Corso di Alta Formazione UPA COMUNICAZIONE D’AZIENDA NELLA NETWORK SOCIETY (IV EDIZIONE – 2016) Dalla co-creazione di contenuti all’esperienza di marca multicanale e contestuale A cura degli studenti del Corso di Alta Formazione A cura degli studenti del Corso di Alta Formazione UPA COMUNICAZIONE D’AZIENDA NELLA NETWORK SOCIETY (IV EDIZIONE – 2016) Dalla co-creazione di contenuti all’esperienza di marca multicanale e contestuale Prefazione: Patrizia Gilberti Coordinamento e Editing: Serena Piazzi e Andrea Cuman Progetto grafico: Ottavia Galbiati e Claudia Riboldi Progetto editoriale: Valentina Barresi e Chiara M. Sammarco Testi a cura di: Valentina Barresi, Francesca Corbia, Daniela Stefania De Pascalis, Simone Di Biasio, Ilenia Di Paola, Veronica Fanello, Ottavia Galbiati, Pietro Gentile, Gemma Grimoldi, Stefano Iachella, Francesca Invernizzi, Ida Maggi, Daniele Montani, Angela Nicolazzo, Irene Pepe, Claudia Riboldi, Flavia Ricci, Vincenzo Romanelli, Chiara Matia Sammarco, Chiara Terranova, Gianluca Torti, Priscilla Zanda www.upa.it/corsodialtaformazione Distibuito in Licenza Creative Commons CC BY-NC-ND Indice PREFAZIONE – A cura di Patrizia Gilberti Sezione 1 - La rivoluzione digitale: quali trend e sfide nell’era dei «consum-autori»? Fausto Colombo – Self & Society in the Networked era ...................................................................... p. 10 Guido Di Fraia – Comunicazione aziendale e social network ............................................................ p. 15 Francesco Morace – Comunicazione e paradigmi del futuro ............................................................. p. 21 Carlo Alberto Carnevale Maffè – Web 2.0 e nuovi modelli di business ............................................ p. 29 Paolo Iabichino – Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross-mediale .......... p. 35 Sezione 2 - Da mercanti d’attenzione a gestori di conversazioni: quali nuove frontiere per il marketing? 2.1 Le basi per orientarsi nel cambiamento Massimiliano Bruni – Fondamenti di economia aziendale ................................................................. p. 43 Paolo Bertozzi – Fondamenti di marketing ........................................................................................... p. 48 Paolo Bertozzi – Il processo del trade marketing ................................................................................. p. 55 Roberto Grandi – Marketing delle imprese culturali e creative .......................................................... p. 60 Leonardo Bellini – Logiche e sviluppi del mobile marketing .............................................................. p. 67 Gianluca Diegoli – Principi di e-commerce e social commerce ......................................................... p. 77 2.2 Nuove logiche e strategie in un immaginario affollato di narrazioni Guido di Fraia – Il digital storytelling .................................................................................................... p. 88 Guido di Fraia – Creare valore con il content marketing: processi organizzativi e strumenti operativi ... p. 96 Stefano Pace – Lo co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research ......... p. 102 Sezione 3 - Da identità a reputazione: come cambia la brand communication nella network society? Roberto Grandi – Brand Communication tra media tradizionali e new media ............................ p. 110 Bernard Cova – La vita sociale delle marche: verso il brand sharing .............................................. p. 116 Elisabetta Baldini – Brand e identità di marca .................................................................................... p. 122 Vanni Codeluppi – Marketing retail 2.0 ............................................................................................... p. 130 Roberto Grandi - Comunicazione e Crisis Management .................................................................. p. 139 Sezione 4 - Dall’analisi dei dati alla pianificazione: quali azioni intraprendere? Raffaele Pastore e Silvio Siliprandi – Le ricerche sui media .............................................................. p. 149 Alberto Dal Sasso – Lo scenario del mercato dell’advertising ........................................................... p. 156 Luca Marinaro – Il media planning integrato ..................................................................................... p. 162 Luca Marinaro – Media evolution: programmatic ............................................................................. p. 170 Sezione 5 - La cassetta degli attrezzi: quali strumenti per costruire relazioni di valore? Chiara Colombo – Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy ....... p. 176 Andrea Testa - Google AdWords e Google Analytics ........................................................................ p. 182 Donatella Urrai – Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti ....................................... p. 195 Paolo Ciuccarelli – Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione ............................................ p. 203 Paola Nannelli - L’ascolto della rete e la social media intelligence .................................................... p. 209 Sylvaine Querne, Stefano Cirillo – Facebook: creatività, advertising e measurement ................... p. 216 Sezione 6 - Le norme del buon comunicatore: quali regole osservare? Vincenzo Guggino, Monica Davò, Salvatore Pastorello – Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria p. 225 Paolina Testa – Pubblicità e comunicazione commerciale: il quadro normativo ........................... p. 231 Le Open Class Paolo Iabichino, Fausto Colombo – Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà p. 239 Rosella Serra, Marianna Ghirlanda – Google: data driven digital strategy ..................................... p. 245 GLOSSARIO ........................................................................................................................................... p. 254 I PROJECT WORKS .............................................................................................................................. p. 283 AUTORI ................................................................................................................................................... p. 286 Prefazione A cura di Patrizia Gilberti A fine giugno si è conclusa la quarta edizione del corso UPA di Alta Formazione “Comunicazione d’azienda nella network society”, percorso di formazione sviluppato a Milano nel solco dell’esperienza veneziana del Master MCA, ideato nel 1989 dal Comitato UPA Formazione. Ogni anno l’ebook del Corso di Alta Formazione raccoglie gli appunti degli allievi, arricchiti da una breve bibliografia ragionata e da un glossario sui concetti di maggior interesse trattati nel corso. Le pagine che seguono, insieme agli articoli scritti dagli studenti durante l’anno per il blog, sono contributi “aperti” e rappresentano un progressivo approfondimento e aggiornamento dei temi trattati in aula nelle precedenti edizioni del Corso. La trasformazione a cui stiamo assistendo richiede percorsi formativi in grado di fornire da un lato le competenze sugli strumenti offerti dal contesto digitale, dall’altro la capacità di cogliere i segnali e le opportunità offerte da un sistema in costante e rapido cambiamento. Fondamentali restano dunque le basi della comunicazione d’azienda e del marketing, oltre alla conoscenza di tutti i canali che possono essere utilizzati per entrare in contatto con un consumatore che ricerca, sceglie e interagisce con la marca in modi inediti. Fil rouge del percorso formativo 2016 è stata la comunicazione e la creazione di valore condiviso, intesa come co-creazione di contenuti ed esperienza di marca multicanale e contestuale. In particolare nel corso sono stati presi in esame i nuovi strumenti e le strategie di comunicazione utili a stabilire una nuova e più attuale relazione fondata sulla fiducia tra un brand e i suoi stakeholder, nel contesto di un immaginario sempre più affollato da narrazioni coinvolgenti. Tra le novità di questo anno l’introduzione delle “open class”: giornate su particolari tematiche del percorso formativo aperte ad aziende e agli Alumni. Nel primo incontro, Fausto Colombo (Università Cattolica del Sacro Cuore) e Paolo Iabichino (Group Ogilvy & Mather Italy) si sono confrontati sull’attuale scenario socio-culturale ed economico all’interno del quale è necessario che marketing e comunicazione rivedano i propri approcci al mercato. Il secondo incontro ha avuto come protagonista Google, con gli interventi di Rosella Serra e Marianna Ghirlanda, sul tema “Data-Driven Digital Strategy”. Partendo dalle più recenti ricerche sull’uso dei device mobili, dei micromomenti di fruizione e della loro significatività nei percorsi di scelta e consumo, le due relatrici hanno mostrato come le aziende possono leggere e analizzare questi segnali, attribuendo a ogni touchpoint un peso specifico allo scopo di migliorare la customer experience del consumatore. Elemento distintivo del Corso sono i Project Work, realizzati insieme ad importanti aziende ed istituzioni culturali sulla base delle loro esigenze di marketing e comunicazione. I Project Work quest’anno hanno visto il coinvolgimento di Ferrero, Chateau d’Ax, La Feltrinelli, Expo in Città, il Comitato del Gran Cavallo di Leonardo, Fondazione Donizetti. In particolare, partendo dal brief dell’azienda, gli studenti hanno potuto mettere alla prova e sviluppare diverse skill: la capacità di analizzare una strategia di marketing, di comunicazione e il modello di business dell’impresa, individuando i punti di forza e di debolezza rispetto ai competitor e al mercato. Con l’aiuto di modelli di analisi specifici, ma anche di strumenti di monitoraggio come quelli forniti da Blogmeter, i gruppi di lavoro hanno potuto prendere confidenza con le dinamiche conversazionali della rete e dei social, e sviluppare una sensibilità ai numeri, raffinando la capacità di individuare consumer insight. Il lavoro di analisi ha consentito di elaborare strategie e concept di comunicazione con un approccio cross-mediale lavorando su una dimensione progettuale relativa ai modelli di scambio di valore, di targeting, di sviluppo di proposte creative e di misurazione dei risultati. Public speaking, preparazione degli output (slide e documenti a supporto) e capacità di argomentare le proprie scelte hanno completato un percorso che si è concluso con la presentazione pubblica dei loro progetti. La realizzazione dei project work ha richiesto agli studenti di mettere alla prova anche le loro soft skills, in particolare il gioco di squadra e l’autonomia di lavoro, la proattività e la capacità di relazionarsi con background formativi e professionali eterogenei. Anche quest’anno UPA Academy, piattaforma di social learning, all’interno della quale è confluito il Blog del corso, è stato un utile supporto all’attività didattica per la condivisione di tutti i contenuti delle lezioni. Attraverso questa piattaforma UPA intende favorire la collaborazione tra studenti, tutor e professori e lo scambio di conoscenze ed esperienze mantenendo attiva l’aula anche “fuori dall’aula”. Un luogo dove anche le aziende interessate possono trovare risorse utili e i curricula dei partecipanti ai corsi UPA, oltre al programma dettagliato del corso con abstract e clip video delle lezioni, e dove gli Alumni hanno un’area dedicata su cui vengono caricati job posting e aggiornamenti didattici. Anche quest’anno a conclusione di questi cinque intensi mesi, vorrei rivolgere anche a nome dell’UPA un forte e sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno dato un contributo al Corso rendendolo speciale. Grazie, quindi: • in particolare ai sostenitori e ai promotori del Comitato UPA Formazione che, investendo sulla formazione dei giovani, hanno reso possibile tutto questo • a Fausto Colombo - Università Cattolica del Sacro Cuore, Guido Di Fraia – Università IULM, Roberto Grandi – Università degli Studi di Bologna, per il prezioso contributo dato nel Comitato Scientifico che ha disegnato un percorso di eccellenza caratterizzato da un utile e necessario equilibrio tra contenuti teorici e competenze pratiche • ai docenti universitari e agli affermati professionisti che hanno stimolato gli interessi degli allievi con contaminazioni provenienti da discipline diverse e ad Andrea Genovese, coordinatore dei project work • a Claudia Millo di Ferrero, a Tiziana De Icco, a Lorena Maiocchi di Chateaux D’Ax, Davide Surace di La Feltrinelli, Floriana Tessitore e Andrea Compagnucci di Fondazione Donizetti, Alvise De Sanctis di Expo in Città, Carlo Orlandini, Rodrigo Rodriquez e Silvia Sassone del Comitato del Gran Cavallo di Leonardo per aver offerto agli allievi l’opportunità di mettersi alla prova con i project works e per la grande disponibilità dimostrata nel supportare il proprio team • a Serena Piazzi, tutor “ideale”, per la grande professionalità e, ancor più, per le doti umane dimostrate durante tutta la durata del corso; • ad Andrea Cuman, immancabile punto di riferimento del corso che, insieme a Serena, ha anche coordinato l’ebook. Tutti insieme hanno costruito la bussola e fornito gli strumenti per il viaggio ai giovani navigatori della network society. Un augurio di cuore per un “radioso futuro” a: Valentina, Francesca, Daniela, Simone, Ilenia, Veronica, Ottavia, Pietro, Gemma, Stefano, Francesca, Ida, Daniele, Angela, Giovanni, Irene, Claudia, Flavia, Vincenzo, Chiara Matia, Chiara, Gianluca, Priscilla. Buon vento, ragazzi. Si ringraziano: Sostenitori Promotori Sezione 1 LA RIVOLUZIONE DIGITALE: QUALI TREND E SFIDE NELL’ERA DEI “CONSUM-AUTORI”? SELF AND SOCIETY IN THE NETWORKED ERA Tratto dalla lezione di Fausto Colombo «Se vi è un “linguaggio” digitale, esso è una commistione integrata di scritto e orale, di simbolico e iconico, di visivo e sonoro» DIGITAL REVOLUTION - DEVICE - INNOVAZIONE TECNOLOGICA Rivoluzione è un termine che indica un cambiamento radicale, un’espressione che presuppone uno sconvolgimento dell’equilibrio, dei costumi e delle abitudini. È in corso (ormai da anni) una rivoluzione che ha mutato l’approccio alla cultura, all’economia, al lavoro. Una trasformazione che ha portato alla diffusione di dispositivi digitali, strumenti di comunicazione nuovi che hanno sconvolto la vita del singolo e dell’intera società. Attraverso l’introduzione di una lingua comune, i mezzi di comunicazione tradizionale hanno subito una riorganizzazione, l’informazione viene scritta attraverso lo stesso linguaggio di base, fatto di sequenze numeriche: i bit. Lo sviluppo di device, sempre più connessi alla rete, ha permesso la moltiplicazione dei canali di accesso all’informazione. Un flusso di informazioni in continua evoluzione, che ha contaminato le nostre vite, entrando prepotentemente in tutti i settori produttivi. La tecnologia ha plasmato la società, cambiando tutto, tutto ciò che è possibile tradurre in un linguaggio binario. Fig. 1 - Mappa di Arpanet nel 1974 10 Self and society in the networked era vasta scala. Per tutti gli anni Settanta ARPAnet continua a svilupparsi in ambito universitario e governativo, ma dal 1974, con l’avvento dello standard di trasmissione TCP/IP (Transmission Control Protocol/Internet Protocol), il progetto della rete viene denominato Internet. Ma quando è iniziata questa rivoluzione? Dobbiamo tornare indietro nel tempo. Anno 1969. L’agenzia del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti idea Arpanet: una rete di comunicazione militare. Un progetto pensato, durante la Guerra Fredda, per scopi difensivi, diventato poi, negli anni ‘80, uno dei più grandi progetti civili: internet, capace di connettere tutto il mondo. Un’interconnessione globale tra reti informatiche di natura e di estensione diversa. Nel 1958 il Governo degli Stati Uniti crea un istituto di ricerca denominato ARPA (acronimo di Advanced Research Projects Agency) con un compito ambizioso: cercare soluzioni tecnologiche innovative. Fra gli incarichi dell’Agenzia quello di trovare una soluzione alle problematiche legate alla sicurezza e disponibilità di una rete di telecomunicazioni. Il progetto viene sviluppato negli anni ‘60 durante la guerra fredda con la collaborazione di varie università americane, e, secondo molte fonti, lo scopo principale era quello di costruire una rete di comunicazione militare in grado di resistere anche ad un attacco nucleare su Nel 1966, poco prima della nascita di Arpanet, anche i dispositivi si evolvono. Olivetti mette in commercio Olivetti Programma 101, l’antenato del personal computer, la prima calcolatrice programmabile da scrivania al mondo. Fino ad allora si era estranei al concetto di informatica distribuita. Non si immaginava che uno strumento del genere potesse arrivare ad essere un dispositivo di lavoro quotidiano. Bastano 10 anni a cambiare questa convinzione. Nel 1977 Steve Jobs e Steve Wozniac realizzano il primo home computer con tastiera integrata, un elaboratore user-friendly1, nasce Apple II. Negli anni ’80 poi, assistiamo all’introduzione delle prime tecnologie digitali leggere e mobili. Nel 1984, con MAC, cambia il mondo del computer. Un dispositivo compatto e intuitivo che, grazie all’introduzione di un’interfaccia Fig. 2 - Olivetti programma 101 Fig. 3 - Mac, 1984 F OC U S User-friendly è un’espressione che indica la capacità di un dispositivo di essere di facile utilizzo. 1 11 Self and society in the networked era esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi […]»3. grafica semplice, ha permesso il passaggio da una fruizione concessa solo a professionisti ad una aperta anche agli amatori. Un passaggio dal collettivo al casalingo, fino all’individuale. Gli utenti iniziano ad appropriarsi dei mezzi. Diventano co-attori del processo, creano contenuti. Siamo di fronte ad un’informazione che è ritagliata sulle esigenze dei propri fruitori2. Dire che il dispositivo sia rappresentato solo dalla tecnologia è riduttivo; è ricerca, realizzazione, azione. È costruito da chi lo vive e modificato dall’azione del singolo. È vissuto con approcci differenti nelle diverse generazioni e agisce sull’individuo in tre diversi modi: Parlare solo di rivoluzione, però, oggi non basta. La rivoluzione, in ambito digitale, è già avvenuta. Adesso siamo immersi in una lunga crisi, la crisi di una trasformazione in atto, i cui sviluppi non sono ancora noti. Una crisi che ha portato inevitabilmente ad influenzare e modificare i rituali, l’approccio alla cultura, la relazione che abbiamo con gli altri. Una trasformazione della società in tutte le sue forme, che ha contaminato le nostre vite nel presente e ha reso obsoleti i vecchi valori. Un cambiamento non solo tecnologico, quindi, ma, soprattutto, antropologico, che ha portato ad una riorganizzazione del cervello dell’individuo, un adattamento al mondo circostante, fatto di nuovi mezzi e nuovi stimoli. La tecnologia diventa, di conseguenza, un bene esistenziale, un bene che si evolve, alla portata di tutti. L’innovazione, quella vera, è stata ed è tuttora capace di interpretare bisogni in movimento, riuscendo ad entrare nei rituali d’uso, ad adeguarsi e a plasmare le tecnologie. Il dispositivo digitale rappresenta il vero driver dell’evoluzione digitale, si evolve seguendo tappe non lineari, adattandosi alle trasformazioni sociali, economiche e culturali. - Modifica il rapporto con tempo e ritualità L’individuo non ha più una concezione rituale del tempo. L’evento rappresenta il punto che scandisce il tempo, la connessione perenne al mondo contrasta con la sua ritualità. Questa percezione spazio temporale degli individui causa la banalizzazione dei grandi eventi, che perdono l’accezione stessa del proprio nome, e la moltiplicazione dei piccoli avvenimenti, ai quali i soggetti guardano con disattenzione. Per secoli, poi, la comunicazione interpersonale ha rappresentato di per sé un evento. Ha sempre avuto una natura tale da riuscire ad isolare e coinvolgere totalmente gli interlocutori, facendo del ricordo, l’evento stesso. Progressivamente, però, si è deritualizzata a causa della mancanza di attenzione e dell’always on4, elementi che contrastano con il concetto di rito. La ritualità deve essere rinegoziata e recuperata. - Dimensione dell’altro Con l’avvento dei social network è diventata abitudine comune far vedere se stessi, mostrare, su una piazza connessa, quello che vogliamo esprimere agli altri di noi, attraverso la nostra attività. Un grande salotto collettivo in cui vediamo e veniamo visti. Il modo in cui ci si presenta è fondamentale. Gli altri fanno il nostro stesso gioco, mostrando il profilo migliore. Gli atteggiamenti assumono È «[…] un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche. […] Il dispositivo N. Negroponte, Essere digitali, Sperlinkg & Kupfer, 2009 Da un’intervista apparsa nel 1977 sotto il titolo di Le Jeu de Michel Foucault (2001) pp. 299/300 4 L’espressione Always On indica la tendenza ad essere sempre connessi. 2 3 12 Self and society in the networked era un elemento a rischio se viene sostituito con una conversazione elettronica. Se non riusciamo a separarci dai nostri smartphone, consumiamo le altre persone a «spizzichi e bocconi: è come se le usassimo alla stregua di pezzi di ricambio per sostenere il nostro fragile io»5. credibilità. La percezione di visibilità sociale, poi, soddisfa il bisogno di socializzazione dell’individuo, una esigenza che è sostitutiva del benessere materiale. Il possesso del mezzo fa stare bene, dà una situazione di relativo benessere relazionale. Le persone sembrano ricavare un senso di benessere dalla capacità di mantenere e implementare la propria rete sociale. Una relazione virtuale focalizzata sulla mera condivisione di stati d’animo e attività. I social network, inoltre, lasciano aperto un canale comunicativo che non impegna necessariamente alla relazione costante, ma, al tempo stesso, non la escludono. I soggetti, spesso, arrivano a preferire il senso di comunità che i social media trasmettono perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una comunità reale. - Individuale e collettivo La distinzione tra spazio pubblico e spazio privato oggi è sempre più difficile. Cosa rimane nostro e cosa è condiviso con la massa? Conosciamo il nostro pubblico in rete? Ci possiamo fidare della collettività? Domande a cui la maggior parte degli utenti non sa dare una risposta. Spesso ci si rifugia in una condizione, quella dell’anonimato, che fa comodo. Ma il gioco dell’anonimato è voluto o siamo tenuti a farlo? «Forse l’erosione dei valori umani è un prezzo che la maggioranza delle persone è disposta a pagare per la comodità “gratuita” di Google, la confortevolezza di Facebook e la compagnia affidabile degli Iphone»6. - Conversazione e dialogo con l’altro La virtualità libera l’individuo dall’emozionalità. Incontrare le persone implica un coinvolgimento emotivo. Coinvolgimento annullato, nelle relazioni digitali, dalla barriera dello schermo. In passato, avere uno scambio di informazioni regolato con l’interlocutore era necessario. Oggi, questa necessità, è venuta meno. La conversazione presuppone empatia, coinvolgimento, pazienza, immedesimazione ed immaginazione. Sul web la parola si sfoga, uno sfogo che non viene recuperato in presenza. Nella comunicazione sociale, l’altro, da interlocutore diventa, inevitabilmente, spettatore. Oggigiorno comunichiamo incessantemente, senza tregua, ma sempre più raramente faccia a faccia. Il dialogo è principio organizzativo dell’umanità, Se il digitale è una lunga crisi, noi, siamo all’interno di lungo processo di adattamento. Importante è razionalizzarlo, leggere il digitale nel complesso della vita sociale, rileggere in modo creativo condizioni già note. Il dispositivo non deve sostituirsi al rapporto diretto, alla conversazione interpersonale, ma deve integrarsi, in maniera crescente. L’individuo è essenziale in questo processo, l’individuo deve mediare. Ilenia Di Paola Jonathan Franzen, Social solitudine, in The New York Times e la Repubblica, 11 ottobre 2015 Jonathan Franzen, Social solitudine, in The New York Times e la Repubblica, 11 ottobre 2015 5 6 13 Self and society in the networked era Riferimenti bibliografici Turkle S., The Second Self: Computers And The Human Spirit, Mit Press, 2005. Turkle S., Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age; Penguin Press, 2015. Piketty T., Il capitale nel XXI secolo, , Bompiani, 2014. Negroponte N., Essere digitali, Sperlinkg & Kupfer, 2004. Frazen J., Social solitudine, intervista a The New York times e la Repubblica, 11 ottobre 2015. 14 Comunicazione aziendale e social network Tratto dalla lezione di Guido di Fraia «Lo scopo della comunicazione e del marketing al tempo dei social media dovrebbe essere quello di costruire relazioni di valore con i pubblici di riferimento, ai quali fornire il contenuto giusto al momento giusto, attraverso i giusti canali.» marketing conversazionale - customer journey - SocialMediAbility In piena era digitale, l’esplosione del web sociale fa registrare un sensibile cambiamento delle logiche attraverso cui ciascun soggetto “immerso” nella rete si approccia quotidianamente ai consumi. Si tratta di un’evoluzione che ha per protagonista l’utente, negli anni divenuto progressivamente più esperto nell’orientarsi rispetto alle proprie decisioni di consumo e di spesa, grazie a una maggiore quantità di fonti d’informazione disponibili e consultabili. Con l’avvento dei media digitali, e dei social media in particolare, a cambiare non sono soltanto le modalità e i canali di accesso alle informazioni: si assiste piuttosto a un radicale mutamento di paradigma nel rapporto tra potere e comunicazione, dalle implicazioni molto pragmatiche. Le aziende e i brand, infatti, perdono il controllo di una comunicazione sempre più reticolare e trasversale e la parola passa in buona misura ai potenziali consumatori, che hanno un impatto diretto sulla produzione di beni e servizi. «We are entering a new age where people participate in the economy like never before. […] new forms of mass collaboration are changing how goods and services are invented, produced, marketed […] This change presents far-reaching opportunities for every company and person who gets connected1». Generare 1 2 relazioni di valore con i potenziali clienti diventa allora essenziale per il mantenimento della sintonia tra azienda e “pubblici connessi” di riferimento. Relazioni, che non vanno intese unicamente in termini di transazione economica, bensì in termini di opportunità di crescita culturale e sociale, in una dimensione di trasparenza del valore del prodotto. Si pensi a valori che si inseriscono nel paradigma etico, come la responsabilità d’azienda, la trasparenza dei processi produttivi e del riciclo o, ancora, alla tracciabilità del prodotto. Comunicazione e cambio di paradigma: nei “mercati-conversazioni” la parola è dell’utente-consumatore Nel mondo digitale e dei social network, dunque, «differenza sostanziale con l’offline è la conversazione e la sua tracciabilità. Mentre nei canali tradizionali, il feedback non ottiene un’eco pari all’attività di promozione, online il rapporto è ribaltato e, nei casi di insuccesso, è estremamente maggiore la cronistoria dell’insuccesso rispetto alla campagna pubblicitaria originale2 ». Se, all’interno di tale marketing conversazionale, la parola degli utenti-consumatori ha maggiore D. Tapscott, A. D. Williams, Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everything, Portfolio, 2006, p. 10 G. Di Fraia (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 2011. 15 Comunicazione aziendale e Social Network comunicazione, interazioni, esattamente come farebbe un utente finale, perché sono arrivate dopo e devono muoversi un passo alla volta facendo attenzione a non rompere gli equilibri esistenti4». Costantemente connesso tramite device mobile, l’utente-cliente riceve numerosi stimoli da parte di altri interlocutori. Monitorarne il comportamento attraverso le attività di marketing e comunicazione significa intercettare, allora, una serie di momenti informativi nei quali viene coinvolto, che non originano sempre da una necessità di beni o servizi, ma spesso dal bisogno di reperire recensioni o consigli su articoli già acquistati, come le istruzioni per l’uso o le guide per l’ottimizzazione del loro utilizzo. All’interno di tali momenti si inseriscono, ad esempio, altri clienti che hanno già acquistato un prodotto o usufruito di un servizio, oppure esperti che forniscono analisi dettagliate, attraverso forum, social o siti di comparazione di prodotti. Il momento dell’acquisto vero e proprio è preceduto e seguito, insomma, da scambi relazionali tra utenti, prodotti e brand, che consentono di compiere scelte sempre più mirate e consapevoli. Il monitoraggio di tali fasi da parte F OC U S Le tesi del Cluetrain Manifesto Gli autori del Cluetrain Manifesto3, invito all’azione per le imprese che operano nel nuovo mercato interconnesso, basano le loro 95 tesi sulla constatazione che grazie al web i mercati si autoorganizzano più velocemente e sono sempre più informati, intelligenti, desiderosi di qualità che mancano alla maggior parte delle organizzazioni aziendali. Assunto fondamentale da cui muovere è la nuova equazione secondo cui nel mondo digitale «i mercati sono conversazioni». In rete non esistono segreti e i prodotti sono conosciuti meglio delle stesse aziende: se una cosa è buona o cattiva, tutti ne vengono a conoscenza. Nel 2015, 121 nuove tesi sono state diffuse con il nome di New Clues: a sedici anni dalla pubblicazione del manifesto, i nuovi indizi contemplano big data e applicazioni e non mancano di citare i “monarchi della rete”. velocità di propagazione ed eco rispetto a quante ne avesse offline, è fondamentale che le aziende «si allineino per quel che concerne toni, Fig. 1 - Moments of truth. Il viaggio del consumatore 3 4 R. Levine, C. Locke, D. Searls, D. Weinberger, The Cluetrain Manifesto, Perseus Books, 2000. G. Di Fraia (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 2011. 16 Comunicazione aziendale e Social Network delle aziende può servire non soltanto a soddisfare i bisogni legati al consumo, ma a soddisfare il cliente durante il suo intero customer journey5 o viaggio del consumatore (fig. 1), in un’ottica di customer-care (post vendita) o di formazione al consumo responsabile (ex ante). aziende devono utilizzare gli strumenti offerti dal digitale per entrare in ascolto di quegli utenti che parlano del loro brand in diversi luoghi virtuali, da Facebook ai forum specialistici del settore di riferimento, luoghi spesso privi di qualsiasi filtro, dove comprendere quali sono i trend o qual è la posizione dei competitor. Il digitale consente di uscire dalla logica meramente statistica per adottare il punto di vista della comunicazione one-to-one, attraverso cui entrare in relazione diretta con il proprio interlocutore e conoscere quali contenuti suscitano il suo interesse. Dopo avere creato awareness, occorre coltivare la relazione con ciascun utente, al fine di generare un lead7, ossia un contatto profilato. Tra i vari possibili clienti si intercettano quelli più sensibili al tipo di prodotto proposto, si chiede loro il consenso a fornire i propri contatti e si costruisce un database. Il pregio della lead generation è la creazione di una lista di possibili clienti realmente interessata e, quindi, con una certa propensione all’acquisto del prodotto o servizio offerto. Sono poi necessarie delle piattaforme di Crm per gestire la relazione instaurata, monitorare la ricezione dei contenuti inviati al potenziale cliente e anticiparne le attività future. In definitiva, ciascuna azione improntata alla conoscenza dell’utente e della propria reputazione online diventa fondamentale per definire le leve di marketing più adeguate, migliorare l’offerta, avere una visione più realistica dei bisogni dei clienti e del mercato di riferimento. Conoscere l’utente: cosa sapere e attraverso quali strumenti per generare relazioni di valore Primo passo da compiere è un ascolto attento, per comprendere il coinvolgimento dei clienti con il brand e orientarsi nei territori del buzz (passaparola) in rete. Raggiungere il consumatore, comunicare i propri valori e generare profitto è un obiettivo cui tendere attraverso la fondamentale creazione di engagement e di relazioni. Per stabilire relazioni di valore con l’utente, l’azienda deve anzitutto compiere una serie di passaggi improntati alla sua conoscenza. Nello specifico, deve imparare a: • Conoscere l’utente e i suoi universi culturali (il suo linguaggio, i suoi mondi di riferimento) • Conoscere quali canali frequenta • Conoscerne le fasi del processo decisionale d’acquisto • Conoscere in che tipo di relazione è con il suo prodotto (cliente fedele, da fidelizzare, possibile sponsor6). Tra gli strumenti utilizzati per la conoscenza dei potenziali clienti, emerge l’analisi delle conversazioni in rete, un efficace evoluzione delle più costose ricerche di mercato, funzionale al raccoglimento e all’interpretazione dei dati provenienti da fonti non strutturate, quali le interazioni tra utenti su varie piattaforme come i social media. Anziché limitarsi a misurare le performance delle proprie attività sui social, le La SocialMediAbility delle Aziende Italiane Luogo virtuale nonché strumento della comunicazione condivisa per eccellenza sono 5 L’ espressione customer journey (o viaggio del consumatore) è utilizzata per indicare il percorso decisionale ed operativo che il cliente attraversa, prima di compiere un determinato acquisto. Nell’era digitale risulta arricchito di nuove fasi e influenzato da diversi canali, messaggi, device. 6 A tal proposito, può essere utile approfondire il concetto di brand advocates, persone individuate e selezionate sulla base di specifiche caratteristiche, che hanno il compito di sostenere, promuovere e invogliare la conoscenza di un determinato brand, prodotto o contenuto, grazie a una capacità di convincimento basata sul loro trust in un determinato settore d’azione. 7 La lead generation è un’ azione di marketing che consente di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi di un’azienda. Il messaggio di vendita viene veicolato soltanto ad alcuni consumatori, profilati grazie agli strumenti di marketing strategico. 17 Comunicazione aziendale e Social Network i social media, catalizzatori di attenzione con i quali l’azienda si trova a fare i conti in un mercato digitale dove la parola d’ordine è ‘esserci’. Ma in quale misura e con checoinvolgimento sono presenti le aziende italiane sui principali social network? A dircelo è la ricerca sulla SocialMediAbility8 realizzata dall’Osservatorio Social Media dell’Università IULM, che dal 2010 fornisce una panoramica sull’utilizzo dei social media nell’universo aziendale italiano. L’indice di SocialMediAbility (SMA) è un indicatore sintetico della qualità complessiva dell’uso che l’azienda fa dei social media come canali di relazione, comunicazione e marketing. Giunta alla sua quarta edizione, da maggio a novembre 2015 la ricerca ha monitorato un panel di 720 aziende; sei, i settori di attività presi in considerazione: Alimentare, Arredamento, Bancario, Hospitality, Moda&Design e B2B. Realizzato in collaborazione con Blogmeter seguendo un approccio di tipo qualiquantitativo, lo studio ha integrato per la prima volta un campione di 120 aziende accomunate da un modello di tipo B2B (manifattura, legno, gomma e plastica, metallurgia), sostituendolo alle Pubbliche Amministrazioni. Altra novità introdotta nel 2015 è il potenziamento dell’indicatore di SocialMediAbility. Sino al 2013, l’indice si basava su tre dimensioni quali Orientamento, Attenzione-Cura (Gestione) ed Efficacia, ma nel 2015 il macroindicatore relativo alle performance è stato suddiviso in due ulteriori dimensioni: Reachness, che misura la capacità dell’azienda di raccogliere e raggiungere un bacino di utenti attraverso i social (numero fan/ follower, iscritti ai canali) e General Engagement, che fa riferimento alle performance in termini di ingaggio e relazione con l’utente. Si è inoltre aggiunta la dimensione Caring, data l’importanza assunta dai canali social per le attività di customer care. Per ogni settore considerato, è stato analizzato un campione casuale di aziende, articolato per dimensioni (grandi, medie, piccole) in grado di rappresentare effettivamente “lo stato dell’arte” del sistema, senza limitarsi a raccontare le best performance delle (solite) grandi aziende. La ricerca funziona tramite l’analisi desk, ovvero l’analisi del contenuto: gli analisti prendono in esame i siti e i canali social delle aziende. Di seguito, si riportano alcuni tra i risultati più significativi. Il 75% delle aziende monitorate ha un sito brand o istituzionale, tra esse in maggior misura quelle operanti nei settori Alimentari e Banche. Quasi la metà delle B2B, invece, è sprovvista di sito, così come un terzo delle piccole aziende. Le maggiori presenze web riguardano grandi e medie aziende. Per quel che concerne il tasso di penetrazione dei social media, il 73% delle aziende (escluse le B2B) è presente su almeno un social network: un notevole passo avanti rispetto al 32% del 2010. Tra i social network utilizzati dalle aziende, il 79% ha attivato Facebook , il 55% YouTube, il 48% Twitter (fig.2). Rispetto al 2013, cresce la presenza su social media quali Instagram e Pinterest. Tra i settori considerati, il più attivo9, sia su Facebook sia su Twitter, risulta quello bancario, particolarmente produttivo nel social care, l’insieme di attività di customer care realizzate sui profili social. Ottima l’integrazione tra sito e canali social: l’82% delle aziende considerate presenta sul proprio sito dei link che rimandano ai social media, mentre nel 2010 ciò avveniva appena per il 17%. I risultati più negativi, invece, si registrano rispetto alle strategie da adottare nell’utilizzo e nella gestione dei social media, talvolta assenti o non efficacemente implementate. Tra gli scopi dello storytelling di un’azienda La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV Edizione), Osservatorio sui Social Media , Università IULM, 28 gennaio 2016, http://www.slideshare.net/mastersocialmedia/la-socialmediability-delle-aziende-italiane-2016. 9 La pagina Facebook e l’account Twitter sono considerati attivi quando sono stati pubblicati almeno due post/tweet durante il periodo di osservazione. 8 18 Comunicazione aziendale e Social Network Fig. 2 - I social media attivati dalle aziende italiane. La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV Edizione). emergono la brand awareness10, il marketing di prodotto e la generazione di engagement. L’analisi della tipologia dei contenuti veicolati attraverso Facebook rivela come la maggior parte di essi sia di tipo informativo-comunicativo del prodotto e che solo in minima parte i contenuti siano orientati a stimolare una reazione o una relazione con l’utente, risultando nel complesso molto autoreferenziali. L’indice sintetico complessivo di SocialMediAbility del 2015 si attesta a 2,7 punti, in rialzo rispetto al 2013 (1,91), ma l’indice sintetico SMA totale, che tiene conto delle nuove dimensioni introdotte, è di 2,5. Sebbene la ricerca metta in luce un graduale incremento della sensibilità e dell’attenzione ai social media da parte di aziende grandi, piccole e medie, è necessario fare ancora molto per quel che concerne le strategie con cui canali social e siti attivati vengono effettivamente utilizzati, nonché rispetto alle competenze con cui vengono gestiti e orientati alle attività di marketing e comunicazione aziendale. Valentina Barresi 10 Il concetto di brand awareness (notorietà di marca) è legato al grado di riconoscibilità di un marchio e alla sua associazione a un determinato prodotto da parte dei potenziali consumatori. La sua creazione è obiettivo primario della pubblicità nella fase iniziale del ciclo di vita di un prodotto. L’apice consiste nel raggiungimento del punto massimo di notorietà (top of mind), allorché il marchio diventa il primo brand cui le persone pensano nel processo di acquisto di un prodotto o servizio. 19 Comunicazione aziendale e Social Network Riferimenti bibliografici Di Fraia G. (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 2011. Levine R., Locke C., Searls D., Weinberger D., The Cluetrain Manifesto, Perseus Books, 2000. Osservatorio sui Social Media, Università IULM, La SocialMediAbility delle Aziende Italiane (IV Edizione), 28 gennaio 2016. Tapscott D., Williams A. D., Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everything, Portfolio, 2006. 20 Comunicazione e paradigmi del futuro Tratto dalla lezione di Francesco Morace «In ogni luogo vi è un centro del mondo» Mircea Eliade Genius loci - Societing - Reputation management Fig. 1 - The Great Beauty Nullus locus sine genio: non esiste alcun luogo che non abbia un genio. Così scriveva Servio nel suo commento all’Eneide: più di duemila anni or sono. Nullus locus Italiae sine genio: potrebbe riscriversi in questo modo, oggi, il motto. Nessun luogo d’Italia è senza genio. Non lo si consideri (soltanto) alla stregua di un discorso politico o poetico; si tratta di un punto di partenza impre- scindibile per cominciare a discutere di futuro dell’economia, ovvero del nostro avvenire. Non occorre essere necessariamente visionari o futurologi, però il professor Francesco Morace, sociologo e autore di saggi di successo, lo è ed è convinto di questa potenza del genius loci, una leva che è prima di tutto italiana. In soccorso delle sue ipotesi arrivano ben 27 anni di ricerche 21 Comunicazione e paradigmi del futuro presso il Future Concept Lab1 da lui stesso ideato nel 1987 per costruire unarete fitta di cool hunters (sono 100 in tutto il mondo, 18 soltanto a Milano). Più che di tendenze, a dire il vero, bisognerebbe parlare di “segnali deboli di cambiamento” da intercettare per tempo. E per tempo significa: prima degli altri. Tutto questo è legato a doppio filo con l’economia italiana, ma soprattutto col cambio di paradigma valoriale che nell’economia più in generale sta accadendo. Il professor Francesco Morace ha accantonato questo termine latino (complesso per i veloci flussi comunicazionali contemporanei), coniandone però un altro molto simile per gamma di significato: l’Italian Factor2. È l’X-Factor dell’Italia, ma non un reality show: presuppone la capacità di trasformare una vocazione psicologica e un’attitudine culturale in un fattore economico che possa moltiplicare il valore delle nostre attività e delle nostre imprese. Tre sono le parole chiave per il futuro dell’Italia, i suoi standard innovativi: verità, bellezza e vocazione. Il genius loci è certamente l’Italian Factor, ma non solo. Basti pensare che la “scoperta” delle onde gravitazionali stava per essere fatta da un gruppo di italiani, ma è made in Italy al 100% una delle ricerche più entusiasmanti degli Anni Novanta: i neuroni specchio, descritti per la prima volta negli Anni Novanta dal professor Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma, oggi in odore di Nobel. È necessario in questa occasione riprendere l’iniziale concetto di genius loci, e per spiegarlo occorre partire da molto lontano: dagli antichi romani. Il loro paganesimo aveva previsto per ogni luogo la presenza di un “genio”, vale a dire di una divinità atta a preservare e favorire la ricchezza di quello stesso posto. L’etimo della parola “genius”, in effetti, deriva dal verbo latino “gignere” che significa “generare, creare”, ed era utilizzata per identificare il Nume che costituiva la forza creatrice, la “vis generandi” dell’uomo. Il genius era una figura centrale nella religione romana. Si pensi a Napoli, non a caso città d’origine dello stesso Morace. Il nome di una delle realtà metropolitane italiane più note e affascinanti al mondo era originariamente Parthenope. Secondo la mitologia classica Parthenope era la più bella sirena dei mari che però non aveva raggiunto uno scopo per lei ineluttabile: sedurre Ulisse. Per questo motivo, per non essere riuscita nell’intento, si era data la morte in mare e la leggenda vuole che il suo corpo per metà donna e per l’altra metà pesce sia finito proprio sulle coste del golfo di Napoli. La città assunse dunque a sua divinità protettrice la sirena, e probabilmente non è un caso che ancora oggi il luogo conservi un fascino davanti al quale pochi riescono a sottarsi. Il genius loci è stato poi declinato nel tempo anche in altri ambiti, tra cui l’architettura, la progettazione di spazi. Il primo a parlarne in un libro omonimo è stato Christian Norberg-Schulz, il quale sosteneva che «proteggere e conservare il genius loci significa concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua autorealizzazione». 1 2 F OC U S I neuroni specchio Prendiamo tra le mani una penna. Chi ci guarda sa quello che vorremmo fare: iniziare a scrivere, giocarci con le dita o, magari, lanciarla a un amico durante la conferenza. Se chi ci guarda può in qualche modo “giocare d’anticipo”, capirci, è grazie ai neuroni specchio. Si racconta che la scoperta del “sistema mirror” avvenne per caso: un ricercatore aveva installato dei microelettrodi sensori nel cervello di una scimmia (nella “corteccia”) raggiungendo dei neuroni che si attivavano quando la scimmia prendeva un’arachide da una ciotola. Quando lui stesso prese un’arachide dalla ciotola sotto gli occhi della scimmia, inaspettatamente, i rivelatori di attività risuonarono: i neuroni della scimmia si erano attivati. Quei medesimi neuroni, che si attivavano quando la scimmia afferrava un’arachide, lo facevano anche quando ad afferrare www.futureconceptlab.com Morace F., Santoro B., “Italian Factor. Come moltiplicare il valore di un Paese”, Egea, Milano, 2014 22 Comunicazione e paradigmi del futuro l’arachide era il ricercatore e la scimmia non si muoveva. Questo perché riconosciamo quel gesto, anzi ci riconosciamo in quel gesto. Semplificando ancora, si attivano i neuroni specchio anche quando in un gruppo una persona sbadiglia e pure altri prendono a farlo, o se qualcuno ride molto e tutti si ritrovano a condividere quella risata. Come spiegano Rizzolatti e Sinigaglia, «al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto». Le nostre sharing economy potrebbero giovare molto da queste scoperte. Una assoluta novità nel campo delle neuroscienze che ha poi generato applicazioni anche nell’economia e nel marketing. Secondo i neuroscienziati che hanno condotto la ricerca, il sistema mirror ci permette una rapida visione di ciò che ci accade intorno, di provare le emozioni altrui, immedesimandoci ed entrando in empatia, e di imparare per imitazione. L’attivazione dei neuroni specchio genererebbe una rappresentazione motoria interna dell’atto osservato dalla quale dovrebbe dipendere la capacità di comprendere l’azione osservata e la capacità di apprendere per imitazione. Ecco, parliamo dell’imitazione e dell’emulazione: qualcosa che non è strettamente legato all’invidia o al desiderio di possedere di più di quanto altri posseggono già. Sarebbe bene parlare Fig. 2 - Neuroni specchio dell’anima 23 Comunicazione e paradigmi del futuro infatti di empatia, e in questo modo si ritorna all’aristotelicouomo come animale sociale, ma soprattutto si arriva ad una nuova concezione che non è quella dell’homo oeconomicus o lupo divoratore di propri simili. agli scambi simbolici (anche se differenti per visione, anzi visionarietà) Jeremy Rifkin, tra gli economisti più famosi al mondo. Nel suo saggio “La società a costo marginale zero” lo studioso americano analizza gli elementi protagonisti di un processo in corso che tramite l’Internet delle Cose e l’affermarsi dei commons collaborativi porterebbe all’eclissi del capitalismo perché «una parte sempre maggiore dei beni e servizi che costituiscono la vita economica della società muove verso il quasi azzeramento dei costi marginali e diventa praticamente gratuita». La gratuità, proprio quanto l’informazione, dovrebbe contraddistinguere tante merci, anche se per ora perlopiù non tangibili. La crisi attuale ci ha portati ad allontanarci da un modello economico che è insostenibile: la visione finanziaria dell’economia ha fallito e non ci piace più. Cerchiamo “esperienze”, più che prodotti, tanto che la moneta di scambio diventa più spesso la condivisione all’interno di una rete di contatti “virtuali”. App come “Airbnb”, “Uber” e “Blablacar” fondano la propria economia sulla condivisione. Ma funzionano a patto che si rispetti la verità di quanto si scrive e recensisce, permettendoci di costruire (e diffondere) una vera e propria (cultura della) reputazione. Già nel 1976 Jean Baudrillard aveva scritto un libro provocatorio, “Lo scambio simbolico e la morte”, in cui sosteneva la teoria dello scambio simbolico in opposizione ai valori capitalistici di utilità e profitto monetario in favore di quelli culturali: una rottura con le teorie marxiste e con i valori di scambio e produzione così come concepiti in quel momento. Baudrillard descrive lo scambio simbolico come attività poetica e culturale creativa che fornisce delle alternative ai valori capitalistici della produzione. Il cambio di paradigma sta proprio qui: si tratta di una trasformazione che modifica la relazione con l’economia, con il denaro e i servizi o i prodotti. Si va, insomma, verso esperienze che sempre meno si possono acquistare: la serenità, la socialità, quindi la reputazione e l’affidabilità. E questo già Baudrillard lo aveva capito, e lo si intuisce leggendo un altro libro, “Lo specchio della produzione”: «La relazione sociale simbolica è il ciclo ininterrotto del dare e del ricevere che, nello scambio primitivo, include il consumo del ‘surplus’ e dell’anti-produzione intenzionale». Tali assunti oggi vengono utilizzati per cercare di intercettare quelle “tendenze” secondo le quali il marketing si sta evidentemente trasformando: si dovrebbe piuttosto parlare di societing3, come ha sottolineato per primo Fabris osservando che le ricerche di mercato convergono verso una analisi (sociologica) sempre più globale della società. Dalle 4 P del Marketing si dovrebbe così passare alle 4 P del Societing. Un passaggio epocale, come dall’analogico al digitale. People, places, plans e project, ovvero persone, posti, pensieri e progetti. Nel XXI secolo post-crisi la reputazione è potere: l’Italiano detiene un forte potere in tal senso, ma non lo sfrutta. La reputazione stabilisce come ci vedono gli altri, cosa faranno per noi: ad esempio se quella azienda ci assumerà, se la banca ci concederà il fido, forse persino chi ci amerà, sposandoci. Mediante la tecnologia, in effetti, chiunque può accedere a un tesoro di informazioni su di noi (abitudini di acquisto, finanze, reti personali, la nostra geolocalizzazione) in qualsiasi momento. È la “Reputation Economy”, bellezza. Nell’economia della Reputazione la tecnologia consente ad aziende e individui di raccogliere tutti questi dati, ma anche di aggregarli e analizzarli con rapidità e precisione e la reputazione digitale sta Ai giorni nostri è arrivato a conclusioni simili relativamente al cambiamento di prospettiva e Neologismo che fonde la sociologia col marketing; è stato coniato per primo da Giampaolo Fabris. Vedi: www.webmarketinggarden.it/dal-marketing-al-societing-le-10-tesi-di-giampaolo-fabris/ 3 24 Comunicazione e paradigmi del futuro usato il termine “fast”), bensì la tempestività, la velocità di risposta: si tratta della stessa differenza che i greci operavano per distinguere il tempo del “kronos” dal tempo del “kairòs”; solo quest’ultimo nella Grecia classica significava adeguata reattività. In fondo ai nostri tempi c’è gran richiesta di prodotti e servizi semplici ed efficaci e al contempo capaci di soddisfare esigenze in maniera precisa e diretta, incisiva e rapida. Il cliente pretende che le sue richieste siano esaudite ed anche di disporre con facilità e tempestività dell’oggetto d’acquisto a qualunque ora: felicità fruitiva e immediatezza d’uso sono diventati dei “must”. Non bisogna dimenticare un assunto: non esiste ormai separazione tra ciò che è di prima necessità da ciò che è soltanto di tendenza. Altro paradigma da tenere d’occhio è quello del “Crucial & Sustainable”, ovvero la questione della crucialità e della priorità dei prodotti, i quali divengono persino partner di vita. Questo paradigma abbraccia anche il tema della sostenibilità, dell’etica, la necessità di alimentare comportamenti e stili di pensiero per minimizzare gli impatti negativi sull’ecosistema e al tempo stesso la capacità di restituire il giusto peso alle risorse “core”, ai valori che contano. È aumentata vistosamente la sensibilità per un cambiamento legato ad una presa di coscienza collettiva (e non più solo di nicchie elitarie) relativa all’ambiente e alle sue priorità: il brand diventa un partner di vita. Quarto e ultimo paradigma della comunicazione è quello definibile “Unique & Universal”, quello più vicino al concetto di “Italian Factor” e di “genius loci”: avrà sempre più valore ciò che si distingue come unico, pertanto locale, e al tempo stesso universale, dunque globale. Si innesta qui l’arcinoto concetto di “glocal”5, caratteristica che aderisce molto facilmente al profilo storico, culturale ed economico italiano. Potrà essere più facilmente riconosciuta con maggiore trasparenza la distintività dell’origine e dei processi dei prodotti, i quali da locali passano ad essere opzioni universali. diventando la moneta più preziosa. Uno dei maggiori interpreti di questa visione del futuro è Michael Fertik, osservatore delle dinamiche digitali e guru del reputation management, che in un libro4 scritto con David C. Thompson ci introduce a quegli strumenti necessari per migliorare le nostre prospettive professionali, finanziarie e sociali, magari anche nascondendo le informazioni negative nella rete. I dati sono le nostre impronte digitali costantemente accessibili, in un’era in cui la reputazione vale già più del denaro che abbiamo in portafoglio. E l’Italia che reputazione ha? Anzi, gli italiani che reputazione hanno dell’Italia? L’Italia sembra non avere autostima: una recente ricerca dimostra come il valore del Paese percepito da chi lo abita sia inferiore di 27 punti percentuali a quello percepito da chi viene a lavorarci o a visitarlo. Non c’è che dire: anche in questo siamo unici al mondo: riusciamo ad essere fortemente campanilisti ed estremamente esterofili. Occorre evidentemente un cambio di prospettiva, così come il cambio di prospettiva è avvenuto già nella definizione di paradigmi (individuati da Morace) che regolano i meccanismi della comunicazione e del marketing che si apprestano a confluire nel societing. Il “Trust & Share”, ad esempio, ci fa comprendere come si sia passati da una logica di fidelizzazione all’affidamento, quasi empatico. Empatia, sistema mirror, neuroni specchio: il cerchio si chiude. Ora la sfida è rinnovare quotidianamente lealtà e condivisione, puntare sulla convergenza tra consumatore e azienda. Solo così potrà generarsi una catena del valore fondata sull’integrazione tra produttore e consum-autore (secondo una felice intuizione di Morace). La marca diviene una sorta di ambiente comune in cui condividere ideali di fiducia, lealtà e appartenenza. Il secondo paradigma vincente è quello del “Quick & Deep”, dove l’aggettivo inglese “quick” non indica la velocità (si sarebbe Fertik M., Thompson D , “Reputation economy. Come ottimizzare il capitale delle nostre impronte digitali”, Egea, Milano, 2015 5 “Glocal”: termine che riassume globale e locale. 4 25 Comunicazione e paradigmi del futuro Molti in questi anni si sono mostrati i fautori della decrescita felice6, ma a dispetto della vasta letteratura sul tema, è ancora il sociologo Francesco Morace a parlare, al contrario, di “crescita felice”, intendendo per essa una crescita sana e sostenibile, basata sulla qualità reale e completa dei prodotti e delle organizzazioni. L’Italia può andare in questa direzione perché ha la grande fortuna di produrre manufatti (ma dovrebbe imparare a farlo anche nei servizi) che entrano nella vita delle persone e influiscono quindi sulla loro felicità. Tra gli esempi più lampanti l’espresso di Illy: un prodotto accessibile, eppure di elevata qualità, anche se non di lusso, come si intende comunemente, ma sicuramente in linea con il concetto di crescita felice; in una sola parola: una eccellenza. «Parlando di crescita, intesa come dimensioni, non credo – sostiene Morace – che le aziende italiane debbano seguire la strada dell’essere grandi o più grandi di quanto il nostro codice genetico ci permetta di essere. Si può essere piccoli e crescere seguendo questa strada della crescita felice». Illy è, insomma, un caffè di elevata qualità ad un prezzo medio: qualcosa che fa avvicinare il consumatore al concetto di felicità. Qui si entra in un altro campo ampiamente dibattuto. Cos’è la felicità? Come si misura? Si può misurare davvero la felicità? Morace, difatti, parla nei suoi studi di intelligenza contestuale, una particolare connotazione del saper fare italiano, spesso confusa con “furbizia”. L’intelligenza contestuale è saper cogliere al primo sguardo, che è un altro modo di definire la per certi versi strabiliante capacità di problem Fig. 3 - Selfie busto di Caracalla solving insita naturalmente negli italiani.Tutto quanto sinora illustrato non è un panegirico dell’Italia, quanto piuttosto un elogio alle potenzialità inespresse del Belpaese, alla sfida del futuro cui la nostra Penisola è già attrezzata. Darwin non era italiano, e in questo frangente è necessario citare i suoi studi, perché anch’egli si interrogò sulla bellezza, tema alquanto dibattuto in quanto generatore o meno di economia. Come scrisse il teorico dell’evoluzionismo nei suoi taccuini: «La bellezza è un sentimento istintivo, e questo taglia il Nodo», affermando la relazione di dipendenza dei nostri giudizi estetici dagli istinti gradualmente sedimentatisi nella storia naturale della nostra mente. La bellezza magari non sarà un sentimento oggettivo, però recenti studi di neurofisiologia stanno dimostrando la capacità di riconoscerla secondo elementi piuttosto precisi. Il Rinasci- Uno psicologo israeliano, David Kahneman, nel 2002 vince il Nobel per l’economia. Sembra arduo accostare psicologia ed economia, economia e felicità, eppure Kahneman ha scritto un libro intitolato esattamente “L’economia della felicità”. La nascita del campo disciplinare della economia cognitiva, oggi in pieno sviluppo, non sarebbe certamente pensabile senza i suoi studi. Il suo obiettivo è quello di esplorare il mondo che “sta dietro” alle scelte e alle decisioni di un individuo, ossia il mondo delle preferenze. Una prima parte della teoria dell’economista psicologo ruota attorno a un “programma di ricerca” che conduce e approda alla teoria del framing delle decisioni ossia della loro “contestualizzazione”. 6 La decrescita è una critica all’economia della crescita con un manifesto che si propone di ridurre il consumo delle merci che non soddisfano nessun bisogno 26 Comunicazione e paradigmi del futuro mento italiano è un’epoca storica che ogni nazione avrebbe voluto vivere, ed ancora oggi milioni di visitatori giungono da ogni parte del mondo per ammirarne i resti, per lasciarsene influenzare. Riconoscere la bellezza significa ri-conoscere se stessi: Socrate ce lo suggerì 2.500 anni fa. Simone Di Biasio 27 Comunicazione e paradigmi del futuro Riferimenti bibliografici Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1990. Darwin C., Taccuini filosofici, a cura di A. Attanasio, Utet, Torino, 2010. Kahneman D., Economia della felicità, Il Sole 24 Ore Libri, Milano, 2007. Morace F., Crescita felice. Percorsi di futuro civile, Egea, Milano, 2015. Rifkin J., La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Milano, 2014. Rizzolatti G., Sinigaglia Corrado, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano, 2006. 28 Web 2.0 e nuovi modelli di business Tratto dalla lezione di Carlo Alberto Carnevale Maffè «Chi si occupa di comunicazione si è trasformato da mercante d’attenzione a gestore di conversazioni e di esternalità» conversation - commitment - externalities con un forte connotato economico che può essere descritta avvalendosi delle tre tesi della microeconomia della comunicazione strategica, già presentate al World Communication Forum di Davos: 1) Messagges become money 2) Communications become contracts 3) Conversations become commerce La prima tesi aiuta a definire il ruolo della comunicazione nella produzione di valore economico. È sufficiente, infatti, pensare all’importanza di aziende che basano il proprio business sul valore prodotto dai flussi comunicativi, come Whatsapp, Google o Facebook. Internet ha permesso di assegnare ad ogni flusso di comunicazione una concreta valenza economica, patrimoniale, finanziaria. Ma non solo: la comunicazione è denaro perché produce un’enorme mole di metadati che permette di profilare i clienti e anche perché, grazie alla viralità1 di un messaggio e al word of mouth2, L’avvento e la diffusione di internet hanno trasformato radicalmente ogni mercato, annullando le asimmetrie informative che prima esistevano fra domanda e offerta. La domanda è così diventata un soggetto autonomo, complicato, articolato e coordinato capace di cercare informazioni, acquistare prodotti, confrontare prezzi e valutare recensioni in ogni angolo del globo. Internet, nella sua versione 2.0, è uno strumento che può organizzare in maniera innovativa il mercato e l’incontro tra la domanda e l’offerta. In questo contesto, ormai mutato, la comunicazione strategica non può più essere definita come un’attività che mira a divulgare dei contenuti coerenti e a raggiungere target e obiettivi misurabili utilizzando un determinato budget. Questa formula appare ormai obsoleta e sterile, sia per le imprese che per i consumatori, in quanto la comunicazione deve diventare ascolto delle tendenze della domanda. Grazie a internet, si è sviluppata una comunicazione Fig. 1 - L’avvento di internet e dei social network ha impattato la comunicazione d’azienda Un messaggio si definisce virale quando, grazie anche ai suoi aspetti non convenzionali, raggiungere un numero elevato di destinatari 2 Con questo termine si indica il passaparola, cioè il modo diretto con cui si propaga un’informazione da un soggetto all’altro all’interno di una comunità reticolare 1 29 Web 2.0 e i nuovi modelli di business consente di risparmiare il costo dell’acquisto di spazi pubblicitari. I messaggi in certi casi possono persino diventare un sussidio, cioè un invito all’acquisto grazie ad una promozione, un voucher o un coupon. La seconda tesi “Communications become contract” significa che ogni sistematico scambio di messaggi può essere letto, implicitamente, come un impegno contrattuale reciproco tra azienda e consumatore. In questo senso, il ruolo di un’autentica comunicazione bidirezionale sarebbe quello di proporre una negoziazione degli accordi del contratto da cui far discendere vincoli, obblighi, responsabilità. Con il contratto il consumatore sigla un impegno comportamentale costante: fedeltà ad un brand, partecipazione in una community e altri atteggiamenti proattivi. A sua volta l’offerta s’impegna a premiare il behavioural commitment3 dei consumatori. La comunicazione diventa anche un’occasione per individuare un service level agreement4 e per prevedere l’andamento delle vendite con evidenti ripercussioni positive sugli aspetti di produzione e logistica. La terza ed ultima tesi “Conversations become commerce” si inserisce nel solco avviato dal Cluetrain Manifesto5. Nel 1999, prima dell’avvento del web 2.0, Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger avevano affermato che “i mercati sono conversazioni”6.Appare quindi chiaro che occuparsi di comunicazione significa sempre più creare un complesso dialogo fra aziende e rispettivi stakeholders. Con la penetrazione di internet nella vita quotidiana la transazione d’acquisto diventa quasi un fatto accidentale, non un fine. A riprova del fatto che la conversazione è diventata commercio possiamo pensare ai like e ai retweet che rappresentano la nuova moneta conversazionale di Facebook e Twitter. Fig. 2 - Copertina di “The cluetrain manifesto” Alla luce di queste tre tesi innovative, internet dovrebbe essere inteso non più come un canale di comunicazione o di vendita, ma come un ufficio notarile pubblico in cui viene sottoscritto il “Contratto” tra l’azienda e i suoi clienti. Con la sottoscrizione di un contratto l’impresa si impegna a soddisfare le aspettative del cliente che, in cambio, offrirà recensioni e altre attività di rating7 e sharing8. Un contratto che non si consuma con la vendita, ma diventa un impegno a collaborare nel futuro con l’azienda, in modo costante e non più occasionale od opportunistico. Fig. 3 - Online esprimiamo il rating utilizzando una scala da 1 a 5 stelle 3 Il behavioural commitment è letteralmente un impegno comportamentale. In questo contesto si fa riferimento ai comportamenti che il consumatore può intraprendere nei confronti di un brand o un marchio. 4 L’Accordo sul Livello del Servizio è uno strumento per definire le caratteristiche che deve rispettare chi eroga il servizio in oggetto. Rappresenta un vero e proprio obbligo contrattuale. 5 http://www.cluetrain.com/ 6 «Markets are conversations» 7 Valutazione pubblica di un determinato servizio, prodotto, luogo o brand. Rappresenta un indice di gradimento. 8 Atto consapevole di condivisione e diffusione di contenuti creati da aziende o da altri utenti 30 Web 2.0 e i nuovi modelli di business - “Andate e venite”: il traffico in negozio e la frequenza di acquisto sono comportamenti che la comunicazione dovrebbe incentivare anche per dar vita alla raccolta di metadati sui clienti. - “Non venite, veniamo noi”: la comunicazione può sfruttare le caratteristiche di internet per raggiungere e coinvolgere i clienti, anche con l’ideazione di branded content11. Internet, lo abbiamo dimostrato in vari punti,può essere interpretato come uno strumento organizzativo del mercato che facilita il ruolo della comunicazione nel concludere un patto fra consumatori e imprese. Il nuovo sinallagma contrattuale diventa quindi un impegno di medio termine del cliente in cambio di una maggiore efficienza della catena del valore d’offerta (perché, in altre parole, se un cliente si impegna a comprare in futuro, questa decisione rende più efficiente la previsione e la produzione dell’offerta). A conferma di quanto appena descritto analizziamo la costruzione della catena del valore aggiunto12 di Google, inteso come un hub13 di flussi comunicativi fra diversi attori interconnessi fra loro: L’idea di una comunicazione che, grazie a internet, mira alla conversazione con i vari clienti dell’impresa, prende ispirazione da alcuni semplici principi: - “Venite già comprati”: il patto di acquisto si realizza in anticipo rispetto all’ingresso nel punto vendita. Sono sempre più diffusi i processi ROPO9 che portano i consumatori a formare la propria decisione d’acquisto online per poi concretizzarla in un secondo momento nel punto vendita. - “Venite già spesati”: i clienti possono utilizzare con maggior facilità voucher ed altre forme di pagamento elettronico. L’azienda può sfruttare questa leva monetaria per ridurre l’opportunismo dei consumatori e per aumentare allo stesso tempo la loro fedeltà. - “Venite accompagnati”: per la maggior parte dei clienti il consumo e l’acquisto sono fenomeni sociali e non individuali. I social network invitano per loro natura alla condivisione degli acquisti e producono, di riflesso, visibilità e awareness10 per l’impresa. Obiettivo della comunicazione nell’epoca del web 2.0 può essere quello di creare occasioni collettive che invitino alla condivisione dell’acquisto. Fig. 4 - Google e il Modello di Mercato Multilaterale 9 Research Online, Purchase Offline è un comportamento d’acquisto sempre più diffuso per cui i consumatori tendono a cercare online informazioni rilevanti prima di effettuare un acquisto offline 10 È la misura utilizzata per indicare la notorietà di una marca o di un prodotto 11 Il branded content indica l’ideazione, la produzione e la distribuzione di contenuti originali creati appositamente per veicolare un brand e i suoi valori 12 La catena del valore aggiunto (value chain) rappresenta una mappatura del sistema d’offerta. È un modello avanzato da Michael Porter nel 1985. 13 L’hub è uno snodo interno ad una rete. In ambito aeronautico, ad esempio, è un aeroporto di grandi dimensioni che gestisce gran parte dei voli e dei servizi connessi. 31 Web 2.0 e i nuovi modelli di business - merchant: l’inserzionista desidera comunicare con possibili clienti catturando la loro attenzione e, grazie ad un click, la loro intenzione (d’acquisto); - people: l’utente interroga il motore di ricerca per consultare i contenuti indicizzati, in questo modo produce un’esplicita attenzione e una probabile intenzione, due beni molto scarsi e non riproducibili; - content provider: le società forniscono informazioni e contenuti al motore di ricerca per ricevere in cambio le visite degli utenti. Google è riuscito a creare un business model che, grazie a internet, ha rivoluzionato i meccanismi di interazione e comunicazione tra domanda e offerta. Nella sua catena del valore aggiunto Google sfrutta le ugualmente le same side externalities e le cross side externalities che si formano nell’ambito del suo “ecosistema”: ogni minuto passato su una pagina web da un utente renderà quella pagina più accessibile per gli altri utenti; correlativamente tale attenzione (rappresentata dai click) viene offerta agli inserzionisti. Il motore di ricerca non stabilisce un listino prezzi per le inserzioni, ma a definire il costo delle parole chiave è l’interazione della domanda grazie a un complesso sistema ad asta. La principale fonte di revenue di questo modello è rappresentata infatti dal denaro che gli inserzionisti investono per occupare le prime posizioni nella SERP14. Google può quindi esser rappresentato come una piattaforma di scambio multilaterale che produce esternalità positive per tutti gli attori. La comunicazione ancora oggi può quindi creare valore seguendo alcuni modelli standard: - Curva della “S logistica” È il caso della diffusione dei social network. Nel momento del lancio gli utenti che utilizzano un determinato social network sono pochi e quindi il valore percepito è basso, ma quando viene raggiunta la soglia della massa critica il valore percepito aumenta esponenzialmente. Il numero degli utenti ha quindi una esternalità positiva sulla percezione del valore. Questo valore si stabilizza quando l’arrivo di nuovi utenti non aumenta il valore percepito dai fruitori stessi. In questo modello la comunicazione può aiutare l’azienda a raggiungere in minor tempo il livello di massa critica. F OC U S Le esternalità sono fenomeni economici che si riverberano su altri attori. Si distinguono in positive se producono valore per l’intero sistema e negative se producono svantaggi al contesto, in same side se ricadono sugli attori dello stesso lato del mercato e cross side se ricadono su attori di lati diversi. Ad esempio: i contenuti trash rappresentano un’esternalità negativa di tipo cross side che si ripercuote sull’azienda inserzionista che può non apprezzare l’associazione del propri brand con tali contenuti. L’attenzione che producono gli utenti è un’esternalità positiva di tipo cross side che produce valore per tutto il sistema. Fig. 5 - Curva della “S Logistica” 14 Search Engine Results Page è la pagina dei risultati fornita dai motori di ricerca in risposta alle parole digitate da un utente 32 Web 2.0 e i nuovi modelli di business - Curva del “wedding dress” - Curva del “bene commodity” È il caso del vestito da sposa o di altri beni esclusivi. Quando il numero di consumatori è di poche unità il valore percepito del prodotto è altissimo, ma nel momento in cui l’uso del bene si diffonde il valore si annulla completamente fino a diventare –in alcuni casi- negativo. Il numero di utenti ha quindi esternalità negative sulla percezione del valore del prodotto. In questo modello la comunicazione può concorrere al posizionamento del bene nella mente dei consumatori. È il caso di prodotti di uso quotidiano, per cui il volume di utenti non ha alcun tipo di esternalità sul valore percepito. La comunicazione può quindi diffondere al maggior numero possibile di consumatori l’utilizzo di un determinato prodotto o servizio. Fig. 7 - Curva del “bene commodity” In conclusione: chi si occupa di comunicazione si è trasformato da mercante d’attenzione (sui classici mass media) a gestore di conversazioni e di esternalità (in un mondo costantemente connesso a internet). Fig. 6 - Curva del “wedding dress” Stefano Iachella 33 Web 2.0 e i nuovi modelli di business Riferimenti bibliografici Owyang J., Sharing is the New Buying: How to Win in the Collaborative Economy (http://www.slideshare.net/jeremiah_owyang/sharingnewbuying). De Nobili F., SEO Google. Guida pratica per farsi trovare con Google, Hoepli, Milano, 2015. Di Bari V. (a cura di), Web 2.0. Internet è cambiato. E voi? I consigli dei principali esperti italiani e internazionali per affrontare le nuove sfide, Il Sole 24 Ore Libri, Milano, 2008. Levy S., Rivoluzione Google. I segreti dell’azienda che ha cambiato il mondo, Hoepli, Milano, 2012. Poggiani A., Pratesi C. A., Marketing digitale. Come usare i nuovi media per il customer engagement, McGraw-Hill, Milano, 2014. Valacich J., Schneider C., Carignani A., Longo A., Negri L., Tecnologie e innovazione nei mercati digitali. ICT e sistemi informativi, Pearson, Milano, 2015. 34 CREATIVITÀ E NUOVE FORME DI COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA CROSS MEDIALE Tratto dalla lezione di Paolo Iabichino «Il mestiere del creativo, così come lo conosciamo, potrebbe estinguersi nel giro di qualche mese. Dobbiamo proiettare la nostra mente e la nostra professione verso l’advertising esperienziale» EMPATIA - LOVEMARKS - MODELLO DELLE “QUATTRO E” L’advertising classico si fonda su alcuni semplici pr i nc ipi che han no aiut ato le impres e a presidiare meglio il mercato in questi decenni. Il primo caposaldo è rappresentato dalla Unique Selling Proposition (USP)1, cioè la caratteristica che riesce a differenziare un prodotto dalla concorrenza e che può essere facilmente veicolata ai consumatori attraverso la pubblicità. La seconda certezza consiste nel cosiddetto Modello delle “quattro P”, reso famoso negli anni ‘60 dal professore di marketing Philip Kotler. Questo modello organizza in quattro aree le varie attività del marketing operativo di un’impresa: che hanno modificato e rinnovato la figura del consumatore. Anche David Ogilvy, uno dei grandi nomi della pubblicità, sottolinea la necessità di rispetto – se non quasi devozione - verso il consumatore. Sua è infatti la frase «Il consumatore non è uno stupido. Il consumatore è tua moglie». La rivoluzione digitale, iniziata con la diffusione del web, non riguarda esclusivamente i media ma coinvolge l’intero habitat in cui le persone sono immerse. Questo obbliga a pensare l’oggetto creativo in maniera diversa rispetto al passato. Solitamente, infatti, i creativi stabilivano la scansione degli argomenti all’interno di un contenuto pubblicitario che poteva godere della consequenzialità nella fruizione dei contenuti (pensiamo alla linearità di un semplice spot tv o di una pubblicità cartacea). Adesso però la scansione narrativa consequenziale è stata surclassata da quella incrociata e il consumatore decide come fruire il contenuto dell’oggetto pubblicitario digitale (basti pensare a link, hiperlink, immagini, gallery). In questo contesto completamente rinnovato, Kevin Roberts antepone la poetica del lovemark • Product (Prodotto) • Price (Prezzo) • Placement (Punto di vendita) • Promotion (Comunicazione) Kotler, in anni successivi, aggiunge alle sopra elencate “quattro P” la quinta P di People, in linea con i cambiamenti avvenuti nella società e nel marketing in seguito all’avvento di Internet. Altri autori, allo stesso modo, parlano in contesti simili di “consumAttore”2 e di “prosumer”3, con il fine di descrivere le nuove caratteristiche 1 http://www.economist.com/node/14301696 Termine introdotto da Giampaolo Fabris, importante sociologo italiano che ha proposto il Societing, un approccio al marketing di tipo socio-antropologico 3 Termine formato dalla fusione della parola producer e dalla parola consumer, introdotto da Alvin Toffler, utilizzato per definire il protagonismo del consumatore contemporaneo 2 35 Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale alla teoria del trademark. I lovemarks sono marchi che occupano un posto privilegiato nella mente –e nel cuore - del consumatore. L’impresa e i propri prodotti dovrebbero quindi diventare carismatici fino al punto di attirare i consumatori. Una prova di questo “amore” è costituita da quanto avvenuto contestualmente al restyling del celebre marchio Gap: l’azienda nel 2010 lancia la nuova versione del brand che sostituisce il font Spire con l’Helvetica, ma questo nuovo logo non riscontra il gradimento dei consumatori e l’azienda si vede costretta a rimuoverlo dopo soli tre mesi e a riproporre il vecchio logo. dai propri prodotti4. Oggi i creativi sono chiamati ad ampliare il loro ruolo professionale fino a puntare al miglioramento della vita delle persone. Sensibilità e responsabilità sono due termini chiave che diventano centrali in questo mestiere. La domanda che dovrebbe guidare il lavoro del pubblicitario è ben rappresentata in un video di Apple del 2013 che descrive pensieri ed emozioni alla base della progettazione di ogni nuovo prodotto. La marca chiede: «What do we want people to feel?». Fig. 1 - Il restyling del logo Gap L’ascolto della propria audience è fondamentale all’interno della grammatica d’amore dei lovemarks, come dimostra il caso Plasmon: l’azienda nel 2016, accogliendo i suggerimenti delle mamme, ha deciso di togliere l’olio di palma Fig. 3 - Apple si chiede: «What do we want people to feel?» Fig. 2 - La campagna #tiabbiamo ascoltato di Plasmon http://www.tiabbiamoascoltato.it/ 4 36 Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale of Truth (ZMOT), introdotto nel 2011 da Jim Lecinski di Google. Lo ZMOT è il momento in cui il consumatore si collega ad internet (ai motori di ricerca e ai social network) per cercare informazioni sulla base delle quali costruire la decisione di un acquisto futuro, sia esso in negozio o in e-commerce. È quindi diventato urgente rinunciare all’anacronistico Modello delle “quattro P” e passare al nuovo modello delle “quattro E”5 prop osto d a Br i an Fe t he rston haug h, Ceo di OgilvyOne: • Da Product a Experience • Da Price a Exchange • Da Placement a Everyplace • Da Promotion a Evangelism Il consumatore, come lo abbiamo fin qui descritto, può persino evangelizzare la propria comunità, ovvero “diffondere il verbo” della marca attraverso l’acquisto, il passaparola e le sfaccettature dell’universo digitale. L’impresa dovrebbe quindi adottare un vero e proprio “credo” e prendere posizioni su temi pertinenti al mondo della marca. La presa di posizione, così descritta, fa arretrare la marca rispetto alla sua funzione di prodotto e il racconto deve, di fatto, fingersi disinteressato. I prodotti poi devono riuscire a tener fede a queste scelte, ovvero a riempire di azioni gli slogan e le promesse. Così ha fatto Dove, con la campagna Real Beauty Sketches in cui ha raccontato la propria presa di posizione sul tema della bellezza autentica, declinato nel pay-off «You’re more beautiful than you think». In questo modello, la logica della transazione economica diventa dinamica di scambio di valore. La marca, insieme al prodotto, trasferisce valore al consumatore che grazie alla narrazione partecipata ricompensa la marca. Così la marca entra nei feed esistenziali dei consumatori. Il marketing quindi non dovrebbe ricercare il consumer insight6 ma investigare le tensioni culturali che il prodotto può colmare. Soprattutto alla luce del fatto che le marche sono diventate immersive, in quanto capaci di circondare i loro pubblici. Questo è visibile nel passaggio di paradigma avvenuto anche per quanto riguarda il processo d’acquisto dei consumatori: ai Moments of Truth7 si affianca lo Zero Moment Fig. 4 - Campagna Dove Real Beauty Sketches 5 www.ogilvy.com/On-Our-Minds/Articles/the_4E_-are_in.aspx 6 Con questo termine di origine anglosassone si intende la comprensione da parte delle aziende dei bisogni inespressi del consumatore col fine di creare prodotti e/o servizi capaci di colmare opportunità di consumo. 