenuti che possano
interessare gli utenti. Si è notato ad esempio
Francesca Corbia
Con il termine light tv viewer si fa riferimento a utenti con alto livello di istruzione, maggior potere
di consumo e caratterizzati da una bassa fruizione televisiva.
7
Brand awareness, o anche Notorietà di marca, è un parametro che indica quanto la marca e i suoi prodotti
o servizi sono conosciuti e riconosciuti nella mente dei consumatori.
8
Il pixel di Facebook è un frammento di codice JavaScript presente su un sito web che consente di misurare
le campagne pubblicitarie, di ottimizzarle e definirne il pubblico.
6
222
Facebook: creatività, advertising e measurement
Riferimenti bibliografici
Sportelli A., La pubblicità su Facebook. Solo i numeri che contano, Hoepli, Milano, 2015.
Conti L. e Carriero C., Facebook Marketing. Comunicare e vendere con il social network n. 1, Hoepli,
Milano, 2014.
Marshall P., Krance K., Meloche T., Ultimate Guide to Facebook Advertising, Entrepreneur Media, 2015.
223
Sezione 6
LE NORME DEL BUON COMUNICATORE:
QUALI REGOLE OSSERVARE?
IL SISTEMA DELL’AUTODISCIPLINA
PUBBLICITARIA
Tratto dalla lezione di Vincenzo Guggino, Monica Davò e Salvatore Pastorello
«Fare comunicazione commerciale oggi non può prescindere dall’avere dei rudimenti di tipo giuridico per
capire se il progetto che si sta sviluppando è almeno a grandi linee corretto»
AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA - CITTADINO-CONSUMATORE - PUBBLICITÀ
Vincenzo Guggino è Segretario dell’Istituto
di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Lo IAP
è l’ente con personalità giuridica che dal 1966
regolamenta la comunicazione commerciale,
per una corretta informazione del cittadinoconsumatore e per una leale competizione tra
le imprese. Queste finalità vengono perseguite
grazie a una struttura consolidata che applica
norme chiare e procedure rapide ed efficaci.
La base normativa dello IAP è il Codice
di Autodisciplina della Comunicazione
Commerciale, applicato da due organi
indipendenti: il Comitato di Controllo, a tutela
dei cittadini-consumatori e il Giurì, l’organo
giudicante.
Fanno parte dell’Istituto e riconoscono il
Codice i principali soggetti del mondo della
comunicazione commerciale: le Aziende, le
Agenzie di comunicazione, i Mezzi e le loro
Concessionarie.
I soggetti, nel momento in cui aderiscono al
sistema di Autodisciplina accettano per statuto
il rispetto del codice, rispetto che si riversa a
cascata sui loro aderenti.
Gli Enti aderenti tramite loro rappresentanti
compongono il Consiglio Direttivo dell’Istituto,
il cui compito principale è quello di approvare
le norme del Codice, elaborate e proposte dalla
Commissione di Studio.
Prima dell’Autodisciplina non c’era nessuna legge
dello Stato che fissasse dei principi di correttezza
di comunicazione commerciale. La pubblicità,
anche se ingannevole, non era sanzionabile e
dunque il consumatore era facilmente oggetto di
raggiro.
L’autodisciplina nasce dunque perché c’era la
consapevolezza da parte del mondo pubblicitario
che senza dare delle regole certe non si fosse in
grado di arginare le derive più deleterie della
pubblicità.
Quindi è un intento autoprotettivo, il compito
principale dell’autodisciplina è far sì che la
pubblicità non venga scredidata agli occhi del
pubblico.
Lo IAP difende la buona comunicazione
e le buone pratiche professionali e tutela i
cittadini impedendo la diffusione di pubblicità
ingannevoli, volgari o offensive.
L’Istituto offre agli operatori del settore
la possibilità di tutelare le loro campagne
pubblicitarie davanti al Giurì1, mettendo nel
contempo a disposizione ulteriori servizi a
protezione della creatività.
Agenzie, aziende e professionisti possono, ad
esempio, depositare presso lo IAP progetti
creativi o campagne di comunicazione non
Il Giurì della pubblicità è un giudice privato, la cui istituzione deriva da un accordo fra tutti gli operatori
che esercitano la loro attività nel campo della pubblicità, diretto a garantire l’osservanza e l’applicazione di un
Codice di autodisciplina che gli operatori medesimi si sono dati.
1
225
Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria
ancora diffuse, garantendosene la titolarità e
proteggendoli da imitazioni e appropriazioni
indebite.
Inoltre, in un giorno o poco più, il Comitato
di controllo può esaminare, su richiesta, le
campagne prima che vengano finalizzate e
diffuse, per verificarne la conformità al Codice di
Autodisciplina.
Questo servizio offre ad aziende e agenzie
la ragionevole certezza di diffondere una
comunicazione corretta, riducendo il rischio che
nascano contestazioni successive.
La sanzione, in caso di accertata non conformità al
Codice, è l’immediata cessazione del messaggio.
Per garantire la massima trasparenza, tutte le
decisioni sono pubblicate sul sito www.iap.it
tutela del cittadino-consumatore. Vi è poi una
parte di tutela che segue una richiesta delle
aziende che segnalano un comportamento
scorretto ad opera di soggetti direttamente o
indirettamente concorrenziali.
I membri del Giurì e del Comitato di controllo,
scelti tra esperti che non svolgono attività
professionale in materia di Autodisciplina,
giudicano il tutto con assoluta indipendenza e
imparzialità.
L’Autodisciplina è guardata con favore
dall’Unione Europea e numerose direttive
spingono gli Stati Membri a riconoscere il valore
dell’Autoregolamentazione e a predisporre
accordi funzionali all’insegna di un’efficace coregulation.
Tutte le ingiunzioni hanno un’efficacia immediata,
in via provvisoria, e un’efficacia definitiva dopo
circa 10 giorni.
L’efficacia della sanzione è stabilita dall’articolo 38
del Codice di Autodisciplina della comunicazione
commerciale che recita il seguente testo:
Il sistema autodisciplinare garantisce anche la
correttezza dei messaggi pubblicitari nell’ottica
della cosiddetta pubblicità comparativa agli
articoli 13, 14 e 15 del Codice:
Art. 13 - Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile
della comunicazione commerciale altrui anche
se relativa a prodotti non concorrenti, specie
se idonea a creare confusione con l’altrui
comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento
del nome, del marchio, della notorietà e
dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre
per sé un ingiustificato profitto.
Art. 38 – Decisione del Giurì
Quando la decisione stabilisce che la
comunicazione commerciale esaminata non è
conforme alle norme del Codice di Autodisciplina,
il Giurì dispone che le parti interessate
desistano dalla stessa…
Le decisioni del Giurì sono definitive.
Il Giurì può anche predisporre una pubblicazione
dell’ingiunzione:
Art. 14 – Denigrazione
È vietata ogni denigrazione delle attività, imprese
o prodotti altrui, anche se non nominati.
Art. 40 – Pubblicazione delle decisioni
…Il Giurì può disporre che di singole decisioni
sia data notizia al pubblico, per estratto, con
i nomi delle parti, nei modi e sugli organi di
stampa ritenuti opportuni, a cura dell’Istituto…
Art. 15 – Comparazione
È consentita la comparazione quando sia utile
ad illustrare, sotto l’aspetto tecnico o economico,
caratteristiche e vantaggi dei beni e servizi oggetto
della comunicazione commerciale, ponendo
a confronto obiettivamente caratteristiche
essenziali, pertinenti, verificabili tecnicamente e
Chiunque può segnalare un messaggio ritenuto
scorretto con un semplice form online. Il 90%
delle decisioni autodisciplinari sono prese a
226
Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria
rappresentative di beni e servizi concorrenti, che
soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli
stessi obiettivi.
materie giuridiche e scientifiche.
Il Comitato raccoglie segnalazioni da parte di
singoli cittadini oppure da organizzazioni di
consumatori d’ufficio.
Tra le attività principali del Comitato vi è
quella disciplinata dall’articolo 6 del Codice:
Un esempio è quello della diatriba Plasmon
vs Mulino Bianco dove è stato stabilito con
la Pronuncia numero 148/2011 l’intento
denigratorio di Plasmon nei confronti di Macine
Mulino Bianco.
Art. 6 - Dimostrazione della verità della
comunicazione commerciale
Chiunque si vale della comunicazione
commerciale deve essere in grado di dimostrare,
a richiesta del Giurì o del Comitato di Controllo,
la veridicità dei dati, delle descrizioni,
affermazioni, illustrazioni e la consistenza
delle testimonianze usate.
Fig. 1 - La pubblicità dei biscotti Plasmon da cui
si evince l’intento denigratorio nei confronti
del prodotto Macine Mulino Bianco, che viene
indicato come un biscotto per adulti che si spaccia
invece per un biscotto per bambini
Fig. 2 - Il corso offerto da Mondadori per imparare
lo spagnolo in soli 30 giorni
Monica Davò è responsabile del Comitato di
Controllo dello IAP. Il Comitato di Controllo
è l’organo garante degli interessi generali
dei consumatori, composto da professionisti
esperti dei problemi dei consumatori, di tecnica
pubblicitaria, di mezzi di comunicazione, di
In questo caso il Comitato ha deciso di
intervenire vista l’impossibilità da parte
dell’inserzionista di dimostrare la veridicità
dell’affermazione commerciale.
227
Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria
Agli articoli 8, 9 e 10 del Codice si tutela
invece il cittadino consumatore da messaggi
violenti o che fanno leva sulla paura e sulle
convinzioni morali della persona:
Fig. 3 - Una televendita che tenta di comunicare
il messaggio che il cloro presente nell’acqua
del rubinetto provoca malattie
Art. 8 - Superstizione, credulità, paura
La comunicazione commerciale deve evitare
ogni forma di sfruttamento della superstizione,
della credulità e, salvo ragioni giustificate, della
paura.
Fig. 4 - Un inserto del quotidiano Il Giornale
che pubblicizza un libro sull’Islam, dove compare
la foto di un terrorista dell’Isis nell’atto di tagliare
la testa a un ostaggio
Salvatore Pastorello, funzionario della
Segreteria
dell’Istituto
dell’Autodisciplina
Pubblicitaria, si occupa di Autodisciplina e
Comunicazione Commerciale Digitale.
Il web non può essere caratterizzato dall’assenza
di regole nella comunicazione commerciale:
anche nelle forme di online-advertising deve
prevalere la tutela del consumatore e la leale
concorrenza tra le aziende.
Art. 9 - Violenza, volgarità, indecenza
La comunicazione commerciale non deve
contenere affermazioni o rappresentazioni di
violenza fisica o morale o tali che, secondo il
gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano
ritenersi indecenti, volgari o ripugnanti.
Art. 10 - Convinzioni morali, civili, religiose
e dignità della persona
La comunicazione commerciale non deve
offendere le convinzioni morali, civili, religiose.
Essa deve rispettare la dignità della persona in
tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare
ogni forma di discriminazione, compresa quella
di genere.
Tutte le norme e i principi del Codice di
Autodisciplina sono applicabili a qualunque
comunicazione commerciale diffusa attraverso
qualsiasi mezzo, inclusi quelli digitali.
Spesso nelle forme di comunicazione
digitale diventa rilevante la questione della
riconoscibilità del messaggio pubblicitario in
quanto tale, della sua identificazione.
228
Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria
Art. 7 – Identificazione della comunicazione
commerciale
La comunicazione commerciale deve essere
sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e
nelle forme di comunicazione commerciale in
cui vengono diffusi contenuti e informazioni di
altro genere, la comunicazione commerciale deve
essere nettamente distinta per mezzo di idonei
accorgimenti.
della pubblicità comportamentale online; avere
chiarimenti sui cookies e sulla privacy online;
esercitare il diritto di non ricevere OBA; ricevere
aiuto in caso di problemi con il meccanismo di
scelta.
In tal modo si è resa disponibile una base di
riflessione sul tema ampio del rispetto delle regole,
suscettibile di ulteriori sviluppi ed elaborazioni.
Un esempio è quello dei profili Instagram dei
personaggi pubblici dove la natura promozionale
deve essere chiaramente indicata, ad esempio
attraverso la esplicita citazione del marchio nella
didascalia.
F OC U S
IAP: LA STORIA
1966
Nasce il codice della Lealtà Pubblicitaria
1976
Il tribunale di Milano riconosce l’Autodisciplina
Pubblicitaria come “ordinamento derivato” e avalla
le decisioni del Giurì
1997
Lancio sito IAP: i casi giudicati sono pubblicati in
tempo reale
1999
La Cassazione stabilisce che il Codice è espressione
della correttezza professionale. L’Autodisciplina
apre alla pubblicità comparativa diretta
2001
Riconoscimento della personalità giuridica
dell’Istituto
2008
Il Codice rinominato Codice di Autodisciplina
della Comunicazione Commerciale
2015
Protocollo IAP-Garante per l’infanzia e l’adolescenza.
Competenza sulla pubblicità comportamentale
online (OBA)
2016
Online il documento IAP sulla comunicazione
commerciale digitale. L’Istituto e il Codice
compiono 50 anni
Fig. 5 - L’attrice Manuela Arcuri che sul suo profilo
Instagram pubblicizza una marca di latte
C’è poi il tema della Pubblicità Comportamentale
Online (OBA).
La pubblicità comportamentale online, in
inglese “Online behavioural advertising” (OBA),
è una tipologia di advertising che si basa
sulla raccolta di dati dell’attività online di un
dispositivo/terminale al fine di fornire annunci
su misura, basati sugli interessi manifestati
attraverso la navigazione in rete.
Si differenzia dalla pubblicità contestuale, che si
basa invece sul contenuto del sito in cui compare
l’annuncio e non sui dati di navigazione.
Lo IAP si occupa di tutelare gli utenti anche sotto
questo aspetto. Tra gli strumenti utilizzati figura
il portale Your Online Choices che permette
di approfondire funzioni e possibili vantaggi
Vincenzo Romanelli
229
Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria
Riferimenti bibliografici
Grazzini B., Autodisciplina pubblicitaria e ordinamento statuale, Giuffrè, 2003.
230
PUBBLICITÀ
E COMUNICAZIONE COMMERCIALE:
IL QUADRO NORMATIVO
Tratto dalla lezione di Paolina Testa
«La pubblicità online sta cambiando il modo di fare comunicazione sia come contenuti, sia come modalità di diffusione.
L’interattività ci costringe ad una rivoluzione culturale legata al modo con cui confrontarsi con la comunicazione»
AUTORITÀ GARANTE - PUBBLICITÀ INGANNEVOLE - AMBUSH MARKETING
Il concetto di pratica commerciale
non solo alcune specifiche comunicazioni
promozionali ma, anche, l’attività di marketing
aziendale in quanto espressamente studiata per
creare il bisogno di salute nei consumatori (in
questo caso, sensibilizzare sulla riduzione del
colesterolo), non solo coloro i quali potessero
presentare problematiche affini a quella che il
prodotto si prefiggeva di ridurre ma, anche,
tra il pubblico in senso generico. La campagna
fu ritenuta scorretta perché creava bisogni
e allarmismi sulla salute che, in realtà, non
sussistevano.
La nozione di pratica commerciale ha subito
diverse modifiche e ampliamenti nel tempo,
attualmente si intende «qualsiasi comportamento
suscettibile di ripetizione (azione, omissione,
condotta,
dichiarazione,
comunicazione
commerciale), posto in essere da un’impresa nei
confronti dei consumatori o di una microimpresa
prima,
durante
o
dopo
un’operazione
commerciale1». Sotto il mantello di pratica
commerciale annoveriamo altre pratiche oltre
alla pubblicità e alla comunicazione commerciale,
tra cui attività di marketing e post-vendita come,
ad esempio, le istruzioni per il funzionamento di
un prodotto e tutto ciò che può essere contenuto
nella sua confezione. Ciò significa che siamo di
fronte a un concetto molto protettivo, soprattutto
in considerazione della regolamentazione delle
attività di marketing tanto che, in base a questa
normativa, il garante dell’autorità competente
- Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato - può sottoporre a verifica anche il
posizionamento del prodotto.
