ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea in DAMS – Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo CARISSIMI PADRI: UN LAVORO D’ENSEMBLE IN CERCA DELLO SPETTATORE Tesi di laurea in Storia della Regia Relatore Prof: Gerardo Guccini Presentata da: Daphne Pasini Appello terzo Anno accademico 2015-2016 INDICE INTRODUZIONE ............................................................................................................... 1 CAPITOLO I La regia teatrale in Italia: morfologia di una crisi ................................. 5 1.1 Premesse ............................................................................................................. 5 1.2 Discorrendo del linguaggio teatrale, uno spartiacque ......................................... 6 1.3 Trent’anni dopo: un orizzonte rizomatico ........................................................ 10 1.3.1 Una possibilitá: il regista orchestratore .............................................. 14 CAPITOLO II Un teatro e i suoi attori al centro di una città ...................................... 17 2.1 Una revisione delle modalitá organizzative dell’esperienza teatrale ................ 17 2.2 Spostare la bilancia a favore della processualità: dal Ratto d’Europa a Carissimi Padri ........................................................................................................ 20 2.3 Un equilibrio tra due dimensioni: orizzontalità e verticalità ............................ 25 CAPITOLO III Una sfida alla complessità: Istruzioni per non morire in pace 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro ................................................................................. 29 3.1 Un confronto carico di conseguenze con un passato gravido di futuro ............ 29 3.2 L’impiego del costume in Istruzioni per non morire in pace: una soluzione grottesca alla molteplicità ........................................................................................ 34 3.3 Il mestiere dell’attore: «non l’arte per l’arte, ma l’arte per l’uomo» ................ 38 CONCLUSIONI................................................................................................................. 45 APPENDICE ...................................................................................................................... 49 Un modo di intendere la vita - Intervista con Gianluca Sbicca ............................... 49 Parlando di necessità - Intervista con Donatella Allegro ......................................... 55 L’arte per l’uomo - Intervista con Nicola Bortolotti................................................ 59 L’attore non può e non deve avere i “paraocchi”-Intervista con Simone Tangolo.. 66 APPENDICE ICONOGRAFICA ..................................................................................... 71 SCHEDA DELLO SPETTACOLO ISTRUZIONI PER NON MORIRE IN PACE 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro ................................................................................ 77 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................... 79 INTRODUZIONE Questa ricerca ha per oggetto principale il lavoro del regista Claudio Longhi1 e del suo ensemble di attori, di assistenti e collaboratori di fiducia, così come è venuto configurandosi negli ultimi cinque anni, in stretto rapporto con l’ente ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, ad oggi, secondo Teatro Nazionale. Nel tempo, attraverso l’operato di questo gruppo di lavoro consolidato, è venuta strutturandosi una peculiare modalità di produzione che ha come presupposti una spiccata progettualità e una marcata attenzione verso il territorio e, più in generale, per lo spettatore (in ragione di ciò il sottotitolo In cerca dello spettatore, palese riferimento all’ormai famoso volume del professor Marco De Marinis In cerca dell’attore: un bilancio del Novecento teatrale2). In questo senso, riteniamo degno di nota il tentativo di riconciliare un teatro pubblico alla sua funzione comunitaria e di servizio attraverso l’organizzazione di attività culturali inclusive e partecipative. Altrettanto stimolante valutare le ricadute che questa modalità di lavoro può comportare sulla regia e sull’attorialità. Premessa fondamentale a questo scritto il solido interesse maturato da chi scrive nei confronti degli studi sulla regia teatrale, interesse ulteriormente consolidatosi durante l’anno accademico 2014/2015 frequentando il corso di Storia della Regia del docente e regista Claudio Longhi. In quella sede si sono potute approfondire la conoscenza del fenomeno, la sua storia e le declinazioni italiane. Tale incontro, inoltre, ha portato chi scrive a seguire con attenzione e curiosità il lavoro dell’ensemble durante il progetto annuale modenese ideato in occasione del Centenario della Grande Guerra, Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915), di cui quindi, sul finire del 2015, conosceva i protagonisti e, parzialmente, i contenuti. Altrettanto determinante, per la genesi di questo scritto, la possibilità presentatasi nel novembre dello stesso anno, grazie alla mediazione del docente, di svolgere il proprio periodo di tirocinio formativo presso ERT durante l’allestimento dello spettacolo Istruzioni per non morire in pace 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro, debuttato il 7 gennaio 2016 al Teatro Storchi di Modena. In quell’occasione la scrivente ha avuto la possibilità di vedere il regista all’opera, affiancare gli attori durante le prove, gli assistenti nelle ricerche bibliografiche e iconografiche necessarie al lavoro, e, in un secondo momento, con 1Si ricorda qui che, a partire dal 1 gennaio 2017, il regista, intellettuale e docente Claudio Longhi è succeduto a Pietro Valenti alla direzione artistica di ERT Emilia Romagna Fondazione. 