7 Nel marketing classico si individuano tre fasi del processo decisionale e d’acquisto: il consumatore riceve lo stimolo da una campagna pubblicitaria (stimulus), entra nel punto vendita e riconosce il prodotto a scaffale (shelf) e, se supera il primo Moment of Truth, procede all’acquisto. Il secondo Moment of Truth si ha poi con l’utilizzo. 37 Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale del 2011 in Argentina. In questa stessa direzione Vallelata ha creato per Carosello reloaded una sfida in dialetto in cui il prodotto non è protagonista ma immerso in un racconto complesso. Le riflessioni fin qui elaborate si sono materializzate anche nella nuova campagna di Levissima che mira a distanziarsi dallo storico spot con Reinhold Messner in cui si evidenziava la funzione di prodotto senza generare empatia nel pubblico. Nel riposizionamento del prodotto è stato necessario inserire una nuova narrazione e, al contempo, proteggere il patrimonio valoriale costruito con abilità negli anni. Il nuovo spot quindi conferma la montagna come scenario e amplia enormemente il tema della vetta e della conquista che trova il suo fulcro nella piattaforma online Everyday Climbers8. La professionalità dei creativi pubblicitari si avvicina quindi a quella degli autori televisivi poiché sempre più spesso sono chiamati a creare dei piccoli format televisivi in cui il contenuto guida le narrazione del brand. Questo strumento permette anche di abbracciare la poetica del pubblico, aumentando l’empatia fra marca e fans. È un’operazione riuscita alla perfezione a CocaCola con la campagna Open Happiness declinata, fra gli altri, nello spot Friendship Machine in occasione della Giornata dell’Amicizia Fig. 6 - Spot Friendship Machine di Coca-Cola F OC U S Un progetto creativo degno di nota è quello realizzato per Galbani. OgilvyOne ha creato l’App gratuita In cucina guidi tu che contiene ricette che possono essere sfogliate utilizzando solamente la voce senza toccare lo schermo con le mani. Fig. 5 - La campagna Levissima https://www.levissima.it/climbers/ 8 38 Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale In questo modo è stato creato uno strumento di comunicazione in grado di differenziarsi dalla folta concorrenza nel campo delle ricette e di rispondere a un quotidiano bisogno dei consumatori. Alle audio-ricette si affiancano altre funzioni speciali: Le mie ricette permette di salvare le ricette preferite, La mia spesa è un modo per elencare gli ingredienti di una specifica ricetta in una comoda lista, Invito a cena consente di inviare inviti agli amici con un’anteprima del menù. Pe r c on c lu d e re , l a f or mu l a prop o s t a da Maurice Lévy, Chairman e CEO di Publicis Groupe, in un’intervista del 20159 condensa quanto qui espresso e argomentato: Quoziente d’Intelligenza (del creativo e del pubblico), sommato al Quoziente Emotivo della campagna pubblicitaria, sommato al Quoziente Tecnologico della campagna in ottica di viralità digitale, sommato al “BloodyQuick” ovvero a una velocità di lavoro “maledettamente rapida” forniscono come risultato il fondamentale e tanto desiderato Quoziente Creativo. Una formula necessaria per l’attività professionale quotidiana dei nuovi creativi pubblicitari. Stefano Iachella Fig. 7 - La formula proposta da Maurice Lévy http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/06/01/news/maurice_levy_e_i_tre_quozienti_cos_ creiamo_la_pubblicit_perfetta-115854275/ 9 39 Creatività e nuove forme di comunicazione pubblicitaria cross mediale Riferimenti bibliografici Godin S., Permission Marketing, Parole di cotone, Milano, 2000. Roberts K., Lovemarks, PowerHouse Books, London, 2004. Toffler A., The Third Wave, Mass Market Paperback, London, 1984. Fabris G., Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003. Fabris G., Societing, Milano, Egea, 2008. Gnasso S., Iabichino P., Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono, Hoepli, Milano, 2014. Iabichino P., Invertising, Guerini e Associati, Milano, 2009. LecinskiJ., Winning the Zero Moment of Truth – ZMOT, Vook Enhanced Version, 2011. Thaler Richard H.; SunsteinCass R., Nudge - La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2009. 40 Sezione 2 DA MERCANTI D’ATTENZIONE A GESTORI DI CONVERSAZIONI: QUALI NUOVE FRONTIERE PER IL MARKETING? 2.1 Le basi per orientarsi nel cambiamento FONDAMENTI DI ECONOMIA AZIENDALE Tratto dalla lezione di Massimiliano Bruni «Per cogliere l’attenzione del consumatore è necessario avere un approccio più moderno e coraggioso, dobbiamo accettare di sfidarci e allontanarci da quei cliché che sono stati magari di grande successo fino a qualche anno fa, ma che sempre più dimostrano un po’ di stanchezza.» KEY SUCCESS FACTOR - VALUE PROPOSITION - CONSUMER-CENTRIC Costruire il successo aziendale globale, occorre invece un pensiero strategico che sappia accogliere e valorizzare le diverse competenze, avvalendosi di team composti da persone con sensibilità e provenienze differenti. La comunicazione d’impresa, che ormai nelle aziende è parte integrante e non più separata del marketing, può avere un ruolo chiave nella definizione di strategie vincenti per le aziende purché sappia intraprendere strade nuove capaci di catturare l’attenzione di consumatori, da un lato sempre più evoluti e curiosi e, dall’altro, sopraffatti da un’immensa mole di informazioni. Il “successo” di un’azienda è un concetto relativo, legato ad un percepito individuale che può dipendere da un insieme di fattori, come ad esempio la reputazione, l’affidabilità o la sostenibilità. Tuttavia, una tale interpretazione soggettiva dell’idea di successo aziendale è di scarsa utilità, poiché si finirà sempre per individuare all’interno di un’azienda un qualche elemento di successo, rischiando così di perdere le opportunità di miglioramento e crescita. Occorrono, perciò, elementi univoci e oggettivabili che aiutino a definire quanto un’azienda è di successo. L’esigenza si propone in modo particolarmente evidente per le aziende italiane che, nella maggior parte dei casi, finiscono per essere vittime di una visione autoreferenziale, che punta a una leadership locale rinunciando in partenza a provare a competere con i top internazionali della categoria. Un esempio eclatante, anche per il suo forte valore simbolico, è quello del mercato vinicolo italiano, in cui prevalgono categorizzazioni basate sulla provenienza regionale (ottica product oriented) invece che sul livello di prezzo (ottica market oriented). Per cogliere (e vincere) le sfide di un mercato ormai Due esempi impattanti di utilizzo innovativo della comunicazione d’azienda sono il branded content1 “Rufus - The Real Hawk-Eye” di Stella Fig. 1 - Frame del video di Stella Artois “Rufus – The Real Hawk-Eye” Branded content: un contenuto editoriale creato ad hoc per rappresentare e narrare i valori di una marca/ azienda. 1 43 Fondamenti di economia aziendale Artois e quello della catena alberghiera ShangriLa “It’s in our nature”. Il contenuto di Shangri-La è invece incentrato sull’avventura di un solitario esploratore, perso in una bufera in mezzo alla neve. Quando, stremato, l’uomo si accascia a terra, viene avvicinato da un branco di lupi che si corica al suo fianco, riscaldandolo. Solo a quel punto viene esplicitata la promessa della catena alberghiera: “To embrace a stranger as one’s own. It’s in our nature”. La scelta dei vocaboli è precisa: si parla di stranger e non di customer, perché quando si viaggia in un paese straniero ci si sente propriamente stranieri; si parla di nature e non di mission, perché la nature non è qualcosa che viene scelto aziendalmente, è parte del DNA dell’azienda stessa. Fig. 2 - Frame del video di Shangri-La “It’s in our nature” Il sistema circolare del consenso Nel primo caso, il marchio di birra belga Stella Artois (parte del gruppo InBev, maggiore produttore di birra al mondo) ha realizzato un contenuto video legato all’attività di Rufus, il falco incaricato di tener lontani i piccioni dal campo di Wimbledon (evento del quale Stella Artois è sponsor). La presenza del brand si palesa solo nel finale della clip, con l’immagine di un’etichetta dipinta a mano che simboleggia un chiaro richiamo all’artigianalità. Associandosi ad un evento d’élite come la competizione tennistica e alle prodezze di volo di Rufus, il brand riesce efficacemente a trasmettere il suo messaggio: “Stella Artois è il perfezionismo nel campo della birra”. Il punto di partenza di ogni strategia aziendale di successo sono i bisogni dei consumatori, o meglio, la percezione che i consumatori hanno dei propri bisogni. Tali bisogni non possono essere creati, al massimo, influenzati. Fa ancora scuola l’esperienza di Michele Ferrero che negli anni ’60 aveva definito il profilo della cliente tipo (a cui aveva dato il nome Valeria), invitando i suoi dipendenti a impegnarsi per comprendere i bisogni di Valeria e, in un certo senso, starle accanto. Fig. 3 - Le 3 fasi del sistema circolare di consenso 44 Fondamenti di economia aziendale F OC U S Parlando con l’allora direttore de La Stampa Mario Calabresi, Michele Ferrero spiegò la sua concezione sulla centralità della signora Valeria: «La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno. […] La Valeria è la padrona di tutto, l’amministratore delegato, colei che può decidere del tuo successo o della tua fine, quella che devi rispettare, che non devi mai tradire ma capire fino in fondo». (Da un articolo pubblicato su La Stampa il 15/02/15, giorno successivo alla scomparsa di Michele Ferrero, che riportava parte di un’intervista risalente a 5 anni prima). svolgono ovviamente una funzione primaria all’interno del processo; tuttavia è essenziale che tutte le leve attivate siano coerenti. Un esempio di comunicazione perfettamente in linea con i bisogni del target è lo spot di Pan di stelle Mooncake, con la sua atmosfera sofisticata e onirica, destinato a un target di donne di successo, con una vita attiva e per certi aspetti stressante, a cui è rivolto l’invito di concedersi un momento per coccolarsi e soddisfare la propria golosità con un approccio indulgent. L’obiettivo della Ferrero era (ed è tuttora) quello di lavorare su tre specifiche share of market2 : la share of mind, la share of heart e la share of stomach. Attraverso la comprensione del consumatore, si arriva all’individuazione dei key success factor3: i criteri in base ai quali un prodotto sul mercato è giudicato e scelto. È sulla base dei bisogni dei clienti che si va a definire la propria value proposition4, arrivando a offrire sul mercato la propria unique selling proposition5. Ed è in funzione di tali obiettivi che le aziende, caratterizzate da risorse (tangibili e intangibili) e competenze, devono organizzarsi, tanto negli aspetti hard (ad esempio gli organigrammi) quanto in quelli soft (le regole di funzionamento). Questo processo in tre fasi costituisce un sistema circolare del consenso, e la sua applicazione sequenziale da parte delle aziende è in grado di determinare successi e insuccessi. Il marketing e la comunicazione Fig. 4 - Frame dello spot di Pan di Stelle Mooncake Un caso di studio: Nespresso Il business della Nespresso è quello di servire al proprio consumatore un caffè a casa o in ufficio. Per definire la propria value proposition, l’azienda è partita dal proprio target di riferimento e dai bisogni di quest’ultimo. Il consumatore ideale ha tra i 18 e i 65 anni, una capacità di spesa medio alta e un’elevata disponibilità di spesa. La sua nazionalità non conta: l’azienda ha un approccio cosmopolita. Il consumatore della Nespresso ricerca comfort, design, esclusività ed esperienza. Share of market: è la quota che un’azienda vanta all’interno del suo mercato di riferimento. Key success factor: fattori critici di successo, ovvero, la combinazione di elementi cruciali necessari al raggiungimento degli obiettivi di business. 4 Value proposition: proposta di valore, vale a dire, ciò che identifica in modo preciso le caratteristiche specifiche di un dato prodotto. 5 Unique selling proposition: letteralmente, è la “proposizione esclusiva di vendita”. Indica la caratteristica prioritaria del prodotto, su cui è basata la proposta di vendita. 2 3 45 Fondamenti di economia aziendale Nel consumo di caffè, questo tipo di consumer richiede facilità d’uso, una certa attenzione all’estetica, qualità e un’ampia gamma di gusti che consenta di identificarsi con la propria bevanda. Non cerca il made in Italy, ma genericamente un Italian style. Per rispondere efficacemente a queste esigenze, la Nestlé ha strutturato una value proposition coerente in ogni suo elemento. Per quanto riguarda il prodotto, ha optato per la soluzione delle capsule: pratiche, pulite, costanti nella prestazione, in alluminio, materiale con un percepito meno cheap rispetto alla plastica. La vastità della gamma (i gusti sono identificati da un nome e da un rispettivo colore) si pone in un’ottica consumer-centric6. Le macchine sono veri e propri prodotti di design; i punti vendita delle boutique con un coffee specialist; l’esistenza di un club trasmette un’idea di esclusività. All’interno della strategia complessiva, la comunicazione ha saputo fare un sapiente utilizzo del testimonial, George Clooney, che ha permesso di raccontare la sofisticata atmosfera «Nespresso» senza essere chiamato a presentarsi come un improbabile «esperto di caffè». Daniele Montani Consumer-centric: letteralmente «cliente-centrica», strategia di marketing che mette le esigenze del cliente al primo posto 6 46 Fondamenti di economia aziendale Riferimenti bibliografici Mazzei A., Strategia e management della comunicazione d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2015. Mazzola P., Il piano industriale. Progettare e comunicare le strategie d’impresa, EGEA, Milano, 2013. Musso P., Brand reloading.Nuove strategie per comunicare, rappresentare e raccontare la marca, Franco Angeli, Milano, 2011. Pastore A. Vernuccio M., Impresa e comunicazione. Principi e strumenti per il management, Apogeo, Milano, 2008. Pitteri D. Pellegrino A., Advertmarketing: nuove forme di comunicazione d’impresa, Carocci, Roma, 2010. 47 FONDAMENTI di marketing Tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi «Il marketing è conoscere i bisogni dei clienti e offrire loro delle risposte in beni e servizi migliori dei concorrenti e in tempi più brevi» cliente - bisogno - concorrenza fondamentali: l’acquisizione dei clienti e il mantenimento degli stessi. Un cliente decide di acquistare o riacquistare un prodotto quando ritiene di avere una preferenza verso un prodotto/ marca e la sua decisione di acquisto dipende dal valore percepito nell’offerta dell’impresa rispetto ai concorrenti. Il valore percepito dal cliente è rappresentato dalla combinazione di benefici e prestazioni offerte dal prodotto associate alla conoscenza e percezione di tali benefici (comunicazione), alla disponibilità/prossimità fisica e cognitiva nel reperimento e acquisto (distribuzione) e infine al costo/sacrificio da sostenere per l’acquisizione e godimento dei benefici e delle prestazioni (prezzo). Dunque perseguire l’interesse del cliente favorisce l’interesse dell’impresa, il cui obiettivo sarà quello di aumentare i benefici riducendo i costi rispetto ai propri concorrenti e ottenendo così un vantaggio competitivo in termini di incremento di quota di mercato. Ma tutto questo le aziende hanno imparato a capirlo nel corso del tempo. Infatti l’orientamento al marketing è stato preceduto inizialmente dall’orientamento alla produzione, il cui obiettivo era offrire prodotti validi a prezzi onesti mediante il perseguimento delle economie di scala e di esperienza. I consumatori dell’epoca erano interessati ad acquistare prodotti convenienti Secondo alcuni esperti di marketing, una delle prime riflessioni che dovrebbe fare chi lavora in questo settore è chiedersi se sta rispondendo al bisogno del cliente/pubblico, per evitare di imbattersi in quella che Theodore Levitt ha definito “marketing myopia”1 ossia l’eccessiva concentrazione sul prodotto e la scarsa attenzione ai gusti dei consumatori, che cambiano nel tempo. Nella letteratura manageriale il concetto di marketing è stato definito in diversi modi da differenti autori, tuttavia si ritiene attribuire a Philip Kotler, uno dei massimi esponenti del marketing management, la più concisa definizione: «Il marketing è un processo sociale e manageriale grazie al quale una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e desideri creando, offrendo e scambiando prodotti e valori con altri»2 Si tratta di una definizione molto interessante perché, al di là della sua unicità, sottolinea che il marketing è un processo costituito da fasi coerenti e coordinate necessarie all’impresa per accumulare il cosiddetto capitale relazionale, vale a dire l’insieme delle relazioni qualitative e quantitative che l’impresa stabilisce sul mercato con i propri clienti. Ciò dipende da due fattori Levitt T., Marketing Myopia, Harvard business school publishing corporation, Boston, 2008 Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004 1 2 48 Fondamenti di Marketing anziché a soddisfare bisogni specifici. Un limite di questo orientamentopoteva essere la riduzione della capacità dell’impresa di apportare innovazioni capaci di garantire una risposta adeguata alle esigenze della domanda e alle condotte della concorrenza. Con il tempo l’orientamento alla produzione è diventato orientamento alle vendite. L’obiettivo dell’impresa oggi è aumentare al massimo i volumi di vendita dei prodotti offerti sul mercato. Ma poiché i consumatori non sono propensi all’acquisto di maggiori quantitativi di prodotto, per l’impresa inizia a diventare necessario inviare adeguati stimoli ai consumatori. mercato. In particolare l’elemento di passaggio dalla parte analitica alla parte strategica è la segmentazione3, attraverso la quale l’azienda individua il target a cui rivolgere la propria offerta. Alla segmentazione fa seguito il posizionamento4, vale a dire come l’azienda vuole essere riconosciuta dal suo target di riferimento, successivamente si integra un lavoro sul brand in termini di immagine e di reputazione. Subentrano, quindi, obiettivi di natura economica finanziaria legati alla concorrenza. Nella fase di analisi si fa riferimento anzitutto al cosiddetto ambiente di marketing5, vale a dire l’insieme dei protagonisti e delle forze esterne con cui l’impresa deve costantemente confrontarsi e monitorare. Per questo motivo viene suddiviso in micro ambiente (di cui fanno parte stakeholder finanziari, fornitori, stakeholder istituzionali, concorrenti diretti e indiretti, domanda intermedia e finale) e macro ambiente (in cui rientrano politico-istituzionale, fisico, demografico, economico, tecnologico, socio-culturale)6. Il processo di marketing Il processo di marketing viene in genere suddiviso in tre fasi: analitica, strategica e operativa. Tuttavia si è soliti includere la parte analitica in quella strategica. Queste tre fasi permettono di prendere delle decisioni, di fare delle scelte strategiche di Fig.1 - L’ambiente di marketing (macro e micro) 3 Implica l’identificazione di classi di consumatori che fra loro differiscono per ciò che si attendono dal prodotto, o per le loro reazioni verso l’attività di marketing dell’impresa. 4 Consiste nel definire l’offerta dell’impresa al fine di consentirle di occupare una posizione distinta e apprezzata nella mente del consumatore. 5 Espressione che racchiude l’insieme degli attori e delle forze esterne all’impresa e che ne influenzano la capacità di sviluppo e successo dati determinati confini spazio-temporali. 6 Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia), Milano, 2012 49 Fondamenti di Marketing consumatori e fare qualcosa che intervenga sul loro sistema percettivo e motivante. Punto di partenza per l’analisi del comportamento del consumatore è il modello stimolo-risposta8 secondo cui i comportamenti e le decisioni dell’acquirente, quindi la scelta della marca, del prodotto, i tempi di acquisto e il potere di acquisto rappresentano il risultato dell’ elaborazione di ciò che sta dentro la cosiddetta black box del consumatore. Queste decisioni, insieme alle scelte di acquisto del consumatore, possono essere influenzate da diversi fattori: La differenza tra il marketing e la strategia è che il primo si occupa del mercato e quindi delle relazioni di scambio, di vendite, prodotti e consumatori; mentre la strategia riguarda tutto lo sviluppo dell’impresa, e dunque anche la gestione di altri aspetti, come ad esempio in che modo reperire le risorse finanziarie, in quanto tempo si pensa di rientrare con gli investimenti, di quante persone si pensa di aver bisogno per svolgere tutte queste attività. Altra differenza è legata all’orizzonte temporale, in quanto il piano di marketing ha una durata di un anno mentre quello strategico ha una durata media di quattro anni7. • culturali, di cui fanno parte cultura, subcultura, classe sociale • sociali, di cui fanno parte gruppi di riferimento, famiglia, ruolo e status • personali, di cui fanno parte età e ciclo di vita della famiglia, occupazione e situazione economica, stile di vita, personalità e concetto di sé • psicologici, di cui fanno parte motivazione, percezione, apprendimento, opinioni e atteggiamenti. L’analisi della domanda L’analisi della domanda si distingue in quantitativa e qualitativa. Quando si parla di domanda quantitativa s’intende misurare il livello di diffusione del prodotto messo in relazione con la domanda complessiva potenziale. Seguendo un approccio strutturalista andranno ad esaminare nel dettaglio: • domanda attuale e potenziale • quota di mercato • elasticità della domanda • previsione delle vendite si Tra questi diversi aspetti, quello su cui occorre fare un approfondimento è il concetto di motivazione, secondo cui un bisogno diventa un motivo per l’individuo quando ha raggiunto un livello di intensità tale da spingere la persona a ricercare il soddisfacimento del bisogno stesso. In merito si è soliti fare riferimento a Maslow9 e alla sua teoria della motivazione attraverso la quale ha spiegato il perché gli individui hanno diversi bisogni in diversi momenti. Secondo Maslow i bisogni umani sono disposti secondo una gerarchia che va dal più pressante a quello meno urgente. Per cui secondo l’intensità con cui si presentano all’individuo si avranno: i bisogni fisiologici, di sicurezza, sociali, stima e autorealizzazione10. La domanda qualitativa punta invece a descrivere e interpretare il comportamento del consumatore nelle fasi pre e post acquisto. Un modello di comportamento del consumatore Il modello stimolo-risposta Come già detto, scopo fondamentale del marketing è capire i bisogni, le motivazioni dei Bertozzi P., tratto dalla lezione Fondamenti di marketing, Corso di Alta Formazione UPA, Milano, 2016 Dalli D., Romani S., Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing. Franco Angeli, Milano, 2004 9 Maslow A., Psicologo statunitense noto per aver ideato la gerarchia dei bisogni umani. 10 Maslow A. Motivation and Personality, Harper & Row, Publishers, Inc., 1954 7 8 50 Fondamenti di Marketing Fig. 2 - Piramide dei bisogni di Maslow Il marketing strategico Al fine di comprendere il modo in cui i clienti prendono effettivamente le proprie decisioni di acquisto, i responsabili di marketing dovranno identificare e quindi distinguere chi prende e/o influenza la decisione da chi effettua l’acquisto. Ecco allora che nel processo d’acquisto si distinguono diversi soggetti che interpretano dei ruoli specifici: è il processo di marketing incentrato sull’individuazione dei bisogni di individui e/o organizzazioni11. Per perseguire questo obiettivo si distinguono quattro fasi molto importanti. La prima fase è l’analisi di segmentazione, vale a dire la suddivisone dei prodotti-mercati in gruppi di potenziali clienti che hanno caratteristiche di omogeneità al loro interno ma che sono eterogenei tra di loro in termini di approccio alla marca e al prodotto. In merito si distinguono diversi criteri di segmentazione del mercato, che si sono evoluti nel corso del tempo raffinandosi sempre di più, come la segmentazione descrittiva, comportamentale, in base ai benefici ricercati e allo stile di vita. Come proponeva Abell12 un mercato di riferimento si può delineare in base a tre dimensioni: clienti, tecnologie, bisogni o funzioni. Il concetto di prodotto-mercato è conforme a quello di orientamento al mercato e corrisponde • Iniziatore: chi suscita l’idea, vale a dire chi per primo avverte un bisogno e la possibile soluzione dello stesso; • Influenzatore: colui che indirizza, in modo esplicito o meno, le capacità valutative del decisore verso un determinato prodotto e/o marca; • Decisore: chi effettivamente decide il prodotto da acquistare; • Acquirente: chi sostiene i costi relativi all’acquisto; • Utilizzatore: il protagonista del processo di consumo La distinzione dei soggetti finali dipende dal tipo di mercato in cui opera l’azienda, quindi se è in un B2B o in un B2C. Abell Derek F., fondatore e professore presso la scuola europea di management e tecnologia di Berlino. è autore di libri inerenti il marketing strategico, il management e la leadership. Uno dei suoi contributi più significativi è appunto, il modello delle tre dimensioni di business. 11 12 51 Fondamenti di Marketing • i produttori di beni sostitutivi, si tratta di imprese che soddisfano stessi bisogni di mercato utilizzando tecnologie diverse; • concorrenti dormienti, rivolgono la loro offerta a target diversi con tecnologie diverse rispetto l’impresa di riferimento. alla nozione di “unità strategica di business” che aiuta a definire sei aspetti fondamentali per l’implementazione della strategia d’impresa che sono: i clienti da servire, il pacchetto di benefici/attributi da fornire, i concorrenti diretti da superare, le tecnologie sostitutive e i concorrenti da tenere sotto controllo, la capacità di acquisire e infine i principali attori con cui rapportarsi sul mercato13. Segue la seconda fase in cui una volta individuati, i prodotti-mercati rappresentano delle opportunità economiche di cui deve essere misurata l’attrattività qualitativa e quantitativa che dipenderà dalla competitività dell’impresa, vale a dire dalla sua capacità di soddisfare i bisogni dei clienti nel modo più efficiente possibile rispetto ai concorrenti. Esistono diversi tipi di strategie di copertura del mercato come: Dunque il vantaggio competitivo di un’impresa dipende dal potere di mercato acquisito grazie alla strategia di differenziazione e dalla presenza di una differenza di costo rispetto ai concorrenti dovuta a una maggiore produttività e al controllo dei costi stessi. A questo punto si delinea la terza fase del marketing strategico ovvero il posizionamento, inteso come la decisione dell’impresa in merito ai benefici che la marca deve possedere per conquistare una posizione distintiva nella mente del consumatore16. Attraverso il posizionamento si delinea la strategia di differenziazione dell’impresa basata sull’analisi SWOT17 vale a dire l’identificazione dei punti di forza e di debolezza, delle opportunità e delle minacce al fine di elaborare un adeguato piano di marketing. L’ obiettivo finale sarà delineare al meglio l’immagine di marca che l’impresa intende comunicare ai suoi clienti per essere riconosciuta rispetto ai concorrenti. Per raggiungere questo scopo si distinguono tre criteri di strategia di differenziazione: • la strategia di focalizzazione che punta a raggiungere un’ elevata quota di mercato all’interno di una nicchia ristretta; • la copertura totale di mercato • la strategia mista, attraverso la quale l’impresa diversificherà la propria attività in termini di funzioni e/o gruppi clienti14. Al fine di comprendere e valutare la posizione competitiva di un’impresa è opportuno fare riferimento al modello delle cinque forze competitive elaborato da Porter15 che distingue: • i concorrenti diretti, si tratta di aziende che nel confronto registrano un punteggio alto sia nella soddisfazione dei bisogni che nella dotazione tecnologica; • i concorrenti potenziali, che registrano un alto livello di dotazione tecnologica ma non soddisfano gli stessi bisogni dell’azienda in questione; • del prodotto, fare leva sulla performance del prodotto; • di prezzo, per distinguersi dai concorrenti; • dell’immagine, laddove le marche non sono facilmente distinguibili per caratteristiche tangibili. Ciò che ottiene l’impresa dalla differenziazione è 13 Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia), Milano, 2012 14 Bertozzi P., Frammento tratto dalla lezione Fondamenti di marketing, Corso di Alta Formazione UPA, Milano, 2016 15 Porter Michael E., Economista statunitense, è uno dei maggiori contribuenti della teoria della strategia manageriale. 16 Lambin Jean J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia), Milano, 2012 17 E’ uno strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), debolezza (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto o in un’impresa per il raggiungimento di un obiettivo. 52 Fondamenti di Marketing il cosiddetto potere di mercato18, cioè la capacità di poter imporre un prezzo superiore rispetto a quello dei concorrenti diretti. Questo dipende però dall’elasticità del prezzo della domanda dell’impresa per il prodotto differenziato. Per cui in sostanza il potere di mercato è legato alla capacità dell’impresa di generare preferenza, fedeltà del cliente e bassa sensibilità al prezzo19. di adottare un prezzo di scrematura20 che consiste nel fissare un prezzo elevato nella fase di introduzione del ciclo di vita del prodotto che via via diminuirà al passaggio alle altre fasi. L’idea di fissare un prezzo alto nella fase iniziale potrebbe essere legata al voler dare al prodotto un’aurea di esclusività che, se percepita dal potenziale cliente, permette a quest’ultimo di sottolineare la sua condizione economica e sociale. In caso contrario l’azienda può decidere di entrare nel mercato con un prezzo di penetrazione21 che consiste nel fissare un prezzo basso iniziale al fine di stimolare i potenziali acquirenti all’acquisto raggiungendo così un elevato vantaggio competitivo. Il marketing operativo Il marketing operativo è invece orientato all’azione e la sua efficacia si estende in un asse temporale di breve-medio termine indirizzandosi a mercati/segmenti già esistenti. Qui l’obiettivo è prettamente commerciale, poiché verte sul raggiungimento di una quota di mercato attraverso l’utilizzo delle variabili legate al marketing mix (product, people, price, promotion, place). Ogni prodotto deve possedere un prezzo accettabile dal mercato di riferimento, essere disponibile in circuiti di distribuzione adeguati alle abitudini di acquisto del target di riferimento e infine essere sostenuto da un’attività di comunicazione che lo renda noto e lo valorizzi. Un brand per il cliente ricopre diverse funzioni in quanto lo orienta nelle sue scelte ed è sinonimo di identificazione, garanzia e personalizzazione. Dal punto di vista dell’impresa il brand ha una funzione di posizionamento, comunicazione e capitalizzazione. Quando si parla di politica dei prezzi è opportuno tenere presente due concetti: differenziazione, vale a dire stabilire prezzi diversi per prodotti diversi e discriminazione, quando il differenziale di prezzo tra un prodotto e un altro venduto a due consumatori diversi non è giustificato da una diversa struttura dei costi e pertanto si dovrà convincere ciascuno a pagare il proprio prezzo. Nel momento in cui l’impresa decide di lanciare sul mercato un nuovo prodotto può stabilire F OC U S La quota di mercato di un’impresa esprime in termini percentuali le vendite della marca “x” del prodotto “y” rispetto al totale delle vendite del prodotto “y” definiti determinati confini spaziotemporali. è rappresentabile mediante il prodotto tra: la copertura ponderata e la penetrazione. L’indice di copertura ponderata permette una valutazione qualitativa della presenza dei prodotti aziendali in punti vendita ad alta quota di mercato. Si potranno così rapportare le vendite dei punti vendita della marca “x” del prodotto “y” rispetto alle vendite totali dei punti vendita in cui sono presenti i prodotti “y”. La penetrazione invece aiuta a definire il rapporto fra le vendite della marca “x” del prodotto “y”, in quei punti vendita in cui la marca “x” è presente, rispetto alle vendite totali di prodotti “y” (di tutte le altre marche) nei punti vendita in cui la marca “x” è presente. Risulterà evidente che maggiore è la rilevanza dei punti vendita in cui l’impresa è presente, maggiore è la penetrazione in tali punti vendita, più alta sarà la quota di mercato dell’impresa stessa. Veronica Fanello La possibilità dell’impresa di praticare prezzi di vendita superiori rispetto ai concorrenti. Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004 20 L’azienda decide di applicare una strategia di scrematura quando vuole praticare un prezzo elevato al fine di garantirsi un ritorno dell’investimento consistente e nel breve tempo. 21 La strategia di penetrazione consiste nell’applicare prezzi bassi al fine di raggiungere un’ elevata quota di mercato fin da subito. La si adotta quando l’azienda presuppone che gli acquirenti siano sensibili al prezzo di vendita 18 19 53 Fondamenti di Marketing Riferimenti bibliografici Dalli D., Romani S., Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing. Franco Angeli, Milano, 2004. Kotler P., Marketing Management, Pearson Education Italia, Milano, 2004. Lambin J.J., Market-driven management. Marketing strategico e operativo, McGraw-Hill (Publishing group Italia), Milano, 2012. Levitt T., Marketing Myopia, Harvard business school publishing corporation, Boston, 2008. Maslow A., Motivation and Personality, Harper & Row Publishers Inc, 1954. 54 IL PROCESSO DEL TRADE MARKETING Tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi «È fondamentale che le idee, i progetti e le innovazioni riescano ad arrivare ai destinatari finali; e per arrivarci spesso devono attraversare la “foresta” dei canali che oggi è sempre più complicata e articolata, sia canali fisici che canali virtuali.» STORE LOYALTY - MULTICANALITÀ - TRADE POSITIONING Definizione e rilevanza del trade marketing format1 e forme di impresa eterogenei. Tale processo di concentrazione e di differenziazione ha mutato i rapporti di forza tra produttori e distributori, riducendo le asimmetrie in termini di dimensioni e di competenze: all’epoca della distribuzione artigianale, il singolo negozio non aveva alcun tipo di potere negoziale di fronte al produttore e, pertanto, quest’ultimo poteva gestire la distribuzione come una semplice leva; oggi si assiste, da un lato, ad un aumento del rischio commerciale del produttore (che in caso di cessazione dei rapporti con un grande player della distribuzione rischia di andare incontro ad una consistente perdita di fatturato), dall’altro, la relazione tra produttori e retailer è aumentata in termini di qualità e contenuti. Anche il ruolo della distribuzione è cambiato: i grandi player del mondo retail si sono via via appropriati di funzioni tipiche dei produttori (come il marketing, la ricerca e lo sviluppo) e si sono fatti interpreti dei bisogni funzionali ed emozionali dei consumatori (si è diffuso il concetto di “shopping esperienziale”). Seguendo processi imitativi, i retailer hanno inoltre sviluppato marche commerciali facendo branding con il marchio insegna. Si è così giunti alla contrapposizione tra la fidelizzazione alla marca (brand loyalty2) e Si può arrivare a una definizione di trade marketing per analogia con il (consumer) marketing: se quest’ultimo è il processo finalizzato alla comprensione e alla soddisfazione dei bisogni dei clienti finali (vale a dire dei consumatori), il primo si differenzia per la tipologia dei clienti, che in questo caso sono quelli intermedi tra i produttori e i consumatori, ossia i distributori (sia all’ingrosso che al dettaglio). Si tratta perciò dell’insieme di strategie e piani che riguardano la leva “place” del processo di marketing e dunque della comprensione di bisogni, criteri di valutazione e preferenze dei distributori, al fine di offrire prodotti e servizi migliori rispetto a quelli dei competitor. Per i produttori, il trade marketing riveste un ruolo sempre più centrale, a seguito dei nuovi trend che sono andati a consolidarsi nel corso degli ultimi decenni. In primis, si è assistito ad una trasformazione strutturale dei canali distributivi: la distribuzione artigianale, costituita da imprese monofamiliari connotate da un unico modello di servizio (la vendita assistita), ha perso rilevanza a vantaggio di retailer di dimensioni sempre maggiori, che adottano Format: mix di servizi offerto da un retailer, che include l’assortimento. Quest’ultimo può variare, sia in ampiezza (numero di categorie), che in profondità (numero di varianti all’interno di una categoria). 2 Brand loyalty: fedeltà di marca. Tendenza del consumatore a acquistare sempre la stessa marca all’interno di una data classe di prodotto. 1 55 Il processo del trade marketing la fidelizzazioneal punto vendita (storeloyalty3). produttori hanno perso parte del loro controllo su leve fondamentali e sono stati costretti a trattare su un piano di parità con i grandi player del retail. Uno dei campi di battaglia è quello relativo alla space allocation5. Da un lato, c’è l’industria che punta a posizionarsi sugli scaffali meglio dei competitor, in qualità e in quantità. Dall’altro, i retailer cercano (anche attraverso software di space allocation) di trovare la mediazione ideale tra gli obiettivi di marginalità e i costi di rotazione, andando poi a collocare i prodotti a più alta marginalità nelle posizioni più qualitative (altezza occhi e mani, espositori etc.). Alla luce della grande rilevanza conquistata dal mondo retail e della sempre maggiore eterogeneità dei canali distributivi (che diventano veri e propri strumenti di segmentazione), i produttori devono necessariamente adottare adeguate strategie commerciali di trade marketing. Il processo di trade marketing si compone di 3 fasi: trade marketing audit; strategia di trade marketing e piano di trade marketing. F OC U S Un caso di studio: Esselunga contro Barilla. Negli anni ’80, trovandosi a competere con la nuova categoria degli iper-mercati, molto competitiva a livello di pricing, Esselunga (che operava nella categoria dei supermercati) decise di ridurre il prezzo dei prodotti Barilla. In questo modo, ha violato un tacito accordo che prevedeva, per i vari format distributivi, prezzi allineati sui principali marchi. Sotto la pressione dei supermercati competitor di Esselunga, la Barilla cercò di convincere quest’ultima ad alzare nuovamente i prezzi. La decisione di Esselunga fu invece quella di escludere i prodotti Barilla dai propri scaffali e di comunicare ai propri consumatori l’intenzione di Barilla di imporre un rialzo dei prezzi. Il braccio di ferro si risolse, infine, con la vittoria di Esselunga, che poté nuovamente distribuire i prodotti Barilla ai prezzi degli iper. Fase 1: trade marketing audit Parallelamente, è aumentata l’efficacia del punto vendita come canale di comunicazione rispetto ai media tradizionali utilizzati dai produttori. Oltretutto, la comunicazione dal punto di vista dei retailer è bidirezionale: i retailer possono comunicare ai consumatori ma anche raccogliere velocemente ed efficacemente i feedback provenienti da questi ultimi. Questo vantaggio, unitamente alla possibilità di mostrare l’intera gamma (esigenza particolarmente sentita dalle “marche concept”4), ha spinto molti produttori a divenire al contempo distributori, aprendo negozi monomarca. In questo nuovo contesto, il trade muta le sue condotte, arrivando a gestire autonomamente (o a co-gestire con il produttore) le politiche commerciali: prezzi, assortimenti, promozioni, spazi espositivi. Di conseguenza, i La prima fase del processo di trade marketing consiste nell’analisi dei differenti canali, in termini di: dimensione, livello di integrazione verticale, livello di competizione tra i canali e quota di mercato canalizzata. Per quanto concerne la forma aziendale, si distinguono tre livelli gerarchici: centrale, centri di distribuzione e singoli punti vendita. I singoli player possono essere strutturati diversamente rispetto a questi tre livelli. Nel caso della grande distribuzione, la sede centrale accentra le principali funzioni (marketing, acquisti, finanza etc.) ed è proprietaria dei centri di distribuzione e dei punti vendita. La cosiddetta distribuzione organizzata è sorta invece come reazione allo “stra-potere” della grande distribuzione: i punti vendita si sono Store loyalty: fedeltà all’insegna. La tendenza del consumatore a effettuare i suoi acquisti presso uno specifico distributore. 4 Marca concept: evoluzione della marca prodotto. Il brand va a coprire categorie merceologiche diverse rispetto a quella originale. 5 Space allocation: allocazione (dei prodotti) nello spazio. Si intende l’ottimizzazione degli spazi a scaffale. 3 56 Il processo del trade marketing Per farlo, si parte dal fatturato realizzato attraverso il cliente. Si arriva al margine lordo, sottraendo al fatturato i resi, gli sconti in fattura, i premi di fine anno e i costi standard di produzione. Successivamente, sottraendo al margine lordo le promozioni centralizzate e periferiche, si calcola il margine netto. Infine, sottraendo al margine netto le provvigioni e gli incentivi per gli agenti, i costi relativi all’organizzazione di vendita, i costi finanziari e quelli di distribuzione, si arriva alla contribuzione del singolo cliente. Per considerare simultaneamente gli elementi chiave nella relazione con i singoli clienti, Dickson propone un modello di mappatura che considera, in ascissa, la quota di vendita della marca sul totale portafoglio delle marche e, in ordinata, il tasso reale di crescita delle vendite del cliente. I singoli clienti mappati sono poi rappresentati attraverso un grafico a torta (la cui dimensione indica il livello di fatturato) che considera le varie voci di costo e i margini di contribuzione. Attraverso il modello, il produttore può ricavare preziose informazioni riguardanti le azioni da intraprendere per ottimizzare la relazione con i vari clienti (es.: ridurre i costi per aumentare la marginalità, oppure intraprendere politiche che portino ad una crescita della quota di vendita della marca sul totale del portafoglio). raggruppati in consorzi di acquisto, dotandosi di magazzini e arrivando infine a creare una sede centrale (è il caso di Conad). Anche i grossisti (che corrispondono al livello dei centri di distribuzione) hanno dovuto adottare strategie per non essere tagliati fuori dal mercato, creando unioni volontarie e arrivando ad aprire i propri punti vendita (ne è esempio Selex). C’è infine il caso di Coop: la cooperativa dei consumatori che, a causa della proprietà estremamente frazionata, segue prevalentemente le logiche centralizzatrici della grande distribuzione, pur sempre mantenendo centri di potere a livello regionale. La tipologia di struttura verticale del singolo distributore (gestione centralizzata vs diffusa) condiziona le modalità con le quali il produttore deve interfacciarsi con esso. In considerazione delle performance e delle condotte dei singoli retailer, i produttori possono arrivare ad una “mappatura” dei retailer, ad esempio, rispetto: al livello di internazionalizzazione/modernizzazione del trade vs il livello di pressione promozionale; ai ritardi medi di pagamento vs i tempi di pagamento stabiliti da contratto o alla redditività del retailer vs la qualità delle relazioni con lo stesso. È essenziale per il produttore arrivare a definire una contabilità analitica per cliente, in grado di indicare la contribuzione di ogni singolo cliente. Fig. 1 - Il modello di Dickson 57 Il processo del trade marketing Fase 2: strategia di trade marketing concept, le possibilità di controllo del canale (assortimento, prezzi etc.)e i ricavi di sistema (le entry fee8 dei franchising) e diretti di vendita. Alla fase strategica appartiene anche la definizione degli obiettivi di trade positioning: a partire dall’analisi di segmentazione del trade, vengono individuati i criteri di valutazione più rilevanti e l’attuale posizionamento del cliente rispetto ai competitor, per arrivare infine all’identificazione degli obiettivi di ri-posizionamento. Gli insight emersi durante la fase di audit permettono di realizzare una trade segmentation che guida le scelte delle aziende per quanto riguarda le definizione delle strategie distributive e delle politiche distributive nei canali serviti. Una delle questioni chiave da affrontare è quella relativa alla multicanalità, vale a dire, la decisione di arrivare al mercato attraverso format differenziati anziché focalizzarsi su una distribuzione selettiva o esclusiva. Tale scelta porta, da un lato, dei benefici (si riduce il rischio di dipendere dall’andamento di un solo canale, si attua una pre-emptive strategy6) e, dall’altro lato, degli svantaggi (costi legati agli specifici servizi da fornire ai diversi canali, rischio di comportamenti di free-ridership7 dei consumatori). Nella gestione della multicanalità le aziende possono differenziare in base al canale, per quanto riguarda: le condizioni di vendita, il livello dei servizi e dei servizi abbinati (assicurazione, garanzia), il portafoglio dei prodotti etc. Si può persino arrivare a sviluppare differenti prodotti per i vari canali. D’altro canto, molti produttori hanno optato per l’integrazione a valle, aprendo negozi propri o in franchising. Tale soluzione offre benefici per quanto riguarda la comunicazione dei brand Fase 3: piano di trade marketing Il piano di trade marketing include obiettivi strategici (che riguardano il trade positioning, i criteri di valutazione e le condotte del trade) e obiettivi operativi (che riguardano l’aumento delle quote di mercato e dei fatturati e le attività di promo-comunicazione per raggiungere i consumatori finali). Le leve da attivare possono riguardare: le condizioni di vendita (prezzi, sconti, termini di pagamento); le promozioni al trade (omaggi, premi); le attività di co-marketing (pubblicità, sales promotion, in-store marketing9); l’assistenza e la forza vendita; la formazione al trade e la logistica (modalità, tempi e frequenza di consegna). Daniele Montani Pre-emptive strategy: strategia preventiva attraverso la quale i produttori presidiano un canale per ridurre gli spazi di entrata dei competitor, anticipando questi ultimi. 7 Free-ridership: comportamenti opportunistici del consumatore che, avendo a disposizione lo stesso prodotto in differenti canali, raccoglie informazioni all’interno dei canali che offrono una migliore assistenza e poi compie l’acquisto all’interno di canali in cui invece si punta su prezzi inferiori. Si genera così una conflittualità tra i canali. 8 Entry fee: tariffe di entrata. Sono i costi che chi apre un franchising deve versare al detentore del marchio. 9 In-Store marketing: sono le attività di marketing all’interno del punto vendita. Includono stand dedicati, distribuzione di materiale informativo sul prodotto o del prodotto stesso, dimostrazioni (demo) e promozioni con buoni sconto o gadget. 6 58 Il processo del trade marketing Riferimenti bibliografici Fornari D., Trade marketing. Relazioni di filiera e strategie commerciali, Egea, Milano, 2009. Foglio A., Vendere alla grande distribuzione. La strategia di vendita e di trade marketing, Franco Angeli, Milano, 2014. Castaldo S., Retail & channel management, Egea, Milano, 2008. 59 MARKETING DELLE IMPRESE CULTURALI E CREATIVE Tratto dalla lezione di Roberto Grandi «Come il protagonista di Uno, nessuno e centomila, le città sentono che la rappresentazione che hanno di sé non è quella che hanno tutti gli altri, perciò cercano di essere uno e centomila, ma non nessuno.» CITY BRANDING - RIGENERAZIONE URBANA - EVENTO Bologna e il city branding e diventano dirette concorrenti delle grandi mete vacanziere. C’erano una volta le “città hub 1 ”: snodi frequentatissimi, essenziali centri di passaggio per tantissimi turisti e businessmen, che i gestori delle imprese turistiche locali guardavano arrivare e ripartire con placida rassegnazione. Ed ecco che invece le città hub non esistono più; o meglio, si reinventano. (Ri)scoprono la loro natura turistica e la loro capacità attrattiva Si tratta di città come Bergamo, Bologna, Francoforte, che non rinunciano alla loro attività di perno centrale per i traffici di passeggeri nella loro regione, ma che vogliono essere co-protagoniste di un business, quello turistico, che oggi vale enormi quantità di denaro. Bologna, in particolare, è stata recentemente Fig. 1 - Bologna, non solo punto di passaggio ma anche città ricca di cultura e storia. “Hub” è un termine inglese che letteralmente indica un fulcro, un perno. Una “città hub” è una città in cui i traffici, non solo turistici ma anche di business, di quella regione geografica convergono e subito ripartono, poiché non è la destinazione finale di chi vi approda. 1 60 Marketing delle imprese culturali e creative oggetto di un rebranding coordinato dal Professor Roberto Grandi, docente presso l’Università felsinea; con tale rebranding si è scelto di procedere alla valorizzazione della città puntando proprio sulla sua caratteristica di perno, snodo centrale di un’Italia che da sempre è apprezzatissima meta turistica. Bologna, infatti, ha il quinto aeroporto più trafficato del nostro Paese, con numeri in forte crescita, oltre a un polo universitario fra i più rinomati del mondo. Eppure, tanti fra i turisti che atterrano nella città emiliana non spendono poi qualche giorno delle loro vacanze proprio nel luogo che li ha inizialmente accolti e si dirigono subito verso mete internazionalmente più conosciute. da cui partire per raggiungere in pochissime ore, grazie ai collegamenti ferroviari, luoghi di grande interesse quali Milano, Venezia, Roma, Verona, Firenze, ma anche la più vicina “Motor Valley”, meta immancabile per gli appassionati di Ferrari, Ducati e Lamborghini. Senza ovviamente dimenticare ciò che Bologna stessa può offrire: architettura, monumenti, arte, un invidiatissimo patrimonio alimentare, spazi verdi… Punto centrale del city branding2 di Bologna è stata la creazione del logo della città: attraverso un concorso lanciato a livello internazionale, il team del Professor Grandi ha selezionato il progetto3 di Matteo Bartoli e Michele Pastore, i quali non si sono limitati a proporre un’unica forma grafica, ma hanno creato un intero alfabeto visivo a partire da una delle attrattive maggiori del capoluogo emiliano: la sua storia millenaria raccontata attraverso i monumenti e i simboli in essi contenuti (il racconto della creazione del logo è contenuto nella Tedx Talk bolognese del Professor Grandi). Che significa, quindi, sfruttare il proprio essere una città hub? Non significa cercare di “sottrarre” turisti alle altre città italiane per trattenerli nel proprio territorio; al contrario, significa incoraggiare gli ospiti a visitare altre mete ma invitarli a farlo utilizzando Bologna come punto d’appoggio, centralissima “casa base” Fig. 2 - Alcune delle infinite combinazioni create a partire dal nuovo logo bolognese. Si tratta di un processo comunicativo volto a migliorare la percezione e la reputazione di una città, che vuole proporsi come luogo di valore per turisti, cittadini e potenziali nuovi abitanti. Si differenzia dal city marketing, che invece vuole proporre il territorio come risorsa per i potenziali investitori e quindi ottimizzare il rapporto fra essi e la città. 3 http://ebologna.it/ 2 61 Marketing delle imprese culturali e creative In un Paese in cui il turismo è (o dovrebbe essere) fondamentale, un’attività come il city branding può e deve diventare indispensabile. È addirittura un passo avanti rispetto al “semplice” city marketing: laddove il primo è rivolto essenzialmente a figure esterne alla cittadinanza, il city branding tiene conto anche di coloro che il territorio lo vivono. E vivendolo – in una città ideale questa sarebbe una naturale conseguenza, ma si sa, nessuno è perfetto – possono diventarne i primi fan, se non addirittura i primi attivi sostenitori. contrario, diventano metro di distinzione fra un territorio e l’altro. Ecco quindi l’obiettivo del city branding: comunicare tutto il valore che la città in questione ha agli occhi dei suoi “fruitori primari”: i cittadini. Sul versante non opposto, bensì complementare, opera il city marketing, strumento per ottimizzare le relazioni fra il territorio stesso e i potenziali investitori, che in questo territorio devono vedere una risorsa. Il Festivaletteratura, nato nel 1997 dall’idea di otto cittadini mantovani, è un evento di cinque giornate in cui scrittori, poeti, scienziati e artisti di vario genere e soprattutto semplici appassionati o curiosi si incontrano nella città lombarda per “celebrare” la letteratura e l’arte con laboratori, spettacoli e appuntamenti con gli autori. La forza del Festival, che ha saputo donare alla città un’attrattiva nuova, è senza dubbio il numero cospicuo di volontari, soprattutto i più giovani, che propagano l’entusiasmo per un appuntamento che si trasforma anche in una grande occasione turistica. In questa fantomatica “gara” fra città, non è solo l’idea a vincere: è anche la sua realizzazione, la forza insita nel modo in cui viene proposta; esempi di idee italiane vincenti in tempi recenti sono state il Festivaletteratura4 di Mantova e il Mart5 di Rovereto (Trento). F OC U S Il mercato in cui la città si mette in gioco è presto definito: dal lato dell’offerta, la città stessa, il valore aggiunto che può dare a chi investe, economicamente e idealmente, su di essa, i servizi che propone, le sue imprese, tese a migliorare per aumentare la propria competitività; dal lato della domanda, i turisti, gli investitori esterni, coloro che potrebbero trasferirvisi, ma anche le stesse imprese locali e i cittadini, che ovviamente usufruiscono dei servizi della città. Di tali ser vizi godono anche i city user (i pendolari, ad esempio), senza però pagarli; di conseguenza, all’aumentare dei city user per un’amministrazione locale crescono le spese e diminuisce il reddito. Un Rinascimento urbano: la rigenerazione delle città Nel corso degli anni Ottanta, iniziò a diffondersi un nuovo modo di pensare le città: non più semplici agglomerati urbani da amministrare nella miglior maniera possibile, bensì generatori e portatori di cultura, considerata da un punto di vista più antropologico, legato a stili di vita, usi e tradizioni delle popolazioni. E se le città possono generare cultura, questa cultura può essere sfruttata per generare flussi di denaro; si può cioè puntare sulle imprese culturali per produrre risultati economicamente Naturalmente, nel momento in cui diverse città competono per attirare domanda, le infrastrutture a disposizione sono fondamentali: se tutti i centri hanno ottime infrastrutture, la competizione si giocherà su altri campi; in caso 4 5 http://www.festivaletteratura.it/it http://www.mart.tn.it/default.jsp 62 Marketing delle imprese culturali e creative positivi per la città: in due parole, cultural economy6. In questo modo alcune città che prima godevano di ben poca attrattiva turistica hanno potuto subire un processo di rigenerazione ad opera proprio delle imprese culturali, ad esempio attraverso il riutilizzo di certi edifici rimasti inutilizzati, segnando il passaggio dall’industria tradizionale a quella culturale. centro che nessuno avrebbe mai indicato come significativo per il mondo della moda a una città che è riuscita ad emergere e a portare quindi capitale umano ed economico al proprio interno? Nel momento in cui Anversa ha consapevolmente scelto la strada del fashion per ritagliarsi il suo spazio, ha ritenuto poco opportuno creare eventi ad hoc; non solo sarebbe stato difficile costruirne ex nihilo, ma persino complicato competere con eventi esistenti e affermati da decenni come quelli parigini, milanesi o newyorkesi. Anversa ha così creato, a partire da un capitale umano che già esisteva, una rete di scuole e atelier, riuscendo a diventare un punto di riferimento nel settore anche e soprattutto a livello internazionale. Uno degli esempi più clamorosi è Glasgow: quarant’anni fa la città scozzese era distinta quasi esclusivamente da attributi negativi: povertà, violenza, alcolismo erano i tratti tipici con cui veniva dipinto un luogo che oggi cerca di essere diverso. Negli anni Ottanta, gli spazi urbani sono stati rigenerati e la città ha iniziato a proporsi al mondo come un centro culturale, in particolare artistico e musicale, di notevole valore. Nel solo 2014, Glasgow ha visto aumentare il flusso turistico del 37%. Infine, è significativo citare l’esempio della città basca di Bilbao, passata da importante centro economico ottocentesco a città grigia e deindustrializzata, trascinata nel bel mezzo della violenta lotta nazionalista e separatista dell’ETA. Per riqualificarla, nel 1991 è stata fondata l’Associazione Bilbao Metropoli, che si è occupata della ristrutturazione della città e del recupero degli edifici abbandonati. Non solo: i responsabili del progetto hanno capito che serviva un’idea che attirasse l’attenzione sulla città e sui lavori che vi erano stati compiuti. È nato così il museo Guggenheim di Bilbao, che insieme ad un’accurata city marketing strategy ha portato alla rinascita della città. I problemi sociali, che ovviamente non sono scomparsi in un batter d’occhio, vengono combattuti con una strategia di sviluppo che prevede eventi culturali di fascino internazionale, ma anche una rinascita che coinvolge l’architettura stessa del territorio. L’esempio più noto ed eclatante è quello del quartiere Red Road, fondato negli anni Sessanta e presto divenuto centro delle preoccupazioni dell’amministrazione locale in quanto scenario di violenze quotidiane: nell’ottobre del 2015 è stata completata la demolizione dei tipici palazzoni rossi che componevano il quartiere, azione non solo concretamente utile all’estetica cittadina ma anche simbolica, proprio per ciò che quelle costruzioni rappresentavano. Accanto alla rigenerazione, dunque, il marketing ha sempre un posto d’onore: è il mezzo attraverso cui la città e il territorio si promuovono, pronti a trasformare poi i loro potenziali “clienti” e l’accoglienza in ricchezza. Glasgow non è, naturalmente, l’unico esempio di rigenerazione urbana: Anversa, in Belgio, è diventata una delle fashion city più importanti d’Europa. Come è avvenuto il passaggio da un Si tratta di una concezione per la quale la cultura e l’economia sono strettamente connesse, in quanto le istituzioni economiche possono essere considerate in una dimensione culturale e le imprese culturali possono generare ritorni economici. 6 63 Marketing delle imprese culturali e creative Fig. 3 - Il Museo Guggenheim di Bilbao, simbolo della rigenerazione della città spagnola. Il risveglio degli enti locali Il legame tra cultura e territorio è terribilmente difficile da spezzare. Negli ultimi anni si è assistito a una sorta di “presa di coscienza” da parte degli enti locali per quanto riguarda la loro funzione di promozione e valorizzazione del territorio, specialmente in relazione a questioni legate alla cultura. Sembrerebbe scontato che siano le amministrazioni del luogo a dover gestire le attività culturali, eppure paradossalmente questa funzione veniva delegata, magari perché considerata meno importante rispetto a faccende puramente economiche o amministrative. Come se fosse ancora possibile pensare che la cultura non porti vantaggi in termini monetari. L’ente locale, quindi, ha dalla sua la componente della vicinanza al territorio e alla sua cultura, di conseguenza li conosce indubbiamente meglio di chiunque altro ed è in grado (o dovrebbe esserlo) di adattarvi le sue attività in maniera efficace. L’ente locale ha il vantaggio fondamentale di conoscere anche la componente intangibile del luogo in cui opera, ossia la sua “anima”, il sistema di valori riconosciuto dai suoi abitanti, le loro tradizioni… Al contrario, un’amministrazione esterna potrebbe conoscerne solo le componenti tangibili: la sua posizione geografica e le sue caratteristiche morfologiche. L’importanza degli enti locali nel lavoro di gestione delle varie attività e organizzazioni culturali è presto spiegata: tali eventi e associazioni riflettono la loro opera sul territorio stesso, fungono da collante sociale per chi quel territorio lo vive e ne gestiscono il capitale simbolico, poiché la cultura di un luogo, nelle parole del Professor Grandi, «costituisce le fondamenta dell’identità della popolazione, del suo modo di essere e concepirsi»7. Negli ultimi decenni, gli enti locali hanno saputo cogliere l’aumento della rilevanza rivestita dagli eventi e da quello che viene definito marketing esperienziale8, ovvero l’importanza di mettere sul piatto della bilancia che misura l’offerta e la disponibilità all’acquisto anche l’esperienza emozionale che da tale acquisto deriverebbe. E chi può vendere emozionalità meglio di un evento? La citazione è tratta dalla lezione del Prof. Grandi. È un tipo di marketing basato, più che sul valore in sé dei prodotti, sul valore che l’esperienza di acquisto e consumo di essi riveste agli occhi del cliente. 7 8 64 Marketing delle imprese culturali e creative Un evento, definibile come una manifestazione complessa di un certo rilievo (anche solo relativamente a un ambito locale) promossa da un’organizzazione privata o pubblica, ha tre caratteristiche fondamentali: è temporalmente circoscritto, anche quando ciclicamente torna a svolgersi; avviene in un luogo ben prestabilito in un momento altrettanto prestabilito; possiede una sua ritualità (specialmente se ripetuto nel tempo) che impone comportamenti di carattere inclusivo per chi vi partecipa e lo differenzia dagli altri eventi, anche se molto simili. web compreso, è l’indiscutibile protagonista dell’evento perché lo rende tale e vi apporta la sua dimensione emotiva, passionale, affettiva, di condivisione. Proprio l’importanza di questa dimensione di emozionalità fa dell’evento uno strumento perfetto di marketing esperienziale e relazionale: non contano tanto le caratteristiche oggettive dell’evento, ma la percezione che chi vi partecipa ha dell’esperienza totale. Esperienza che nasce già nel momento in cui inizia il contatto con l’evento e cresce l’attesa di parteciparvi e che prosegue anche nei giorni seguenti, non solo nel ricordo, ma anche attraverso il contatto concreto che l’ente organizzatore dovrà mantenere con il pubblico. Inoltre, un evento ha sempre una funzione comunicativa: non è mai fine a se stesso ma persegue obiettivi più ampi; nel caso di una città, l’obiettivo può essere quello di attirare l’attenzione sul singolo prodotto (un museo, un monumento, la stessa rigenerazione urbana, che siano da lanciare o riposizionare) o su chi lo promuove. Per questo motivo, nel programmarlo bisogna prevedere e pianificare i livelli di visibilità mediatica cui sarà soggetto, considerando anche alcune caratteristiche intrinseche dell’evento stesso (gli eventi culturali o sportivi, ad esempio, sono per loro natura più soggetti a visibilità). Gli eventi sono naturalmente solo un esempio di come una città può portare avanti iniziative di marketing. Marketing che oggi si configura come necessario all’interno di uno scenario che vede il movimento di grandi flussi turistici ma allo stesso tempo un bisogno costante di alimentare e, perché no, aumentare tali flussi, soprattutto considerando l’agguerrita competitività fra le città. Il prodotto-città, sulla scia del marketing esperienziale e relazionale di cui sopra, deve proporsi come una realtà capace di coinvolgere fortemente la dimensione emotiva di chi la vive e di chi entra in contatto con essa. Tuttavia, non bisogna perdere di vista la componente umana dell’evento, legata alla sua funzione aggregante e relazionale: il pubblico, che partecipi direttamente all’evento o che vi entri in relazione attraverso i media, Chiara Terranova 65 Marketing delle imprese culturali e creative Riferimenti bibliografici Dinnie K. (a cura di), City Branding: Theory and Cases,PalgraveMacmillan, Londra, 2010. Grandi R., Prospero A. (a cura di), èBologna. Progetto City Branding, Urban Center, Bologna, 2015. Ferrari S., Event marketing. I grandi eventi e gli eventi speciali come strumenti di marketing, Cedam, Padova, 2012. Marinelli G., Argano L., Dalla Sega P., Gli eventi culturali. Ideazione, progettazione, marketing, comunicazione, Franco Angeli, Milano, 2005. 66 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing Tratto dalla lezion di Leonardo Bellini «In termini di strategia mobile, un errore da evitare è quello di provare a fare tutto. Tutto significa niente.» digital marketing - APP - business model Lo scenario mobile La penetrazione globale relativa alle reti social da piattaforme mobili da parte dei mobileusers si attesta al 51% della popolazione mondiale, con un correlato tasso di crescita del 17% nel solo 2016, un ritmo notevolmente più alto del tasso di partecipazione al mondo dei social in generale2. Ad oggi, nell’ambito della stessa popolazione mondiale iscritta sui social network (31%), il 27% ne fa uso accedendo da strumenti diversi da laptop o desktop. Lo smartphone – coinvolto in un progressivo fenomeno di “phableting”3- è il protagonista della fruizione mobile, poiché erode la quota di accesso alle risorse web dal tablet. In termini di strategia aziendale, conoscere le dinamiche sottostanti al processo di digitalizzazione degli stili di vita e del mercato è un requisito essenziale per delineare strategicamente modalità di presenza nel panorama mobile che minimizzino i costi e le risorse impiegate nell’operazione, massimizzando i benefici dell’inserirsi nella quotidianità del consumatore e dilatando, facilitandone, l’esperienza di consumo. Dal punto di vista della strategia aziendale, l’avanzare dell’era digitale si traduce nella possibilità di estensione delle operazioni di marketing alla piattaforma mobile, la cui fruizione ha mostrato, nell’ultimo decennio in particolare, tendenze interessanti in termini di diffusione. Il fenomeno, se opportunamente analizzato e declinato in una strategia adeguata alle caratteristiche e agli obiettivi specifici dell’azienda, offre alle imprese una preziosa opportunità di consolidamento della brand awareness1, accrescendo i margini potenziali e attuali di profitto, sia per il b2b che, in particolare, per il b2c. L’universo della network society, termine che descrive la nuova dimensione digitale e sociale con cui si interfaccia l’azienda del nuovo millennio, ingloba in sé i concetti di mobile e di continua presenza sulle piattaforme social. Le più recenti analisi statistiche tratteggiano uno scenario perfettamente coerente con le previsioni. Brand awareness: È un concetto di marketing legato alla riconoscibilità del marchio,che serve a misurare il grado di conoscenza del brand presso i consumatori. La conoscenza e riconoscibilità del brand si compone di due caratteri: un aspetto quantitativo (la notorietà) e un aspetto qualitativo (l’immagine e la percezione). Il suo impatto sulle decisioni di acquisto e di affiliazione del consumatore al brand è fondamentale. 2 Dati di We are Social, January 2016. 3 Phablet: è una parola composta da “phone” e “tablet” per indicare una particolare categoria di smartphone che assumono le dimensioni tipiche di un mini-tablet 1 67 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing È opportuno concentrarsi sulle modalità di approccio dell’utente all’universo mobile, e analizzarle sotto molteplici punti di vista. Oltre che comprendere la tipologia di devices a cui la navigazione mobile è affidata, una strategia di mobile marketing che si rispetti deve tenere in considerazione anche il problema della fruizione in senso temporale per comprendere le tendenze di utilizzo dei vari dispositivi associate ai diversi momenti della giornata, oltre che i sistemi operativi più utilizzati in dotazione a tali strumenti e i canali social più frequentati, tra i quali figurano in primo luogo Facebook, seguito da Whatsapp, Tumblr, Instagram, Twitter, LinkedIn, Viber, Snapchat e Pinterest. F OC U S Mobile Marketing: quali fonti per i dati statistici. È consigliata la consultazione periodica di statistiche relative alla fruizione mobile. Tra le fonti online più accreditate: - Google Mobile Planet, una survey costantemente aggiornata che permette di creare un proprio report personale; - ITU, una piattaforma che pubblica periodicamente statistiche gratuite sul mobile trend; - XyologicApp Download report, una preziosa risorsa che mostra il livello di utilizzo delle diverse applicazioni e piattaforme, fornendo statistiche per ogni Paese. Fig. 1 - I social networks più rilevanti, fonte: Social Media Trends, 2015 Research. 68 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing Occorre, in ultima istanza, fare il punto sulle attività che sono svolte principalmente attraverso l’utilizzo dei dispositivi mobile. L’esperienza di navigazione è contrassegnata da un certo grado di eterogeneità, per il quale ampio spazio è dedicato al mobile messaging e alla fruizione video, seguiti dalla consultazione delle mappe attraverso le funzioni di geo-localizzazione, il mobile gaming e il banking in mobility. Di particolare interesse è l’ambito che occupa una porzione maggiore del traffico dati dell’utente mobile: le visite e l’acquisto dagli online retail stores, che sta rilanciando l’e-commerce dopo una fase di stallo. I dispositivi mobile e gli smartphone, in particolare, hanno trasformato il comportamento consumatori e la percezione del web come risorsa di informazione, supporto, entertainment e mezzo privilegiato per un nuovo processo di acquisto dai caratteri inediti, in cui spazio maggiore ha l’istinctive purchasing4, grazie alla facilitazione promossa dai motori di ricerca come attendibile fonte di confronto tra i prezzi sul mercato. innanzitutto focalizzarsi su alcuni interrogativi: la necessità, per un determinato corporate brand, di adottare una singola o molteplici modalità di sviluppo della propria presenza mobile: un sito web ottimizzato per la visualizzazione da qualsiasi dispositivo portatile, piuttosto che una Web Mobile App6, ovvero una configurazione appositamente studiata per la fruizione mobile, o concentrarsi sulla realizzazione di una specifica Mobile App o “app nativa”7. Una scelta di senso rispetto alla decisione di investire su una – o più di una – di tali soluzioni richiede un’accurata analisi del proprio target, che può consistere di pubblici diversi, con attitudini, capacità e predisposizione all’accesso da mobile potenzialmente differenti. Uno spunto è fornito dalla comparazione del livello di soddisfazione dell’utenza rispetto al brand e dai tassi di conversione tra Desktop Web, Mobile Web e Mobile App. Tendenzialmente, si riscontreranno livelli di soddisfazione maggiori nel Desktop Web, ma lo sviluppo della presenza mobile è reso impellente dalla porzione temporale che il mobile rappresenta nell’esperienza del cliente-consumatore. Le tre diverse modalità offrono potenzialmente agli utenti diversi livelli di qualità del servizio, ma in generale non esiste una regola standard: ogni brand ha le sue caratteristiche in termini di pubblici e di comunicabilità. Il sito web ottimizzato per i diversi tipi di schermi e di device mobili interessa ad oggi soltanto il 20% dei brand8. È tuttavia il punto di partenza di una presenza strategica mobile, insieme agli investimenti in mobile advertising e mobile search, che facilitano Molte opzioni, nessuna regola standard La centralità della dimensione mobile nella custom experience si traduce per l’azienda nell’elaborazione di strategie di investimento per l’adattamento delle proprie risorse web alla piattaforma mobile. Le opportunità di brand engagement5 e di ottimizzazione del ritorno economico sono perseguibili attraverso diverse modalità da ponderare opportunamente. Occorre Istinctive purchasing: è il consumo di impulso, che non è preceduto dalle tradizionali fasi di analisi del prodotto ricercato e ponderazione dei costi alternativi. 5 Brand engagement: è il processo di formazione di un attaccamento di tipo emozionale o razionale tra stakeholder interni e/o esterni e il brand. In generale, il brand entra in connessione con il consumatore attraverso una serie di “touchpoint”, come gli ambienti di retail, l’advertising o lo stesso prodotto o servizio. 6 Web Mobile App: Versione del sito web ottimizzato per la navigazione mobile e dall’apparenza del tutto simile a quella di un’applicazione scaricabile dagli appstores (la Mobile App o App “nativa”). Si distingue da quest’ultima perché basata sul linguaggio HTML5 e accessibile tramite navigazione via browser. 7 Mobile App o “App nativa”: Applicazione scaricabile sul dispositivo mobile attraverso un applicationstore (come Google Play o Apple Store) e accessibile attraverso una specifica icona collocata sull’home screen. Le app native sono sviluppate per una specifica piattaforma, e usufruiscono spesso di tutte le caratteristiche “native” del dispositivo, quali la fotocamera, il GPS, la bussola, l’accelerometro. Utilizzano il sistema di notifiche del dispositivo e possono in molti casi operare anche offline. 8 Dati di Google Research. 