Le categorie di pratica
commerciale scorretta
Esistono due categorie di pratica commerciale
scorretta, individuate in base al parametro
di giudizio di ingannevolezza che prende in
considerazione il consumatore medio del gruppo
di riferimento. Da approfondire è il concetto
di consumatore “particolarmente” vulnerabile:
spesso viene associato a categorie particolarmente
svantaggiate (socialmente ed economicamente)
ma questa etichetta è stata anche attribuita in
maniera molto controversa al consumatore
femminile (vulnerabile) nei casi relativi,
soprattutto, a quei prodotti che suggeriscono la
cura o il miglioramento degli inestetismi.
Una categoria merceologica spesso “sotto i
riflettori” è quella dei prodotti tipo salutistico: ad
esempio, con il provvedimento pubblico del 2009
relativo al prodotto Danacol, l’autorità censurò
Art. 18, comma 1, lettera d - Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146
1
231
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
La prima categoria di pratica commerciale
scorretta è la pratica che il Codice del Consumo2
definisce ingannevole. A loro volta, queste
pratiche si dividono in:
• (art. 21) azioni che:
- contengono informazioni non corrispondenti
al vero;
- (pur non contenendo informazioni ingannevoli)
sono idonee in qualsiasi modo, anche attraverso
la loro presentazione complessiva, a indurre in
errore il consumatore;
possiamo trovarci di fronte a pratiche
commerciali definite aggressive (artt. 24-26) e,
cioè, idonee a limitare la libertà della audience
come, ad esempio:
• un’esortazione diretta ai bambini perché
comprino o inducano i genitori a comprare un
determinato prodotto;
• lasciar intendere al consumatore che abbia già
vinto o vincerà un premio, quando non esiste
alcun premio o quando l’azione volta a reclamare
il premio è subordinata al versamento di denaro.
• (art. 22) omissioni:
- omettono informazioni rilevanti ai fini della
scelta del consumatore (esempio: le tariffe
telefoniche);
- presentano le informazioni in modo ambiguo,
oscuro o intempestivo;
- non indicano il loro intento commerciale
(come nel caso della pubblicità occulta oppure
degli articoli di giornale presentati come parte
del contenuto informativo che però nascono a
seguito di accordi di carattere commerciale);
Procedure e sanzioni
In caso di illecito, l’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato (AGCM), organo
amministrativo
indipendente,
interviene
d’ufficio o su segnalazione. Da sottolineare che,
nel momento il cui l’Autorità ne riceve una, si
avvale del diritto di aprire un procedimento e
sanzionare l’azienda a seconda del caso.
In media, circa il 90% dei casi esaminati conduce
a sanzioni. I suoi provvedimenti sono, poi,
suscettibili di impugnazione da parte del TAR del
Lazio o del Consiglio di Stato i quali appurano se,
nell’applicare la legge, l’Autorità abbia seguito la
procedura.
Il lavoro dell’Autorità è un lavoro costante,
che prevede una parte d’intervento d’ufficio
applicando le norme dell’ultima versione del
regolamento risalente al 2013 che le permette di
“giocare d’anticipo”, attraverso l’individuazione
di filoni di intervento cioè, settori merceologici
ritenuti meritevoli di particolare attenzione e
monitoraggio.
Casi più sottili da analizzare si verificano nel
momento in cui l’azienda decide di inviare un
prodotto a un blogger che si occupa del settore di
riferimento di sua spontanea volontà. In questo
caso ci troviamo di fronte a un chiaro caso di
pubblicità occulta a meno che non si utilizzino
dovuti accorgimenti per segnalare l’inserimento
del prodotto per fini commerciali, come le
menzioni o altri metodi per esplicitare la natura
dell’inserimento.
- sono idonee ad indurre il consumatore ad
assumere una decisione commerciale che
altrimenti non avrebbe preso;
Le pratiche commerciali scorrette sono
sanzionate pesantemente; a seconda della gravità
del caso, ci si può trovare davanti a:
• sospensione provvisoria;
• sospensione inibitoria;
• (art. 23) in ogni caso considerate ingannevoli.
Secondo il Codice del Consumo, inoltre,
Legge Italiana emanata con il d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in materia di diritti del consumatore,
che utilizza come parametro di giudizio il cnsumatore medio del gruppo di riferimento a cui ci si rivolge
di volta in volta.
2
232
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
• pubblicazione della delibera;
• sanzione amministrativa pecuniaria da un
minimo di 5.000 a un massimo di 5.000.000 di
euro (la sanzione storicamente più esosa è stata
emessa ai danni di una nota compagnia telefonica
per un totale di 3.800.000 euro).
Esistono, però, altri poteri che l’Autorità può
esercitare prima di aprire un procedimento. Uno
di questi è rappresentato dalla moral suasion:
l’autorità scrive all’azienda e la invita a modificare
il proprio comportamento, ottenendo un
impegno da parte dell’azienda stessa a modificare
fattivamente il proprio comportamento.
È bene sottolineare che gli impegni non
vengono mai accettati “sotto forma di
pubblicità”, ma in casi di attivo atteggiamento
atto a contrastare l’inganno ai danni del
consumatori. Il ravvedimento operoso da parte
dell’azienda chiamata a rispondere della propria
comunicazione commerciale scorretta prima che
essa venga sospesa o modificata è un criterio di
cui l’Autorità tiene conto nel momento in cui
eroga la sanzione.
Fig. 1 - Pubblicità del vino Libero
Un altro caso che ha fatto “scuola” risalente
al 2013 vede come protagonisti due detersivi
concorrenti: Dash e Dixan.
Alcuni esempi
Il primo dei casi presi in esame, nonché uno dei più
recenti (aprile 2016), è quello del procedimento
nei confronti di Eataly e di vino Libero, un vino
“libero” per due motivi: perché prodotto con uve
coltivate in terreni confiscati alla mafia e perché
(apparentemente) libero da solfiti.
In realtà, seppur contenente una quantità
minima di solfiti, il vino non è totalmente privo
di conservanti. In questo caso, l’AGCM si è
avvalsa della facoltà di esercitare moral suasion in
modo tale che Eataly assumesse specificamente
l’impegno di completare le informazioni relative
ai solfiti contenuti nel vino a mezzo di una
comunicazione nei pressi degli scaffali.
Eataly non si è adeguata e quindi, con il
provvedimento n. 25980, è stata sanzionata.
Fig. 2 - Pubblicità comparativa Dash, 2013
Benché secondo l’AGCM e il suo relativo codice
di condotta la pubblicità comparativa diretta
è lecita, a fronte di una segnalazione, l’Autorità
Garante ed il Giurì, organo decisionale dello
IAP (Istituto per l’Autoregolamentazione
Pubblicitaria) si sono trovati in discordanza in
quanto quest’ultimo, con la decisione n. 30/2013,
233
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
ha decretato che la comparazione fosse corretta
e veritiera, in discordanza con il provvedimento
n. 24522 del settembre 2013 dell’Autorità
che riteneva la comparazione scorretta ed
ingannevole poiché i misurini utilizzati per la
comparazione erano di capacità diversa.
Di esempi se ne potrebbero fare davvero tanti,
ma possono essere tutti consultati sul sito www.
agccom.it che raccoglie i provvedimenti presi
fino ad ora in merito alla pubblicità ingannevole.
stabilisce che ci troviamo davanti a concorrenza
sleale in caso di:
• (n. 1) confusione;
• (n. 2) denigrazione, agganciamento;
• (n. 3) ingannevolezza
I diritti di terzi
con i quali la comunicazione
è suscettibile di interferire
La comunicazione è suscettibile di diritti
assoluti di altri soggetti; un caso è quello del
diritto d’autore ed i diritti connessi, sancito
dalla legge 633/1941 che ha come oggetto:
• le opere protette (software, design, banche
dati);
• i diritti patrimoniali e il diritto morale;
• la durata dei diritti patrimoniali.
Un altro diritto che potrebbe “entrare in rotta di
collisione” con la comunicazione commerciale
è il diritto di marchio (trademark),
regolamentato dagli articoli 7 e 28 del Codice
della Proprietà Industriale.
Essi definiscono:
• cos’è un marchio;
• la caratteristica di diritto assoluto limitato
sotto il profilo merceologico;
• la durata;
• l’esclusività, che si estende anche all’uso nella
sola comunicazione commerciale.
Fig. 3 - Risposta di Dixan alla pubblicità
comparativa di Dash, 2013
Norme di carattere privatistico
Inoltre, il marchio può essere usato da terzi
solo in caso di pubblicità comparativa.
Accanto
alle
normative
di
carattere
pubblicistico, esistono anche delle norme
di carattere privatistico che regolano la
comunicazione pubblicitaria commerciale e
tutti i comportamenti dell’impresa che possono
essere soggetti alla normativa sulla concorrenza
sleale (su segnalazione di un imprenditore o
un’impresa concorrente).
Gli articoli 7 e 10 del Codice Civile e la relativa
elaborazione giurisprudenziale, disciplinano
i diritti della personalità e, cioè l’illecito
utilizzo dell’immagine senza consenso, anche
nel caso delle celebrity.
L’evoluzione giurisprudenziale ha allargato il
concetto fino a comprendere elementi esteriori
Nella fattispecie, l’art. 2598 del Codice Civile
234
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
Ambush Marketing
con i quali un certo personaggio si presenta al
pubblico.
La definizione più esplicativa di ambush
marketing non arriva da un giurista ma da un
uomo di business: Jerry Welsh, Managing Director
di American Express, lo definisce l’«associazione
non autorizzata di un marchio o di un prodotto con
un evento di grande risonanza mediatica». Questa
tecnica di marketing è difficile da identificare e,
in linea di massima, non sempre illecita poiché
l’organizzatore dell’evento in questione non può
sempre presidiare e avere l’esclusiva sull’intero
mondo concettuale che l’evento può evocare.
F OC U S
Con sentenza n. 766 del 21 gennaio 2015 a
conclusione della causa promossa dagli eredi di
Audrey Hepburn nei confronti di un noto brand
di prodotti tessili per la casa, il Tribunale di
Milano si è pronunciato in favore della tutela
del diritto di immagine dell’attrice, riconoscendo
indebito l’utilizzo di alcuni elementi iconici
(abbigliamento, ornamenti, acconciatura) che,
anche se non direttamente riferibili a lei sola,
per la loro peculiarità ed il loro valore evocativo
sono idonei a richiamare immediatamente
nell’immaginario del pubblico l’attrice, alla
quale tali elementi sono univocamente collegati.
Distinguiamo tre tipi di ambush marketing:
• ambush by association: associazione del proprio
marchio/prodotto all’evento o ai suoi segni
distintivi;
• ambush by intrusion: inserimento del proprio
marchio/prodotto all’interno dell’evento;
• saturation ambush: intensificazione delle attività
pubblicitarie in corrispondenza o in prossimità
di un dato evento.
La decisione conferma un orientamento
giurisprudenziale che riconosce il valore
evocativo di quegli elementi iconici che evochino
nell’immaginario collettivo le fattezze di una
celebrity.
Tra i precedenti, la decisione della Pretura di
Roma del 1984 che ha riconosciuto la lesione
del diritto d’immagine di Lucio Dalla per essere
stati riprodotti in una campagna pubblicitaria
di un autoradio un copricapo a zucchetto di lana
e di un paio di occhialetti a binocolo (elementi
esteriori distintivi del cantautore).
Uno dei primi (e più importanti) casi di ambush
marketing si è verificato nel 1984 durante le
Olimpiadi di Los Angeles. In quell’occasione,
lo sponsor ufficiale era Fuji ma Kodak aveva
acquistato tutti gli spazi pubblicitari disponibili,
compresi quelli prima e dopo ogni trasmissione
televisiva. Il risultato fu un’operazione di ambush
marketing perfettamente lecita.
Fig. 4 - Comunicazione commerciale sanzionata
perché ritenuta lesiva dei diritti di immagine
di Audrey Hepburn
Fig. 5 - Premiazione degli atleti sul podio:
Kodak sullo sfondo, 1984
235
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
Un altro esempio mutuato dallo sport è quello
verificatosi durante le Olimpiadi di Sidney nel
2000.
Lo slogan delle Olimpiadi era: “Share the Spirit”
e Qantas, la famosa compagnia aerea australiana,
ha compiuto un vero e proprio “agganciamento”
al claim della kermesse sportiva lanciando una
campagna pubblicitaria il cui claim era “The
Spirit of Australia”.
Daniela Stefania De Pascalis
Fig. 6 - Pubblicità di Qantas, 2000
236
Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo
Sitografia
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, www.agcm.it
Istituto per l’Autoregolamentazione Pubblicitaria, www.iap.it
237
LE OPEN CLASS
PUBBLICITÀ DOMANI.
QUATTRO SFIDE
PER L’ADVERTISING CHE VERRÀ
Tratto dalla lezione di Fausto Colombo e Paolo Iabichino
«La nostra società vive una fase di trasformazione su più fronti:
si tratta di interferenze nel presente, tutte riguardanti il futuro». F. Colombo
«Marketing e comunicazione devono rivedere le proprie conoscenze, i propri assetti e le proprie funzioni,
perché il futuro prossimo venturo potrebbe serenamente decidere di rinunciare ai loro servigi». P. Iabichino
ADVERTISING - FUTURO - SFIDE
nuovi e profonde trasformazioni sociali, culturali
e antropologiche.
Nella prima Open Class del Corso di Alta
Formazione UPA, Fausto Colombo (Direttore del
Dipartimento di Scienze della Comunicazione
e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del
Sacro Cuore) e Paolo Iabichino (Chief Creative
Officer - Group Ogilvy & Mather Italy) hanno
cercato di immaginare, insieme a Paola
Marazzini (Agency Head Google Italia) e a
Ettore Bologna (Responsabile Attività Mediche
e Socio-Assistenziali Fondazione Ferrero) il
futuro della comunicazione pubblicitaria.
Informare l’audience in merito al prodotto oggi
non basta più, la scelta vincente è coinvolgerla:
siamo nell’era in cui il pubblico è parte attiva del
processo di comunicazione, è sempre più critico,
informato e consapevole.
Oggi la rappresentazione pubblicitaria diventa
people oriented1, una comunicazione esistenziale
e fortemente orientata ai destini delle persone
attraverso un racconto meaningful2, una
diffusione di informazioni di marca che è ricca
di significato e che lascia al pubblico spunti,
pensieri e considerazioni nuove.
In una società che cambia, che evolve senza
una direzione definita, in una continua
riformulazione di idee, credenze e teorie, il ruolo
della pubblicità diventa quello di accettare la
sfida del cambiamento, intercettando le grandi
trasformazioni e mettendole in scena attraverso
l’advertising.
Un nuovo modo di fare comunicazione che
varia gradualmente: il cambiamento viene
intercettato e diventa protagonista del racconto
della pubblicità, facendo emergere stili di vita
Ci sono tematiche sociali e culturali che vanno
affrontate in modo credibile e pertinente, ecco
perché, rispetto al passato, siamo di fronte a un
cambio di paradigma.
Per fare pubblicità non partiamo più da un
consumer insight3, ma da una tensione culturale.
People oriented: orientata alle persone.
Meaningful: ricca di significato.
3
Consumer insight: esprime in forma sintetica un bisogno non soddisfatto del consumatore.
1
2
239
Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà
drasticamente.
Lo sbaglio comune, poi, è la distinzione netta tra
italiani e migranti. I non italiani non sono una
singola comunità, ma una pluralità di comunità.
L’integrazione, quindi, deve essere multilaterale.
Gli stessi migranti devono interfacciarsi e
integrarsi non solo con la popolazione ospitante,
ma anche con le altre comunità presenti sul
territorio. Il problema dell’integrazione, quindi,
è complesso, ma necessario.
Un’altra questione è la rappresentazione della
multiculturalità da parte dei media italiani: non
vengono considerati i migranti nelle strategie di
comunicazione. La società presenta un vuoto
nella sua rappresentazione pubblicitaria, la
grande fetta della popolazione costituita dai
migranti costituisce una fascia non raccontata,
che però fruisce dei contenuti trasmessi dai media.