2Cfr.M. De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000. 1 l’avvicinarsi della prima, di seguire da vicino l’operato del costumista Gianluca Sbicca e della sarta Loredana Averci, in palcoscenico e nel corso delle recite. È importante porre in evidenza sin da ora che, essendo la rappresentazione chiaramente contemporanea e mancando qualsiasi sorta di storicizzazione, l’analisi qui proposta sarà necessariamente parziale e, proprio perché mediata dall’esperienza riportata, personale. Non volendo mancare comunque di un’apparato teorico, si è cercato di inserire il lavoro del regista e degli attori in un quadro più ampio. Un’iniziale riflessione, in questo senso, è stata dedicata alla regia teatrale in Italia. Non potendo chiaramente avvicinarsi ad esaurire l’argomento si è scelto di proporre una lettura che ne evidenziasse lo stato di “crisi” come tratto peculiare e caratterizzante, in particolare, a partire dagli anni Settanta. Indispensabili punti di riferimento per le considerazioni qui maturate, i contributi di Luigi Squarzina e di Claudio Meldolesi e, nell’avvicinarsi al rizomatico orizzonte post-contemporaneo, quelli contenuti all’interno delle riviste teatrali («Hystrio», «Culture Teatrali», il Patalogo) in forma di dossier sull’argomento. Al termine del primo capitolo si è quindi proposta una lettura del lavoro di Claudio Longhi alla luce di una riflessione di Siro Ferrone sullo stato della regia nel XXI secolo. Nel capitolo successivo si è voluti entrare nel merito del progetto Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915) cercando di analizzarne le premesse, i tratti di continuità e discontinuità col precedente Ratto d’Europa, per un’archeologia dei saperi comunitari, le modalità e finalità, nonché i contenuti. Si è cercato di farlo prestando sempre un occhio di riguardo al lavoro di orchestrazione generale del regista e a quello, fondamentale, di mediazione degli attori, nonché al costante e parallelo dialogo, in prospettiva dello spettacolo, con lo scrittore del testo Paolo Di Paolo. Il terzo e ultimo capitolo si è inteso dedicarlo interamente all’analisi di Istruzioni per non morire in pace leggendo lo spettacolo nell’ottica di una “sfida alla complessità”. In un primo momento sono state prese in considerazione le osservazioni anteriori e necessarie alla creazione del lavoro, a cominciare, ad esempio, dal confronto con l’imprescindibile Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus. Particolare attenzione è stata successivamente posta ai costumi, tratto caratterizzante la resa scenica: si è visto, in questo senso, come sia stata affrontata la composizione del testo di Di Paolo su diversi piani (invenzione, storico, cabaret) attraverso il mascheramento degli attori, e le ricadute di questa scelta sull’attorialità. Ne è emerso come esigenze materiali ed estetiche possano, in taluni casi, dialogare proficuamente le une con le altre e come fondamentale si configuri il rapporto di collaborazione pluriannale tra il regista Claudio Longhi e il costumista 2 Gianluca Sbicca. L’ultimo paragrafo è esplicitamente dedicato, nella doppia accezione della parola, agli attori e al loro lavoro. Indispensabili a quest’ultimo capitolo, le interviste rilasciate, con estrema disponibilità, dal costumista e da parte dell’ensemble alla scrivente, la visione delle riprese integrali dello spettacolo gentilmente rese disponibili da Riccardo Frati, nonché le osservazioni e i preziosi consigli di Giulia Maurigh. 3 4 CAPITOLO I LA REGIA TEATRALE IN ITALIA: MORFOLOGIA DI UNA CRISI 1. 1 PREMESSE Nell’impossibilità di affrontare, per ragioni di spazio, una riflessione compiuta sull’imporsi dell’istanza registica in Italia e sui suoi sviluppi, ci si limiterà a fissare dei punti di interesse rispetto al tipo di lavoro che si intende sviluppare nei successivi capitoli. Imprescindibile base di partenza, in questo senso, il saggio di Luigi Squarzina sulla crisi della regia come istanza totalizzante: tematica, questa, di estrema importanza per l’analisi dell’indebolimento della figura registica a favore dell’attività d’ensemble di cui crediamo di poter ragionevolmente parlare nel caso di Claudio Longhi e del suo gruppo di lavoro. Altrettanto d’interesse, nel senso sopra indicato, le questioni poste negli ultimi quindici anni nell’ambito delle riviste teatrali 3 , tra le quali spiccano quelle sollevate da Siro Ferrone4. Dato per acquisito che, per quella che è stata la storia del nostro sistema teatrale, l’affermazione del linguaggio registico ha coinciso in qualche modo con la nascita dei teatri pubblici5, «consolidando quello che si può chiamare un sistema di produzione di teatro mediante teatro»6 si direbbe che l’istanza registica sia stata perdurante oggetto di ponderazione, talvolta di vera e propria messa in discussione, che sia cioè nata sotto il segno della crisi7 e che quest’ultima si sia fatta peculiarità sia a livello di pratiche che di riflessione teorica. Caratteristica questa che sopravvive giungendo al nostro presente, raggiungendo anzi il punto massimo di entropia e sfociando in una moltitudine di 3 Per approfondimenti in merito alla storia e all’evoluzione delle riviste in questione: Cfr. Storia e storiografia oggi. Per Fabrizio Cruciani, «Culture Teatrali», n. 7/8, autunno 2002- primavera 2003, Ferrara, Edizione Cartografica Artigiana. 