4 69 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing la rintracciabilità del sito via mobile browsing, una modalità d’accesso in notevolecrescita9 che registra una elevatissima frequenza di rimbalzo10. La ragione chiave alla base dell’importanza del Mobile Internet Design è il “Consumer Intent”11: per uno stesso prodotto, l’acquisto via PC ha luogo in un mese dalla ricerca tramite desktop browsing e entro un’ ora via mobile. del Mobile Social, il laddering suddividerebbe l’utenza in cinque categorie di utilizzo del mobile: inactives, talkers, communicators, entertainers, superconnected. Ogni paese riporta statistiche differenti in termini di profilazione, per cui è importante per un’azienda definire la propria audience sulla base del comportamento dei diversi mercati in cui opera. Il metodo POST per la Mobile Strategy Di seguito, sono da definire gli objectives della presenza mobile come drivers per realizzare opportune scelte di investimento: brand awareness, la stimolazione dei consumi, il risparmio dei costi, o offrire una convenience per il cliente. Da qui, associare metriche e KPI per il Mobile (numero di download, frequenza, tempo e circostanze di utilizzo, login, visite ripetute, ricavi da ordini ricevuti e incremento nell’acquisizione dei clienti), e valorizzare opportunamente le 5 aree chiave del Marketing (Discovery, Product Evaluation, Purchase e Costumer Services). Una Mobile Strategy efficace colloca la presenza mobile all’interno di un piano integrato di marketing. Nell’elaborazione, occorre tenere conto di quattro elementi: la segmentazione della mobile target audience, la definizione di obiettivi e strategie, la selezione delle tecnologie, degli strumenti e dei sistemi operativi. Si tratta sostanzialmente di applicare il metodo POST al contesto mobile: analisi delle componenti People, Objectives, Strategies e Technology. Per l’elemento people, si deve analizzare il mobile technographic, ovvero, i comportamenti degli utenti mediati dalla tecnologia mobile, funzionale alla profilazione della target audience. Questa analisi permette di stabilire il grado di multicanalità e gli scopi della fruizione mobile da parte del consumatore. Può essere d’utilità adottare la Technographics Ladder di Forrester12, che segmenta l’utenza in base a date categorie di comportamento e secondo livelli crescenti di interazione: inattivi, spettatori, socievoli, collezionisti, critici e creatori. Applicata al contesto Conseguentemente, occorre fissare la propria strategy in riferimento a quattro dimensioni principali: la reach, ovvero, la copertura di utenza raggiungibile tramite la presenza sul mobile secondo diverse velocità di implementazione; l’offering, in termini di prodotti, servizi o informazioni; la value chain, ovvero il modello di distribuzione della propria presenza mobile, che può essere gratuita e diretta, o proporre servizi premium via abbonamento o oneshot, ed è resa visibile e promossa attraverso i Mobile Telcos13; il commitment14. Secondo SmartInsights (2014), la navigazione via mobile browsing sta crescendo annualmente del 150%; un terzo degli utenti sarebbe inoltre disposto a cambiare brand nel caso in cui la mobile experience non fosse soddisfacente. 10 Google Analytics attesta un tasso di rimbalzo tramite accesso ai siti mobile pari al 79%. 11 Consumer intent: l’intenzione d’acquisto del potenziale consumatore. Il termine in questo contesto sta ad indicare l’effettiva predisposizione all’acquisto dopo un periodo di tempo più o meno breve dalla ricerca di informazioni sul prodotto o servizio. 12 Forrester è una tra le più influenti agenzie di ricerca e consulenza per il business, esperta nell’analitica dei fenomeni di consumo e nello sviluppo di soluzioni digitali e strategie di crescita per le imprese. Sito web:https://www.forrester.com/ 13 Il termine “mobile telcos” è la forma abbreviata di mobile telecommunication companies, in altri termini, gli operatori telefonici. 14 Commitment: dall’inglese “impegno”, è inteso in questo caso come l’entità delle risorse temporali ed economiche da destinare al progetto. 9 70 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing è il presupposto di un modello di business, e apporta dunque valore aggiunto al resto delle proprie risorse web?» . Nel caso in cui la risposta sia negativa, l’app nativa rischia di rivelarsi soltanto un costo di sviluppo e di marketing. In generale, soltanto dopo essersi concentrati sul mobile site è consigliabile estendere l’esperienza all’app nativa per costruire relazioni di lungo periodo, offrendo possibilmente servizi inediti e suppementari. Il successo dell’app – che si misura quantitativamente in termini di download e frequenza di utilizzo, e qualitativamente, attraverso le recensioni via store – risulterà tanto più grande quanto più efficacemente soddisferà una o più delle quattro tipologie di Consumer Benefit: l’erogazione di contenuti e servizi superiori ad altre piattaforme (deliverability), la facilità nell’acquisizione di documentazione o l’invio di segnalazioni (utility) e la creazione/fruizione di contenuti multimediali (entertainment) oltre che un’informationlevel preciso e puntuale. Occorre in seguito definire il modello dei ricavi. Le opzioni a disposizione sono le seguenti: app nativa gratuita; gratuita con meccanismo inapppurchase16; a pagamento (via abbonamento con la modalità freemium – versione free + premium - o oneshotpurchase); sponsorizzata o finanziata da pubblicità, in un’operazione di co-marketing. Realizzare un’applicazione a pagamento presenta pro e contro da valutare: le apps acquistate sono quelle mantenute più a lungo sui device; al tempo stesso, il fatto che un’app sia a pagamento crea una barriera istantanea e spontanea rispetto a tutte le altre app gratuite. Le apps a pagamento sono generalmente una minima parte del download totale di apps, come conferma il fatto che il 95% dei mobileuser è restio rispetto al pagamento17. A questo punto, la definizione delle piattaforme da sviluppare dipenderà da 3 elementi: il target di riferimento, il Technographics – ovvero, il mobile Relativamente alla technology, l’analisi dei costi di sviluppo, di promozione e manutenzione va di pari passo con il livello di necessità nel progettare ognuna delle modalità considerate, specie nel caso in cui la Native App e la Mobile Web App abbiano profili simili senza alcun valore aggiunto. Entrambe le opzioni presentano determinati vantaggi e svantaggi. La Native App offre la possibilità di personalizzazione dei contenuti. Se adeguatamente sviluppata, è utilizzabile per alcuni strumenti integrati nel dispositivo anche senza connessione; inoltre, la sua presenza fissa sugli schermi del mobile device genera una più intima affinità one-to-one con il brand. Esiste poi un vantaggio di preferenza dagli utenti in termini di tempo speso sulle applicazioni rispetto alla navigazione via mobile browser (circa l’83% del tempo), sebbene le Mobile Apps registrino un impressionante tasso di mortalità15. Da questo punto di vista, le Mobile Web Apps vantano una maggiore competitività, connessione più veloce e una tecnologia più recente, performante e mento costosa. Un altro side effect legato alle apps riguarda il lato dei guadagni: gli AppStore di Apple e Google Play trattengono il 30% di commissione sulle vendite; nel caso del sistema iOS, inoltre, Apple utilizza linee guida più ferree per gli sviluppatori: la user-experience è in un certo senso migliore, ma c’è un vaglio più complicato da passare per l’approvazione. Il valore aggiunto, il revenue model e l’implementazione della Mobile App Occorre quindi capire se sviluppare un’applicazione nativa è davvero necessario e prioritario – a prescindere dalle scelte dei competitors - rispetto ad altre modalità alternative o complementari, quali l’ottimizzazione del sito web attuale o della propria presenza sui social. La domanda cruciale da porsi è: «l’app nativa Nielsen Mobile Media View Internet, May 2010. In-apppurchase: è un meccanismo di advertisting di un’applicazione all’interno di un’altra, che permette di targetizzare l’audience per tipo di comportamento, di device o sistema operativo, localizzazione e fascia oraria (con iAd Network per Apple, per esempio, si può effettuare il download senza uscire dall’app primaria). 17 Dati diFlurry Analytics. 15 16 71 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing profile – dell’audience, e il/i marketplace su cui i potenziali clienti sono maggiormente presenti. E’ raccomandato l’utilizzo di una piattaforma di Web Analytics (es. Google Analytics) per ottenere un’analisi indicativa della distribuzione dei dispositivi mobile della propria audience. Segue dunque la realizzazione vera e propria dell’app18, che presenterà un valore aggiunto rispetto ai contenuti e ai servizi mobili se questi non fanno leva sulle caratteristiche intrinseche del telefono, le cosiddette “funzionalità native”, spesso orientate alla creazione di community e utilizzabili anche offline: localizzatore GPS, messaging, fotocamera, videocamera, accelerometro, registratore audio. In caso contrario, una sterile erogazione di contenuti informativi, che riproducano i contenuti online senza interazione alcuna con gli elementi del dispositivo, non giustifica la scelta di sviluppare una mobile app nativa rispetto alla Mobile WebApp o al sito ottimizzato. Di fatto, la differenza tra Mobile app e Mobile Web App sta sfumando: grazie all’HTML5, anche queste ultime possono utilizzare alcune funzionalità un tempo a disposizione solo delle applicazioni native, sebbene in questo caso si renda necessaria la connessione a una rete wifi o mobile. La promozione: il Mobile App Marketing. Uno degli aspetti più delicati dello sviluppo di un’app è la sua promozione. Il Mobile App Marketing è un processo che deve interessare trasversalmente tutte le sue fasi, a partire da quella precedente al lancio, in un crescendo promozionale che fa leva sui social network e il potenziale virale del web. Si può partire in particolare da un’esplorazione su Twitter e da un tracking per identificare esperti e peers potenzialmente interessati, attraverso un account dedicato per l’App o attraverso un personal o un corporate account che faccia leva sul capitale umano già acquisito. La comunicazione in questa fase deve essere il meno autoreferenziale possibile, e concentrarsi sul fornire una soluzione ai problemi e ai bisogni dei clienti, offrendo sconti e condividendo link e risorse utili. Può essere d’aiuto l’utilizzo di strumenti più efficaci nel rintracciare i potenziali influencers su Twitter Fig. 2 - Con Followerwonk è possibile analizzare la frequenza di attività dei propri followers in base all’orario della giornata. Tra le risorse web per la creazione di app, si suggerisce Goodbarber.com. 18 72 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing attraverso una ricerca per tag, come il directory Wefollow, Followerwonko Twiangulate, o attivare un feedreader quale Google Reader che cataloghi e tracci le risorse, blog e peers identificati. Il secondo passo è quello dell’email marketing, ancora efficace e poco costosa. È importante utilizzare uno strumento professionale che permetta di gestire le liste il tracking del messaggio, in particolare, che registri il delivery rate, l’open rate e il click-through rate19. Si suggerisce a tal proposito di utilizzare piattaforme di mailing analysis quali Mail Chimp, ConstantContact e ExactTarget. Nel caso in cui l’app non sia ancora pronta, è possibile creare una Splash page, una sorta di Landing Page di anteprima che riporti la descrizione dell’app, basici elementi grafici, un form per la raccolta di indirizzi email e acquisizione di feedback, e utilizzare strumenti come FacebookAds per la promozione. È preferibile pubblicare la Splash page nello stesso dominio su cui esisterà il sito web dell’app. La terza fase, quella dello sviluppo, richiede un’intensa attività di blogging (le piattaforme sono molteplici, da Blogger a WordPress fino a Tumblr o Posterous) per avviare un dialogo con i potenziali clienti e con gli esperti, e realizzare una Search Agent Optimization20 prima ancora che l’app sia disponibile, per poi procedere con un invio periodico della newsletter agli iscritti sulla piattaforma blog o agli interessati sui canali social. Il beta-testing, ovvero, il reclutare potenziali tester per l’app, può essere utilizzato come parte dell’attività di marketing. La fase successiva è quella della preparazione dei contenuti di lancio, che si traduce nella creazione del sito web di supporto. Tra i requisiti, la funzionalità, un teaser che metta in evidenza il valore aggiunto dell’app e i punti di forza, alcuni contenuti tratti dal blog, contatti mail e link con i canali social. dello stato delle versioni attuali e degli aggiornamenti, il prezzo e il collegamento per l’acquisto via store, recensioni dei clienti più influenti e un’apposita pagina dedicata alle FAQ e al supporto. Indispensabile è in questo stadio il coinvolgimento dei media con un preciso storytelling che fornisca narrazioni coinvolgenti attorno all’app e ai suoi autori, all’ispirazione e alle sue fasi di sviluppo. Per capire quali saranno gli attori più predisposti al co-promoting, si possono utilizzare motori di ricerca e di social media monitoring per capire chi sta parlando di tali servizi al di fuori della community già nota, monitorare e leggere siti e blog di recensione e suddividere allora i contatti in due categorie principali: in base alla probabilità di ricevere risposta e in base alla tipologia del recensore, e preparare dunque un apposito template. Una strategia vincente è l’utilizzo di incentivi: codici promozionali in cambio di recensioni; periodici prezzi promozionali sponsorizzabili in modalità cross-app, facendo cioè pubblicare il banner su altre app e viceversa; indire un concorso –i premi in palio saranno tipicamente codici promozionali – in collaborazione con siti specializzati e affini ad altro traffico. L’efficacia di una campagna Mobile è tanto maggiore quanto più mirata, sia il targeting definito per area geografica, operatore telefonico, sistema o device, per fascia oraria o tipologia di siti visitati dall’utente. La crescita dei social network rende poi urgente l’estensione della campagna di advertisting alle piattaforme più diffuse. La ragione principale, oltre alla dimensione planetaria che il fenomeno sta raggiungendo, è il fatto che la maggior parte dei potenziali clienti vive anche sui social, e gran parte delle conversazioni riguarda i brand e l’esperienza di prodotto, influenzando il passaparola offline e le decisioni di acquisto, incrementando i trust 21. In fase post-lancio, al website saranno aggiunti sezioni informative per continue segnalazioni 19 Nell’ordine, I termini si riferiscono al tasso di ricezione, di lettura e di collegamento a un contenuto web tramite click dalla mail. 20 Search Agent (o Engine) Optimization (SEO) : è un processo algoritmico che impatta la visibilità e il traffico di un sito o pagina web tra i risultati (non sponsorizzati) dati da un motore di ricerca, sulla base della rilevanza dei contenuti e delle keywords rispetto alla ricerca degli utenti. 73 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing Gli effetti di tali returns on investments22 sono misurabili. Di grande utilità, una volta individuate le metriche rilevanti per i propri obiettivi, è l’utilizzo di piattaforme per tracciare l’andamento delle proprie pagine sui social, quali Social Bakers. Le conversazioni sono importanti anche sul versante della qualitative analysis, per rilevare un insight dei bisogni, interessi e opinioni degli utenti, un vero e proprio capitale informativo per il business. Ogni social network si distingue in termini di audience – ragion per cui si rende indispensabile un profiling del proprio target sui social networkdi tone of voice e scopi, oltre che di strumenti che può offrire alle aziende per la promozione. Fig.3 - La classifica dei benefici derivanti dal Social Media Marketing, fonte: Social Media Examiner’sState of Social Media 2014. Global Consumers’ Purchase Behaviour Influencers, March 2014. Returns on investments aka ROI: è una misura di performance, utilizzata per valutare l’efficienza in percentuale di un dato investimento. Registra l’ammontare di ricavi su un investimento relativo al costo dell’investimento stesso. 21 22 74 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing la presenza sui social a rendere meno credibile o poco seria la campagna marketing: la quota di adulti professionisti che ne fa uso cresce esponenzialmente. Non basta, creare una pagina o un account sui social media per sancire in modo definitivo la propria presenza, e aspettarsi un ritorno positivo dalla sua sola esistenza. Occorre una presenza continua per rispondere in maniera adeguata e costante alle interazioni degli utenti, e rigenerare e innovare ogni volta la propria immagine. Bisogna, in altre parole, avere un piano strategico di content marketing con appositi calendari editoriali, per adeguare le tattiche e le modalità – variabili, per esigenze dei programmatori – ai propri piani e obiettivi di business, e concentrarsi sui social media che riflettono maggiormente il proprio ecosistema sociale di riferimento. La strategia di content deve adattare dunque a ogni social il proprio testo e, opportunamente, sfruttare le dinamiche di interazione della specifica network community per raggiungere nella maniera più efficace e meno costosa possibile gli obiettivi preposti. Il rischio è di una over-exposition e di dispersione di risorse preziose. F OC U S Instagram, Tumblr e Pinterest: la forza delle immagini. La comunicazione visiva è notoriamente più efficace di qualsiasi altro testo scritto, rispetto a cui un’immagine riesce ad essere percepita fino a 50 volte più velocemente. Per suscitare interesse e richiamare l’attenzione, la cura nella scelta delle immagini per i propri canali di comunicazione è essenziale. Instagram, Tumblr e Pinterest sono social format basati sulla dimensione grafica. Sono strumenti perfetti per aggregare contenuti fotografici e tenerli in costante aggiornamento, e catalogarli grazie all’utilizzo di un tag concettuale. Inoltre, è possibile trasferire in automatico le immagini per il brand da Instagram a Pinterest a Tumblr con un semplice tool: IFTTT, che permette di pubblicare i contenuti pubblicati su una piattaforma in modo simultaneo su tutti gli altri canali social. La presenza sui social network: alcuni miti da sfatare. Approdare sui canali social richiede di estirpare pregiudizi e miti radicati: innanzitutto, ogni prodotto o servizio ha in sé un potenziale attrattivo per il social network. Inoltre, non è Angela Nicolazzo 75 Logiche e sviluppi del Mobile Marketing Riferimenti bibliografici Ask J., Bernoff J., Schadler T., TheMobile Mind Shift: Engineer Your Business to Win in the Mobile Moment, Groundswell Press, 2014. Bellini L.; Di Stasi Lorena, Aziende di successo sui Social Media: Creare valore e generare business, Hoepli, 2014. Cantamesse M., Facchini A., Meardi G, Digital Marketing: Le sfide da vincere: dalla soddisfazione del cliente al ROI, Hoepli, 2016. Fitzpatrick P Kawasaki G., L’arte dei social media: Consigli vincenti per profili efficaci, Hoepli, 2015. Martin, C., The Third Screen: The ultimate guide to Mobile Marketing, ed. Paperback, Nicholas Brealey America, 2014. Rowles D., Mobile Marketing: How Mobile Technology is Revolutionizing Marketing, Communications and Advertising, ed. Paperback, Kogan Page, 2013. 76 PRINCIPI DI E-COMMERCE E SOCIAL COMMERCE Tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli «Se rendi insoddisfatti i clienti nel mondo fisico, ognuno di loro potrebbe raccontarlo a 6 amici. Se li rendi insoddisfatti su Internet, ognuno di loro potrebbe raccontarlo a 6000 amici.» Jeff Bezoz, fondatore e CEO di Amazon.com ECOMMERCE - STORE ONLINE - RETAIL La morte dell’e-commerce1 chi commercia per via digitale: no need, no money, no hurry, no desire, no trust. Di questi, il più pericoloso è rappresentato, per l’e-commerce, dalla mancanza di fiducia da parte del potenziale consumatore. Specie, viene sottolineato, nelle aree mediterranee, dove incide un particolare fattore culturale. Per questo motivo, ogni strategia di commercio online dovrà necessariamente mettere al centro la creazione o il rinforzo della fiducia nel compratore. Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma con l’avvento del web 2.0, peraltro così consolidato da non essere più ascrivibile a novità, pare delinearsi concretamente l’ipotesi di un tramonto definitivo del commercio online. O almeno della sua concezione tradizionale. La realtà, meno funerea di quanto sembri, è che al grido di “Digital first!” le attività di acquisto e vendita online stanno gradualmente venendo inglobate in tutti i canali dello scenario digitale, intersecandosi indissolubilmente anche con la tradizionale vendita retail. Inoltre, se un tempo l’acquisto di beni online era prerogativa di pochi geek2, oggi rappresenta una comune alternativa per l’uomo della strada. E quel suffisso che denotava il commercio per via digitale come un’entità a sé si è dissolto, segnando il passaggio dall’e-commerce al semplice commerce3. Semplice, ma non meno complesso. Come sottolinea Guy Kawasaki4, si pongono cinque ostacoli particolarmente insidiosi, per Tanti modi di fare e-commerce La digitalizzazione dei canali di vendita ha generato una ricchezza di possibilità precedentemente inimmaginabile. Ma quest’abbondanza deve essere gestita con coscienza, senza tralasciare alcun aspetto: dai social network alle chat, passando per il mobile e per le opzioni di delivery5, i tracciati disegnati dai touchpoint6 nel customer journey7 appaiono sempre più come frattali interpretabili solo grazie alla conoscenza delle formule alla base. E con ciò L’acquisto di beni e servizi tramite il World Wide Web. I c.d. “nerd” appassionati di tecnologie digitali 3 Per comodità espositiva nell’arco del capitolo continueremo, seppure forse impropriamente, a parlare di e-commerce. 4 Manager, imprenditore e saggista statunitense, ex dipendente di Apple e attuale CEO di garage.com. 5 Lett: “consegna”. 6 Punti di contatto attraverso cui il cliente interagisce con un’impresa. 7 Consiste nella “mappa” di tutti i touchpoint adoperati dall’utente. 1 2 77 Principi di e-commerce e di social commerce si rimodellano, quasi dalle fondamenta, i modelli di business. affidarsi ad un servizio di logistica capillare ed efficiente può rappresentare una grossa facilitazione. Dubbi legittimi possono sorgere al pensiero che su tali piattaforme sia necessaria un’estrema competitività dal punto di vista del prezzo. Di certo tale fattore non è secondario, ma non mancano le strategie per ovviare a questo problema: si può modulare la propria offerta con sconti al cliente sulla spedizione, ad esempio, o scegliere di risultare competitivi sui prodotti che interessa maggiormente vendere. Anche in termini di volumi di vendita sarà necessario ragionare sulla propria presenza sui canali e-commerce, che solitamente trattengono un’importante percentuale per sé: maggiori saranno le vendite, più alta sarà la convenienza di possedere un canale digitale di vendita “proprietario”. Emblematico l’esempio di alcune aziende presenti su marketplace quali eBay, che inseriscono talvolta coupon sconto all’interno dei pacchi, in modo da dirottare il cliente sulla propria piattaforma. In ogni caso, per capire se vendere direttamente Alla luce di questo panorama così vasto, le aziende devono imparare a guardare più in grande del “semplice” retail. Ma come decidere se mantenere esclusivamente un marketplace8 o uno store? O addirittura entrambi? Spesso, è consigliabile che la strategia di presenza preveda un approccio misto. Per un’azienda proprietaria di uno shop online potrebbe essere utile, ad esempio, collocarsi al contempo anche su Amazon e magari su un marketplace maggiormente specializzato nel settore di riferimento, perché tali canali costituiscono un’importante risorsa nella fase in cui è necessario stimolare awareness9 verso il proprio brand o i propri prodotti. Nondimeno, vi sono consistenti vantaggi per coloro che intendono far leva sulle esportazioni: in primo luogo, in termini di risorse: affidarsi ad un canale già strutturato può essere più semplice che dedicare una sezione del proprio sito a ciascuno dei segmenti di mercato estero cui ci si vuole rivolgere. Oltre a ciò, per le piccole imprese Fig. 1 - Vantaggi e svantaggi dei principali marketplace digitali. Fonte: Gianluca Diegoli, www.digitalupdate.it Sito Internet di intermediazione per la vendita di un bene o un servizio. La notorietà (o consapevolezza) circa un dato brand. 8 9 78 Principi di e-commerce e di social commerce subscription, o abbonamenti. Su tutti, spicca Amazon Prime che prevede, oltre a servizi premium quali abbonamenti a tv online, la sospensione in toto, almeno in alcuni Paesi, delle spese di spedizione. Tale opzione comporta ovviamente costi notevoli. Ma, forte dei dati a sua disposizione, Amazon ha potuto quantificare il probabile volume di acquisto dei prospect (ovvero dei potenziali sottoscrittori) Prime, rendendosi conto che essi sono più numerosi degli acquirenti non interessati all’opzione. Senza contare che le sottoscrizioni generano revenue immediate e, al contempo, costituiscono un elemento fidelizzante che consente previsioni di vendita e continuità finanziaria. Un altro esempio di tale genere è Soap.com, che consente una spesa automatica di panieri di beni il cui acquisto, per loro natura, è reputato un’incombenza poco gradevole. oppure indirettamente, è sempre bene cercare di porsi i seguenti interrogativi: quanto margine ho? Quanto tempo spende il mio cliente nell’acquisto? Quanto è condiviso il customer journey con altri prodotti? Esistono già intermediari ben radicati con cui posso cooperare? Modelli di business: aprire un negozio è passé? Abbiamo accennato all’estensione del ventaglio di possibilità di commercio online in seguito all’avvento del Web 2.0. Non solo in termini di canali, ma anche attraverso nuovi modelli di business, o versioni digitalizzate dei modelli tradizionali. Più spesso, tramite ibridi che integrano entrambi. Una delle formule utilizzate è quella del daily deal: coupon sconto con offerte disponibili per un tempo limitato, utili per attività businessto-consumer che cercano innanzitutto di farsi conoscere dai potenziali clienti. Di certo, presentano dei punti deboli: in primo luogo, piattaforme quali Groupon o Privalia consentono un controllo dell’esperienza del cliente solo fino al momento della transazione economica. Oltre a ciò, la percentuale trattenuta dal prezzo di vendita è consistente: risulterebbe dunque insostenibile avvalersene nel medio/lungo periodo. D’altro canto, la formula del countdown a tempo costituisce un incentivo strategico, poiché nella percezione del potenziale cliente ogni prodotto “in scadenza” risulta più apprezzabile. Anche il drop shipping, ovvero la vendita di beni non posseduti fisicamente in un magazzino, sta facendo la sua comparsa, con negozi interamente virtuali i quali, al momento dell’ordine, si avvalgono di altri store che si occupano della spedizione. Anche in questo caso, minore sarà il ruolo del proprio commerce, minori saranno i ricavi. Altri brand ed aziende optano invece per la formula del club, con vendita esclusivamente a soci.Un esempio apprezzabile è quello delle F OC U S Le subscription costituiscono anche una leva per stuzzicare la curiosità. Esistono infatti molteplici servizi che, tramite abbonamento, forniscono ad esempio “happy box” mensili per il proprio amico a quattro zampe, degustazioni di caffé... Oppure, non senza un pizzico di ironia, pacchetti di beni “per veri uomini”, come rasoi, creme da barba o biancheria nel caso di Manpacks. Non mancano, poi, modelli “win-win” come Degustabox, che consente agli utenti di ricevere periodicamente “cestini” di nuovi prodotti. Le aziende, che hanno forte interesse ad effettuare preliminari ricerche di mercato, offrendo alla piattaforma i propri prodotti a costo zero ottengono in cambio un campionamento verso persone che possono peraltro condividere il loro prodotto e commentarlo. Anche Cortilia, attraverso un sistema valoriale basato sul Km 0, i piccoli produttori e la volontà di sostenere una buona causa, gioca sull’effetto “scatola misteriosa” ottenendo margini piuttosto alti stimolando l’autostima del compratore, che sente di aver agito in maniera etica. 79 Principi di e-commerce e di social commerce Ovvero, di tutti quei servizi che declinano la propria proposta di valore attraverso forme di facilitazione nella consegna (delivery come valore) o nella ricerca. Dal momento che ormai lo showrooming12 è assurto a fenomeno di massa, molte aziende hanno promosso modelli omnichannel, in cui ad esempio dopo un acquisto online è possibile il reso in negozio. Oppure, se nello store non è presente una particolare taglia, si ha la possibilità di vedere il prodotto della misura giusta consegnato a casa propria. Vi sono poi servizi come Indabox che offrono la possibilità, dopo aver effettuato un acquisto online, di recapitare il pacco presso un esercizio convenzionato, il quale lo custodirà finché il cliente non potrà ritirarlo in tutta comodità. Anche Justeat.it, sito attraverso cui è possibile ordinare a domicilio, è un servizio che fa della consegna la propria value proposition. Altre formule prevedono invece un click&collect (acquista online e ritiro in negozio) come Tesco. Retailer come Penguin offrono poi la possibilità, similarmente al già menzionato Indabox, di ritirare in loco le merci acquistate via web. Perché una volta che il cliente è nei paraggi, chissà che non approfitti dell’occasione per fare un giro all’interno del negozio e magari comprare qualcosa! Non mancano piattaforme e applicazioni il cui valore aggiunto consiste nel porsi come intermediario editoriale per ciò che concerne la produzione o la gestione “smart” di contenuti relativi ai prodotti presenti, come Mallzee o Shopbop. Riuscire a orientarsi può sembrare, a prima vista, complicato. Nella seconda metà del capitolo si cercherà di fornire delle generali linee guida per capire quali siano i tratti distintivi di un e-commerce modello. Tali modelli sono caratterizzati da alcuni tratti comuni: uno su tutti, la necessità di costruire un rapporto di fiducia, che spesso passa per un’estrema ricercatezza del packaging, o l’utilizzo dei social per far intuire ciò che l’utente potrebbe trovare nella box. Non meno importante, il fatto che tali modelli si inseriscano quasi sempre in nicchie particolari, spesso basate su community, fortemente interessate. Grazie all’avvento del digitale, hanno visto la luce anche molte forme di spesa automatica: dalla “Internet of things”10 all’e-commerce of things. Di qui, l’introduzione di “Amazon Dash”, tasti fisici connessi in rete via wifii con i marchi dei prodotti più usati in casa. Con un semplice click, il servizio inserisce quel prodotto nel carrello, in modo da evitare dimenticanze. E se «i mercati sono conversazioni», ecco comparire forme ibride di conversational commerce in cui l’approccio customer-based fa della comunicazione interpersonale la sua forza. Il contatto con l’azienda può avvenire ad esempio tramite applicazioni di instant messaging: un metodo efficace, diretto e, vista la progressiva evoluzione dei chat-bot11, sempre più a buon mercato. Meriterebbe un’ampia digressione, ma qui si accennerà per sommi capi alla vasta gamma di modelli basati sulla condivisione, ove il ruolo dello stakeholder è rappresentato dalle persone. I servizi basati sullo sharing commerce permettono infatti di accedere a offerte vantaggiose per coloro che si avvalgono del group buy, come la community di Vinix, o di partecipare al processo di co-creazione o selezione del prodotto, come Made.com. Un’altra branca del settore del digital commerce che denota una notevole vastità nella gamma di opzioni è rappresentata da tutti quei servizi che integrano e-commerce, retail e non solo. Estensione di Internet al mondo degli oggetti Software progettato per simulare conversazioni intelligenti con esseri umani tramite l’uso della voce e del testo. 12 La tendenza a recarsi in uno store fisico, per poi provvedere all’acquisto del prodotto online. 10 11 80 Principi di e-commerce e di social commerce Lo store online efficace fanno aumentare, come comprovato da studi, la sensazione di ansia: il rischio è che l’utente, sopraffatto da tanta possibilità di scelta, vi rinunci. Per questo motivo, nel tempo hanno fatto la loro comparsa template (ossia “temi grafici”) e home page abbastanza scarni (le cosiddette homepage “emozionali”), ma anche molte call to action e rinforzi positivi. Le tre componenti base, per un efficace e-commerce, possono essere riassunte in: utilità, usabilità e coerenza. Qui di seguito, analizzeremo alcuni temi fondamentali per tradurre questi concetti in pratica. I primi siti di e-commerce non erano progettati per un utilizzo tramite mobile. Si presentò però un problema: un crollo del tasso di conversione13 per i siti non responsivi. Di qui, l’intuizione: l’utente deve poter “salvare” il lavoro per finirlo da PC, poiché le conversioni da mobile sono più basse che da PC. Questo perché il customer journey sfrutta molteplici dispositivi e lo smartphone spesso è la fonte dell’informazione. Essere di fronte al PC è solitamente associato ad un momento di lavoro: se l’utente adopera il telefono, è probabile che sia più aperto alla scoperta. Sarà strategico dunque inserirsi in quel lasso di tempo. Il retargeting14 desktop verso l’utente che ha già effettuato una ricerca mobile è un’ottima fonte di conversione. Il contenuto deve essere un facilitatore dell’offerta, per rendere il proprio prodotto o servizio interessante, oltre che conveniente. Non è necessario per forza un piano editoriale iperstrutturato, ma ad esempio è possibile sfruttare i canali social per offrire assistenza. La scheda prodotto, come vedremo, rappresenta uno spazio particolarmente congeniale alla presentazione di contenuti: è possibile descrivere i vantaggi che il cliente otterrà dopo l’acquisto dello stesso e se ne possono raccontare le ulteriori potenzialità, fidelizzando il cliente e aumentando in tal caso la CLV15. Il menu deve essere, ragionevolmente, semplice da usare: una mappa per orientare l’utente all’interno del sito, che consenta di raggiungere le destinazioni principali con un click e che, se possibile, contenga una sezione dedicata alle promozioni. La home page di un e-commerce deve essere il più possibile chiara. Occorrerà procedere a cerchi concentrici: in principio, sarà bene esplicare il focus della propria offerta. In seguito, sarà opportuno illustrare l’unicità della propria proposta di valore. Poi sarà necessario fornire un’esperienza utente accattivante, in grado di trattenere l’utente facendo proseguire la navigazione ed allettandolo con offerte-civetta che consentano di guadagnare tempo. Infine, sarà fondamentale inserire elementi che consentono di rimanere in contatto con il cliente, ma soprattutto di rassicurarlo. Le home page “vetrina” con molti prodotti Per quanto concerne categorie, filtri e ricerca, bisogna fare in modo che il nostro percorso guidi l’utente in maniera discreta, strutturando ogni pagina come un’entità “indipendente”, ovvero dotata di senso di per sé. A proposito delle categorie, sarà importante non scendere troppo nello specifico e l’uso dei filtri dovrà essere gestito con cautela, poiché conveniente solo per cataloghi-prodotto particolarmente vasti. La ricerca interna riveste un ruolo di grande rilevanza: ha lo stesso ruolo del commesso che chiede in negozio: «In cosa posso esserle utile?». La percentuale di visitatori unici che hanno effettuato l’operazione desiderata visitando un sito. Advertising online mirato basato sulle azioni del consumatore compiute precedentemente sul Web. 15 Customer Lifetime Value: la previsione dei profitti per tutto l’arco della relazione futura con il cliente. 13 14 81 Principi di e-commerce e di social commerce Fig. 2 - La landing page perfetta per i produttori indipendenti di videogame, secondo IndieGirl.com 82 Principi di e-commerce e di social commerce Oltre al contenuto, però, non si può prescindere dal confronto con i prezzi dei competitor che deve essere sistematico e continuo, perché anche un solo articolo “fuori scala” può danneggiare tutto il catalogo. Certo, non sarà possibile offrire sempre un prezzo inferiore ai competitor. Sarà dunque cura dello shop offrire dei bundle, ossia dei “pacchetti” dove vengano associati più articoli, oppure inserire offerte. Sistemi di ricompense o premi fedeltà possono altresì avere un ruolo rilevante. Risulta di grande aiuto per l’utente che sa già che cosa comprare: perciò, molti siti implementano la funzione di autocomplete (che “indirizza” anche la ricerca in base a quel che il sito vorrebbe vendere). La scheda prodotto deve essere sintetica e chiara. Può contenere inviti all’azione, meglio se declinati nelle tonalità del rosso o dell’arancio (mai nero o bianco), in modo da catturare l’attenzione. Il testo deve essere breve, possibilmente riassumendo per punti le proprietà del prodotto. Rappresenta l’occasione per creare storytelling attorno all’oggetto in questione, pertanto deve essere caratterizzata da originalità e unicità, pur comprendendo elementi “canonici” quali le icone per la condivisione sui social e i tipici “cuoricini” da wishlist. Il momento del checkout è solitamente il più critico: vi si perdono il 70% delle possibili conversioni. Più elementi vi contribuiscono: la scarsa intuitività del processo da mobile; le notifiche che sopraggiungono a distrarre l’utente; il ripensamento dell’ultimo minuto; la scadenza Fig. 3 - Questa product page di Made.com lascia che le immagini parlino da sé. 83 Principi di e-commerce e di social commerce della sessione; il pagamento con doppia autenticazione. Talvolta, facilitare il checkout rappresenta una strategia più vincente della generazione di traffico, che è costosa in termini di budget e competenze. vengono poste in negozio. Per far ciò, è necessaria una stretta collaborazione con il customer care. Inserire motivazioni all’acquisto, contrastare le perplessità («Chissà che difficoltà pulire il barbecue!») e soprattutto valorizzare i vantaggi dell’articolo. Play: sfruttare tutte le possibilità multimediali. Al fine di mostrare la bontà di un prodotto, di convincere all’acquisto o anche per intrattenere l’utente, si è fatto sempre più intensivo l’utilizzo di micro-video e gif animate. Tool come Cinemagraph consentono di creare animazioni dove il movimento interessa solo una piccola porzione dell’immagine, consentendo tuttavia di renderlo percepibile come un contenuto video. Tre buone regole: • eliminare header e footer; • indicare in maniera chiara le spese di spedizione: è il costo più sgradito al cliente, pertanto meglio adottare policy specifiche invece di considerarla una spesa operativa; • evitare la registrazione obbligatoria: inutile chiedere dati ai semplici visitatori, meglio generare lead attraverso iscrizioni alla newsletter o tramite un “guest checkout”. Proof: «Solo gli altri possono convincere altri ancora». In un mondo in cui reperire le informazioni ha un costo, spesso troppo alto per poter prendere una decisione basandosi su elementi più che esaustivi, non è infrequente che l’essere umano si fidi del “branco”. Gli strumenti per intercettarne le opinioni possono essere automatici, con incentivi allo share, foto, curation anche da parte di blogger e influencer, oppure si può trattare di contenuti prodotti dall’azienda stessa, con il racconto di esperienze, testimonial, interviste ai clienti. Una breve digressione a parte meritano le recensioni: oltre a migliorare la conversazione (rassicurando, informando, indirizzando), migliorano il posizionamento SEO. La social proof fa sentire meno solo il cliente al momento dell’acquisto. Il dilemma di creare strumenti proprietari per esprimere valutazioni, oppure appoggiarsi a piattaforme preesistenti, implementabili tramite app native o plugin, non è risolvibile con una semplice formula. L’utente tende a concedere la propria fiducia a strumenti già noti, i quali però comportano il duplice svantaggio di avere dei costi e di far esprimere i giudizi sugli store in toto, anziché sui singoli item. E, più in generale, eliminare ogni funzione inutile. Oltre a ciò, è importante porre attenzione ad elementi di marketing riassumibili come le “4 P” per uno shop online efficace: People, Persuasion, Play, Proof. People: «Niente attira le persone come i loro simili». Mostrare il team aziendale ed i clienti, narrarli secondo la formula “smart & pretty” contribuiscono a reperire testimonial autentici, che incarnano i valori del brand o del prodotto. La sezione “Chi siamo” è importante quanto la pagina prodotto: “siamo quelli che vi daranno un certo tipo di vantaggio”. Esistono peraltro strumenti di aggregazione automatica dei contenuti pubblicati con determinati hashtag, incorporabili anche nella scheda prodotto. Persuasion: «Le persone rifuggono il rischio, e pensano ai vantaggi» Come convincere l’utente a compiere il grande balzo dall’intention al purchase? Semplice: utilizzando un linguaggio diretto, personale, naturale, ricreando addirittura il tono dell’acquirente, le domande che solitamente 84 Principi di e-commerce e di social commerce offre molte possibilità circa le strategie per avvicinare i clienti. In generale, i tipi di piattaforma si dividono in service e server. Quelle afferenti alla prima tipologia si rivelano utili per vendere pochi prodotti, con template personalizzabili che non “bruciano” tutto il budget in piattaforma. La seconda tipologia permette un uso estensivo di estensioni ed è largamente personalizzabile. Molte sono disponibili con licenze open-source, ma hanno costi di manutenzione non indifferenti e richiedono una particolare dimestichezza tecnica. E, ultimo ma non meno importante, mai dimenticarsi di intercettare il parere di tester pseudo-indipendenti: il c.d. “parere dello zio”, in fin dei conti, potrebbe rivelare opportunità o criticità non considerate. Come ottenerle? Ad esempio attraverso reminder, oppure – strategicamente – selezionando e dividendo gli utenti soddisfatti dagli insoddisfatti tramite form “guidati”, rendendo pubblici unicamente i commenti positivi. Altri store utilizzano notifiche pop-up in tempo reale. Un elemento strategico, specie per prodotti di nicchia, è l’autorità di chi esprime il proprio parere offrendo la propria competenza di esperti, come ad esempio Patagonia che si avvale di ambassador d’eccellenza quali alpinisti professionisti. Anche sottolineare la scarsità di un bene determina un incentivo all’acquisto, poiché, secondo la più classica delle leggi del mercato, «meno ce n’è, più vale». Last but not least, la scelta della piattaforma. Giocare contro i colossi è inutile e controproducente, ma la capacità di adattamento Gemma Grimoldi 85 Principi di e-commerce e di social commerce Riferimenti bibliografici Diegoli G., Social commerce. Modelli di ecommerce attorno al cliente, Apogeo, Milano, 2013. Cialdini R. B., Influence. The Psychology of Persuasion, Harperbusiness, New York City, 2007. Di Fraia G. (a cura di), Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, 2012. Sitografia www.digitalupdate.it www.minimarketing.it http://goodui.org www.crayon.co/f/ecommerce 86 2.2 Nuove logiche e strategie in un immaginario affollato di narrazioni Il Digital Storytelling Tratto dalla lezione di Guido Di Fraia «La narrazione è un’esperienza di pensiero che esercita ad abitare mondi estranei e implica una provocazione a essere e agire diversamente» P. Ricoeur, 1985 storytelling - marketing narrativo - storyselling Al giorno d’oggi si parla molto di storytelling, ogni cosa viene definita storytelling e spesso questo termine viene abusato. Nasce sempre di più l’esigenza di ridefinire in un modo nuovo il rapporto tra storytelling e marketing. Vale la pena dunque approfondire questo concetto da un punto di vista teorico evidenziando le conseguenze concettuali e da un punto di vista operativo offrendo una cassetta degli attrezzi per permettere di far lavorare insieme storytelling e content marketing. Alla base di tutti i concetti ci sono le storie: che cosa sono e perché ci piacciono? 1.Cosa sono? Ogni storia prevede la presenza di figure abbastanza stabili e trasversali a tutte le narrazioni e per poter esistere presuppone che accada qualcosa. Ci sono diversi modi per raccontare storie e narrazioni e questi due termini vengono erroneamente utilizzati come sinonimi. 88 Il digital storytelling Le narrazioni sono forme attraverso cui la nostra mente ci fa vivere in altre realtà mentre le storie sono dei modi attraverso cui si organizza la comunicazione umana e rappresentano il medium per eccellenza. Gli scambi comunicativi umani nascono attraverso le storie in termini di evoluzione e quindi sono un mediatore linguistico che consente alle nostre menti di ordinare la realtà e di generare senso, possiamo dire quindi che la narrazione è un potentissimo generatore di senso. Attraverso anche, ma non solo, la forma organizzativa della narrazione, la nostra mente impone organicità all’esperienza. L’esperienza infatti non è già di per sé organizzata ma si organizza attraverso delle forme della conoscenza, tra cui quella narrativa. Sostanzialmente la narrazione è un elemento trasversale a esperienza, conoscenza e memoria. Le storie sono uno strumento attraverso cui diamo forma alla realtà e sono estremamente potenti rispetto al nostro modo di essere, di pensare ed agire. Tutti i nostri discorsi nel quotidiano sono delle micro-narrazioni e anche quando progettiamo il futuro o raccontiamo il passato usiamo storie. Quando una persona vuole farsi conoscere non usa il modello paradigmatico ma racconta la sua storia ed è questa che la caratterizza e la rende diversa dagli altri. Questa raccolta di fatti può essere raccontata in modi diversi in base al contesto in cui ci si trova. 3. Come funzionano? Le storie funzionano su vari modelli, devono assomigliare a qualcosa di vero per trasmettere coerenza. Quando le percepiamo ci collocano in uno spazio diverso, oltre al luogo in cui siamo realmente (bilocazione spaziale), inoltre ci attivano empaticamente perché ci riconosciamo in esse. Le storie tanto più parlano di noi, tanto più ci identifichiamo e le consideriamo credibili ci crediamo. Le storie, come tutte le forme linguistiche, sono piene di vuoti e di spazi che hanno bisogno di un importante lavoro per la loro “costruzione”. Possiamo dire che le storie costruiscono la nostra esperienza ed identità o meglio le storie sono la nostra identità e le possiamo definire ontologiche2. 2. Dove sono? Per molto tempo il cervello umano è stato considerato come una sorta di computer e questo modo di pensare ha fatto perdere di vista la dimensione narrativa del pensiero. Si è scoperto successivamente che la nostra mente funziona secondo due modalità: - Modello paradigmatico: è proprio quello della scienza che fa tassonomia ed organizza in modo razionale; - Modello narrativo: è tipico del ragionamento quotidiano, parla di relazioni, è sensibile al contesto. Tre elementi contribuiscono a formare un individuo: • interazione con ambiente • patrimonio genetico • educazione La storia è sempre legata al contesto, non è possibile stabilire a priori se sia vera o falsa e per questo motivo si dice infatti che le storie sono caratterizzate da opacità referenziale: la relazione che le storie hanno con la verità del mondo è opaca perché secondo la referenza1 non ci può essere una storia “oggettiva” in tutto, l’importanza è la sua coerenza interna. Noi abbiamo accesso a quello che siamo solo raccontandoci la nostra storia, è l’unico modo per accedere al nostro mondo interiore. Ciascuno di noi per tutta la vita si domanda: chi sono? Per risponderci abbiamo due possibilità: Referenza: rapporto tra referenti linguistici e il mondo Ontologia: parte della filosofia che studia il concetto e la struttura dell’essere in generale, e non i fenomeni in cui si concretizza e specifica. 1 2 89 Il digital storytelling Fig. 2 - Schema trance narrativo o ci raccontiamo noi la nostra storia o ce la facciamo raccontare dagli altri. Le nostre storie identitarie sono sempre diverse, non c’è mai fine alla ricerca perché le storie assumono significato solo al termine della vita di una persona. trance narrativo, che prevede che il cervello si trovi in uno status particolare. Portare chi ci ascolta in questa sorta di trance è l’obiettivo da prefissarsi. Alcuni esperimenti scientifici hanno dimostrato che la persona che racconta una storia ad un’altra, attiva in quest’ultima le sue stesse strutture celebrali. Le storie infatti cambiano la chimica del cervello e generano comportamenti ed azioni. 4. Cosa ci fanno? Se funziona bene, una storia fa raggiungere il Fig. 3 - Durante il racconto i cervelli si sincronizzano 90 Il digital storytelling 5. Come sono fatte? Le storie sono caratterizzate da questi elementi che non sono sinonimi tra di loro ed è difficile distinguerli: 6. Cosa ci fanno? Che rapporto c’è tra storie e consumo? E che cosa le aziende se ne possono fare delle storie? Dagli anni ‘70 le merci sono state identificate come segni che raccontano noi stessi agli altri. Possiamo definire il consumo come un vettore di senso perché attraverso gli acquisti diamo consistenza a ciò che siamo. Il consumo è soprattutto un consumo di storie perché quando noi compriamo un brand, lo compriamo per la storia che racchiude e consumando quei prodotti raccontiamo agli altri chi siamo. • STORIA: rappresentata dai fatti così come sono stati, cioè l’insieme degli eventi nella loro relazione causa-effetto. • RACCONTO: è il modo in cui questa storia viene raccontata. È la forma discorsiva che assume la storia, è la forma del condimento. • NARRAZIONE: è l’azione del raccontare. Bruner3 identifica la struttura della storia con i seguenti elementi: • la struttura “pentadica”: una storia per essere grammaticalmente corretta e per essere compresa dalla nostra mente deve essere caratterizzata da 5 elementi: F OC U S Rivista “Le Scienze” Sociologia computazionale Un esempio interessante di quello che diventerà la ricerca sociale di mercato nei prossimi anni, è la scienza sociale computazionale, che ci consente di studiare la società attraverso le piattaforme di ascolto e di analisi dei post. Tutto questo ci permette di dare senso ai big data. Lo studio che è stato pubblicato sulla rivista Le Scienze consisteva nella rilevazione di differenze e incompatibilità di mondi molto diversi (pagine con notizie non veritiere vs pagine scientifiche) presenti su Facebook. e all’evoluzione della tribù e dei suoi rituali. 1. attore 2. scopo 3. azione 4. contesto 5. strumento • intenzionalità ai soggetti: le storie funzionano perché attribuiamo intenzionalità ai soggetti, le storie in termine evolutivi sono nate perché attraverso di esse è facile capire l’intenzionalità dell’altro. Perché le aziende dovrebbero raccontare le buone storie? • Componente ermeneutica: ciascuna storia è fatta al suo interno di piccole storie. Ci sono molte ragioni per cui conviene raccontare buone storie, in particolare attraverso le storie è possibile: - generare trance narrativo: questo risultato ricade in modo positivo sia sul brand sia sul prodotto; - diffondere temi e miti: le storie sono facilmente divulgabili e quindi diventano mezzi attraverso cui diffondere i contenuti che si vogliono far veicolare, soprattutto grazie ai social; • Violazione del canone: per essere una storia deve accadere qualcosa di strano4. • Incertezza: le storie acquisiscono un senso solo alla fine. • Appartenenza ad un genere: non ci può essere storia senza che la nostra mente la riconduca ad un genere. Psicologo statunitense che ha contribuito allo sviluppo della psicologia cognitiva Il Prof. Di Fraia non è pienamente d’accordo con questa visione perché a volte le storie hanno una funzione fatica 3 4 91 Il digital storytelling Fig. 4 - La dinamica delle storie - generare adesione informativa e culturale cioè fare cultura attraverso le storie; - veicolare grazie alla narratività comportamenti di acquisto di prodotti, stili di vita ed idee. e oggetti. La narrazione di consumo deve intercettare la dinamica della vita in cui siamo e proporci un viaggio di auto-riconoscimento attraverso prodotti o servizi. Si può dire che una storia raggiunge i suoi obiettivi quando ha le seguenti caratteristiche: - intrattiene chi ascolta - genera trance narrativo - aiuta a capire concetti complessi - si ricorda - muove emozioni - fa identificare - protegge confini o invoglia a superarli. 2. Impresa: Ogni storia ha al suo interno qualche destino da compiere per realizzare se stessi (la carriera, la vita familiare, etc.). Nella narrazione di consumo il destino da realizzare è la promessa reale o ipotetica che il prodotto o servizio fa al cliente consumatoreeroe nel suo viaggio (diminuirà la cellulite, sarà più forte e performante, andrà più veloce, sarà più ammirato, etc.) Le buone storie hanno sempre lo stesso canovaccio narrativo, i temi sono sempre gli stessi: gioco, amore, lavoro, morte e religione, mentre la dinamica è quella in figura 4. 3. La sfida: Ogni narrazione implica che l’eroe affronti una sfida. Deve essere messo alla prova per capire e per capirsi, per scoprirsi e compiersi rischiando di fallire. Di solito questa sfida corrisponde a un punto debole dell’eroe, il cosiddetto “difetto fatale” (fatal flaw ). Nelle narrazioni di consumo conoscere il pubblico significa sfidarlo sul suo tallone d’Achille: vuoi davvero dimagrire? Vuoi davvero essere bella? 4. Avversario: Più elementi ci sono, più le storie funzionano, ma è necessario che ci siano almeno questi elementi fondamentali: 1. Eroe: Ogni racconto ha un eroe che è più o meno alla ricerca di se stesso e del suo destino. Questo eroe è in viaggio e nel suo percorso incontra persone 92 Il digital storytelling aiuta sempre l’eroe a compiere la propria impresa. Nelle storie di consumo l’aiutante è il brand e il prodotto è l’oggetto magico. Tutte le storie presentano un elemento oppositore. Qualcuno o qualcosa che ostacola l’eroe nel compimento di sé e della sua impresa. In una narrazione commerciale bisogna mettere qualche antagonista che ostacoli l’eroe: lo stress, la noia, il partner, il tartaro, etc. Si può inserire ciò che si vuole, ma più oppositori ci sono più forte sarà l’effetto di riconoscimento tra il cliente e il prodotto/servizio/azienda 9. Gran finale: E vissero tutti felici e contenti. Tutto è bene quel che finisce bene. La celebrazione del compimento d’impresa, la vittoria sul fatal flaw. Nelle narrazioni di consumo la visione della promessa compiuta. 5. Il conflitto/trauma: Tutti i racconti hanno una dinamica di lotta al loro interno. Non necessariamente una guerra, ma un contrasto, interno o esterno all’eroe. Questo conflitto spesso è anche un trauma che l’eroe deve superare per diventare valoroso. Nelle narrazioni di consumo tutti i prodotti e servizi dovrebbero essere raccontati per: curare, far evadere, salvare gli eroi-consumatori dai propri traumi e conflitti interiori. Narrazioni 2.0 Cosa è cambiato nello storytelling aziendale con l’avvento dei social media? - da narrazioni monoautoriali a multiautoriali: la narrazione aziendale prima era generata dall’azienda mentre ora è soggetta a contenuti generati anche dagli utenti (es. parodie) e la narrazione ha così tanti autori. - da una testualità a frammento: le narrazioni costruite attraverso post su Facebook sono frammenti. La testualità si è frammentata e si passa all’ipertestualità. - da contenuto aziendale chiuso a co-creazione di storie: lo storytelling è diventato condiviso, e potremmo dire che lo scopo della gestione social è in gran parte quello di costruire una storia condivisa. - storie proprie e storie improprie: per storie proprie si intendono quelle che hanno una forma narrativa vera e propria che riconduce alla grammatica della storia mentre le storie improprie sono quelle storie che pur contribuendo alla narrazione aziendale non hanno un format narrativo e non si possono definire storytelling. - Microstorie e macrostorie: Ci sono storie che sono chiuse in se stesse e che chiamiamo microstorie, mentre le macrostorie sono frutto del processo aggregativo che il consumatore fa. 6. Tesoro: In ogni narrazione c’è la presenza di qualche ricchezza reale o virtuale, carnale o spirituale, da raggiungere.Nelle narrazioni di consumo la promessa fatta dal prodotto o servizio diventa risorsa di vita e di prosperità che l’eroe deve raggiungere e possedere per compiersi e autorealizzarsi. 7. Oggetti magici: Ogni storia presenta oggetti di potere di cui l’eroe e anche l’avversario sono dotati. Nelle narrazioni di consumo il prodotto o servizio, nella sua essenza e desiderabilità è un oggetto magico che dà il potere a chi lo possiede. 8. Aiutanti: Tutti i racconti hanno al loro interno dei personaggi che aiutano gli eroi a compiere la propria impresa.Nelle narrazioni di consumo l’impresa che fornisce un prodotto o un servizio Si può pensare di passare dallo storytelling aziendale al marketing narrativo? Il concetto di partenza è che nel nuovo scenario 93 Il digital storytelling - Per gli utenti - Per il sistema più ampio: questo incontro deve generare valore oltre che per i due attori anche per la società in cui questa transazione viene a generarsi. del marketing 2.0 siamo passati da una logica della transazione alla relazione, quello che le aziende dovrebbero fare dunque è generare una relazione con i brand, come fanno i social media. Creare una relazione serve per fidelizzare nel lungo periodo. Le aziende devono smettere di parlare dei prodotti attraverso i loro canali social: è necessario un cambiamento di mentalità da parte delle imprese, che devono puntare invece a instaurare una relazione con la persona. Lo scopo dei canali social sarebbe quello di indurre le persone ad aiutare le aziende a costruire uno storytelling efficace. Il brand e le persone sono degli attori di una storia che si incontrano e per un periodo fanno un percorso insieme, perciò lo scopo del brand è creare delle opportunità per incontrare il cliente e accompagnarlo per un tragitto della sua vita, facendolo diventare parte del mondo della marca. Queste storie devono generare valore a tre livelli: - Per l’azienda Questo è un primo elemento attraverso cui si può pensare al marketing in termini narrativi e, in tal caso, si può immaginare, usando le figure retoriche, che tipo di ruolo può svolgere il brand in relazione ai consumatori a cui si rivolge. È il rapporto stesso tra brand e consumatore che diventa modellizzante in termini narrativi e questo ha delle ricadute enormi anche in termini applicativi e pratici su tutta una serie di dimensioni, come ad esempio il funnel di acquisto, che dovrebbe essere ripensato in una nuova ottica. Chiara Sammarco 94 Il digital storytelling Riferimenti bibliografici Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Milano, Feltrinelli, 1997. Di Fraia G., Storie con-fuse.Pensiero narrativo, Identità e Media, Milano, F. Angeli, 2004. Fontana A., Manuale di Storytelling. Raccontare con efficacia prodotti, marchi e identità d’impresa, Milano, Rizzoli Etas 2009. Fontana A., Story Selling. Strategie del racconto per vendere se stessi, i propri prodotti, la propria azienda, Milano, Rizzoli Etas, 2010. Sassoon J., Web Storytelling. Costruire storie di marca nei social media, Milano, F. Angeli, 2012. Sitografia https://www.facebook.com/osservatoriostorytelling?fref=ts http://www.storytellinglab.org/ 95 CREARE VALORE CON IL CONTENT MARKETING: PROCESSI ORGANIZZATIVI E STRUMENTI OPERATIVI Tratto dalla lezione di Guido Di Fraia «Parola d’ordine: attrarre attraverso i contenuti che generano valore» CONTENT MARKETING – TRANSMEDIALI – PERSONAS Il processo di storytelling essere riassunto in questo schema: Il punto di partenza è l’analisi della audience, ossia dei pubblici ai quali stiamo parlando, per capire come realizzare al meglio una narrazione organizzata transmediale e ideare gli elementi narrativi decisivi. Definito il nostro target occorre andare a costruire dei veri e propri idealtipi che definiamo personas. Essi sono dei soggetti aggregati sulla base di Grazie al capitolo precedente abbiamo potuto imparare che progettare uno storytelling aziendale efficace significa generare empatia e identificazione nei confronti delle persone alle quali ci rivolgiamo. Il modello di processo verso il quale orientarci per costruire questa tipologia di storytelling può OBIETTIVI DI BUSINESS Fig. 1 - Modello di processo di uno storytelling 96 Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi caratteristiche e variabili socio-comportamentali, quali possono essere gli interessi e lo stile di vita, che ci permettono di profilare in maniera precisa il pubblico al quale ci rivolgiamo. Per poter “disegnare” correttamente queste personas occorre catturarne e descriverne tre caratteristiche fondamentali: - la fase della vita: corrisponde a quel momento della vita che il soggetto sta attraversando (da non confondere con l’età anagrafica), che ci aiuta a scoprire e capire in modo più profondo e interiore la persona; - gli snodi esistenziali: ossia quei macrotemi di carattere profondo in merito ai quali quella pecifica personas è sensibile; - possibili e relativi fatal flavv: corrispondono a quelle paure, insicurezze e difficoltà caratteristiche di quel preciso periodo di vita precedentemente definito. To Business all’interno del quale è importante intercettare i decisori, che sono comunque esseri umani e persone vere, ma con interessi diversi l’una dall’altra: un esempio lampante è quello dei venditori e degli agenti di commercio, che cercano grazie alla loro esperienza di capire la vera natura degli acquirenti con i quali si devono confrontare. Gli obiettivi di business, e di conseguenza gli obiettivi di marketing, danno origine a quello che possiamo definire lo storytelling strategico, il cui obiettivo deve diventare, per l’appunto, obiettivo stesso di marketing. Le fasi di realizzazione partono innanzitutto dalla progettazione delle cinque dimensioni strutturali basiche (definite da Jerome Bruner già negli anni Settanta e delle quali abbiamo parlato approfonditamente nel capitolo precedente) che, ricordiamolo, sono: l’attore, l’azione, il contesto, lo scopo e lo strumento. Si può poi procedere con l’analisi degli universi discorsivi che ci permettono di capire quale possa essere la retorica più adatta per comunicare con una determinata personas: Per completare la definizione delle personas occorre poi inquadrarle in maniera più approfondita all’interno di un’immaginazione sociologica. Questo modello vale anche nell’ambito Business Fig. 2 - Le aree semantiche dei diversi universi discorsivi, con chiavi enunciative differenti. 97 Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi Il passo successivo consiste nel definire la trama, ossia nella possibilità di generare un racconto in vari modi diversi attraverso dei macromodelli narrativi (tragedia, epica, melodramma, commedia) in base alle persone che ne prendono parte, al livello di spinta eroica e al compimento dell’impresa. Questa fase è seguita successivamente dalla decisione finale della scelta di genere. generata con l’utente (e non il mero racconto del prodotto), e l’obiettivo è quello di farla durare il maggior tempo possibile. Questa tecnica è nata nel mondo anglosassone ed è in forte via di sviluppo sia nell’ambito del business to consumer sia in quello del business to business: in quest’ultimo settore è paradossalmente più utilizzata rispetto al primo. Occorre ricordare che nonostante “The content is the king”1, senza strategia non si può andar lontano: è fondamentale portare sempre il contenuto giusto, alla persona giusta, nel momento giusto. Il materiale fino ad ora realizzato può essere poi declinato in formati diversi che occupano a loro volta differenti canali. In questa fase è più che mai fondamentale avere un approccio strategico, orizzontale e trasversale, non esclusivamente affidato al creativo, che permetta di realizzare contenuti transmediali mantenendo sempre ben presenti gli obiettivi di marketing. Le 6 fasi della costruzione del content marketing Il processo per la costruzione di content marketing avviene in sei fasi: l’ascolto, la progettazione, l’ideazione, la produzione, la disseminazione e, infine, la verifica. Nell’era attuale dove tutto è “social” e dove tutto è “condiviso”, le aziende sono più che mai chiamate a raccontare se stesse e a diventare editrici della propria storia. Manca purtroppo in Italia la cultura aziendale necessaria per poter creare al meglio questi contenuti; mancano le figure professionali ma soprattutto vengono meno i processi che permettono la creazione di modelli volti all’aiuto della costruzione di queste narrazioni. Fase 1) Ascolto dei pubblici La fase di ascolto e analisi preliminare del nostro target non deve essere mai tralasciata nell’ambito del marketing e non poteva pertanto mancare nell’applicazione di questo strumento. Lo scopo è quello di individuare quello spazio di intersezione Il content marketing ASCOLTO DEL PUBBLICO Nasce in questo periodo di evoluzione dello storytelling aziendale il content marketing, ossia una tecnica di marketing che consente di creare e condividere contenuti rilevanti di valore per attrarre un target ben definito, con l’obiettivo di guidare l’azione del cliente nel modo più proficuo possibile. VALORE DEL BRAND Il content marketing si pone come punto di convergenza in cui confluiscono marketing e comunicazione aziendale e costituisce un metodo strategico a cui tutte le aziende dovrebbero approcciarsi. Nodo centrale è la relazione 1 Citazione di Guido Di Fraia durante la lezione del 29 Aprile 2016 98 INTERESSI DEL PUBBLICO Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi quel momento con il brand. Ogni contenuto di valore può viaggiare su quattro dimensioni che corrispondono rispettivamente ad altrettanti differenti obiettivi di contenuto: - formativo/educativo col fine di insegnare all’utente come utilizzare uno strumento, un servizio ecc; - ludico/ricreativo per intrattenere l’utente con contenuti divertenti e piacevoli; - informativo, per fornire all’utente dati e notizie utili; - stimolo all’interazione, per generare coinvolgimento, dialogo e partecipazione attiva. fra i due mondi costituiti dal valore del brand e da quello degli interessi del pubblico.È possibile avvicinarsi a questa fase utilizzando sia fonti interne, sia fonti esterne, analizzando tutti i canali e tutte le opportunità che permettono di entrare in contatto con il proprio pubblico di riferimento. Tra le fonti interne è molto importante la rete vendita, mentre tra le fonti esterne sempre più rilevanti sono il social media listening e le ricerche di mercato, senza tralasciare la fonte di dati più grande al mondo: le chiavi di ricerca di Google. Terminata la prima parte di ascolto si può passare ora alla costruzione e identificazione delle personas in base all’immaginazione sociologica, che permette di inserirle nel contesto più adatto alle loro caratteristiche. Occorre dettagliarne puntualmente e precisamente la natura e le caratteristiche in modo da poter fare leva sugli obiettivi e sulle sfide con le quali si deve confrontare. Ogni personas andrà quindi modellizzata in relazione alla fase del customer journey in cui si trova. Potremo pertanto riconoscere tre livelli di personas differenti: - le marketing personas: coloro che sono all’inizio della relazione con il brand o con il prodotto; - le buyers o users personas: coloro che hanno già acquistato e utilizzano il prodotto; - le fan personas (advocacy): i consumatori fedeli che hanno allacciato una relazione duratura con il brand. Fase 3) Ideazione Questa è la parte più creativa di tutto il processo, all’interno della quale i contenuti vengono ideati in base agli obiettivi perseguiti dalle diverse personas definendone: - i contenuti; - il linguaggio; - i format; - la periodicità. Esistono vari format attraverso i quali veicolare i contenuti, è fondamentale pertanto conoscerne le grammatiche e i linguaggi per ottenere un risultato finale professionale e credibile. Fase 4) Produzione Arrivati a questo punto si può procedere con la creazione vera e propria del contenuto. Spesso nelle aziende ci si scontra con la dura realtà della mancanza di risorse, tempo, processi e strumenti per procedere con questa operazione. Tuttavia esistono alcune piattaforme abilitanti che permettono di costruire, approvare e veicolare i contenuti dal primo all’ultimo step del processo. Fase 2) Progettazione Consiste nel mettere a punto la strategia dei content in base agli obiettivi di business, agli obiettivi di marketing, ai pubblici di riferimento, alla tipologia dei contenuti e ai risultati attesi. I content vengono generati non per una sola personas, ma per più personas in base al livello del funnel di acquisizione nel quale si trovano in quel momento: il contenuto varia quindi in base alla tipologia di relazione che stanno vivendo in Fase 5) Disseminazione Questa fase consiste nel far giungere i contenuti ai relativi pubblici attraverso i canali più adatti a loro. Uno strumento che può venire utile in questo momento del processo è il Piano 99 Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi - Siemens ha creato un sito con un gioco interattivo per bambini chiamato The Human Body che permette di costruire uno scheletro attraverso immagini realizzate con le più avanzate tecnologie e di testare le proprie conoscenze sul mondo dell’alimentazione; - The Mosaic Company, società che vende fosfati e potassio, ha realizzato una serie di fiction audio dove vengono raccontate problematiche e situazioni tipiche della coltivazione della soia; - Alcatel – Lucent ha costruito una serie di sitcom dove vengono raccontate problematiche aziendali comuni; - BNL ha creato alcuni portali i cui argomenti non coincidono con il mondo della banca tradizionale: ad esempio We are tennis è un portale dove vengono inseganti trucchi e tecniche per giocare a tennis. In questo modo viene a crearsi una relazione con il pubblico che va al di là di quella puramente finanziaria o di servizio on-line della banca stessa. Editoriale (in gergo il PED) che permette di creare una vera e propria tabella all’interno della quale si incrociano i contenuti, i canali e le tempistiche di pubblicazione in un unico file, solitamente condiviso fra i vari attori protagonisti dell’elaborazione dei contenuti stessi (grafico, account, cliente). Fase 6) Verifica Quest’ultimo passaggio ci consente di effettuare analisi metriche dei risultati al fine di ottimizzare costantemente contenuti e processi. F OC U S Best Practices Di seguito alcuni esempi di utilizzo proficuo e intelligente di content marketing: - General Electric su Facebook Di quali argomenti potrebbe parlare questa realtà? Quali contenuti potrebbe generare? La G.E. è riuscita a costruire un PED originale ed interessante basato sull’argomento “come l’energia può aiutare la scienza”. Un efficace argomento per incuriosire sia il pubblico affezionato sia quello nuovo; Priscilla Zanda 100 Creare valore con il content marketing processi organizzativi e strumenti operativi Riferimenti bibliografici Fontana A. Storytelling d`impresa. La guida definitiva, Hoepli, 2016. Di Fraia G. Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, 2011. Di Fraia G. Social Media Marketing. Strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoepli, 2015. Sitografia www.contentmkt.it 101 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research Tratto dalla lezione di Stefano Pace «Il web delle origini è inteso come un’enorme libreria, un’enorme piattaforma in cui tutte le informazioni del mondo sono presenti e, per la prima volta nella storia, tutto diventa accessibile. Il portale rappresenta l’ingresso in questo mondo (…), un mare magnum infinito. Google nasce sostanzialmente lì.» remix – insight – coding I trend emergenti del marketing Oggi ci si interroga spesso sul modo in cui un brand possa intercettare la nuova cultura digitale. Per trovare risposta al quesito, è fondamentale prendere in considerazione i trend emergenti. reality: nella società odierna, così come è stata pensata da Zuckerberg, viene a mancare una parte essenziale della realtà, ovvero il corpo. Quest’ultimo sparisce, dal momento che ciò che conta non è più tanto la corporeità, quanto la socialità. In primis, la cosiddetta habit-forming technology: i social sono tecnologie che stanno sfruttando, in maniera anche positiva, le abitudini degli individui. Pertanto, un modo per capire cosa siano i social network, è considerarli nell’ottica dell’abitudine (habit): qualcosa che viene compiuto in maniera routinaria, senza quasi accorgersene. Sui social network, effettivamente, si è soliti compiere dei micro-atti che non hanno un senso effettivo, profondamente pensato, ma che si presentano come azioni compiute senza riflettere. Pertanto, si giunge ad affermare che le piattaforme di successo sono quelle in grado di creare abitudini, comportamenti routinari, a bassissima intensità, che vengono ripetuti nel corso del tempo. La tecnologia è entrata a far parte delle nostre vite a tal punto che può essere concepita come appendice del nostro corpo. Perdere un dispositivo equivale a perdere una parte di noi stessi. Il secondo trend emergente concerne la virtual Il terzo trend è denominato the stream (il flusso) ed è stato individuato da un blogger iraniano, Hossein Derakshan1, il quale è stato imprigionato per sei anni ed è pertanto rimasto escluso dal mondo digitale. Al termine della sua reclusione ha ripreso ad utilizzare i blog e ha scoperto Facebook. Il blogger si è reso conto, grazie al suo “sguardo vergine” rispetto ai social network, che qualcosa era cambiato nell’ambiente: prima dei social network, internet veniva utilizzato come enorme sistema di link interconnessi, in cui far scoprire testi sconosciuti, posti all’interno di un testo che li richiamava. È evidente che, al fine di poter dare una corretta ed oggettiva definizione dei social network, bisognerebbe estraniarsene e guardarli con occhio oggettivo. La prospettiva del tutto obiettiva di Derakshan gli ha consentito di scoprire un mondo, quello dei social appunto, come un flusso, in cui si entra e si eseguono azioni/operazioni, che sono il risultato di complessi algoritmi. Il quarto e ultimo trend è il cosiddetto FOMO2 L’articolo in lingua originale è all’indirizzo https://medium.com/matter/the-web-we-have-to-save-2eb1fe15a426#. osql2d5j9 2 FOMO: acronimo di Fear of missing out. Si tratta della paura di perdere qualcosa che sta accadendo nel proprio dispositivo l’ansia di perdere parti di conversazione sui social media. 1 102 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research In merito al concetto della creazione sul web, è interessante prendere in considerazione un fenomeno che ha preso piede negli ultimi anni: il remix3. Sostanzialmente si modifica qualcosa che già esiste, in tutto o in parte. Un esempio di remix è quello fatto tempo fa su un’immagine di Hillary Clinton. L’allora Ministro degli Esteri si trovava a bordo di un aereo militare e le era stata scattata una foto, mentre scriveva sulla tastiera del cellulare. L’immagine è stata remixata e, in pochissimo tempo, sono stati creati migliaia di remix, tutti aventi il medesimo schema: persone potenti in un contesto parodistico. Effettivamente, fare remix può apparire banale, in realtà c’è un livello di sofisticazione tale per cui esistono regole da seguire. In questo specifico caso, erano necessari: un contesto parodico, la risposta negativa di Hillary, il suo comportamento condiscendente etc. ovvero il timore di essere messi da parte. Per superare il FOMO, sono necessarie esperienze forti che permettano di staccarsi dal costante flusso in cui ci si ritrova immersi. I quattro trend analizzati concorrono a formare il background all’interno del quale vanno considerati elementi come banner pubblicitari, promozioni e così via. L’approdo a questa fase è stato il risultato di un graduale passaggio che ha implicato quattro differenti stratificazioni. Le 4 stratificazioni geologiche del web Inizialmente, si parlava del web delle origini: il web inteso come un’ enorme libreria/piattaforma, all’interno della quale erano presenti tutte le informazioni del mondo. In questa prima fase, per la prima volta nella storia, tutto diventa accessibile. I grandi player dell’ epoca erano le imprese che rendevano possibile orientarsi in quella enorme Babele di informazioni, con l’intenzione di facilitare la navigazione, in modo da garantirsi un vantaggio competitivo. Si tratta di un primo strato al di sopra del quale si è andato a sedimentare un secondo: la fase del replicare (copiare, fare forward, etc.). È in questa fase che ha preso vita il flusso: se un contenuto piaceva, lo si metteva in attachment, lo si copiava o inviava per e-mail. È l’epoca di Napster (lo YouTube delle origini). Tutto questo si è stratificato, lo si continua a fare ancor oggi (il retweet è essenzialmente questo). La terza fase, quella attuale, viene definita del creare (non si tratta più solo di copiare e replicare, ma ci si impegna a creare qualcosa). Tra i big player di quest’epoca si trova, ad esempio, Wikipedia, che crea un qualcosa che prima non esisteva (bit di conoscenza condivisi, per creare voci di un’enorme enciclopedia). La quarta fase, la più incerta, è quella dell’ agire: il web è talmente importante che potrebbe persino arrivare a cambiare la società. Si tratta tuttavia di una supposizione, la cui veridicità è ancora da confermare. Fig. 1 - Esempio di Remix Il remix è il risultato della modifica di un prodotto mediale attraverso l’aggiunta, la rimozione o il cambiamento di una o più delle sue parti. Rappresenta una perfetta combinazione di creazione e replica. 