Non siamo ancora attrezzati per capire come la
multiculturalità possa essere una possibilità di
business, per ora lasciamo che siano le comunità
di migranti a gestire le attività di comunicazione.
La pubblicità, infatti, si è spesso sforzata
di affrontare questo fenomeno, ma spesso
affacciandosi timidamente alla tematica, più
che affrontandola. È invece necessario che le
Ma quali saranno le tematiche che l’advertising si
troverà ad affrontare nei prossimi anni?
Le sfide saranno diverse e con molte sfumature,
ma possono essere riassunte in quattro grandi
temi che segneranno il prossimo futuro:
1. Multiculturalità
2. Nuove famiglie
3. Consumatori senza denaro
4. Nuovi anziani
Multiculturalità. Viviamo in una società
multiculturale e questo aspetto sarà ancora
più evidente in futuro. Se prendiamo in
considerazione l’Italia, molti sono i luoghi
comuni che dovrebbero essere sfatati.
Pensiamo ad esempio alla rappresentazione del
migrante in Italia. I media ci restituiscono spesso
l’immagine di un cittadino maschio, ma in realtà
oltre il 50% della popolazione straniera in Italia
è costituita da donne. Inoltre, la percentuale del
tasso di immigrati presenti in Italia è costante,
non a causa di nuove immigrazioni, ma a
causa delle nuove nascite. È interessante ancora
vedere come in qualche caso se non ci fossero i
migranti, la popolazione italiana diminuirebbe
Fig. 1 - Campagna Benetton “Face of the city”
240
Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà
marche intercettino in modo efficiente il tema
della multiculturalità. Un esempio concreto è
Benetton, che sostiene la questione da tempo,
da quando ancora dell’immigrazione in Italia si
parlava appena. “Face of the city” è una campagna
che sottolinea il cambiamento di una società in
continua evoluzione, una campagna che focalizza
l’attenzione sul volto della singola modella,
un volto che è il risultato di un’elaborazione
analogica e digitale di tutte le facce che si
possono trovare nelle sei principali capitali della
moda: Milano, Parigi, Londra, New York, Berlino
e Tokyo. L’immagine finale da vita all’abitante
ideale di ogni singola capitale, un melting pot
tanto acclamato dall’azienda trevigiana nella sua
comunicazione, oggi diventato realtà.
sviluppati, composta da madre, padre e figli,
ndr.) ad una pluralità di modelli familiari.
Questa transizione dal “vecchio” al nuovo
modello è dovuta a diverse cause: ragioni sociali,
economiche e culturali che non hanno fatto altro
che alimentare l’instaurazione di nuclei familiari
sempre più nuovi e diversificati, in cui non è
più ovvia la presenza di due genitori, maschio e
femmina, e di uno o più figli, propri.
Il rischio, per i media, è quello di incappare in una
sbagliata ed esasperata rappresentazione della
tematica. Talvolta, infatti, la tendenza comune
è quella di semplificare una questione molto
ampia andando ad individuare un elemento
controverso: basti pensare alla rivendicazione dei
diritti civili all’interno delle comunità LGBT e alle
rappresentazioni pubblicitarie che spesso i media
ci hanno propinato negli anni. La pubblicità
ha l’obbligo, verso i propri interlocutori, di
affrontare ogni tendenza culturale e sociale in
modo maturo e veritiero, senza strumentalizzare
la problematica.
Nuove famiglie. «Il papà è del genere che appena
a casa, saluta con un “ciao, cara”. La moglie è la
regina dell’elettrodomestico, dai fornelli alla
lavatrice, però vestita come se dovesse uscire
subito. Il bambino è un “frugoletto tutto pepe” e,
tanto per aggravare le cose, magari anche saggio,
specializzato nello storpiare il nome del prodotto
una, due, tre volte. La bambina è un bonsai della
mamma che la imita maldestramente quando
utilizza prodotti di bellezza. La interroga sugli
ingredienti se si tratta di cibi. Attende fiduciosa
la fine del ciclo di lavaggio se siamo sui detersivi.
E, soprattutto, niente pieghe sui pigiami. La
famiglia tipica della pubblicità italiana la si vede al
momento della sveglia. Dopo nove ore di sonno,
sembra appena andata a letto. I capelli sono
ordinati, i pigiami appena stirati, gli occhi per
niente gonfi». Così Emanuele Pirella4 descriveva
ironicamente la famiglia della pubblicità italiana,
una pubblicità che è progredita, sorpassando
gli schemi passati, superando un modello di
famiglia che ha pervaso tutte le comunicazioni
pubblicitarie per oltre 50 anni ma che, ad oggi,
non esiste più, non è più realistico. Attualmente,
infatti, esistono realtà familiari nuove, si è
passati dalla famiglia nucleare (una comunità
riproduttiva diffusa soprattutto nei paesi
Fig. 2 - Frame spot Vodafone
«Bisogna avere pazienza, ma magari, invece, no.
Magari invece è arrivata l’ora di avere coraggio,
di lanciarsi. Sì, perchè, in fondo, non siamo
fatti per aspettare», così recita Fabio Volo in
uno spot Vodafone, un filmato in cui l’azienda
telefonica testimonia il suo appoggio alle famiglie
omogenitoriali, un esempio di come spesso le
aziende affrontino questioni di interesse comune,
Emanuele Pirella è stato un pubblicitario, giornalista e scrittore satirico italiano.
4
241
Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà
strumentalizzandole.
Questi nuovi modelli familiari hanno fatto
emergere «forme di solidarietà che rappresentano
le nuove forme di socialità, è a questo che
si dovrebbe guardare come novità, non allo
stereotipo sociale che è spesso comunicato dai
media».5
F OC U S
Napster era un programma di file sharing creato
da Shwn Fannin e Sean Parker. Utilizzava un
sistema molto simile al funzionamento dell’instant
messaging.
Venne lanciato nel 1999 e si diffuse su larga scala
a partire dal 2000.
Attualmente è un servizio legalizzato a pagamento
che prevede un periodo di prova gratuita di 30
giorni.
Consumatori senza denaro. Siamo in un’era in
cui aumentano le diseguaglianze sociali, in cui
le persone scivolano progressivamente verso lo
stato di povertà, ma siamo anche in un’epoca
in cui c’è una forte tendenza a sostituire la
presenza del denaro e del consumo nelle nostre
vite, con forme di scambio che diventano una
rappresentazione di benessere.
Un fenomeno emerso grazie anche al sostegno
della rete che, con la sua gratuità, ha contribuito
allo sviluppo della cosiddetta sharing economy6:
un’economia dello scambio, del baratto, ma non
del dono.
Uno sharing nato alla fine degli anni Novanta
con Napster e che continua a svilupparsi su ogni
settore merceologico.
Un tema che sarà sempre più dilagante in
pubblicità, nella vita di ogni persona e nel DNA
di ogni azienda, per andare incontro alle esigenze
dei consumatori senza denaro, una condizione
che ci si augura sia transitoria.
I nuovi anziani. La popolazione mondiale sta
progressivamente invecchiando. La società
diventa longeva, le condizioni di vita migliorano.
Gli anziani sono una tribù con bisogni ed esigenze
diverse dalla vecchia popolazione di pensionati
Fig. 3 - Campagna Dove – Pro Age
Fausto Colombo, open class “Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà”, 1 aprile 2016.
Sharing economy: economia della condivisione.
5
6
242
Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà
a cui la società era abituata. Persone sempre più
attente, istruite e connesse.
Ecco che le marche si muovono in questa direzione,
proponendo prodotti diretti esclusivamente
ai non più giovani e la comunicazione, di
conseguenza, si adegua, utilizzando linguaggi
e soggetti che accolgano le esigenze dei nuovi
pensionati.
C’è chi, come Moses Zneimer, ha fatto degli over
45 il suo principale interlocutore, proponendo
prodotti, servizi, programmi TV, interi canali con
palinsesti creati ad hoc, testimonial apprezzati,
ma che sul volto presentano più di qualche ruga;
ha creato un tipo di comunicazione nuova, quella
zoomers oriented7.
la maggior capacità di spesa e che soprattutto,
ha meno preoccupazioni rispetto ai giovani.
Cittadini non più stanchi della loro condizione,
con grande curiosità e voglia di imparare
anche dalle nuove generazioni, con una grande
predisposizione al cambiamento, a stare al passo
con l’innovazione. Pronti a vivere la propria
condizione in serenità, a godersi la vita dopo gli
svariati anni di sacrifici, con tutti i mezzi che la
nuova era mette loro a disposizione.
Gli anziani diventano, quindi, i soggetti principali
delle comunicazioni pubblicitarie, come nello
spot Nike, in cui un gruppo di non più giovani
assume le caratteristiche tipiche dell’adolescenza.
Vengono mostrati mentre evadono di casa, nel
cuore della notte, di nascosto dalle proprie mogli,
per un appuntamento inderogabile: la partita di
calcetto con gli amici.
F OC U S
Moses Zneimer
Canadese, ma originario del Tagikistan, Znaimer
è un innovatore nel campo dei media. Ha una
lunga esperienza in campo televisivo che l’ha
portato a sperimentare molto. Sua ad esempio
l’idea di lanciare CityTv, un’emittente televisiva
nata nel 1972 a Toronto, che costituisce il primo
esperimento di Urban tv al mondo. Un format
che ha anticipato i social media, trasformando
gli utenti in creatori di contenuti. Znaimer aveva
progettato il palinsesto come una struttura da
condividere.
Nel 2008 ha dato vita a ZoomerMediaLmited,
network di TV, radio, giornali cartacei e portali,
specializzato nelle news e nell’entertainment
dedicato agli over 45 canadesi. Moses li chiama
Zommers (boomers with zip) mescolando
l’appartenenza alla generazione dei Baby Boomers
(la più grande mai creata) con il concetto di “zip”,
energia.
Perché, proprio come cita il famoso pay-off8
rivisitato, loro possono continuare a farlo!
Fig. 4 - Frame spot Nike “Still doing it”
Ilenia Di Paola
L’advertising si muoverà, tendenzialmente, in
questa direzione, pensando sempre di più a quelli
che oggi sono definiti come i nuovi anziani:
una nuova fetta di popolazione che, ad oggi, ha
Zoomers oriented: una comunicazione dedicata ad un’audience over 45.
Pay-off: è la parte finale del messaggio pubblicitario che tende ad enfatizzare la comunicazione.
7
8
243
Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà
Riferimenti bibliografici
Iabichino P., Gnasso S., Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono,
Hoepli, 2014.
Iabichino P., Invertising. Ovvero, se la pubblicità cambia il suo senso di marcia,
Guerini e Associati, 2009.
Colombo F., Borcia Artieri G., Del Grosso Destrieri L., Pasquali F., Sorice M.,
Media e generazioni nella società italiana, Franco Angeli, 2012.
244
Data-Driven
Digital Strategy
Tratto dalla lezione di Rosella Serra e Marianna Ghirlanda
«Nella confusione del percorso d’acquisto del consumatore c’è un mondo di segnali da intercettare,
per impostare la migliore strategia di comunicazione.»
Micro-moments – Strategia Omnichannel – Data-driven Storytelling
Fig. 1 - Connessione da smartphone e consumi “on the go”, © The Future’s Company.
Nel 2020 cinque miliardi di persone avranno
accesso a una connessione a Internet, e potranno
usufruire dei suoi benefici.
Questo semplice dato ci fa capire quanto il
mondo, e il modo di vivere dei suoi abitanti, stia
cambiando grazie alla tecnologia, e si trovi nel
mezzo di una delle massime rivoluzioni della
sua storia, della quale siamo tutti spettatori e in
qualche modo attori.
Ognuno di noi oggi, in diversa misura, accede
ormai al web con i diversi device di cui dispone,
e sempre più spesso lo fa contemporaneamente,
in multicanale. Tanto è vero che si stima che, nei
paesi più sviluppati, il 90% delle interazioni fra
persone sia screenbased, avvenga cioè tramite
tecnologia.
245
Data-Driven Digital Strategy
È così che allora trova fondamento l’assunto
“We don’t go online, we live online”. Ciò che vive
solamente offline è da considerarsi ormai sulla
via dell’obsolescenza.
Ma se è vero che il mondo sta traslocando sul
web, chi fa ordine in questa mastodontica mole
di informazioni, relazioni e opportunità?
In questo compito si è consolidato con
autorevolezza il ruolo di Google, nato nell’ormai
lontano 1998 in un garage di Mountain View
da un’idea di Larry Page e Sergey Brin, e che da
allora ha contribuito in maniera pesante a questa
grande transizione.
Così, la sua mission iniziale: «raccogliere
il massimo delle informazioni e metterle a
disposizione di tutto il mondo», si è dovuta
modellare a questi cambiamenti, e la Search
basilare del primo motore di ricerca, algoritmo
dopo algoritmo, è diventata Google Now, che
con i dati raccolti costantemente e in tempo reale
si è prefissata l’obiettivo di aiutare ogni utente
nelle necessità quotidiane, e di migliorare per
questo la sua vita. Aiuto che arriva anche dai
suoi prodotti e servizi, di cui usufruisce oggi un
miliardo di persone, e che diventerà sempre più
“avvolgente”, se così si può dire, una volta che
saranno di uso comune i prossimi sviluppi della
domotica e dell’ internet of things, l’internet delle
cose. Va da sé che, se la mission è quella di aiutare
l’utente ogni volta che ne ha bisogno, l’attività di
Google apre una gigantesca quota di opportunità
per aziende e investitori. Gigantesca almeno
quanto la mole di dati che Google raccoglie a
partire dai bisogni degli utenti. La chiave per
sfruttare queste opportunità, per le aziende, è
principalmente quella di farsi trovare al posto
giusto, nel momento giusto, e nel modo giusto.
“Winning the micro-moments in the customer
experience”, dev’essere questo quindi l’obiettivo
che le imprese devono perseguire: palesarsi agli
occhi dell’utente quando questi avrà espresso
un suo bisogno a Google, e accompagnarlo nel
modo migliore finché non avrà compiuto la sua
scelta, lungo i “micromomenti” che scandiscono
il percorso di ricerca, dal bisogno fino all’acquisto.
Ma si tratta di un percorso che può essere anche
molto confuso e frastagliato, fatto a tentoni,
e pieno di segnali anche inconsapevoli che
bisogna saper essere in grado di intercettare. Ed
è per questo che a chi fa business è richiesto di
adattarsi, nei nuovi ruoli che questo processo
crea: non più tanto di Marketers c’è bisogno,
ma di veri Consumer Scientists1, che sappiano
avere confidenza con i dati e utilizzarli per
produrre insights affidabili. Ma anche questo
può non bastare, se non si è abili nel conciliare
capacità analitiche e creatività, e saperle fondere
pressoché in tempo reale. Per questo bisogna
puntare a un advertising che sappia farsi spazio
agevolmente nei micromomenti del bisogno;
perché il consumatore, oltre che essere un
decisore razionale e informato, può essere anche
molto emotivo. Ai creativi è quindi richiesta la
capacità di costruire una relazione empatica e
di impatto con esso. Allo stesso tempo, proprio
alla luce del fatto che sempre più spesso i bisogni
vengono espressi in mobilità, e in multiscreen,
un’altra grande responsabilità per gli investitori
e anche per la stessa Google è quella di mettere
in piedi una user experience quanto più comoda
e funzionale possibile, oltre che esteticamente
apprezzabile.
Nei meandri della Customer Experience
Capiamo bene quindi che se si vuol fare la
differenza e imporsi nel tempo, nessun aspetto
può essere lasciato al caso. E il segreto del
successo passa per alcune direttrici fondamentali:
la conoscenza approfondita del proprio
consumatore, l’adattamento della struttura
aziendale alle innovazioni, l’adozione della
tecnologia in ogni ambito del proprio business
e il costante monitoraggio delle proprie azioni,
attraverso cui migliorarsi.