3 103 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research A livello di marketing, le campagne migliori sono quelle che consentono alle persone di remixare, di creare, partendo da oggetti semplici a cui viene dato spessore. È importante capire che ormai si sta vivendo nell’era dei “makers”, coloro che creano oggetti da rimettere in circolo. Ne è esempio il romanzo “Pride and Prejudices and Zombies”: il romanzo di Jane Austen è stato modificato quel tanto da creare qualcosa di nuovo, pur mantenendo inalterate le caratteristiche di fondo. In rete vige ormai l’entropia creativa, molto basata sul “play”: si tratta di un aspetto collaterale della propria vita, qualcosa che viene fatto mentre si è intenti a fare qualcosa di serio. Questo conduce alla problematica del talento sul web. Secondo la visione critica dello scrittore Andrew Keen, la rete è piena di materiale di scarto, da cui è pressoché impossibile che possa nascere qualcosa. La questione è che il linguaggio della rete è talmente accessibile che tutti possono partecipare, con il loro livello di competenze. La soluzione non consiste nell’impedire che il remix avvenga, ma nel ricorrere a sistemi di filtraggio, di selezione, che consentano di avere il remix che effettivamente interessa. Questa è la vera sfida di ogni social: continuare il flusso ma scoprire in che modo riuscire a distinguere il mediocre (che deve comunque continuare a esistere) dal contenuto di qualità. scrivere storie e articoli (una sorta di proprio blog). È dunque l’utente stesso a riempire la piattaforma di contenuti. Medium rappresenta il tentativo, da parte del co-fondatore di Twitter Evan Williams, di creare contenuto di qualità. Per un brand, è fondamentale fornire ai consumatori degli agganci: oggetti che possano esser remixati dai (più o meno talentuosi) consumatori. I brand migliori non creano tutto e nemmeno lasciano creare tutto, ma riescono a creare uno spazio destinato al remix, consentono alle persone di giocare “in senso serio”. F OC U S Il progetto di social media marketing dei Grammy Awards: Grammy Award è un format di premi musicali che qualche anno fa è stato arricchito grazie ai social media. I Grammys avevano un problema: erano percepiti come qualcosa di vecchio, tant’è vero che venivano chiamati “grannys”. Il target interessato (persone di età compresa tra i 18 e i 34 anni), rappresentavano solo il 14% della audience. L’obiettivo, a quel punto, consisteva nel riuscire ad incrementare l’engagement, svecchiando il brand, aumentando l’audience e iniziando a parlare un linguaggio più moderno. Il tutto, senza modificare il format. A questo punto, la CBS (produttore dei Grammys) ha sviluppato il progetto “We’re all fans”, mediante cui mettere a sistema i social media con la tv, il remix e la volontà dei consumatori di partecipare con il brand. Il progetto consisteva nel remixare gli artisti (protagonisti dei Grammys). In primo luogo, si richiedeva il loro consenso e, in secondo luogo, si invitavano i fan a produrre un contenuto che, componendosi, formasse la foto del loro artista preferito. I fan potevano iscriversi al sito e caricare un video che li ritraesse mentre cantavano il brano del proprio artista preferito e, una volta postato il contenuto, questo si andava ad aggiungere come frammento al mosaico fotografico dell’artista. Più contenuto i fan inviavano, più velocemente si formava l’immagine. Al termine del progetto, è stato calcolato che il 36% del traffico Il remix come strumento strategico d’impresa Ogni impresa, per riuscire ad utilizzare il remix in maniera efficiente ed efficace all’interno della propria strategia comunicativa, deve riuscire a distaccarsi dall’arcaica idea per la quale possa essere essa soltanto a creare contenuti e iniziare a ragionare secondo una nuova ottica: creare le rive dentro cui il fiume di contenuto possa crearsi. I manager dovrebbero riuscire a predisporre una piattaforma, che venga successivamente popolata da contenuti di qualità, messi a disposizione dai remixer. Ne è emblematico esempio Medium, un meta-blog all’interno del quale ogni utente può 104 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research web sul sito è derivato dal caricamento del video di Lady Gaga (che ha collezionato quasi 3 milioni di visualizzazioni su YouTube). Nello specifico, tra i risultati raggiunti con il progetto, vi sono: il raggiungimento di 26 milioni di telespettatori, un raddoppio della percentuale di penetrazione del target interessato e il conseguimento di 2 milioni di fan online. quella qualitativa spesso non ha ipotesi: si va sul campo e ci si lascia “inondare” dai dati, dai contenuti, per fa sì che emerga un senso. Inoltre, il metodo quantitativo assume che il rispondente conosca ciò di cui sta parlando; viceversa, l’assunto del qualitativo è che il rispondente stesso non sappia ciò che fa (esiste un senso superiore che lui/lei applica in qualità di agente, senza sapere di farlo). Una volta terminata la ricerca, si ottiene un insight4. A questo punto, quando si è compreso qualcosa sul soggetto, glielo si comunica e, se la persona resta stupita, vuol dire che ha capito un po’ meglio il suo comportamento. Si tratta di un’operazione molto complessa, che necessita di molto esercizio e di un protocollo. Un modo per poter avere l’insight, e per potersi distanziare rispetto ai dati, è quello di adottare un protocollo di data assembly5. Questa può prevedere, ad esempio, la trascrizione delle interviste one to one con i rispondenti, oppure blog, commenti e articoli scritti sull’argomento, oggetto d’indagine. A questo punto, la prima cosa che si fa normalmente è quella di iniziare ad interpretare i dati. In realtà, bisogna procedere attraverso una corretta data analysis, attraverso un coding (una codificazione), che è un modo con cui esercitarsi a distanziarsi da ciò che si sta leggendo (leggere un testo in modo da non attribuirne un senso, ma far sì che questo emerga dal testo). L’operazione di coding è stata concepita all’interno della “Grounded theory”, sviluppata anche in ambiente medico, poiché in un simile contesto era necessario scavare nel vero senso di ciò che le persone dicevano (ad esempio: “sto bene/male, sono ottimista/pessimista”). Il coding avviene attraverso tre step che, se applicati in maniera routinaria, possono avvicinare all’insight: il primo è l’open coding6. Fig. 2 - Frame dal video “We are all fans”. La consumer research come ricerca qualitativa Il primo passo da compiere quando si studia il consumatore e ciò che produce, è sospendere il proprio giudizio, ciò che implicitamente già si sa su un dato argomento e riuscire a guardare l’oggetto per come esso realmente è (spesso qualcosa di molto diverso da ciò che si pensava che fosse). Successivamente, è fondamentale lo studio del comportamento del consumatore. In questa fase, rivestono notevole importanza le ricerche di tipo qualitativo. A differenza della ricerca quantitativa che presenta un’ipotesi da verificare, Insight, letteralmente “visione interna”: è un termine di origine inglese usato in psicologia e definisce il concetto di “intuizione”, nella forma immediata ed improvvisa. 5 Data assembly: processo di raccolta delle informazioni. Fase dell’analisi qualitativa durante la quale si prendono annotazioni basate sull’osservazione, la registrazione di eventi o di interviste, la raccolta di documenti etc. 6 Open coding: codificazione dei contenuti. È lo stadio iniziale di un’analisi qualitativa di dati. Una volta completata questa fase, si procede con l’axial coding e il selective coding. All’ultimo stadio della ricerca, queste operazioni di codifica aiutano ad elaborare teorie, mediante un processo induttivo (Grounded Theory). 4 105 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research Fig. 3 - Schema Grounded Theory Si tratta sostanzialmente di un attachment di etichette alle diverse frasi/porzioni di testo; allo scopo di riuscire a capire qual è il contenuto o cosa evoca una determinata porzione di testo, una determinata affermazione del consumatore, come fosse separata da tutto il resto. Secondo step è quello del cosiddetto axial coding7: si sposta l’attenzione sui codici e le etichette per capire se esistono collegamenti tra le categorie e riuscire a formare, in qualche maniera, dei grappoli tematici. Si tratta di un processo iterativo: si fa open coding, poi axial coding e si ritorna sul testo per capire se il senso che sta emergendo è effettivamente quello contenuto al suo interno. Questa operazione si ripete per più volte, per poi giungere all’ultimo step: il selective coding8. Delle categorie raggruppate, si identificano i grappoli più rilevanti (i 2-3 temi importanti, contenuti nel testo). A differenza del metodo quantitativo, nel qualitativo non vi è mai l’assoluta certezza di capire ciò che sta emergendo dal testo. L’unica modalità con cui poter affermare di aver capito ciò che il consumatore sta dicendo è l’insight: si riporta l’insight alle persone intervistate e queste ne danno una conferma. Nella ricerca qualitativa va curata anche la presentazione finale: il data display. L’insight va comunicato adeguatamente all’audience, va condiviso. A tal proposito, è emblematico l’esempio di un primatologo che fa esperimenti ed effettua, pertanto, ricerche di tipo quantitativo. La sua domanda di ricerca concerne l’ipotetica esistenza di un senso di giustizia nei primati. 7 Axial coding: scomposizione dei temi centrali durante l’analisi qualitativa dei dati. La codifica assiale fa riferimento al processo che consiste nel mettere in relazione tra loro codici (categorie e concetti), mediante una combinazione di ragionamento induttivo e deduttivo. 8 Selective coding: fase finale di analisi dei dati. Durante la codifica selettiva, categorie e concetti di base (precedentemente identificati) vengono ulteriormente definiti, sviluppati, perfezionati e poi riuniti per raccontare una storia più grande. 106 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research Fig 4 - Frame del video “Even monkeys understand justice and equity”. Lo scienziato ha constatato che le persone non restano colpite dai dati, quanto piuttosto dalle reazioni emotive manifestate dai primati. È questo che riesce a convincerle. Per questo motivo, ha deciso di adottare un metodo qualitativo per comunicare adeguatamente il suo insight. La componente emotiva è dunque fondamentale. L’emozione è effettivamente una forma di cognizione più evoluta: riesce a dire, in pochi secondi, cose che ore e ore di pensiero non riescono a comunicare. Ida Maggi 107 La co-creazione nella comunicazione: fra marketing e consumer research Riferimenti bibliografici L. Lawrence, Remix. Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), ETAS, Milano, 2009. D. della Porta, L’intervista qualitativa, Laterza, Roma-Bari, 2010. P. Gallina, L’anima delle macchine. Tecnodestino, dipendenza tecnologica e uomo virtuale, Dedalo, Bari, 2015. S. Spiggle, Analysis and Interpretation of Qualitative Data in Consumer Research, Journal of Consumer Research, 1994, pp. 194-203. 108 Sezione 3 DA IDENTITÀ A REPUTAZIONE: COME CAMBIA LA BRAND COMMUNICATION NELLA NETWORK SOCIETY? BRAND COMMUNICATION TRA MEDIA TRADIZIONALI E NEW MEDIA Tratto dalla lezione di Roberto Grandi «Non è possibile non avere un comportamento…ne consegue che non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio.» COMUNICAZIONE D’IMPRESA - SOCIAL MEDIA - SOCIAL NETWORK Qualunque comportamento comunica qualcosa: anche il semplice guardarsi negli occhi è un modo per comunicare con l’altro soggetto. È impossibile avere un non-comportamento, quindi la non-comunicazione non esiste. Per affrontare un discorso sui cambiamenti che negli ultimi quindici anni la comunicazione d’impresa ha subito attraverso l’avvento dei media digitali, si deve partire rispolverando il concetto di comunicazione. Il termine deriva dalla parola latina communico = “mettere in comune”, “far partecipare”, che a sua volta è formata dalle radici cum = con, e munire = legare. Quando si parla di comunicazione ci si riferisce quindi al processo di condivisione e di scambio di messaggi (che possono essere pensieri, opinioni, esperienze) attraverso un canale e secondo un codice condiviso, tra un sistema e un altro della stessa natura o di natura diversa. Quindi la comunicazione presuppone necessariamente una relazione, un’interazione. La comunicazione d’impresa Quando si parla di comunicazione d’impresa ci si riferisce alla pianificazione e alla gestione di sistemi di relazioni che utilizzano un insieme di tecniche, strumenti e mezzi per attivare un processo di comunicazione. Utilizzano un testo e sono indirizzati verso una serie ampia di pubblici di riferimento. La comunicazione d’impresa si divide in comunicazione interna (per i dipendenti) ed esterna (per un pubblico più vasto ed eterogeneo). È frequente ancora oggi trovare manager e imprenditori che riferendosi alle proprie aziende affermano di «non comunicare», «non aver nulla da dire». Questo atteggiamento dimostra un inconsapevole problema di comprensione: neppure le imprese possono fare a meno di comunicare. Paul Watzlawick, uno dei fondatori della scuola di Palo Alto, afferma che «se più persone sono nello stesso luogo, si instaura automaticamente un processo di comunicazione». È quindi possibile interagire con gli altri individui senza dover parlare. Questo perché anche il silenzio comunica. Watzlawick arriva così ad enunciare cinque assiomi che sintetizzano le caratteristiche principali della comunicazione. Il primo assioma è il più famoso e afferma: «Non si può non comunicare», poiché «Ogni comportamento ha valore di messaggio»1. Gli ambiti della comunicazione d’impresa sono i seguenti: - Comunicazione di marketing Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971. 1 110 Brand communication tra media tradizionali e new media Fig. 1 - La Volkswagen ha lavorato tutta la vita per trasmettere un’immagine che facesse riferimento all’affidabilità e alla sicurezza. Quindi lo scandalo Dieselgate ha avuto un impatto ancora più devastante poiché ha colpito il punto più sensibile della strategia su cui si fonda questo brand. - Relazioni pubbliche - Comunicazione interna La comunicazione di marketing e le relazioni pubbliche sono esempi di comunicazione esterna. pubblica e i pubblici influenti al fine di creare benevolenza (goodwill) e promuovere un atteggiamento favorevole nei confronti dell’impresa. L’obiettivo è quello di comunicare in modo positivo l’immagine dell’azienda per aumentarne e migliorarne la reputazione. La caratteristica di queste relazioni è che al centro delle attività di comunicazione vi è l’impresa. I servizi base che vengono utilizzati sono le relazioni con i media e l’organizzazione di eventi, ma andando più nello specifico possiamo citare anche le sponsorizzazioni, la comunicazione in situazioni di crisi, quella finanziaria, ambientale, pubblica, per le piccole e medie imprese e quella interculturale. Con comunicazione di marketing si intende quell’insieme di attività di comunicazione di beni e/oservizi dell’impresa, rivolte agli utenti e ai clienti, sia attuali che potenziali, che hanno l’obiettivo di promuovere presso il pubblico di riferimento tali beni e/o servizi. Per fare alcuni esempi concreti si può pensare alla pubblicità, alle brochure istituzionali, all’editoria commerciale, alle pubblicazioni tecnico-specialistiche, alle newsletter per i clienti, alla comunicazione sul punto vendita, packaging (qualunque spazio è un potenziale spazio comunicativo), marketing diretto (insieme di tecniche per ottenere una risposta diretta dal pubblico), sales promotion, digital media. La comunicazione interna invece non è altro che l’insieme di attività di comunicazione rivolte ai pubblici “interni” dell’impresa (dipendenti in primis), il cui principale obiettivo è creare senso di appartenenza nei confronti dell’organizzazione di cui si fa parte e supportare i flussi di lavoro. Con relazioni pubbliche invece ci riferiamo a quelle attività di comunicazione verso l’esterno volte a influenzare e informare l’opinione 111 Brand communication tra media tradizionali e new media Le imprese comunicano l’identità dell’azienda, ossia ciò che la rende identificabile all’esterno e che viene stabilita dall’azienda stessa. L’identità è quindi un insieme di valori, un sistema filosofico. I valori di base sono una sorta di invariante: ciò che varia sono i modi di comunicarli o rappresentarli. Immaginiamoci un iceberg: la parte esterna, quella visibile, è l’insieme delle rappresentazioni che le persone hanno e che cambiano al variare della comunicazione, dei prodotti e dei servizi, mentre la parte nascosta è l’identità dell’impresa, invariabile. Valorizzare e successivamente comunicare: solo dopo aver stabilito l’identità di un’impresa si potrà iniziare la fase della comunicazione. La comunicazione diventa efficace quando vi sarà corrispondenza fra l’immagine2 che l’azienda presenta e la sua identità; quando i comportamenti adottati coincideranno perfettamente con la proiezione che l’impresa, l’ente o l’organizzazione ha voluto dare di sé. generando specifiche aspettative. Se le performance del mio prodotto non sono all’altezza delle attese create, i ritorni sono negativi. L’immagine di un’impresa è una cornice di senso: la percezione dei singoli comportamenti viene valutata in modo diverso in base alla cornice in cui viene inserita. Se la comunicazione avviene tra due diretti interessati è più semplice rispetto a quella che avviene attraverso un medium di comunicazione di massa. In questo secondo caso si deve tenere in considerazione: - Il codice linguistico (non solo la lingua ma anche la difficoltà delle parole); - L’enciclopedia (la preparazione dei miei destinatari); Se nel primo caso il problema è proprio quello di non capire, nel secondo caso si arriva al fraintendimento. - La competenza comunicativa (non tutti hanno la stessa predisposizione e competenza nei confronti degli stessi destinatari). L’immagine non è figlia della mia comunicazione, è l’insieme delle esperienze, cognizioni, impressioni: è una costruzione sociale che ha per fondamento l’opinione. L’immagine ha come obiettivo quello di creare delle aspettative e di fungere da cornice (frame). Con una buona campagna, un’impresa può alzare il livello di percezione dei suoi prodotti I canali social Le imprese sono state costrette a ripensare alle proprie strategie e al proprio approccio alla comunicazione in seguito all’avvento dei social media, in particolare dei social network, Fig. 2 - I simboli di “Rispondi”, “Re-tweet”, “Preferito” e “Altro” usati in Twitter Per immagine riferita a un’impresa, ente o organizzazione si intende l’insieme di esperienze, cognizioni, impressioni, opinion che gli individui si formano, in maniera diretta o indiretta, coscientemente o meno, in relazione a quella data impresa, ente o organizzazione. 2 112 Brand communication tra media tradizionali e new media Social Media Quando si parla di Social Media ci si riferisce a quelle tecnologie e pratiche online che le persone utilizzano per condividere testi, immagini, video e audio. Si differenziano dai media tradizionali innanzitutto per il basso costo e quindi per la possibilità offerta a chiunque di poter condividere i propri contenuti (i media tradizionali - giornali, riviste, televisione, cinema - richiedono ingenti somme per essere utilizzati, oltre ad autorizzazioni di vario tipo). Un’altra peculiarità dei social media è la diffusione capillare e geograficamente illimitata che i media tradizionali ovviamente non possono vantare. Inoltre i media tradizionali sono legati a delle scadenze di pubblicazione non comprimibili, mentre i social media possono sfruttare l’immediatezza. Infine, dal punto di vista giuridico, i media tradizionali sono ritenuti responsabili dei loro contenuti, cosa che non avviene per i social media (quest’ultimo aspetto, comprensibilmente, può risultare estremamente pericoloso). chiara e semplice: si individua un bisogno del possibile cliente e lo si fornisce in modo gratuito. All’inizio questo avveniva in modo unidirezionale e attraverso il mezzo testuale: i primi blog nascono nel 1999 e sono composti da testi molto lunghi. L’1% degli utenti ne era il creatore e il restante 99% il fruitore. Ma negli ultimi dieci anni i social media si sono evoluti verso contenuti più brevi (Twitter), più ricchi di immagini (Facebook-InstagramPinterest) e più partecipativi (Tumblr). Da una parte non c’è una produzione diretta del contenuto, mentre dall’altra vi è un consumo più strutturato: attraverso i tasti re-tweet o re-blog si dà la possibilità all’utente di condividere contenuti senza produrne di originali: il partecipante diventa contemporaneamente il protagonista. In più i social network si stanno velocemente trasformando da testo-centrici a visivi. L’utente vuole essere in grado di creare e consumare in modo semplice e veloce. Si stanno ponendo le basi per il cosiddetto image marketing. Ma cos’hanno in comune tutti questi canali social? Il modo migliore per crescere velocemente, come hanno fatto Facebook, Twitter, Pinterest ecc. è fornire un servizio gratuito per tutti i clienti che le hanno obbligate a rivedere i propri metodi di comunicazione. La logica dei social è molto «There are no free lunches on the internet» (J. Naughton) F OC U S Fig. 3 - Screencap del video “Dumb ways to Die” prodotto da Metro Trains Melbourne nel Novembre 2012 e che diventò virale su YouTube con 92.9M di visualizzazioni https://www.youtube.com/watch?v=IJNR2EpS0jw 3 113 Brand communication tra media tradizionali e new media Ma esattamente come sostiene Naughton «Non ci sono pranzi gratuiti sul web»: tutti questi social network si mantengono grazie alla pubblicità, che ha la possibilità di agire in modo più diretto e preciso, basandosi su target specifici e riuscendo a fare una comunicazione che sia meno intrusiva della precedente (segmentazione del pubblico). La comunicazione pubblicitaria tradizionale in qualche modo selezionava i produttori (si pensi ad esempio a come il prime-time televisivo non è alla portata di tutti). Con la rete invece tutto è alla portata di tutti e tutti possono diventare produttori di contenuti interessanti. La pubblicità tradizionale viveva di campagne di una determinata durata, in rete invece posso fare campagne pubblicitarie in modo continuativo e tenendo in considerazione vari medium (online advertising). Una strategia di marketing resa possibile dall’avvento dei social network è lo sfruttamento della viralità della rete: per le immagini, ma soprattutto per i video, un’azienda può investire anche solo nella fase della produzione perché se il contenuto multimediale creato presenta caratteristiche virali, verrà condiviso e quindi diffuso online dagli utenti stessi. Grazie ai moderni mezzi di comunicazione di massa non vi è più bisogno di intermediari fra F OC U S Social Network I Social Network nascono alla fine degli anni novanta e diventano sempre più popolari con il passare degli anni. Non sono altro che una rete sociale gratuita e fruibile attraverso internet che permette la comunicazione tra più soggetti e la condivisione di informazioni testuali, fotografiche, musicali o animate. Per entrare a far parte di questa rete sociale è necessario fare una breve e veloce iscrizione e solo dopo aver creato un proprio account si ha la possibilità di sfruttare appieno le potenzialità del Social Network prescelto. Le motivazioni che spingono persone ed aziende ad iscriversi a un determinato social network possono essere di varia natura, ma generalmente l’obiettivo è quello di creare delle relazioni sulla base di interessi comuni. l’azienda e il pubblico, ma è possibile rivolgersi direttamente alla potenziale clientela. Ottavia Galbiati 114 Brand communication tra media tradizionali e new media Riferimenti bibliografici Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1971. Pitteri D., Pellegrino A., Advertmarketing: nuove forme di comunicazione d’impresa, Carocci Editore, Roma, 2012. Gnasso S., Iabichino P., Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono, Hoepli, Milano, 2014. Alan J. D., Warren J.L., Social Network Theory and Educational Change, Harvard Education Press, Cambridge, 2010. Olins W., Brand New. Il future del branding nella società che cambia. Einaudi, Milano, 2015. 115 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing Tratto dalla lezione di Bernard Cova «Prima la marca rappresentava un sigillo di garanzia, oggi diventa un vero e proprio partner dei consumatori» Brand society - community,- marketing tribale Nel corso degli ultimi anni è avvenuto un profondo cambiamento nel modo in cui le persone si relazionano con i brand di loro interesse. Il cambiamento è stato il risultato prodotto da un diverso modo di concepire le marche da parte dei consumatori, a sua volta effetto di un diverso modo di comunicare e proporsi da parte degli stessi brand. La marca diventa oggi oggetto di condivisione da parte del suo pubblico, per cui non è più possibile fare comunicazione spingendo la stessa verso i suoi consumatori, ma al contrario diventa necessario instaurare con essi un dialogo, rendendoli partecipi di una vera e propria esperienza che amplia i confini del consumo e trasforma la marca da funzionale a iconica, vero e proprio simbolo di un’ esperienza di partecipazione totalizzante. Questa situazione produce inevitabilmente forti conseguenze anche all’interno del reparto marketing delle aziende, reparto che si trova a dover mettere in discussione il suo approccio classico-razionale alla comunicazione, per dare spazio ad un orientamento che sia più emotivo e relazionale. Assume sempre più importanza la partecipazione ed il coinvolgimento del consumatore, che non è più parte distante e sconnessa dal mondo della marca ma diventa, al contrario, suo principale partner. In questo modo viene meno il confine tra società e mercato e tra marche e consumatori; questi poli un tempo distanti e distinti oggi si incontrano e si modellano l’uno con l’altro fino a formare la “brand society”1. Questo cambiamento è inoltre conseguenza diretta della trasformazione continua che caratterizza le società post-moderne; nulla è più certo e stabile, tutto muta ed evolve costantemente ridefinendo gli ambienti e i ruoli sociali un tempo fortemente prescritti e rispettati. Il lavoro definiva l’identità dell’individuo, il suo spazio sociale e le modalità relazionali che caratterizzavano la sua esistenza. Oggi invece, tutto diventa più fluido e instabile contribuendo a produrre quella che il sociologo polacco Zygmund Bauman definisce “società liquida”. Una società priva di riferimenti stabili per l’individuo di oggi. Sulla stessa linea Georges Ritzer sostiene «siamo passati da una società in cui il nostro fulcro era il lavoro a una società in cui il nostro fulcro è il consumo»2 per ribadire la centralità che il consumo stesso oggi ha per l’individuo e per la sua stessa esistenza, tanto da soppiantare la dimensione lavoro. In questo scenario trovano spazio anche gli studi del marketing tribale3, concentrati su una Bernard Cova definisce brand society la società post-moderna in cui i brand sono diventati un tutt’uno con la società e con gli individui che la compongono. 2 G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi, e riti dell’iperconsumismo. Il Mulino, 2005. 3 Il marketing tribale è una strategia di marketing non convenzionale che mira a creare una comunità collegata al prodotto o servizio che si intende promuovere 1 116 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing. concezione di consumo comunitarioche genera valore attraverso relazioni e legami sociali e che non si esaurisce attraverso l’acquisto e il consumo di un singolo bene o servizio. I brand in questo senso diventano quindi dei veri e propri strumenti in grado di generare e favorire l’aggregazione sociale, all’interno del quale il ruolo dell’azienda diventa quello di lavorare a sostegno della tribù3. Tra le imprese che sono riuscite a creare delle vere e proprie comunità di consumatori ci sono, ad esempio, Ducati, Apple e Harley Davidson. Nel caso di queste aziende infatti, il ruolo del marketing è quello di fornire sostegno alle comunità, di rafforzare il legame tra gli appassionati (non quindi semplici consumatori) e il brand stesso. Il tutto avviene lavorando sul senso di appartenenza alla tribù e sulla condivisione non solo di uno stesso stile di vita ma di una vera e propria filosofia esistenziale, che diventa il collante naturale in grado di favorire coesione e identificazione tra gli stessi membri, anche attraverso la condivisione di veri e propri rituali. Questo accade perché la prospettiva predominante è cambiata:l’era dell’individualismo è terminata e i brand sono diventati parte integrante del vissuto delle persone, le quali utilizzano le marche anche per descrivere le loro azioni e i loro comportamenti, il cosiddetto brand verbing5. Quando infatti una marca entra realmente in contatto e instaura una relazione con il proprio pubblico, smette di essere solo oggetto per diventare strumento di senso e parte essenziale della costruzione del sé. Con il consumo infatti, gli individui cercano di appagare bisogni di relazione sociale e condivisione che vengono soddisfatti proprio mediante l’appartenenza ad una tribù. Le tribù si caratterizzano quindi per un’affinità di interessi e passioni e sono per questo spesso composte da individui con caratteristiche sociali e fisiche eterogenee, situazione che ribadisce quindi la maggior importanza data al valore di legame piuttosto che al valore di consumo6. Fig. 1 - Un gruppo di appassionati Harley Davidson B. Cova, Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità,come valori del marketing mediterraneo, il Sole 24 Ore, 2010. Con brand verbing si intende l’utilizzo di nomi di brand come verbi o sostantivi (es. to google, to hoover ecc..) 6 B. Cova, Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità, come valori del marketing mediterraneo, Ivi 4 5 117 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing. Fig. 2 - Uno dei cartelli presenti durante il percorso Tough Mudder scarico di responsabilità in caso di infortuni e decesso. Il target principale di questo tipo di evento sono prevalentemente giovani lavoratori professionisti e laureati, persone che tendenzialmente conducono uno stile di vita poco dinamico e povero di stimoli. Il caso Tough Mudder è considerato un caso esemplare di quanto la prospettiva e gli obiettivi del marketing tradizionale si siano nell’epoca della brand society completamente ribaltati, è una dimostrazione di come l’esperienza di consumo non è di fatto più riconducibile solo ad un mezzo per soddisfare bisogni primari o secondari, come vengono rigidamente intesi e classificati da Maslow, ma come la piramide si allarghi per far spazio a bisogni latenti e del tutto nuovi. Nessun manuale o studioso di marketing avrebbe mai pensato che il dolore fisico potesse essere proposto, venduto e condiviso con largo successo e seguito presso un pubblico così vasto ed eterogeneo. Il dolore diventa quindi protagonista di un paradosso al quale oggigiorno assistiamo: Il caso considerato però più esemplare a riguardo è Tough Mudder, un percorso ad ostacoli ideato dalle forze speciali britanniche che prevede diverse prove da superare per poterlo concludere. L’idea di riproporre questo format per renderlo accessibile a tutti è stata di Will Dean, giovane laureato dell’università di Harvard, il quale promuove la partecipazione al circuito come alternativa diametralmente opposta a uno stile di vita sedentario e da “dead man working”, caratterizzante la maggior parte dei lavoratori moderni. Gli ostacoli di cui il percorso si compone vanno da ripide pareti da scalare, sentieri con filo spinato e guadi di fango da attraversare fino ad arrivare ad una serie di scosse elettriche che lungo il tragitto i partecipanti devono sopportare per poter arrivare al traguardo finale. La partecipazione all’evento è aperta a tutti, unica richiesta è il pagamento di una quota di iscrizione che si aggira intorno ai 130 dollari e la firma di una liberatoria che sottoscrive lo 118 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing. in una società in cui il mercato farmaceutico e in particolare quello degli antidolorifici è in forte crescita, le persone ricercano il dolore attraverso la partecipazione ad eventi estremi come Tough Mudder. La motivazione che spingerebbe tutte queste persone a prendere parte ad un evento di questo tipo sarebbe da ricondurre, secondo gli studi etnografici condotti dal professor Bernard Cova, al bisogno che alcune persone hanno di resettare mente e corpo per favorire una condizione di disconnessione totale dalla quotidianità della vita reale, processo definito dallo stesso professore “whitening”. Il dolore fisico diventa il mezzo indispensabile per ottenere una condizione di disconnessione completa dalla realtà, un mezzo attraverso cui fornire senso alla propria esistenza. Nel caso di Tough Mudder si tratta inoltre di dolore auto indotto, una sofferenza quindi volontariamente ricercata che contribuisce a rendere il tutto ancora più appagante. Attorno al Tough Mudder si è sviluppata una vera e propria comunità che raccoglie tutti i partecipanti all’evento e che trasforma gli stessi in prosumer7, non solo quindi semplici consumatori ma anche principali produttori dell’evento e di tutta l’esperienza ad esso legata. Di questa comunità fanno infatti parte anche tutti coloro che lavorano all’organizzazione dell’evento, gruppi di volontari che con il loro contributo assicurano il corretto svolgimento Fig. 3 - Un gruppo di partecipanti fotografati alla fine del percorso Tough Mudder 7 Parola coniata dal futurologo Alvin Toffler e derivante dalla fusione dei termini producer e consumer. Il termine sottolinea quindi il duplice ruolo del consumatore post-moderno che non si limita solo a consumare beni ma diventa egli stesso produttore di beni, contenuti e servizi. 119 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing. del percorso e l’assistenza necessaria ai concorrenti durante tutto il tragitto. I “brand volunteer” sono infatti una figura chiave del Tough Mudder; oltre a fornire il supporto necessario, svolgono anche il ruolo di veri e propri motivatori, sostenendo e spronando il morale dei partecipanti, soprattutto di quelli maggiormente in difficoltà. Un evento che esiste grazie quindi ai suoi stessi partecipanti e collaboratori e che vive e si rigenera grazie alla comunità di fedeli ed appassionati che si è sviluppata nel corso delle diverse edizioni. Nella società post-moderna in cui il consumo predomina, i brand hanno sostituito la religione e la sua simbologia per proporsi come fonte principale di senso e orientamento nel mondo. Il consumo amplia quindi i suoi confini e ridefinisce i suoi ambiti: diventa quasi paradossalmente un atto di produzione di esperienze che unitamente contribuiscono a definire l’identità di ciascun individuo, identità sempre più fluida e in costante evoluzione. F OC U S Marketing Tribale Il principale esponente della corrente del marketing tribale è il professor Bernard Cova il quale utilizza e riprende il concetto di tribalismo sviluppato dallo studioso Michel Maffesoli. Secondo il marketing tribale, i consumatori non sono definibili come mero “target” ma sono in primis soggetti facenti parte di una tribù intesa come gruppo eterogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive) di individui accumunati da una passione che viene condivisa e rafforzata grazie ad un legame che tra gli stessi si instaura, un ethos comune che tra i membri si diffonde. Nel caso del marketing e dei brand il legame viene quindi instaurato tra i consumatori e il loro prodotto o brand di riferimento. Gli elementi che quindi caratterizzano maggiormente una tribù sono innanzi tutto il legame, la tradizione o una passione comune condivisa e una forte componente emozionale che rinforza la relazione stessa e da senso all’esistenza e all’evoluzione della tribù e dei suoi rituali. Flavia Ricci M. Kornberger, Brand Society, how brands transform management and lifestyle. Cambridge University Press. 2010 8 120 La vita sociale delle marche: verso il brand sharing. Riferimenti bibliografici Bauman Z., Modernità liquida, Editori Laterza, 2000. Bauman Z., Consumo dunque sono, Editori Laterza, 2007. Cova B., Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità, come valori del marketing mediterraneo, il Sole 24 Ore, 2010. Ritzer G., La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi, e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, 2005. Kornberger M., Brand society. How brand transform management and lifestyle, Cambridge University Press, 2010. 121 BRAND E IDENTITÀ DI MARCA Tratto dalla lezione di Elisabetta Baldini «Per occuparsi di corporate branding è necessario imparare a guardare le situazioni con occhi diversi perché la mente, condizionata dalle abitudini, va stimolata e allenata a non recepirle in maniera passiva.» BRAND - BRAND IDENTITY - BRAND CHARACTER - REBRANDING Elementi di un brand di successo Ognuno di noi ha una identità, ed anche le imprese hanno una “personalità”, che le distingue e che trova la sua sintesi, ma non si esaurisce, nell’insieme degli aspetti e degli elementi grafici e comunicativi. La brand identity1 è un aspetto fondamentale della marca perché contribuisce a determinare la percezione e reputazione da parte del pubblico agendo in prima battuta a livello emozionale. Avvenendo in primo luogo a livello istintivo le persone non si interrogano sul perché della propria reazione. Per occuparsi di corporate branding è necessario imparare a guardare le situazioni con occhi diversi perché la mente, condizionata dalle abitudini, va stimolata e allenata a non recepirle in maniera passiva. Per questo l’architetto Elisabetta Baldini ci porta come case study l’analisi di una delle organizzazioni multinazionali di maggior successo al mondo quotidianamente sotto gli occhi di tutti: la Chiesa Cattolica. Dunque ripercorriamone la storia, ovviamente in termini di brand2. Headquarter Il primo punto di forza subito compreso dall’organizzazione Chiesa Cattolica è l’importanza della sede fisica. In apparente contrasto con uno dei precetti dell’organizzazione, si è subito investito nella costruzione di una sede grandiosa, senza risparmiare sulle parcelle dei migliori architetti dell’epoca, perché avevano già capito che la vicinanza è fondamentale nella comunicazione e le relazioni hanno bisogno di uno spazio fisico. Un parallelismo con i giorni nostri potrebbe essere il fenomeno dell’apertura dei flagship store delle banche online, per non essere lontano dalle persone. Origine Come molte realtà italiane nasce nel sommerso: nelle catacombe, luoghi di incontro e relazione nascosta, e cerca di rappresentare sé e il mondo circostante. Brand Identity: Ognuno di noi ha una identità. Anche le imprese hanno una personalità e dei comportamenti che le distinguono e che trovano la loro sintesi nell’insieme degli aspetti e degli elementi grafici e comunicativi. La brand identity è un aspetto fondamentale del brand perché contribuisce a determinare la percezione e reputazione da parte del pubblico agendo in prima battuta a livello emozionale. 2 Brand: serie di elementi materiali e immateriali che identificano la personalità e le caratteristiche di un prodotto, un’organizzazione o di un servizio. Facendo riferimento tanto alle caratteristiche fisiche e funzionali quanto a quelle identitarie ed emozionali, che manifestandosi nella relazione con le persone, ne sono cocreatori. Parlare di brand significa occuparsi anche della narrazione che crea coerente al suo sistema valoriale e dell’esperienza, sia digitale che offline, in cui viene esperito dalle persone. 1 122 Brand e identità di marca Franchising Grazie alla forte riconoscibilità del logo e all’accettazione delle culture degli altri paesi, il brand in questione mostra una grande capacità di reinventarsi nel franchising. Infatti le sedi sparse nel mondo sono costruite secondo le modalità espressive locali purché vi sia sempre, preferibilmente sulla sommità, la croce che permette di riconoscere che si tratta dell’organizzazione madre. La croce, in quanto elemento segnaletico, ricorre dappertutto, anche quando non si vede a occhio nudo da lontano, c’è, esiste e da un occhio attento viene percepita. Logo Leggenda vuole che l’origine del “logo” sia da attribuirsi ad un sogno che Costantino fece prima della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio, in seguito alla quale l’Imperatore decise di adottare il cristianesimo come religione di stato. La scelta della croce è rivoluzionaria rispetto al regime dell’epoca perché rimanda alla crocefissione, pena a cui erano condannati coloro che avevano commesso i crimini più efferati ed era perciò simbolo di morte infamante. Questa organizzazione quindi, attraverso il posizionamento, riesce a trasformare un simbolo disonorevole in un simbolo di redenzione. Inoltre, la croce rappresenta un elemento positivo ed efficace per altre tre sue caratteristiche: è un logo antropomorfo, in quanto ricorda un uomo con le braccia aperte, e ciò fa sì che l’interlocutore vi si riconosca; è facilissimo da rappresentare; ed è un segno che potremmo definire “2.0” perché lo si può riprodurre con mille varianti, anche di materiali, ma sarà sempre riconoscibile come croce. Architettura della sede Dal proprio segno viene definito anche un modello architettonico, che trasferisce la forma del logo nel franchising grazie alla planimetria a croce latina delle sedi. Chi visita e frequenta i luoghi di culto magari non se ne accorge nemmeno, visto l’interno spesso addobbato e arricchito da dipinti e colonne e ciononostante sono sempre state realizzate secondo tale schema architettonico. Fig. 1 - La croce sulla cupola di San Pietro 123 Brand e identità di marca Logo dinamico e pervasivo La modalità dinamica di saluto tra i fedeli diventa elemento dinamico di relazione. Il segno della croce si fa per entrare in chiesa come codice identitario, ma la presenza pervasiva di questa realtà è talmente forte che con il suo simbolo vengono addirittura creati gioielli, indossati non più solo da chi appartiene a questa organizzazione, ma anche da coloro che non vi associano un simbolo di fede. delle risorse, targetizzate a seconda dei diversi ordini e positioning. Balza agli occhi la differenza tra il saio dei francescani e la tunica di un cardinale. CEO Il leader, il Papa, rappresenta l’organizzazione e ne è la voce ufficiale. Ogni CEO dà un contributo in termini di vision e comunicazione, ma alla fine l’organizzazione riesce a bypassare la visibilità del leader per mantenersi negli anni. Corporate identity e risorse interne La Chiesa Cattolica ha un sistema normativo ben definito per il comportamento dei suoi fedeli e delle risorse interne. Perché più un’organizzazione è estesa e più deve essere costrittiva e dotarsi di regole che devono essere seguite da tutti e non lasciate a scelte individuali che rischiano di comunicare l’impresa in un modo diverso tra loro e soprattutto distante da come l’azienda vorrebbe essere percepita3. Le risorse sono un touchpoint fondamentale con il cliente finale. Quando un’azienda intraprende un percorso di rebranding deve tenere a mente che il dipendente con il suo comportamento può vanificare lo sforzo dell’impresa. La modalità di comportamento dei dipendenti di Mc Donald’s è stata decisa e condivisa, ci sono state le ore di formazione per imparare il codice da riprodurre con il cliente finale. Il rebranding deve essere gestito, non basta cambiare gli elementi identitari grafico-visivi del logo, c’è un altro 70% di lavoro in cui chi si occupa del rebranding di un’organizzazione la forma sul come gestire e valorizzare il proprio brand. Collegamento a distanza Viste le condizioni che rendevano e rendono difficile il recarsi fisicamente in Chiesa per soddisfare il precetto i fedeli potevano collegare il loro device e collegarsi da remoto attraverso il rosario. Uno strumento aziendale per collegarsi alla propria organizzazione da casa in un epoca in cui internet non si sapeva neanche che cosa fosse. Rapporto con i clienti Questa organizzazione dà anche la possibilità di rappresentarsi a chi ne condivide i precetti ma non è una risorsa interna all’organizzazione attraverso le spille. Inoltre, sono i primi che chiamano i clienti “fedeli” e la fidelizzazione è modalità aprioristica di relazione. È l’unica organizzazione che ti segue in tutto il ciclo di vita. La persona viene seguita in tutti i momenti importanti della sua vita, dalla nascita con il battesimo come “welcome party” nella community sino a dopo il funerale. «Brand is a promise»4 È l’unica organizzazione al mondo che ha basato tutta la sua capacità di relazione su una promessa: Organizzazione interna Vi sono modalità di rappresentazione differenti Ovviamente non sono assimilabili, ma anche i regimi totalitari hanno intuito le potenzialità di un programma di corporate identity strumentale per arrivare a comunicare in maniera inequivocabile i propri contenuti e per organizzare risorse e comportamenti delle persone. Un altro esempio di ente che mostra chiaramente il concetto di corporate identity sono gli Stati Uniti d’America. Quando, atterrati in un aeroporto americano, ci si mette in coda per i controlli doganali, si legge il motto “We are the face of our nation” riportato sui gabbiotti del personale di frontiera. Consapevoli del ruolo che stanno esercitando, gli agenti della polizia doganale in quel momento rappresentano il proprio paese anche davanti a chi non lo conosce. 4 «Simply put, a brand is a promise. By identifying and authenticating a product or service it delivers a pledge of satisfaction and quality» Walter Landor. 3 124 Brand e identità di marca la vita eterna. E non è neanche una promessa verificabile. di mostrare che cosa si intende per guardare il mondo da un punto di vista laterale, capacità necessaria per potersi occupare di rebranding. Relazione multisensoriale Con 2000 anni di anticipo sul concetto di brand multisensoriale, la Chiesa Cattolica ha esteso l’esperienza a tutti e cinque i sensi. Ora sono consuetudini, quindi non le leggiamo come elementi innovativi. Ad esempio Nike nei suoi store usa l’essenza di erba fresca tagliata per richiamare alla mente degli avventori il prato e invogliare all’acquisto di attrezzature sportive da utilizzare per andare a correre nel weekend. Rebranding: che cos’è Rebranding significa dare vita a una nuova identità coerente per orientare la comunicazione del brand in una direzione che sia rispondente all’evoluzione della società, ridefinendo i valori della marca senza tradirne le origini e i principi fondamentali. Ciò vuol dire reinterpretare da un punto di vista del racconto e del contesto. Ad esempio non si parla più di “pelliccia sintetica” ma di “pelliccia ecologica”. È cambiata la cultura della società: in passato indossare una pelliccia sintetica significava non potersi permettere di acquistarne una vera, al contrario oggigiorno chi indossa una pelliccia reale viene marchiato come una persona frivola e insensibile. Inoltre abbiamo assistito ad un passaggio dalla dimensione funzionale alla dimensione valoriale. Non conta più il prerequisito dell’elemento tecnico, ma quale valore quel prodotto è in grado di trasferire a chi lo utilizza. L’iPod quando è stato lanciato nel 2001 non è stato raccontato attraverso le sue caratteristiche tecniche (140 grammi, 5 GB) ma come “1000 Songs in Your Pocket”. Il prodotto diventa dunque un elemento valoriale che racconta del suo utilizzatore. Gusto • Il momento più alto della liturgia ha coinvolto il senso del gusto con l’ostia. Udito • A partire dal 1100 cominciano a prendere piede in questi spazi di relazione i canti gregoriani, come codice linguistico internazionale e momento aggregante. Dato che la propagazione del suono soffre nella chiese a capriata, mentre viene esaltata dalla volta a botte, consapevole della caratteristica dell’elemento sonoro come forza aggregatrice enorme, la Chiesa decide che il modello architettonico ufficiale delle proprie sedi sia la volta a botte. Questo nonostante la volta a botte abbia un costo di dieci volte superiore rispetto alla basilica con le capriate, per via dello spessore del muro. Olfatto • Incenso. La memoria olfattiva rimane in maniera più forte nel tempo, e, anche se non ne abbiamo memoria cosciente, continua a esistere. Tatto • Una cinquantina di anni fa viene introdotto il gesto “scambiatevi un gesto di pace”, poiché il toccare una persona accanto a sé dà più senso al concetto di relazione. È il coronamento del concetto di vicinanza e relazione. Per creare un buon claim è necessario trovare una idea forte, delle attese, una filosofia per marcare la propria identità. Esso inoltre non deve essere mai troppo descrittivo o circoscritto, per non limitare il brand, che deve potersi muovere in qualsiasi settore purché agisca coerentemente con il proprio commitment. Sulla filosofia di uno dei claim più efficaci e belli della storia, “Connecting People” Nokia potenzialmente avrebbe potuto progettare una linea aerea, dei ristoranti. Il caso del brand “Chiesa Cattolica” permette 125 Brand e identità di marca La funzione del marchio è ricordare e riassumere in un elemento simbolico il messaggio. Il marchio è un elemento segnaletico percettivo in cui l’azienda mette i suoi contenuti, ma ognuno lo decodifica in modi diversi e a volte senza conoscere che cosa ci sia dietro la scelta di un determinato logo. Un esempio è il logo della BMW, le cui quattro suddivisioni in bianco e azzurro derivano dall’elica stilizzata del primo core business aziendale: BMW infatti inizialmente produceva motori per aerei. Tuttavia questo richiamo ma che non è leggibile da chi non conosce la storia dell’azienda. Al contrario alle persone è più facilmente noto il brand character5, ovvero il valore distintivo del brand rispetto ai competitors, che per la BMW è l’ingegnerizzazione. La brand identity guida il modo di comportarsi dell’organizzazione e così come il nostro comportamento è elemento fondante della nostra identità, il brand è una promessa che viene fatta verso l’esterno e che crea delle aspettative. Fig. 2 - Il logo di BP British Petrolium dopo il rebranding Il segreto è introdurre il proprio punto di vista su quel tema. Uno storico caso di rebranding è stato quello di BP British Petrolium. L’obiettivo della multinazionale era quello di non essere associata esclusivamente al mercato britannico e all’immagine di una compagnia petrolifera tradizionale, con l’intrinseca criticità dell’avere l’opinione pubblica avversa. La chiave utilizzata è consistita nel trovare una modalità più contemporanea di rappresentare il proprio business, cogliendo i segnali di cambiamento della società e ponendo l’accento sul fatto che c’è un modo diverso di fare il petroliere. In primis, l’azienda ha creato un legame con valori che oggi sono importanti: attenzione all’ambiente, sicurezza dei dipendenti e modalità etiche. Partendo da questi valori ha poi reinventato il logo: un grande girasole verde e il claim Beyond Petrolium (Oltre il petrolio). Bisogna comunque tenere presente che «Essere è comunicare» e che tutto comunica: dalla presenza fisica, alle parole che usiamo, al silenzio e al marchio ovviamente. Fig. 3 - Il logo di BMW Brand Character: rappresenta il patrimonio d’immagine che la marca è riuscita a (o vorrebbe) costruirsi nel corso degli anni. Comprende l’insieme delle caratteristiche tangibili e intangibili, positive e negative, attribuite dal cliente alla marca: il valore di tali caratteristiche dipende, ovviamente, dal complesso di relazioni col mercato che una data marca è in grado di instaurare ed è proporzionale a quello dei prodotti o servizi a cui il brand viene associato 5 126 Brand e identità di marca family feeling che lo caratterizza e che deve essere uguale in tutto il mondo. Oltre allo spazio fisico anche la struttura fisica ha un comportamento; e ciò non riguarda solo le aziende che producono beni materiali ma anche servizi. Ad esempio l’utenza elettricità ha una struttura fisica: la bolletta. Le comunicazioni sono un touch point nelle relazioni fondamentali con il cliente. È il design del servizio a permettere di migliorare il servizio. Nel caso delle utenze il valore si trova nella creazione di una bolletta comprensibile e trasparente. Il motto della polizia di NYC, ad esempio, promette “Courtesy, Professionalism e Respect” quindi il cittadino si aspetta di essere trattato nel rispetto di tali impegni. F OC U S Il caso della Polizia di NYC su Twitter La polizia di New York ha provato sulla sua pelle che cosa si intende quando si parla di crisis management e dell’importanza di avere dei comportamenti coerenti con la brand identity. Il claim che si legge su tutte le auto della polizia newyorkese “Courtesy Professionalism Respect” indica su quali valori si deve basare il comportamento degli agenti del New York Police Department. Martedì 22 aprile 2014 il NYPD ha pubblicato una fotografia di un uomo abbracciato a due agenti con l’invito a taggarsi usando l’hashtag #myNYPD, con l’obiettivo di raccogliere le esperienze degli utenti di Twitter. L’azione era parte integrante della strategia elaborata per la comunicazione sui social media. L’invito è stato subito accolto ma l’hashtag è stato ri-significato dagli utenti che lo hanno usato per mostrare i comportamenti aggressivi ed ostili della polizia newyorkese. Il mercoledì l’hashtag è entrato nei trending topic di Twitter. Rebranding: come si fa La brand identity richiede pianificazione e attenzione al cambiamento, perché nessuna meta può essere raggiunta se non è prima pensata. Così come il tempo permette e chiede all’identità delle persone di cambiare comportamenti nelle diverse fasi della vita che attraversa (bambino, giovane, adulto e anziano) anche le imprese devono considerare il fattore tempo nella gestione della loro identità. Nella progettazione del rebranding si parte dell’analisi della realtà e della reputazione attuale, ma ci si concentra sull’aspirazione. Il come l’azienda si immagina e si percepisce tra 5 anni deve essere raccontato come se fosse già parte della cultura aziendale. Però bisogna cambiare seguendo le attese e la cultura del mercato e soprattutto è necessario prevedere corsi di formazione e seminari sul valore del rebranding a tutti i lavoratori dell’azienda, in quanto proprio quest’ultimi sono il primo pubblico, oltre che parte del comportamento dell’organizzazione. Per riassumere: occorre raffigurare la realtà per com’è la sua aspirazione, bisogna raccontare il cambiamento partendo dai contenuti, ovvero dai valori, attraverso sia un linguaggio che sia in grado di esplicitarli e sia con elementi visivi, dal momento che restano più impressi. L’importanza del non deludere le aspettative è chiara a Philips che con il claim «simplicity for all» promette di superare la frustrazione da tecnologia, consentendo ai consumatori di utilizzarla senza dover leggere alcun libretto di istruzioni. Philips infatti all’interno ha un board che deve testare se davvero i prodotti funzionano in modo così intuitivo. E se così non è essi vengono rimandati al laboratorio, a riprova del fatto che l’identità enunciata nel claim non può essere tradita. Inoltre l’identità riguarda anche gli spazi fisici: quando entriamo in un punto vendita (da McDonald’s a Hermès) vogliamo ritrovare il Irene Pepe 127 Brand e identità di marca Fig. 4 - Passaggi del rebranding 128 Brand e identità di marca Riferimenti bibliografici Carù A., Cova B., Marketing E Competenze Dei Consumatori, Egea, 2011. Cova B., Il Marketing Tribale. Legame, Comunità, Autenticità Come Valori Del Marketing Mediterraneo, Il Sole 24 Ore Libri, 2003. Fabris G.P., Societing. Il Marketing Nella Società Postmoderna, Egea, 2009. Frederick E., Webster, Jr., Understanding The Relationships Among Brands, Consumers, And Resellers, Journal Of The Academy Of Marketing Science, 28, Pp. 17-23, 2000. Kelley L., Sheehan, K., Jugenhaimer,D.W., Advertising Media Planning: A Brand Management Approach, Routledge, 2015. Kornberger, M., Brand Society: How Brands Transform Management And Lifestyle, Cambridge University Press, 2010. Mc Graw-Hill, The Essentials Of Branding In “The Big Book Of Marketing”, 2010. Minestroni L., Fabris, G.P., Valore E Valori Della Marca. Creare E Gestire Un Brand Di Successo, Franco Angeli, milano, 2004. Roberts K., Lovemarks. Il Futuro Oltre I Brands, Mondadori, 2005. Schroeder J.E, Salzer-Mörling M., Brand Culture, Routledge, 2006. 129 MARKETING RETAIL 2.0 Tratto dalla lezione di Vanni Codeluppi «In the factory we make cosmetics, in the store we sell hope» - C.Revson VETRINA - IDENTITÀ DI MARCA - MODELLO GREIMASIANO Gli spazi di vendita sono strumenti che servono a rafforzare l’identità della marca e la relazione esistente tra essa e i suoi consumatori. Questo comporta la necessità di rendere coerenti tali spazi con la strategia di comunicazione nella quale si collocano. Il punto vendita è, quindi, una componente umana e sociale oggi vitale; si riesce a costruire un rapporto di consumo solamente se si costruisce una relazione “calda” con l’acquirente, attraverso lo spazio di vendita, che diventa luogo di coinvolgimento emotivo e di comunicazione, in cui la marca possa esprimersi così come fa attraverso tutti gli altri strumenti a sua disposizione. Può farlo anche con lo spazio di consumo, quindi, che riprende elementi del patrimonio di marca. Lo spazio di vendita, per essere efficiente, deve riuscire a sviluppare elementi sensoriali d’identità di cui la marca è sinonimo. Dato che il consumatore cerca nel punto vendita una dimensione umana, sociale, un legame col territorio, la marca deve essere in grado di trasmettere informazioni, servizi e raccontare la sua storia attraverso gli spazi di vendita, costruendo un patrimonio esperienziale che consolidi la propria relazione con il consumatore. Dalla produzione alla distribuzione Mentre la produzione progetta e realizza prodotti, la distribuzione fa un lavoro di comunicazione oltre che occuparsi della vendita. La vendita è un rapporto che tradizionalmente si basava sulla relazione umana tra venditore e acquirente; attraverso questa relazione passava l’acquisto. L’acquisto e, di conseguenza, il consumo è uno strumento di costruzione dell’identità. Scegliamo oggetti in base ai significati che questi esprimono o che la società ha attribuito a essi. Il nostro rapporto con gli oggetti di consumo parte dalla necessità che noi esseri umani abbiamo in un contesto sociale: costruirci un’ identità. Gli oggetti di consumo hanno già un linguaggio in sé attraverso cui possiamo comunicare diversi stati d’animo e intenti: speranza, progetti esistenziali, desideri. L’acquisto può essere, quindi, definito come una promessa di realizzazione di desideri personali. In questo contesto, la relazione tra venditore e acquirente, tradizionalmente essenziale nel processo d’acquisto, è stata rimpiazzata del tutto o in parte dal self service, conseguente a un processo di strutturazione delle dinamiche di compravendita che possiamo rintracciare a partire 130 Marketing retail 2.0 dalle dinamiche proprie dei grandi magazzini parigini e poi, in generale, in Occidente, che ha visto per primo il passaggio al prezzo fisso (come sostitutivo della contrattazione) e che ha reso sempre più superflua la figura del personale di vendita, con un conseguente abbattimento dei costi. Venuta meno la funzione relazionale del venditore e, cioè, la comunicativa emozionale in grado di creare e consolidare il rapporto con l’acquirente, lo spazio di vendita e gli strumenti che vengono utilizzati all’interno delle strutture di vendita, sopperiscono alla sua funzione “calda”. Il punto vendita diventa, quindi, una macchina per comunicare e si dota di caratteristiche che lo rendono unico e in grado di compensare questa mancanza. Basti pensare all’Antica Grecia e a Roma: le nostre civiltà nascono intorno al commercio e le città si sono sviluppate a partire dal mercato, delineando il legame fondamentale da sempre esistito tra sviluppo sociale e commercio. Quando le città hanno deciso di commerciare e esportare beni, si sono potenziate. Da lì la necessità di esportare strutture commerciali verso l’esterno (ne sono esempi i centri commerciali nelle zone industriali o semplicemente fuori città) che, però, hanno provocato l’effetto opposto: le città stanno soffrendo, proprio perché private di una struttura commerciale. In questo modo le città muoiono dal punto di vista della vita sociale e culturale, soprattutto nel momento dell’acquisto, quando l’acquirente compra prodotti in funzione degli obiettivi che deve soddisfare: il rapporto che si stabilisce con il venditore o punto vendita rappresenta la promessa di soddisfare i suoi desideri, obiettivi, speranze. configura come uno strumento di informazione, acculturamento ma anche promozionale, utile per il consumatore. Una delle prime testimonianze che riguardano la comparsa della vetrina ci viene fornita da un viaggiatore francese in Inghilterra nel 1728 che scriveva: «Quello che non abbiamo in Francia è il vetro, che è molto bello e chiaro. Le botteghe ne sono attorniate e di solito si dispone la merce dietro i vetri, il che la protegge dalla polvere, offrendola agli occhi dei passanti e formando un bel vedere da ogni lato». In effetti, fino ai primi del ‘700 esistevano le botteghe e i mercati ma non le vetrine, da subito utilizzate per la loro capacità di presentare la merce, dato che i prodotti venivano venduti all’esterno dei luoghi di produzione, come botteghe e laboratori artigianali. Va agli inglesi e alla Rivoluzione Industriale, dunque, il merito dell’invenzione delle vetrine, per due motivi: 1. La quantità di prodotti: le vetrine diventano uno strumento promozionale; 2. L’allargamento delle città: per i negozianti cambiano gli interlocutori, non più solo gli acquirenti conosciuti ma masse di persone prevalentemente sconosciute che bisogna attirare in negozio. Da qui il ruolo da subito fondamentale della vetrina: attirare l’attenzione del passante e costruire un discorso - uno spazio di comunicazione in cui i contenuti vanno organizzati secondo una logica ben precisa, quella del teatro borghese che accompagna lo sviluppo dei luoghi di consumo nel ‘800: uno spazio povero razionalizzato attraverso corpi e sistemi di illuminazione prestati al mondo dei consumi. In principio c’era la vetrina Oggi consideriamo la vetrina come qualcosa di poco interessante se non, addirittura, di totalmente trascurabile. In realtà ha una storia a partire dai primi decenni del ‘700, quando fa la sua comparsa in Gran Bretagna. Essa si La prima forma interessante di spazio commerciale sviluppatasi a Parigi nei primi del 131 Marketing retail 2.0 ‘700 è il passage: tante vetrine messe insieme che creano un’unica vetrina a forma di galleria commerciale e che ha dato vita all’ archetipo dei centri commerciali odierni. Walter Benjamin definiva il passage il «luogo della borghesia ed esibizione del sé»1, una costante che troviamo in tutti i luoghi di consumo, tali in quanto permettono agli acquirenti di sentirsi bene e favorire incontro e scambio. a competere con le innovazioni proposte dai grandi magazzini (come il prezzo fisso applicato direttamente sui prodotti), i passage costruiti dopo il 1860 punteranno sulla monumentalità, a scapito della tradizionale funzione commerciale. A questa categoria appartengono anche importanti gallerie italiane come la Vittorio Emanuele II di Milano, l’Umberto I di Napoli e la Subalpina di Torino. Il filosofo e critico letterario tedesco Walter Benjamin ė uno dei massimi teorici del fenomeno dei passage; la sua opera più vasta e mai compiuta, “Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940” descrive in modo dettagliato le sfumature e gli aspetti sociologici di questi luoghi di consumo. La singola vetrina diventa, quindi, qualcosa di più, estendendo il proprio modello di comunicazione e di cultura attraverso l’esposizione e la valorizzazione del prodotto, mettendo in scena e producendo significato. Si estende diventando prima passage, poi galleria monumentale (come nel caso della galleria Vittorio Emanuele a Milano) fino a trasformarsi in grandi magazzini e, nel ‘900, grazie anche all’apporto degli americani, centro commerciale, più ampio e ricco dal punto di vista architettonico, in grado di amplificare ulteriormente il discorso. La vetrina e lo spazio urbano Dall’evoluzione della vetrina e del punto vendita emerge una stretta relazione tra spazio urbano, mondo del retail e attività che le persone svolgono nei punti vendita. In questo la moda è sicuramente il settore che ha saputo utilizzare al meglio il punto vendita come strumento di comunicazione e marketing, tanto da essere presa come esempio da altri settori. Basti pensare a Giorgio Armani, stilista di fama mondiale che inizia il suo percorso professionale proprio come vetrinista della Rinascente, che con la sua Milano ha saputo intrecciare un rapporto quasi viscerale tanto da assurgerla a vera e propria vetrina, come nel caso della maxi installazione permanente in via Broletto. L’intera città diventa vetrina estendendo, in questo modo, il dialogo con la città e i cittadini/consumatori. F OC U S I passage sono la prima forma di galleria commerciale coperta. Il primo passage fu inaugurato a Parigi nel 1786, costruito nei giardini del Palais Royale per volere del Duca D’Orléans; con 355 negozi, diventò ben presto una della maggiori attrazioni della città. Queste strutture in vetro e ferro, illuminate a gas, si svilupparono a Parigi in un periodo storico contraddistinto da un forte aumento della popolazione urbana e dallo sviluppo dei primi processi di industrializzazione che porteranno in seguito alla seconda Rivoluzione Industriale: spazi democratici che espletassero la loro funzione commerciale ma che, allo stesso tempo, fossero fonte di intrattenimento, occasioni per vedere e farsi vedere. A partire della seconda metà dell’Ottocento, il modello del passage iniziò la sua fase di declino a causa della concorrenza di un nuovo luogo di consumo: il grande magazzino. Non riuscendo La vetrina è qualcosa che fa parte del sistema città, un unico spazio di dialogo in cui vi è una compresenza di punti vendita, vetrine, persone, vita sociale e urbana. E i giovani lo hanno capito molto bene: sono proprio i movimenti giovanili legati alle mode e alle culture che creano e Benjamin W., Tiedemann R., ed., The Arcades Project, Belknap Press, Howard Eiland and Kevin McLaughlin, New Yorl, 2002 1 132 Marketing retail 2.0 Floch e l’identità di marca consolidano il proprio rapporto con gli spazi urbani e con i punti vendita, a seconda dello stile o della corrente di cui si sentono parte e che si manifesta anche e soprattutto attraverso i loro acquisti. Cosa intendiamo noi per identità di marca? Per citare il semiologo e pubblicitario Jean-Marie Floch, «L’identità di marca è insieme differenza e permanenza»2. Un legame così profondo da influenzare lo stesso sistema città (o parte di essa) e portando a ripensarlo in un’ottica di marketing che ha come obiettivo quello di attirare turisti e consumatori (Las Vegas, New York – Times Square) o, addirittura, da fondere il mondo dei consumi e lo spazio urbano. È questo il caso di Celebration, la città ideale di Disney di circa 20.000 abitanti vicino a Orlando, Florida, esempio lampante di una marca che progetta uno spazio urbano in base alla sua visione. Floch, allievo di Greimas, nei suoi studi applica la semiotica al mondo del marketing e analizza l’unione e la fusione di linguaggi e culture diverse. Secondo Floch, l’analisi del linguaggio della marca, consente di individuarne due elementi identitari: 1. Differenza: valore che permette di costruire la riconoscibilità, la distanza rispetto a qualcos’altro (specificità); 2. Permanenza: il perdurare dei valori economici industriali e sociali nel tempo (durata). Ovviamente, i media hanno un ruolo importante nella costruzione di modelli prodotti dal mondo dei consumi delle marche: la rappresentazione mediatica costruita attraverso il cinema, la letteratura e la rete di un certo mondo influenza i consumi, le tendenze e le percezioni e rafforza l’identità della marca stessa. Ci sono dei marchi che hanno un’identità molto forte, come nel caso di Louis Vuitton. La boutique di Louis Vuitton agli Champs-Élysées si configura come uno spazio identitario molto Fig. 1 - Louis Vuitton - Ginza, Tokyo 2 Floch J.M., Identità visive, Franco Angeli, Milano, 1997 133 Marketing retail 2.0 territoriale italiana. É innegabile che il concetto di slow-food esistesse ancora prima di Farinetti, ma il suo merito é quello di aver trasformato l’esperienza conviviale e culturale intorno a esso in prodotto commerciale. Allo stesso modo, gli spazi fisici di Eataly sono stati concepiti rispecchiando la storia e recuperando il fondamentale archetipo del commercio: il mercato. Eataly Torino, ad esempio, nasce dal recupero di una fabbrica di alcolici nella zona del Lingotto, proprio vicino allo “scrigno degli Agnelli” progettato da Renzo Piano. In questo spazio si é ricreato lo spazio archetipico del mercato che le persone possono vivere in modo del tutto diverso rispetto ai classici ipermercati moderni. Oltre alla funzione strumentale dell’acquisto, gli acquirenti possono vivere un’esperienza sociale legata alla scelta, aiutati da una comunicazione identitaria molto forte associata agli spazi. Fig. 2 - Louis Vuitton - Champs Elysées, Parigi forte che comunica continuamente attraverso i segni di marca (in questo caso le iniziali) che ritroviamo nei prodotti. Per Floch Louis Vuitton è la prima vera marca poiché, oltre alla sua storia e tradizione importanti, è stata capace di essere (quasi ossessivamente) fedele alla sua identità. Modello identitario che Louis Vuitton replica e declina in tutti gli spazi di marca: ad esempio nella sua boutique di Tokyo in cui persino la superficie esterna del building diventa vetrina e strumento di comunicazione dei segni, attraverso giochi di illuminazione e attrazione del consumatore. Fig. 4 - Ikea Anche il settore dell’arredamento ha saputo far proprio il concetto di identità di marca. É il caso di Ikea, brand svedese che ha democratizzato e reso accessibile economicamente un settore storicamente considerato di lusso senza, però, intaccarne il valore sociale. La marca, in questo caso, ha un valore in sé, per cui il consumatore la vive come qualcosa di prestigioso a prescindere dall’effettivo investimento. Questo é un fenomeno interessante, reso possibile attraverso un’operazione di retail che consente di abbassare il livello del prodotto senza perdere in prestigio anzi, mantenendolo attraverso la forza del Fig. 3 - Eataly Torino La moda, quindi, ha lanciato un trend che è stato progressivamente accolto da altri settori merceologici, come quello del food. É il caso di Eataly, il progetto di Oscar Farinetti, il quale ha saputo costruire un discorso imprenditoriale di successo a partire dal concetto di cibo quale espressione della cultura, grazie alla valorizzazione della tradizione culinaria 134 Marketing retail 2.0 marchio e degli spazi rafforzando, così, il proprio valore aspirazionale. questa coerenza di elementi che caratterizzano l’identità di marca di Nike. Essi si configurano come dei luoghi in cui il prodotto viene esibito e valorizzato quasi attraverso un’esperienza di museificazione della merce, grazie a tecnologia e design di ultima generazione. E, proprio in fatto di design, tutti gli elementi che lo caratterizzano contribuiscono alla narrazione della marca e del mondo che essa rappresenta: l’elemento grafico dello swoosh é onnipresente e pervasivo, attraverso forme circolari che ritroviamo dappertutto, dalle sedute al pavimento. Inoltre, l’interattività e la polisensorialità delle strutture contribuiscono ulteriormente a coinvolgere gli acquirenti nella narrazione epica della marca e delle storie degli atleti che essa sponsorizza. Pervasività che rischia di diventare saturazione, però, secondo Schmitt &Simonson. Nel loro Marketing Aesthetics3, i due autori prendono in considerazione il possibile eccesso di coerenza che si può sviluppare nel “sistema marca” e che può irrimediabilmente avere un effetto boomerang, quello di portare noia e saturazione, appunto, nei consumatori. Il suggerimento dei due autori é di costruire un discorso sulla marca che sia coinvolgente, ma non soverchiante. Sulla scia di queste indicazioni, Nike ha deciso di prestare molta attenzione all’equilibrio nel rapporto marca-consumatore e di evitare qualsiasi tipo di eccesso di coerenza che avrebbe potuto danneggiarli. Passando alla tecnologia, un altro brand che ha saputo sfruttare la sua identità di marca al meglio é Apple. Lo store situato nella 5th Avenue di New York è, forse, l’esempio più chiaro di vetrinizzazione: un cubo trasparente in cui la forza della marca parla da sé, servendosi del suo forte potere evocativo. Il bianco del logo, benché un non-colore, esprime l’identità di Apple. Progettato da Bohlin Cywinski Jackson, eredi del Bahuaus, lo spazio è minimal, essenziale, dove la vetrina é al centro della marca, rispecchiando la filosofia e il design dei prodotti Apple. Il caso Nike In fatto di identità di marca, il brand Nike é davvero un caso interessante, poiché ha saputo costruire e rafforzare la sua identità attraverso il legame tra la marca stessa ed i segni che la identificano. Nike nasce a Beaverton nel 1972 da un’idea di Phil Knight e Bill Bowerman, due ex mezzofondisti, e da subito costruisce intorno a sé un immaginario basato su valori ed elementi coerenti fra loro, che ne decreteranno il successo: il logo, lo “swoosh” disegnato da Carolyn Davidson, esprime il movimento di spinta, si sposa bene con il claim “Just Do It” che esprime al meglio il concetto di base della sfida individuale per il successo, quell’ideologia sportiva individualista americana da sempre contrapposta al concetto di gioco di squadra tipicamente europeo. La coerenza degli elementi della marca che lavorano sinergicamente ha creato nel tempo un valore simbolico talmente forte e evocativo in grado di coinvolgere il consumatore nel discorso dell’identità di marca facendo sì che anch’esso ne condividesse i valori e si sentisse parte di esso. Il modello greimasiano di Jean-Marie Floch Ogni marca sceglie un suo posizionamento, che diventa la base su cui il marketing sviluppa dei valori, intorno ai quali elabora testi, e quindi messaggi, attraverso un processo opposto rispetto a quello dei semiotici che, a partire da un testo, ne sviscerano i valori fondamentali. Per avere permanenza nel tempo (una delle due caratteristiche principali dell’identità di marca) ogni testo dovrà partire dal valore o dai valori predefiniti in modo coerente. I punti vendita Nike Town sono l’emblema di Simonson A., Schmitt B.H., Marketing Aesthetics: The Strategic Management of Brands, Identity, and Image, The Free Press, New York, 1997 3 135 Marketing retail 2.0 Sulla scia dell’analisi testuale propria della semiologia e, in particolare, del quadrato semiotico di Greimas, Jean-Marie Floch applica questo modello al marketing, per studiare i diversi tipi di consumatori, il loro comportamento e come vengono elaborati mentalmente i testi/messaggi delle marche dalle persone. A partire da uno studio sui viaggiatori in metro ed estendendo il modello alla sfera dei consumatori, Floch elabora questo schema secondo cui essi seguono uno dei modelli comportamentali espressi dal quadrato: 1. Pratico: il consumatore è attento agli aspetti funzionali del prodotto; 2. Ludico: il consumatore predilige l’aspetto giocoso del prodotto; 3. Utopico: il consumatore non si interessa della funzionalità, ma del messaggio, del sogno che gli viene raccontato; 4. Critico: il consumatore è attento alle informazioni relative al prodotto. soprattutto far conoscere il prodotto in maniera credibile, oggettiva. 2. Pubblicità obliqua: si sfruttano le strategie del paradosso e dell’ironia. La pubblicità obliqua punta a ribaltare i luoghi comuni. Si rivolge solitamente a un pubblico di nicchia (o che aspira a esser tale) e non è immediatamente comprensibile in tutti i suoi aspetti, ma richiede una maggiore attività interpretativa. 3. Pubblicità mitica: c’è un “rivestimento” di sogno del prodotto. La pubblicità mitica esalta il prodotto come portatore di un valore di base. Spesso il prodotto è solo il pretesto per rappresentare un mondo che incarna i sogni e le ambizioni del consumatore. 4. Pubblicità sostanziale: esiste un “iperrealismo” del prodotto, del quale si enfatizzano gli aspetti funzionali. La pubblicità sostanziale vuole porre al centro dell’attenzione il prodotto di per sé. Dell’oggetto vengono esaltate le doti materiali, estetiche, la piacevolezza. Fig. 5 - Floch - Quadrato semiotico dei modelli di comportamento del consumatore Fig. 5 - Floch - Quadrato semiotico dei modelli di comportamento del consumatore A questi modelli corrispondono forme di comunicazione diverse che possano essere efficaci per ognuna di queste categorie e, di conseguenza, quattro modi di fare pubblicità da parte delle imprese: 1. Pubblicità referenziale: il testo si mantiene legato alla realtà. La pubblicità referenziale esalta i valori pratici, l’utilità dell’oggetto. Il suo scopo è Per ognuno di questi linguaggi pubblicitari, Floch ha individuato degli esempi di campagne pubblicitarie prodotte da quattro fra i più grandi pubblicitari del 20esimo secolo: Un headline che punta sulla spettacolare prestazione del prodotto: «At 60 miles an hour the loudest noise in this new Rolls-Royce comes from the electric clock.» 136 Marketing retail 2.0 Il prodotto diviene parte di un discorso epico in cui, attraverso un linguaggio mitico, il cowboy, eroe a tutto tondo, risemantizza le sigarette con il filtro prima considerate appannaggio del gentil sesso, ora must have degli uomini più forti. Fig. 7 - Pubblicità referenziale: David Ogilvy per Rolls Royce (1958) Fig. 9 - Pubblicità mitica: Leo Burnett per Marlboro (1954) Pubblicità indiretta che gioca con il consumatore attraverso il linguaggio e le figure retoriche: “Lemon”. L’autore di Reality in Advertising (1961), presenta in modo completo quello che è il vantaggio competitivo del prodotto rispetto a tutti gli altri della stessa categoria, fornendo tutte le informazioni necessarie. Fig. 10 - Pubblicità sostanziale: Rosser Reeves per Viceroy (1960) Fig. 8 - Pubblicità obliqua: Bill Bernbach per Volkswagen Beetle (1959) Daniela Stefania De Pascalis 137 Marketing retail 2.0 Riferimenti bibliografici Bill Magazine, Tita Srl. Codeluppi V., Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano, 2014 – capitolo 3. Codeluppi V., Mi metto in Vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e le altre “vetrinizzazioni”, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Floch J.M., Bricolage, Franco Angeli, Milano, 2013 - capitolo 14. Floch J.M., Identità visive, Franco Angeli, Milano, 1997. 