Questo percorso – nel quale la strategia aziendale
si modella nel modo migliore per raggiungere
ogni utente e potenziale cliente secondo le
1
Figure che studiano i bisogni delle persone in quanto consumatori di beni e servizi, e che analizzano come le scelte di
questi siano condizionate dalle modalità di accesso alle informazioni necessarie agli acquisti. Strumento sempre più importante in questa ricerca è l’analisi dei big data.
246
Data-Driven Digital Strategy
sue abitudini e preferenze – passa per tre
fondamentali approcci: See, Think, Do.
In che cosa consistono?
È soprattutto in questo ambito che diventa
importante l’analisi dei dati, per identificare cosa
riesce a orientare l’utente verso le conversioni,
parziali o definitive che siano.
-Do: assimilare e ottimizzare la customer
experience.
Nessuna analisi e ricerca sui dati delle preferenze
dei consumatori sarà utile e proficua, se non si
è in grado di integrare le indicazioni prevalenti
all’interno dei processi aziendali, sia decisionali
che pratici. Un aspetto fondamentale in questo
senso riguarda le esperienze di acquisto in
multichannel. È indicativo infatti che in Italia,
ancora il 98% degli acquisti avvenga all’interno
dei punti vendita e non online. Però è allo stesso
tempo interessante notare che, dal 2010 ad oggi,
l’accesso in store si è quantitativamente ridotto del
55%, ma si è praticamente raddoppiato il tempo
di permanenza per ogni visita. Ciò significa che
il consumatore integra i diversi canali di accesso
alle informazioni. E non è un caso se il 90%
dei consumatori dispiega più di un device, nel
proprio processo di acquisto. Questo ci fa capire
che è importante che le aziende impostino una
strategia Omnichannel4, in cui il consumatore
riesca a non percepire alcuna differenza, mentre
si approccia a un determinato brand attraverso
ognuno dei suoi touchpoints.
Alla luce di tutto questo, è fondamentale che le
aziende adottino una visione onnicomprensiva
del Customer Journey. Non è un aspetto
di poco conto, è al contrario qualcosa che
può incrementare non poco i propri ricavi.
Un’impresa deve ormai essere cosciente che un
consumatore rilascia una miriade di segnali
attraverso il proprio comportamento, sia online
che offline. Saper interiorizzare questi segnali
all’interno delle proprie campagne è una sfida
tutto sommato nuova per chi fa advertising, ma è
una sfida che vale la pena accettare.
-See: Identificare i momenti che contano, tramite
dati e ricerche.
Il monitoraggio dei momenti, nell’arco della
giornata, in cui un utente ha espresso necessità, e
del modo attraverso cui l’ha fatto, è uno strumento
fondamentale per capire come questo si muova,
quali canali attivi (mobile, desktop, offline, visite
in store) e con quale frequenza. L’intercettazione
di un “path to purchase” dell’utente è una pratica
importantissima in questo caso. Così da poter
capire quali sono le occorrenze che facilitano
il suo accesso alle informazioni, e quali sono
invece quelle che lo ostacolano: «Data are crucial
to understand what consumers do, but researches
help to understand why»2.
-Think: Dare valore a ognuno dei propri
touchpoints.
Più si comprende il percorso di un consumatore,
più sarà facile predisporre i propri punti di
contatto con esso nella maniera a lui più
funzionale e soddisfacente. In questo caso, ci si
può aiutare predisponendo un ‘Digital datadriven brand funnel3, che identifichi il livello
progressivo di attenzione e di engagement
dell’utente ai propri messaggi:
• cold lead: segnali di attenzione volontari ma
con un basso livello d’impegno;
• warm lead: segnali di interesse più specifico,
con una ricerca di informazioni attiva;
• hot lead: conversioni parziali, in cui l’utente
approfondisce la sua attenzione;
• client: conversione decisiva, con l’acquisto di
ciò a cui si era interessato;
• top client: l’acquirente diventa brand
ambassador, raccomandandolo alla sua rete.
2
Trad.: «I dati sono cruciali per capire cosa i consumatori fanno, ma le ricerche aiutano a capire il perché.» Joris MerksBenjaminsen, Online Brand Identity, Adfo Books, Amsterdam, 2015.
3
Il Digital data-driven brand funnel è la declinazione digitale, e basata sui dati, del tradizionale percorso di acquisto che si
instaura tra brand e consumatori, attraverso le fasi di Awareness, Consideration, Intent, Conversion, Loyalty. In questo caso,
l’analisi dei passaggi intermedi alle fasi è condotta tramite i dati di navigazione degli utenti.
4
Adattamento delle proprie strategie di comunicazione e di vendita alle specifiche caratteristiche di ognuno dei canali, fisici
o tecnologici, attraverso cui avviene il contatto fra impresa e clienti; dando a questi canali un tono omogeneo caratterizzante
l’impresa nel suo insieme e l’intero processo d’acquisto.
247
Data-Driven Digital Strategy
Alla ricerca del Consumer Intent
ed engaging, il programmatic buying (vero
astro nascente dell’advertising sul web, con una
crescita di investimenti economici praticamente
raddoppiata negli ultimi due anni negli USA)
sta sempre più richiedendo che questa creatività
si riesca ad adattare anche a spazi più limitati e
“fugaci”, ma non per questo meno impattanti.
Il programmatic implica quindi un data-driven
storytelling5, che riesca a suscitare l’engagement
maggiore in base alla specifica navigazione da
parte dell’utente. E la creatività potrà risultare
più efficace quanto più sarà actionable, ovvero
capace di far compiere un’azione specifica al
suo destinatario. Questo perché il motore di
ricerca si sta sempre più trasformando da fonte
di informazioni a veicolo di azioni, e questo vale
per qualsiasi dispositivo venga utilizzato (a tal
proposito è utile ricordare che l’advertising sulla
search è sempre il più efficace e proficuo, perché
fa leva sulla ricerca – da parte dell’utente – della
soluzione per soddisfare un bisogno percepito
proprio in quel momento, ndr.).
Il rischio, che è in verità molto fondato, è che
gli utenti lamentino la troppa pervasività dei
messaggi a cui sono esposti. È un rischio che
può essere però aggirato mettendo in campo una
pubblicità “rilevante”, che venga percepita come
utile da chi naviga. Il fenomeno è più riscontrabile
per esempio nel video advertising, e in tal senso
lo “skip” è una cartina tornasole molto utile per
capire la forza di un messaggio sugli utenti.
Eppure, secondo una recente ricerca, il 60%
degli utenti non riesce a ricordare l’ultimo ad
che ha visto online. Quindi, cosa rende una
pubblicità online memorabile? Innanzitutto la
piena identificabilità del brand, in un annuncio
che sia esteticamente piacevole e che dia la
possibilità di interagire. In minor misura incide
il contenuto stesso dell’annuncio, come anche
la sua dimensione. Quanto all’espressione delle
potenzialità creative e all’adattamento della
creatività ai media online utilizzati, le imprese
possono ancora crescere molto. L’idea da tenere
Il sottointeso di quanto detto finora – ed è un
aspetto che non può passare inosservato – è che
la targettizzazione sociodemografica non è più
un criterio affidabile su cui basare la propria
strategia. O perlomeno non lo è più come poteva
esserlo in passato. Il nostro “vivere online” infatti
dice molto di più su quello che siamo. La nostra
navigazione e la ricerca pressoché continua
di informazioni e soluzioni ci caratterizza
esponenzialmente più di qualsiasi altro criterio.
Dalla rete è possibile raccogliere informazioni
praticamente irrecuperabili altrove, a tal punto
che i dati ormai ci dicono che chi si affida solo a
indicatori demografici per allestire e diffondere
una campagna, rischia di perdere fino al 70%
dei potenziali consumatori, soprattutto quelli
che si informano tramite mobile (ovvero ormai
la stragrande maggioranza). Se è vero che
già prima dell’attuale rivoluzione tecnologica
era possibile avere misurazioni sull’effettiva
reach dei messaggi pubblicitari e delle seguenti
conversioni, le metriche a cui abbiamo accesso
oggi hanno reso questa conoscenza molto più
dettagliata e affidabile, più estesa e insieme più
accurata. Questa conoscenza così approfondita
dell’ambiente entro cui ci si muove non può non
condizionare l’impostazione e la fase creativa di
una campagna pubblicitaria. L’assunto «vincere
la battaglia dell’attenzione non è facile e non è
scontato» è ancor più vero oggi in una rete così
satura di messaggi. Il consumatore di oggi è
connesso, interessato e attento; e nel suo contatto
con i brand si aspetta esperienze sempre più fatte
su misura per lui. I brand devono per questo
prendere atto che l’advertising puro non basta
più, che qualsiasi interazione e conversazione
è brand communication. È anche per questa
ragione che la pubblicità online sta sempre
più fondendo creatività e posizionamento. Se
per molto tempo YouTube è stato il mezzo più
adatto a diffondere una creatività più strutturata
Il data-driven storytelling è l’adattamento del contenuto della propria strategia comunicativa, della storia che si vuole
raccontare al potenziale consumatore, secondo i data di cui si è in possesso. Dati che riguardano la navigazione stessa
dell’utente, le sue abitudini e preferenze, ma anche riguardanti il contesto ambientale ed eventuale in cui si svolge la navigazione.
5
248
Data-Driven Digital Strategy
Integrare questi dati con tutti quelli paid,
acquistati; quindi sia i dati di navigazione raccolti
e venduti da terze parti, ma anche le reazioni
degli utenti alle proprie precedenti campagne,
in termini di ricerche indotte, di acquisti e
fidelizzazioni, e di condivisione delle proprie
esperienze con la rete di contatti di ognuno.
O ancora utilizzare dati earned, acquisiti, tramite
il monitoraggio delle attività degli utenti sui
social, nell’engagement e nelle condivisioni dei
propri contenuti. Ma anche in generale tutte le
informazioni ricavate tramite il proprio CRM (il
Customer Relationship Management), e quindi
per esempio le sottoscrizioni a newsletter, le
frequenze di acquisto dei propri prodotti o i
rapporti con l’assistenza.
Insomma, tutto e in maniera oculata, pur
di costruire intorno ad ogni singolo utente
un’esperienza su misura e rilevante.
a mente in questo caso è che «la buona creatività
può sopperire a un piano media mediocre, ma
un buon piano media non può sopperire alla
mancanza di creatività»6.
Verso uno Storytelling algoritmico
Quindi, come conciliare nel migliore dei modi
forza creativa e rilevanza sul consumatore giusto?
Innanzitutto incrociando ogni dato a
disposizione riguardante l’utente e il suo tipo
di navigazione (audience-driven strategy),
contestualizzando ogni messaggio al posto
e all’ambiente circostante il destinatario
(environmental relevance), declinando - come
detto - il messaggio su qualsiasi device (multiscreen), aumentando al massimo l’interazione
con l’utente (engaging experience). Oltre a tutto
questo, non può mancare la successiva verifica
dell’efficacia delle azioni, per fare tesoro delle
indicazioni ricevute con un utilizzo costante di
queste, non solo nel momento in cui vengono
prodotte (measurement). È fondamentale che le
misurazioni non vengano sottovalutate. Bisogna
sempre chiedersi e verificare cosa producano
le proprie azioni. Ad esempio, se la propria
campagna abbia prodotto più brand awareness,
ad recall o consideration; oppure se la campagna
sia in grado di spingere i potenziali consumatori
a fare ricerche sul proprio brand e sui propri
prodotti; oppure ancora chiedersi quali aspetti
della propria campagna possano essere migliorati
per aumentare la performance del brand.
F OC U S
Buone pratiche di Data-driven Storytelling
Come i brand possono avvicinarsi al potenziale
cliente in maniera creativa? Ecco alcuni esempi:
Il marchio Post-It ha sfruttato gli spazi
programmatic con banner al cui interno ci sono
le versioni digitali dei suoi tipici fogliettini adesivi,
su cui il navigatore può appuntare note personali.
Quando questi ritroverà su un altro sito lo stesso
banner Post-It, vi leggerà ciò che lui stesso aveva
scritto precedentemente.
Altro esempio di uso intelligente dei banner è quello
dell’NBA Store, che carica differenti prodotti, con
differenti testimonials, in base al luogo in cui
avviene la navigazione e alle condizioni meteo in
tempo reale.
O ancora il brand Axe, che per la sua campagna
“Romeo Reboot” ha concepito trailers della storia
di Romeo e Giulietta che, sulla base dei diversi
profili degli utenti che guardano il video, possono
produrre fino a 100mila combinazioni differenti,
in termini di contenuto, tono, ambientazioni e
musica.
E con quali segnali si possono produrre questi
insights? Con tutti quelli provenienti dalle proprie
fonti, siano esse owned, paid o earned.
Sono owned, posseduti, tutti i dati ricavati dalle
azioni compiute dall’audience sulle proprie
piattaforme, quindi ad esempio il tipo e il tempo di
navigazione realizzati sul sito da un singolo utente,
a quale tipo di informazione questo si sia affidato,
le conversioni che ha attivato o quelle abbandonate.
6
«Great creative can overcome a poor media plan. But I don’t think the opposite is true. Those that marry the two (resonant
creative which is environment-aware) stand to gain a huge advantage in the minds and wallets of consumers.» Mike Zeman,
Direttore NA Digital Marketing Netflix.
249
Data-Driven Digital Strategy
Fig. 2 - La campagna Post-It tramite Banner interattivi
Fig. 3 - La campagna NBA Store tramite Banner data-driven
Un ulteriore esempio di come sfruttare le diverse
tecnologie è quello di Pedigree, che ha creato
un’App per proprietari di cani, sulla quale si
possono segnalare gli smarrimenti. Il sistema poi
mostra banner specifici a chi sta navigando nella
zona dello smarrimento, mettendo in contatto il
proprietario con chi ha eventualmente ritrovato il
cane.
È un sistema attraverso cui tra l’altro Pedigree può
accumulare una gran quantità di dati sui cani e
sui loro possessori.
250
Data-Driven Digital Strategy
Su YouTube per farsi vedere
contenuto, la piattaforma in sé, e la distribuzione:
Un capitolo a parte nell’ambito della creatività
dell’online advertising, ma anche del rapporto
tra Google e gli investitori pubblicitari, merita
YouTube, proprio per il potenziale di awareness
ed engagement che è in grado di dispiegare.È
sì una piattaforma ricca di possibilità, ma basta
considerare il fatto che su di essa vengono caricate
400 ore di video ogni minuto per rendersi conto
che si tratta di un’infrastruttura grandissima,
e che per questo è in teoria il posto migliore
per nascondere un video, che si perderà nella
miriade della totalità di contenuti. Per di più, i
brand videos non sono certo avvantaggiati, se
consideriamo che l’80% di essi riceve in media
meno di 10 mila visualizzazioni. Per quanto
riguarda i video caricati, ci sono tre grandi tipi di
contenuti presenti. C’è l’user-generated content,
ovvero il materiale pubblicato da utenti semplici.
Si tratta della grande maggioranza, ma salvo casi
particolari, questi ricevono un numero contenuto
di visualizzazioni, e solitamente sono sprovvisiti
di pubblicità (in pre-roll o all’interno). Poi ci sono
i brand videos, che però la piattaforma considera
come materiale user-generated, e quindi anch’esso
sprovvisto di pubblicità.
Il ruolo più importante è appannaggio dei
contenuti creati da sistemi complessi, che
possono essere influencers, youtubers, artisti,
editori. Si tratta dei contenuti molto seguiti,
che ricevono la gran parte delle visualizzazioni.
Questo tipo di materiale è invece “monetizzato”,
poiché la pubblicità è presente e i ricavi vengono
divisi fra YouTube e i creatori stessi dei contenuti.
Ma a parte i video e le pubblicità, aziende e
investitori hanno molteplici possibilità per
sfruttare tutte le potenzialità di YouTube,
attraverso tutte le sue features: le pagine di ricerca,
le pagine canale, le sottoscrizioni, le playlist, i
“suggeriti”, i commenti ai video e così via...