138 COMUNICAZIONE E CRISIS MANAGEMENT Tratto dalla lezione di Roberto Grandi «L’aspetto comunicativo della crisi colpisce l’immagine dell’impresa, delegittimata e priva di fiducia. È necessaria quindi una risposta immediata ed efficace e, possibilmente, preventivata in anticipo.» REPUTATION - CRISIS COMMUNICATION - SOCIAL MEDIA si trovano in una situazione di perturbazione, alterazione, emergenza o transizione; ciò porta a minare il rapporto di fiducia verso l’impresa, così come la sua immagine, tanto da rischiare di rendere inefficaci tutte le strategie normalmente messe in atto. Svariate possono esserne le cause scatenanti: eventi negativi di origine ambientale o sanitaria, forze economiche e di mercato, errori commessi dall’organizzazione stessa (imperizia, scarsa professionalità, mancanza nei sistemi di sicurezza, stime erronee, dimenticanze, disonestà dei dipendenti) e molte altre ancora. Quel che è certo è che nessuna azienda ne è immune, si tratta solo di capire quale tipo di crisi aspettarsi e quando essa si verificherà. Quando ciò accade è infatti necessario che l’impresa agisca in modo immediato ed efficace; a tal proposito, a partire dagli anni ’90, ha iniziato ad affermarsi una “cultura della crisi”, una sorta di strategia preventiva, volta a supportare le aziende nel crisis management, definendo alcune linee guida. Prima fra tutte è sicuramente la creazione di un’apposita sezione del sito web aziendale, così come di un crisis team, in cui non possono mancare figure quali avvocati, esperti di mass media e rappresentante dell’impresa. Tali accorgimenti però, non sempre vengono messi in atto dalle imprese che spesso sottovalutano gli effetti negativi portati dalla crisi. L’avvento dei media digitali ha segnato un Ogni impresa dovrebbe accertarsi che l’immagine percepita dai propri stakeholder coincida con quella progettata e, dunque, con i valori di base cui fa riferimento la propria identità. Il ruolo dell’immagine è di primaria importanza, in quanto crea cornici di senso che contestualizzano l’agire dell’impresa e che formano aspettative negli individui. Questo elemento emerge soprattutto nelle situazioni di crisi. Ogni crisi ha carattere ambivalente. Ciò viene ben espresso nella lingua cinese, nella quale il termine “crisi” è rappresentato dalla combinazione dell’ideogramma Wēi (paura o pericolo) con l’ideogramma Jī (opportunità o desiderio). Per “crisi” si intende un evento straordinario, che non può essere quindi gestito con strumenti ordinari. In particolare, un’ impresa entra in crisi quando gli elementi che la compongono 139 Comunicazione e crisis management ulteriore spartiacque col passato, modificando inevitabilmente i tempi (drasticamente ridotti) e le modalità di azione in caso di criticità; tutto infatti può diventare pubblico e virale nel giro di poche ore: è necessario quindi agire in modo tempestivo, trasparente e, se possibile, sfruttare le potenzialità dei social media per fare di una situazione di svantaggio, un’opportunità per la propria impresa. I casi di seguito analizzati, collocati in spazi temporali differenti, mostrano le più o meno efficaci modalità di gestione della crisi attuate dalle aziende, che hanno condotto quindi a esiti ben differenti per le imprese stesse. minime quantità di benzene. Il Presidente della Perrier, senza conoscere ancora le cause della contaminazione, fornisce una risposta confusa ed ambigua, attribuendo la causa a un errore umano che ha interessato una singola linea di montaggio in USA. La reazione a questa poco convincente dichiarazione è l’allarmismo tra i mezzi di comunicazione di massa e il blocco delle importazioni da parte di tutti gli acquirenti. Il Presidente, a tal punto, ritira il prodotto dal mercato e ritratta la versione fornita in precedenza: la contaminazione è avvenuta infatti alla fonte, a causa di una saturazione di benzene ad un filtro per la purificazione dell’anidride carbonica. Ciò rivela, tra l’altro, che era falsa anche la pubblicizzazione del prodotto come effervescente naturale. I danni di immagine, di credibilità ed economici sono estremamente rilevanti e portano al cambio prima del management e poi della proprietà della Perrier, seguito dal lancio della produzione di una nuova linea di acqua minerale. Caso Tylenol, Johnson&Johnson Chicago, 1982. Sette persone muoiono avvelenate dopo avere ingerito delle compresse dell’analgesico Tylenol appartenenti ad uno stock contaminato con cianuro da un ignoto avvelenatore (product tampering). L’azienda reagisce in modo impeccabile: ritira immediatamente il prodotto dal mercato e mette allo studio una nuova confezione impenetrabile alle manomissioni. Procede poi con una comunicazione interna diretta ai dipendenti per spiegare l’accaduto e informare sulle azioni da intraprendere, seguita da una conferenza stampa via satellite per tenere aggiornata l’opinione pubblica internazionale. Da notare che, non potendo far affidamento su una cultura della crisi che allora non si era ancora sviluppata, J&J ha agito semplicemente applicando la propria mission, inscritta in quello che è conosciuto come Our Credo. Grazie a una gestione immediata e trasparente della crisi e attraverso un mix di efficaci azioni strategiche e di comunicazione, J&J ha recuperato in breve fiducia e credibilità, oltre che la quasi totalità della propria quota di mercato. Caso Mercedes-Benz Ottobre 1997. A pochi giorni dal debutto ufficiale della Classe A di Mercedes, la vettura si ribalta durante il test “Schiva Alce”, effettuato da un giornalista per una testata specializzata. L’effetto mediatico è immediato, soprattutto perché vengono intaccati affidabilità e sicurezza, da sempre valori di base dell’azienda tedesca. In una conferenza stampa internazionale, la dirigenza della Mercedes nega la propria responsabilità in relazione alla stabilità della vettura, chiamando in causa l’azienda Goodyear per gli pneumatici e l’inattendibilità del test. Ciò genera una crescente indignazione nell’opinione pubblica internazionale. All’azienda tedesca si rimproverano: reticenza, slealtà, incapacità di ascolto delle esigenze del pubblico e poca propensione al miglioramento del prodotto. Finalmente, quasi un mese dopo, la svolta: la direzione della Mercedes, presa coscienza Caso Perrier North Carolina, 1990. I tecnici di un laboratorio statale individuano, nell’acqua minerale Perrier, 140 Comunicazione e crisis management Caso National Rifle Association della gravità della situazione, annuncia di voler sospendere per tre mesi le vendite della vettura per poterne modificare l’assetto, dotandola dell’ESP (Electronic Stability Program). Seguono poi le scuse con il pubblico e l’ammissione delle proprie responsabilità. La campagna pubblicitaria per il lancio della nuova vettura ha il volto del campione tedesco Boris Becker, la cui carriera fatta di “cadute” e “risalite” lo rende un testimonial credibile e adatto a quanto l’operazione intende comunicare. “Chi non commette errori è forte. Ancora più forte è invece chi impara dai propri errori”. Questo il claim del geniale spot tedesco. Il recupero è stato però tardivo: Mercedes ha infatti registrato pesanti perdite sia nel 1997 che nel 1998. Luglio 2012, Colorado. In un cinema, durante la proiezione della notte, avviene una sparatoria: uno spettatore uccide 12 persone e ne ferisce 58. Il mattino seguente, la National Rifle Association, lobby in favore della distribuzione delle armi in USA, attraverso un tweet, augura a tutti una buona giornata, interrogando l’utenza circa eventuali programmi per il week end. Questo tipo di comunicazione, avvenuta a seguito di un fatto tanto grave, genera lo sdegno dell’opinione pubblica. Dopo qualche ora, la NRA reagisce scaricando la responsabilità su un singolo individuo che, evidentemente, era inconsapevole di quanto accaduto in Colorado. Non si fa accenno ad alcuna scusa o alle vittime dell’incidente. Fig. 1 - Campagna pubblicitaria Mercedes Benz Classe A, anno 1998. 141 Comunicazione e crisis management Fig. 2 - Tweet di NationalRifleAssociationla mattinasuccessiva alla sparatoria in Colorado Fig. 3, 4, 5 - Reazioni della community al tweet pubblicato da NRA causando un disastro ecologico nel Golfo del Messico. 11 persone perdono la vita e 17 rimangono ferite. Greenpeace e l’opinione pubblica si schierano immediatamente contro British Petroleum, responsabile della piattaforma. Su Facebook viene creata la community “Boycott BP”, che raggiunge in pochissimo tempo 700.000like. Le proteste si estendono a suon di commenti e hashtag anche su Twitter e vari blog. La gestione della crisi sui social media è pessima: Qualche ora dopo, l’account NRA viene cancellato. Ciò mostra quanto possa essere rischioso programmare qualsiasi tipo di comunicazione senza assicurarsi che il frame nel quale è inserita, nel frattempo, non sia cambiato. British Petroleum Aprile 2010. A causa di una valvola difettosa, esplode la piattaforma Deepwater Horizon, 142 Comunicazione e crisis management l’azienda mostra totale chiusura al dialogo con la community, sottovalutando il potere dei canali social. Il risultato? Nel giro di due mesi le azioni BP perdono il 50% del loro valore, per non parlare della corporate reputation altamente danneggiata. da Greenpeace, Nestlé si ritrova invece a dover porgere le proprie scuse a causa della pessima gestione dei social network. Oltre ai casi sopra citati, è interessante analizzare anche alcune delle migliori best practice nelle soluzioni di management a situazioni di crisi. Caso Nestlé Altro caso di mal gestione degli account social riguarda Nestlé. Nel 2010 Greenpeace lancia una campagna accusando la multinazionale svizzera di provocare la deforestazione in alcuni paesi tropicali, producendo olio di palma proveniente da fonti non rinnovabili. Nestlé comunica prontamente la propria preoccupazione sul tema, pronunciandosi a favore della lotta contro la deforestazione, promettendo di usare solo olio di palma proveniente da fonti sostenibili. La vera crisi nasce però in seguito, quando Nestlé inizia a rispondere sgarbatamente ai commenti negativi da parte degli utenti di Facebook, generando malcontento e sdegno nella community. Ecco come, dopo aver gestito egregiamente la situazione di criticità “sollevata” Caso La Redoute Gennaio 2012. Un utente individua un uomo nudo in una delle foto del catalogo di prodotti per bambini de “La Redoute”. Il fatto genera non poco “clamore” nella community e parecchi commenti ironici da parte degli utenti. L’azienda decide quindi di sfruttare la situazione a proprio vantaggio: lancia un contest, basato sul crowdsourcing, in cui sfida gli utenti a “scovare” altri errori nel proprio sito web; il vincitore si sarebbe aggiudicato un total look. Ecco quindi che, partendo da una criticità, viene messa in atto una vera e propria operazione di marketing a costo zero. La Redoute ne ha guadagnato in goodwill nei confronti dell’impresa, aggiudicandosi più di 100000 fans su Facebook. Caso FedEx Fig. 6 - Reazioni della community all’atteggiamento di Nestlé Un cliente FedEx divulga, tramite YouTube, un video di una ripresa effettuata dalla propria telecamera di sorveglianza, che ha filmato un addetto FedEx consegnare un monitor pc lanciandolo oltre il cancello di entrata.Il video ha una diffusione virale. FedEx, consapevole dei rischi di un’ulteriore Fig. 7 - Messaggio postato su Facebook da Nestlé in risposta alla campagna di Greenpeace 143 Comunicazione e crisis management Fig. 8 - Frame del Video “La Redoute (case study)- The naked man”. Caso Oreo diffusione, affronta il problema in prima persona, parlando per voce di uno dei suoi massimi rappresentanti, attraverso lo stesso canale utilizzato dal cliente insoddisfatto: YouTube. L’azienda porge innanzi tutto le proprie scuse, evidenziando che il dipendente frettoloso non lavora più in quella posizione.Annuncia inoltre che il video “incriminato” sarà usato a supporto della formazione interna sulla cura del cliente, ribadendo i valori dell’azienda di attenzione alla qualità del servizio. Diverso invece è il caso seguente che, sebbene non riguardi un’impresa in crisi, dimostra come quest’ultima abbia compreso e saputo sfruttare le potenzialità dei media digitali: 144 Durante il Super Bowl del febbraio 2013 avviene un black out che oscura metà delle luci dello stadio di New Orleans, costringendo la partita a fermarsi per 34 minuti. L’account ufficiale su Twitterdel brand Oreo twitta il seguente messaggio: “Power out? No Problem. You can still dunk in the dark”. Il tweet, accompagnato da un’immagine del famoso biscotto, fa riferimento al fatto che anche stando al buio, si può comunque gustare un biscotto Oreo. È stato ritwittato 15mila volte nelle prime 14 ore e la stessa immagine, su Facebook, ha ricevuto 20mila likes. La genialità dell’idea, sopraggiunta in modo tempestivo e mirato, sfruttando la velocità dei social network, ha trasformato una situazione di disagio legata allo Comunicazione e crisis management Fig. 9 - Frame del Video “La Redoute (case study)- The naked man”. stadio in un plus per Oreo, che ha consolidato così la propria immagine. Come appreso dai casi sopra analizzati, se da un lato l’avvento dei media digitali ha portato delle sfide maggiori per le imprese, dall’altro però queste ultime possono sfruttarne alcune funzioni a proprio vantaggio. Attraverso l’analisi dei big data, per esempio,si è in grado di apprendere, in tempo reale, quali sono le conseguenze negative delle proprie azioni e, quindi, “correggere il tiro” quando necessario. Si pensi al “Diesel Gate” che ha coinvolto Volkswagen lo scorso anno: dopo aver ammesso la frode sui test anti inquinamento, l’azienda si è scusata per l’accaduto, procedendo poi con le dimissioni del proprio CEO, Winterkorn. Attraverso una sentiment analysis è stata poi in grado di ricevere un riscontro sull’azione intrapresa: la percentuale di sentiment negativo nei confronti di Volkswagen è diminuita, rivelando quindi l’efficacia delle dimissioni a livello di social media. L’analisi è stata poi estesa a tutto il gruppo (Audi, Lamborghini, Bentley, Bugatti, Skoda, Ducati); come chiaramente si evince dall’immagine, il sentiment negativo ha interessato solamente Volkswagen. In sintesi si può affermare senza alcun dubbio che, da un punto di vista comunicativo, ciò che accomuna qualsiasi tipo di crisi è la ripercussione negativa sul rapporto di credibilità e fiducia, presupposto fondamentale per una comunicazione efficace. Ciò va a danneggiare la reputazione e l’immagine dell’impresa con ritorni negativi non solo sui pubblici esterni, ma anche interni che 145 Comunicazione e crisis management potrebbero non riconoscersi più nell’azienda che rappresentano. Per evitare ciò, e a fronte dei nuovi meccanismi introdotti dai media digitali, è importante impostare una comunicazione: • Tempestiva (entro 12 ore dall’evento) ed il più possibile esaustiva • Continuamente aggiornata • Centralizzata per essere coerente • Trasparente e fortemente riferita ai valori etici dichiarati • Rivolta sia all’interno che all’esterno • Aperta all’ascolto Senza questi accorgimenti, il rischio è quello di ottenere effetti ancora ben più gravi di quelli apportati dalla crisi stessa. Francesca Invernizzi Fig. 10 - Sentiment analysis Gruppo Volkswagen a seguito delle dimissioni di Winterkorn. http://blog. talkwalker.com/en/crisis-management-volkswagen-social-analytics/ 146 Riferimenti bibliografici Bland M., Communicating out of a crisis, Macmillan Business, London, 1998. Mitroff I., Crisis Leadership: Planning for the Unthinkable, John Wiley & Sons Inc, 2006. Poma L.,VecchiatoP., La guida del Sole 24 Ore al crisis management. Come comunicare la crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore Libri, 2012. 147 Sezione 4 DALL’ANALISI ALLA PIANIFICAZIONE: QUALI AZIONI INTRAPRENDERE? Le ricerche sui media Tratto dalla lezione di Raffaele Pastore e Silvio Siliprandi «Il televisore è un contenitore pieno di prodotti. Dentro ci sono detersivi, automobili, macchine fotografiche, cereali per la prima colazione e altri televisori. Non sono i programmi a essere interrotti dalla pubblicità, ma è il contrario.» Don De Lillo, “Americana” Audience tv - Cross platform measurement - Viewability C’era una volta chi guardava la tv. Oggi c’è chi guarda la tv e con lo smartphone twitta. Poi c’è chi guarda la tv sullo smartphone e dal tablet cerca su Google le ultime uscite in libreria. In più c’è chi guarda una serie tv sul tablet e con lo smartphone condivide contenuti su Facebook. Come si definisce questo pubblico? Risulta difficile persino stabilire cosa sia una audience, di fronte a tale indefinito panorama. Come si determina lo share1 in questo contesto? Tanti luoghi comuni circa le ricerche sui media sono oggi da sfatare e, soprattutto, queste ultime devono affrontare nuove sfide, nuove tipologie di dati da decifrare che possono restituire, se adeguatamente ottenuti e letti, aggiornate mappe e guide della società. D’altronde sono decine i diversi device a disposizione, altrettante le piattaforme di accesso ai contenuti mediali, più di centinaia i contenuti accessibili in streaming o in asincrono: tutto ciò rappresenta una sfida ai tradizionali paradigmi di audience measurement. 1 Lo share è il rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma o in una fascia oraria e il totale degli spettatori che contemporaneamente stavano usufruendo di altri canali mediante lo stesso media. 149 Le ricerche sui media Il “post” della televisione. La tv è certamente (in verità assieme alla radio) uno dei mezzi di comunicazione di massa più pervasivi, se non altro per la capacità di adattarsi a formati sempre nuovi. Un dato, però, può balzare subito all’occhio: il 4% della popolazione italiana non ha un televisore. Non è un numero così basso, peraltro in aumento dell’1% rispetto a 20 anni fa, gli anni dell’egemonia televisiva incontrastata. La verità è che la televisione si è spostata ovunque e anche semplicemente dire “guardare la tv” o “avere la tv” è oggi poco esaustivo, persino scorretto. Le ricerche sui media in questo momento si sviluppano, dunque, su diversi fronti e naturalmente non riguardano soltanto la dieta mediale televisiva. Raffaele Pastore, Direttore Studi e Ricerche di Upa, ci ha restituito un’ampia panoramica della misurazione dell’audience in Italia. Sinora abbiamo parlato soltanto di televisione, mentre in realtà si misura evidentemente molto altro. Auditel, infatti, si occupa di mercato televisivo, ma accanto ad essa (forse la più nota istituzione di rilevamento dati di ascolto) convivono Audiweb (per quanto concerne il mondo della rete), Audipress (che stima il numero dei lettori delle diverse testate), Audioutdoor (che si occupa delle metriche per la pubblicità “esterna”) e Audimovie (attiva invece nella misurazione del medium cinema). Audiradio è stata soppressa dal 2011, e ad oggi non è stata sostituita da un ente simile, anche se si sta lavorando in questa direzione. Nello specifico Auditel è un “Joint Industry Commitee” (JIC), organismo a controllo incrociato che riunisce ogni componente del mercato televisivo: investitori di pubblicità, agenzie, centri media e imprese emittenti. Fornire numeri il più possibile aderenti alla realtà è un modo per monitorare il successo dei programmi offerti dalle varie emittenti: ciò è fondamentale principalmente per la pianificazione degli spazi pubblicitari, senza dei quali la tv morirebbe in poco tempo. Per misurare gli ascolti Auditel ha utilizzato il modello della “famiglia televisiva”, costituita da chi sta in una determinata casa e può guardare la tv. Oggi si misurano in tutto 97 canali attraverso un panel di 5.700 famiglie: per via della frammentazione, però, sta emergendo che tale panel andrebbe quantomeno triplicato creando un “superpanel”2 di circa 15.000 famiglie, numero evidentemente più consono a restituire una immagine il più fedele possibile del telespettatore italiano. Ciò non è di fatto ancora accaduto, ma dal 2014 è stato inserito in agenda. Una quota pari al 23% del panel, peraltro, deve ruotare almeno per il 23% all’anno, allo scopo di garantire la “freschezza” della misurazione e il suo essere un’indagine campionaria. Auditel deve inoltre preoccuparsi delle famiglie straniere, delle famiglie senza tv, dei cosiddetti “extended screen”, dell’analisi della collocazione e del tipo di tv, nonché del “Time Shifted Viewing” (TSV)3. Quest’ultimo rileva gli ascolti differiti rispetto al momento della trasmissione, per rispondere alle esigenze poste da una progressiva diffusione delle tecnologie di registrazione digitale. L’operazione “extended screen”, invece, è tesa a rilevare gli ascolti su più piattaforme di trasmissione dell’immagine, in particolare sui pc, iniettando in quest’ultimo un meter4 virtuale che restituisce dati di ascolto della tv sul computer. Il meter costituisce, come per il televisore, il cuore del processo di misurazione, registrando le tracce audio del programma che l’utente sta visionando: le trasforma in una firma digitale e le trasmette al centro di elaborazione per il riconoscimento del contenuto (tecnica di audiomatching). Con 400 canali (198 nazionali e 182 locali) irradiati dal cielo tramite antenne e parabole o dal sottosuolo con il cavo, migliaia di contenuti visti in diretta o differita su pc, tablet e smartphone, misurare l’ascolto televisivo rappresenta davvero un’impresa titanica. La tv http://www.primaonline.it/2014/06/05/185749/nasce-il-super-panel-di-auditel-10mila-famiglie-in-piu/ Ascolti registrati oltre la giornata di messa in onda, vedi http://archivio.youmark.it/article/31478/news-Auditel,-le-nuoveregole-per-l’ascolto-differito---Time-Shifted-Viewing-(Tsv)-youmark 4 “Il meter è un sistema elettronico di rilevamento dell’audience. Si compone di tre elementi: l’unità di identificazione delle frequenze (Mdu), il telecomando, l’unità di memoria e trasmettitore di informazioni (il meter vero e proprio)”, in Boni M. I. (a cura di), “L’economia dietro il sipario: teatro, opera cinema, televisione”, EDT, Torino, pag. 141 2 3 150 Le ricerche sui media sta diventando (o forse è già diventata) social, ovvero un mezzo la cui fruizione stimola e genera contenuti su altre piattaforme in modo sincrono (e non), che si tratti di un tweet, di un post su Facebook o di un hashtag su Instagram (solo per citare i social più usati). Audiweb, invece, fornisce al mercato un sistema integrato di servizi per la definizione e la misurazione dell’audience online, offrendo informazioni utili ai centri media e agli editori per effettuare una corretta pianificazione e gestione delle campagne di comunicazione sul mercato. Il sistema di rilevazione Audiweb ambisce a fornire un dato obiettivo perché utilizza e integra differenti fonti di dati: censuari provenienti dai contatori dei siti, effettivi di navigazione registrati da un panel rappresentativo della popolazione italiana e socio-demografici degli individui collegati provenienti dalla ricerca di base. La ricerca di base quantitativa sulla diffusione dell’online in Italia è realizzata in collaborazione con Doxa ed è basata su un campione di 10.000 interviste face to face: in questo modo fornisce la percentuale di popolazione (11-74 anni) con accesso a internet. I dati vengono integrati con il panel, una rilevazione oggettiva realizzata attraverso un software meter che registra la fruizione di internet di un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana (dai 2 anni in su, ma attenzione: non si può meterizzare il telefonino di un minorenne), composto da circa 40 mila panelisti. L’output è il report Audiweb Database, che rende disponibili tutti i dati sulle navigazioni degli individui collegati attraverso un computer da casa, ufficio o altri luoghi, con un livello di dettaglio molto ampio sui dati socio-demografici dei navigatori. Sono 4000 le persone meterizzate, di cui 2.500 online via smartphone e 1.500 con tablet. Audiweb produce numeri importantissimi per le aziende perché permette di valutare in maniera piuttosto univoca, ad esempio, la tanto chiacchierata “viewability”5. Un banner erogato su una pagina è realmente visto dall’utente? Capita a tutti di cercare immediatamente la “x” per chiudere una pubblicità comparsa in automatico su una pagina. Bisogna dunque lavorare ad uno standard che porti dal concetto di “impression servita” (served impression6) a 5 Effettiva visibilità dei contenuti pubblicitari, vedi www.digital4.biz/marketing/advertising/viewability-e-targeting-comele-metriche-cambiano-la-pubblicita-su-internet_43672157321.htm 6 Le impression vengono definite da uno standard nominato served impression indicante il fatto che sono state registrate su un Ad server e il conteggio inizia quando l’annuncio stesso è completamente caricato in uno spazio visibile per l’utente finale. 151 Le ricerche sui media secondo8. In Italia UPA e FCP (Federazione Concessionarie Pubblicità), in rappresentanza diretta del punto di vista e degli interessi di acquirenti e concessionarie di spazi pubblicitari online, hanno dato vita a un documento programmatico congiunto, che intende fornire un quadro definitorio condiviso dei concetti relativi alla viewability e indicazioni pratiche immediatamente utilizzabili dagli operatori del mercato. La maggior parte della pubblicità su internet, specie quella monitorata in Italia, risulta sbagliata perché ancora strettamente legata a logiche televisive. E poi ci sono altri evidenti problemi legati alla navigazione “non umana” sul web: le stime più accreditate sul fenomeno del traffico artificiale parlano del 25% del traffico totale in USA e del 45% in Europa. Il 40% delle unità pubblicitarie erogate in un giorno medio sono generate, ad esempio, da meno dell’1% degli utenti unici presenti in rete: non può che trattarsi di robot, ovvero “computer in batteria collegati alla rete governati da software capaci di riprodurre gli schemi di navigazione di una persona, o di target precisi di persone”. Una pratica molto diffusa è anche quella dei site under: quando si apre un sito sotto se ne apre un altro con video advertising in auto play senza audio che di fatto produce una visita, un visitatore unico che ha visualizzato pubblicità. Infine vi sono tecnologie che permettono di comprimere intere pagine web in un unico pixel, pixel site, e questo può essere “nascosto” in una qualsiasi pagina con qualsiasi altro contenuto, è praticamente invisibile ma genera traffico, inconsapevole ma contabilizzato. quello di “impression visualizzata” (viewable impression7). Un banner può dirsi realmente visto se: 1. per la display, il 50% dei pixel del banner viene visualizzato dall’utente per almeno 1 secondo. 2. per i video, il 50% dei pixel del banner è visualizzato dall’utente per almeno 2 secondi. 3. per la large display, il 30% dei pixel del banner viene visualizzato dall’utente per almeno 1 F OC U S La viewability «Da quante persone è stato realmente visto il contenuto pubblicitario che vi ho pagato a peso d’oro su YouTube?»: questa la domanda che spesso gli investitori rivolgono a quanti parlano di viewability (gli svedesi dello IAB tentano di dare qualche risposta in un documento dal titolo “Viewable Mobile”9). Chissà se sono più coloro che “skippano” la pubblicità sul noto portale di video rispetto a quanti restano a guardarlo. Ad ogni modo, quasi la metà di tutto il display advertising non è posizionata dove gli utenti dovrebbero vederla e solo un banner su due viene realmente visto, mentre solo un utente su mille ci clicca. Google a questo proposito ha pubblicato un documento dal titolo evocativo, “L’importanza di essere visti”, mentre Facebook ha lanciato una sezione in cui narra le storie di successo, ovvero quelle che vedono protagoniste le aziende che, scegliendo di promuovere campagne advertising sul social di Zuckerberg, hanno avuto un gran ritorno in termini di ROI e conversioni. Se solo si arrivasse alla radice esatta del termine, risulterebbe quantomeno evidente che si tratta di una parola composta: “view” e “ability”, ovvero l’abilità di farsi vedere. I più bravi sono indiscutibilmente i più abili a mettersi in mostra. Il concetto di impression è dunque quasi da mandare in cantina, se è vero quanto afferma Google, cioè che il 56.1% delle impression non è visto dagli utenti. Veniamo ad Audipress. Si tratta di una società promossa nel 1992 dall’Upa (Utenti Pubblicità Associati), da Assocomunicazione e dalla Fieg, (la Federazione Italiana Editori Giornali) sul modello dell’Auditel televisivo, per raccogliere e pubblicare dati sulla diffusione della stampa Si definisce viewable impression lo standard che conteggia le impression quando sono visibili per non meno del 50% all’utente e per almeno 1 secondo. 8 http://measurementnow.net/what-is-3ms/#.V1aSe_mLTIU 9 iabsverige.se/wp-content/uploads/FAQ_IAB_Viewable_Mobile2016.pdf 7 152 Le ricerche sui media 77 minuti al giorno: è il secondo maggior tempo impiegato dopo quello davanti alla tv e questo fa delle smart cities un medium a tutti gli effetti. Affissioni gigantesche su alcuni dei monumenti più in vista della città, schermi al centro della piazza principale, manifesti alla banchina della metropolitana o alla fermata del tram. Si può misurare tutto questo. Lo fa Audioutdoor, la prima metodologia di ricerca al mondo che utilizza il rilevatore satellitare GPS per la stima della audience dell’affissione. Questa ricerca integration data riesce a coprire quattro nuovi ambienti: la dinamica, gli aeroporti, le metropolitane e le autostrade. In fondo il concetto di “fuori casa” è cambiato, sia dal punto di vista del numero – e della qualità – dei punti di contatto con il consumatore, sia dal punto di vista del tempo di esposizione, stimato oggi a quasi 2 ore al giorno con punte, per alcuni target, oltre questa soglia. Molte incipienti tecnologie provano sin d’ora a “riconoscerci”: microcamere nelle grandi stazioni che provano a stimare il numero di persone (e loro caratteristiche) che rimangono a guardare un video sullo schermo, schermi intelligenti che italiana. Fornisce i dati di lettura dei quotidiani, dei supplementi di quotidiani, dei settimanali e dei mensili, oltre alle informazioni sociodemografiche dei lettori, per 125 testate attualmente in rilevazione. Dal 2014 l’indagine rileva la lettura complessiva della testata nelle sue diverse versioni, cartacea e digitale. Per l’ultima rilevazione in ordine di tempo di maggio sono state eseguite 47.308 interviste personali su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 14 anni e oltre, condotte con il sistema CAPI Doppio Schermo, lungo un calendario di rilevazione di 38 settimane complessive, dal 7 aprile 2015 al 27 marzo 2016. Audipress rappresenta chiaramente la maniera più trasparente per confrontare tiratura e lettura dei giornali. Quando siamo fuori casa (“out of home”, OOH), invece, cosa succede? Non si spengono mai del tutto gli schermi e intorno a noi non abbiamo soltanto architetture naturali ed artificiali. Le città, anzi, oggi sono sempre più agglomerati urbani interconnessi e intelligenti dove il tempo speso dai cittadini a percorrerle è di oltre 153 Le ricerche sui media ci mostrano soltanto quanto è affine ai nostri gusti. Il futuro sembra ora, invece deve ancora venire. Ci si chiede spesso se dati empirici supportano la vulgata secondo cui i comportamenti degli ultracinquantenni differiscono molto da quelli dei ventenni, specie se ci si riferisce alla questione digitale, al consumo mediale, o più “semplicemente” a come si guarda l’advertising, la pubblicità sempre più ubiqua. La verità, così come illustrato anche da Silvio Siliprandi, amministratore delegato di Gfk Eurisko, è che digital si nasce, ma digitali si diventa. E questo è dimostrato per di più dal fatto che la fascia di popolazione tra i 14 e i 34 anni fa sostanzialmente le stesse cose su internet della fascia degli ultracinquantacinquenni. Forse anche perché le barriere psicologiche di inadeguatezza da digitale si stanno fortemente erodendo: solo il 63% degli ultracinquantacinquenni oggi ritiene di non saper stare al passo con i tempi, mentre la percentuale era più alta di 10 punti 5 anni fa. Dire che la società sta cambiando risulta ora persino retorico, perché è già cambiata. Gli stimoli ci arrivano da ovunque, ma il tempo a disposizione per goderne rimane invariato. Mentre la crossmedialità cresce sempre più, la tv continua ad assorbire la maggior parte del time budget. Forse occorre ammettere che, tra tutti i media, la televisione ha avuto il coraggio di rimettersi in discussione, di cambiare, e questo l’ha premiata considerato anche il fatto con l’evoluzione della società cresce l’attenzione per i contenuti, piuttosto che per i contenitori. Come se dicessimo infine: non c’importa dove guardiamo queste potentissime immagini, l’importante è che siano immagini e potentissime. Simone Di Biasio 154 Le ricerche sui media Riferimenti bibliografici Capecchi S., L’ audience «attiva». Effetti e usi sociali dei media, Carocci, 2015. Colletti G. e Materia A., Social TV. Guida alla nuova tv nell’era di Facebook e Twitter, Il Sole 24 Ore, 2014. Vaccaro C., Native advertising. La nuova pubblicità. Amplificare e monetizzare i contenuti online, Hoepli, 2016. 155 Lo scenario del mercato dell’advertising Tratto dalla lezione di Alberto Dal Sasso «La tecnologia e la globalizzazione hanno trasformato l’industria televisiva da semplice e locale a complessa e globale.» Media - Advertising - Ricerche di mercato L’area Buy comprende anche Bases, una società che Nielsen ha acquistato circa dieci anni fa e che si occupa di modellistica previsionale. In pratica Bases, seguendo un approccio statistico, mette a sistema le informazioni più disparate per identificare eventuali problemi in fase di lancio, fornire supporto nei pre lanci, capire il tipo di impatto che il prodotto potrebbe avere sul mercato. Per fare tutto questo vengono inseriti precisi parametri di riferimento, che possono essere raggruppati nelle note quattro P2 di Kotler. Successivamente vengono effettuate delle simulazioni di successo di un prodotto cambiando questi parametri e definendo dove si intende lanciare il prodotto sul mercato. L’ultima attività che rientra nella macro area legata al Buy è la In Store Observation, vale a dire il marketing all’interno dei punti di vendita. Ci si occupa di capire e osservare come è più opportuno posizionare i prodotti a scaffale e come lo fanno i competitor. La seconda macro area di azione in cui opera Nielsen è denominata Watch. Si tratta dell’area storica dell’azienda che mentre in passato aveva un peso pari al 40% oggi ha raggiunto il 60% grazie al forte sviluppo che ha avuto e continua ad avere l’innovazione nel mercato dei media. Lo studio dello scenario mediale aiuta le imprese a conoscere la situazione futura e quindi a capire come vi dovranno operare, se cioè saranno necessari dei cambiamenti, se si dovranno prendere delle decisioni e/o attivare nuovi interventi di comunicazione. Per fare questo Nielsen offre, da moltissimi anni, due tipologie di servizio suddivise in due macro aree di azione, vale a dire l’area Buy e l’area Watch. Nella prima rientrano il Consumer e Retail Tracking, che misura ciò che accade nei punti di vendita in termini di quote di mercato, copertura ponderata e numerica, pressioni promozionali, con l’obiettivo di dare un feedback concreto delle performance aziendali rispetto a quelle dei propri competitor, prendendo a riferimento i dati aziendali di sell in e sell out. La Consumer Research permette di capire, nel momento in cui un prodotto esce da scaffale, chi lo ha acquistato. Per raggiungere questo obiettivo, Nielsen ha costruito un panel composto da circa 4000 famiglie, che in modo costante e continuativo, attraverso una penna ottica, scansionano i codici EAN1 in totale autonomia trasmettendo queste informazioni ai server della società. Una volta che queste indicazioni arrivano in azienda si potrà sapere chi acquista e chi consuma il tipo di prodotto in questione. 1 Il codice EAN (European Article Number) è una famiglia di codici a barre usata per la marcatura di prodotti destinati alla vendita al dettaglio. 2 Product, Price, Promotion, Place 156 Lo scenario del mercato dell’advertising Fig. 1 - Source Qualcomm (4,700 respondents online / 300 by phone) poiché sono in grado di connettersi a più dispositivi tecnologici contemporaneamente ed essere sempre aggiornati su tutto. In questo scenario è cambiato anche il processo di acquisto dei prodotti. Infatti, mentre tanto tempo fa il marketing sapeva come e dove far trovare il prodotto giusto al cliente giusto, oggi le personas3 hanno cambiato il modo di fare acquisti preferendo, ad esempio, la modalità online. È chiaro, però, che non tutti sono proiettati verso questo nuovo approccio d’acquisto, tutto dipende da una serie di variabili come l’età, lo stile di vita e il proprio status sociale. Ecco allora che il mercato è diventato estremamente complesso e allo stesso tempo ricco di novità. Oggi il problema che si stanno ponendo molte società come Auditel4 è chiedersi come misurare il cambiamento delle modalità di fruizione dei mezzi di comunicazione e, in particolare dei video, da parte delle persone. Anche perché il video on demand ha cambiato totalmente la possibilità di fare business da In particolare, in questa area, la società si occupa di misurare i trend pubblicitari (ovvero dove le aziende investono e in che percentuale lo fanno); le audience web e tv; gli indici di misurazione online attraverso l’incrocio di informazioni derivanti dal web e dal mobile. Secondo un’indagine condotta da Qualcomm, che risale a un paio di anni fa, circa il 16% delle persone tiene il proprio smartphone in camera da letto e il 68% ha confermato di tenerlo nel letto. Mentre solo il 13% ha risposto di tenere il proprio cellulare in qualunque posto. Si tratta di un’informazione importante che suscita una serie di riflessioni. Prima fra tutte il fatto che nella società attuale tutto cambia molto velocemente, soprattutto le abitudini e il ruolo del consumatore, che ha acquisito un potere molto più forte rispetto al passato, grazie ai diversi device di cui oggi dispone e attraverso i quali può ottenere una grandissima mole di informazioni. Basti pensare che se nei primi anni Novanta si navigava in rete quasi esclusivamente da desktop, oggi le persone sono sempre più multichannel, 3 Si definiscono “personas” archetipi di utenti creati per offrire una maggior comprensione del target a cui s’intende rivolgere la propria offerta. 4 Auditel è la società che si occupa della rilevazione dei dati di ascolto televisivo. 157 Lo scenario del mercato dell’advertising parte delle aziende. Infatti fino a ieri sull’online si pianificava attraverso degli ad server, mentre sulla tv lineare era opportuno fare delle stime in funzione del prodotto editoriale per raggiungere il consumatore con dei break. Oggi invece, grazie al programmatic5 è possibile che non tutti vedano lo stesso annuncio pubblicitario, mentre nel caso della tv lineare ciò non succede perché il commercial è lo stesso per tutti coloro che stanno guardando lo stesso programma. Negli Stati Uniti, un over the top della tv online come Netflix6 sta scardinando il classico modello pubblicitario in quanto di fatto non necessita di misurazione delle audience televisive perché il suo modello di rating è legato alle sottoscrizioni. Per quanto riguarda l’Italia nel 2000, fino all’arrivo di Sky venivano misurate solo sette emittenti. Oggi ne esistono circa 250 e questo ha dato origine a una forte complessità di gestione. Le prime emittenti sono reputate le più importanti in termini di raccolta pubblicitaria, anche perché tutte quelle che si sono aggiunte vantano un’audience più bassa. Gli investimenti pubblicitari in Italia Dopo gli ultimi anni, durante i quali l’Italia è stata colpita da una pesante crisi economica che ha avuto ripercussioni negative sugli investimenti pubblicitari, nel 2015 quest’ultimi sono tornati a crescere, facendo ben sperare in un’uscita dalla crisi e in un consolidamento della crescita nel corso del 2016. Basti pensare che in anni come il 2009 e il 2012 il mercato pubblicitario ha registrato una perdita pari al 10-15%, (come è accaduto tra il 1997/98, ndr.), perdendo un terzo della propria dimensione dal 2008 al 2014. Fig. 2 - Investimenti pubblicitari in Italia negli ultimi 25 anni Il Programmatic è un processo tecnologico utile per acquistare e vendere pubblicità digitale, ed è orientato ad una più efficiente attività di advertising, sia in termini di ottimizzazione dei costi, sia in termini di coinvolgimento del target 6 Netflix è una società statunitense che offre un servizio di noleggio di DVD e videogiochi via Internet e anche un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento 5 158 Lo scenario del mercato dell’advertising Risulta interessante anche il dato relativo agli investimenti pubblicitari netti osservati dal 1972 al 2015 sui diversi mezzi di comunicazione. Nel dettaglio, si può notare come, se negli anni ’70 la stampa copriva circa il 60% degli investimenti pubblicitari, pian piano si è registrato un lento decremento, a differenza della TV e della radio che hanno resistito ai cambiamenti nonostante l’entrata dei nuovi mezzi di comunicazione digitale. Fig. 3 - Investimenti pubblicitari e mezzi Queste indagini legate all’andamento dei media servono anche per capire dove e come le aziende si muovono nel mercato di riferimento dato uno specifico asse temporale. Ad esempio tra i dieci settori top spender dal 2005 al 2015 si è registrata una lieve crescita degli investimenti pubblicitari da parte della distribuzione e dei farmaceutici. Fig. 4 - Investimenti pubblicitari e settori 159 Lo scenario del mercato dell’advertising La costruzione di questa banca dati avviene partendo dal singolo spot, monitorando ogni volta che viene lanciato un nuovo spot da una determinata azienda. Si pensi ad esempio a Levissima. Levissima, insieme agli altri brand di acque minerali, ogni giorno investe una certa cifra per ogni singolo spot. L’investimento di quella giornata legato alle acque minerali, come classe di prodotto, rientra nell’investimento totale del settore “largo consumo”. Quindi ogni singolo spot insieme agli annunci e a tutte le altre informazioni di cui si dispone vengono valorizzati a lordo e a netto (sconto stimato mese per mese, ndr.) e si costruisce la banca dati per settore, categoria e classe di prodotto. Facendo il percorso a ritroso, se si mettono insieme tutti i prodotti di largo consumo si potrà capire quanto vale e a quanto ammonta il fatturato sia generale che dettagliato del macro settore di riferimento. Tutto ciò permette di analizzare anche le singole campagne di comunicazione e di avere tutte le informazioni inerenti la strategia di comunicazione dei competitor. Inoltre aggiungendo i GRP, che derivano dal dato Auditel, si potrà sapere da una parte a quanto ammonta l’investimento e dall’altra a quanto ammontano i GRP rispetto al benchmark di mercato che il centro media può costruire. Pertanto il cambiamento tecnologico, che fa sì che tutto si espanda in milioni di dati diversi, permette, a chi lavora in istituti di ricerca, di fare sempre più sistema. F OC U S L’acronimo GRP sta per Gross Rating Point. Il GRP misura la qualità di comunicazione prodotta da un piano mezzi sul suo target group e, più in generale, è utile per confrontare piani media diversi. È dato dal rapporto percentuale tra il numero di contatti lordi realizzati dal piano rispetto a un determinato target e l’entità stessa del target; in alternativa, può essere calcolato moltiplicando la copertura ottenuta (percentuale raggiunta del target) per la frequenza media (numero di volte in cui gli individui del target sono esposti al messaggio). Veronica Fanello 160 Lo scenario del mercato dell’advertising Riferimenti bibliografici Sisti A., De Nardis A., Pavone L., La pubblicità del futuro. Programmatic Buying e Real Time Bidding per comunicare in tempo reale, Hoepli, 2015. Kotler P., Marketing management, Pearson, 2014. 161 IL MEDIA PLANNING INTEGRATO Tratto dalla lezione di Luca Marinaro «Se l’efficacia della pubblicità dovesse essere misurata sulle vendite a breve termine, è probabile che avrebbe vita breve, perché sembrerebbe inutile. Ma se un’azienda smettesse di investire in campagne pubblicitarie nel medio e lungo termine vedrebbe impoverito il proprio marchio e sicuramente il fatturato ne risentirebbe» MEDIA AGENCY - TOP OF MIND - MODELLO POE Cosa fa una Media Agency per il ruolo dei centri media la presenza di un potenziale conflitto di interessi. In che senso? Le agenzie media per la loro intermediazione non solo ricevono un agency fee dall’advertiser, ma anche un compenso dai media owners in funzione degli spazi venduti. Anzi, ultimamente è questa seconda voce a rappresentare l’entrata più significativa per le agenzie media. Ma queste ultime dovrebbero anteporre gli interessi delle aziende advertiser e, quindi, acquistare spazi pubblicitari in funzione del raggiungimento dei potenziali consumatori dell’azienda e non dei compensi ricevuti dai media owner. La struttura di tale modello di business e la sua relativa potenziale ambiguità però si riscontrano anche in altri settori, laddove sussista un’intermediazione. Per fare un esempio: anche i supermercati guadagnano sia dal consumatore che compra i prodotti, sia dalle aziende che pagano per avere i propri prodotti esposti. Il mondo della comunicazione può essere inteso come un mercato che, globalmente, ha una portata di 8 miliardi di euro. L’80% di questa somma è concentrato in 5 holding multinazionali di pubblicità quotate in borsa, e cioè Wpp, OmnicomGroup, PublicisGroupe, Ipg e Dentsu. Tali grandi agglomerati, cresciuti per acquisizioni, agiscono poi mediante diverse agenzie. Che ruolo ha in questo scenario un’agenzia media? Quello di gestire una transazione fra il media owner1 e l’advertiser2. In questo modo, il media owner mette a disposizione i propri spazi all’advertiser che li utilizza, dietro pagamento di un compenso, per raggiungere i propri potenziali consumatori. In questa relazione l’agenzia media, come anticipato, gestisce la transazione, perché ha mandato da parte dell’azienda ad acquistare tali spazi, dietro pagamento di un cosiddetto agency fee. Tale compenso può avere natura fissa, sulla base dei semplici costi di gestione, percentuale, se si basa sul volume degli investimenti dell’advertiser o, ancora, su obiettivi-performance. Il modello di business è piuttosto complesso e presenta elementi di ambiguità, almeno nel nostro Paese dove, nel tempo, si sono prodotti effetti distorsivi del mercato che hanno generato La comunicazione è un mercato: struttura ed evoluzione Se il 2012 è stato l’annus horribilis per il mercato, il 2016 sembra essere quello di una (timida) ripresa: il Pil dovrebbe assestarsi intorno al Media owner: tipicamente un editore che raggiunge un’audience mediante la propria attività editoriale. Advertiser: azienda che ha interesse a pubblicizzare il proprio prodotto. 1 2 162 Il media planning integrato nascita della tv on demand. Organizzare una campagna pubblicitaria che realizzi grandi numeri diventa così assai complesso: se solo una decina d’anni fa bastava mandare uno spot in prima serata, ora è necessario realizzarne numerosi e pianificare così sulle centinaia di emittenti esistenti. +1,3%, aumento dovuto a una leggera ripresa dei consumi. E il mercato pubblicitario? Il dato più rilevante è relativo alla crescita degli investimenti online che, secondo una stima, quest’anno varrebbero il 26,24% del mercato (nel 2012 erano al 18,22%), mentre continua il trend negativo della stampa: quotidiani e periodici insieme raggiungerebbero circa il 15% (nel 2012 erano al 22%). Dal canto suo la radio mostra una certa stabilità: quasi al 6% da 4 anni. La televisione resta leader, con il 47,28% del totale degli investimenti ma sta comunque, anno dopo anno, perdendo terreno. I principali player televisivi continuano a essere Rai e Mediaset che, insieme, rappresentano il 70% dello share medio giornaliero. Interessante il dato secondo cui Mediaset, pur ottenendo circa il 25% dello share, raccolga il 58% degli investimenti in tv. Emerge dunque che la quota di internet ha superato il totale stampa, diventando il secondo mezzo in termini di raccolta pubblicitaria: un dato particolarmente interessante è quello relativo ai video online, che raccolgono il 18,5% del totale degli investimenti online. Ma come sarà la tv del futuro? Due tentativi di definizione possono illuminare sull’argomento. Secondo Tim Cook, Ceo di Apple, «La tv è una app, completamente interattiva e interconnessa. Con accesso ad AppStore, un telecomando touch capace di leggere il movimento, una TV che si comanda anche con la voce». Per Reed Hastings, Ceo di Netflix, «La tv del futuro sarà un grande Ipad: uno schermo connesso in cui i canali saranno rimpiazzati dalle applicazioni e ognuno potrà scegliere di vedere quello che vuole, quando lo vuole». Un altro fenomeno degno di nota è quello della social tv, che realizza un’integrazione tra tv e internet: si creano, cioè, sui social network community istantanee di commento relative a programmi televisivi. In Italia questa pratica coinvolge 6,8 milioni di persone (molto successo in questo senso lo ha avuto il programma XFactor). E chi spende di più in pubblicità? Sembrerebbe che il settore alimentare si collochi al primo posto, con uno share del 14,7%, l’automotive si attesterebbe al 10,3%, mentre l’ultimo gradino del podio spetta alla distribuzione, con un 6,6%. Da sottolineare due dati assai significativi: rispetto al totale della popolazione, la fascia di età che va dai 18 ai 34 anni trascorre più tempo su internet, soprattutto attraverso dispositivi mobili, e nel digitale video e social sono le categorie che continuano a registrare le performance migliori anno su anno.Cresce la frammentazione dell’audience perché è aumentata l’offerta: basti pensare alla moltiplicazione dei canali televisivi e alla Fig. 1 - Il fenomeno della social tv Da una ricerca di Eurisko New Media i programmi TV che vengono più seguiti mentre si naviga su internet sono per il 39,1% quelli di intrattenimento, per il 30,3% 163 Il media planning integrato Fig. 2 - La social tv coinvolge in Italia circa 6,8 milioni di persone Come si misura l’efficacia di una campagna pubblicitaria quelli di attualità, mentre i telegiornali sono al 29,8%. Per quanto riguarda la stampa, si è notato come le testate giornalistiche autorevoli abbiano avuto successo nella digitalizzazione dei propri contenuti: i media brand più riconosciuti infatti generano traffico online. Un’azienda che investe in pubblicità si aspetta dei risultati, intesi come ritorni sugli investimenti (ROI): esistono diversi gradi di questo ritorno, a ciascuno dei quali corrispondono variabili possibili da misurare e correlare all’investimento pubblicitario. Il primo, definito grado zero, è il presupposto per gli altri e rende conto di quanti soggetti sono stati esposti alla campagna pubblicitaria. Le misure dell’esposizione possono essere calcolate in diversi modi, ad esempio in contatti: si può trattare di contatti lordi, che misurano quante volte un annuncio è stato visto, indipendentemente dal numero di persone esposte, di contatti netti che, invece, esprimono il numero di persone esposte all’annuncio almeno una volta e di Grp4, che rappresentano i contatti lordi in rapporto all’entità del target. La prospettiva generale? È probabile che, essendo tutti sempre più connessi al web, sarà possibile erogare pubblicità su misura per l’abbonato. Tuttavia, resta ancora da risolvere il problema dell’Ad-Blocking, che è sempre più adottato dagli utenti per bloccare la pubblicità 3. Ora come ora, comunque, per quanto la pubblicità sul web continui ad aumentare, la televisione permane ancora in termini generali il mezzo più efficace sul quale realizzare una campagna pubblicitaria. Adblock: si tratta di un plugin per il browser internet che fa da filtro alla pubblicità. In altre parole blocca (non fa visualizzare) qualsiasi annuncio che si potrebbe trovare sul web (come i pop-up, la pubblicità prima dei video di YouTube, la pubblicità di Google…). 4 I Grp possono essere calcolati dividendo i contatti lordi per l’entità del target e moltiplicando il tutto per cento. 3 164 Il media planning integrato indicatore al digital classico come, ad esempio, la copertura dei post su Facebook: tali misuratori tendono sostanzialmente a restituire i tassi di coinvolgimento degli utenti. F OC U S Fenomeno del doppio schermo Secondo una ricerca di Eurisko New Media sempre più persone utilizzano la TV e il tablet (e/o lo smartphone) contemporaneamente. In Italia sono 11,9 milioni (36,2%) il numero di utenti internet che navigano da casa e allo stesso tempo guardano la tv: si tratterebbe di una pratica effettuata in media 5-6 volte alla settimana, con una durata di 58 minuti medi a sessione. Il 39 per cento delle persone che effettuano questa pratica guardano la TV e nel frattempo un computer, il 44% lo smartphone mentre il 14% un tablet. Il secondo gradino per misurare l’efficacia della pubblicità è costituito dalla risposta cognitiva: cosa ricorda del marchio chi ci è entrato in contatto attraverso la campagna pubblicitaria? Per rispondere a questa domanda il mezzo classico è quello delle interviste, per lo più effettuate online. Si comincia con il definire la categoria di riferimento (alimentare, automotive…) e poi si chiede: «qual è la prima marca della categoria x che le viene in mente?» La risposta definisce il cosiddetto top of mind, cioè la marca “forte” che la persona ha in mente in riferimento a quella determinata categoria. La seconda domanda («Oltre a questa, quali altre marche ricorda?») definisce la brand awareness spontanea, la terza («ricorda di aver sentito la marca y?») quella sollecitata. La somma di queste ultime viene chiamata brand awareness totale. Se la marca per cui è stata realizzato la campagna rientra in una di queste tre risposte è probabile che la marca stessa sia nel paniere degli acquisti della persona intervistata. La stessa operazione si effettua sull’efficacia della pubblicità in sé al fine di valutare l’attinenza del ricordo con la marca pubblicizzata. Un altro modo per calcolare la misura dell’esposizione è la copertura (o reach percentuale) che misura la percentuale del target esposta alla campagna pubblicitaria e si rappresenta con il rapporto percentuale tra i contatti netti e l’entità del target. Infine c’è la frequenza5 (o OTS, “opportunity to see”), cioè il numero medio di volte in cui un individuo è stato esposto al messaggio. Nel mondo digital esistono poi specifici indicatori di prestazione chiave (KPI), parametri con i quali misurare una campagna di web marketing. Essi si distinguono a seconda degli obiettivi della campagna: se quest’ultima mira a quantificare l’esposizione, allora tali indicatori saranno sostanzialmente identici a quelli delle campagne tradizionali con qualche piccola distinzione terminologica (ad esempio i contatti lordi si chiamano impression). Se, però, l’obiettivo è la misurazione dell’azione, allora saranno importanti il numero di click, il click through rate (CTR, quanti acquisti rispetto ai click), e i cost per click (CPC), giusto per fare qualche esempio. Il terzo gradino è costituito dalla risposta affettiva che le persone danno: ciò serve a capire se la campagna pubblicitaria è stata in grado di spostare l’opinione e/o di modificare il percepito. Uno degli strumenti che si possono utilizzare a questo scopo è l’analisi del pre e del post campagna pubblicitaria sugli attributi d’immagine che gli intervistati danno alla marca, o sull’intenzione all’acquisto. Il quarto e ultimo gradino si riferisce, invece, alla risposta comportamentale: la campagna ha fatto vendere oppure no? Ad articolare ulteriormente il panorama ci sono le metriche social, che aggiungono qualche La frequenza si calcola dividendo i contatti lordi con quelli netti. 5 165 Il media planning integrato Fig. 3 - Un esempio di analisi sugli attributi d’immagine Strategia e comunicazione integrata Tale ultima fase si misura soprattutto attraverso le vendite, ma è assai complesso, se non impossibile, instaurare un nesso di causalità diretto tra campagna e aumento del sell out. Questo perché troppe sono le variabili che intervengono, basti pensare ad esempio alle promozioni che, da sole, spiegano spesso gran parte delle vendite. Ma poi anche il prezzo, i competitor, la distribuzione. E quindi? Se ne deve forse dedurre l’inutilità della pubblicità? Già John Wanamaker circa un secolo fa dichiarò: «So che metà dei soldi che spendo in pubblicità è completamente buttata via. Il problema è che non so quale metà sia». Ciò a significare che, se viene valutata l’efficacia della pubblicità sulle vendite a breve termine, è probabile che non ne emergerebbe l’utilità. Ma se un’azienda smettesse di investire in campagne pubblicitarie, nel medio e lungo termine vedrebbe impoverito il proprio marchio e sicuramente ne risentirebbero le vendite. Cosa fa un’azienda quando vuole comunicare? È essenziale pianificare la comunicazione. In primo luogo è necessario definire il posizionamento che si vuole ottenere, cioè il che cosa dire a chi e, poi, la strategia vera e propria che si divide in strategia creativa (come dirlo), e media (dove dirlo), passando per la temporizzazione (quando, per quante volte e per quanto tempo comunicare). Salvo che nella strategia creativa, l’agenzia media è presente in tutte le altre fasi della campagna. In ultima analisi è ovviamente necessaria la verifica dei risultati poiché, se tale struttura era sicuramente valida in un ecosistema di mezzi di comunicazione “classici”, ora che l’universo della comunicazione si è fatto più complesso sono necessari schemi diversi. Tra questi è ormai consolidato il modello che 166 Il media planning integrato classifica i mezzi secondo tre categorie: pagati, di proprietà e guadagnati;il cosiddetto modello POE (Paid-Owned-Earned). isolare le diverse finalità della comunicazione e definire le consumer experience in grado di determinare il successo. Paid media: sono gli spazi pubblicitari a pagamento che garantiscono la presenza in un contesto determinato (come gli spot TV) e rappresentano la tipologia che più si avvicina ai mezzi classici. Sono il primo contatto con il consumatore, quello che in primis attira la sua attenzione generando awareness. Anche se la maggior parte dei consumatori ammette il basso livello di fiducia in confronto alla TV, radio o stampa, questa tipologia di advertising è mirata, e integrata nel modo corretto genera un impatto immediato. Le richieste del consumatore rispetto al prodotto commerciale sono: 1. Conoscenza; 2. Emozione; 3. Spiegazione; 4. Acquisto; 5. Uso; 6. Legame; 7. Parlare. Di conseguenza le azioni che il brand dovrà mettere in atto rispetto alle esigenze del consumatore sono le seguenti: 1. Informazioni generali; 2. Coinvolgimento emotivo; 3. Aiutare nella scelta; 4. Convertire in azione; 5. Massimizzare l’esperienza; 6. Premiare gli utilizzatori; 7. Facilitare Wom6 Owned media: sono i canali di proprietà costruiti dal brand dove si ha il completo controllo di ciò che si pubblica (sito web, pagina FB). Hanno lo scopo di creare coinvolgimento con il consumatore e diventare una sorta di punto di riferimento, un luogo controllato completamente dal brand che racconta e trasmette i propri valori creando engagement e informando allo stesso tempo. La Touchpoints ROI Tracker è una metodologia di ricerca progettata per identificare il contributo di ogni forma di contatto fornendo metriche in grado di quantificare e rendere comparabili i contatti paid, owned ed earned. Il potenziale influenzante di ogni singolo touchpoint, nell’ambito di una categoria merceologica (combinando componenti razionali ed emotive) e la Brand Association che identifica il diverso utilizzo dei touchpoints da parte delle marche mostra punti di forza e debolezza nel marketing mix. Esistono poi una Touchpoint Influence che identifica l’influenza relativa di ciascun Touchpoint sulla decisione d’acquisto nella categoria, una Brand Recall in Touchpoint da cui si può evincere la percentuale di consumatori che ricorda ciascun Brand per ciascun Touchpoint e una Brand Experience Point che è il contributo Earned media: sono i cosiddetti canali guadagnati, il valore aggiunto generato dalle conversazioni degli utenti che diventano il canale stesso (traffico nel sito, contenuto commentato e condiviso, fan page, i contenuti user-generated). La gestione della comunicazione integrata si sviluppa lungo quattro direttrici: 1. Definire gli obiettivi attraverso il Consumer Pathway; 2. Misurare l’efficacia dei mezzi attraverso i Touchpoints Roi Tracker; 3. Definire l’architettura del piano attraverso la Brand Experience Map; 4. Misurare i risultati con il supporto dell’Analisi Pre-Post, detta anche Modellistica. Il Consumer Pathway rappresenta il metodo per Nell’ambito del marketing il passaparola (indicato con l’espressione word of mouth) indica il diffondersi, attraverso una rete sociale, di informazioni e/o consigli tra consumatori. 6 167 Il media planning integrato Fig. 4 - Il Consumer Pathway relativo di ciascun Touchpoint alle vendite di una specifica marca. La Brand Experience è la sintesi di potenziale influenzante e brand association e può essere calcolata, per ogni singolo contatto e brand, come prodotto aritmetico delle 2 metriche. Può essere anche espressa sotto forma di percentuale ed è calcolata rispetto al totale di esperienza di marca prodotto dalla categoria di riferimento. Un’elevata associazione ai contatti più influenzanti consentirà un risultato complessivo (in termini di esperienza di marca sviluppata) più elevato. Gianluca Torti 168 Il media planning integrato Riferimenti bibliografici Meroni V., Pianificare la pubblicità. Manuale delle tecniche più avanzate di comunicazione, pianficiazione pubblicitaria e verifica dei risultati, Editore Franco Angeli, Milano, 2003. Ferraresi M., Mortara A., Sylwan G., Manuale di teorie e tecniche della pubblicità, Carocci Editore, Roma 2009. Brioschi E.T., Dalla pubblicità alla comunicazione d’azienda. Problematiche, metodologie e questioni aperte, Vita e Pensiero, Milano, 2013. Bonori V., Tassinari G., Misurare il ritorno della pubblicità, Gruppo 24 Ore, 2011. Burcher N., Paid Owned Earned: Maximising Marketing Returns in a Socially Connected World, Kogan Page Publishers, 2012. 169 MEDIA EVOLUTION: PROGRAMMATIC Tratto dalla lezione di Luca Marinaro «Oggi un’agenzia deve possedere gli strumenti concettuali e metodologici per guidare l’integrazione dei contenuti su tutti i punti di contatto tra la marca e il consumatore, garantendo l’efficacia in termini di risultato e l’efficienza economica dell’investimento» Programmatic Buying - Media Center - Publisher Uno dei nuovi fenomeni che si stanno imponendo nel mercato pubblicitario è quello del cosiddetto programmatic buying. Il programmatic buying è una forma automatizzata d’acquisto che utilizza la tecnologia, dunque i computer, gli algoritmi e i big data per ottimizzare l’acquisto di spazi pubblicitari. Il mercato pubblicitario ha cominciato a prestare molta attenzione a questo nuovo modo di operare, che è in fortissima crescita. Negli Stati Uniti, nel 2014, il 60% dello spazio pubblicitario venduto è stato acquistato in modalità programmatic. In Italia, la percentuale è più modesta e pari al 15%. Questo modello di acquisto si sta sviluppando e sta avendo successo per vari motivi. 170 Media evolution: programmatic Uno degli aspetti più interessanti è il precision targeting1. Se nel modello di acquisto precedente al programmatic si compravano spazi circoscritti dentro una determinata posizione, adesso l’acquisto avviene in real time (millisecondi) ed è rivolto solo alle impression2 che servono a quella specifica campagna pubblicitaria. Un esempio che può essere utile per spiegare questo tipo di operazione è il seguente. Una persona va a visitare un sito di automobili. Nello stesso periodo quella persona ha effettuato delle ricerche sugli ultimi modelli di una marca di auto. Presupponiamo ad esempio che la sua attenzione sia stata rivolta al brand Mercedes. Premesso che tutte le attività di navigazione internet sono tracciate attraverso cookies, registrazione ai siti, etc. , nel momento in cui quella persona entra nel sito di automobili è molto probabile che un annuncio pubblicitario della Mercedes faccia capolino su quella pagina. In sintesi, se prima le persone che accedevano a un sito internet vedevano tutte la stessa pubblicità, adesso quelle stesse persone vedranno degli annunci personalizzati. Oltre a questo, c’’è una Reach Audience at Scale3 perché la gestione dei dati continuativa permette una gestione real time degli stessi e di conseguenza produce un aumento della redditività della campagna. Le potenzialità sono enormi: la pubblicità viene erogata in base al tipo di persona che sta fruendo di uno specifico contenuto. Possiamo dunque spingerci a dire che non si acquistano più spazi pubblicitari ma si compra invece una audience4 perché grazie alla possibilità di tracciare praticamente quasi tutto si possono targettizzare specifici interessi. In questo modo viene superato una volta per tutte il concetto di target socio-demografico che tanta fortuna ha avuto nell’era pre-programmatic. Tra le varie attività che si possono fare con il programmatic buying merita particolare attenzione la pratica del remarketing5, che si basa sul concetto di pubblicità diretta. Il remarketing funziona in questo modo: una persona visita un sito internet, viene tracciata e successivamente riceve uno sconto specifico di cui può usufruire sul prodotto che aveva cercato. Fig. 2 - L’ecosistema del Programmatic Buying Il target specifico e preciso, ad esempio il segmento di persone che sta guardando un determinato sito web in un determinato momento. 2 L’impression rappresenta il numero di volte che un certo oggetto sociale (post, tweet, foto, video) ha avuto la possibilità di essere visto da un certo pubblico. Esprime un valore potenziale, potremmo dire lordo, nel senso che non tiene conto della frequenza del messaggio pubblicato, dei metodi di visualizzazione dello stesso, della duplicazione dell’audience. 3 La reach è il numero di individui o account unici che hanno avuto la possibilità di vedere un certo oggetto sociale. É un dato netto nel senso che considera la persona e non le volte che ha visto il contenuto, magari da più dispositivi. 4 Platea di destinatari della campagna pubblicitaria. 5 Strumento e tecnica del marketing basato principalmente sugli sconti e le promozioni rivolte al singolo consumatore. 1 171 Media evolution: programmatic Fino ad oggi, il modus operandi del centro media era strettamente correlato all’editore. Un editore, che poteva essere il proprietario di un quotidiano, di un sito internet o di una rete televisiva metteva a disposizione degli spazi pubblicitari acquistabili. Il lavoro dell’agenzia media era occupare quegli spazi nel modo più proficuo possibile. Con il programmatic, al contrario, la figura del publisher non è più centrale come poteva essere nelle trattative precedenti. Le conseguenze, positive o negative che siano, non sono ancora del tutto palesate. Ci troviamo di fronte a un processo industriale del tutto nuovo e sicuramente rivoluzionario sia dal punto di vista delle possibilità tecnologiche che dal punto di vista delle relazioni umane. Le macchine sostituiscono le persone nel processo di acquisto di spazi pubblicitari: saranno loro a decidere e a valutare se valga la pena comprare un determinato spazio. Le negoziazioni vengono sostituite dagli algoritmi. I fattori che hanno permesso e stanno permettendo lo sviluppo del programmatic sono vari. Uno di questi è il fatto che ci sia una enorme disponibilità di dati per identificare i consumatori (cookie6), l’altro è che ci sia una buona fetta di spazi e di contatti invenduta, dove poter inserire dei contenuti. Inoltre c’è a disposizione una tecnologia di alto livello e oggetto di un miglioramento continuo, che permette con grossa facilità e in pochissimo tempo di analizzare tutta questa mole di dati che vengono prodotti dagli utenti. I computer sono molto più potenti rispetto al passato e numerosi software prima non esistevano. degli utenti al proprio sito web. Poi ci sono i dati venduti da un publisher, ad esempio Facebook oppure Google, che hanno a disposizione i dati dei propri iscritti. Infine ci sono i dati forniti da aziende attive proprio in questo settore. Si tratta dei cosiddetti dati di terze parti, che vengono raccolti e messi sul mercato pronti ad essere venduti. Una volta ottenuti i dati, occorre creare un’intermediazione. A questo punto intervengono i software che mettono insieme l’inventory7 dei siti web e i software che permettono di biddare8 tutto quello spazio acquistabile che viene messo sul mercato. Avremo quindi dei software chiamati DSPs per identificare quelle piattaforme di acquisto media che permettono l’ottimizzazione e il bidding9 dinamico attraverso multipli Ad Exchange10 e fonti di inventory e dati, e software SSPs che identificano piattaforme tecnologiche che rappresentano i fornitori di advertising online e garantiscono la disponibilità dell’inventory. Il Programmatic ha dato una scossa decisamente forte allo status quo del mondo sempre più complesso della pubblicità. Tornando alla percentuale italiana degli spazi pubblicitari comprati in modalità Programmatic, che si attesta al 15%, resta da capire se questa percentuale in futuro potrà salire fino al 100%. F OC U S Le parole chiave del Programmatic Ad Network: aziende che si occupano della gestione degli annunci pubblicitari nell’ambiente online. La locuzione è la contrazione di Advertising Network, ossia rete pubblicitaria. La funzione fondamentale svolta da un Ad Network è l’intermediazione tra I dati che consentono di individuare le caratteristiche dei consumatori sono di tre tipi. I primi sono forniti dalle aziende, che quest’ultime ottengono ad esempio attraverso la registrazione Gettoni identificativi utilizzati dai server per identificare i browser durante la navigazione web. Magazzino, deposito di contentuti e spazi pubblicitari. 8 Comprare all’asta in real time. 9 Metodo che permette all’inserzionista di scegliere, in modo sempre più mirato, le proprie campagne pubblicitarie oltre a dare la possibilità all’advertiser di partecipare direttamente alle aste saltando gli intermediari (concessionarie e network pubblicitari) utilizzando una piattaforma dedicata. 10 Piattaforma software che permette all’advertiser di “piazzare le puntate” in tempo reale. Le prime piattaforme sono state AdEcn (acquistata da Microsoft nel 2007 ma ora trasformatasi in BingAds), Right Media (di Yahoo dal 2007) e Double Click (Google). L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto della campagna display in meno di 100 millisecondi e la fa apparire sulla pagina nel momento in cui viene caricata dall’utente. 6 7 172 Media evolution: programmatic gli Advertiser, cioè gli inserzionisti che vogliono acquistare spazi sul web per promuovere prodotti e servizi, e i Publisher, cioè i proprietari di siti web che offrono gli spazi in cui sono collocate le inserzioni. (di Yahoo dal 2007) e Double Click (Google). L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto della campagna display in meno di 100 millisecondi e la fa apparire sulla pagina nel momento in cui viene caricata dall’utente. Supply Side Platform: piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire ai Publisher di vendere spazi in modalità automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile) o essere utilizzata per tutte le tipologie di inventory. Tra i player: Pubmatic, Open X, AppNexus, Rubicon. Agency Trading Desk: aziende specializzate che affiancano l’Advertiser o le agenzie nella gestione delle attività di programmatic advertising, offrendo solitamente una loro piattaforma connessa con Ad Exchange. Si differenziano in Agency Trading Desk (ATD), interni ai centri media e Independent Trading Desk (ITD), indipendenti dai centri media. Demand Side Platform: piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire agli Advertisers di acquistare spazi in modalità automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile,) o essere utilizzata per tutte le tipologie di inventory. Tra i player: Google (DBM), Turn, Mediamath, DataXu. Data Manager Platform: piattaforma che gestisce e aggrega diversi tipi di dati da fonti online, offline e mobile. In altre parole, è una piattaforma tecnologica che trasforma enormi quantità di dati relativi alle caratteristiche e al comportamento degli utenti in azioni rivolte a loro che possono essere pianificate, erogate e misurate in tempo reale. Ad Exchange: piattaforma software che permette all’Advertiser di “piazzare le puntate” in tempo reale. Le prime piattaforme sono state AdEcn (acquistata da Microsoft nel 2007 ma ora trasformatasi in BingAds), Right Media Vincenzo Romanelli 173 Media evolution: programmatic Riferimenti bibliografici Sisti A., De Nardis A., Pavone L., La pubblicità del futuro. Programmatic Buying e Real Time Bidding per comunicare in tempo reale, Hoepli, 2015. 174 Sezione 5 LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI: QUALI STRUMENTI PER COSTRUIRE RELAZIONI DI VALORE? LE AZIENDE TRASFORMABILI: LA SFIDA DELLA DIGITAL TRANSFORMATION ECONOMY Tratto dalla lezione di Chiara Colombo «Percepiamo di trovarci in un momento in cui le strutture del passato sono ancora in piedi ma troppo deboli per riprendersi, mentre quelle nuove non sono sufficientemente forti per prendere il sopravvento.» WEB 2.0 - DIGITALIZZAZIONE DEI PROCESSI AZIENDALI - COMMUNITY Il talento del Web Si può sostenere che lo sviluppo della tecnologia digitale e quello dei dispositivi siano dei concetti così profondamente uniti da non poter essere scissi. In questo senso, i supporti digitali sono dispositivi nel senso che ne diede Michel Foucault1, intendendo come dispositivo una rete eterogenea di elementi, comprendente non solo la tecnologia digitale ma anche i modi in cui gli utenti la utilizzano. In questo senso lo sviluppo della tecnologia digitale si è costituito come un mix perfetto di elementi che sta modificando in profondità non solo la socialità ma anche l’espressione della creatività. In un momento in cui il Passato appare estraneo e il Futuro nebuloso, le persone sembrano aver recuperato attraverso il web 2.0 la fiducia nel presente della loro creatività. Nel 2005 Barry Diller, CEO di InterActivCorp, durante una conversazione informale nel contesto di una conferenza sul Web 2.0 sostenne che non c’era abbastanza talento nel mondo per temere che la produzione sul web potesse costituire una seria minaccia per l’industria dell’intrattenimento. In poco più di dieci anni da allora, la produzione di contenuti disponibili sul web è letteralmente esplosa: app, contenuti virali, video amatoriali, serie autoprodotte, blog e molto altro sono visualizzati da milioni di persone sugli schermi dei loro pc, smartphone o tablet. Nella capacità di avere successo attirando visualizzazioni e condivisioni, sul Web 2.0 i talenti non mancano, così come non mancano le possibilità di espressione creativa. F OC U S Il termine Web 2.0 venne introdotto nel 2004 nell’ambito di un ciclo di conferenze promosse dalla O’Reilly Media, aventi per oggetto una nuova generazione di servizi Internet che enfatizzano la collaborazione online e la condivisione tra utenti. Più specificatamente, a Tale sviluppo non sarebbe stato possibile senza il contestuale sviluppo tecnologico, principalmente nel settore della tecnologia digitale e dei dispositivi che permettono agli utilizzatori di sfruttare al massimo del potenzialità del Web 2.0. «Ciò che io cerco di individuare con questo nome è, in primo luogo, un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del nondetto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi» Da un’intervista apparsa nel 1977 sotto il titolo di «Le jeu de Michel Foucault (2001)» pp.299-300. 1 176 Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy caratterizzare le applicazioniWeb 2.0 sono una serie di caratteristiche di tipo tecnologico (accesso ad applicazioni attraverso il web, nuovi linguaggi di programmazione) e psico-sociale (facilità d’uso, possibilità espressive per gli utenti, accessibilità, dimensione comunitaria). le preferenze sui social. Gli utenti dei social network sono sempre più spesso connessi, e di conseguenza si moltiplicano le esperienze di instant marketing3, con il quale le aziende più «reattive» comunicano se stesse e i loro prodotti attraverso contenuti offerti sui social network contestualmente ad altri eventi o accadimenti. In questo senso, un esempio è costituito dalla campagna social di Coca-Cola in occasione dell’edizione del 2012 del SuperBowl4, o da quella della birra Ceres su Facebook. Il passo successivo nel processo di digitalizzazione è costituito dal proximity marketing5, consistente nell’utilizzare i social network per coinvolgere i consumers al di fuori dell’ambiente digitale (tramite tecnologia Bluetooth), proponendo offerte e sconti tramite messaggi ad hoc sui dispositivi digitali quando il possibile acquirente si trova in prossimità del luogo di acquisto. Se il marketing è stato il primo processo a digitalizzarsi, la fase successiva deve prevedere la digitalizzazione del customer care, in particolare nella forma del social customer care. La digitalizzazione di tale processo oltre ad essere particolarmente complessa, comporta anche dei rischi, costituiti dal fatto che in questo ambito alcuni errori di comunicazione possono avere effetti indesiderati6. Per evitare errori e gaffe sui social network, le aziende più attente si sono dotate di social media policies e di procedure da seguire in caso di “incidenti”. La digitalizzazione dei processi aziendali In ambito business, le aziende hanno capito immediatamente che sono cambiati i soggetti con i quali una realtà imprenditoriale si confronta. Clienti, consumatori e non solo sono diventati social customer che acquistano online e agiscono sulla base di input derivanti proprio dall’attività dei social. È cambiato anche il modo con cui i consumatori accolgono nuovi prodotti. Preceduti da campagne sui principali media e social network, i nuovi prodotti trovano un pubblico già pronto e soprattutto informato, motivo per cui il successo (o l’insuccesso) di un prodotto è misurabile fin dai primi tempi di presenza sul mercato. Non casualmente, il primo processo aziendale a trasformarsi in senso digitale è stato il marketing, diventando social media marketing2. I processi di marketing coinvolgono oggi sempre più i social network, monitorando Il social media marketing o marketing nei social media è quella branca del marketing che si occupa di generare visibilità su social media, comunità virtuali e aggregatori 2.0. Il social media marketing racchiude una serie di pratiche che vanno dalla gestione dei rapporti online (PR 2.0) all’ottimizzazione delle pagine web fatta per i social media (SMO, Social Media Optimization). 