Ma come sfruttare al meglio le occasioni date dal
video advertising? Non esiste una ricetta perfetta e
sempre efficace, ma tanti buoni ingredienti da far
funzionare nel migliore dei modi, riguardanti il
Content is the King: vero elemento portante e
imprescindibile per innescare viralità al proprio
video è il contenuto stesso. Questo può essere forte
di per sé, ma lo può diventare specificatamente
per ogni singolo utente se si è in grado – come
abbiamo già detto – di predisporre diversi video
attraverso il programmatic, a partire dai dati di
chi sta navigando e dal contesto;
• Be sharable: fare in modo che il video
sia quanto più condivisibile possibile, in
qualsiasi maniera si possa fare: educando,
intrattendendo, ispirando, emozionando...
• Get attention in 5 seconds: specialmente
per combattere contro lo skip, è bene che chi
guarda sia subito coinvolto appieno;
• Take your time: il video deve durare il
tempo giusto, adatto per il contenuto e per
il messaggio che si vuole veicolare. In questo
senso può essere d’aiuto il fatto che YouTube
non prevede durate standardizzate, per cui:
sfruttare quanto serve;
• Call to action: per agevolare quanto più
possibile le conversioni, inserire una chiara
richiesta di azione nel messaggio;
• Make interactive: sfruttare le possibilità
offerte dalla piattaforma, facendo interagire i
contenuti con le scelte dell’utente;
• Content strategy: considerare il fatto che
la viralità molto spesso produce picchi
d’attenzione momentanei ma potrebbe
decrescere in poco tempo. Quindi prevedere
aggiornamenti di contenuto che possano
alimentare costantemente la curva di
attenzione. Ciò può essere fatto integrando
contenuti always-on per il target più affine
e già fidelizzato, contenuti push pubblicati
con regolarità e destinati a generare nuovi
contatti, e contenuti speciali, ad ampio raggio
e legati ad eventi, per allargare la base di
awareness intorno a sé;
• Be discoverable: tenere sempre a mente che
YouTube è pur sempre un motore di ricerca
testuale. Quindi tag, metadati, ma soprattutto
251
Data-Driven Digital Strategy
titoli, descrizioni e anteprime devono essere
facilmente raggiungibili e stimolare da subito
la curiosità di chi guarda;
• Adapt for mobile: considerare ovviamente,
alla luce di tutto quanto è stato detto, che i
contenuti devono essere fruibili nel migliore
dei modi, attraverso tutti i device di cui gli
utenti dispongono, con un occhio di riguardo
ai futuri sviluppi della Virtual Reality.
• Never give up: bisogna prestare molta
attenzione alla strategia di pubblicazione
dei video dispiegando al meglio le proprie
risorse organic, partner e paid. Infatti,
l’investimento per diffusione a pagamento
dei propri contenuti sarà proporzionalmente
più proficuo, quanto il contenuto saprà già
“camminare sulle proprie gambe”, contando
sulla diffusione organica data dal brand e da
altri eventuali partner nella campagna.
In generale, anche nel caso di YouTube vale
la regola del tenere d’occhio dati e insights,
monitorando sempre i propri risultati per
migliorarsi continuamente, così da avere di volta
in volta performance sempre migliori.
Pietro Gentile
252
Data-Driven Digital Strategy
Riferimenti bibliografici
Merks-Benjaminsen J., Online Brand Identity, Adfo Books, Amsterdam, 2015.
Jones K., Hritzuk N., Multi-screen marketing, Wiley, Hoboken, 2016.
Agostini A., Gagliardini C., Social Google marketing, Hoepli, Milano, 2015.
Schmidt E., Rosenberg J., Come funziona Google, Rizzoli Etas, Milano, 2014.
Miles J., Fare business con Youtube, Hoepli, Milano, 2014.
Vise D., Malseed M., Google story, Egea, Milano, 2013.
253
GLOSSARIO
Glossario
ACTIONABLE METRICS
Letteralmente “metriche d’azione”, rappresentano condivisioni, like, commenti, etc.
AD EXCHANGE
Piattaforma tecnologica che facilita la compravendita in tempo reale di inventari, da molteplici
network pubblicitari. L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto della campagna display in
meno di 100 millisecondi e la fa apparire sulla pagina nel momento in cui viene caricata dall’utente.
AD NETWORK
Aziende che si occupano della gestione degli annunci pubblicitari nell’ambiente online.
La locuzione è la contrazione di Advertising Network, ossia rete pubblicitaria.
La funzione fondamentale svolta da un Ad Network è l’intermediazione tra gli Advertiser
(inserzionisti che vogliono acquistare spazi sul web per promuovere prodotti e servizi) e i Publisher
(proprietari di siti web che offrono gli spazi in cui sono collocate le inserzioni).
AD-BLOCKING
Plug-in per il browser internet che fa da filtro alla pubblicità, bloccando (non facendo visualizzare)
qualsiasi annuncio che si potrebbe trovare sul web (pop-up, pubblicità di Google etc.).
ADVERTISER
Azienda che ha interesse a pubblicizzare il proprio prodotto.
AGENCY TRADING DESK
Aziende specializzate che affiancano l’Advertiser o le agenzie nella gestione delle attività
di programmatic advertising, offrendo solitamente una loro piattaforma connessa con Ad Exchange.
ALWAYS ON
Tendenza ad essere sempre connessi.
AMBIENTE DI MARKETING
Insieme degli attori e delle forze esterne all’impresa, che ne influenzano la capacità di sviluppo e
successo, dati determinati confini spazio-temporali. Viene suddiviso in micro-ambiente (di cui
fanno parte stakeholder finanziari, fornitori, stakeholder istituzionali, concorrenti diretti e indiretti,
domanda intermedia e finale) e macro-ambiente (in cui rientrano politico-istituzionale, fisico,
demografico, economico, tecnologico, socio-culturale).
255
Glossario
ANALISI SWOT
Strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), debolezza
(Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto o di un’impresa
per il raggiungimento di un obiettivo.
ANNUNCI PUBBLICITARI PRE-ROLL
Video che partono in automatico prima di un contenuto editoriale.
ANNUNCI PUBBLICITARI PRE-ROLL NON PREMIUM
Video in modalità pre-roll non erogati in testate prestigiose, autorevoli o particolarmente seguite.
ASCOLTO IN REAL TIME
Modalità di listening che si è adeguata alle nuove tendenze apportate dal digitale: le conversazioni
avvengono live ed è quindi necessario un real time listening. Molte grandi aziende si sono ormai
attrezzate con social rooms, stanze per il monitoraggio in tempo reale delle conversazioni online,
in particolare per tenere costantemente sotto controllo i “temi caldi” che potrebbero provocare
focolai di crisi.
ASCOLTO ON TRACK
Tipologia di ascolto continuativo.
ASCOLTO STORICO
Tecnica utile per l’ascolto retroattivo, ovvero per analizzare conversazioni avvenute in passato
(generalmente non più di un anno), su uno specifico tema.
AUDIOUTDOOR
Società costituita da UPA che ha per oggetto l’accertamento dell’eseguito rispetto all’ordinato con
i piani tecnici della pubblicità esterna sugli impianti e sugli spazi comunali e privati; la rilevazione
oggettiva ed imparziale e la diffusione sistematica dei dati sulla audience degli impianti di pubblicità
esterna in Italia; le ricerche, gli studi, le analisi anche statistiche nel campo specifico della pubblicità
esterna
AUDIPRESS
Società promossa nel 1992 dall’Upa (Utenti Pubblicità Associati), da Assocomunicazione e dalla
Fieg, (Federazione Italiana Editori Giornali) sul modello dell’Auditel televisivo, per raccogliere
e pubblicare dati sulla diffusione della stampa italiana.
Fornisce i dati di lettura dei quotidiani, dei supplementi di quotidiani, dei settimanali e dei mensili,
oltre alle informazioni socio-demografiche dei lettori, per 125 testate attualmente in rilevazione.
256
Glossario
AUDITEL
Società che si occupa della rilevazione dei dati di ascolto televisivo.
AUDIWEB
Organismo “super partes” che fornisce al mercato un sistema integrato di servizi per la definizione
e la misurazione dell’audience online, offrendo informazioni utili ai centri media e agli editori
per effettuare una corretta pianificazione e gestione delle campagne di comunicazione sul mercato.
AUTO-PLAY
Metodo che permette di far partire il video in automatico senza audio, rispondendo così
all’esigenza di guardare video su mobile, nel rispetto di chi sta accanto.
AXIAL CODING
Letteralmente “Codifica assiale”, termine che, nella “Teoria del Terreno”, fa riferimento
al processo che mette in relazione tra loro codici (categorie e concetti), mediante una combinazione
di ragionamento induttivo e deduttivo.
BEHAVIOURAL COMMITMENT
Letteralmente “impegno comportamentale”. In ambito marketing, questo termine fa riferimento
ai comportamenti che il consumatore può intraprendere nei confronti di un brand o un marchio.
Nella definizione di una Mobile Strategy, il concetto di committment va ad indicare l’entità
delle risorse temporali ed economiche che si intende destinare al progetto.
BIDDING
Letteralmente “fare un’offerta”. Si tratta di un metodo che permette all’inserzionista di scegliere, in
modo sempre più mirato, le proprie campagne pubblicitarie oltre a dare la possibilità all’advertiser
di partecipare direttamente alle aste saltando gli intermediari (concessionarie e network
pubblicitari) utilizzando una piattaforma dedicata.
BOT
Termine di origine anglosassone con cui s’intende un programma autonomo che nei social network
fa credere all’utente di comunicare con un’altra persona umana.
BRAND
Serie di elementi materiali e immateriali che identificano la personalità e le caratteristiche di un
prodotto, un’organizzazione o di un servizio. Parlare di brand significa occuparsi anche della
narrazione e dell’esperienza, sia digitale che offline, in cui viene esperito dalle persone.
257
Glossario
BRAND RECALL IN TOUCHPOINT
La percentuale di consumatori che ricorda ciascun Brand per ciascun touchpoint.
BRAND ADVOCATES
Persone individuate e selezionate sulla base di specifiche caratteristiche, che hanno il compito
di sostenere, promuovere e invogliare la conoscenza di un determinato brand, prodotto o contenuto,
grazie a una capacità di convincimento basata sul loro trust in un determinato settore d’azione.
BRAND AMBASSADOR
Letteralmente “ambasciatore del brand”, indica un soggetto che fa ufficialmente pubblicità al brand
e si fa portatore dei valori del brand senza ricevere una ricompensa per questo.
BRAND AWARENESS
Letteralmente “notorietà di marca”, indica il grado di riconoscibilità di un marchio e la sua
associazione ad un determinato prodotto da parte dei potenziali consumatori.
Il concetto di conoscenza e riconoscibilità del brand si compone di due caratteri: un aspetto
quantitativo (la notorietà) e un aspetto qualitativo (l’immagine e la percezione). La sua creazione
è obiettivo primario della pubblicità nella fase iniziale del ciclo di vita di un prodotto.
L’apice consiste nel raggiungimento del punto massimo di notorietà (top of mind), quando
il marchio diventa il primo a cui le persone pensano nel processo di acquisto di un prodotto
o servizio.
BRAND CHARACTER
Patrimonio d’immagine della marca. Comprende l’insieme delle caratteristiche tangibili e intangibili,
positive e negative, attribuite dal cliente alla marca: il valore di tali caratteristiche dipende dal
complesso di relazioni col mercato che una data marca è in grado di instaurare ed è proporzionale a
quello dei prodotti o servizi a cui il brand viene associato.
BRAND EXPERIENCE
Sintesi di potenziale influenzante e brand association. Può essere calcolata, per ogni singolo contatto
e brand, come prodotto aritmetico delle 2 metriche. Può essere anche espressa sotto forma
di percentuale ed è calcolata rispetto al totale di esperienza di marca/prodotto dalla categoria
di riferimento.
BRAND EXPERIENCE MAP
Strumento che raffigura il brand visivamente, rappresentando il processo di fornitura del servizio, il
ruolo di consumatori ed impiegati e gli elementi visibili del prodotto/servizio.
258
Glossario
BRAND EXPERIENCE POINT
Espressione che indica il contributo relativo di ciascun touchpoint alle vendite di una specifica
marca.
BRAND IDENTITY
Letteralmente “identità del brand”, è un aspetto fondamentale del brand perché contribuisce
a determinare la percezione e reputazione da parte del pubblico agendo in prima battuta a livello
emozionale.
BRAND LOYALTY
Letteralmente “fedeltà di marca”, indica la tendenza del consumatore ad acquistare sempre la stessa
marca all’interno di una data classe di prodotto.
BRAND SOCIETY
Termine con cui il Professor Bernard Cova definisce la società post-moderna, in cui i brand
sono diventati un tutt’uno con la società e con gli individui che la compongono.
BRAND VERBING
Termine volto ad indicare l’utilizzo di nomi di brand come verbi o sostantivi (es. to google,
to hoover ecc..)
BRANDED CONTENT
Letteralmente “contenuto brandizzato”, indica l’ideazione, la produzione e la distribuzione
di contenuti originali creati appositamente per veicolare un brand e i suoi valori.
BUZZ
Letteralmente “brusio”, è termine onomatopeico di origine inglese che designa un brusio
incontrollato. Indica il passaparola in rete, ovvero l’insieme delle conversazioni che si generano
sul web in riferimento ad un determinato argomento.
CALL TO ACTION
Letteralmente “chiamata all’azione”. Con questa espressione si intende l’atto che consiste
nello spingere l’utente a compiere una determinata azione.
CHAT-BOT
Software progettato per simulare conversazioni intelligenti con esseri umani.
CITY BRANDING
Processo comunicativo volto a migliorare la percezione e la reputazione di una città, che vuole
proporsi come luogo di valore per turisti, cittadini e nuovi potenziali abitanti.
259
Glossario
CITY MARKETING
Strumento volto a proporre il territorio come risorsa e, conseguentemente, ad ottimizzare le
relazioni fra il territorio e i potenziali investitori.
CITY USER
Nell’ambito del marketing delle imprese culturali e creative, con questo termine si fa riferimento ai
“fruitori” della città, primi fra tutti, i cittadini stessi.
CLICK TO PLAY
Termine che si riferisce alle tipologie di video visti intenzionalmente e non a partenza automatica.
CLICK-THROUGH RATE
Letteralmente “percentuale di click”, è una metrica che misura l’efficacia di una campagna
pubblicitaria online.
CODICE EAN
European Article Number, famiglia di codici a barre usata per la marcatura di prodotti destinati
alla vendita al dettaglio.
COMITATO DI CONTROLLO
Organo garante degli interessi generali dei consumatori, composto da professionisti esperti
dei problemi dei consumatori, di tecnica pubblicitaria, di mezzi di comunicazione, di materie
giuridiche e scientifiche.
COMMUNITY DESIGN CANVAS (CDC)
Schema che permette di individuare efficacemente gli elementi fondamentali (value proposition,
target, e tool) oltre a quelli necessari per la concreta applicazione sul processo aziendale (partner,
attività, risorse chiave, relazione tra utenti).
COMPLETION RATE
Termine che indica il rapporto tra il numero di volte in cui è stato fatto partire il video e il numero
di visualizzazioni complete che erano state acquistate. È un indice significativo per misurare
la validità di una campagna: più è alto, più video sono stati visti fino alla fine.
CONCEPT CLOUD
Identifica i concetti più ricorrenti in relazione all’oggetto dell’analisi.
CONSUMATTORE
Termine introdotto dal sociologo Giampaolo Fabris, volto a descrivere un consumatore in grado
di co-operare attivamente alla produzione.
260
Glossario
CONSUMER INSIGHT
Termine di origine anglosassone con cui si intende la comprensione da parte delle aziende
dei bisogni inespressi del consumatore, al fine di creare prodotti e/o servizi capaci di colmare
opportunità di consumo.
CONSUMER INTENT
Termine volto a indicare l’intenzione d’acquisto del potenziale consumatore.
CONSUMER PATHWAY
Rappresenta il metodo per isolare le diverse finalità della comunicazione e definire le consumer
experience in grado di determinare il successo.
CONSUMER RESEARCH
Metodologia che permette di capire, nel momento in cui un prodotto esce da scaffale,
chi lo ha acquistato.
CONSUMER SCIENTISTS
Figure che studiano i bisogni delle persone in quanto consumatori di beni e servizi, e che analizzano
come le scelte di questi siano condizionate dalle modalità di accesso alle informazioni necessarie agli
acquisti.
CONSUMER-CENTRIC
Letteralmente “cliente-centrica”.
Strategia di marketing che mette le esigenze del cliente al primo posto.
CONTENT MARKETING
Tecnica di marketing che consente di creare e condividere contenuti rilevanti di valore per attrarre
un target ben definito, al fine di guidare l’azione del cliente nel modo più proficuo possibile.
CONTENT PROVIDER
Letteralmente “fornitori di contenuti”, società che forniscono informazioni e contenuti al motore
di ricerca per ricevere in cambio le visite degli utenti.
CONVERSATIONAL COMMERCE
Approccio customer-based che fa della comunicazione interpersonale la sua forza.
Si basa quindi sull’idea di superare il concetto tradizionale di eCommerce fondato su un semplice
catalogo di beni e servizi da poter acquistare, a favore di un rapporto continuo tra brand e cliente,
ad esempio tramite applicazioni di instant messaging.
261
Glossario
CONVERSIONE
Termine che non necessariamente indica una transazione economica. Si tratta infatti di un’azione
desiderata dall’azienda e compiuta dall’utente (ad esempio la condivisione di contenuti, l’iscrizione
alla newsletter ecc. ).
COOKIE
File di testo nel quale vengono memorizzate delle informazioni che i vari siti web possono utilizzare
per facilitare la navigazione dell’utente.
COPERTURA (O REACH PERCENTUALE)
Metrica che misura la percentuale del target esposta alla campagna pubblicitaria e si rappresenta
con il rapporto percentuale tra i contatti netti e l’entità del target.
CORPORATE IDENTITY
Letteralmente “identità dell’azienda”, ciò che la rende identificabile all’esterno e che viene stabilita
dall’azienda stessa. L’identità è un insieme di valori, un sistema filosofico.
CORPORATE REPUTATION
Letteralmente “reputazione dell’azienda”, è la fusione di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni
sviluppate nel tempo da clienti, impiegati, fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione
alle qualità dell’organizzazione, alle caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale
esperienza, il sentito dire o l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione.
COST PER CLICK (CPC)
Costo che si paga ogni volta che un utente clicca sull’annuncio.
COST PER MILE (CPM)
Costo per 1000 impression.
COST PER VIEW (CPV)
Metodo di spesa secondo cui l’azienda paga solo se il video viene visualizzato dall’utente
fino alla fine.
CROWDSOURCING
Dall’inglese crowd, ovvero “folla”, indica una strategia operativa con la quale un’impresa sfruttando
le potenzialità collaborative del web invita i clienti e i follower alla progettazione partecipata
di un nuovo prodotto o servizio, realizzando così un prodotto sulla misura delle reali esigenze
dei prospect.
262
Glossario
CULTURAL ECONOMY
Concezione per la quale la cultura e l’economia sono strettamente connesse, in quanto le istituzioni
economiche possono essere considerate in una dimensione culturale e le imprese culturali possono
generare ritorni economici.
CUSTOMER CARE
Servizio di assistenza fornito da un’azienda alla propria clientela.
CUSTOMER EXPERIENCE
Letteralmente “esperienza del cliente”, indica la reazione interiore e soggettiva del cliente di fronte a
qualsiasi contatto diretto o indiretto con un’impresa.
CUSTOMER JOURNEY
Itinerario che il cliente percorre quando instaura una relazione con un’impresa nel tempo
e nei diversi “ambienti” di contatto, siano essi offline che online. Consiste, dunque, nella “mappa”
di tutti i touchpoint adoperati dall’utente.
CUSTOMER LIFETIME VALUE
Previsione dei profitti per tutto l’arco della relazione futura con il cliente.
DAILY DEAL
Coupon sconto con offerte disponibili per un tempo limitato, utili per attività business-to-consumer
che cercano innanzitutto di farsi conoscere dai potenziali clienti.
DATA ANALYSIS
Letteralmente “Analisi dei dati”. Si tratta di un processo di ispezione, pulizia, trasformazione
e modellazione di dati con il fine di evidenziare informazioni che supportino le decisioni strategiche
aziendali.
DATA ASSEMBLY
Fase dell’analisi qualitativa di dati durante la quale vengono prese annotazioni basate
sull’osservazione, la registrazione di eventi o di interviste, la raccolta di documenti etc.
DATA DISPLAY
Letteralmente “Visualizzatore di dati”, unità periferica di computer che trasferisce i dati da esso
elaborati su un video trasparente, dal quale, attraverso una lavagna luminosa, sono proiettabili
su schermo.
263
Glossario
DATA MANAGEMENT PLATFORM
Piattaforma tecnologica che trasforma enormi quantità di dati relativi alle caratteristiche
e al comportamento degli utenti in azioni rivolte a loro, che possono essere pianificate, erogate
e misurate in tempo reale.
DATA-DRIVEN STORYTELLING
Adattamento del contenuto della propria strategia comunicativa secondo i dati sulla navigazione
dell’utente, le sue abitudini e preferenze e sul contesto ambientale ed eventuale in cui si svolge la
navigazione.
DELIVERY RATE, OPEN RATE, CLICK-THROUGH RATE
Nell’ordine, i termini si riferiscono al tasso di ricezione, di lettura e di collegamento a un contenuto
web tramite click dalla mail.
DEMAND SIDE PLATFORM
Piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire agli Advertisers di acquistare spazi in modalità
automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile,) o essere
utilizzata per tutte le tipologie di inventory.
DIFFERENZIAZIONE
Strategia di pricing che consiste nel fissare prezzi diversi per prodotti diversi.
DIGITAL DATA-DRIVEN BRAND FUNNEL
Declinazione digitale, e basata sui dati, del tradizionale percorso di acquisto che si instaura tra brand
e consumatori, attraverso le fasi di Awareness, Consideration, Intent, Conversion, Loyalty.
DISCOVERY
Indagine e scoperta di tendenze al di fuori del proprio settore/ambito di ricerca.
DISCRIMINAZIONE
La pratica di fissare prezzi diversi per lo stesso (o quasi lo stesso) bene, in funzione della quantità
acquistata, delle caratteristiche del cliente, o di certe clausole contrattuali. Dal momento che,
il differenziale di prezzo tra un prodotto e un altro, venduto a due consumatori diversi,
non è giustificato da una diversa struttura dei costi, si dovrà convincere ciascun consumatore
a pagare il proprio prezzo.
DROP SHIPPING
Vendita di beni non posseduti fisicamente in un magazzino.
EARNED MEDIA
Letteralmente, “canali guadagnati”, indicano il valore aggiunto generato dalle conversazioni degli
utenti che diventano il canale stesso (traffico nel sito, contenuto commentato e condiviso, fan page e
contenuti user-generated).
264
Glossario
E-COMMERCE
Letteralmente “commercio elettronico”, indica la transazione e lo scambio di beni e servizi effettuati
mediante il World Wide Web.
ENGAGEMENT
Processo di formazione di un attaccamento di tipo emozionale o razionale tra stakeholder interni
e/o esterni e il brand. In generale, il brand entra in connessione con il consumatore attraverso
una serie di “touchpoint”, come gli ambienti di retail, l’advertising o lo stesso prodotto o servizio.
ENTRY FEE
Letteralmente “tariffe di entrata”. Sono i costi che, chi apre un franchising, deve versare al detentore
del marchio.
EXTERNALITIES
Letteralmente “esternalità”, fenomeni economici che si riverberano su altri attori. Si distinguono
in positive se producono valore per l’intero sistema e negative se producono svantaggi al contesto;
in same side se ricadono sugli attori dello stesso lato del mercato e cross side se ricadono su attori
di lati diversi.
FACEBOOK COMMERCIAL PIXEL
Il pixel di Facebook è un frammento di codice JavaScript presente su un sito web che consente
di misurare le campagne pubblicitarie, di ottimizzarle e definirne il pubblico.
FEAR OF MISSING OUT (FOMO)
Stato di ansia e timore di essere messi da parte.
FORMAT
Mix di servizi offerto da un retailer, che include l’assortimento.
Quest’ultimo può variare, sia in ampiezza (numero di categorie), che in profondità (numero
di varianti all’interno di una categoria).
FREE-RIDERSHIP
Comportamenti opportunistici del consumatore che, avendo a disposizione lo stesso prodotto
in differenti canali, raccoglie informazioni all’interno dei canali che offrono una migliore assistenza
e poi compie l’acquisto all’interno di canali in cui invece si punta su prezzi inferiori.
Si genera così una conflittualità tra i canali.
FREQUENZA (O OTS, “OPPORTUNITY TO SEE“)
Numero medio di volte in cui un individuo è stato esposto al messaggio.
265
Glossario
FREQUENZA DI RIMBALZO (O “BOUNCE RATE“)
Percentuale di visite a un sito web che hanno registrato la presenza dell’utente su una sola pagina;
il navigante, quindi, ha abbandonato il sito senza visitare altre pagine dello stesso.
FUNNEL D’ACQUISTO
Letteralmente “imbuto”, il funnel è una riproduzione grafica del percorso d’acquisto
dei consumatori. Prevede una fase iniziale di Awareness (conoscenza del prodotto), una successiva
di Interest (interesse per il prodotto), la Consideration (ricerca di informazioni a riguardo), l’Intent
(manifestazione della volontà di comprare) e una fase finale di Purchase in cui avviene l’acquisto.
GEEK
Termine di origine anglosassone che indica i c.d. “nerd” appassionati di tecnologie digitali.
GENIUS LOCI
Locuzione latina con riferimento alle religioni del mondo antico, che associavano ai luoghi
e ai paesaggi naturali la presenza di una divinità minore che ne costituiva il nume tutelare.
GEO-LOCALIZZAZIONE
Identificazione della posizione geografica nel mondo reale di un dato oggetto.
GIURÌ
Giudice privato la cui istituzione deriva da un accordo fra tutti gli operatori che esercitano la loro
attività nel campo della pubblicità, diretto a garantire l’osservanza e l’applicazione di un Codice
di autodisciplina che gli operatori medesimi si sono dati.
GRP
Gross Raiting Point, metrica che permette di sapere la percentuale di persone che, in media,
sono state sottoposte ad una campagna pubblicitaria. Il GRP misura la qualità di comunicazione
prodotta da un piano mezzi sul suo target group e, più in generale, è utile per confrontare piani
media diversi. È dato dal rapporto percentuale tra il numero di contatti lordi realizzati
dal piano rispetto a un determinato target e l’entità stessa del target.
HUB
Letteralmente “fulcro”, indica lo snodo interno ad una rete. Ad esempio, una “città hub” è una città
in cui i traffici non solo turistici ma anche di business (di quella determinata regione geografica)
convergono e subito ripartono, poiché non è la destinazione finale di chi vi approda.
IMAGE MARKETING
Attività volta a creare una brand presence, da usare come leva per creare relazioni durature
con i consumatori.
266
Glossario
IMMAGINE DELL’AZIENDA
Insieme di esperienze, cognizioni, impressioni, opinioni che gli individui si formano, in maniera
diretta o indiretta, coscientemente o meno, in relazione ad una data impresa, ente o organizzazione.
IMPRESSION
Rappresenta il numero di volte che un certo contenuto sociale (post, tweet, foto, video) ha avuto
la possibilità di essere visto da un certo pubblico. Esprime un valore potenziale, poiché non tiene
conto della frequenza del messaggio pubblicato, dei metodi di visualizzazione dello stesso
e della duplicazione dell’audience.
IN-STORE OBSERVATION
Marketing all’interno dei punti di vendita che consiste nell’individuare, mediante osservazione,
il più opportuno posizionamento dei prodotti a scaffale e come lo fanno i competitor.
IN-APP PURCHASE
Meccanismo di advertisting di un’applicazione all’interno di un’altra, che permette di targetizzare
l’audience per tipo di comportamento, di device o sistema operativo, localizzazione e fascia oraria.
INDICE DI COPERTURA PONDERATA
Valutazione qualitativa della presenza dei prodotti aziendali in punti vendita ad alta quota
di mercato.
INDICE DI RILEVANZA SINTETICO
Parametro sintetico di misurazione della rilevanza di un post, strumentale all’attivazione
di alert qualificati e alla valutazione del rischio reputazionale.
INFLUENCER MARKETING
Si basa sullo sviluppo di relazioni con personaggi che possiedono una certa influenza su una
determinata fascia di pubblico e che sono quindi in grado di incrementare la visibilità a prodotti/
servizi/brand.
INSTANT MARKETING
Pratica di digital marketing che prevede di offrire contenuti sul Web 2.0, strettamente collegati
ad un evento specifico.
IN-STORE MARKETING
Attività di marketing all’interno del punto vendita. Includono stand dedicati, distribuzione
di materiale informativo sul prodotto o del prodotto stesso, dimostrazioni (demo) e promozioni
con buoni sconto o gadget.
267
Glossario
INTERNET OF THINGS
Letteralmente “Internet degli oggetti”, termine che indica l’insieme di tecnologie il cui scopo
è rendere qualunque tipo di oggetto, anche senza una vocazione digitale, un dispositivo collegato
ad Internet.
INVENTORY
Magazzino, deposito di contenuti e spazi pubblicitari.
INSTINCTIVE PURCHASING
Letteralmente “Acquisto d’impulso”, che non è dunque preceduto dalle tradizionali fasi di analisi
del prodotto ricercato e dalla ponderazione dei costi alternativi.
ISTITUTO AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA (IAP)
Ente con personalità giuridica che dal 1966 regolamenta la comunicazione commerciale
per una corretta informazione del cittadino-consumatore e per una leale competizione
tra le imprese.
JOINT INDUSTRY COMMITTEE (JIC)
Organismo a controllo incrociato che riunisce ogni componente del mercato televisivo: investitori
di pubblicità, agenzie, centri media e imprese emittenti.
KEY SUCCESS FACTOR
Letteralmente “fattori critici di successo”, ovvero, la combinazione di elementi cruciali necessari
al raggiungimento degli obiettivi di business.
KPI (KEY PERFORMANCE INDICATORS)
Letteralmente Indicatori di prestazione chiave, sono parametri con i quali misurare una campagna
di web marketing. Essi si distinguono a seconda degli obiettivi della campagna: se quest’ultima mira
a quantificare l’esposizione, allora tali indicatori saranno sostanzialmente identici a quelli
delle campagne tradizionali con qualche piccola distinzione terminologica (ad esempio i contatti
lordi si chiamano impression).
LANDING PAGE
Letteralmente “pagina di atterraggio”, ovvero una pagina web specificamente strutturata
che il visitatore raggiunge dopo aver cliccato un link o una pubblicità.
LEAD
Rappresenta un potenziale cliente che mostra interesse, a vari livelli, nei confronti di un brand/
prodotto o servizio.
268
Glossario
LEAD GENERATION
Letteralmente “generazione di contatti”, azione di marketing che consente di generare una lista
di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi di un’azienda.
LIGHT TV-VIEWER
Con questa espressione ci si riferisce ad utenti con un alto livello di istruzione, maggior potere
di consumo, caratterizzati da una bassa fruizione televisiva.
LOVEMARK
Termine introdotto dal pubblicitario americano Kevin Roberts per definire i marchi che occupano
un posto privilegiato nella mente e nel cuore del consumatore.
MARCA CONCEPT
Evoluzione della marca prodotto. Il brand va a coprire categorie merceologiche diverse rispetto
a quella originale.
MARKETING CONVERSAZIONALE
Anche detto “buzz marketing”, è l’insieme di attività di marketing non convenzionale volte
ad aumentare il numero e il volume delle conversazioni riguardanti un prodotto o un servizio e,
conseguentemente, ad accrescere la notorietà e la buona reputazione di una marca, ma anche degli
stessi prodotti o servizi. Consiste nel dare alle persone un motivo per parlare di un prodotto,
di un servizio, di un’iniziativa e nel facilitare le conversazioni attorno a tale oggetto.