3 L’instant marketing è una pratica di digital marketing che prevede di offrire contenuti sul Web 2.0 strettamente collegati ad un evento specifico. 4 La campagna è consistita nell’offrire da un sito accessibile mediante il profilo Facebook dei video con gli orsi polari testimonial della bibita che «vivevano» la partita contemporaneamente ai telespettatori. 5 Il marketing di prossimità (proximity marketing) è una tecnica di marketing che opera su un’area geografica delimitata e precisa attraverso tecnologie di comunicazione di tipo visuale e mobile con lo scopo di promuovere la vendita di prodotti e servizi. 6 Si fa riferimento al caso Algida, e alle equivoche forme di un gelato al cioccolato la cui immagine è stata postata dall’azienda stessa sulla pagina Facebook. In questo caso Algida gestì la gaffe ammettendo l’errore e ricorrendo all’ironia. Lo stesso non si può dire per Barilla, che in occasione della sfortunata dichiarazione di Guido Barilla sul fatto che mai sarebbe comparsa una famiglia gay in uno spot della pasta, si limitò a pubblicare uno scarno comunicato stampa sulle pagine social. Ancora peggiore fu l’errore di Groupalia, che sfruttò cinicamente il terremoto in Emilia per promuovere le vacanze alle Bahamas. 2 177 Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy Da una ricerca promossa da McKinsey& Co., emerge che se le aziende digitalizzassero al massimo livello i loro processi aziendali conseguirebbero un risparmio pari a 1.300 miliardi di dollari. Tuttavia chi si approccia a questa tematica si trova di fonte a processi aziendali consolidati da decenni di pratica quotidiana che non sono facilmente rinnovabili. Per questo motivo, è consigliabile per il consulente esterno, o per la risorsa interna incaricata di questo compito, comportarsi con equilibrio e soprattutto con metodo. All’estremo opposto si può cadere nell’errore di affidare l’innovazione dei processi aziendali unicamente alla partecipazione di tutti i potenziali portatori di interessi. La partecipazione è utile, ma questa deve essere guidata. Un esempio tratto dalla storia dell’arte può venire in aiuto. Nel 1957 Pablo Picasso trasformò in senso cubista Las Meninas di Velázquez. Il pittore di Malaga operò per gradi, prima concentrandosi sui singoli elementi del quadro, utilizzati come soggetti singoli per opere diverse, per poi passare alla ricostruzione armonica e cubista del quadro nell’insieme, anche aumentando, in una versione successiva, il grado di distanziamento dell’originale in favore di un maggior astrattismo. Applicata ai processi aziendali la lezione può essere riassunta in 3 punti fondamentali: Ogni community, infatti, ha in sé un elemento stabile e identificabile, perché rispondente a tre quesiti fondamentali: L’ambiente digitale che più facilmente può costituire un processo innovativo per un processo aziendale è quello della community, dove può realizzarsi l’equilibrio migliore tra partecipazione e direzione. 1. Chi collabora? –definizione del target 2. Dove collabora? –individuazione dei tool 3. Perché collabora? –individuazione della value proposition Se manca la definizione di uno solo di questi elementi – senza gli utenti, senza una motivazione a interagire o senza una piattaforma che supporti questa interazione – non si può parlare di vera e propria community. 1. Tutte le organizzazioni hanno in sé un certo grado di trasformabilità; 2. Il processo di trasformazione deve avvenire in maniera prima di tutto analitica, individuando alcuni elementi chiave da cui partire; 3. Dagli elementi si deve sempre però ricostruire un quadro d’insieme (sintesi) che sia innanzitutto coerente e la cui efficacia sia garantita dall’applicazione del giusto indice di trasformabilità che meglio si adatta alla cultura organizzativa in cui ci si muove. Tuttavia, una volta garantitane la presenza, il loro contenuto (la risposta, cioè, da dare alle domande) e gli altri componenti in gioco possono e devono essere liberamente scelti dagli utenti che andranno ad abitare una o l’altra particolare community. Tuttavia il rischio per una community è il “ristagno”, cioè che il grado di coinvolgimento degli utenti sia basso, tanto da rendere inutile lo strumento stesso. Per evitare questo rischio è necessario predisporre uno schema che chiarisca quali devono essere gli elementi essenziali della community stessa. Se queste devono essere le direttrici dell’innovazione aziendale, l’innovatore deve guardarsi da due errori. Il primo consiste nella tentazione di agire come Prometeo, cercando di innovare i processi unicamente dall’alto e sulla base di premesse teoriche, perdendo di vista la realtà aziendale. Questo schema, denominato Community Design Canvas (CDC) permette di individuare efficacemente gli elementi fondamentali (Value 178 Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy proposition, Target, e Tool) oltre a quelli necessari per la concreta applicazione sul processo aziendale (Partner, Attività, Risorse Chiave, Relazione tra utenti). La lettura da sinistra verso destra dello schema consente un’interpretazione più gestionale: vengono infatti attivati certi specifici partner, in grado di fornire agli utenti le risorse per implementare determinate attività che concorrono a un scopo preciso, portato avanti da una comunità di utenti che si relazionano in un determinato modo all’interno di quella piattaforma. A titolo di esempio si riporta un CDC relativo alla creazione di una community ideata per la digitalizzazione della gestione del customer care. Si precisa che sono chiamati a partecipare alla compilazione del CDC i soggetti compresi nel target della community stessa. In questo modo si garantisce che il processo di digitalizzazione sia sufficientemente condiviso dai futuri utilizzatori. L’utilizzazione di uno schema rigido consente il raggiungimento di un certo grado di standardizzazione e la ricomposizione verso una visione d’insieme. La realizzazione di una community corrisponde al primo livello di digitalizzazione di un processo aziendale. In una prospettiva più ampia, è possibile ricostruire l’intera organizzazione aziendale alla luce delle innovazioni digitali, considerando i mega processi (Marketing, Customer Care, Human Resources) e i singoli processi. Giovanni Paon Fig. 1 - Tratta da: Colombo C., Tra controllo e partecipazione: l’unità di misura delle organizzazioni trasformabili. 179 Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy Fig. 2 - Tratta da: Colombo C., Tra controllo e partecipazione: l’unità di misura delle organizzazioni trasformabili. 180 Le aziende trasformabili: la sfida della digital transformation economy Riferimenti bibliografici AA.VV., Le jeu de Michel Foucault, in Bulletin Périodique du champ freudien, Ornicar, Parigi, 1977. Agamben G., Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma, 2006. Alfonso-Goldfarb A.M., Waisse S.,Ferraz M.H.M., From Shelves to Cyberspace, in Isis, The University of Chicago Press, Chicago(IL) 2013. Bennato D., Il computer come macroscopio, Francoangeli, Milano, 2015. Bennato D., Sociologia dei media digitali, Laterza, Roma 2011. Castells M., Communication Power, Oxford University Press, Oxford, New York (NY), 2009. 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Verganti R., Design Driven Innovation: Changing the Rules of Competition, Harvard Business Press, Boston (MA), 2009. Wellman B., The Internet in Everyday Life, Blackwell Publishing, Malden (MA) 2002. 181 GOOGLE ADWORDS E GOOGLE ANALYTICS Tratto dalla lezione di Andrea Testa «La vostra volontà di scelta è un palliativo. Google sa chi sceglierete, ma vi mostrerà più risultati per darvi l’idea di scegliere» MOBILE - WEB ANALYTICS - SEO - SERP - FUNNEL Genesi di Google Tuttavia si trattava di dati anonimi e parziali. Per rispondere all’esigenza di avere dei dati completi nacque Google Chrome4. Esistevano già Internet Explorer e Firefox che lo stava attaccando. Chrome diventò però in breve tempo utilizzato dal 50% degli utenti5. In questo modo oggi Google è in grado di avere i dati completi del 50% di tutti gli utenti che accedono alla rete. Google Adwords6 nasce come evoluzione di questo processo e origina il 94% degli incassi di Google. In parole semplici Google Adwords è la pubblicità che si trova nei primi tre risultati di ricerca e che sino a poco tempo fa era presente anche nella colonna di destra. Recentemente Google ha eliminato la colonna di destra diminuendo il numero di spazi da 11 a 8 ma migliorando al contempo il servizio. La colonna di destra infatti veniva percepita dall’utente come una vera pubblicità e rendeva meno nella SERP7. C’era una volta Altavista, il primo motore di ricerca disponibile, che funzionava benissimo ma a partire da pagina 11. I risultati delle prime dieci pagine infatti avevano tutti o quasi a che vedere con la pornografia, perché l’algoritmo mostrava i risultati in base a dei codici e non agli utenti. Matt Cutts1 di Google trovò il modo di mostrare i risultati più interessanti, più velocemente. Inizialmente la velocità non veniva percepita dall’utente per via della numerosità dei risultati che Google caricava e che faceva sembrare che la pagina non fosse mai caricata del tutto. Una volta inserito il footer2 Google venne riconosciuto come il motore di ricerca più veloce. Il secondo passo importante fu la creazione di Google Analytics che consentiva di ottenere i dati relativi ai movimenti effettuati da tutti gli utenti. Head of Google’s Webspam team, https://www.mattcutts.com/blog/about-me/ In italiano “piè di pagina”, la parte bassa di una pagina viene indicata spesso con i termini inglesi footer o page footer quando si tratta di pagina visualizzata su un computer o su un altro dispositivo informatico 3 «Google Analytics non solo ti permette di misurare vendite e conversioni, ma ti offre anche dati aggiornati su come i visitatori utilizzano il tuo sito, come sono arrivati sul tuo sito e che cosa puoi fare per incentivarli a tornare.» dal sito di Google Analytics, https://www.google.com/intl/it_it/analytics/ 4 «Chrome è un browser web veloce, semplice e sicuro ideato per il Web moderno» dal sito di Google Chrome, https://www.google.it/chrome/browser/desktop/index.html 5 Dati estrapolati da gs.statcounter.com 6 «Il tuo annuncio su Google: Raggiungi i tuoi clienti proprio quando cercano su Google quello che offri. Paghi solo se fanno clic per visitare il tuo sito web o chiamarti» dal sito di Google Adwords, https://www.google.it/adwords/ 7 SERP: Search Engine Result Page. Nella SERP ci sono un sacco di dati, risultati a pagamento, video, immagini, indicazioni stradali, knowledge graphs… 1 2 182 Google AdWords e Google Analytics Fig. 1 - Un esempio di Serp in cui si vedono gli annunci sponsorizzati e sulla destra Google Shopping Il mobile e i nuovi scenari digitali circa 150 volte al giorno, e per i motivi più disparati, fra i quali, come si accennava, lo shopping. Sebbene infatti esista ancora, specialmente in un mercato ancora acerbo come quello italiano, una certa diffidenza e resistenza all’acquisto attraverso lo smartphone, questa è un’abitudine che certamente va diffondendosi, così che le percentuali di conversione da mobile sono in aumento. Il mondo del web ci ha abituati a cambiamenti continui: nuove tecnologie, nuove tendenze, nuovi strumenti fanno improvvisamente la loro apparizione sulla scena costringendo addetti ai lavori e semplici internauti ad accelerare il passo per non rimanere indietro. Questi cambiamenti, a volte, sono di lieve entità; altre volte, sono di dimensioni più importanti, proprio come nel caso della piattaforma Google AdWords (come già detto, il sistema di advertising di Google) e di Google Analytics (servizio di web analytics, appunto), pronti a rigenerarsi per offrire ai loro clienti un servizio migliore e più attento al mutare del panorama tecnologico e sociale. Non bisogna dimenticare, infatti, che i nuovi media non cambiano mai seguendo un percorso autonomo e distante dalla società in cui nascono; al contrario, i mutamenti avvengono a partire dalle nuove esigenze che caratterizzano una o più comunità, rispecchiando il modo in cui la società stessa sta già cambiando. E come stanno cambiando, dunque, la nostra società e il nostro modo di approcciarci al web? È sufficiente fare una passeggiata in centro per capirlo: fotografie, social network, shopping, musica, televisione, relazioni interpersonali… tutto ruota attorno al telefono cellulare. Mediamente, infatti, il mobile viene utilizzato E laddove invece non si arrivi (ancora) a comprare utilizzando lo smartphone, esso è comunque parte integrante – e fondamentale – del processo di acquisto. Infatti, su un totale di cento utenti abituali del mobile, ben il 90% lo utilizza per quella che viene definita come la fase pre-shopping: si cercano offerte e promozioni, ci si informa sugli orari di apertura dei punti vendita fisici, si confrontano prodotti… Sempre fra questi 100 utenti mobile-used, se ne trovano 33 che preferiscono utilizzarlo per trovare informazioni sui prodotti piuttosto che domandare aiuto ai commessi in fase d’acquisto. Un altro dato interessante riguarda invece coloro che abitualmente comprano attraverso lo smartphone: dall’84% il cellulare viene consultato anche nel momento in cui ci si accinge all’acquisto nello store fisico, per essere certi che 183 Google AdWords e Google Analytics non vi siano offerte e prezzi migliori online. Tutte queste statistiche in fondo portano ad un’unica conclusione: il mobile viene utilizzato come strumento di confronto e discriminazione fra prodotti e fra negozi (meglio comprare lo stesso prodotto online? esiste uno store a pochi chilometri da qui che applica un prezzo migliore?) e come preciso ed esaustivo fornitore di informazioni tecniche, opinioni e recensioni. utilizzato per accelerare l’acquisto contro il rischio di perdere offerte o esaurire la disponibilità del prodotto; • Abbigliamento e accessori: il mobile sfrutta la compulsione, lo stato d’animo momentaneo che porta ad acquistare immediatamente un prodotto (meglio se già conosciuto) che istintivamente piace molto; • Settore immobiliare: il mobile qui “tiene sul percorso”, cioè consente di avere sempre a portata di click la casa che interessa e ciò aumenta le possibilità che l’immobile venga poi effettivamente comperato; • Regali: come nel turismo, il mobile consente di allontanare la paura di perdere il prodotto giusto attraverso il suo acquisto immediato; inoltre, lo schermo di dimensioni ridotte rispetto al computer permette di tenere un’azione Esempi pratici di come il mobile aiuti in maniera differente in settori merceologici differenti vengono da Andrea Testa, che per ogni categoria individua il “momento di verità” nell’utilizzo del cellulare8: • Turismo: nella fase iniziale del percorso d’acquisto, il mobile fornisce stimoli e idee per iniziare la ricerca; successivamente, potrà essere F OC U S Fig. 2 - Tutto il nostro mondo oggi è racchiuso in uno smartphone Perché spesso e volentieri si utilizza il cellulare proprio in quella fase dell’acquisto? 8 184 Google AdWords e Google Analytics appartenente alla sfera privata lontana da sguardi indiscreti; • Ristorazione: in caso di bisogno, il mobile è certamente il primo strumento cui si fa riferimento per trovare un ristorante o affini nelle vicinanze; • Cibi e bevande: il mobile viene in soccorso, anche solamente con informazioni utili, nel momento in cui ciò che si cerca non è presente sugli scaffali dei negozi fisici. da mobile e da computer, evitando quindi che venga conteggiato due volte), l’iscrizione alla newsletter, la condivisione di un contenuto e sì, naturalmente anche un acquisto. AdWords e il funnel10 d’acquisto Un mutamento come quello sopra descritto richiede che le piattaforme di online advertising e le loro logiche di funzionamento vengano ripensate in riferimento al mobile. AdWords ha deciso di fare proprio questo. Alla luce di tutto ciò, va da sé che il sito che accoglie il visitatore bisognoso di informazioni o prodotti deve essere capace di fornire una risposta adeguata alle necessità dell’utente, pena la perdita del cliente stesso. Il 57% degli internauti, infatti, difficilmente rimane sul sito di un’azienda che non sia ottimizzato per il mobile e il 61% cambia sito se non incontra rapidamente ciò di cui necessita. Quasi sette utenti su dieci sono più portati ad acquistare su un sito ottimizzato, ma ciò non esclude l’utilizzo del computer: l’ideale cui tendere è poter fornire all’utente un servizio che lo faccia sentire a suo agio in qualsiasi momento, qualunque device stia utilizzando. Come si accennava, AdWords è una piattaforma di Google che gestisce l’inserimento di online advertising e che consente di far apparire il proprio annuncio sulla base della ricerca effettuata dall’utente. Se la ricerca, chiamata query, è la domanda che l’utente pone a Google, i risultati che compaiono sono le risposte; fra queste risposte, l’azienda ha la possibilità di inserire il proprio annuncio pubblicitario, che deve appunto essere una delle soluzioni al quesito che l’internauta pone. Per questo motivo, il sistema AdWords funziona sulla base di parole chiave, ovvero termini che l’azienda sceglie come identificativi del suo annuncio e che se digitati dall’utente lo porteranno ad apparire tra i risultati. Tali parole chiave possono essere inserite selezionando il tipo di corrispondenza che farà in modo che l’annuncio compaia o meno in determinate query, In termini pratici, le corrispondenze AdWords sono cinque: • Generica: se la parola chiave che identifica l’annuncio è hotel a Roma, esso comparirà non solo con ricerche molto attinenti (hotel a Roma Un sito web agevolmente navigabile è solo un tassello del mosaico che, se ben composto, può portare l’utente a convertire. Ma quando di parla di conversione9, cosa si intende esattamente? Una conversione è l’obiettivo di ogni azienda, ma non si tratta necessariamente di una transazione economica: convertire significa più genericamente compiere un’azione desiderata dall’azienda. L’azione, cioè, che l’azienda si è posta come obiettivo: la registrazione al sito (importante perché l’utente loggato permette al sistema di analisi di identificarlo quando accede Non necessariamente transazione economica, una conversione è l’azione desiderata dall’azienda e compiuta dall’utente (engagement sui social, condivisione di contenuti, registrazione al sito di ecommerce, iscrizione alla newsletter, acquisto…). 10 Letteralmente “imbuto”, il funnel è una riproduzione grafica del percorso d’acquisto dei consumatori. Prevede una fase iniziale di awareness (conoscenza del prodotto), una successiva di interest (interesse per il prodotto), la consideration (ricerca di informazioni a riguardo), l’intent (manifestazione della volontà di comprare) e una fase finale di purchase in cui avviene l’acquisto. 9 185 Google AdWords e Google Analytics 4 stelle, hotel con piscina a Roma ecc.), ma anche con query meno mirate (b&b a Roma, rent a car Roma o addirittura campeggio a Viterbo), purché ci sia correlazione e assonanza semantica fra ricerca e keyword; la corrispondenza generica viene utilizzata quando si cercano opportunità a cui non si aveva pensato o si vuole allargare il proprio raggio d’azione; • Generica modificata: la parola chiave contiene il marcatore + che la costringe ad apparire nella query, ad esempio +hotel a +Roma (nella sua ricerca l’utente dovrà aver scritto sia hotel che Roma); • Frase: il marcatore “ ” fa sì che l’annuncio venga mostrato solo laddove la query presenta unito tutto il contenuto delle virgolette (pur con varianti simili che comprendono plurali e singolari, errori, sinonimi…); ad esempio “hotel a Roma” apparirà con ricerche come hotel a Roma 4 stelle ma non con hotel economico a Roma; • Esatta: grazie al marcatore [ ] l’annuncio [hotel a Roma] potrà comparire solo se la query sarà esattamente hotel a Roma (si considerano anche le varianti simili di cui sopra); • Inversa: il marcatore - esclude le query che contengono determinate parole; ad esempio, hotel a Roma -piscina non verrà preso in considerazione dalle ricerche includono la parola piscina. che invece Per sapere quali parole chiave e quali corrispondenze utilizzare, bisogna naturalmente raccogliere informazioni sugli utenti (il dispositivo utilizzato, la località, l’orario della ricerca…), ricordando sempre che l’obiettivo dell’annuncio AdWords non è essere il primo risultato, ma fornire un contenuto di qualità, affinché l’utente continui ad usare Google e a cliccare sui risultati a pagamento per soddisfare le sue esigenze. Ogni query, infatti, corrisponde a un bisogno del cliente, bisogno che va a collocarsi in un punto preciso del funnel d’acquisto. Il funnel d’acquisto altro non è che un imbuto che riproduce il percorso del cliente (o potenziale tale) dal momento in cui viene a conoscenza di un certo prodotto (awareness, fase che nel marketing online si fonde con l’interest, quando l’utente si scopre interessato al prodotto) al momento in cui effettivamente acquista, e acquista un brand preciso (in-market o purchase), passando per la fase in cui l’utente si informa (consideration) e quella in cui manifesta la volontà di acquistare e si muove per farlo (intent). Fig. 3 - Le quattro fasi del funnel 186 Google AdWords e Google Analytics Falsi miti su Google AdWords Anche l’azienda ha obiettivi che corrispondono a fasi del funnel: ad esempio, può cercare nuovi potenziali clienti (awareness), può tentare di emergere nel mercato (consideration), può porsi la meta di maggiori vendite (purchase). • Perché un brand dovrebbe usare Google Adwords La ricerca è una parte importante del customer journey. 1.3 milioni di persone (il 49%)11 usano la ricerca nel suo percorso di acquisto, e la percentuale di persone che nel fare un acquisto online usa i motori di ricerca sale al 58% se analizziamo solo coloro che inseriscono un prodotto in carrello. Google ha quindi un ruolo fondamentale nella customer journey. Il 27% di coloro che accedono all’area di acquisto, usa un termine di ricerca generico. Il nome di coloro che usano il brand nella query è molto alto. Lavorare sulle chiavi brandizzate, traduce gli accessi dall’awareness alle vendite. Nella Top 10 dei merchant italiani, sette sono “dot com” (Amazon, eBay, Banzai commerce, iBS, Privalia, Vente-Privee.com, Yoox. com), e solo tre (Esselunga, LuisaviaRoma e MediaWorld) sono imprese tradizionali: curioso che nel Regno Unito la percentuale sia esattamente rovesciata. • Google Adwords non è un’asta. Il prezzo non è l’unica variabile a determinare la propria posizione in Adwords, poiché a contare è anche la qualità. Un sito con un punteggio minore ha l’opportunità di essere visualizzato prima ma ad un costo maggiore. Se a fronte dell’opportunità di essere più in alto di un altro sito non ottiene più clic (CTR) allora perde punti nella visualizzazione di Google. Se la qualità del sito è alta, pagherà il clic il meno possibile. • Non bisogna dare per scontato il brand. Alcune aziende/marche credono di essere così forti da non aver bisogno di investire su se stesse. Ma bisogna invece proteggere il proprio brand quando è forte, poiché esso rappresenta un vero e proprio tesoro12. Tuttavia, quello che deve fare nel creare un annuncio AdWords è considerare non solo il proprio obiettivo ma anche e soprattutto i bisogni dell’utente: alcune parole chiave rimanderanno a una fase del funnel piuttosto che a un’altra (ad esempio, pere riconduce all’awareness, proprietà della pera alla consideration, vendita pere all’intent), perciò sarà inutile creare annunci finalizzati solo alla vendita. Gli utenti ancora in fasi precedenti avranno infatti bisogno di cercare e scoprire, sicuramente non saranno pronti a comprare; di conseguenza bisognerà fornire loro annunci di pari passo con il loro percorso nel funnel. F OC U S La pubblicità su Gmail Gmail è uno strumento meno usato di altri a scopo pubblicitario, eppure ha notevoli potenzialità, date da una configurazione personalizzabile che rende facile l’utilizzo e dalla possibilità di raggiungere con precisione il proprio target. Inoltre, ha costi piuttosto bassi, ma richiede certamente molta attenzione e cura. Una campagna Gmail può persino permettere di ottenere viralità, poiché alcuni di questi annunci, una volta ricevuti dagli utenti, possono essere inoltrati. Grazie al sistema Gmail, si può poi giocare d’anticipo sui concorrenti, “agganciando” gli utenti con la propria pubblicità nel momento in cui nelle loro mail appare il nome dei competitor, di un loro prodotto o di un loro evento, cercando di cancellare in questo modo l’attenzione data all’avversario. Tutti i dati riportati in questa sezione sono relativi solo al verticale del caffè e solo all’Italia. Per approfondimento il caso di Davide e Golia: https://www.ted.com/talks/malcolm_gladwell_the_unheard_ story_of_david_and_goliath?language=it) 11 12 187 Google AdWords e Google Analytics Fig. 4 - Le funzioni di Google Adwords La web analytics di click: se ad esempio un utente atterra sul sito dopo una ricerca, ne esce e dopo qualche minuto rientra attraverso la stessa parola chiave, Google Analytics calcola che la visita sia una sola; per Google AdWords, invece, l’annuncio ha ottenuto due click. Al contrario, se l’utente clicca su un annuncio AdWords, visita il sito e lo salva nei preferiti per rientrarvi il giorno seguente proprio attraverso il segnalibro, il sistema calcolerà due visite ma un solo click, quello grazie al quale l’utente è atterrato sul sito la prima volta. La web analytics si occupa di tutto ciò che accade sui siti web, da cui è utile separare ciò che succede invece sui social media, di cui si occupa invece la social analytics. Gli elementi chiave su cui la web analytics basa la sua azione sono due: dimensioni e metriche. Se con dimensioni intendiamo quelli che sono gli attributi degli oggetti in questione, vale a dire le parole chiave, i browser utilizzati, le località da cui provengono (e a cui possono essere dirette) le query, le caratteristiche della campagna di advertising, al contrario le metriche riguardano l’aspetto numerico: la quantità di visite, il numero di pagine per visita, la frequenza di rimbalzo13 (bounce rate), il numero di conversioni e il loro tasso, la durata delle visite. Per misurare il traffico di un sito, infine, Analytics utilizza parametri quali le parole chiave, il numero di persone entrate e uscite da una determinata pagina, la sorgente – ovvero il punto di partenza che porta l’utente sul sito, ad esempio Google o un altro sito che contiene un banner o un link (referral) e il mezzo (le ricerche organiche di Google o Google AdWords). A questo punto occorre sottolineare che esiste una differenza tra numero di visite e numero La bounce rate è la percentuale di visite al sito che hanno registrato la presenza dell’utente su una sola pagina; il navigante, quindi, ha abbandonato il sito senza visitare altre pagine. Non necessariamente questo corrisponde a un disinteresse, può anche trattarsi di utenti che hanno trovato ciò che cercavano immediatamente, senza bisogno di navigare ulteriormente nel sito. 13 188 Google AdWords e Google Analytics Consigli pratici • L’annuncio deve convincere l’utente che cliccando troverà la risposta alla sua domanda (prestare molta attenzione alla fase del funnel in cui si trova, è inutile ad esempio cercare di vendere qualcosa di non ancora richiesto); Google AdWords È necessario iniziare con una premessa: l’obiettivo non è essere primi, ma ottenere accessi, che devono necessariamente essere qualitativamente molto alti. Quello che conta non è il numero di ricerche, ma la percentuale di conversione. • Utilizzare parole chiave nel testo; • Predisporre un annuncio chiaro; • Proporre vantaggi (proporre vasta gamma, scelta, assistenza, informazioni); QS x CPC = Ranking Quando si utilizza AdWords, questa è la formula da tenere sempre a mente, in quanto ne spiega la logica di funzionamento: punteggio di qualità per CPC (costo per click) determinano il ranking. • Call to action (non necessariamente vendita); • Prezzi, offerte, promo (non necessariamente sconti). Qual è la chiave migliore? La chiave migliore è quella che esprime il bisogno dell’utente nel momento in cui viene cercata, ovvero quella che corrisponde esattamente al suo intento, che fornisce il risultato migliore da consultare tramite il device utilizzato (come), nel luogo in cui si trova (dove) e all’orario corretto (quando). Tips & Tricks • I punti esclamativi funzionano, attirano l’attenzione. • I numeri sono molto visibili perché spezzano l’annuncio, meglio metterli a inizio frase, perché altrimenti, scorrendo verso il basso, l’occhio rischia di non vederli. Stare sempre attenti all’analisi delle query di ricerca consente di capire quali sono quelle che hanno attivato un certo tipo di annuncio e quindi se l’annuncio proposto corrisponde davvero ai bisogni dell’utente. • Non sottovalutare la visibilità degli elementi, in quanto il tempo dedicato dagli utenti ad ogni annuncio è pochissimo. Come creare un annuncio che funziona Domanda tipo di qualsiasi cliente: • L’URL di visualizzazione mostrato nella SERP condiziona il click dell’utente, è consigliabile provarne diversi per vedere quali attirano di più i click degli utenti (mettendo in pausa gli annunci con CTR più basso). • Come faccio a trovare altri clienti? (Awareness) • Come faccio a emergere in un marketplace così affollato? (Consideration) • Come faccio a far aumentare le vendite e a far crescere la mia attività? (Purchase) • Migliorare l’usabilità della ricerca su mobile: ad esempio cercando una pizzeria tramite smartphone, non si digita anche il luogo, perché con il GPS si dà per scontato che verranno mostrate prima le pizzerie più vicine. Per ottenere risultati in linea con ognuno di questi obiettivi, in fase di creazione dell’annuncio è importante considerare i seguenti punti: 189 Google AdWords e Google Analytics Case Studies COFFEE POWER Ottenere successo con un e-commerce TURISMO Come ottimizzare le campagne travel Coffee Power, e-commerce di caffè, inizialmente puntava molto su chiavi a corrispondenza generica (capsule caffè > awareness), ma in realtà quel tipo di chiavi viene ricercato solo da chi si sta ancora informando sull’acquisto di una macchina con capsule, non da chi è effettivamente interessato all’acquisto di caffè (che cerca piuttosto chiavi più specifiche). Conseguenze: CTR bassissimo e quindi CPC altissimo. Premesse: Nel turismo la chiave generica ha molto più peso, perché l’utente di norma non parte già con le idee chiare. Quasi il 70% delle ricerche da mobile si concretizza in una prenotazione nell’arco di un giorno. È molto facile che si usi il mobile quando si hanno già le idee chiare, mentre per avere informazioni generiche l’utente è più comodo navigando da desktop. Nel 67% dei casi, l’inizio della prenotazione è online (ricerca innesto). Nel 42% dei casi YouTube è stata una fonte di ispirazione per la prenotazione di un viaggio. Cosa fare: • Iniziare a creare delle inverse, eliminando le voci non pertinenti, ad es –lavazza (marchio non venduto) o togliere voci che creano perplessità o negative, ad es -inquinamento, -ecosostenibilità. Cosa fare: • Investire sul proprio nome. Se si utilizza il nome della propria struttura come chiave, il CPC sarà sicuramente più basso rispetto a quello per le piattaforme di prenotazione (rilevanza per contenuto, ad es. dominio = nome). Non conviene investire sul proprio nome solo se il tasso di conversione sulle piattaforme turistiche (es. booking) è così alto che queste possono permettersi di pagare cifre molto elevate per ogni click. • Attivazione campagna shopping: solo con le campagne shopping l’annuncio viene visualizzato sia nella ricerca, sia anche come display sul sito che viene cliccato. • Associare ad ogni specifica ricerca un banner distinto. Creare dei profili di utenti specifici, inserendo per ognuno interessi e URL che potrebbe visitare (anche possibili competitors): AdWords crea dei cluster con tali caratteristiche ed è possibile selezionare tra di essi il target di riferimento. • Creare liste di affinità personalizzata, segmenti di pubblico per affinità. • Search: acquistare parole chiave e mostrare gli annunci nella rete di ricerca di Google, per andare ad agire sulle fasi del funnel della consideration/ intent e sulla purchase. • Individuare i momenti in cui l’utente ha veramente bisogno del prodotto per fare campagna awareness (es. caffè: pausa caffè, mattina). • Display: mostrare gli annunci sulla rete display di Google per creare awareness sui segmenti. Risultati: Se il cliente trova il gusto che gli piace ad un prezzo conveniente, sarà portato ad acquistare sempre lo stesso gusto, sempre sullo stesso shoponline e più volte all’anno > alta fidelizzazione. • Remarketing: mostrare gli annunci a chi è già stato sul sito. Sfruttare i video per andare ad influenzare chi si trova nella fase di interest/consideration. 190 Google AdWords e Google Analytics Strumenti per analizzare le chiavi più adatte Più il CTR sale, più sale la qualità, quindi AdWords fa pagare meno i click e di conseguenza scende il CPC. Google Trends Trends fornisce grafici che mostrano quanto una chiave è stata cercata nel corso degli anni. Se dovesse essere presente un calo, questo va considerato non solo prendendo in considerazione una una sola chiave, ma valutando diversi termini, in quanto cambiando i termini della ricerca si possono ottenere risultati diversi (ad es. campeggio potrebbe essere più forte di hotel). Es. 1000 impressions CTR 10% 100 click CPC 2€ Costo: 200€ Se il mio CTR diventasse del 20%, continuerei a fare 100 click, ma avrei 500 impressions: Quindi: 500 impressions CTR 20% 100 click CPC 2€ Costo: 200€ I valori indicati nei grafici sono espressi con un massimo di 100 (per capire a quanto corrisponde questo valore, è necessario confrontare con volumi di SEMrush). Google Correlate Mostra quali altre ricerche sono state fatte contemporaneamente alla propria parola chiave. È un comparatore di grafici, associa quelli con andamento simile. Aggiungendo però il fattore qualità otterrei: 1000 impressions CTR 20% 200 click CPC 1€ Costo: 200€ A parità di budget, si otterrebbe il doppio dei click14. SEMrush Sul mercato selezionato dà 3 risultati: • Volume: confrontando le date con i grafici di Google Trends, consente di verificare a quanto corrisponde il valore fornito da Google Trends. • CPC: presunto, medio • SERP Strategia di offerta flessibile La strategia di offerta flessibile consente di ottimizzare automaticamente le offerte per le parole chiave a basso rendimento, andando a lavorare anche a livello di specifico elemento. Tips&Tricks Quanto investire su una chiave? Per capire quanto investire su una chiave per essere primi, non si deve moltiplicare il CPC per il volume, in quanto il volume indica quante volte il termine è stato ricercato, non quante volte è stato cliccato. Si deve quindi recuperare il CTR, in quanto la spesa che il cliente dovrà sostenere è il CTR del volume. Es: Fruttivendolo Obiettivi: vendere mele, vendere pere Campagna: frutta Gruppo annunci: mele, pere Parole chiave: +mele, +pere Il dimezzamento del costo per clic è puramente esemplificativo. 14 191 Google AdWords e Google Analytics Annunci Gmail Si paga solo il click sulla collapsed ad (ovvero l’annuncio in forma ridotta), tutti i click successivi sono gratuiti. Creo annuncio: Titolo: Mele e Pere Alta Qualità (mettere le parole importanti con iniziale maiuscola) Riga descrizione 1: Mele e Pere dell’Alto Adige. (il punto porta la prima riga di descrizione accanto al titolo) Riga descrizione 2: compra ora al miglior prezzo Tre tipologie di interazione possibili: • Click verso il sito web; • Salvare come messaggio di posta il banner/l’adv; • Posso inoltrarlo come mail (ciò offre grandi possibilità di visualizzazioni gratis, in quanto si paga solo il primo click sul collapsed, non i click successivi sui banner). Budget: 10€ al giorno “mela” viene cercata il 120% in più di “pera” • Comprando solo “mele” 10€/0,88(CPC)= 11 click Web Analytics Case Study: E-commerce di scarpe • Comprando solo “pere” 10€/0,27 (CPC)= 37 click Obiettivo: vendere. Dato che le mele sono più cercate, vanno a cannibalizzare le pere (per cui si paga, ma non servono per ottenere click). Customer journey: • L’utente entra nel sito; • Cerca la categoria/prodotto; • Legge i commenti; • Aggiunge al carrello; • Fasi del check-out; • Paga. Meglio creare 2 annunci separati, in modo anche da rispondere meglio alle richieste di chi cerca, magari dividendo il budget, 5€ per “mele” e 5€ per “pere”. Problema: alta frequenza di rimbalzo. Keyword Insertion A prescindere dalla query, è possibile creare un unico annuncio che si forma automaticamente: Per capire dov’è il problema, bisogna innanzitutto creare eventi specifici, per capire in che punti si sofferma l’utente e dove invece abbandona la pagina (lettura commenti, evento di inserimento in carrello, evento “avanti” per tracciare tutte le fasi di check-out che avvengono per tab, non su pagine diverse). {KeyWord:parola chiave} Esistono 4 varianti: Keyword: maiuscola prima lettera della prima parola; KeyWord: tutte le parole con iniziale maiuscola; KEYword: solo 1ª parola tutta maiuscola; KeyWORD: iniziale della prima parola, tutte le successive tutte maiuscole. Evento: misuratore di performance che porta all’obiettivo Analizzare il percorso determinando i KPI (Key Performance Indicators). Es. bounce rate, inserimenti in carrello. N.B.: Non è consentito scrivere tutto maiuscolo, tali annunci vengono segnalati e si rischia la sospensione dell’account AdWords. 192 Google AdWords e Google Analytics Aggiungere segmenti all’analisi: per monitorare il comportamento di un determinato gruppo di utenti, per esempio quelli che non hanno rimbalzato (sessioni senza rimbalzo > per capire quanto è profonda una visita). Le analisi devono essere fatte sulla base di due parametri: • Cos’è successo un anno fa (es. aprile 2016 su aprile 2015); • Confronto tra due differenti periodi per valutare quando le performance sono state migliori (es. aprile su marzo 2016 in confronto ad aprile su marzo 2015). Importante: mai fare un’analisi basandosi sul mese precedente, perché ogni mese ha una storicità diversa. Irene Pepe Claudia Riboldi Chiara Terranova 193 Google AdWords e Google Analytics Riferimenti bibliografici Andrea Testa, Fare Business col Digital Marketing, EPC Editore, Roma, 2015. Andrea Testa, Guido Di Fraia, I segreti di Google AdWords, Hoepli, Milano, 2013. Avinash Kaushik, Web Analytics 2.0. Misurare il successo online nell’era del web 2.0, Hoepli, Milano, 2009. 194 VIDEO DIGITAL LANDSCAPE: LE NUOVE TENDENZE EMERGENTI Tratto dalla lezione di Donatella Urrai «Odio i pre-roll. Bisognerebbe sparissero. Inquinano l’ambiente della pubblicità online in modo non più sostenibile» VIEWABILITY - MISURABILITÀ - VIDEO NATIVI In questi ultimi anni stiamo assistendo a una rivoluzione copernicana nell’ambito del video e, di conseguenza, delle pubblicità veicolate attraverso di esso. Cinquant’anni fa c’era la televisione in bianco e nero, condivisa da più famiglie. Oggi la disponibilità del mezzo televisivo è di 635 canali, e la fruizione quotidiana supera i 100 minuti a persona. Per quanto riguarda i video on demand su digitale, si parla di oltre 400 canali per un consumo maggiore di 20 minuti al giorno per persona. Inoltre, circa il 77% dei video sono visti su piattaforme social: basti pensare che YouTube conta quasi 9 milioni di utenti, e su Snapchat vengono uplodati e fruiti circa 10 miliardi di video ogni giorno. Tra le tendenze che più stanno prendendo piede, c’è il crescente investimento da parte delle aziende nei video pubblicitari cosiddetti nativi1. e di “servire”, così, il video native più idoneo, adattandolo allo schermo utilizzato. A questo viene anche associata la compravendita in tempo reale mediante real time bidding, impression per impression, del video pubblicitario stesso. Il successo di questo sistema risiede soprattutto nel fatto che la fruizione del web è sempre più personalizzata e crossmediale, nel senso che l’utente fruisce dei contenuti in multiscreen (desktop, mobile, tablet): il programmatic consente, quindi, di proporre il video giusto all’utente corretto nel momento più opportuno della giornata, sulla base degli interessi della persona. Come detto, il programmatic è strutturato come un’asta virtuale che consente l’incontro del volume di spazi a disposizione da una parte, e dei prezzi proposti per gli spazi stessi dall’altra: tutta la parte d’acquisto è automatizzata. L’onda del programmatic Secondo gli analisti il fenomeno finora riservato a desktop e mobile, è destinato a coinvolgere anche la televisione. In effetti, i trend di crescita parlano chiaro: se nel 2014 solo un quarto del volume di scambi era riconducibile al programmatic marketing, nel 2019 la torta sarà spartita a metà tra programmatic e non programmatic. Ma l’onda più travolgente che ha sconvolto l’universo del video advertising è il fenomeno del programmatic, caratterizzato da sistemi di automazione della compravendita online di video pubblicitari, in grado di riconoscere le preferenze e le abitudini di consumo dell’utente Si tratta di pagine video che si aprono outstream durante la fruizione di una pagina, senza necessariamente essere player video. 1 195 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti Fig. 1 - Nel grafico la fotografia della crescita del programmatic che, secondo le previsioni degli esperti, nel 2019 arriverà a coprire la metà del mercato. Da segnalare, anche la crescente importanza dei video, sia su desktop sia su mobile, rispetto ai banner, negli investimenti globali in modalità programmatic: se nel 2015 essi rappresentavano soltanto il 26% degli investimenti, nel 2019 sono destinati a raggiungere quota 55%. Fig. 2 - In questo grafico le previsioni di incremento dell’utilizzo dei video: nel 2019 dovrebbero essere il 55% del totale degli investimenti pubblicitari in programmatic. Da notare anche il forte incremento degli investimenti nel mobile video, che passa da un 8% del totale nel 2015 a un previsto 28% nel 2019. 196 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti Science, l’11,6% dei video pubblicitari ricade nel cosiddetto “traffico fraudolento”, ovvero generato non da esseri umani, ma da algoritmi che simulano l’esperienza umana (frodi online e bot2). Altro dato: ben il 63% degli annunci pubblicitari pre-roll3 viene erogato ma non raggiunge l’utente, non viene visto, cioè, dal potenziale cliente. Percentuale che raggiunge il 78% per i preroll non premium (cioè non erogati in testate prestigiose, autorevoli o particolarmente seguite). Da subito va sottolineata la differenza tra i video instream, che sono soprattutto i pre-roll, e quelli outstream, che invece non hanno bisogno di un player fisso per essere erogati, non sono invasivi ma si aprono tra un contenuto e l’altro e, se non vengono visualizzati, si bloccano. In ultima analisi, ciò che emerge dalla ricerca è che ben il 54% dell’advertising online non viene visto. Ma quali sono le motivazioni di questo spreco? In ultima analisi, non si può non segnalare la vertiginosa crescita degli investimenti pubblicitari su mobile, rispetto a quelli su desktop: nel 2015, infatti, il mobile catalizzava circa il 28% degli investimenti, mentre nel 2019 la percentuale salirà al 50%. Tutto questo porterà anche a un cambiamento nel ruolo delle agenzie pubblicitarie, che dovranno occuparsi maggiormente di consulenza strategica, contenuti e creatività, piuttosto che di mera compravendita di spazi pubblicitari. Ma emerge anche l’importanza di un’altra figura chiave, e cioè quella del professionista, informatico o ingegnere, in grado di interpretare i big data elaborati dai robot e di dirigere così la campagna pubblicitaria sulla base dei riscontri individuati. D’altro canto il programmatic è ormai una realtà: il tasso di crescita del fenomeno è, per il periodo 2014-2019, del 31% a livello globale, mentre per l’area europea del 28% ma, nel Vecchio Continente, l’Italia è seconda solo alla Germania in investimenti di questo tipo. 1) Le frodi online e i bot (come anticipato); 2) Gli ad blocker; 3) Il fatto che il video parta prima di poter essere visualizzato; 4) Il fatto che gli utenti, infastiditi, lascino la pagina. Pensare outstream Nel settembre 2015 il vicepresidente della Global Media Innovation and Ventures di Unilever Babs Rangaiah disse: «Il modo in cui oggi misuriamo la pubblicità digitale ha qualcosa di assurdo». E, in effetti, una delle domande che le aziende si pongono sempre di più è: «Quanto di ciò che viene investito in pubblicità va perso?» Questione che, declinata sul mezzo video, si traduce nella ricerca dei criteri che possano aiutare il brand a capire se la campagna video pianificata è valida, raggiunga, cioè, standard qualitativi premium e possa essere misurata in modo trasparente. Secondo un report effettuato da Integral Ad Quel che è certo è che si apre un problema per le aziende relativamente alla viewability4: quante views si possono davvero definire complete? Come si può misurare questo dato? A tal proposito è importante il sistema del completion rate, che consiste in un sistema di acquisto basato sul cost per view: l’azienda paga solo se il video viene visualizzato dall’utente fino alla fine. La completion rate individua, quindi, il rapporto tra il numero di volte in cui è stato fatto partire il Nei Paesi anglosassoni, con bot s’intende un programma autonomo che nei social network fa credere all’utente di comunicare con un’altra persona umana. Questi bot migliorano di anno in anno ed è sempre più difficile distinguerli. 3 Video che partono in automatico prima di un contenuto editoriale. 4 La viewability (visibilità) è una metrica di pubblicità online utilizzata per misurare il tasso di impression visualizzabili. 2 197 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti video e il numero di visualizzazioni complete che erano state acquistate. È un indice significativo per misurare la validità di una campagna: più è alto, più video sono stati visti fino alla fine. Esso aiuta a capire se tali video sono stati erogati nell’ambiente giusto. Ma attenzione: secondo Integral Ad Sciences, una campagna video che raggiungesse l’apparentemente pregevole risultato di una completion rate di 88,8 nel primo quarto del video, in realtà, in termini di visualizzazioni effettive in pagina, avrebbe raggiunto un range che va dal 26 al 29%. Cosa significa questo? Che i tradizionali sistemi di misurazione di viewability sono fallaci e non tengono conto di quanti davvero hanno visto in pagina il video erogato: l’utente può aver fatto partire il video, ma contemporaneamente aver aperto altre pagine, o scrollato, o letto mail e scritto in chat. Ciò che i brand dovrebbero desumere da questa ricerca è l’opportunità di acquistare video che di default garantiscano la misurabilità della viewability, come i native (i citati outstream), che si aprono tra un contenuto e l’altro, non partono da soli e vanno avanti solo se sono in pagina, altrimenti si bloccano (come i video di Facebook). Tali video non solo non sono intrusivi, ma danno anche la possibilità di avere una viewability completa. consentono una lettura semantica dell’articolo all’interno del quale dovrebbe essere erogato il video, così da riconoscere eventuali keyword “vietate” ed evitare contesti inopportuni o addirittura pericolosi per la reputazione del brand. Sempre secondo la ricerca di IntegralAd Science, oltre il 15% dei video pubblicitari online sono visti in contesti che potrebbero essere considerati, appunto, “pericolosi” per il brand. Per abbattere i costi, però, spesso accade che i brand pubblichino i propri video in ambienti non premium (in coda lunga) senza controllo semantico senza, in definitiva, avere la possibilità di verificare il content-risk. Ma torniamo al controverso concetto di viewability che, di per sé, non è affatto unanime. Basti pensare al gap tra le norme del MRC (Media Rating Council) che definirebbero i criteri in termini di advertising digitale, rispetto alla realtà delle esigenze dei brand. Secondo tali regolamentazioni, ad esempio, un video può considerarsi visto se su un desktop permane per due secondi su metà dello schermo, stessa cosa per un video fruito su dispositivo mobile. E sulla carta le aziende dovrebbero investire in relazione a tali standard. Ma, ovviamente, in questo modo non si viene incontro alle esigenze del cliente che, invece, chiede una visualizzazione di almeno 30 secondi su una superficie che raggiunga il 70% dello schermo e in modalità click to play (cioè video visti intenzionalmente e non a partenza automatica). In ogni caso, va ribadito il concetto dell’opportunità da parte delle aziende di utilizzare video native rispetto ai pre-roll. Se, infatti, questi ultimi hanno quasi il 12% di possibilità di finire nelle maglie delle frodi, quelli native meno dell’1%. Inoltre, i preroll hanno una completion rate che arriva a un quasi 80% a fronte del 100% dei native, con una viewability che nei primi raggiunge il 32%, mentre nei secondi il 91. E, in termini di rischio per l’immagine, i preroll sono a più del 15%, mentre i native a meno dell’1%. Da non sottovalutare in relazione alla misurabilità del successo di una campagna, anche l’importanza che la campagna stessa compaia nell’ambiente più appropriato: tanti sono stati i casi di pre-roll partiti prima di un contenuto assolutamente inappropriato. Un esempio? Un pre-roll di un noto farmaco contro il mal di testa mostrato prima di un video che documentava alcune macabre decapitazioni da parte dell’Isis. Come ovviare a questa problematica? Esistono piattaforme che, oltre a bloccare il cosiddetto traffico non umano per evitare frodi, 198 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti Fig. 3 - In questa immagine dati che certificano in modo netto la maggior funzionalità dei video native rispetto ai pre-roll Emerge, peraltro, l’importanza di pensare crossscreen da parte dei brand: le strategie basate su campagne isolate le une dalle altre non hanno efficacia. Oggi le aziende devono pensare a strategie video che siano sostenibili, che non urtino, cioè, l’esperienza di navigazione dell’utente. Di conseguenza, le campagne vanno anche monitorate cross screen perché si stima che, con tale pianificazione, si raggiunga più del 60% del target. Fig. 4 - Per essere efficaci le strategie di comunicazione devono essere ideate in chiave cross-screen 199 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti L’onda del mobile Una campagna adv è vincente quando intercetta i native moments dell’utente, ne cattura cioè l’attenzione senza disturbare, perché è sul device adatto e nel momento più opportuno. E non si può prescindere da un dato ormai rivoluzionario: su 100 fruitori del web, 71 navigano da mobile. Fig. 5 - Frame Spot Volvo Trucks L’onda del video Se poi si vuole raggiungere un’azione, siamo cioè a un passo dall’acquisto, è opportuno un video lungo, quasi come un film e rivolto principalmente agli influencer. Si tratta di veri cortometraggi che utilizzano il linguaggio del cinema, come per la pubblicità di Johnnie Walker, con attori del calibro di Jude Law e Giancarlo Giannini, che ha avuto 12 milioni di visualizzazioni. Il video è più efficace di altre forme di advertising digitale, perché garantisce un’esperienza più immersiva e multisensoriale, che influenza maggiormente l’utente all’acquisto. Ma quali regole seguire per realizzare video “ingaggianti”? Sicuramente il concetto del native, cioè appropriato all’ambiente di navigazione, ha un valore. E, nonostante negli anni gli advertiser abbiano prediletto l’inizio e la fine della pagina web per collocare i banner, si è scoperto che è, invece, il centro della pagina il punto in cui si focalizza l’attenzione dell’utente. E i contenuti? Per generare interesse nei confronti del prodotto il video dev’essere ispirazionale, utile e di intrattenimento. Alcuni studi hanno individuato le caratteristiche più appropriate che i video dovrebbero possedere in relazione agli obiettivi da raggiungere. E quindi, ad esempio, per aumentare la brand awareness è preferibile uno tendenzialmente corto, che utilizzi uno storytelling emozionale, sorprendente e provocatorio, idoneo a raccontare la marca e, fondamentalmente, d’impatto. D’altro canto, se l’obiettivo è innescare desiderio e interesse per il prodotto, è preferibile un video di media lunghezza, interattivo, ma anche informativo e ironico, come quello di Volvo Trucks. Fig. 6 - Frame Spot Johnnie Walker Un altro trend si rifà all’utilizzo dei linguaggi universali dell’arte: tra le campagne più di successo, degna di nota è di certo quella di Bottega Veneta in collaborazione con Araki. Fig. 7 - Frame Spot Bottega Veneta 200 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti In ultima analisi, quali sono le raccomandazioni per costruire video pubblicitari efficaci? È necessario attenersi a 4 regole auree: 1) Avere chiaro l’obiettivo da raggiungere con il video, se è all’inizio o alla fine del cosiddetto funnel d’acquisto5; 2) Adattare l’idea del video allo schermo dove verrà fruito: lungo o breve, non va semplicemente pensato per la tv ed esportato su altri schermi. Bisogna cioè pensare digitale; 3) Rispettare l’utente: non vanno usati formati invasivi come i pre-roll, ma nativi, lasciando così libera la scelta; 4) Studiare il formato video idoneo a facilitare il più possibile la viewability: se un video risulta completo, non significa che sia stato visto in pagina; Troppo spesso, però, questi criteri non vengono rispettati e la pubblicità diventa un nemico da ostacolare: una ricerca rivela, infatti, che il 74% delle persone costrette a guardare un annuncio video, prima del contenuto desiderato, percepisce la propria esperienza di navigazione come penalizzata. Ecco perché sono sempre più diffusi gli ad-blocker, software che, se installati, bloccano la pubblicità invasiva, come i pre-roll e i pop-up. Nel mondo sono circa 200 milioni le persone che li usano e si calcola che globalmente stiano arrecando al mercato della pubblicità un danno economico di circa 22 miliardi di euro. Le motivazioni? Secondo l’indagine “Profile of an Ad Blocker” realizzata da ResearchNow, il 67% degli utenti afferma che gli annunci pubblicitari rallentano il sito web, il 59% che sono fastidiosi, e, tra tutti, quelli considerati più intrusivi sono i pre-roll. Molto interessante il dato secondo cui il 47% degli utenti disinstallerebbe un ad-blocker se ci fosse la possibilità di chiudere un annuncio, il 40% se detto annuncio fosse “skippabile” dall’inizio e il 25% se lo fosse dopo i primi 5 secondi. In ultima analisi, esistono dei punti fermi da seguire per creare un’esperienza ottimale di navigazione e rendere pertanto l’advertising più efficace, e sono: F OC U S Video vincenti La piattaforma Teads ha individuato altri elementi che possono essere utili per realizzare video pubblicitari strategicamente d’impatto, eccone alcuni: • Cominciare con un “Bang”, in modo cioè accattivante, così da catturare l’attenzione da subito; • Concentrarsi sullo storytelling, raccontando una storia avvincente che abbia un tessuto narrativo basato sulle emozioni; • Puntare sulla sorpresa, ma non sullo shock. Quindi evitare di risultare eccessivi; • Farli partire senza audio: sarà poi l’utente a decidere se attivarlo oppure no. 1) Utilizzare formati pubblicitari senza interferire con l’esperienza di navigazione dell’utente; 2) Dare possibilità di scelta agli utenti; 3) Limitare l’uso di formati intrusivi come i pre -roll; 4) Distribuire formati sviluppati per il mobile così da migliorare la percezione del contenuto pubblicitario; 5) Individuare un target strategico per assicurare la rilevanza dell’annuncio rispetto al contenuto e al contesto nel quale viene distribuito. AdBlocker Una regola base in relazione alle pubblicità video online è il non essere invasivi e fastidiosi. La pubblicità infatti dev’essere interessante e rispettare l’utente, messo nelle condizioni di scegliere se vederla oppure no. Gianluca Torti Il funnel è il processo attraverso il quale i potenziali clienti passano dalla prima consapevolezza del marchio al post-vendita. 5 201 Video digital landscape: le nuove tendenze emergenti Riferimenti bibliografici Caiazzo D., Febbraio A., Lisiero U., Viral video. Content is King, Distribution is Queen, Fausto Lupetti Editore, 2013. Vaccaro A., Conti L., Native advertising. La nuova pubblicità. Amplificare e monetizzare i contenuti online, Hoepli, Milano, 2016. 202 BIG DATA E VISUALIZZAZIONE TRA ANALISI E NARRAZIONE Tratto dalla lezione di Paolo Ciuccarelli «La narrazione è un’esperienza di pensiero che esercita ad abitare mondi estranei e implica «una provocazione a essere e agire diversamente» - P. Ricoeur, 1985 big data - open data - infografica Quello dei big data è un fenomeno sempre più presente e in costante evoluzione. Ancora oggi si pensa che per un uso corretto dei dati sia sufficiente estrarli, ma questa sola operazione non permette di utilizzarli al fine di ottenere un vantaggio competitivo sul mercato. Cisco ha definito i dati come il nuovo petrolio e il paragone è molto corretto in quanto il petrolio, come il dato, si trasforma e si può utilizzare in modi differenti. IBM afferma che i dati costeranno sempre meno perché il valore non è nel dato, nell’estrazione di esso e nella sua disponibilità, ma risiede nel valore che gli si attribuisce. Tim Bernerds – Lee1 diceva che i dati devono essere grezzi. Uno dei metodi che risulta più efficace consiste nell’iniziare a lavorare direttamente dalla fase di estrazione perché già nella visualizzazione di questo momento si riesce ad individuare il fenomeno ed eventualmente ad apportare modifiche alla ricerca o a effettuare delle integrazioni con ulteriori dati. Il lavoro non consiste solo nella visualizzazione dei dati, che costituisce solo una parte del processo, ma nel fornire delle risposte utili per prendere le decisioni. Ma che cosa sono gli open data? Sono dati disponibili che vengono forniti. Sono trasformabili e soprattutto devono essere in formato standard e non proprietari. Diversi sono i siti che offrono gli open data ed è importante ricordare che a livello istituzionale 1 il primo sito governativo di open data con .gov è stato aperto da Obama nel 2008. Miliardi di dati sono potenzialmente utilizzabili, ma il vero problema non è avere i dati ma trasformare quei numeri in valore, dando ad essi il significato corretto. Un’ operazione non sempre facile in quanto le aziende spesso hanno paura a condividere i propri dati, anche se la combinazione di dati provenienti da diversi fonti consentirebbe di individuare in modo più completo i fenomeni. Il caso: car sharing Dal sito di una compagnia di car sharing sono stati estrapolati i dati della settimana e per poter analizzare il fenomeno è stato necessario analizzarli da diversi punti di vista. Dopo aver estratto un dataset molto semplice composto da un excel con pochi dati (noleggi singoli a settimana, data e presa di consegna e location) si è cominciato a “giocare” con i numeri. I risultati derivanti dalle diverse combinazioni hanno permesso di avere una panoramica sui diversi comportamenti degli utilizzatori del car sharing, identificando ad esempio le ore di maggior noleggio, le zone, gli orari, etc. Molte le rappresentazioni visive derivanti dall’uso dei dati, tra cui il diagramma di Voronoi, che ha permesso di capire il percorso per raggiungere la macchina. informatico britannico e co-inventore insieme a Robert Cailliau del World Wide Web. 203 Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione Fig. 1 - Rappresentazione visiva di una settimana di utilizzo del Car Sharing a Milano Cos’è la visualizzazione dei dati? non solo, per rappresentare il flusso di merci tra un paese all’altro. Nel 1869 Minard rappresentò la campagna di Napoleone in Russia e la sua rappresentazione è stata definita come uno dei migliori grafici statistici mai prodotti. Minard utilizzò due colori per raccontare il flusso dei soldati: andata e ritorno con il senso di marcia, mettendo in evidenza anche i fiumi. Nel 1971 Minard sostituì alle parole delle immagini corrispondenti matematicamente proporzionate, che a colpo d’occhio erano in grado di comunicare gli elementi importanti di un fenomeno senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Un altro aspetto importante da considerare è l’efficacia del linguaggio. Il cervello è una macchina, cerca pattern3. Connettere cose logiche (es. costellazioni nel cielo) è il modo che usa il cervello per creare correlazioni mentali, e lo stesso procedimento avviene con i database. Le visualizzazioni lavorano proprio costruendo pattern e sono molto efficaci perché il nostro è un pensiero visuale. Anche l’insight è un vedere attraverso, simile al pattern (ad esempio si può Essa è stata definita come “la visualizzazione di dati astratti” perché in realtà la data visualization era la costola della science visualization che era la rappresentazione di fenomeni reali (es. corpo umano)2. La data visualization è un terreno molto interessante, come ci conferma anche Google Trends. Ci sono molti investimenti in questo settore anche da parte dei giornali, che utilizzano la data visualization come nuovo linguaggio. È il caso ad esempio del Corriere della Sera. La visualizzazione dei dati è importante perché l’immagine è più immediata, dal momento che il linguaggio visuale è gestito meglio dal nostro sistema sensoriale cognitivo. La vista in una frazione di tempo è in grado di fornirci infatti moltissime informazioni. La data visualization non è un fenomeno così nuovo, basti pensare che ci sono casi di visualizzazione dei dati risalenti al 1858, quando Charles Minard, ingegnere civile con una grossa passione per dati e geografia, mise a sistema per la prima volta alcuni dati statistici e 2 3 Few S., 2014 Pattern inteso come configurazione di stimoli che si presentano a costituire un’unità percettiva 204 Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione Fig. 2 - La campagna di Napoleone in Russia rappresentata da Charles Minard ricorrere a delle barrette colorate per imparare i numeri). La scienza ha sempre lavorato con i dati, ma anche con le immagini. Nel 1600 Cartesio ha generato gli assi cartesiani, rendendo possibile la visualizzazione di miriadi di dati. Nel 1700 Edmund Halley fu il primo a costruire grafici con gli assi cartesiani. Poi tra ‘700 e ‘800 arrivò William Playfair che inventò tantissime delle tecniche che ancora oggi si usano (linee di tendenza, torte etc.). La visualizzazione veniva utilizzata come strumento cognitivo naturale. Ad un certo punto, in epoca moderna, si cominciò a comprendere che i dati potevano essere usati in modo pragmatico. F OC U S Nel 1854 ci fu un evento che dimostrò l’effettiva importanza della rappresentazione visiva dei dati: l’esplosione del colera in Inghilterra. John Snow, medico inglese, creò la “Ghost map”. Era convinzione comune che le epidemie si diffondevano attraverso l’aria. Snow scoprì qualcosa di diverso: raccolse casa per casa i dati relativi a coloro che erano morti a causa del colera, collocò tutti i dati sulla mappa della città e si accorse che tutte le morti si concentravano in un punto di Londra, nei pressi di una pompa dell’acqua, che identificò dunque come focolaio. Fig. 3 - La “Ghost Map” di John Snow 205 Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione F OC U S possibile analizzarli attraverso metodi standard, ma essi devono essere strutturati perché si possa arrivare a conoscerli in modo approfondito. C’è un grosso gap tra le origini storiche della visualizzazione dei dati, che nasce con l’analisi scientifica, e l’approccio narrativo della visualizzazione dei dati che si usa nei media, sintetizzato dall’infografica e osservato con avversione da chi si basa sul primo tipo di approccio. Da 4 o 5 anni per fortuna le cose stanno cambiando, grazie all’utilizzo di strumenti linguistici volti ad arricchire la modalità d’espressione rispetto al fenomeno da raccontare. Oggi l’approccio efficientista e meccanicistico impera insieme all’approccio analitico (analytics, dashboard etc.) soprattutto per chi si occupa di business intelligence, utilizzando diversi widget per ottimizzare le capacità mentali. Ad esempio, Google handgram (data visualization) è ancora molto più presente nei libri rispetto all’infografica. Le persone comuni invece sono più propense e vicine all’infografica (media) rispetto all’approccio più scientifico dei data visualization, perché usa un linguaggio più semplice da comprendere. Il padre dell’infografica è Nigel Bones, che negli anni ‘80 ha creato il noto Snapshot. Il gap tra i due mondi, quello orientato all’approccio analitico e quello invece che predilige quello narrativo, è ancora consistente. Quello che si sta affermando oggi è un approccio “ibrido”, che utilizza un linguaggio più comprensibile rispetto a quello analitico e scientifico, per coinvolgere maggiormente le persone. Perché il dato sia usufruibile da chiunque infatti, occorre necessariamente semplificare Florence Nightingale (appassionata di questioni sociali e nata nel 1820 a Firenze) fu la prima ad applicare il metodo scientifico dell’utilizzo statistico dei dati. Secondo la Florence la maggior parte dei decessi dei soldati, durante la guerra di Crimea, non avveniva nei campi di battaglia, bensì negli ospedali per mancanza di infermieri. A tal proposito, presentando i dati raccolti al governo, riuscì a realizzare il suo progetto di fondazione dell’assistenza infermieristica moderna. Nel 1860 nasce la tavola dell’atlante statistico della Francia grazie ai dati di Minard4. I dati si possono rappresentare anche con rappresentazioni figurative, che evocano cose esistenti: si parla in questo caso di pittogrammi che non esistevano prima del 1930. Il picture language si è diffuso subito dalla Germania agli USA, con le visualizzazioni di tantissimi atlanti statistici. Ad accomunare tutti questi personaggi è il fatto che non erano grafici di mestiere. Otto Neurath è il primo della storia ad assumere un grafico per portare avanti il suo progetto, allo scopo di convincere il governo ma anche il popolo della veridicità delle sue affermazioni. La tree-map usata per rappresentare gerarchie di categorie di dati, esiste dal 1870 anche se solo con la versione 2016 di Office viene inclusa come fattore nuovo nelle new charts: waterfall, histogram, ppt, treemap, etc., esistono moltissimi strumenti già inventati in passato che ancora oggi non sono state ri-scoperti. I fenomeni sono di per sé complessi, perciò non è Fig. 4 - Approccio scientifico e approccio narrativo 4 http://www.datavis.ca/milestones/index.php?query=Minard 206 Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione e dei dati, rappresentandoli ad hoc e secondo il The Guardian non bisogna mai credere alla visualizzazione dei dati, perché di fatto non esiste una visualizzazione oggettiva. Tutto dipende da tre cose: utente, contesto, scopo. L’unico modo per avvicinarsi all’oggettività è moltiplicare la soggettività, avendo piena consapevolezza che non può sussistere una vera rappresentazione oggettiva. Un caso di visualizzazione “ibrida” c’è stato nel 2010, quando è stato creato un grafico del New York Time con un impianto narrativo di 6 slideshow. Un altro caso storico è stata la rappresentazione delle persone uccise con arma da fuoco negli Stati Uniti nel 2010, con età compresa tra 0-100 anni. Con un colore sono stati rappresentati gli anni che avrebbero potuto vivere le persone se non fossero state uccise (parte narrativa), poi c’è la parte analitica che può essere affrontata e capita grazie alla parte narrativa che offre gli strumenti per comprenderla. Si può anche citare l’esempio del 1° progetto di business intelligence, risalente al 2008, ovvero una dashboard analitica di dati inerenti tante scuole, creata da una ragazza americana, finanziata dalla US Navy. Il tool analitico funzionava talmente bene che si decise di metterlo a disposizione dei genitori per aiutarli a decidere quale scuola scegliere per i propri figli. I genitori tuttavia non lo valorizzarono. Allora il prototipo fu ripensato in modo da renderlo intellegibile anche per i genitori grazie ad un processo narrativo precedentemente avviato, cioè ponendo alcune domande ai genitori in merito ai diversi criteri di scelta della scuola, che andavano a scremare i dati raccolti a seconda delle loro risposte. Oggi infine siamo giunti a lavorare sui big data, anche perché i social media fanno ricorso a infiniti dati in tempo reale. Sulla base di questi sono stati creati diversi “cruscotti” per visualizzare i dati con differenti fini. Si sta andando inoltre verso la verbalizzazione del dato, ovvero verso il ritorno al testo basato sui dati, per facilitarne la comprensione anche ad un pubblico non necessariamente edotto. l’output dell’analisi. Ciò che rende l’approccio ibrido “preferibile” rispetto al metodo analitico e a quello scientifico, è che la mera visualizzazione del dato analitico/ scientifico da solo non dà la risposta alle domande strategiche: dunque il dato in sé non può bastare. I confini dell’intelligence sono in continua evoluzione. Nel 2004 il ricercatore sentiva il bisogno di ricercare i dati da solo senza entrare in contatto con chi li possedeva e chi li rappresentava tramite Power Point. Oggi questa esigenza è sempre più sentita, infatti si ricerca il dato grezzo e non un prodotto finito elaborato da altri. Quest’ approccio varia a seconda del livello di conoscenza che le persone hanno di un determinato fenomeno, che influenza la loro interpretazione e di conseguenza gli obiettivi finali; ma un altro rischio che si può correre è non saper cogliere nulla dalla visualizzazione del dato grezzo. La scienza ha un linguaggio proprio e non sempre è di comune comprensione. Ad esempio nel 1999 ha avuto inizio il processo di digitalizzazione delle banche, borsa e trading online. Le linee di trend del mercato ovviamente influenzavano il trader, ma se ci si limita soltanto alla lettura del grafico degli andamenti senza avere altre conoscenze e cognizioni del fenomeno si ha certamente una visione solo parziale e probabilmente fuorviante. Ci sono sempre due obiettivi da focalizzare: data analytics e communication, che vanno amalgamati bene insieme, dal momento che sono entrambi parte parte del vero obiettivo comune. Nel 2014 si è iniziato a lavorare proprio mixando i due obiettivi. Molti infatti stanno dotando gli strumenti di visual analytics con strumenti narrativi che raccontino i dati agevolandone la comprensione. Il dato nuovo è la base della notizia, dopodiché bisogna saperla comunicare. Riepilogando, quindi, non esiste la sola visualizzazione del dato e non esiste una visualizzazione migliore di un’altra, perché dipende sempre dalle conoscenze e competenze del soggetto che le vede. Ciò che cambia è quindi la visual perception. A tal proposito molti giocano sul linguaggio dei numeri Chiara Sammarco 207 Big data e visualizzazione tra analisi e narrazione Riferimenti bibliografici Cairo A., The functional art : an introduction to information graphics and visualization, Berkeley, California: New Riders, 2013. Tufte E. R., Visual explanations : images and quantities, evidence and narrative, Cheshire, Conn.: Graphics Press, 1997. Ciuccarelli P., Lupi G., Simeone L., Visualizing the data city: social media as a source of knowledge for urban planning and management, Cham, Springer, 2014 Serie: SpringerBriefs in applied sciences and technology. 208 L’ascolto della rete e la social media intelligence Tratto dalla lezione di Paola Nannelli «L’ascolto deve essere motivato da obiettivi ben precisi: avere un corretto brief è importante» Social Media Intelligence – Real Time Marketing – Influencer Marketing L’inarrestabile evoluzione tecnologica e la spiccata tendenza dei contenuti web a diventare virali hanno reso il web un canale privilegiato per la rilevazione di dati ed informazioni per finalità di ricerca. Proprio in tale ambito operano realtà come Blogmeter, dal 2007 leader in Italia nella social media intelligence (SMI). Si tratta infatti di un’azienda specializzata nel fornire soluzioni di social media monitoring, analytics e management ad agenzie e aziende. Ciò avviene attraverso l’utilizzo di strumenti in grado di monitorare, analizzare e gestire conversazioni ed interazioni sui social media, che si combinano con un team di analisti e ricercatori esperti nelle dinamiche dei social media. Fig.1 - Social media in Italia: tempo d’uso. Elaborazione Vincenzo Cosenza su dati “Audiweb powered by Nielsen” Social media: ascolto e analisi Per impostare una social media strategy, è anzitutto utile identificare dove poter intercettare gli utenti, e quindi i canali maggiormente presidiati dal proprio pubblico di riferimento. Secondo recenti stime1, Facebook è leader nel mondo a li-vello di utilizzo, seguito da Twitter e Instagram. Focalizzandosi sul panorama italiano, Facebook e Instagram occupano rispettivamente primo e secondo posto per tempo d’uso. Il colosso di Zuckerberg, inoltre, registra il più alto numero di visitatori mensili, seguito da Google Plus. 1 Fig. 2. - Social media in Italia: visitatori mensili. Elaborazione Vincenzo Cosenza su dati “Audiweb powered by Nielsen” Fonte: SimilarWeb/Alexa, gennaio 2016. 