MARKETING ESPERIENZIALE
Tipologia di marketing basata, più che sul valore dei prodotti in sé, sul valore che l’esperienza
di acquisto e consumo di essi riveste agli occhi del cliente.
MARKETING MYOPIA
Termine introdotto dall’economista Theodore Levitt che indica un’eccessiva concentrazione
sul prodotto ed una scarsa attenzione ai mutevoli gusti dei consumatori.
MARKETING OPERATIVO
Una volta definiti gli obiettivi e la strategia per raggiungerli, la parte operativa del marketing
si occupa di decidere come impostare la propria organizzazione e quella dell’attività commerciale.
Si decide, quindi, in che modo gestire le “4P” del marketing (product, price, promotion, placement).
MARKETING RELAZIONALE
Branca del marketing che permette di accrescere il valore della relazione con il cliente attraverso
la sua fidelizzazione.
269
Glossario
MARKETING STRATEGICO
Processo di marketing incentrato sull’analisi dei bisogni del mercato e il successivo sviluppo
di prodotti o servizi, per gruppi di clienti con bisogni specifici, che li differenziano
dalla concorrenza fornendogli un vantaggio competitivo duraturo e difendibile.
MARKETING TRIBALE
Strategia di marketing non convenzionale volta a creare una vera e propria tribù di persone,
accomunate da una forte passione per il prodotto o brand che si intende promuovere.
MARKETPLACE
Sito Internet di intermediazione per la vendita di un bene o un servizio.
MEDIA OWNER
Editore che raggiunge un’audience mediante la propria attività editoriale.
MERCHANT
Nell’ambito della comunicazione, può essere inteso come l’inserzionista desidera comunicare
con possibili clienti catturando la loro attenzione e, mediante un click, la loro intenzione (d’acquisto).
METER
Sistema elettronico di rilevamento dell’audience. Si compone di tre elementi: l’unità di identificazione
delle frequenze (Mdu), il telecomando, l’unità di memoria e trasmettitore di informazioni
(il meter vero e proprio).
MISSION
Letteralmente “scopo” di un’organizzazione o impresa (la sua “dichiarazione di intenti”),
è il suo scopo ultimo, la giustificazione stessa della sua esistenza, e al tempo stesso ciò
che la contraddistingue da tutte le altre.
MOBILE APP (O APP NATIVA)
Applicazione scaricabile sul dispositivo mobile attraverso un applicationstore e accessibile attraverso
una specifica icona collocata sull’home screen.
MOBILE MARKETING
Attività di marketing svolta attraverso una rete onnipresente in cui i consumatori sono
costantemente collegati con un dispositivo mobile personale.
270
Glossario
MOBILE TELCOS
Forma abbreviata di “Mobile Telecommunication Companies”, ovvero gli operatori telefonici.
MODELLISTICA
Analisi Pre-Post.
MODELLO DI DICKSON (TRADE MARKETING)
Modello di mappatura che considera, in ascissa, la quota di vendita della marca sul totale portafoglio
delle marche e, in ordinata, il tasso reale di crescita delle vendite del cliente. Attraverso il modello,
il produttore può ricavare preziose informazioni riguardanti le azioni da intraprendere
per ottimizzare la relazione con i vari clienti.
MODELLO POE
Modello che classifica i mezzi secondo tre categorie: paid “pagati”, owned “di proprietà” e earned
“guadagnati”.
MODELLO STIMOLO-RISPOSTA
Modello di comportamento del consumatore secondo il quale le decisioni (scelta della marca
o del prodotto, tempi di acquisto e potere di acquisto) rappresentano il risultato dell’elaborazione
di meccanismi attivati nella cosiddetta black box (la scatola nera) del consumatore. Quest’ultima
è intesa come l’insieme delle caratteristiche personali, difficilmente conoscibili, dei consumatori.
MOMENT OF TRUTH
Letteralmente il “momento della verità”. Nel rapporto con il cliente indica il punto
in cui quest’ultimo, tramite un contatto con l’azienda (offerta, vendita, assistenza), forma
(o modifica) una propria opinione su di essa. Nel marketing classico si individuano tre fasi
del processo decisionale e d’acquisto: il consumatore riceve lo stimolo da una campagna pubblicitaria
(stimulus), entra nel punto vendita e riconosce il prodotto a scaffale (shelf) e, se supera il primo
Moment of Truth, procede all’acquisto. Il secondo Moment of Truth si ha poi con l’utilizzo effettivo
del prodotto.
MOTORE SEMANTICO PROPRIETARIO
Strumento che permette un’analisi accurata della polarità dei messaggi grazie a focus settoriali.
MULTI-SCREENING
Tendenza ad utilizzare più di un media contemporaneamente.
271
Glossario
NETFLIX
Società statunitense che offre un servizio di noleggio di DVD e videogiochi via Internet
e anche un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento.
NETWORK SOCIETY
Nuova dimensione digitale e sociale con cui si interfaccia l’azienda del nuovo millennio.
OUT OF HOME (OOH)
Pratica che consiste nell’esporre i messaggi in spazi pubblici: per strada, in montagna, in un centro
commerciale o una stazione ferroviaria.
OPEN CODING
Letteralmente “Codifica aperta”, rappresenta lo stadio iniziale di un’analisi qualitativa di dati.
Ad esso seguono le fasi di axial coding e selective coding.
OPEN DATA
Letteralmente “dati aperti”, sono dati liberamente accessibili a tutti, trasformabili e non proprietari.
OWNED MEDIA
Canali di proprietà costruiti dal brand dove si ha il completo controllo di ciò che si pubblica (sito
web, pagina FB). Hanno lo scopo di creare coinvolgimento con il consumatore e diventare una
sorta di punto di riferimento, un luogo controllato completamente dal brand che racconta e
trasmette i propri valori creando engagement e informando allo stesso tempo.
PAID MEDIA
Spazi pubblicitari a pagamento che garantiscono la presenza in un contesto (come gli spot
TV) e rappresentano la tipologia che più si avvicina ai mezzi classici. Sono il primo contatto
con il consumatore, quello che in primis attira la sua attenzione generando awareness.
Questa tipologia di advertising, se mirata e integrata nel modo corretto, genera un impatto
immediato.
PASSAGE
Questo termine indica tante vetrine messe insieme a creare un’unica vetrina a forma di galleria
commerciale. Il passage ha dato vita all’ archetipo dei centri commerciali odierni.
PAYOFF
Elemento verbale che compare nella parte finale del messaggio pubblicitario e tende a riassumere
l’essenza del brand e a enfatizzare la comunicazione.
272
Glossario
PENETRAZIONE
La penetrazione del mercato rappresenta una strategia di pricing molto aggressiva, che consiste
nel fissare i prezzi a un livello molto basso (a volte addirittura con margine negativo) per aumentare
la domanda del cliente. Una volta aumentata la domanda, il prezzo viene rialzato, con l’obiettivo
di ottenere lo stesso livello di domanda da parte dei clienti ottenuto con il prezzo precedente.
La penetrazione è spesso vista come la strategia opposta alla scrematura.
PERSONAS
Archetipi di utenti creati per offrire una maggior comprensione del target a cui si intende
rivolgere la propria offerta.
Se ne distinguono due categorie:
- buyers o users personas: coloro che hanno già acquistato e utilizzano il prodotto;
- fan personas: i consumatori fedeli che hanno allacciato una relazione duratura con il brand.
PHABLET
Termine composto dalle parole “phone” e “tablet”, volto a indicare una particolare categoria
di smartphone che assumono le dimensioni tipiche di un mini-tablet.
POSIZIONAMENTO
Processo volto a posizionare un brand o prodotto, in maniera unica e distintiva, nella mente
del consumatore.
POTERE DI MERCATO
Possibilità dell’impresa di praticare prezzi di vendita superiori rispetto ai concorrenti.
PRECISION TARGETING
Indica un target specifico e preciso. Ad esempio il segmento di persone che sta guardando
un determinato sito web in un determinato momento.
PRE-EMPTIVE STRATEGY
Letteralmente “strategia preventiva”, attraverso la quale i produttori presidiano un canale per ridurre
gli spazi di entrata dei competitor, anticipando questi ultimi.
PREZZO DI SCREMATURA
Strategia di pricing che consiste nello stabilire un prezzo elevato, al fine di garantirsi un consistente
ritorno dell’investimento nel breve periodo.
273
Glossario
PROCESSI ROPO
Research Online Purchase Offline, letteralmente “ricerca online acquisto offline”, è un comportamento
d’acquisto sempre più diffuso per cui i consumatori tendono a cercare online informazioni rilevanti
prima di effettuare un acquisto nel punto vendita.
PROGRAMMATIC
Processo tecnologico utile per acquistare e vendere pubblicità digitale, orientato ad una più efficiente
attività di advertising, sia in termini di ottimizzazione dei costi, sia in termini di coinvolgimento
del target. Il programmatic buying è una forma automatizzata d’acquisto che utilizza la tecnologia,
dunque i computer, gli algoritmi e i big data per ottimizzare l’acquisto di spazi pubblicitari.
PROSPECT
Utente che ha già risposto a un’azione marketing del sito web e ha fornito il suo consenso a ricevere
delle informazioni su un prodotto o servizio oppure delle comunicazioni commerciali da parte
dell’azienda. Si tratta quindi un cliente potenziale.
PROSUMER
Termine coniato dal futurologo Alvin Toffler e derivante dalla fusione dei termini “producer”
e “consumer”. Sottolinea quindi il duplice ruolo del consumatore post-moderno che non si limita
solo a consumare passivamente ma diventa egli stesso produttore di beni, contenuti e servizi.
PROXIMITY MARKETING
Letteralmente “marketing di possimità”, tecnica di marketing che opera su un’area geografica
delimitata e precisa attraverso tecnologie di comunicazione di tipo visuale e mobile con lo scopo
di promuovere la vendita di prodotti e servizi.
PUBBLICI CONNESSI
Pubblici legati all’azienda da relazioni che non vanno intese unicamente in termini di transazione
economica, bensì in termini di opportunità di crescita culturale e sociale, in una dimensione
di trasparenza del valore del prodotto.
PUBBLICITÀ COMPORTAMENTALE ONLINE
O “ONLINE BEHAVIOURAL ADVERTISING” (OBA)
Tipologia di advertising che si basa sulla raccolta di dati dell’attività online di un dispositivo/
terminale al fine di fornire annunci su misura, basati sugli interessi manifestati attraverso
la navigazione in rete.
PUBBLICITÀ CONTESTUALE
Tipologia di advertising che si basa sul contenuto del sito in cui compare l’annuncio e non sui dati
di navigazione.
274
Glossario
PUBBLICITÀ MITICA
Termine coniato da Floch, indica un tipo di pubblicità che esalta il prodotto come portatore
di un valore di base, partendo dal presupposto di base per cui spesso il prodotto è solo il pretesto
per rappresentare un mondo che incarna i sogni e le ambizioni del consumatore.
PUBBLICITÀ OBLIQUA
Secondo Floch, punta a ribaltare i luoghi comuni. Si rivolge solitamente ad un pubblico di nicchia
(o che aspira a esser tale) e non è immediatamente comprensibile in tutti i suoi aspetti, ma richiede
una maggiore attività interpretativa.
PUBBLICITÀ REFERENZIALE
Secondo Floch, esalta i valori pratici, l’utilità dell’oggetto. Il suo scopo è soprattutto far conoscere
il prodotto in maniera credibile, oggettiva.
PUBBLICITÀ SOSTANZIALE
Termine coniato da Floch, indica un tipo di pubblicità che vuole porre al centro dell’attenzione
il prodotto di per sé. Dell’oggetto vengono esaltate le doti materiali, estetiche, la piacevolezza.
QUADRATO SEMIOTICO
Metodo di classificazione dei concetti pertinenti ad una data opposizione di concetti,
quali maschile-femminili, bello-brutto, etc.
QUERY
Termine che indica la domanda posta dall’utente al motore di ricerca Google.
RATING
Valutazione pubblica di un determinato servizio, prodotto, luogo o brand.
Rappresenta un indice di gradimento.
REACH
Metrica che individua le persone esposte ad una campagna pubblicitaria.
Più precisamente, è il numero di individui o account unici che hanno avuto la possibilità di vedere
un certo contenuto sociale. É un dato netto nel senso che considera la singola persona
e non il numero di volte che, la stessa, ha visto il contenuto.
REAL TIME MARKETING
Approccio al mercato che fa leva sulla capacità aziendale di rispondere tempestivamente ad eventi
e stimoli esterni, siano essi prevedibili o meno.
275
Glossario
REBRANDING
Con questa espressione si intende le generazione di una nuova identità, coerente, per orientare
la comunicazione del brand in una direzione che sia rispondente all’evoluzione della società.
In sostanza, si ridefiniscono i valori della marca senza tradirne le origini e i principi fondamentali.
REMARKETING
Strumento e tecnica del marketing basato principalmente sugli sconti e le promozioni rivolte
al singolo consumatore.
REMIX
Modifica di un prodotto mediale attraverso l’aggiunta, la rimozione o il cambiamento di una
o più delle sue parti. Rappresenta una perfetta combinazione di creazione e replica.
RESONANCE
Letteralmente “risonanza”. In comunicazione indica la capacità di un messaggio di influenzare
il comportamento dell’audience, influenzarne la propensione all’acquisto o provocare altre azioni
desiderate.
RETAIL TRACKING
Strumento che misura ciò che accade nei punti di vendita in termini di quote di mercato, copertura
ponderata e numerica, pressioni promozionali, con l’obiettivo di dare un feedback concreto delle
performance aziendali rispetto a quelle dei propri competitor, prendendo a riferimento i dati
aziendali di sell-in e sell-out.
RETARGETING
Advertising online mirato, basato sulle azioni del consumatore compiute precedentemente sul Web.
RETURN ON INVESTMENT (ROI)
Letteralmente “Ritorno sugli investimenti”, indica una misura di performance utilizzata per valutare
l’efficienza in percentuale di un dato investimento.
REVENUE
Ricavi economici.
SEARCH ENGINE OPTIMIZATION
Processo algoritmico che impatta la visibilità e il traffico di un sito o pagina web tra i risultati
(non sponsorizzati) dati da un motore di ricerca, sulla base della rilevanza dei contenuti
e delle keywords rispetto alla ricerca degli utenti.
276
Glossario
SEARCH ENGINE RESULT PAGE (SERP)
Letteralmente “pagina dei risultati di ricerca, fornita da un motore di ricerca”, indica la lista di link,
fornita dal motore di ricerca, ordinati per rilevanza in base alla parola chiave inserita.
È suddivisibile in due sezioni: organica e a pagamento.
SEGMENTAZIONE
Processo di suddivisione del mercato in segmenti, sulla base di variabili geografiche,
socio-demografiche e psico-comportamentali.
SELECTIVE CODING
Letteralmente “Codifica selettiva”, indica la fase finale di analisi dei dati durante la quale categorie
e concetti di base (precedentemente identificati) vengono ulteriormente definiti, perfezionati
e poi riuniti per raccontare una storia.
SENTIMENT
Indice che misura emozioni, percezioni e valori (positivi, negativi o neutri) degli utenti legati
a un determinato brand, personaggio, prodotto o tema.
SENTIMENT ANALYSIS
Analisi qualitativa delle conversazioni in rete che mira a comprendere la propensione degli utenti
nei confronti di un particolare brand, prodotto, tema, servizio.
SERVED IMPRESSION
Standard indicante il fatto che le impression sono state registrate su un Ad server e il conteggio inizia
quando l’annuncio stesso è completamente caricato in uno spazio visibile per l’utente finale.
SERVICE LEVEL AGREEMENT
Letteralmente, “accordo sul livello del servizio”, è uno strumento per definire le caratteristiche
che deve rispettare chi eroga il servizio in oggetto.
Rappresenta un vero e proprio obbligo contrattuale.
SHARE
Rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma (o in una fascia
oraria) e il totale degli spettatori che contemporaneamente usufruiscono di altri canali mediante
lo stesso media.