209 L’ascolto della rete e la social media intelligence Tali dati devono essere però interpretati al meglio per scongiurarne un utilizzo inappropriato. No-nostante la performance registrata, infatti, Google Plus non si caratterizza come piattaforma particolarmente engaging: non è un mistero che ben pochi siano gli utenti realmente attivi su tale social, poiché per lo più si tratta di profili creati per avere accesso alle attività sui ben più popolati servizi di Google, quali Gmail o YouTube. Altro dato inte-ressante riguarda Snapchat, che supera addirittura Instagram per tempo di utilizzo ma, al contempo, è caratterizzato da un’utenza particolarmente ri-stretta. È importante quindi tenere in considerazione anche tali aspetti e saper leggere correttamente i dati, prima di impostare una qualsiasi strategia di business. Per ottenere, dunque, dati relativi al mondo dei social, è ineludibile il ricorso alla Social Media Research (SMR): essa fa riferimento a tutte le tecniche d’indagine in grado di rilevare dati sulle fonti online di natura principalmente social, vale a dire piattaforme virtuali, generalmente non finalizzate alla ricerca di mercato, a cui gli utenti accedono per creare e condividere contenuti testuali, immagini, video e audio. A differenza quindi di una “ricerca classica”, la SMR si focalizza sul solo ascolto, senza interagire con il pubblico: questo perché immedesimarsi nell’utente è di rilevante importanza per proporre contenuti e azioni che creino interesse ed engagement. Perché è quindi utile analizzare i social media? I vantaggi possono essere vari: • Analizzare la reputazione online; • Analizzare la percezione online di un brand, prodotto, tema o personaggio; • Misurare il ritorno delle attività di social media marketing; • Profilare e segmentare i fan per generare nuovi lead2; • Coinvolgere e supportare i consumatori sui social network. I benefici che derivano dall’analisi dei social media interessano l’azienda nel suo complesso, favorendo l’interazione tra i dipartimenti interni che trovano così nuove occasioni di maggiore integrazione, in passato assai meno frequenti. In particolare, il monitoraggio dei social è utile a: • Marketing e comunicazione, per l’analisi dei bisogni del consumatore e del linguaggio da esso utilizzato; • Relazioni Pubbliche, per l’analisi della reputazione dell’azienda/brand/prodotti e l’individuazione di possibili opinion leader; • Ricerche di mercato, per l’analisi dei trend di mercato in generale e lo studio dei competitor; • Ricerca e sviluppo, per il lancio di nuovi prodotti/servizi e il miglioramento di quelli già esistenti; • CRM, per ottenere un feedback sul lancio dei nuovi prodotti/servizi e individuare eventuali problemi; • HR, per l’Employer Branding (utile a un’efficace selezione del personale) e la gestione dei rapporti industriali. Il work flow della social media intelligence si compone di quattro fasi essenziali (Fig.3): Fig. 3 - Social Media Intelligence: work flow Ascolto, selezione, classificazione e analisi si susseguono in un circuito in continuo movimento. Una volta individuati e analizzati i dati necessari per impostare le proprie azioni strategiche, è necessario continuare ad ascoltare la rete per assicurarsi che la comunicazione veicolata al proprio pubblico sia sempre pertinente e in linea con gli interessi di quest’ultimo. In particolare l’ascolto dei social media, definito anche come social media monitoring o social media listening, si configura come attività sistematica e pianificata di ascolto del passaparola che ha luogo sui social media, finalizzata a comprendere e misurare quando, quanto e come gli utenti parlino di un’azienda, personaggio, brand, settore o tema. l lead rappresenta un potenziale cliente che mostra interesse, a vari livelli, nei confronti di un brand/prodotto o servizio 2 210 L’ascolto della rete e la social media intelligence Lo strumento di Blogmeter utile al social media monitoring si avvale nello specifico di due asset tecnologici molto importanti: • Motore semantico proprietario: permette un’analisi accurata della polarità dei messaggi grazie a focus settoriali. Consente, dunque, una rilevazione di emozioni, percezioni e valori legati a brand e personaggi, e quindi il relativo sentiment3 (negativo, positivo o neutro). Poiché non tutti i messaggi si prestano ad un’analisi del sentiment automatizzata, è possibile, qualora richiesto, effettuarla manualmente, attraverso un apposito team di analisti. Se ne distinguono tre diverse tipologie: • Storico: è utile per l’ascolto retroattivo e quindi per analizzare conversazioni avvenute in passato, generalmente non più di un anno, su un particolare tema. Questo tipo di ascolto permette, ad esempio, di confrontare dati di periodi differenti in modo da poter verificare l’andamento nel tempo delle strategie messe in atto. • On track: è un tipo di ascolto continuativo. • Real time: è una modalità di listening che si è adeguata alle nuove tendenze apportate dal digitale: le conversazioni avvengono live ed è quindi necessario un real time listening. Molte grandi aziende si sono ormai attrezzate con social rooms, stanze per il monitoraggio in tempo reale delle conversazioni online, in particolare per tenere costantemente sotto controllo i “temi caldi” che potrebbero provocare focolai di crisi. L’ascolto in real time, inoltre, risulta un valido strumento anche per ottenere un vantaggio competitivo, monitorando le conversazioni relative a determinate azioni intraprese, quali un evento o il lancio di un nuovo prodotto/servizio, oppure per trarre il massimo beneficio da una situazione di crisi di un competitor. • Indice di rilevanza sintetico: indica il parametro sintetico di misurazione della rilevanza di un post, strumentale all’attivazione di alert qualificati e alla valutazione del rischio reputazionale, aggiuntivo rispetto alle me-triche di rilevanza specifiche della fonte. Una possibile problematica nel processo di ascolto è legata alla gestione degli omonimi, sinonimi, o di ambiguità linguistiche. Come già espresso in precedenza, la classificazione dei messaggi è automatica, ma non tutto è automatizzabile. È questo il caso, per esempio, dei tre marchi presenti in figura: Fig. 4 - Il processo di ascolto: alcuni esempi di ambiguità linguistiche Il sentiment è un indice che misura le emozioni, percezioni e valori (positivi, negativi o neutri) degli utenti legati a un determinato brand, personaggio, prodotto o tema. 3 211 L’ascolto della rete e la social media intelligence In questi casi sarà indispensabile l’intervento di un analista del linguaggio per la disambiguazione dei contenuti dei messaggi. Tale operazione richiederà, ovviamente, un esborso economico maggiore rispetto a una gestione unicamente automatizzata. Ma come si configura nello specifico un processo di social media listening? Si tratta di un percorso che, dal generale al particolare, permette di identificare e analizzare i dati utili per la propria strategia di business. Il tool utile a tale scopo andrà quindi correttamente impostato seguendo precisi passaggi, ciascuno dei quali indaga un ambito ben preciso: 1. Brand Presence: Share of buzz: identifica quanto si parla di un determinato argomento/brand e quindi conteggia il numero esatto di citazioni e post sull’oggetto. In questo modo, per esempio, le imprese sono in grado di quantificare la propria brand presence per capire come muoversi all’interno del mercato di riferimento rispetto ai competitor. Trend temporale: specifica che tipo di impatto sul buzz4 può avere nel tempo una campagna on e/o offline. I trend temporali sono quindi particolarmente utili perché permettono di identificare i picchi di volume di conversazioni, ad esempio in concomitanza di un lancio di prodotto, di un evento o di una situazione di crisi. 2. Topic Analysis: Share of topic: individua le tematiche più discusse e le conversazioni più dibattute in relazione al proprio business. Concept cloud: identifica i concetti più ricorrenti in relazione all’oggetto dell’analisi. 3. Sentiment ed emotion analysis: Analizza in che modo si parla dell’oggetto dell’analisi (bene, male, in modo neutro), oltre che i topic più critici. Inoltre mette in evidenza le emozioni suscitate, evidenziando se ci siano criticità anche in termini emotivi. 4. Analisi fonti: Share of buzz per dominio: indica dove si parla di un determinato argomento (blog, forum, social network, siti di Q&A ecc..). Qualora non fosse presente buzz online, sarebbe opportuno monitorare un tema/prodotto/servizio affine a quello di proprio interesse per identificare dove se ne parla maggiormente. 5. Analisi autori: Identificazione influencer: Permette di individuare i soggetti (blogger, clienti, etc.) che parlano con maggiore assiduità dell’oggetto di ricerca sui social media. Una volta identificati, è opportuno selezionare i più influenti per il proprio pubblico, che siano al tempo stesso il più credibili possibile relativamente al tema in questione, capaci quindi di creare, legittimamente, interesse ed engagement e “trascinare” le conversazioni. F OC U S Tips and tricks sull’ascolto della rete 1. Individuare l’owner dell’ascolto (Chi utilizzerà e beneficerà dell’ascolto? Marketing, PR, CRM, HR, ecc.); 2. Stabilire quando realizzare l’ascolto (Prima? Durante? Dopo?); 3. Definire l’oggetto dell’ascolto (in funzione degli obiettivi di ricerca, dipendenti a loro volta dagli obiettivi aziendali) e un termine di paragone (competitors, benchmark di settore, ecc.); 4. Decidere quali lingue e quali mercati monitorare (non sempre ad un mercato corrisponde una sola lingua e ad una lingua corrisponde un solo mercato); 5. Trovare il budget (tool gratuiti o a pagamento?); 6. Definire il tipo di analisi (qualitativa o quantitativa?); 7. Fissare il tipo di impegno interno (chi eseguirà l’analisi?). Evoluzione dell’ascolto e nuove sfide Una delle più importanti sfide derivanti dall’evoluzione del processo di ascolto è il real time marketing, un approccio al mercato che “Buzz” è un termine onomatopeico di origine inglese che designa un brusio incontrollato. Indica l’insieme delle conversazioni che si generano sul web in riferimento a un determinato argomento. 4 212 L’ascolto della rete e la social media intelligence “metriche d’azione” (o “actionable metrics”), vale a dire condivisioni, like, commenti, etc. Sulla base di queste ultime si potranno poi dedurre da un lato i KPI e dall’altro i parametri di rilevanza (PdR) degli influencer, scartando le “metriche di vanità” (o “vanity metrics”), ovvero degli indicatori che, a differenza delle actionable metrics, instillano un falso senso di sicurezza, ma non rispondono a domande chiave o non consentono di prendere decisioni consapevoli (ne è un esempio il numero dei fan di una pagina o di un profilo). fa leva sulla capacità aziendale di rispondere tempestivamente a eventi e stimoli esterni, siano essi prevedibili o meno. Ad oggi l’unico social che si dimostra concretamente reattivo ed efficace per l’implementazione del real time marketing è Twitter. Blogmeter è in grado infatti di rilevare i tweet degli utenti attraverso il tool Blogmeter Now, il quale fornisce dei feedback immediati per migliorare la propria strategia, oltre che widget personalizzati per eventi e programmi. Blogmeter Now risulta uno strumento molto utile soprattutto in termini di discovery, ovvero per andare a indagare e scoprire tendenze al di fuori del proprio settore/ambito di ricerca e sviluppare maggiore consapevolezza dei contenuti più rilevanti da proporre al proprio pubblico. Se è vero infatti che la creatività premia, è altrettanto vero che deve essere supportata da una buona base di evidence che giustifichi la scelta del tipo di comunicazione e delle strategie impostate. Ulteriore fenomeno in continuo sviluppo è rappresentato dall’influencer marketing, che, nel corso degli anni, si è trasformato in un vero e proprio Paid Media5, rientrando nelle voci di spending annuali delle aziende. Esso si basa sullo sviluppo di relazioni con personaggi che possiedono una certa influenza su una determinata fa-scia di pubblico e che sono quindi in grado di incrementare la visibilità a prodotti/ servizi/brand. I criteri di scelta di un influencer sono diventati nel tempo sempre più complessi e sofisticati, e-sattamente come quelli della scelta di una pianificazione o attività di comunicazione classica, con alcuni parametri specifici dotati dalla peculiarità del mezzo. Individuare l’influencer giusto è fondamentale per rispondere alle esigenze e agli obiettivi (KPI6) posti all’inizio della campagna. È quindi estremamente importante essere ben consapevoli degli obiettivi che si vogliono raggiungere con una campagna di influencer marketing: solo dopo averli identificati sarà possibile definire le Diversi sono i parametri di rilevanza che, grazie alla piattaforma di Blogmeter, possono essere analizzati per una scelta accurata degli influencer: • Settore di influenza • Piattaforme social attive • Ampiezza e geografia dell’audience • Grafo sociale (engagement e relazioni) • Tipologia di audience (Facebook, ad oggi, è l’unico social che permette una targettizzazione approfondita dell’audience) • Credibilità e rilevanza • Contenuti È necessario però sottolineare che, ad oggi, in Italia l’influencer marketing risulta un settore ancora poco regolamentato, a discapito della trasparenza verso gli utenti. In mancanza di direttive specifiche, infatti, sempre più spesso accade che i web influencer omettano di essere stati retribuiti per determinati contenuti postati sui propri profili, generando così diffidenza da parte del pubblico. Proprio per questo motivo acquisisce ancora più importanza la credibilità dell’influencer selezionato rispetto ai propri o-biettivi di business. Una volta implementata la propria strategia di influencer marketing, è possibile misurare la social performance: il continuo ascolto dei social e del I Paid Media sono tutti quegli strumenti di comunicazione che vengono acquistati da un’azienda per ottenere visibilità; rientrano in questa categoria le inserzioni pubblicitarie a stampa, gli spot radio o tv, le sponsorizzazioni, i mezzi outdoor, il direct marketing etc. 6 Il termine KPI (Key Performance Indicator) sta ad indicare un insieme di metriche, come il numero delle visite o delle conversioni, fondamentali per valutare il successo di una campagna di marketing 5 213 L’ascolto della rete e la social media intelligence web permettono infatti di ottenere un feedback costante e immediato rispetto alle actionable metrics e al sentiment legato all’influencer. In genere, le attività “one shot”, basate cioè su un singolo post, non sono particolarmente performanti in termini di ROI ; è consigliabile, piuttosto, incrementare la frequenza dei post, avvalendosi degli influencers in ottica di storytelling. Per maggiori curiosità su questo tema può essere utile visitare il sito di Blogmeter, www.blogmeter. it, dove è disponibile la Top Social Celebrities, un osservatorio periodico sui testimonial più influenti in rete. Francesca Invernizzi 214 L’ascolto della rete e la social media intelligence Riferimenti bibliografici Cherubini S., Pattuglia S., Entertainment e Comunicazione - Target Strategie Media, Franco Angeli, 2012. Di Fraia G., Social media marketing, strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoepli, 2015. Pancaldi V., L’azienda centrata sull’ascolto del cliente, Franco Angeli, 2013. Sitografia www.blogmeter.it 215 FACEBOOK: CREATIVITÀ, ADVERTISING E MEASUREMENT Tratto dalla lezione di Sylvain Querné e Stefano Cirillo «Facebook non è nata con l’obiettivo di rendere il mondo più aperto e connesso, questa è una mission che si è sviluppata nel tempo. Facebook si è adattato alle persone e alla loro esigenza di comunicare» FACEBOOK ADVERTISING - SOCIAL NETWORK - MEASUREMENT Facebook e la sua evoluzione servizi e, nel giro di una decina di anni, di attuare cambiamenti tecnologici molto più importanti come: • Internet.org, che ha l’obiettivo di collegare il miliardo e mezzo di persone nel mondo non ancora connesse; • L’intelligenza artificiale, che permetterà di creare servizi sempre più personalizzati per le aziende: su Facebook Messenger sarà possibile ordinare dei fiori o la pizza, perché a rispondere sarà un’intelligenza artificiale in grado di interagire con il cliente; • Oculus, per la realtà virtuale; • Aquila, ovvero un drone largo come un boing 737 capace di volare per 90 giorni a grandi altezze e di coprire con la connessione internet migliaia di km quadrati. Era il gennaio 2004 quando il giovane Marc Zuckerberg decise di acquistare il dominio Thefacebook.com dando inizio all’era dei social networksites e arrivando nel giro di 10 anni a collegare milioni di persone, tanto che nel corso degli anni Facebook si è posta come mission quella di rendere il mondo più aperto e connesso. Oggi Facebook è rappresentato da 5 principali applicazioni: Facebook, WhatsApp, Instagram, Messanger e i Gruppi. Fig. 1 - internet.org WhatsApp ad oggi collega 1 miliardo di persone, Instagram 400 milioni. Dal punto di vista dell’azienda le due applicazioni sono arrivate alla loro maturità. Nei prossimi anni Facebook si è posta l’obiettivo di sviluppare nuovi modi di comunicare e nuovi Fig. 2 - Mark Zuckerberg durante la presentazione di apertura della F8 a San Francisco, Stati Uniti. 216 Facebook: creatività, advertising e measurement collegati da mobile e che l’80% del tempo speso dalle persone online viene trascorso su device mobili. Non solo Facebook, ma più in generale le aziende hanno notato che il traffico proveniente da mobile ormai supera quello proveniente da desktop. Questa tendenza è confermata anche dal fatto che oggi al mondo ci sono più SIM che persone. In Italia abbiamo in media 1,4 SIM a testa. La metà della popolazione globale ha accesso alla telefonia e ogni giorno 600 mila persone in più hanno accesso ai dispositivi mobili. Ne possiamo desumere che il mobile sia destinato a crescere ancora. Man mano che il mobile si evolve in forme sempre più interattive, diviene uno strumento sempre più importante e indispensabile. Fig. 3 - La platea mentre prova i nuovi Oculus Rift presentati nel corso della conferenza F8 La decisione di sviluppare tecnologie che non hanno niente a che vedere con i social network pone le proprie radici nella mission di Facebook, ovvero rendere il mondo connesso, migliorare la qualità della vita e far comunicare le persone nel miglior modo possibile. In Italia lo smartphone è il mezzo più utilizzato dai soggetti di età compresa tra i 16 e i 45 anni, anche rispetto al mezzo televisivo. Per quanto riguarda il tempo trascorso a guardare video, il 36% del tempo è impiegato a guardare la tv, che detiene il primato di mezzo più utilizzato, ma lo smartphone vanta una percentuale quasi uguale. Il 12% del tempo è dedicato ai video on-demand, il 19% è invece, il tempo speso a guardare i video da desktop. Nel complesso il 52% del tempo Alcuni dati Il crescente sviluppo del mobile ha trainato lo sviluppo del social network. Il mobile sta cambiando e ha cambiato il nostro modo di comunicare; nello specifico caso di Facebook (l’applicazione mobile è nata nel 2008) i dati ci dicono che i 4/5 della popolazione sono Fig. 4 - Il drone aquila 217 Facebook: creatività, advertising e measurement Fig. 5 - Smartphone italiani, 1 su 3, accedono ogni giorno da mobile. Se paragoniamo questo dato agli altri mezzi di comunicazione si può notare che è circa il 30% in più rispetto alla stampa, tre volte superiore rispetto alla radio e più del doppio rispetto al prime time televisivo. Un’altra tendenza interessante riguarda il consumo dei mezzi di comunicazione. Con l’avanzare del multi-screening1, si è arrivati a consumare in 5 ore fino a 7 ore di contenuti, ciò significa che consumiamo più ore di contenuti di quelle che effettivamente impieghiamo. Questo accade perché contemporaneamente utilizziamo più mezzi: ad esempio mentre guardiamo la televisione spesso controlliamo il nostro account Facebook con lo smartphone. trascorso per guardare i video è speso su mezzi digitali, che superano così il tempo dedicato alla visione dell’apparecchio televisivo. Per quanto riguarda il mobile, nello specifico caso di Facebook l’azienda offre tre servizi che hanno raggiunto la soglia di utilizzo mensile di un miliardo di persone: WhatsApp è utilizzata mensilmente da 1 miliardo di persone, Messenger da 900 milioni, mentre Instagram da 400 milioni, sempre su base mensile. I dati giornalieri invece dimostrano che Facebook è ormai divenuto un fenomeno di larga scala, poiché la piattaforma a livello globale è utilizzata da 1 miliardo di persone al giorno. Il 65% delle persone che accedono a Facebook ogni mese vi accedono ogni giorno, e 934 milioni di persone invece vi accedono ogni giorno da mobile. In sintesi ciò significa che la maggior parte delle persone accede a Facebook tutti i giorni e lo fa da mobile. Se guardiamo all’Italia invece il dato cresce: nel nostro Paese accedono a Facebook 27 milioni di persone su base mensile, di cui 25 milioni da mobile. L’81%, ovvero 8 persone su 10, accede ogni giorno: questo significa che 20 milioni di Date tali premesse, come è cambiato il modo di comunicare per le aziende? Oggi le imprese si trovano a dover fare i conti con un soggetto sempre più consapevole. Il contesto nel quale è immerso il consumatore è caratterizzato da un’overdose di informazione, dunque il percorso di acquisto non è più lineare. Tutto ciò che il consumatore desidera diventa a Il multi-screening è la tendenza ad utilizzare più di un mezzo contemporaneamente. 1 218 Facebook: creatività, advertising e measurement portata di “pollice”, ogni informazione, prodotto o servizio è a sua disposizione. In un ambiente così caotico, dove tutto compete con tutto, uno degli obiettivi di Facebook è semplificare, tentando di rendere l’accesso alle informazioni e alla comunicazione molto più semplice e piacevole. Tale obiettivo viene raggiunto non attraverso la ricerca del contenuto, bensì attraverso la scoperta del contenuto. Attraverso complessi algoritmi, Facebook riesce a fornire a ciascun soggetto presente sulla propria piattaforma, un contenuto diverso e personalizzato. In quest’ottica di scoperta del contenuto, Facebook offre alle aziende un’opportunità, quella di poter offrire l’informazione giusta, nel posto giusto e al momento giusto, ma soprattutto alle persone giuste. Oggi ci troviamo all’interno di un cambiamento epocale del modo di vivere e accedere all’informazione. Abbiamo attraversato e stiamo attraversando tre cambiamenti di paradigma che stanno avvenendo sinergicamente: Contemporaneamente, l’introduzione di nuove tecnologie come i filtri per modificare le foto, il 3G e il Wi-Fi, ha accelerato la pervasività del fenomeno. • Il mobile: Facebook è stato in grado di intuire che il passaggio di testimone che avvenne negli anni Cinquanta tra radio e televisione, era destinato ad avvenire anche tra desktop e mobile. Zuckerberg ha reso Facebook un’azienda mobile first, tanto che ad oggi circa l’80% delle revenue provengono da mobile. • I video: negli ultimi anni il tempo trascorso a guardare i video è quadruplicato. Facebook ha introdotto l’auto-play, che permette di far partire il video in automatico senza audio, rispondendo così all’esigenza di guardare video su mobile, ma nel rispetto di chi sta accanto. Il fenomeno sempre più crescente dei video è confermato dai dati: nel 2013 i video visti ogni giorno erano 1 miliardo e nel 2015 si è arrivati a 8 miliardi. Il 75% delle persone guarda almeno un video al giorno e il 70% di essi lo fa da mobile. 1. La fruizione di internet da 100% desktop ora è mobile first; 2. Si è passati dalla ricerca alla scoperta del contenuto, perché oggi è il contenuto stesso ad andare verso il soggetto; 3. Le immagini stanno diventando sempre più importanti anche perché leggere è un processo molto più lento, mentre il nostro cervello ha la capacità di ricordare un’immagine vista anche solo per 13 millisecondi. F OC U S Ice Bucket Challenge L’Ice Bucket Challenge è una campagna virale lanciata dalla ASL Association (Associazione statunitense contro la SLA) con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sclerosi laterale amiotroficae di incentivare le donazioni per la ricerca. Il fenomeno si è diffuso in modo virale sui social media nei mesi di luglio e agosto 2014. L’Ice Bucket Challenge consiste in una sfida a rovesciarsi addosso un secchio di acqua gelata con tanto di cubetti di ghiaccio che letteralmente paralizza i muscoli del corpo, proprio come succede per i malati di SLA che nonostante rimangano mentalmente lucidi, perdono l’utilizzo del proprio corpo. Chi subisce il gavettone nomina altre tre persone, che avranno 24 ore di tempo per raccogliere il guanto, fare la donazione e ripetere Parallelamente anche in Facebook sono avvenuti tre importanti cambiamenti: • Le fotografie: inizialmente gli strumenti per caricare le foto su Facebook erano poco customizzati, l’unica attività permessa era l’upload delle foto. A partire dal 2010 Facebook ha dato la possibilità di taggare le foto e questa nuova opzione ha fatto si che avvenisse una larga diffusione delle fotografie sulla piattaforma. 219 Facebook: creatività, advertising e measurement l’intera operazione. Il tutto viene filmato e postato su Internet. 440 milioni di persone hanno visto almeno 1 video di Ice bucket challenge, quindi circa 1 persona su 3, per un totale di 10 miliardi di video visualizzati. Inoltre, nell’arco dei primi 30 giorni di campagna, 3 milioni di persone hanno fatto una donazione, permettendo all’associazione di raccogliere 100 milioni di dollari, che è 36 volte la cifra raccolta negli stessi giorni nell’anno precedente. una ricerca, si è basata sulla convinzione che a una tale tipologia di giocattoli sarebbe stato interessato solo un pubblico maschile. F OC U S L’importanza della ricerca e il caso Star Wars Fig. 6 - Action figure Star Wars raffigurante Rey Perché la misurazione e le ricerche sono importanti per le aziende? Per capirlo, si farà riferimento a un caso in cui la ricerca non è stata utilizzata e questo ha rappresentato un problema per l’azienda. Stiamo parlando del caso legato a “Star Wars” che ha coinvolto Hasbro. Il merchandise della saga cinematografica, gestito da Hasbro, spazia dal monopoli alle action figure. L’azienda ha ipotizzato che una saga di fantascienza potesse interessare solo ai maschi e che quest’ultimi non fossero interessati a un giocattolo che rappresentasse una donna. Hanno così creato una serie di giocatoli estromettendo la figura di Rey, il personaggio principale femminile dell’ultimo film della saga, ma stando a quel che si è letto sui social network e sui giornali, Rey è proprio il personaggio più apprezzato del nuovo “Star Wars” da parte del pubblico, a tal punto che gli appassionati hanno lanciato l’hashtag #WheresRay, ponendo Hasbro al centro di un caso mediatico e costringendo l’azienda a rimandare in fabbricazione tutti i giocattoli per inserireil personaggio di Rey. Questo è accaduto perché l’azienda, invece di effettuare I problemi della misurazione Oggi esistono due grandi mondi: 1. I media tradizionali (tv, radio e stampa) 2. I media digitali Il problema di queste due tipologie di mezzi è che parlano due lingue differenti. Nei media tradizionali si vendono e si comprano GRP target2, nel digitale invece si compra e si acquista per CPM3. Gli inserzionisti che pubblicano annunci CPM impostano il prezzo addebitabile per la pubblicazione di mille annunci e pagano ogni volta che un annuncio viene visualizzato. Esistono diversi sistemi di misurazione che permettono di misurare l’impatto delle campagne o gli accessi al web, ma le metriche di misurazione non sempre riescono a essere integrate e questo rende il processo più complicato. I problemi di misurazione possono però essere causati anche da altri fattori, vediamone tre: Il Gross Rating Point è una metrica che permette di sapere la percentuale di persone che, in media, sono state sottoposte ad una campagna pubblicitaria. 3 CPM indica il costo per 1000 impressioni. 2 220 Facebook: creatività, advertising e measurement 1. La prima difficoltà riguarda la mancanza di informazioni precise relativamente al collegamento tra l’esposizione e il device utilizzato. Ogni soggetto utilizza più di un device; su Facebook il 65% delle impression avviene sui dispositivi mobili, ossia mobile o tablet, ma spesso la conversione avviene sul desktop e questa dinamica comporta dei problemi in sede di misurazione. Dal momento che la misurazione tiene conto del device e non della persona, infatti, se l’utente cambia dispositivo per la conversione, questo genera delle complessità. “ricevi lo sconto” perché in questi determinati casi esistono correlazioni solide tra il click e le conversioni. Invece non esiste nessun dato che certifichi che le persone che cliccano di più su un annuncio generino più valore per l’azienda. Una strategia vincente è quella di ottimizzare la reach, ossia cercare di colpire il più alto numero possibile di utenti che rientri nel proprio target e che abbia quindi determinate caratteristiche. 2. Il secondo problema riguarda l’utilizzo dei cookie. Il cookie è un file di testo nel quale vengono memorizzate delle informazioni che i vari siti web possono utilizzare per facilitare la navigazione dell’utente. Il limite dei cookie è che permette di riconoscere solo il browser e ogni utente è rappresentato da circa 4-5 browser, quindi diventa problematico stimare le persone che sono state realmente esposte a una campagna. Facebook ha creato un framework di misurazione che aiuta gli advertiser a pianificare le proprie campagne pubblicitarie, chiamato RRR Reach Resonance Reaction, in cui si vanno a catalogare diverse tipologie di campagne a seconda degli obiettivi: • Area reach: quante persone sono state esposte alla campagna pubblicitaria? • Area resonance: dopo la campagna la persona si ricorda la campagna pubblicitaria che ha visto? • Area reaction: che cosa ha generato la campagna in termini di conversioni (vendite, iscritti, ecc)? Il Framework RRR 3. La terza problematica è l’utilizzo del click come metrica per valutare una campagna o l’accesso ai siti. Il Click-through rate4 è una metrica che indica quante persone esposte a una campagna pubblicitaria hanno cliccato sull’annuncio. Ma in realtà il click non è una metrica attendibile, per due ragioni: Area reach: per quanto riguarda le campagne si è notato che ottimizzare la reach è sempre la strategia migliore. All’interno di un target definito dall’azienda, bisogna cercare di colpire il maggior numero di persone possibili con la frequenza adeguata, affinché si abbia la più alta possibilità che queste persone vadano a convertire. Dal punto di vista della reach, Facebook assolve un ruolo importante, si può affermare che ormai questo social network può essere definito a tutti gli effetti un mezzo di comunicazione, avendo raggiunto una dimensione pari al mezzo televisivo. Ciò sta a dimostrare l’importanza di investire anche su Facebook, perché esso rappresenta un ulteriore medium nel quale costruire una reach incrementale. Immaginando un tipico piano media in cui sono presenti sia • spesso si clicca sugli annunci per sbaglio; • esistono soggetti che in seguito all’esposizione a una campagna, non cliccano sull’annuncio, ma se la ricordano e in un secondo momento visitano il sito per approfondire. Gli annunci dunque possono generare valore, ma il click non è la metrica di misurazione corretta. Nella maggior parte dei casi tra click e revenue non c’è correlazione. Le campagne CPC (click per click)5 sono utili solo nei casi in cui esista una call to action ben precisa, come per esempio “partecipa al concorso”, Click-through rate è una metrica che misura l’efficacia di una campagna pubblicitaria online. Il CPC è il costo che si paga ogni volta che un utente clicca sull’annuncio. 4 5 221 Facebook: creatività, advertising e measurement la televisione che i media digitali, Facebook è in grado di generare una reach incrementale di 12 punti percentuali in più, ciò significa che è in grado di raggiungere un pubblico che è stato esposto esclusivamente a Facebook e che non si è riusciti a raggiungere tramite il mezzo televisivo. Pensiamo ad esempio ai light tv viewer6, che rappresentano un target molto interessante per le aziende: su questi utenti Facebook riesce a raggiungere una reach più alta nel 14% dei casi per persone esposte esclusivamente su Facebook, mentre per coloro che hanno una scarsa fruizione televisiva, ma che comunque vengono esposte alla pubblicità su questo media, Facebook ha la capacità di aumentare la frequenza nel 18% dei casi. In conclusione, grazie a Facebookle aziende riescono a raggiungerei light tv viewer più volte e a migliorare quindi l’efficacia delle loro campagne televisive. che una campagna focalizzata sul prodotto è generalmente molto efficace. Al fine di ottenere buoni risultati è preferibile raggiungere meno persone ma con una frequenza alta, piuttosto che raggiungere molte persone ma con una frequenza molto bassa. Si è verificato che, per far sì che l’attività generi dei risultati, è necessario ottenere almeno 3 impression a settimana a persona. Su Facebook, oggi, il tipo di comunicazione più efficace è il video. In termini di brand awareness i primi 10 secondi di video sono i più importanti: fino al 74% dell’impatto totale sulla brand awareness è dato dalle persone che hanno visualizzato il video per i primi secondi. Grazie al sistema chiamato Facebook commercial pixel8, inserendo un apposito codice nel proprio sito la piattaforma è in grado di tracciare le conversioni avvenute grazie alla pubblicità su Facebook. Il sistema si basa sullo studio di due gruppi con le medesime caratteristiche socio-demografiche esposti con la stessa frequenza agli stessi contenuti pubblicitari, ma su media differenti: uno dei due gruppi viene esposto anche alla pubblicità su Facebook. In questo modo è possibile verificare quante persone esposte alla pubblicità su Facebook hanno effettivamente acquistato il prodotto, capire chi è la persona che ha comprato il prodotto e capire anche a quale dei due gruppi questa persona appartenga. A questo punto, dal momento che i due gruppi sono uguali, si può dire che se c’è un incremento di conversioni, queste sono dovute all’unico elemento di differenza dei due gruppi, ovvero la pubblicità su Facebook. Area resonance: Facebook è in grado di capire se una persona è stata esposta a una campagna pubblicitaria sulla propria piattaforma o meno, e tramite un test su due gruppi con stesse caratteristiche sociodemografiche, si è in grado di comprendere se grazie alla campagna su Facebook l’azienda sia riuscita ad aumentare la propria brand awareness7. Esistono tre aree di indagine per quanto riguarda l’area della resonance: • il ricordo della campagna • il ricordo del prodotto • la raccomandazione del prodotto Per quanto riguarda in particolare l’analisi del ricordo, sono state formulate delle linee guida per aiutare a creare dei contenuti che possano interessare gli utenti. Si è notato ad esempio Francesca Corbia Con il termine light tv viewer si fa riferimento a utenti con alto livello di istruzione, maggior potere di consumo e caratterizzati da una bassa fruizione televisiva. 7 Brand awareness, o anche Notorietà di marca, è un parametro che indica quanto la marca e i suoi prodotti o servizi sono conosciuti e riconosciuti nella mente dei consumatori. 8 Il pixel di Facebook è un frammento di codice JavaScript presente su un sito web che consente di misurare le campagne pubblicitarie, di ottimizzarle e definirne il pubblico. 6 222 Facebook: creatività, advertising e measurement Riferimenti bibliografici Sportelli A., La pubblicità su Facebook. Solo i numeri che contano, Hoepli, Milano, 2015. Conti L. e Carriero C., Facebook Marketing. Comunicare e vendere con il social network n. 1, Hoepli, Milano, 2014. Marshall P., Krance K., Meloche T., Ultimate Guide to Facebook Advertising, Entrepreneur Media, 2015. 223 Sezione 6 LE NORME DEL BUON COMUNICATORE: QUALI REGOLE OSSERVARE? IL SISTEMA DELL’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA Tratto dalla lezione di Vincenzo Guggino, Monica Davò e Salvatore Pastorello «Fare comunicazione commerciale oggi non può prescindere dall’avere dei rudimenti di tipo giuridico per capire se il progetto che si sta sviluppando è almeno a grandi linee corretto» AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA - CITTADINO-CONSUMATORE - PUBBLICITÀ Vincenzo Guggino è Segretario dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Lo IAP è l’ente con personalità giuridica che dal 1966 regolamenta la comunicazione commerciale, per una corretta informazione del cittadinoconsumatore e per una leale competizione tra le imprese. Queste finalità vengono perseguite grazie a una struttura consolidata che applica norme chiare e procedure rapide ed efficaci. La base normativa dello IAP è il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, applicato da due organi indipendenti: il Comitato di Controllo, a tutela dei cittadini-consumatori e il Giurì, l’organo giudicante. Fanno parte dell’Istituto e riconoscono il Codice i principali soggetti del mondo della comunicazione commerciale: le Aziende, le Agenzie di comunicazione, i Mezzi e le loro Concessionarie. I soggetti, nel momento in cui aderiscono al sistema di Autodisciplina accettano per statuto il rispetto del codice, rispetto che si riversa a cascata sui loro aderenti. Gli Enti aderenti tramite loro rappresentanti compongono il Consiglio Direttivo dell’Istituto, il cui compito principale è quello di approvare le norme del Codice, elaborate e proposte dalla Commissione di Studio. Prima dell’Autodisciplina non c’era nessuna legge dello Stato che fissasse dei principi di correttezza di comunicazione commerciale. La pubblicità, anche se ingannevole, non era sanzionabile e dunque il consumatore era facilmente oggetto di raggiro. L’autodisciplina nasce dunque perché c’era la consapevolezza da parte del mondo pubblicitario che senza dare delle regole certe non si fosse in grado di arginare le derive più deleterie della pubblicità. Quindi è un intento autoprotettivo, il compito principale dell’autodisciplina è far sì che la pubblicità non venga scredidata agli occhi del pubblico. Lo IAP difende la buona comunicazione e le buone pratiche professionali e tutela i cittadini impedendo la diffusione di pubblicità ingannevoli, volgari o offensive. L’Istituto offre agli operatori del settore la possibilità di tutelare le loro campagne pubblicitarie davanti al Giurì1, mettendo nel contempo a disposizione ulteriori servizi a protezione della creatività. Agenzie, aziende e professionisti possono, ad esempio, depositare presso lo IAP progetti creativi o campagne di comunicazione non Il Giurì della pubblicità è un giudice privato, la cui istituzione deriva da un accordo fra tutti gli operatori che esercitano la loro attività nel campo della pubblicità, diretto a garantire l’osservanza e l’applicazione di un Codice di autodisciplina che gli operatori medesimi si sono dati. 1 225 Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria ancora diffuse, garantendosene la titolarità e proteggendoli da imitazioni e appropriazioni indebite. Inoltre, in un giorno o poco più, il Comitato di controllo può esaminare, su richiesta, le campagne prima che vengano finalizzate e diffuse, per verificarne la conformità al Codice di Autodisciplina. Questo servizio offre ad aziende e agenzie la ragionevole certezza di diffondere una comunicazione corretta, riducendo il rischio che nascano contestazioni successive. La sanzione, in caso di accertata non conformità al Codice, è l’immediata cessazione del messaggio. Per garantire la massima trasparenza, tutte le decisioni sono pubblicate sul sito www.iap.it tutela del cittadino-consumatore. Vi è poi una parte di tutela che segue una richiesta delle aziende che segnalano un comportamento scorretto ad opera di soggetti direttamente o indirettamente concorrenziali. I membri del Giurì e del Comitato di controllo, scelti tra esperti che non svolgono attività professionale in materia di Autodisciplina, giudicano il tutto con assoluta indipendenza e imparzialità. L’Autodisciplina è guardata con favore dall’Unione Europea e numerose direttive spingono gli Stati Membri a riconoscere il valore dell’Autoregolamentazione e a predisporre accordi funzionali all’insegna di un’efficace coregulation. Tutte le ingiunzioni hanno un’efficacia immediata, in via provvisoria, e un’efficacia definitiva dopo circa 10 giorni. L’efficacia della sanzione è stabilita dall’articolo 38 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale che recita il seguente testo: Il sistema autodisciplinare garantisce anche la correttezza dei messaggi pubblicitari nell’ottica della cosiddetta pubblicità comparativa agli articoli 13, 14 e 15 del Codice: Art. 13 - Imitazione, confusione e sfruttamento Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale. Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto. Art. 38 – Decisione del Giurì Quando la decisione stabilisce che la comunicazione commerciale esaminata non è conforme alle norme del Codice di Autodisciplina, il Giurì dispone che le parti interessate desistano dalla stessa… Le decisioni del Giurì sono definitive. Il Giurì può anche predisporre una pubblicazione dell’ingiunzione: Art. 14 – Denigrazione È vietata ogni denigrazione delle attività, imprese o prodotti altrui, anche se non nominati. Art. 40 – Pubblicazione delle decisioni …Il Giurì può disporre che di singole decisioni sia data notizia al pubblico, per estratto, con i nomi delle parti, nei modi e sugli organi di stampa ritenuti opportuni, a cura dell’Istituto… Art. 15 – Comparazione È consentita la comparazione quando sia utile ad illustrare, sotto l’aspetto tecnico o economico, caratteristiche e vantaggi dei beni e servizi oggetto della comunicazione commerciale, ponendo a confronto obiettivamente caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili tecnicamente e Chiunque può segnalare un messaggio ritenuto scorretto con un semplice form online. Il 90% delle decisioni autodisciplinari sono prese a 226 Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria rappresentative di beni e servizi concorrenti, che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi. materie giuridiche e scientifiche. Il Comitato raccoglie segnalazioni da parte di singoli cittadini oppure da organizzazioni di consumatori d’ufficio. Tra le attività principali del Comitato vi è quella disciplinata dall’articolo 6 del Codice: Un esempio è quello della diatriba Plasmon vs Mulino Bianco dove è stato stabilito con la Pronuncia numero 148/2011 l’intento denigratorio di Plasmon nei confronti di Macine Mulino Bianco. Art. 6 - Dimostrazione della verità della comunicazione commerciale Chiunque si vale della comunicazione commerciale deve essere in grado di dimostrare, a richiesta del Giurì o del Comitato di Controllo, la veridicità dei dati, delle descrizioni, affermazioni, illustrazioni e la consistenza delle testimonianze usate. Fig. 1 - La pubblicità dei biscotti Plasmon da cui si evince l’intento denigratorio nei confronti del prodotto Macine Mulino Bianco, che viene indicato come un biscotto per adulti che si spaccia invece per un biscotto per bambini Fig. 2 - Il corso offerto da Mondadori per imparare lo spagnolo in soli 30 giorni Monica Davò è responsabile del Comitato di Controllo dello IAP. Il Comitato di Controllo è l’organo garante degli interessi generali dei consumatori, composto da professionisti esperti dei problemi dei consumatori, di tecnica pubblicitaria, di mezzi di comunicazione, di In questo caso il Comitato ha deciso di intervenire vista l’impossibilità da parte dell’inserzionista di dimostrare la veridicità dell’affermazione commerciale. 227 Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria Agli articoli 8, 9 e 10 del Codice si tutela invece il cittadino consumatore da messaggi violenti o che fanno leva sulla paura e sulle convinzioni morali della persona: Fig. 3 - Una televendita che tenta di comunicare il messaggio che il cloro presente nell’acqua del rubinetto provoca malattie Art. 8 - Superstizione, credulità, paura La comunicazione commerciale deve evitare ogni forma di sfruttamento della superstizione, della credulità e, salvo ragioni giustificate, della paura. Fig. 4 - Un inserto del quotidiano Il Giornale che pubblicizza un libro sull’Islam, dove compare la foto di un terrorista dell’Isis nell’atto di tagliare la testa a un ostaggio Salvatore Pastorello, funzionario della Segreteria dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, si occupa di Autodisciplina e Comunicazione Commerciale Digitale. Il web non può essere caratterizzato dall’assenza di regole nella comunicazione commerciale: anche nelle forme di online-advertising deve prevalere la tutela del consumatore e la leale concorrenza tra le aziende. Art. 9 - Violenza, volgarità, indecenza La comunicazione commerciale non deve contenere affermazioni o rappresentazioni di violenza fisica o morale o tali che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari o ripugnanti. Art. 10 - Convinzioni morali, civili, religiose e dignità della persona La comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali, civili, religiose. Essa deve rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere. Tutte le norme e i principi del Codice di Autodisciplina sono applicabili a qualunque comunicazione commerciale diffusa attraverso qualsiasi mezzo, inclusi quelli digitali. Spesso nelle forme di comunicazione digitale diventa rilevante la questione della riconoscibilità del messaggio pubblicitario in quanto tale, della sua identificazione. 228 Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria Art. 7 – Identificazione della comunicazione commerciale La comunicazione commerciale deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti. della pubblicità comportamentale online; avere chiarimenti sui cookies e sulla privacy online; esercitare il diritto di non ricevere OBA; ricevere aiuto in caso di problemi con il meccanismo di scelta. In tal modo si è resa disponibile una base di riflessione sul tema ampio del rispetto delle regole, suscettibile di ulteriori sviluppi ed elaborazioni. Un esempio è quello dei profili Instagram dei personaggi pubblici dove la natura promozionale deve essere chiaramente indicata, ad esempio attraverso la esplicita citazione del marchio nella didascalia. F OC U S IAP: LA STORIA 1966 Nasce il codice della Lealtà Pubblicitaria 1976 Il tribunale di Milano riconosce l’Autodisciplina Pubblicitaria come “ordinamento derivato” e avalla le decisioni del Giurì 1997 Lancio sito IAP: i casi giudicati sono pubblicati in tempo reale 1999 La Cassazione stabilisce che il Codice è espressione della correttezza professionale. L’Autodisciplina apre alla pubblicità comparativa diretta 2001 Riconoscimento della personalità giuridica dell’Istituto 2008 Il Codice rinominato Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale 2015 Protocollo IAP-Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Competenza sulla pubblicità comportamentale online (OBA) 2016 Online il documento IAP sulla comunicazione commerciale digitale. L’Istituto e il Codice compiono 50 anni Fig. 5 - L’attrice Manuela Arcuri che sul suo profilo Instagram pubblicizza una marca di latte C’è poi il tema della Pubblicità Comportamentale Online (OBA). La pubblicità comportamentale online, in inglese “Online behavioural advertising” (OBA), è una tipologia di advertising che si basa sulla raccolta di dati dell’attività online di un dispositivo/terminale al fine di fornire annunci su misura, basati sugli interessi manifestati attraverso la navigazione in rete. Si differenzia dalla pubblicità contestuale, che si basa invece sul contenuto del sito in cui compare l’annuncio e non sui dati di navigazione. Lo IAP si occupa di tutelare gli utenti anche sotto questo aspetto. Tra gli strumenti utilizzati figura il portale Your Online Choices che permette di approfondire funzioni e possibili vantaggi Vincenzo Romanelli 229 Il sistema dell’autodisciplina pubblicitaria Riferimenti bibliografici Grazzini B., Autodisciplina pubblicitaria e ordinamento statuale, Giuffrè, 2003. 230 PUBBLICITÀ E COMUNICAZIONE COMMERCIALE: IL QUADRO NORMATIVO Tratto dalla lezione di Paolina Testa «La pubblicità online sta cambiando il modo di fare comunicazione sia come contenuti, sia come modalità di diffusione. L’interattività ci costringe ad una rivoluzione culturale legata al modo con cui confrontarsi con la comunicazione» AUTORITÀ GARANTE - PUBBLICITÀ INGANNEVOLE - AMBUSH MARKETING Il concetto di pratica commerciale non solo alcune specifiche comunicazioni promozionali ma, anche, l’attività di marketing aziendale in quanto espressamente studiata per creare il bisogno di salute nei consumatori (in questo caso, sensibilizzare sulla riduzione del colesterolo), non solo coloro i quali potessero presentare problematiche affini a quella che il prodotto si prefiggeva di ridurre ma, anche, tra il pubblico in senso generico. La campagna fu ritenuta scorretta perché creava bisogni e allarmismi sulla salute che, in realtà, non sussistevano. La nozione di pratica commerciale ha subito diverse modifiche e ampliamenti nel tempo, attualmente si intende «qualsiasi comportamento suscettibile di ripetizione (azione, omissione, condotta, dichiarazione, comunicazione commerciale), posto in essere da un’impresa nei confronti dei consumatori o di una microimpresa prima, durante o dopo un’operazione commerciale1». Sotto il mantello di pratica commerciale annoveriamo altre pratiche oltre alla pubblicità e alla comunicazione commerciale, tra cui attività di marketing e post-vendita come, ad esempio, le istruzioni per il funzionamento di un prodotto e tutto ciò che può essere contenuto nella sua confezione. Ciò significa che siamo di fronte a un concetto molto protettivo, soprattutto in considerazione della regolamentazione delle attività di marketing tanto che, in base a questa normativa, il garante dell’autorità competente - Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - può sottoporre a verifica anche il posizionamento del prodotto. Le categorie di pratica commerciale scorretta Esistono due categorie di pratica commerciale scorretta, individuate in base al parametro di giudizio di ingannevolezza che prende in considerazione il consumatore medio del gruppo di riferimento. Da approfondire è il concetto di consumatore “particolarmente” vulnerabile: spesso viene associato a categorie particolarmente svantaggiate (socialmente ed economicamente) ma questa etichetta è stata anche attribuita in maniera molto controversa al consumatore femminile (vulnerabile) nei casi relativi, soprattutto, a quei prodotti che suggeriscono la cura o il miglioramento degli inestetismi. Una categoria merceologica spesso “sotto i riflettori” è quella dei prodotti tipo salutistico: ad esempio, con il provvedimento pubblico del 2009 relativo al prodotto Danacol, l’autorità censurò Art. 18, comma 1, lettera d - Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 146 1 231 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo La prima categoria di pratica commerciale scorretta è la pratica che il Codice del Consumo2 definisce ingannevole. A loro volta, queste pratiche si dividono in: • (art. 21) azioni che: - contengono informazioni non corrispondenti al vero; - (pur non contenendo informazioni ingannevoli) sono idonee in qualsiasi modo, anche attraverso la loro presentazione complessiva, a indurre in errore il consumatore; possiamo trovarci di fronte a pratiche commerciali definite aggressive (artt. 24-26) e, cioè, idonee a limitare la libertà della audience come, ad esempio: • un’esortazione diretta ai bambini perché comprino o inducano i genitori a comprare un determinato prodotto; • lasciar intendere al consumatore che abbia già vinto o vincerà un premio, quando non esiste alcun premio o quando l’azione volta a reclamare il premio è subordinata al versamento di denaro. • (art. 22) omissioni: - omettono informazioni rilevanti ai fini della scelta del consumatore (esempio: le tariffe telefoniche); - presentano le informazioni in modo ambiguo, oscuro o intempestivo; - non indicano il loro intento commerciale (come nel caso della pubblicità occulta oppure degli articoli di giornale presentati come parte del contenuto informativo che però nascono a seguito di accordi di carattere commerciale); Procedure e sanzioni In caso di illecito, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), organo amministrativo indipendente, interviene d’ufficio o su segnalazione. Da sottolineare che, nel momento il cui l’Autorità ne riceve una, si avvale del diritto di aprire un procedimento e sanzionare l’azienda a seconda del caso. In media, circa il 90% dei casi esaminati conduce a sanzioni. I suoi provvedimenti sono, poi, suscettibili di impugnazione da parte del TAR del Lazio o del Consiglio di Stato i quali appurano se, nell’applicare la legge, l’Autorità abbia seguito la procedura. Il lavoro dell’Autorità è un lavoro costante, che prevede una parte d’intervento d’ufficio applicando le norme dell’ultima versione del regolamento risalente al 2013 che le permette di “giocare d’anticipo”, attraverso l’individuazione di filoni di intervento cioè, settori merceologici ritenuti meritevoli di particolare attenzione e monitoraggio. Casi più sottili da analizzare si verificano nel momento in cui l’azienda decide di inviare un prodotto a un blogger che si occupa del settore di riferimento di sua spontanea volontà. In questo caso ci troviamo di fronte a un chiaro caso di pubblicità occulta a meno che non si utilizzino dovuti accorgimenti per segnalare l’inserimento del prodotto per fini commerciali, come le menzioni o altri metodi per esplicitare la natura dell’inserimento. - sono idonee ad indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso; Le pratiche commerciali scorrette sono sanzionate pesantemente; a seconda della gravità del caso, ci si può trovare davanti a: • sospensione provvisoria; • sospensione inibitoria; • (art. 23) in ogni caso considerate ingannevoli. Secondo il Codice del Consumo, inoltre, Legge Italiana emanata con il d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in materia di diritti del consumatore, che utilizza come parametro di giudizio il cnsumatore medio del gruppo di riferimento a cui ci si rivolge di volta in volta. 2 232 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo • pubblicazione della delibera; • sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di 5.000 a un massimo di 5.000.000 di euro (la sanzione storicamente più esosa è stata emessa ai danni di una nota compagnia telefonica per un totale di 3.800.000 euro). Esistono, però, altri poteri che l’Autorità può esercitare prima di aprire un procedimento. Uno di questi è rappresentato dalla moral suasion: l’autorità scrive all’azienda e la invita a modificare il proprio comportamento, ottenendo un impegno da parte dell’azienda stessa a modificare fattivamente il proprio comportamento. È bene sottolineare che gli impegni non vengono mai accettati “sotto forma di pubblicità”, ma in casi di attivo atteggiamento atto a contrastare l’inganno ai danni del consumatori. Il ravvedimento operoso da parte dell’azienda chiamata a rispondere della propria comunicazione commerciale scorretta prima che essa venga sospesa o modificata è un criterio di cui l’Autorità tiene conto nel momento in cui eroga la sanzione. Fig. 1 - Pubblicità del vino Libero Un altro caso che ha fatto “scuola” risalente al 2013 vede come protagonisti due detersivi concorrenti: Dash e Dixan. Alcuni esempi Il primo dei casi presi in esame, nonché uno dei più recenti (aprile 2016), è quello del procedimento nei confronti di Eataly e di vino Libero, un vino “libero” per due motivi: perché prodotto con uve coltivate in terreni confiscati alla mafia e perché (apparentemente) libero da solfiti. In realtà, seppur contenente una quantità minima di solfiti, il vino non è totalmente privo di conservanti. In questo caso, l’AGCM si è avvalsa della facoltà di esercitare moral suasion in modo tale che Eataly assumesse specificamente l’impegno di completare le informazioni relative ai solfiti contenuti nel vino a mezzo di una comunicazione nei pressi degli scaffali. Eataly non si è adeguata e quindi, con il provvedimento n. 25980, è stata sanzionata. Fig. 2 - Pubblicità comparativa Dash, 2013 Benché secondo l’AGCM e il suo relativo codice di condotta la pubblicità comparativa diretta è lecita, a fronte di una segnalazione, l’Autorità Garante ed il Giurì, organo decisionale dello IAP (Istituto per l’Autoregolamentazione Pubblicitaria) si sono trovati in discordanza in quanto quest’ultimo, con la decisione n. 30/2013, 233 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo ha decretato che la comparazione fosse corretta e veritiera, in discordanza con il provvedimento n. 24522 del settembre 2013 dell’Autorità che riteneva la comparazione scorretta ed ingannevole poiché i misurini utilizzati per la comparazione erano di capacità diversa. Di esempi se ne potrebbero fare davvero tanti, ma possono essere tutti consultati sul sito www. agccom.it che raccoglie i provvedimenti presi fino ad ora in merito alla pubblicità ingannevole. stabilisce che ci troviamo davanti a concorrenza sleale in caso di: • (n. 1) confusione; • (n. 2) denigrazione, agganciamento; • (n. 3) ingannevolezza I diritti di terzi con i quali la comunicazione è suscettibile di interferire La comunicazione è suscettibile di diritti assoluti di altri soggetti; un caso è quello del diritto d’autore ed i diritti connessi, sancito dalla legge 633/1941 che ha come oggetto: • le opere protette (software, design, banche dati); • i diritti patrimoniali e il diritto morale; • la durata dei diritti patrimoniali. Un altro diritto che potrebbe “entrare in rotta di collisione” con la comunicazione commerciale è il diritto di marchio (trademark), regolamentato dagli articoli 7 e 28 del Codice della Proprietà Industriale. Essi definiscono: • cos’è un marchio; • la caratteristica di diritto assoluto limitato sotto il profilo merceologico; • la durata; • l’esclusività, che si estende anche all’uso nella sola comunicazione commerciale. Fig. 3 - Risposta di Dixan alla pubblicità comparativa di Dash, 2013 Norme di carattere privatistico Inoltre, il marchio può essere usato da terzi solo in caso di pubblicità comparativa. Accanto alle normative di carattere pubblicistico, esistono anche delle norme di carattere privatistico che regolano la comunicazione pubblicitaria commerciale e tutti i comportamenti dell’impresa che possono essere soggetti alla normativa sulla concorrenza sleale (su segnalazione di un imprenditore o un’impresa concorrente). Gli articoli 7 e 10 del Codice Civile e la relativa elaborazione giurisprudenziale, disciplinano i diritti della personalità e, cioè l’illecito utilizzo dell’immagine senza consenso, anche nel caso delle celebrity. L’evoluzione giurisprudenziale ha allargato il concetto fino a comprendere elementi esteriori Nella fattispecie, l’art. 2598 del Codice Civile 234 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo Ambush Marketing con i quali un certo personaggio si presenta al pubblico. La definizione più esplicativa di ambush marketing non arriva da un giurista ma da un uomo di business: Jerry Welsh, Managing Director di American Express, lo definisce l’«associazione non autorizzata di un marchio o di un prodotto con un evento di grande risonanza mediatica». Questa tecnica di marketing è difficile da identificare e, in linea di massima, non sempre illecita poiché l’organizzatore dell’evento in questione non può sempre presidiare e avere l’esclusiva sull’intero mondo concettuale che l’evento può evocare. F OC U S Con sentenza n. 766 del 21 gennaio 2015 a conclusione della causa promossa dagli eredi di Audrey Hepburn nei confronti di un noto brand di prodotti tessili per la casa, il Tribunale di Milano si è pronunciato in favore della tutela del diritto di immagine dell’attrice, riconoscendo indebito l’utilizzo di alcuni elementi iconici (abbigliamento, ornamenti, acconciatura) che, anche se non direttamente riferibili a lei sola, per la loro peculiarità ed il loro valore evocativo sono idonei a richiamare immediatamente nell’immaginario del pubblico l’attrice, alla quale tali elementi sono univocamente collegati. Distinguiamo tre tipi di ambush marketing: • ambush by association: associazione del proprio marchio/prodotto all’evento o ai suoi segni distintivi; • ambush by intrusion: inserimento del proprio marchio/prodotto all’interno dell’evento; • saturation ambush: intensificazione delle attività pubblicitarie in corrispondenza o in prossimità di un dato evento. La decisione conferma un orientamento giurisprudenziale che riconosce il valore evocativo di quegli elementi iconici che evochino nell’immaginario collettivo le fattezze di una celebrity. Tra i precedenti, la decisione della Pretura di Roma del 1984 che ha riconosciuto la lesione del diritto d’immagine di Lucio Dalla per essere stati riprodotti in una campagna pubblicitaria di un autoradio un copricapo a zucchetto di lana e di un paio di occhialetti a binocolo (elementi esteriori distintivi del cantautore). Uno dei primi (e più importanti) casi di ambush marketing si è verificato nel 1984 durante le Olimpiadi di Los Angeles. In quell’occasione, lo sponsor ufficiale era Fuji ma Kodak aveva acquistato tutti gli spazi pubblicitari disponibili, compresi quelli prima e dopo ogni trasmissione televisiva. Il risultato fu un’operazione di ambush marketing perfettamente lecita. Fig. 4 - Comunicazione commerciale sanzionata perché ritenuta lesiva dei diritti di immagine di Audrey Hepburn Fig. 5 - Premiazione degli atleti sul podio: Kodak sullo sfondo, 1984 235 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo Un altro esempio mutuato dallo sport è quello verificatosi durante le Olimpiadi di Sidney nel 2000. Lo slogan delle Olimpiadi era: “Share the Spirit” e Qantas, la famosa compagnia aerea australiana, ha compiuto un vero e proprio “agganciamento” al claim della kermesse sportiva lanciando una campagna pubblicitaria il cui claim era “The Spirit of Australia”. Daniela Stefania De Pascalis Fig. 6 - Pubblicità di Qantas, 2000 236 Pubblicità e comunicazione commerciale: Il quadro normativo Sitografia Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, www.agcm.it Istituto per l’Autoregolamentazione Pubblicitaria, www.iap.it 237 LE OPEN CLASS PUBBLICITÀ DOMANI. QUATTRO SFIDE PER L’ADVERTISING CHE VERRÀ Tratto dalla lezione di Fausto Colombo e Paolo Iabichino «La nostra società vive una fase di trasformazione su più fronti: si tratta di interferenze nel presente, tutte riguardanti il futuro». F. Colombo «Marketing e comunicazione devono rivedere le proprie conoscenze, i propri assetti e le proprie funzioni, perché il futuro prossimo venturo potrebbe serenamente decidere di rinunciare ai loro servigi». P. Iabichino ADVERTISING - FUTURO - SFIDE nuovi e profonde trasformazioni sociali, culturali e antropologiche. Nella prima Open Class del Corso di Alta Formazione UPA, Fausto Colombo (Direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) e Paolo Iabichino (Chief Creative Officer - Group Ogilvy & Mather Italy) hanno cercato di immaginare, insieme a Paola Marazzini (Agency Head Google Italia) e a Ettore Bologna (Responsabile Attività Mediche e Socio-Assistenziali Fondazione Ferrero) il futuro della comunicazione pubblicitaria. Informare l’audience in merito al prodotto oggi non basta più, la scelta vincente è coinvolgerla: siamo nell’era in cui il pubblico è parte attiva del processo di comunicazione, è sempre più critico, informato e consapevole. Oggi la rappresentazione pubblicitaria diventa people oriented1, una comunicazione esistenziale e fortemente orientata ai destini delle persone attraverso un racconto meaningful2, una diffusione di informazioni di marca che è ricca di significato e che lascia al pubblico spunti, pensieri e considerazioni nuove. In una società che cambia, che evolve senza una direzione definita, in una continua riformulazione di idee, credenze e teorie, il ruolo della pubblicità diventa quello di accettare la sfida del cambiamento, intercettando le grandi trasformazioni e mettendole in scena attraverso l’advertising. Un nuovo modo di fare comunicazione che varia gradualmente: il cambiamento viene intercettato e diventa protagonista del racconto della pubblicità, facendo emergere stili di vita Ci sono tematiche sociali e culturali che vanno affrontate in modo credibile e pertinente, ecco perché, rispetto al passato, siamo di fronte a un cambio di paradigma. Per fare pubblicità non partiamo più da un consumer insight3, ma da una tensione culturale. People oriented: orientata alle persone. Meaningful: ricca di significato. 3 Consumer insight: esprime in forma sintetica un bisogno non soddisfatto del consumatore. 1 2 239 Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà drasticamente. Lo sbaglio comune, poi, è la distinzione netta tra italiani e migranti. I non italiani non sono una singola comunità, ma una pluralità di comunità. L’integrazione, quindi, deve essere multilaterale. Gli stessi migranti devono interfacciarsi e integrarsi non solo con la popolazione ospitante, ma anche con le altre comunità presenti sul territorio. Il problema dell’integrazione, quindi, è complesso, ma necessario. Un’altra questione è la rappresentazione della multiculturalità da parte dei media italiani: non vengono considerati i migranti nelle strategie di comunicazione. La società presenta un vuoto nella sua rappresentazione pubblicitaria, la grande fetta della popolazione costituita dai migranti costituisce una fascia non raccontata, che però fruisce dei contenuti trasmessi dai media. Non siamo ancora attrezzati per capire come la multiculturalità possa essere una possibilità di business, per ora lasciamo che siano le comunità di migranti a gestire le attività di comunicazione. La pubblicità, infatti, si è spesso sforzata di affrontare questo fenomeno, ma spesso affacciandosi timidamente alla tematica, più che affrontandola. È invece necessario che le Ma quali saranno le tematiche che l’advertising si troverà ad affrontare nei prossimi anni? Le sfide saranno diverse e con molte sfumature, ma possono essere riassunte in quattro grandi temi che segneranno il prossimo futuro: 1. Multiculturalità 2. Nuove famiglie 3. Consumatori senza denaro 4. Nuovi anziani Multiculturalità. Viviamo in una società multiculturale e questo aspetto sarà ancora più evidente in futuro. Se prendiamo in considerazione l’Italia, molti sono i luoghi comuni che dovrebbero essere sfatati. Pensiamo ad esempio alla rappresentazione del migrante in Italia. I media ci restituiscono spesso l’immagine di un cittadino maschio, ma in realtà oltre il 50% della popolazione straniera in Italia è costituita da donne. Inoltre, la percentuale del tasso di immigrati presenti in Italia è costante, non a causa di nuove immigrazioni, ma a causa delle nuove nascite. È interessante ancora vedere come in qualche caso se non ci fossero i migranti, la popolazione italiana diminuirebbe Fig. 1 - Campagna Benetton “Face of the city” 240 Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà marche intercettino in modo efficiente il tema della multiculturalità. Un esempio concreto è Benetton, che sostiene la questione da tempo, da quando ancora dell’immigrazione in Italia si parlava appena. “Face of the city” è una campagna che sottolinea il cambiamento di una società in continua evoluzione, una campagna che focalizza l’attenzione sul volto della singola modella, un volto che è il risultato di un’elaborazione analogica e digitale di tutte le facce che si possono trovare nelle sei principali capitali della moda: Milano, Parigi, Londra, New York, Berlino e Tokyo. L’immagine finale da vita all’abitante ideale di ogni singola capitale, un melting pot tanto acclamato dall’azienda trevigiana nella sua comunicazione, oggi diventato realtà. sviluppati, composta da madre, padre e figli, ndr.) ad una pluralità di modelli familiari. Questa transizione dal “vecchio” al nuovo modello è dovuta a diverse cause: ragioni sociali, economiche e culturali che non hanno fatto altro che alimentare l’instaurazione di nuclei familiari sempre più nuovi e diversificati, in cui non è più ovvia la presenza di due genitori, maschio e femmina, e di uno o più figli, propri. Il rischio, per i media, è quello di incappare in una sbagliata ed esasperata rappresentazione della tematica. Talvolta, infatti, la tendenza comune è quella di semplificare una questione molto ampia andando ad individuare un elemento controverso: basti pensare alla rivendicazione dei diritti civili all’interno delle comunità LGBT e alle rappresentazioni pubblicitarie che spesso i media ci hanno propinato negli anni. La pubblicità ha l’obbligo, verso i propri interlocutori, di affrontare ogni tendenza culturale e sociale in modo maturo e veritiero, senza strumentalizzare la problematica. Nuove famiglie. «Il papà è del genere che appena a casa, saluta con un “ciao, cara”. La moglie è la regina dell’elettrodomestico, dai fornelli alla lavatrice, però vestita come se dovesse uscire subito. Il bambino è un “frugoletto tutto pepe” e, tanto per aggravare le cose, magari anche saggio, specializzato nello storpiare il nome del prodotto una, due, tre volte. La bambina è un bonsai della mamma che la imita maldestramente quando utilizza prodotti di bellezza. La interroga sugli ingredienti se si tratta di cibi. Attende fiduciosa la fine del ciclo di lavaggio se siamo sui detersivi. E, soprattutto, niente pieghe sui pigiami. La famiglia tipica della pubblicità italiana la si vede al momento della sveglia. Dopo nove ore di sonno, sembra appena andata a letto. I capelli sono ordinati, i pigiami appena stirati, gli occhi per niente gonfi». Così Emanuele Pirella4 descriveva ironicamente la famiglia della pubblicità italiana, una pubblicità che è progredita, sorpassando gli schemi passati, superando un modello di famiglia che ha pervaso tutte le comunicazioni pubblicitarie per oltre 50 anni ma che, ad oggi, non esiste più, non è più realistico. Attualmente, infatti, esistono realtà familiari nuove, si è passati dalla famiglia nucleare (una comunità riproduttiva diffusa soprattutto nei paesi Fig. 2 - Frame spot Vodafone «Bisogna avere pazienza, ma magari, invece, no. Magari invece è arrivata l’ora di avere coraggio, di lanciarsi. Sì, perchè, in fondo, non siamo fatti per aspettare», così recita Fabio Volo in uno spot Vodafone, un filmato in cui l’azienda telefonica testimonia il suo appoggio alle famiglie omogenitoriali, un esempio di come spesso le aziende affrontino questioni di interesse comune, Emanuele Pirella è stato un pubblicitario, giornalista e scrittore satirico italiano. 4 241 Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà strumentalizzandole. Questi nuovi modelli familiari hanno fatto emergere «forme di solidarietà che rappresentano le nuove forme di socialità, è a questo che si dovrebbe guardare come novità, non allo stereotipo sociale che è spesso comunicato dai media».5 F OC U S Napster era un programma di file sharing creato da Shwn Fannin e Sean Parker. Utilizzava un sistema molto simile al funzionamento dell’instant messaging. Venne lanciato nel 1999 e si diffuse su larga scala a partire dal 2000. Attualmente è un servizio legalizzato a pagamento che prevede un periodo di prova gratuita di 30 giorni. Consumatori senza denaro. Siamo in un’era in cui aumentano le diseguaglianze sociali, in cui le persone scivolano progressivamente verso lo stato di povertà, ma siamo anche in un’epoca in cui c’è una forte tendenza a sostituire la presenza del denaro e del consumo nelle nostre vite, con forme di scambio che diventano una rappresentazione di benessere. Un fenomeno emerso grazie anche al sostegno della rete che, con la sua gratuità, ha contribuito allo sviluppo della cosiddetta sharing economy6: un’economia dello scambio, del baratto, ma non del dono. Uno sharing nato alla fine degli anni Novanta con Napster e che continua a svilupparsi su ogni settore merceologico. Un tema che sarà sempre più dilagante in pubblicità, nella vita di ogni persona e nel DNA di ogni azienda, per andare incontro alle esigenze dei consumatori senza denaro, una condizione che ci si augura sia transitoria. I nuovi anziani. La popolazione mondiale sta progressivamente invecchiando. La società diventa longeva, le condizioni di vita migliorano. Gli anziani sono una tribù con bisogni ed esigenze diverse dalla vecchia popolazione di pensionati Fig. 3 - Campagna Dove – Pro Age Fausto Colombo, open class “Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà”, 1 aprile 2016. Sharing economy: economia della condivisione. 5 6 242 Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà a cui la società era abituata. Persone sempre più attente, istruite e connesse. Ecco che le marche si muovono in questa direzione, proponendo prodotti diretti esclusivamente ai non più giovani e la comunicazione, di conseguenza, si adegua, utilizzando linguaggi e soggetti che accolgano le esigenze dei nuovi pensionati. C’è chi, come Moses Zneimer, ha fatto degli over 45 il suo principale interlocutore, proponendo prodotti, servizi, programmi TV, interi canali con palinsesti creati ad hoc, testimonial apprezzati, ma che sul volto presentano più di qualche ruga; ha creato un tipo di comunicazione nuova, quella zoomers oriented7. la maggior capacità di spesa e che soprattutto, ha meno preoccupazioni rispetto ai giovani. Cittadini non più stanchi della loro condizione, con grande curiosità e voglia di imparare anche dalle nuove generazioni, con una grande predisposizione al cambiamento, a stare al passo con l’innovazione. Pronti a vivere la propria condizione in serenità, a godersi la vita dopo gli svariati anni di sacrifici, con tutti i mezzi che la nuova era mette loro a disposizione. Gli anziani diventano, quindi, i soggetti principali delle comunicazioni pubblicitarie, come nello spot Nike, in cui un gruppo di non più giovani assume le caratteristiche tipiche dell’adolescenza. Vengono mostrati mentre evadono di casa, nel cuore della notte, di nascosto dalle proprie mogli, per un appuntamento inderogabile: la partita di calcetto con gli amici. F OC U S Moses Zneimer Canadese, ma originario del Tagikistan, Znaimer è un innovatore nel campo dei media. Ha una lunga esperienza in campo televisivo che l’ha portato a sperimentare molto. Sua ad esempio l’idea di lanciare CityTv, un’emittente televisiva nata nel 1972 a Toronto, che costituisce il primo esperimento di Urban tv al mondo. Un format che ha anticipato i social media, trasformando gli utenti in creatori di contenuti. Znaimer aveva progettato il palinsesto come una struttura da condividere. Nel 2008 ha dato vita a ZoomerMediaLmited, network di TV, radio, giornali cartacei e portali, specializzato nelle news e nell’entertainment dedicato agli over 45 canadesi. Moses li chiama Zommers (boomers with zip) mescolando l’appartenenza alla generazione dei Baby Boomers (la più grande mai creata) con il concetto di “zip”, energia. Perché, proprio come cita il famoso pay-off8 rivisitato, loro possono continuare a farlo! Fig. 4 - Frame spot Nike “Still doing it” Ilenia Di Paola L’advertising si muoverà, tendenzialmente, in questa direzione, pensando sempre di più a quelli che oggi sono definiti come i nuovi anziani: una nuova fetta di popolazione che, ad oggi, ha Zoomers oriented: una comunicazione dedicata ad un’audience over 45. Pay-off: è la parte finale del messaggio pubblicitario che tende ad enfatizzare la comunicazione. 7 8 243 Pubblicità domani. Quattro sfide per l’advertising che verrà Riferimenti bibliografici Iabichino P., Gnasso S., Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono, Hoepli, 2014. Iabichino P., Invertising. Ovvero, se la pubblicità cambia il suo senso di marcia, Guerini e Associati, 2009. Colombo F., Borcia Artieri G., Del Grosso Destrieri L., Pasquali F., Sorice M., Media e generazioni nella società italiana, Franco Angeli, 2012. 244 Data-Driven Digital Strategy Tratto dalla lezione di Rosella Serra e Marianna Ghirlanda «Nella confusione del percorso d’acquisto del consumatore c’è un mondo di segnali da intercettare, per impostare la migliore strategia di comunicazione.» Micro-moments – Strategia Omnichannel – Data-driven Storytelling Fig. 1 - Connessione da smartphone e consumi “on the go”, © The Future’s Company. Nel 2020 cinque miliardi di persone avranno accesso a una connessione a Internet, e potranno usufruire dei suoi benefici. Questo semplice dato ci fa capire quanto il mondo, e il modo di vivere dei suoi abitanti, stia cambiando grazie alla tecnologia, e si trovi nel mezzo di una delle massime rivoluzioni della sua storia, della quale siamo tutti spettatori e in qualche modo attori. Ognuno di noi oggi, in diversa misura, accede ormai al web con i diversi device di cui dispone, e sempre più spesso lo fa contemporaneamente, in multicanale. Tanto è vero che si stima che, nei paesi più sviluppati, il 90% delle interazioni fra persone sia screenbased, avvenga cioè tramite tecnologia. 