277
Glossario
SHARE OF BUZZ
Indicatore che individua la misura in cui si parla di un determinato argomento/brand
e quindi conteggia il numero esatto di citazioni e post sull’oggetto.
SHARE OF MARKET
Quota che un’azienda vanta all’interno del suo mercato di riferimento.
SHARE OF TOPIC
Individua le tematiche più discusse e le conversazioni più dibattute in relazione al proprio business.
SHARING
Atto consapevole di condivisione e diffusione di contenuti creati da aziende o da altri utenti.
SHARING ECONOMY
Letteralmente “economia della condivisione”, indica un nuovo modello economico capace
di rispondere alle sfide della crisi e di promuovere forme di consumo più consapevoli, basate
sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso piuttosto che sulla proprietà.
SHOWROOMING
Tendenza a recarsi in uno store fisico, per poi procedere all’acquisto del prodotto online.
SOCIAL MEDIA
Tecnologie e pratiche online che le persone utilizzano per condividere testi, immagini, video e audio.
Si differenziano dai media tradizionali per tre aspetti principali: il basso costo; la possibilità
di una diffusione capillare e geograficamente illimitata; la possibilità di immediatezza.
SOCIAL MEDIA MARKETING (O MARKETING NEI SOCIAL MEDIA)
Branca del marketing che si occupa di generare visibilità su social media, comunità virtuali e
aggregatori 2.0. Il social media marketing racchiude una serie di pratiche che vanno dalla gestione
dei rapporti online (PR 2.0) all’ottimizzazione delle pagine web fatta per i social media (SMO, Social
Media Optimization).
SOCIAL MEDIA MONITORING, ANALYTICS E MANAGEMENT
Pratica che consiste, rispettivamente, nel monitorare, analizzare e gestire conversazioni
ed interazioni sui social media.
278
Glossario
SOCIAL MEDIA RESEARCH (SMR)
Questa espressione fa riferimento a tutte le tecniche di indagine in grado di rilevare dati sulle fonti
online di natura principalmente social, vale a dire piattaforme virtuali, generalmente non finalizzate
alla ricerca di mercato, a cui gli utenti accedono per creare e condividere contenuti testuali,
immagini, video e audio.
SOCIAL NETWORK
Rete sociale gratuita e fruibile attraverso internet, che permette la comunicazione tra più soggetti
e la condivisione di informazioni testuali, fotografiche, musicali o animate.
SOCIETING
Neologismo coniato dal sociologo Giampaolo Fabris attraverso l’unione delle parole “sociologia”
e “marketing”. Nel societing l’impresa non si adatta semplicemente al mercato ma è un attore sociale
inserito nel contesto sociale.
SPACE ALLOCATION
Letteralmente, “allocazione (dei prodotti) nello spazio”.
Con questa espressione si intende l’ottimizzazione degli spazi a scaffale.
STORE LOYALTY
Letteralmente “fedeltà all’insegna”, indica la tendenza del consumatore ad effettuare i suoi acquisti
presso uno specifico distributore.
STORYTELLING
Arte di narrare, di raccontare una storia. Tale concetto è applicabile anche all’ambito aziendale
per coinvolgere e catturare l’interesse del consumatore.
STRATEGIA OMNICHANNEL
Adattamento delle proprie strategie di comunicazione e di vendita alle specifiche caratteristiche
di ognuno dei canali, fisici o tecnologici, attraverso cui avviene il contatto fra impresa e clienti.
SUPPLY-SIDE PLATFORM
Piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire ai Publisher di vendere spazi in modalità
automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile)
o essere utilizzata per tutte le tipologie di inventory.
279
Glossario
TASSO DI CONVERSIONE
Percentuale di visitatori unici che hanno effettuato l’operazione desiderata visitando un sito.
TEMPLATE
Letteralmente “modello” o “sagoma”, indica una struttura grafica in cui si vanno a inserire i contenuti
di un sito web.
TEORIA DEL FRAMING
Processo inevitabile di influenza selettiva sulla percezione dei significati che un individuo attribuisce
a parole o frasi.
TIME-SHIFTED VIEWING (TSV)
Ascolti registrati oltre la giornata di messa in onda.
TOP OF MIND
Questa espressione si utilizza in riferimento ad uno specifico brand o prodotto, talmente “forte”
da saltare alla mente del consumatore prima di altri. Il TOM indica l’apice della notorietà,
ovvero quando la domanda associa subito la marca ad una categoria di prodotto.
TOUCHPOINT
Punti di contatto attraverso cui il cliente interagisce con un’impresa.
TOUCHPOINT INFLUENCE
Metrica che identifica l’influenza relativa di ciascun touchpoint sulla decisione d’acquisto
nella categoria.
TOUCHPOINTS ROI TRACKER
Metodologia di ricerca progettata per identificare il contributo di ogni forma di contatto, fornendo
metriche in grado di quantificare e rendere comparabili i contatti paid, owned ed earned.
TRADE MARKETING
Insieme di strategie e piani che riguardano la leva “place” del processo di marketing e dunque
della comprensione di bisogni, criteri di valutazione e preferenze dei distributori, al fine di offrire
prodotti e servizi migliori rispetto a quelli dei competitor.
280
Glossario
TRAFFICO FRAUDOLENTO
Traffico non generato da esseri umani, ma da algoritmi che simulano l’esperienza umana.
TREND TEMPORALE
Impatto che una campagna on e/o offline può avere sul buzz nel tempo.
UNIQUE SELLING PROPOSITION (USP)
Letteralmente “proposizione esclusiva di vendita”, termine coniato dal pubblicitario americano
Rosser Reeves. Indica la caratteristica prioritaria del prodotto, su cui è basata la proposta di vendita,
che consente di differenziare un prodotto dalla concorrenza e che possa essere facilmente veicolata
ai consumatori attraverso la pubblicità.
USER-FRIENDLY
Capacità di un dispositivo di essere di facile utilizzo.
USER-GENERATED CONTENT
Letteralmente “contenuto generato dall’utente”, ovvero qualsiasi tipo di contenuto creato dagli utenti
e pubblicato in rete, spesso reso fruibile tramite le piattaforme di social networking.
VALUE CHAIN
Letteralmente “catena del valore aggiunto”, rappresenta una mappatura del sistema d’offerta.
È un modello avanzato da Michael Porter nel 1985.
VALUE PROPOSITION
Letteralmente “proposta di valore”, vale a dire, ciò che identifica in modo preciso le caratteristiche
specifiche di un dato prodotto.
VANITY METRICS
Letteralmente “metriche di vanità”, sono indicatori che, a differenza delle actionable metrics,
instillano un falso senso di sicurezza, ma non rispondono a domande chiave o non consentono
di prendere decisioni consapevoli.
VIDEO IN-STREAM
Annunci video che appaiono principalmente in modalità pre-roll.
VIDEO OUT-STREAM
Annunci video che non hanno bisogno di un player fisso per essere erogati.
281
Glossario
VIDEO PUBBLICITARI NATIVI
Pagine video che si aprono outstream durante la fruizione di una pagina, senza necessariamente
essere player video.
VIEWABILITY
Indica l’effettiva visibilità dei contenuti pubblicitari.
VIEWABLE IMPRESSION
Standard che conteggia le impression quando sono visibili all’utente per non meno del 50%
e per almeno 1 secondo.
VIRALITÀ
Termine utilizzato in riferimento ad un contenuto che, anche grazie ai suoi aspetti
non convenzionali, riesce a raggiungere un numero elevato di destinatari.
VIRTUAL REALITY
Letteralmente “realtà virtuale”. In altre parole, una realtà simulata.
WEB MOBILE APP
Versione del sito web ottimizzato per la navigazione mobile e dall’apparenza del tutto simile
a quella di un’applicazione scaricabile dagli app stores.
WHITENING
Il bisogno di resettare mente e corpo per favorire una condizione di disconnessione totale
dalla quotidianità della vita reale.
WORD OF MOUTH (WOM)
Letteralmente “passaparola”, il modo diretto con cui si propaga un’informazione da un soggetto
ad un altro all’interno di una comunità reticolare.
ZERO MOMENT OF TRUTH (ZMOT)
Letteralmente “Momento zero della verità”, ovvero il momento in cui il consumatore utilizza il web
per cercare informazioni sulla base delle quali costruire la decisione di un acquisto futuro, sia esso
in negozio o in e-commerce.
ZOOMERS-ORIENTED COMMUNICATION
Termine che indica una comunicazione dedicata ad un’audience over 45.
282
I PROJECT WORKS
I project works
Progetto a cura di:
Francesca Corbia, Ilenia Di Paola,
Daniele Montani, Vincenzo Romanelli
Brief
Facendo leva sulla ricorrenza del 70° anniversario della
Ferrero, realizzare un toolkit per l’attivazione di una campagna
corporate in Italia incentrata su un PR concept da sviluppare
attraverso storytelling adatti ai diversi pubblici di riferimento.
È necessario indicare i KPI per la misurazione della campagna.
Il Comitato
del Gran Cavallo di Leonardo
Progetto a cura di:
Stefano Iachella, Ida Maggi,
Chiara Sammarco
Brief
Valorizzazione del Cavallo di Leonardo come monumento
culturale da un punto di vista della comunicazione. Costruire
un progetto che abbia come punto di partenza il Cavallo
per sviluppare un vero e proprio movimento culturale: dalla
realizzazione di un brand all’ implementazione di eventi che
permettano di dare maggior valore al cavallo (all’estero è
molto conosciuto).
Progetto a cura di:
Valentina Barresi, Gemma Grimoldi,
Angela Nicolazzo, Priscilla Zanda
Brief
Definire una o più linee di storytelling per il racconto degli
eventi e dei nuclei attrattivi di Milano, abilitando qualsiasi
soggetto a diventare infopoint della città.
284
I project works
Progetto a cura di:
Daniela Stefania De Pascalis, Simone Di Biasio,
Flavia Ricci, Chiara Terranova
Brief
Sviluppare una community Feltrinelli, declinata attraverso i
canali online e offline del gruppo e integrata con il sistema di
loyalty che, a partire dal core business editoriale, si arricchisca
attraverso contenuti e iniziative lifestyle che rispecchino i
valori del brand.
Progetto a cura di:
Veronica Fanello, Ottavia Galbiati,
Gianluca Torti
Brief
Realizzare un progetto che potenzi la presenza di Fondazione
Donizetti sui social network, con un piano di comunicazione
e un linguaggio idonei a intercettare sia un pubblico “giovane”,
potenzialmente interessato all’opera del compositore, ma
troppo spesso vittima di pregiudizi in relazione all’universo
operistico, sia una platea internazionale, così da incrementare
la promozione della figura di Gaetano Donizetti, e della sua
terra, oltre i confini nazionali.
Progetto a cura di:
Pietro Gentile, Francesca Invernizzi,
Irene Pepe, Claudia Riboldi
Brief
Ridefinire un’identità forte del brand Chateau D’Ax, vicina
al consumatore, che risulti “rassicurante” e “raffinata”.
Individuare, a livello nazionale e internazionale,
un posizionamento chiaro nel settore “arredi per la casa,
puntando sulla italianità e sull’ampiezza della gamma
e delle fasce di prezzo. “Svecchiare” la percezione del marchio,
rendendola più contemporanea verso gli attuali consumatori,
gli affiliati e potenziali tali. Sviluppare una strategia digital
(web + social media) capace di rafforzare la brand awareness
del marchio.
285
AUTORI
Autori
VALENTINA BARRESI
Milano
Giornalista e traduttrice, sempre in cerca di scorci
di mare, colleziono poesie e viaggi talora fittizi.
Tra i miei interessi, marketing culturale e social media.
FRANCESCA CORBIA
Alghero
Algherese • 23 anni • Laureata in Comunicazione
• inguaribile sognatrice • il mio mantra è:
think positive and positive things will happen
DANIELA STEFANIA DE PASCALIS
Milano/Willing to relocate
Per aspera ad astra...ci vuole un fisico bestiale!
Arte, mare, musica e passeggiate (rigorosamente
in ordine alfabetico). #communications et similia
SIMONE DI BIASIO
Latina
Giornalista laureato in editoria (Sapienza). Studio
radiovisioni e ho un blog di versi. Scrivo di “Assenti
ingiustificati”, perciò “Busco-me e ñao me incontro”.
ILENIA DI PAOLA
Milano
Nata al sud, trapiantata al nord. Mi piace viaggiare,
i tramonti, il mare, ma soprattutto ridere.
Based in Milan. Social media addicted.
287
Autori
VERONICA FANELLO
Milano
Curiosa e pragmatica. Per un terzo fatta di musica,
comunicazione e marketing.
Convinta sostenitrice del carpe diem.
OTTAVIA GALBIATI
Milano
Twenty-something, world traveler,
Broadway enthusiast. There’s a chance my profile
picture has been photoshopped.
PIETRO GENTILE
Milano
Comunicatore amante del silenzio, giornalista non tesserato,
digital enthusiast con lo stesso smartphone da sempre.
Ma che noia una vita senza contraddizioni!
GEMMA GRIMOLDI
Torino
Astigiana di nascita, torinese d’adozione,
juventina per deformazione affettiva. Curioso, scrivo,
discuto, faccio e disfo. Il giorno dopo, ricomincio.
STEFANO IACHELLA
London
Provo spesso a essere eclettico: mi interesso
di comunicazione, fotografia, ambiente e diritti umani.
Mi piace correre e leggere Pirandello: così è, se vi pare
288
Autori
FRANCESCA INVERNIZZI
Milano
Neo laureata in Comunicazione d’Impresa.
Appassionata di lingue straniere. Viaggiatrice compulsiva.
Sensibile a tempo pieno, determinata quando serve
IDA MAGGI
Milano
25 anni, laureata in International Management, viaggiatrice
occasionale, amante del buon cibo e della letteratura,
cultrice delle lingue, marketer per ambizione
DANIELE MONTANI
Genova
Genovese, laureato in Scienze Politiche.
5 anni di esperienza tra centri media e concessionarie digitali.
Attualmente è Key Client Account presso IGPDecaux
ANGELA NICOLAZZO
Milano
Potrei trascorrere una vita tranquilla in riva al mare,
quindi per prudenza la centrifugo nel frullatore
di Milano. Tutta intera in 160 caratteri mica ci stava.
IRENE PEPE
Torino
Se la comunicazione fosse un circo,
nessuna paura io faccio trapezio!
289
Autori
CLAUDIA RIBOLDI
Milano
Designer della comunicazione, beauty blogger,
car enthusiast. Un po’ Burberry, un po’ quadrifoglio verde.
Un po’ Garamond, un po’ Wordpress. Dal 1991.
FLAVIA RICCI
Milano
Laureata in sociologia e specializzata in marketing
e comunicazione. Sciatrice, velista e viaggiatrice errante
VINCENZO ROMANELLI
Milano
Sono un concerto di musica rock che vive nel corpo
di un concerto di musica classica
CHIARA SAMMARCO
Milano
La passione per il mare, la cucina, il viaggio, la tecnologia,
la comunicazione, l’organizzazione e la fotografia
mi definiscono.
CHIARA TERRANOVA
Forlì
Irrequieta: a casa sogno il viaggio, in viaggio sogno casa.
Parlo sei lingue ma le mischio tutte.
“Non voglio avere ragione, voglio essere felice”.
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Autori
GIANLUCA TORTI
Milano
Giornalista (professionista) per vocazione, counselor
per passione, teatrante nel tempo libero. Amo la gente,
narrare storie e Ulisse, che tanto ha conosciuto.
PRISCILLA ZANDA
Milano
Parto designer, finisco grafica. In mezzo: aspirante
fotografa e, per i più temerari, anche tatuatrice.
La musica sempre nelle orecchie e l’arte? Mai da parte.
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COMUNICAZIONE D’AZIENDA
NELLA NETWORK SOCIETY
A cura degli studenti
del Corso di Alta Formazione UPA 2016
Coordinamento e Editing: Serena Piazzi e Andrea Cuman
Progetto grafico: Ottavia Galbiati e Claudia Riboldi
Progetto editoriale: Valentina Barresi e Chiara M. Sammarco
www.upa.it/corsodialtaformazione