245 Data-Driven Digital Strategy È così che allora trova fondamento l’assunto “We don’t go online, we live online”. Ciò che vive solamente offline è da considerarsi ormai sulla via dell’obsolescenza. Ma se è vero che il mondo sta traslocando sul web, chi fa ordine in questa mastodontica mole di informazioni, relazioni e opportunità? In questo compito si è consolidato con autorevolezza il ruolo di Google, nato nell’ormai lontano 1998 in un garage di Mountain View da un’idea di Larry Page e Sergey Brin, e che da allora ha contribuito in maniera pesante a questa grande transizione. Così, la sua mission iniziale: «raccogliere il massimo delle informazioni e metterle a disposizione di tutto il mondo», si è dovuta modellare a questi cambiamenti, e la Search basilare del primo motore di ricerca, algoritmo dopo algoritmo, è diventata Google Now, che con i dati raccolti costantemente e in tempo reale si è prefissata l’obiettivo di aiutare ogni utente nelle necessità quotidiane, e di migliorare per questo la sua vita. Aiuto che arriva anche dai suoi prodotti e servizi, di cui usufruisce oggi un miliardo di persone, e che diventerà sempre più “avvolgente”, se così si può dire, una volta che saranno di uso comune i prossimi sviluppi della domotica e dell’ internet of things, l’internet delle cose. Va da sé che, se la mission è quella di aiutare l’utente ogni volta che ne ha bisogno, l’attività di Google apre una gigantesca quota di opportunità per aziende e investitori. Gigantesca almeno quanto la mole di dati che Google raccoglie a partire dai bisogni degli utenti. La chiave per sfruttare queste opportunità, per le aziende, è principalmente quella di farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto, e nel modo giusto. “Winning the micro-moments in the customer experience”, dev’essere questo quindi l’obiettivo che le imprese devono perseguire: palesarsi agli occhi dell’utente quando questi avrà espresso un suo bisogno a Google, e accompagnarlo nel modo migliore finché non avrà compiuto la sua scelta, lungo i “micromomenti” che scandiscono il percorso di ricerca, dal bisogno fino all’acquisto. Ma si tratta di un percorso che può essere anche molto confuso e frastagliato, fatto a tentoni, e pieno di segnali anche inconsapevoli che bisogna saper essere in grado di intercettare. Ed è per questo che a chi fa business è richiesto di adattarsi, nei nuovi ruoli che questo processo crea: non più tanto di Marketers c’è bisogno, ma di veri Consumer Scientists1, che sappiano avere confidenza con i dati e utilizzarli per produrre insights affidabili. Ma anche questo può non bastare, se non si è abili nel conciliare capacità analitiche e creatività, e saperle fondere pressoché in tempo reale. Per questo bisogna puntare a un advertising che sappia farsi spazio agevolmente nei micromomenti del bisogno; perché il consumatore, oltre che essere un decisore razionale e informato, può essere anche molto emotivo. Ai creativi è quindi richiesta la capacità di costruire una relazione empatica e di impatto con esso. Allo stesso tempo, proprio alla luce del fatto che sempre più spesso i bisogni vengono espressi in mobilità, e in multiscreen, un’altra grande responsabilità per gli investitori e anche per la stessa Google è quella di mettere in piedi una user experience quanto più comoda e funzionale possibile, oltre che esteticamente apprezzabile. Nei meandri della Customer Experience Capiamo bene quindi che se si vuol fare la differenza e imporsi nel tempo, nessun aspetto può essere lasciato al caso. E il segreto del successo passa per alcune direttrici fondamentali: la conoscenza approfondita del proprio consumatore, l’adattamento della struttura aziendale alle innovazioni, l’adozione della tecnologia in ogni ambito del proprio business e il costante monitoraggio delle proprie azioni, attraverso cui migliorarsi. Questo percorso – nel quale la strategia aziendale si modella nel modo migliore per raggiungere ogni utente e potenziale cliente secondo le 1 Figure che studiano i bisogni delle persone in quanto consumatori di beni e servizi, e che analizzano come le scelte di questi siano condizionate dalle modalità di accesso alle informazioni necessarie agli acquisti. Strumento sempre più importante in questa ricerca è l’analisi dei big data. 246 Data-Driven Digital Strategy sue abitudini e preferenze – passa per tre fondamentali approcci: See, Think, Do. In che cosa consistono? È soprattutto in questo ambito che diventa importante l’analisi dei dati, per identificare cosa riesce a orientare l’utente verso le conversioni, parziali o definitive che siano. -Do: assimilare e ottimizzare la customer experience. Nessuna analisi e ricerca sui dati delle preferenze dei consumatori sarà utile e proficua, se non si è in grado di integrare le indicazioni prevalenti all’interno dei processi aziendali, sia decisionali che pratici. Un aspetto fondamentale in questo senso riguarda le esperienze di acquisto in multichannel. È indicativo infatti che in Italia, ancora il 98% degli acquisti avvenga all’interno dei punti vendita e non online. Però è allo stesso tempo interessante notare che, dal 2010 ad oggi, l’accesso in store si è quantitativamente ridotto del 55%, ma si è praticamente raddoppiato il tempo di permanenza per ogni visita. Ciò significa che il consumatore integra i diversi canali di accesso alle informazioni. E non è un caso se il 90% dei consumatori dispiega più di un device, nel proprio processo di acquisto. Questo ci fa capire che è importante che le aziende impostino una strategia Omnichannel4, in cui il consumatore riesca a non percepire alcuna differenza, mentre si approccia a un determinato brand attraverso ognuno dei suoi touchpoints. Alla luce di tutto questo, è fondamentale che le aziende adottino una visione onnicomprensiva del Customer Journey. Non è un aspetto di poco conto, è al contrario qualcosa che può incrementare non poco i propri ricavi. Un’impresa deve ormai essere cosciente che un consumatore rilascia una miriade di segnali attraverso il proprio comportamento, sia online che offline. Saper interiorizzare questi segnali all’interno delle proprie campagne è una sfida tutto sommato nuova per chi fa advertising, ma è una sfida che vale la pena accettare. -See: Identificare i momenti che contano, tramite dati e ricerche. Il monitoraggio dei momenti, nell’arco della giornata, in cui un utente ha espresso necessità, e del modo attraverso cui l’ha fatto, è uno strumento fondamentale per capire come questo si muova, quali canali attivi (mobile, desktop, offline, visite in store) e con quale frequenza. L’intercettazione di un “path to purchase” dell’utente è una pratica importantissima in questo caso. Così da poter capire quali sono le occorrenze che facilitano il suo accesso alle informazioni, e quali sono invece quelle che lo ostacolano: «Data are crucial to understand what consumers do, but researches help to understand why»2. -Think: Dare valore a ognuno dei propri touchpoints. Più si comprende il percorso di un consumatore, più sarà facile predisporre i propri punti di contatto con esso nella maniera a lui più funzionale e soddisfacente. In questo caso, ci si può aiutare predisponendo un ‘Digital datadriven brand funnel3, che identifichi il livello progressivo di attenzione e di engagement dell’utente ai propri messaggi: • cold lead: segnali di attenzione volontari ma con un basso livello d’impegno; • warm lead: segnali di interesse più specifico, con una ricerca di informazioni attiva; • hot lead: conversioni parziali, in cui l’utente approfondisce la sua attenzione; • client: conversione decisiva, con l’acquisto di ciò a cui si era interessato; • top client: l’acquirente diventa brand ambassador, raccomandandolo alla sua rete. 2 Trad.: «I dati sono cruciali per capire cosa i consumatori fanno, ma le ricerche aiutano a capire il perché.» Joris MerksBenjaminsen, Online Brand Identity, Adfo Books, Amsterdam, 2015. 3 Il Digital data-driven brand funnel è la declinazione digitale, e basata sui dati, del tradizionale percorso di acquisto che si instaura tra brand e consumatori, attraverso le fasi di Awareness, Consideration, Intent, Conversion, Loyalty. In questo caso, l’analisi dei passaggi intermedi alle fasi è condotta tramite i dati di navigazione degli utenti. 4 Adattamento delle proprie strategie di comunicazione e di vendita alle specifiche caratteristiche di ognuno dei canali, fisici o tecnologici, attraverso cui avviene il contatto fra impresa e clienti; dando a questi canali un tono omogeneo caratterizzante l’impresa nel suo insieme e l’intero processo d’acquisto. 247 Data-Driven Digital Strategy Alla ricerca del Consumer Intent ed engaging, il programmatic buying (vero astro nascente dell’advertising sul web, con una crescita di investimenti economici praticamente raddoppiata negli ultimi due anni negli USA) sta sempre più richiedendo che questa creatività si riesca ad adattare anche a spazi più limitati e “fugaci”, ma non per questo meno impattanti. Il programmatic implica quindi un data-driven storytelling5, che riesca a suscitare l’engagement maggiore in base alla specifica navigazione da parte dell’utente. E la creatività potrà risultare più efficace quanto più sarà actionable, ovvero capace di far compiere un’azione specifica al suo destinatario. Questo perché il motore di ricerca si sta sempre più trasformando da fonte di informazioni a veicolo di azioni, e questo vale per qualsiasi dispositivo venga utilizzato (a tal proposito è utile ricordare che l’advertising sulla search è sempre il più efficace e proficuo, perché fa leva sulla ricerca – da parte dell’utente – della soluzione per soddisfare un bisogno percepito proprio in quel momento, ndr.). Il rischio, che è in verità molto fondato, è che gli utenti lamentino la troppa pervasività dei messaggi a cui sono esposti. È un rischio che può essere però aggirato mettendo in campo una pubblicità “rilevante”, che venga percepita come utile da chi naviga. Il fenomeno è più riscontrabile per esempio nel video advertising, e in tal senso lo “skip” è una cartina tornasole molto utile per capire la forza di un messaggio sugli utenti. Eppure, secondo una recente ricerca, il 60% degli utenti non riesce a ricordare l’ultimo ad che ha visto online. Quindi, cosa rende una pubblicità online memorabile? Innanzitutto la piena identificabilità del brand, in un annuncio che sia esteticamente piacevole e che dia la possibilità di interagire. In minor misura incide il contenuto stesso dell’annuncio, come anche la sua dimensione. Quanto all’espressione delle potenzialità creative e all’adattamento della creatività ai media online utilizzati, le imprese possono ancora crescere molto. L’idea da tenere Il sottointeso di quanto detto finora – ed è un aspetto che non può passare inosservato – è che la targettizzazione sociodemografica non è più un criterio affidabile su cui basare la propria strategia. O perlomeno non lo è più come poteva esserlo in passato. Il nostro “vivere online” infatti dice molto di più su quello che siamo. La nostra navigazione e la ricerca pressoché continua di informazioni e soluzioni ci caratterizza esponenzialmente più di qualsiasi altro criterio. Dalla rete è possibile raccogliere informazioni praticamente irrecuperabili altrove, a tal punto che i dati ormai ci dicono che chi si affida solo a indicatori demografici per allestire e diffondere una campagna, rischia di perdere fino al 70% dei potenziali consumatori, soprattutto quelli che si informano tramite mobile (ovvero ormai la stragrande maggioranza). Se è vero che già prima dell’attuale rivoluzione tecnologica era possibile avere misurazioni sull’effettiva reach dei messaggi pubblicitari e delle seguenti conversioni, le metriche a cui abbiamo accesso oggi hanno reso questa conoscenza molto più dettagliata e affidabile, più estesa e insieme più accurata. Questa conoscenza così approfondita dell’ambiente entro cui ci si muove non può non condizionare l’impostazione e la fase creativa di una campagna pubblicitaria. L’assunto «vincere la battaglia dell’attenzione non è facile e non è scontato» è ancor più vero oggi in una rete così satura di messaggi. Il consumatore di oggi è connesso, interessato e attento; e nel suo contatto con i brand si aspetta esperienze sempre più fatte su misura per lui. I brand devono per questo prendere atto che l’advertising puro non basta più, che qualsiasi interazione e conversazione è brand communication. È anche per questa ragione che la pubblicità online sta sempre più fondendo creatività e posizionamento. Se per molto tempo YouTube è stato il mezzo più adatto a diffondere una creatività più strutturata Il data-driven storytelling è l’adattamento del contenuto della propria strategia comunicativa, della storia che si vuole raccontare al potenziale consumatore, secondo i data di cui si è in possesso. Dati che riguardano la navigazione stessa dell’utente, le sue abitudini e preferenze, ma anche riguardanti il contesto ambientale ed eventuale in cui si svolge la navigazione. 5 248 Data-Driven Digital Strategy Integrare questi dati con tutti quelli paid, acquistati; quindi sia i dati di navigazione raccolti e venduti da terze parti, ma anche le reazioni degli utenti alle proprie precedenti campagne, in termini di ricerche indotte, di acquisti e fidelizzazioni, e di condivisione delle proprie esperienze con la rete di contatti di ognuno. O ancora utilizzare dati earned, acquisiti, tramite il monitoraggio delle attività degli utenti sui social, nell’engagement e nelle condivisioni dei propri contenuti. Ma anche in generale tutte le informazioni ricavate tramite il proprio CRM (il Customer Relationship Management), e quindi per esempio le sottoscrizioni a newsletter, le frequenze di acquisto dei propri prodotti o i rapporti con l’assistenza. Insomma, tutto e in maniera oculata, pur di costruire intorno ad ogni singolo utente un’esperienza su misura e rilevante. a mente in questo caso è che «la buona creatività può sopperire a un piano media mediocre, ma un buon piano media non può sopperire alla mancanza di creatività»6. Verso uno Storytelling algoritmico Quindi, come conciliare nel migliore dei modi forza creativa e rilevanza sul consumatore giusto? Innanzitutto incrociando ogni dato a disposizione riguardante l’utente e il suo tipo di navigazione (audience-driven strategy), contestualizzando ogni messaggio al posto e all’ambiente circostante il destinatario (environmental relevance), declinando - come detto - il messaggio su qualsiasi device (multiscreen), aumentando al massimo l’interazione con l’utente (engaging experience). Oltre a tutto questo, non può mancare la successiva verifica dell’efficacia delle azioni, per fare tesoro delle indicazioni ricevute con un utilizzo costante di queste, non solo nel momento in cui vengono prodotte (measurement). È fondamentale che le misurazioni non vengano sottovalutate. Bisogna sempre chiedersi e verificare cosa producano le proprie azioni. Ad esempio, se la propria campagna abbia prodotto più brand awareness, ad recall o consideration; oppure se la campagna sia in grado di spingere i potenziali consumatori a fare ricerche sul proprio brand e sui propri prodotti; oppure ancora chiedersi quali aspetti della propria campagna possano essere migliorati per aumentare la performance del brand. F OC U S Buone pratiche di Data-driven Storytelling Come i brand possono avvicinarsi al potenziale cliente in maniera creativa? Ecco alcuni esempi: Il marchio Post-It ha sfruttato gli spazi programmatic con banner al cui interno ci sono le versioni digitali dei suoi tipici fogliettini adesivi, su cui il navigatore può appuntare note personali. Quando questi ritroverà su un altro sito lo stesso banner Post-It, vi leggerà ciò che lui stesso aveva scritto precedentemente. Altro esempio di uso intelligente dei banner è quello dell’NBA Store, che carica differenti prodotti, con differenti testimonials, in base al luogo in cui avviene la navigazione e alle condizioni meteo in tempo reale. O ancora il brand Axe, che per la sua campagna “Romeo Reboot” ha concepito trailers della storia di Romeo e Giulietta che, sulla base dei diversi profili degli utenti che guardano il video, possono produrre fino a 100mila combinazioni differenti, in termini di contenuto, tono, ambientazioni e musica. E con quali segnali si possono produrre questi insights? Con tutti quelli provenienti dalle proprie fonti, siano esse owned, paid o earned. Sono owned, posseduti, tutti i dati ricavati dalle azioni compiute dall’audience sulle proprie piattaforme, quindi ad esempio il tipo e il tempo di navigazione realizzati sul sito da un singolo utente, a quale tipo di informazione questo si sia affidato, le conversioni che ha attivato o quelle abbandonate. 6 «Great creative can overcome a poor media plan. But I don’t think the opposite is true. Those that marry the two (resonant creative which is environment-aware) stand to gain a huge advantage in the minds and wallets of consumers.» Mike Zeman, Direttore NA Digital Marketing Netflix. 249 Data-Driven Digital Strategy Fig. 2 - La campagna Post-It tramite Banner interattivi Fig. 3 - La campagna NBA Store tramite Banner data-driven Un ulteriore esempio di come sfruttare le diverse tecnologie è quello di Pedigree, che ha creato un’App per proprietari di cani, sulla quale si possono segnalare gli smarrimenti. Il sistema poi mostra banner specifici a chi sta navigando nella zona dello smarrimento, mettendo in contatto il proprietario con chi ha eventualmente ritrovato il cane. È un sistema attraverso cui tra l’altro Pedigree può accumulare una gran quantità di dati sui cani e sui loro possessori. 250 Data-Driven Digital Strategy Su YouTube per farsi vedere contenuto, la piattaforma in sé, e la distribuzione: Un capitolo a parte nell’ambito della creatività dell’online advertising, ma anche del rapporto tra Google e gli investitori pubblicitari, merita YouTube, proprio per il potenziale di awareness ed engagement che è in grado di dispiegare.È sì una piattaforma ricca di possibilità, ma basta considerare il fatto che su di essa vengono caricate 400 ore di video ogni minuto per rendersi conto che si tratta di un’infrastruttura grandissima, e che per questo è in teoria il posto migliore per nascondere un video, che si perderà nella miriade della totalità di contenuti. Per di più, i brand videos non sono certo avvantaggiati, se consideriamo che l’80% di essi riceve in media meno di 10 mila visualizzazioni. Per quanto riguarda i video caricati, ci sono tre grandi tipi di contenuti presenti. C’è l’user-generated content, ovvero il materiale pubblicato da utenti semplici. Si tratta della grande maggioranza, ma salvo casi particolari, questi ricevono un numero contenuto di visualizzazioni, e solitamente sono sprovvisiti di pubblicità (in pre-roll o all’interno). Poi ci sono i brand videos, che però la piattaforma considera come materiale user-generated, e quindi anch’esso sprovvisto di pubblicità. Il ruolo più importante è appannaggio dei contenuti creati da sistemi complessi, che possono essere influencers, youtubers, artisti, editori. Si tratta dei contenuti molto seguiti, che ricevono la gran parte delle visualizzazioni. Questo tipo di materiale è invece “monetizzato”, poiché la pubblicità è presente e i ricavi vengono divisi fra YouTube e i creatori stessi dei contenuti. Ma a parte i video e le pubblicità, aziende e investitori hanno molteplici possibilità per sfruttare tutte le potenzialità di YouTube, attraverso tutte le sue features: le pagine di ricerca, le pagine canale, le sottoscrizioni, le playlist, i “suggeriti”, i commenti ai video e così via... Ma come sfruttare al meglio le occasioni date dal video advertising? Non esiste una ricetta perfetta e sempre efficace, ma tanti buoni ingredienti da far funzionare nel migliore dei modi, riguardanti il Content is the King: vero elemento portante e imprescindibile per innescare viralità al proprio video è il contenuto stesso. Questo può essere forte di per sé, ma lo può diventare specificatamente per ogni singolo utente se si è in grado – come abbiamo già detto – di predisporre diversi video attraverso il programmatic, a partire dai dati di chi sta navigando e dal contesto; • Be sharable: fare in modo che il video sia quanto più condivisibile possibile, in qualsiasi maniera si possa fare: educando, intrattendendo, ispirando, emozionando... • Get attention in 5 seconds: specialmente per combattere contro lo skip, è bene che chi guarda sia subito coinvolto appieno; • Take your time: il video deve durare il tempo giusto, adatto per il contenuto e per il messaggio che si vuole veicolare. In questo senso può essere d’aiuto il fatto che YouTube non prevede durate standardizzate, per cui: sfruttare quanto serve; • Call to action: per agevolare quanto più possibile le conversioni, inserire una chiara richiesta di azione nel messaggio; • Make interactive: sfruttare le possibilità offerte dalla piattaforma, facendo interagire i contenuti con le scelte dell’utente; • Content strategy: considerare il fatto che la viralità molto spesso produce picchi d’attenzione momentanei ma potrebbe decrescere in poco tempo. Quindi prevedere aggiornamenti di contenuto che possano alimentare costantemente la curva di attenzione. Ciò può essere fatto integrando contenuti always-on per il target più affine e già fidelizzato, contenuti push pubblicati con regolarità e destinati a generare nuovi contatti, e contenuti speciali, ad ampio raggio e legati ad eventi, per allargare la base di awareness intorno a sé; • Be discoverable: tenere sempre a mente che YouTube è pur sempre un motore di ricerca testuale. Quindi tag, metadati, ma soprattutto 251 Data-Driven Digital Strategy titoli, descrizioni e anteprime devono essere facilmente raggiungibili e stimolare da subito la curiosità di chi guarda; • Adapt for mobile: considerare ovviamente, alla luce di tutto quanto è stato detto, che i contenuti devono essere fruibili nel migliore dei modi, attraverso tutti i device di cui gli utenti dispongono, con un occhio di riguardo ai futuri sviluppi della Virtual Reality. • Never give up: bisogna prestare molta attenzione alla strategia di pubblicazione dei video dispiegando al meglio le proprie risorse organic, partner e paid. Infatti, l’investimento per diffusione a pagamento dei propri contenuti sarà proporzionalmente più proficuo, quanto il contenuto saprà già “camminare sulle proprie gambe”, contando sulla diffusione organica data dal brand e da altri eventuali partner nella campagna. In generale, anche nel caso di YouTube vale la regola del tenere d’occhio dati e insights, monitorando sempre i propri risultati per migliorarsi continuamente, così da avere di volta in volta performance sempre migliori. Pietro Gentile 252 Data-Driven Digital Strategy Riferimenti bibliografici Merks-Benjaminsen J., Online Brand Identity, Adfo Books, Amsterdam, 2015. Jones K., Hritzuk N., Multi-screen marketing, Wiley, Hoboken, 2016. Agostini A., Gagliardini C., Social Google marketing, Hoepli, Milano, 2015. Schmidt E., Rosenberg J., Come funziona Google, Rizzoli Etas, Milano, 2014. Miles J., Fare business con Youtube, Hoepli, Milano, 2014. Vise D., Malseed M., Google story, Egea, Milano, 2013. 253 GLOSSARIO Glossario ACTIONABLE METRICS Letteralmente “metriche d’azione”, rappresentano condivisioni, like, commenti, etc. AD EXCHANGE Piattaforma tecnologica che facilita la compravendita in tempo reale di inventari, da molteplici network pubblicitari. L’Ad Exchange permette di finalizzare l’acquisto della campagna display in meno di 100 millisecondi e la fa apparire sulla pagina nel momento in cui viene caricata dall’utente. AD NETWORK Aziende che si occupano della gestione degli annunci pubblicitari nell’ambiente online. La locuzione è la contrazione di Advertising Network, ossia rete pubblicitaria. La funzione fondamentale svolta da un Ad Network è l’intermediazione tra gli Advertiser (inserzionisti che vogliono acquistare spazi sul web per promuovere prodotti e servizi) e i Publisher (proprietari di siti web che offrono gli spazi in cui sono collocate le inserzioni). AD-BLOCKING Plug-in per il browser internet che fa da filtro alla pubblicità, bloccando (non facendo visualizzare) qualsiasi annuncio che si potrebbe trovare sul web (pop-up, pubblicità di Google etc.). ADVERTISER Azienda che ha interesse a pubblicizzare il proprio prodotto. AGENCY TRADING DESK Aziende specializzate che affiancano l’Advertiser o le agenzie nella gestione delle attività di programmatic advertising, offrendo solitamente una loro piattaforma connessa con Ad Exchange. ALWAYS ON Tendenza ad essere sempre connessi. AMBIENTE DI MARKETING Insieme degli attori e delle forze esterne all’impresa, che ne influenzano la capacità di sviluppo e successo, dati determinati confini spazio-temporali. Viene suddiviso in micro-ambiente (di cui fanno parte stakeholder finanziari, fornitori, stakeholder istituzionali, concorrenti diretti e indiretti, domanda intermedia e finale) e macro-ambiente (in cui rientrano politico-istituzionale, fisico, demografico, economico, tecnologico, socio-culturale). 255 Glossario ANALISI SWOT Strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), debolezza (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto o di un’impresa per il raggiungimento di un obiettivo. ANNUNCI PUBBLICITARI PRE-ROLL Video che partono in automatico prima di un contenuto editoriale. ANNUNCI PUBBLICITARI PRE-ROLL NON PREMIUM Video in modalità pre-roll non erogati in testate prestigiose, autorevoli o particolarmente seguite. ASCOLTO IN REAL TIME Modalità di listening che si è adeguata alle nuove tendenze apportate dal digitale: le conversazioni avvengono live ed è quindi necessario un real time listening. Molte grandi aziende si sono ormai attrezzate con social rooms, stanze per il monitoraggio in tempo reale delle conversazioni online, in particolare per tenere costantemente sotto controllo i “temi caldi” che potrebbero provocare focolai di crisi. ASCOLTO ON TRACK Tipologia di ascolto continuativo. ASCOLTO STORICO Tecnica utile per l’ascolto retroattivo, ovvero per analizzare conversazioni avvenute in passato (generalmente non più di un anno), su uno specifico tema. AUDIOUTDOOR Società costituita da UPA che ha per oggetto l’accertamento dell’eseguito rispetto all’ordinato con i piani tecnici della pubblicità esterna sugli impianti e sugli spazi comunali e privati; la rilevazione oggettiva ed imparziale e la diffusione sistematica dei dati sulla audience degli impianti di pubblicità esterna in Italia; le ricerche, gli studi, le analisi anche statistiche nel campo specifico della pubblicità esterna AUDIPRESS Società promossa nel 1992 dall’Upa (Utenti Pubblicità Associati), da Assocomunicazione e dalla Fieg, (Federazione Italiana Editori Giornali) sul modello dell’Auditel televisivo, per raccogliere e pubblicare dati sulla diffusione della stampa italiana. Fornisce i dati di lettura dei quotidiani, dei supplementi di quotidiani, dei settimanali e dei mensili, oltre alle informazioni socio-demografiche dei lettori, per 125 testate attualmente in rilevazione. 256 Glossario AUDITEL Società che si occupa della rilevazione dei dati di ascolto televisivo. AUDIWEB Organismo “super partes” che fornisce al mercato un sistema integrato di servizi per la definizione e la misurazione dell’audience online, offrendo informazioni utili ai centri media e agli editori per effettuare una corretta pianificazione e gestione delle campagne di comunicazione sul mercato. AUTO-PLAY Metodo che permette di far partire il video in automatico senza audio, rispondendo così all’esigenza di guardare video su mobile, nel rispetto di chi sta accanto. AXIAL CODING Letteralmente “Codifica assiale”, termine che, nella “Teoria del Terreno”, fa riferimento al processo che mette in relazione tra loro codici (categorie e concetti), mediante una combinazione di ragionamento induttivo e deduttivo. BEHAVIOURAL COMMITMENT Letteralmente “impegno comportamentale”. In ambito marketing, questo termine fa riferimento ai comportamenti che il consumatore può intraprendere nei confronti di un brand o un marchio. Nella definizione di una Mobile Strategy, il concetto di committment va ad indicare l’entità delle risorse temporali ed economiche che si intende destinare al progetto. BIDDING Letteralmente “fare un’offerta”. Si tratta di un metodo che permette all’inserzionista di scegliere, in modo sempre più mirato, le proprie campagne pubblicitarie oltre a dare la possibilità all’advertiser di partecipare direttamente alle aste saltando gli intermediari (concessionarie e network pubblicitari) utilizzando una piattaforma dedicata. BOT Termine di origine anglosassone con cui s’intende un programma autonomo che nei social network fa credere all’utente di comunicare con un’altra persona umana. BRAND Serie di elementi materiali e immateriali che identificano la personalità e le caratteristiche di un prodotto, un’organizzazione o di un servizio. Parlare di brand significa occuparsi anche della narrazione e dell’esperienza, sia digitale che offline, in cui viene esperito dalle persone. 257 Glossario BRAND RECALL IN TOUCHPOINT La percentuale di consumatori che ricorda ciascun Brand per ciascun touchpoint. BRAND ADVOCATES Persone individuate e selezionate sulla base di specifiche caratteristiche, che hanno il compito di sostenere, promuovere e invogliare la conoscenza di un determinato brand, prodotto o contenuto, grazie a una capacità di convincimento basata sul loro trust in un determinato settore d’azione. BRAND AMBASSADOR Letteralmente “ambasciatore del brand”, indica un soggetto che fa ufficialmente pubblicità al brand e si fa portatore dei valori del brand senza ricevere una ricompensa per questo. BRAND AWARENESS Letteralmente “notorietà di marca”, indica il grado di riconoscibilità di un marchio e la sua associazione ad un determinato prodotto da parte dei potenziali consumatori. Il concetto di conoscenza e riconoscibilità del brand si compone di due caratteri: un aspetto quantitativo (la notorietà) e un aspetto qualitativo (l’immagine e la percezione). La sua creazione è obiettivo primario della pubblicità nella fase iniziale del ciclo di vita di un prodotto. L’apice consiste nel raggiungimento del punto massimo di notorietà (top of mind), quando il marchio diventa il primo a cui le persone pensano nel processo di acquisto di un prodotto o servizio. BRAND CHARACTER Patrimonio d’immagine della marca. Comprende l’insieme delle caratteristiche tangibili e intangibili, positive e negative, attribuite dal cliente alla marca: il valore di tali caratteristiche dipende dal complesso di relazioni col mercato che una data marca è in grado di instaurare ed è proporzionale a quello dei prodotti o servizi a cui il brand viene associato. BRAND EXPERIENCE Sintesi di potenziale influenzante e brand association. Può essere calcolata, per ogni singolo contatto e brand, come prodotto aritmetico delle 2 metriche. Può essere anche espressa sotto forma di percentuale ed è calcolata rispetto al totale di esperienza di marca/prodotto dalla categoria di riferimento. BRAND EXPERIENCE MAP Strumento che raffigura il brand visivamente, rappresentando il processo di fornitura del servizio, il ruolo di consumatori ed impiegati e gli elementi visibili del prodotto/servizio. 258 Glossario BRAND EXPERIENCE POINT Espressione che indica il contributo relativo di ciascun touchpoint alle vendite di una specifica marca. BRAND IDENTITY Letteralmente “identità del brand”, è un aspetto fondamentale del brand perché contribuisce a determinare la percezione e reputazione da parte del pubblico agendo in prima battuta a livello emozionale. BRAND LOYALTY Letteralmente “fedeltà di marca”, indica la tendenza del consumatore ad acquistare sempre la stessa marca all’interno di una data classe di prodotto. BRAND SOCIETY Termine con cui il Professor Bernard Cova definisce la società post-moderna, in cui i brand sono diventati un tutt’uno con la società e con gli individui che la compongono. BRAND VERBING Termine volto ad indicare l’utilizzo di nomi di brand come verbi o sostantivi (es. to google, to hoover ecc..) BRANDED CONTENT Letteralmente “contenuto brandizzato”, indica l’ideazione, la produzione e la distribuzione di contenuti originali creati appositamente per veicolare un brand e i suoi valori. BUZZ Letteralmente “brusio”, è termine onomatopeico di origine inglese che designa un brusio incontrollato. Indica il passaparola in rete, ovvero l’insieme delle conversazioni che si generano sul web in riferimento ad un determinato argomento. CALL TO ACTION Letteralmente “chiamata all’azione”. Con questa espressione si intende l’atto che consiste nello spingere l’utente a compiere una determinata azione. CHAT-BOT Software progettato per simulare conversazioni intelligenti con esseri umani. CITY BRANDING Processo comunicativo volto a migliorare la percezione e la reputazione di una città, che vuole proporsi come luogo di valore per turisti, cittadini e nuovi potenziali abitanti. 259 Glossario CITY MARKETING Strumento volto a proporre il territorio come risorsa e, conseguentemente, ad ottimizzare le relazioni fra il territorio e i potenziali investitori. CITY USER Nell’ambito del marketing delle imprese culturali e creative, con questo termine si fa riferimento ai “fruitori” della città, primi fra tutti, i cittadini stessi. CLICK TO PLAY Termine che si riferisce alle tipologie di video visti intenzionalmente e non a partenza automatica. CLICK-THROUGH RATE Letteralmente “percentuale di click”, è una metrica che misura l’efficacia di una campagna pubblicitaria online. CODICE EAN European Article Number, famiglia di codici a barre usata per la marcatura di prodotti destinati alla vendita al dettaglio. COMITATO DI CONTROLLO Organo garante degli interessi generali dei consumatori, composto da professionisti esperti dei problemi dei consumatori, di tecnica pubblicitaria, di mezzi di comunicazione, di materie giuridiche e scientifiche. COMMUNITY DESIGN CANVAS (CDC) Schema che permette di individuare efficacemente gli elementi fondamentali (value proposition, target, e tool) oltre a quelli necessari per la concreta applicazione sul processo aziendale (partner, attività, risorse chiave, relazione tra utenti). COMPLETION RATE Termine che indica il rapporto tra il numero di volte in cui è stato fatto partire il video e il numero di visualizzazioni complete che erano state acquistate. È un indice significativo per misurare la validità di una campagna: più è alto, più video sono stati visti fino alla fine. CONCEPT CLOUD Identifica i concetti più ricorrenti in relazione all’oggetto dell’analisi. CONSUMATTORE Termine introdotto dal sociologo Giampaolo Fabris, volto a descrivere un consumatore in grado di co-operare attivamente alla produzione. 260 Glossario CONSUMER INSIGHT Termine di origine anglosassone con cui si intende la comprensione da parte delle aziende dei bisogni inespressi del consumatore, al fine di creare prodotti e/o servizi capaci di colmare opportunità di consumo. CONSUMER INTENT Termine volto a indicare l’intenzione d’acquisto del potenziale consumatore. CONSUMER PATHWAY Rappresenta il metodo per isolare le diverse finalità della comunicazione e definire le consumer experience in grado di determinare il successo. CONSUMER RESEARCH Metodologia che permette di capire, nel momento in cui un prodotto esce da scaffale, chi lo ha acquistato. CONSUMER SCIENTISTS Figure che studiano i bisogni delle persone in quanto consumatori di beni e servizi, e che analizzano come le scelte di questi siano condizionate dalle modalità di accesso alle informazioni necessarie agli acquisti. CONSUMER-CENTRIC Letteralmente “cliente-centrica”. Strategia di marketing che mette le esigenze del cliente al primo posto. CONTENT MARKETING Tecnica di marketing che consente di creare e condividere contenuti rilevanti di valore per attrarre un target ben definito, al fine di guidare l’azione del cliente nel modo più proficuo possibile. CONTENT PROVIDER Letteralmente “fornitori di contenuti”, società che forniscono informazioni e contenuti al motore di ricerca per ricevere in cambio le visite degli utenti. CONVERSATIONAL COMMERCE Approccio customer-based che fa della comunicazione interpersonale la sua forza. Si basa quindi sull’idea di superare il concetto tradizionale di eCommerce fondato su un semplice catalogo di beni e servizi da poter acquistare, a favore di un rapporto continuo tra brand e cliente, ad esempio tramite applicazioni di instant messaging. 261 Glossario CONVERSIONE Termine che non necessariamente indica una transazione economica. Si tratta infatti di un’azione desiderata dall’azienda e compiuta dall’utente (ad esempio la condivisione di contenuti, l’iscrizione alla newsletter ecc. ). COOKIE File di testo nel quale vengono memorizzate delle informazioni che i vari siti web possono utilizzare per facilitare la navigazione dell’utente. COPERTURA (O REACH PERCENTUALE) Metrica che misura la percentuale del target esposta alla campagna pubblicitaria e si rappresenta con il rapporto percentuale tra i contatti netti e l’entità del target. CORPORATE IDENTITY Letteralmente “identità dell’azienda”, ciò che la rende identificabile all’esterno e che viene stabilita dall’azienda stessa. L’identità è un insieme di valori, un sistema filosofico. CORPORATE REPUTATION Letteralmente “reputazione dell’azienda”, è la fusione di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni sviluppate nel tempo da clienti, impiegati, fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione alle qualità dell’organizzazione, alle caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale esperienza, il sentito dire o l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione. COST PER CLICK (CPC) Costo che si paga ogni volta che un utente clicca sull’annuncio. COST PER MILE (CPM) Costo per 1000 impression. COST PER VIEW (CPV) Metodo di spesa secondo cui l’azienda paga solo se il video viene visualizzato dall’utente fino alla fine. CROWDSOURCING Dall’inglese crowd, ovvero “folla”, indica una strategia operativa con la quale un’impresa sfruttando le potenzialità collaborative del web invita i clienti e i follower alla progettazione partecipata di un nuovo prodotto o servizio, realizzando così un prodotto sulla misura delle reali esigenze dei prospect. 262 Glossario CULTURAL ECONOMY Concezione per la quale la cultura e l’economia sono strettamente connesse, in quanto le istituzioni economiche possono essere considerate in una dimensione culturale e le imprese culturali possono generare ritorni economici. CUSTOMER CARE Servizio di assistenza fornito da un’azienda alla propria clientela. CUSTOMER EXPERIENCE Letteralmente “esperienza del cliente”, indica la reazione interiore e soggettiva del cliente di fronte a qualsiasi contatto diretto o indiretto con un’impresa. CUSTOMER JOURNEY Itinerario che il cliente percorre quando instaura una relazione con un’impresa nel tempo e nei diversi “ambienti” di contatto, siano essi offline che online. Consiste, dunque, nella “mappa” di tutti i touchpoint adoperati dall’utente. CUSTOMER LIFETIME VALUE Previsione dei profitti per tutto l’arco della relazione futura con il cliente. DAILY DEAL Coupon sconto con offerte disponibili per un tempo limitato, utili per attività business-to-consumer che cercano innanzitutto di farsi conoscere dai potenziali clienti. DATA ANALYSIS Letteralmente “Analisi dei dati”. Si tratta di un processo di ispezione, pulizia, trasformazione e modellazione di dati con il fine di evidenziare informazioni che supportino le decisioni strategiche aziendali. DATA ASSEMBLY Fase dell’analisi qualitativa di dati durante la quale vengono prese annotazioni basate sull’osservazione, la registrazione di eventi o di interviste, la raccolta di documenti etc. DATA DISPLAY Letteralmente “Visualizzatore di dati”, unità periferica di computer che trasferisce i dati da esso elaborati su un video trasparente, dal quale, attraverso una lavagna luminosa, sono proiettabili su schermo. 263 Glossario DATA MANAGEMENT PLATFORM Piattaforma tecnologica che trasforma enormi quantità di dati relativi alle caratteristiche e al comportamento degli utenti in azioni rivolte a loro, che possono essere pianificate, erogate e misurate in tempo reale. DATA-DRIVEN STORYTELLING Adattamento del contenuto della propria strategia comunicativa secondo i dati sulla navigazione dell’utente, le sue abitudini e preferenze e sul contesto ambientale ed eventuale in cui si svolge la navigazione. DELIVERY RATE, OPEN RATE, CLICK-THROUGH RATE Nell’ordine, i termini si riferiscono al tasso di ricezione, di lettura e di collegamento a un contenuto web tramite click dalla mail. DEMAND SIDE PLATFORM Piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire agli Advertisers di acquistare spazi in modalità automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile,) o essere utilizzata per tutte le tipologie di inventory. DIFFERENZIAZIONE Strategia di pricing che consiste nel fissare prezzi diversi per prodotti diversi. DIGITAL DATA-DRIVEN BRAND FUNNEL Declinazione digitale, e basata sui dati, del tradizionale percorso di acquisto che si instaura tra brand e consumatori, attraverso le fasi di Awareness, Consideration, Intent, Conversion, Loyalty. DISCOVERY Indagine e scoperta di tendenze al di fuori del proprio settore/ambito di ricerca. DISCRIMINAZIONE La pratica di fissare prezzi diversi per lo stesso (o quasi lo stesso) bene, in funzione della quantità acquistata, delle caratteristiche del cliente, o di certe clausole contrattuali. Dal momento che, il differenziale di prezzo tra un prodotto e un altro, venduto a due consumatori diversi, non è giustificato da una diversa struttura dei costi, si dovrà convincere ciascun consumatore a pagare il proprio prezzo. DROP SHIPPING Vendita di beni non posseduti fisicamente in un magazzino. EARNED MEDIA Letteralmente, “canali guadagnati”, indicano il valore aggiunto generato dalle conversazioni degli utenti che diventano il canale stesso (traffico nel sito, contenuto commentato e condiviso, fan page e contenuti user-generated). 264 Glossario E-COMMERCE Letteralmente “commercio elettronico”, indica la transazione e lo scambio di beni e servizi effettuati mediante il World Wide Web. ENGAGEMENT Processo di formazione di un attaccamento di tipo emozionale o razionale tra stakeholder interni e/o esterni e il brand. In generale, il brand entra in connessione con il consumatore attraverso una serie di “touchpoint”, come gli ambienti di retail, l’advertising o lo stesso prodotto o servizio. ENTRY FEE Letteralmente “tariffe di entrata”. Sono i costi che, chi apre un franchising, deve versare al detentore del marchio. EXTERNALITIES Letteralmente “esternalità”, fenomeni economici che si riverberano su altri attori. Si distinguono in positive se producono valore per l’intero sistema e negative se producono svantaggi al contesto; in same side se ricadono sugli attori dello stesso lato del mercato e cross side se ricadono su attori di lati diversi. FACEBOOK COMMERCIAL PIXEL Il pixel di Facebook è un frammento di codice JavaScript presente su un sito web che consente di misurare le campagne pubblicitarie, di ottimizzarle e definirne il pubblico. FEAR OF MISSING OUT (FOMO) Stato di ansia e timore di essere messi da parte. FORMAT Mix di servizi offerto da un retailer, che include l’assortimento. Quest’ultimo può variare, sia in ampiezza (numero di categorie), che in profondità (numero di varianti all’interno di una categoria). FREE-RIDERSHIP Comportamenti opportunistici del consumatore che, avendo a disposizione lo stesso prodotto in differenti canali, raccoglie informazioni all’interno dei canali che offrono una migliore assistenza e poi compie l’acquisto all’interno di canali in cui invece si punta su prezzi inferiori. Si genera così una conflittualità tra i canali. FREQUENZA (O OTS, “OPPORTUNITY TO SEE“) Numero medio di volte in cui un individuo è stato esposto al messaggio. 265 Glossario FREQUENZA DI RIMBALZO (O “BOUNCE RATE“) Percentuale di visite a un sito web che hanno registrato la presenza dell’utente su una sola pagina; il navigante, quindi, ha abbandonato il sito senza visitare altre pagine dello stesso. FUNNEL D’ACQUISTO Letteralmente “imbuto”, il funnel è una riproduzione grafica del percorso d’acquisto dei consumatori. Prevede una fase iniziale di Awareness (conoscenza del prodotto), una successiva di Interest (interesse per il prodotto), la Consideration (ricerca di informazioni a riguardo), l’Intent (manifestazione della volontà di comprare) e una fase finale di Purchase in cui avviene l’acquisto. GEEK Termine di origine anglosassone che indica i c.d. “nerd” appassionati di tecnologie digitali. GENIUS LOCI Locuzione latina con riferimento alle religioni del mondo antico, che associavano ai luoghi e ai paesaggi naturali la presenza di una divinità minore che ne costituiva il nume tutelare. GEO-LOCALIZZAZIONE Identificazione della posizione geografica nel mondo reale di un dato oggetto. GIURÌ Giudice privato la cui istituzione deriva da un accordo fra tutti gli operatori che esercitano la loro attività nel campo della pubblicità, diretto a garantire l’osservanza e l’applicazione di un Codice di autodisciplina che gli operatori medesimi si sono dati. GRP Gross Raiting Point, metrica che permette di sapere la percentuale di persone che, in media, sono state sottoposte ad una campagna pubblicitaria. Il GRP misura la qualità di comunicazione prodotta da un piano mezzi sul suo target group e, più in generale, è utile per confrontare piani media diversi. È dato dal rapporto percentuale tra il numero di contatti lordi realizzati dal piano rispetto a un determinato target e l’entità stessa del target. HUB Letteralmente “fulcro”, indica lo snodo interno ad una rete. Ad esempio, una “città hub” è una città in cui i traffici non solo turistici ma anche di business (di quella determinata regione geografica) convergono e subito ripartono, poiché non è la destinazione finale di chi vi approda. IMAGE MARKETING Attività volta a creare una brand presence, da usare come leva per creare relazioni durature con i consumatori. 266 Glossario IMMAGINE DELL’AZIENDA Insieme di esperienze, cognizioni, impressioni, opinioni che gli individui si formano, in maniera diretta o indiretta, coscientemente o meno, in relazione ad una data impresa, ente o organizzazione. IMPRESSION Rappresenta il numero di volte che un certo contenuto sociale (post, tweet, foto, video) ha avuto la possibilità di essere visto da un certo pubblico. Esprime un valore potenziale, poiché non tiene conto della frequenza del messaggio pubblicato, dei metodi di visualizzazione dello stesso e della duplicazione dell’audience. IN-STORE OBSERVATION Marketing all’interno dei punti di vendita che consiste nell’individuare, mediante osservazione, il più opportuno posizionamento dei prodotti a scaffale e come lo fanno i competitor. IN-APP PURCHASE Meccanismo di advertisting di un’applicazione all’interno di un’altra, che permette di targetizzare l’audience per tipo di comportamento, di device o sistema operativo, localizzazione e fascia oraria. INDICE DI COPERTURA PONDERATA Valutazione qualitativa della presenza dei prodotti aziendali in punti vendita ad alta quota di mercato. INDICE DI RILEVANZA SINTETICO Parametro sintetico di misurazione della rilevanza di un post, strumentale all’attivazione di alert qualificati e alla valutazione del rischio reputazionale. INFLUENCER MARKETING Si basa sullo sviluppo di relazioni con personaggi che possiedono una certa influenza su una determinata fascia di pubblico e che sono quindi in grado di incrementare la visibilità a prodotti/ servizi/brand. INSTANT MARKETING Pratica di digital marketing che prevede di offrire contenuti sul Web 2.0, strettamente collegati ad un evento specifico. IN-STORE MARKETING Attività di marketing all’interno del punto vendita. Includono stand dedicati, distribuzione di materiale informativo sul prodotto o del prodotto stesso, dimostrazioni (demo) e promozioni con buoni sconto o gadget. 267 Glossario INTERNET OF THINGS Letteralmente “Internet degli oggetti”, termine che indica l’insieme di tecnologie il cui scopo è rendere qualunque tipo di oggetto, anche senza una vocazione digitale, un dispositivo collegato ad Internet. INVENTORY Magazzino, deposito di contenuti e spazi pubblicitari. INSTINCTIVE PURCHASING Letteralmente “Acquisto d’impulso”, che non è dunque preceduto dalle tradizionali fasi di analisi del prodotto ricercato e dalla ponderazione dei costi alternativi. ISTITUTO AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA (IAP) Ente con personalità giuridica che dal 1966 regolamenta la comunicazione commerciale per una corretta informazione del cittadino-consumatore e per una leale competizione tra le imprese. JOINT INDUSTRY COMMITTEE (JIC) Organismo a controllo incrociato che riunisce ogni componente del mercato televisivo: investitori di pubblicità, agenzie, centri media e imprese emittenti. KEY SUCCESS FACTOR Letteralmente “fattori critici di successo”, ovvero, la combinazione di elementi cruciali necessari al raggiungimento degli obiettivi di business. KPI (KEY PERFORMANCE INDICATORS) Letteralmente Indicatori di prestazione chiave, sono parametri con i quali misurare una campagna di web marketing. Essi si distinguono a seconda degli obiettivi della campagna: se quest’ultima mira a quantificare l’esposizione, allora tali indicatori saranno sostanzialmente identici a quelli delle campagne tradizionali con qualche piccola distinzione terminologica (ad esempio i contatti lordi si chiamano impression). LANDING PAGE Letteralmente “pagina di atterraggio”, ovvero una pagina web specificamente strutturata che il visitatore raggiunge dopo aver cliccato un link o una pubblicità. LEAD Rappresenta un potenziale cliente che mostra interesse, a vari livelli, nei confronti di un brand/ prodotto o servizio. 268 Glossario LEAD GENERATION Letteralmente “generazione di contatti”, azione di marketing che consente di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi di un’azienda. LIGHT TV-VIEWER Con questa espressione ci si riferisce ad utenti con un alto livello di istruzione, maggior potere di consumo, caratterizzati da una bassa fruizione televisiva. LOVEMARK Termine introdotto dal pubblicitario americano Kevin Roberts per definire i marchi che occupano un posto privilegiato nella mente e nel cuore del consumatore. MARCA CONCEPT Evoluzione della marca prodotto. Il brand va a coprire categorie merceologiche diverse rispetto a quella originale. MARKETING CONVERSAZIONALE Anche detto “buzz marketing”, è l’insieme di attività di marketing non convenzionale volte ad aumentare il numero e il volume delle conversazioni riguardanti un prodotto o un servizio e, conseguentemente, ad accrescere la notorietà e la buona reputazione di una marca, ma anche degli stessi prodotti o servizi. Consiste nel dare alle persone un motivo per parlare di un prodotto, di un servizio, di un’iniziativa e nel facilitare le conversazioni attorno a tale oggetto. MARKETING ESPERIENZIALE Tipologia di marketing basata, più che sul valore dei prodotti in sé, sul valore che l’esperienza di acquisto e consumo di essi riveste agli occhi del cliente. MARKETING MYOPIA Termine introdotto dall’economista Theodore Levitt che indica un’eccessiva concentrazione sul prodotto ed una scarsa attenzione ai mutevoli gusti dei consumatori. MARKETING OPERATIVO Una volta definiti gli obiettivi e la strategia per raggiungerli, la parte operativa del marketing si occupa di decidere come impostare la propria organizzazione e quella dell’attività commerciale. Si decide, quindi, in che modo gestire le “4P” del marketing (product, price, promotion, placement). MARKETING RELAZIONALE Branca del marketing che permette di accrescere il valore della relazione con il cliente attraverso la sua fidelizzazione. 269 Glossario MARKETING STRATEGICO Processo di marketing incentrato sull’analisi dei bisogni del mercato e il successivo sviluppo di prodotti o servizi, per gruppi di clienti con bisogni specifici, che li differenziano dalla concorrenza fornendogli un vantaggio competitivo duraturo e difendibile. MARKETING TRIBALE Strategia di marketing non convenzionale volta a creare una vera e propria tribù di persone, accomunate da una forte passione per il prodotto o brand che si intende promuovere. MARKETPLACE Sito Internet di intermediazione per la vendita di un bene o un servizio. MEDIA OWNER Editore che raggiunge un’audience mediante la propria attività editoriale. MERCHANT Nell’ambito della comunicazione, può essere inteso come l’inserzionista desidera comunicare con possibili clienti catturando la loro attenzione e, mediante un click, la loro intenzione (d’acquisto). METER Sistema elettronico di rilevamento dell’audience. Si compone di tre elementi: l’unità di identificazione delle frequenze (Mdu), il telecomando, l’unità di memoria e trasmettitore di informazioni (il meter vero e proprio). MISSION Letteralmente “scopo” di un’organizzazione o impresa (la sua “dichiarazione di intenti”), è il suo scopo ultimo, la giustificazione stessa della sua esistenza, e al tempo stesso ciò che la contraddistingue da tutte le altre. MOBILE APP (O APP NATIVA) Applicazione scaricabile sul dispositivo mobile attraverso un applicationstore e accessibile attraverso una specifica icona collocata sull’home screen. MOBILE MARKETING Attività di marketing svolta attraverso una rete onnipresente in cui i consumatori sono costantemente collegati con un dispositivo mobile personale. 270 Glossario MOBILE TELCOS Forma abbreviata di “Mobile Telecommunication Companies”, ovvero gli operatori telefonici. MODELLISTICA Analisi Pre-Post. MODELLO DI DICKSON (TRADE MARKETING) Modello di mappatura che considera, in ascissa, la quota di vendita della marca sul totale portafoglio delle marche e, in ordinata, il tasso reale di crescita delle vendite del cliente. Attraverso il modello, il produttore può ricavare preziose informazioni riguardanti le azioni da intraprendere per ottimizzare la relazione con i vari clienti. MODELLO POE Modello che classifica i mezzi secondo tre categorie: paid “pagati”, owned “di proprietà” e earned “guadagnati”. MODELLO STIMOLO-RISPOSTA Modello di comportamento del consumatore secondo il quale le decisioni (scelta della marca o del prodotto, tempi di acquisto e potere di acquisto) rappresentano il risultato dell’elaborazione di meccanismi attivati nella cosiddetta black box (la scatola nera) del consumatore. Quest’ultima è intesa come l’insieme delle caratteristiche personali, difficilmente conoscibili, dei consumatori. MOMENT OF TRUTH Letteralmente il “momento della verità”. Nel rapporto con il cliente indica il punto in cui quest’ultimo, tramite un contatto con l’azienda (offerta, vendita, assistenza), forma (o modifica) una propria opinione su di essa. Nel marketing classico si individuano tre fasi del processo decisionale e d’acquisto: il consumatore riceve lo stimolo da una campagna pubblicitaria (stimulus), entra nel punto vendita e riconosce il prodotto a scaffale (shelf) e, se supera il primo Moment of Truth, procede all’acquisto. Il secondo Moment of Truth si ha poi con l’utilizzo effettivo del prodotto. MOTORE SEMANTICO PROPRIETARIO Strumento che permette un’analisi accurata della polarità dei messaggi grazie a focus settoriali. MULTI-SCREENING Tendenza ad utilizzare più di un media contemporaneamente. 271 Glossario NETFLIX Società statunitense che offre un servizio di noleggio di DVD e videogiochi via Internet e anche un servizio di streaming online on demand, accessibile tramite un apposito abbonamento. NETWORK SOCIETY Nuova dimensione digitale e sociale con cui si interfaccia l’azienda del nuovo millennio. OUT OF HOME (OOH) Pratica che consiste nell’esporre i messaggi in spazi pubblici: per strada, in montagna, in un centro commerciale o una stazione ferroviaria. OPEN CODING Letteralmente “Codifica aperta”, rappresenta lo stadio iniziale di un’analisi qualitativa di dati. Ad esso seguono le fasi di axial coding e selective coding. OPEN DATA Letteralmente “dati aperti”, sono dati liberamente accessibili a tutti, trasformabili e non proprietari. OWNED MEDIA Canali di proprietà costruiti dal brand dove si ha il completo controllo di ciò che si pubblica (sito web, pagina FB). Hanno lo scopo di creare coinvolgimento con il consumatore e diventare una sorta di punto di riferimento, un luogo controllato completamente dal brand che racconta e trasmette i propri valori creando engagement e informando allo stesso tempo. PAID MEDIA Spazi pubblicitari a pagamento che garantiscono la presenza in un contesto (come gli spot TV) e rappresentano la tipologia che più si avvicina ai mezzi classici. Sono il primo contatto con il consumatore, quello che in primis attira la sua attenzione generando awareness. Questa tipologia di advertising, se mirata e integrata nel modo corretto, genera un impatto immediato. PASSAGE Questo termine indica tante vetrine messe insieme a creare un’unica vetrina a forma di galleria commerciale. Il passage ha dato vita all’ archetipo dei centri commerciali odierni. PAYOFF Elemento verbale che compare nella parte finale del messaggio pubblicitario e tende a riassumere l’essenza del brand e a enfatizzare la comunicazione. 272 Glossario PENETRAZIONE La penetrazione del mercato rappresenta una strategia di pricing molto aggressiva, che consiste nel fissare i prezzi a un livello molto basso (a volte addirittura con margine negativo) per aumentare la domanda del cliente. Una volta aumentata la domanda, il prezzo viene rialzato, con l’obiettivo di ottenere lo stesso livello di domanda da parte dei clienti ottenuto con il prezzo precedente. La penetrazione è spesso vista come la strategia opposta alla scrematura. PERSONAS Archetipi di utenti creati per offrire una maggior comprensione del target a cui si intende rivolgere la propria offerta. Se ne distinguono due categorie: - buyers o users personas: coloro che hanno già acquistato e utilizzano il prodotto; - fan personas: i consumatori fedeli che hanno allacciato una relazione duratura con il brand. PHABLET Termine composto dalle parole “phone” e “tablet”, volto a indicare una particolare categoria di smartphone che assumono le dimensioni tipiche di un mini-tablet. POSIZIONAMENTO Processo volto a posizionare un brand o prodotto, in maniera unica e distintiva, nella mente del consumatore. POTERE DI MERCATO Possibilità dell’impresa di praticare prezzi di vendita superiori rispetto ai concorrenti. PRECISION TARGETING Indica un target specifico e preciso. Ad esempio il segmento di persone che sta guardando un determinato sito web in un determinato momento. PRE-EMPTIVE STRATEGY Letteralmente “strategia preventiva”, attraverso la quale i produttori presidiano un canale per ridurre gli spazi di entrata dei competitor, anticipando questi ultimi. PREZZO DI SCREMATURA Strategia di pricing che consiste nello stabilire un prezzo elevato, al fine di garantirsi un consistente ritorno dell’investimento nel breve periodo. 273 Glossario PROCESSI ROPO Research Online Purchase Offline, letteralmente “ricerca online acquisto offline”, è un comportamento d’acquisto sempre più diffuso per cui i consumatori tendono a cercare online informazioni rilevanti prima di effettuare un acquisto nel punto vendita. PROGRAMMATIC Processo tecnologico utile per acquistare e vendere pubblicità digitale, orientato ad una più efficiente attività di advertising, sia in termini di ottimizzazione dei costi, sia in termini di coinvolgimento del target. Il programmatic buying è una forma automatizzata d’acquisto che utilizza la tecnologia, dunque i computer, gli algoritmi e i big data per ottimizzare l’acquisto di spazi pubblicitari. PROSPECT Utente che ha già risposto a un’azione marketing del sito web e ha fornito il suo consenso a ricevere delle informazioni su un prodotto o servizio oppure delle comunicazioni commerciali da parte dell’azienda. Si tratta quindi un cliente potenziale. PROSUMER Termine coniato dal futurologo Alvin Toffler e derivante dalla fusione dei termini “producer” e “consumer”. Sottolinea quindi il duplice ruolo del consumatore post-moderno che non si limita solo a consumare passivamente ma diventa egli stesso produttore di beni, contenuti e servizi. PROXIMITY MARKETING Letteralmente “marketing di possimità”, tecnica di marketing che opera su un’area geografica delimitata e precisa attraverso tecnologie di comunicazione di tipo visuale e mobile con lo scopo di promuovere la vendita di prodotti e servizi. PUBBLICI CONNESSI Pubblici legati all’azienda da relazioni che non vanno intese unicamente in termini di transazione economica, bensì in termini di opportunità di crescita culturale e sociale, in una dimensione di trasparenza del valore del prodotto. PUBBLICITÀ COMPORTAMENTALE ONLINE O “ONLINE BEHAVIOURAL ADVERTISING” (OBA) Tipologia di advertising che si basa sulla raccolta di dati dell’attività online di un dispositivo/ terminale al fine di fornire annunci su misura, basati sugli interessi manifestati attraverso la navigazione in rete. PUBBLICITÀ CONTESTUALE Tipologia di advertising che si basa sul contenuto del sito in cui compare l’annuncio e non sui dati di navigazione. 274 Glossario PUBBLICITÀ MITICA Termine coniato da Floch, indica un tipo di pubblicità che esalta il prodotto come portatore di un valore di base, partendo dal presupposto di base per cui spesso il prodotto è solo il pretesto per rappresentare un mondo che incarna i sogni e le ambizioni del consumatore. PUBBLICITÀ OBLIQUA Secondo Floch, punta a ribaltare i luoghi comuni. Si rivolge solitamente ad un pubblico di nicchia (o che aspira a esser tale) e non è immediatamente comprensibile in tutti i suoi aspetti, ma richiede una maggiore attività interpretativa. PUBBLICITÀ REFERENZIALE Secondo Floch, esalta i valori pratici, l’utilità dell’oggetto. Il suo scopo è soprattutto far conoscere il prodotto in maniera credibile, oggettiva. PUBBLICITÀ SOSTANZIALE Termine coniato da Floch, indica un tipo di pubblicità che vuole porre al centro dell’attenzione il prodotto di per sé. Dell’oggetto vengono esaltate le doti materiali, estetiche, la piacevolezza. QUADRATO SEMIOTICO Metodo di classificazione dei concetti pertinenti ad una data opposizione di concetti, quali maschile-femminili, bello-brutto, etc. QUERY Termine che indica la domanda posta dall’utente al motore di ricerca Google. RATING Valutazione pubblica di un determinato servizio, prodotto, luogo o brand. Rappresenta un indice di gradimento. REACH Metrica che individua le persone esposte ad una campagna pubblicitaria. Più precisamente, è il numero di individui o account unici che hanno avuto la possibilità di vedere un certo contenuto sociale. É un dato netto nel senso che considera la singola persona e non il numero di volte che, la stessa, ha visto il contenuto. REAL TIME MARKETING Approccio al mercato che fa leva sulla capacità aziendale di rispondere tempestivamente ad eventi e stimoli esterni, siano essi prevedibili o meno. 275 Glossario REBRANDING Con questa espressione si intende le generazione di una nuova identità, coerente, per orientare la comunicazione del brand in una direzione che sia rispondente all’evoluzione della società. In sostanza, si ridefiniscono i valori della marca senza tradirne le origini e i principi fondamentali. REMARKETING Strumento e tecnica del marketing basato principalmente sugli sconti e le promozioni rivolte al singolo consumatore. REMIX Modifica di un prodotto mediale attraverso l’aggiunta, la rimozione o il cambiamento di una o più delle sue parti. Rappresenta una perfetta combinazione di creazione e replica. RESONANCE Letteralmente “risonanza”. In comunicazione indica la capacità di un messaggio di influenzare il comportamento dell’audience, influenzarne la propensione all’acquisto o provocare altre azioni desiderate. RETAIL TRACKING Strumento che misura ciò che accade nei punti di vendita in termini di quote di mercato, copertura ponderata e numerica, pressioni promozionali, con l’obiettivo di dare un feedback concreto delle performance aziendali rispetto a quelle dei propri competitor, prendendo a riferimento i dati aziendali di sell-in e sell-out. RETARGETING Advertising online mirato, basato sulle azioni del consumatore compiute precedentemente sul Web. RETURN ON INVESTMENT (ROI) Letteralmente “Ritorno sugli investimenti”, indica una misura di performance utilizzata per valutare l’efficienza in percentuale di un dato investimento. REVENUE Ricavi economici. SEARCH ENGINE OPTIMIZATION Processo algoritmico che impatta la visibilità e il traffico di un sito o pagina web tra i risultati (non sponsorizzati) dati da un motore di ricerca, sulla base della rilevanza dei contenuti e delle keywords rispetto alla ricerca degli utenti. 276 Glossario SEARCH ENGINE RESULT PAGE (SERP) Letteralmente “pagina dei risultati di ricerca, fornita da un motore di ricerca”, indica la lista di link, fornita dal motore di ricerca, ordinati per rilevanza in base alla parola chiave inserita. È suddivisibile in due sezioni: organica e a pagamento. SEGMENTAZIONE Processo di suddivisione del mercato in segmenti, sulla base di variabili geografiche, socio-demografiche e psico-comportamentali. SELECTIVE CODING Letteralmente “Codifica selettiva”, indica la fase finale di analisi dei dati durante la quale categorie e concetti di base (precedentemente identificati) vengono ulteriormente definiti, perfezionati e poi riuniti per raccontare una storia. SENTIMENT Indice che misura emozioni, percezioni e valori (positivi, negativi o neutri) degli utenti legati a un determinato brand, personaggio, prodotto o tema. SENTIMENT ANALYSIS Analisi qualitativa delle conversazioni in rete che mira a comprendere la propensione degli utenti nei confronti di un particolare brand, prodotto, tema, servizio. SERVED IMPRESSION Standard indicante il fatto che le impression sono state registrate su un Ad server e il conteggio inizia quando l’annuncio stesso è completamente caricato in uno spazio visibile per l’utente finale. SERVICE LEVEL AGREEMENT Letteralmente, “accordo sul livello del servizio”, è uno strumento per definire le caratteristiche che deve rispettare chi eroga il servizio in oggetto. Rappresenta un vero e proprio obbligo contrattuale. SHARE Rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma (o in una fascia oraria) e il totale degli spettatori che contemporaneamente usufruiscono di altri canali mediante lo stesso media. 277 Glossario SHARE OF BUZZ Indicatore che individua la misura in cui si parla di un determinato argomento/brand e quindi conteggia il numero esatto di citazioni e post sull’oggetto. SHARE OF MARKET Quota che un’azienda vanta all’interno del suo mercato di riferimento. SHARE OF TOPIC Individua le tematiche più discusse e le conversazioni più dibattute in relazione al proprio business. SHARING Atto consapevole di condivisione e diffusione di contenuti creati da aziende o da altri utenti. SHARING ECONOMY Letteralmente “economia della condivisione”, indica un nuovo modello economico capace di rispondere alle sfide della crisi e di promuovere forme di consumo più consapevoli, basate sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso piuttosto che sulla proprietà. SHOWROOMING Tendenza a recarsi in uno store fisico, per poi procedere all’acquisto del prodotto online. SOCIAL MEDIA Tecnologie e pratiche online che le persone utilizzano per condividere testi, immagini, video e audio. Si differenziano dai media tradizionali per tre aspetti principali: il basso costo; la possibilità di una diffusione capillare e geograficamente illimitata; la possibilità di immediatezza. SOCIAL MEDIA MARKETING (O MARKETING NEI SOCIAL MEDIA) Branca del marketing che si occupa di generare visibilità su social media, comunità virtuali e aggregatori 2.0. Il social media marketing racchiude una serie di pratiche che vanno dalla gestione dei rapporti online (PR 2.0) all’ottimizzazione delle pagine web fatta per i social media (SMO, Social Media Optimization). SOCIAL MEDIA MONITORING, ANALYTICS E MANAGEMENT Pratica che consiste, rispettivamente, nel monitorare, analizzare e gestire conversazioni ed interazioni sui social media. 278 Glossario SOCIAL MEDIA RESEARCH (SMR) Questa espressione fa riferimento a tutte le tecniche di indagine in grado di rilevare dati sulle fonti online di natura principalmente social, vale a dire piattaforme virtuali, generalmente non finalizzate alla ricerca di mercato, a cui gli utenti accedono per creare e condividere contenuti testuali, immagini, video e audio. SOCIAL NETWORK Rete sociale gratuita e fruibile attraverso internet, che permette la comunicazione tra più soggetti e la condivisione di informazioni testuali, fotografiche, musicali o animate. SOCIETING Neologismo coniato dal sociologo Giampaolo Fabris attraverso l’unione delle parole “sociologia” e “marketing”. Nel societing l’impresa non si adatta semplicemente al mercato ma è un attore sociale inserito nel contesto sociale. SPACE ALLOCATION Letteralmente, “allocazione (dei prodotti) nello spazio”. Con questa espressione si intende l’ottimizzazione degli spazi a scaffale. STORE LOYALTY Letteralmente “fedeltà all’insegna”, indica la tendenza del consumatore ad effettuare i suoi acquisti presso uno specifico distributore. STORYTELLING Arte di narrare, di raccontare una storia. Tale concetto è applicabile anche all’ambito aziendale per coinvolgere e catturare l’interesse del consumatore. STRATEGIA OMNICHANNEL Adattamento delle proprie strategie di comunicazione e di vendita alle specifiche caratteristiche di ognuno dei canali, fisici o tecnologici, attraverso cui avviene il contatto fra impresa e clienti. SUPPLY-SIDE PLATFORM Piattaforma tecnologica ottimizzata per consentire ai Publisher di vendere spazi in modalità automatizzata. Può essere specializzata per tipologia di inventory (display, video, mobile) o essere utilizzata per tutte le tipologie di inventory. 279 Glossario TASSO DI CONVERSIONE Percentuale di visitatori unici che hanno effettuato l’operazione desiderata visitando un sito. TEMPLATE Letteralmente “modello” o “sagoma”, indica una struttura grafica in cui si vanno a inserire i contenuti di un sito web. TEORIA DEL FRAMING Processo inevitabile di influenza selettiva sulla percezione dei significati che un individuo attribuisce a parole o frasi. TIME-SHIFTED VIEWING (TSV) Ascolti registrati oltre la giornata di messa in onda. TOP OF MIND Questa espressione si utilizza in riferimento ad uno specifico brand o prodotto, talmente “forte” da saltare alla mente del consumatore prima di altri. Il TOM indica l’apice della notorietà, ovvero quando la domanda associa subito la marca ad una categoria di prodotto. TOUCHPOINT Punti di contatto attraverso cui il cliente interagisce con un’impresa. TOUCHPOINT INFLUENCE Metrica che identifica l’influenza relativa di ciascun touchpoint sulla decisione d’acquisto nella categoria. TOUCHPOINTS ROI TRACKER Metodologia di ricerca progettata per identificare il contributo di ogni forma di contatto, fornendo metriche in grado di quantificare e rendere comparabili i contatti paid, owned ed earned. TRADE MARKETING Insieme di strategie e piani che riguardano la leva “place” del processo di marketing e dunque della comprensione di bisogni, criteri di valutazione e preferenze dei distributori, al fine di offrire prodotti e servizi migliori rispetto a quelli dei competitor. 280 Glossario TRAFFICO FRAUDOLENTO Traffico non generato da esseri umani, ma da algoritmi che simulano l’esperienza umana. TREND TEMPORALE Impatto che una campagna on e/o offline può avere sul buzz nel tempo. UNIQUE SELLING PROPOSITION (USP) Letteralmente “proposizione esclusiva di vendita”, termine coniato dal pubblicitario americano Rosser Reeves. Indica la caratteristica prioritaria del prodotto, su cui è basata la proposta di vendita, che consente di differenziare un prodotto dalla concorrenza e che possa essere facilmente veicolata ai consumatori attraverso la pubblicità. USER-FRIENDLY Capacità di un dispositivo di essere di facile utilizzo. USER-GENERATED CONTENT Letteralmente “contenuto generato dall’utente”, ovvero qualsiasi tipo di contenuto creato dagli utenti e pubblicato in rete, spesso reso fruibile tramite le piattaforme di social networking. VALUE CHAIN Letteralmente “catena del valore aggiunto”, rappresenta una mappatura del sistema d’offerta. È un modello avanzato da Michael Porter nel 1985. VALUE PROPOSITION Letteralmente “proposta di valore”, vale a dire, ciò che identifica in modo preciso le caratteristiche specifiche di un dato prodotto. VANITY METRICS Letteralmente “metriche di vanità”, sono indicatori che, a differenza delle actionable metrics, instillano un falso senso di sicurezza, ma non rispondono a domande chiave o non consentono di prendere decisioni consapevoli. VIDEO IN-STREAM Annunci video che appaiono principalmente in modalità pre-roll. VIDEO OUT-STREAM Annunci video che non hanno bisogno di un player fisso per essere erogati. 281 Glossario VIDEO PUBBLICITARI NATIVI Pagine video che si aprono outstream durante la fruizione di una pagina, senza necessariamente essere player video. VIEWABILITY Indica l’effettiva visibilità dei contenuti pubblicitari. VIEWABLE IMPRESSION Standard che conteggia le impression quando sono visibili all’utente per non meno del 50% e per almeno 1 secondo. VIRALITÀ Termine utilizzato in riferimento ad un contenuto che, anche grazie ai suoi aspetti non convenzionali, riesce a raggiungere un numero elevato di destinatari. VIRTUAL REALITY Letteralmente “realtà virtuale”. In altre parole, una realtà simulata. WEB MOBILE APP Versione del sito web ottimizzato per la navigazione mobile e dall’apparenza del tutto simile a quella di un’applicazione scaricabile dagli app stores. WHITENING Il bisogno di resettare mente e corpo per favorire una condizione di disconnessione totale dalla quotidianità della vita reale. WORD OF MOUTH (WOM) Letteralmente “passaparola”, il modo diretto con cui si propaga un’informazione da un soggetto ad un altro all’interno di una comunità reticolare. ZERO MOMENT OF TRUTH (ZMOT) Letteralmente “Momento zero della verità”, ovvero il momento in cui il consumatore utilizza il web per cercare informazioni sulla base delle quali costruire la decisione di un acquisto futuro, sia esso in negozio o in e-commerce. ZOOMERS-ORIENTED COMMUNICATION Termine che indica una comunicazione dedicata ad un’audience over 45. 282 I PROJECT WORKS I project works Progetto a cura di: Francesca Corbia, Ilenia Di Paola, Daniele Montani, Vincenzo Romanelli Brief Facendo leva sulla ricorrenza del 70° anniversario della Ferrero, realizzare un toolkit per l’attivazione di una campagna corporate in Italia incentrata su un PR concept da sviluppare attraverso storytelling adatti ai diversi pubblici di riferimento. È necessario indicare i KPI per la misurazione della campagna. Il Comitato del Gran Cavallo di Leonardo Progetto a cura di: Stefano Iachella, Ida Maggi, Chiara Sammarco Brief Valorizzazione del Cavallo di Leonardo come monumento culturale da un punto di vista della comunicazione. Costruire un progetto che abbia come punto di partenza il Cavallo per sviluppare un vero e proprio movimento culturale: dalla realizzazione di un brand all’ implementazione di eventi che permettano di dare maggior valore al cavallo (all’estero è molto conosciuto). Progetto a cura di: Valentina Barresi, Gemma Grimoldi, Angela Nicolazzo, Priscilla Zanda Brief Definire una o più linee di storytelling per il racconto degli eventi e dei nuclei attrattivi di Milano, abilitando qualsiasi soggetto a diventare infopoint della città. 284 I project works Progetto a cura di: Daniela Stefania De Pascalis, Simone Di Biasio, Flavia Ricci, Chiara Terranova Brief Sviluppare una community Feltrinelli, declinata attraverso i canali online e offline del gruppo e integrata con il sistema di loyalty che, a partire dal core business editoriale, si arricchisca attraverso contenuti e iniziative lifestyle che rispecchino i valori del brand. Progetto a cura di: Veronica Fanello, Ottavia Galbiati, Gianluca Torti Brief Realizzare un progetto che potenzi la presenza di Fondazione Donizetti sui social network, con un piano di comunicazione e un linguaggio idonei a intercettare sia un pubblico “giovane”, potenzialmente interessato all’opera del compositore, ma troppo spesso vittima di pregiudizi in relazione all’universo operistico, sia una platea internazionale, così da incrementare la promozione della figura di Gaetano Donizetti, e della sua terra, oltre i confini nazionali. Progetto a cura di: Pietro Gentile, Francesca Invernizzi, Irene Pepe, Claudia Riboldi Brief Ridefinire un’identità forte del brand Chateau D’Ax, vicina al consumatore, che risulti “rassicurante” e “raffinata”. Individuare, a livello nazionale e internazionale, un posizionamento chiaro nel settore “arredi per la casa, puntando sulla italianità e sull’ampiezza della gamma e delle fasce di prezzo. “Svecchiare” la percezione del marchio, rendendola più contemporanea verso gli attuali consumatori, gli affiliati e potenziali tali. Sviluppare una strategia digital (web + social media) capace di rafforzare la brand awareness del marchio. 285 AUTORI Autori VALENTINA BARRESI Milano Giornalista e traduttrice, sempre in cerca di scorci di mare, colleziono poesie e viaggi talora fittizi. Tra i miei interessi, marketing culturale e social media. FRANCESCA CORBIA Alghero Algherese • 23 anni • Laureata in Comunicazione • inguaribile sognatrice • il mio mantra è: think positive and positive things will happen DANIELA STEFANIA DE PASCALIS Milano/Willing to relocate Per aspera ad astra...ci vuole un fisico bestiale! Arte, mare, musica e passeggiate (rigorosamente in ordine alfabetico). #communications et similia SIMONE DI BIASIO Latina Giornalista laureato in editoria (Sapienza). Studio radiovisioni e ho un blog di versi. Scrivo di “Assenti ingiustificati”, perciò “Busco-me e ñao me incontro”. ILENIA DI PAOLA Milano Nata al sud, trapiantata al nord. Mi piace viaggiare, i tramonti, il mare, ma soprattutto ridere. Based in Milan. Social media addicted. 287 Autori VERONICA FANELLO Milano Curiosa e pragmatica. Per un terzo fatta di musica, comunicazione e marketing. Convinta sostenitrice del carpe diem. OTTAVIA GALBIATI Milano Twenty-something, world traveler, Broadway enthusiast. There’s a chance my profile picture has been photoshopped. PIETRO GENTILE Milano Comunicatore amante del silenzio, giornalista non tesserato, digital enthusiast con lo stesso smartphone da sempre. Ma che noia una vita senza contraddizioni! GEMMA GRIMOLDI Torino Astigiana di nascita, torinese d’adozione, juventina per deformazione affettiva. Curioso, scrivo, discuto, faccio e disfo. Il giorno dopo, ricomincio. STEFANO IACHELLA London Provo spesso a essere eclettico: mi interesso di comunicazione, fotografia, ambiente e diritti umani. Mi piace correre e leggere Pirandello: così è, se vi pare 288 Autori FRANCESCA INVERNIZZI Milano Neo laureata in Comunicazione d’Impresa. Appassionata di lingue straniere. Viaggiatrice compulsiva. Sensibile a tempo pieno, determinata quando serve IDA MAGGI Milano 25 anni, laureata in International Management, viaggiatrice occasionale, amante del buon cibo e della letteratura, cultrice delle lingue, marketer per ambizione DANIELE MONTANI Genova Genovese, laureato in Scienze Politiche. 5 anni di esperienza tra centri media e concessionarie digitali. Attualmente è Key Client Account presso IGPDecaux ANGELA NICOLAZZO Milano Potrei trascorrere una vita tranquilla in riva al mare, quindi per prudenza la centrifugo nel frullatore di Milano. Tutta intera in 160 caratteri mica ci stava. IRENE PEPE Torino Se la comunicazione fosse un circo, nessuna paura io faccio trapezio! 289 Autori CLAUDIA RIBOLDI Milano Designer della comunicazione, beauty blogger, car enthusiast. Un po’ Burberry, un po’ quadrifoglio verde. Un po’ Garamond, un po’ Wordpress. Dal 1991. FLAVIA RICCI Milano Laureata in sociologia e specializzata in marketing e comunicazione. Sciatrice, velista e viaggiatrice errante VINCENZO ROMANELLI Milano Sono un concerto di musica rock che vive nel corpo di un concerto di musica classica CHIARA SAMMARCO Milano La passione per il mare, la cucina, il viaggio, la tecnologia, la comunicazione, l’organizzazione e la fotografia mi definiscono. CHIARA TERRANOVA Forlì Irrequieta: a casa sogno il viaggio, in viaggio sogno casa. Parlo sei lingue ma le mischio tutte. “Non voglio avere ragione, voglio essere felice”. 290 Autori GIANLUCA TORTI Milano Giornalista (professionista) per vocazione, counselor per passione, teatrante nel tempo libero. Amo la gente, narrare storie e Ulisse, che tanto ha conosciuto. PRISCILLA ZANDA Milano Parto designer, finisco grafica. In mezzo: aspirante fotografa e, per i più temerari, anche tatuatrice. La musica sempre nelle orecchie e l’arte? Mai da parte. 291 COMUNICAZIONE D’AZIENDA NELLA NETWORK SOCIETY A cura degli studenti del Corso di Alta Formazione UPA 2016 Coordinamento e Editing: Serena Piazzi e Andrea Cuman Progetto grafico: Ottavia Galbiati e Claudia Riboldi Progetto editoriale: Valentina Barresi e Chiara M. Sammarco www.upa.it/corsodialtaformazione