4 Si vuole qui ricordare che Claudio Longhi, sia in veste di regista che di docente universitario, ha più volte citato, con particolare affezione, l’intervento di Siro Ferrone cui si fa riferimento e sul quale torneremo in maniera più approfondita nei prossimi paragrafi. Cfr. S. Ferrone, Il ruolo del regista nel XXI secolo, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, in s.c., Il Patalogo ventotto. Il ruolo della regia negli anni Duemila, Milano, Ubulibri, 2005, p. 227. 5Cfr. C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, ITC di San Lazzaro, 11 dicembre 2013, reperibile all’indirizzo on-line https://www.youtube.com/watch?v=5yE8eZkSTQg (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 6 L. Squarzina e P. Puppa, Regia, , 1981, reperibile on line all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/regia_(Enciclopedia-Italiana)/ (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 7 Per ciò che concerne questi ragionamenti si rinvia perlomeno a: C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi [1984], Roma, Bulzoni Editore, 2008 (1a ed. Sansoni); O. Ponte di Pino, Pompieri e incendiari. L’eterna crisi della regia all’italiana, in «Ateatro», n. 149, 20 marzo 2014, reperibile on-line all’indirizzo http://www.ateatro.it/webzine/2014/03/20/pompieri-e-incendiari-leterna-crisi-dellaregia-allitaliana/ (ultima consultazione: 3 febbraio 2017); L. Mango, La regia dopo la regia. Tre variazioni sul tema, in «Culture Teatrali», n. 25, annuario 2016 (La regia in Italia oggi. Per Luca Ronconi, a cura di C. Longhi). 5 possibilità, tentativi di “salvataggio, soluzione”8 e superamento, tra le quali, come detto, trova posto anche l’idea registica, o meglio, post-registica, di cui ci occuperemo nei capitoli successivi. 1.2 DISCORRENDO DEL LINGUAGGIO TEATRALE, UNO SPARTIACQUE Questo, nel pensiero di chi scrive e nell’orizzonte teorico che stiamo cercando di tracciare, ha rappresentato il saggio di Luigi Squarzina Nascita apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante9, lucida, per quanto personale, analisi del proprio presente teatrale, nonché del proprio mestiere e dei modi in cui era venuto configurandosi10 a seguito di una «scelta di solitudine»11 (dei singoli registi), ricca di conseguenze, dettata da una crisi personale oltre che storica. Non era nuovo Squarzina al genere di riflessioni che lo porteranno a scrivere il saggio preso in considerazione e già all’inizio degli anni Sessanta apostrofava: La scenografia e la regia italiane debbono trovare (ritrovare) per una loro propria strada e con una loro propria linea di sviluppo quelle dimensioni fantastico-critiche, quella ironia rinunciataria della pittura e della scultura attuali, quell’uso dello sgocciolamento, del detrito, dello sbruciacchiamento, del buco che nelle società industriali più avanzate hanno scompagnato il sorgere dell’era atomica e del neocapitalismo. Oggi, non è più mutuando le esperienze straniere che la scena italiana può fare l’auspicato salto qualitativo. Sostengo da tempo, e l’ho scritto altrove, che la regia è lì lì per farci diventare tutti pompieri. […] Oggi 8 Si prende qui parzialmente in prestito la forma utilizzata da Peter Szondi nel suo celebre Theorie des modernen Dramas (1880-1965), P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1962. 9 Cfr. L. Squarzina, Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, in A. Caracciolo (a cura di), Problemi del linguaggio teatrale, Genova, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, 1974. 10 Si richiama qui brevemente, per quella che è stata definita “regia critica”, lo schema del doppio percorso proposto da Claudio Meldolesi nel suo imprescindibile Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, cit., pp. 280-284: «Primo percorso: la raffigurazione del testo». Il regista critico rispetta la superfice verbale, ricostruisce con cura gli ambienti ed evita le trasfigurazioni. «Secondo percorso: la rappresentazione attualizzata». Il regista critico si insinua tra le maglie del testo rinarrandolo talvolta in chiave raffigurativa, talaltra comunicando soggettivamente e «affermando il primato dell’attualità». Si afferma una «linea interpretativa», rappresentativa non del testo, ma di una sua lettura. La banalità di questa logica ripotenziò quella economica della vecchia regia nazionale: «belle aggiunte critiche» sopra «pretesa oggettività testuale». Fuori dallo schema la «soggettività espressiva». Essa permise al «regista critico sovvertitore» di coltivare a tratti la sua porzione di avanguardia, giungendo non raramente ai mirabili risultati. 11 Ibid., p. 277. 6 i suoi problemi sono tutt’altro da quindici anni fa; sono i problemi stessi della pagina, quelli di un rapporto nuovo fra realtà e rappresentazione12. A dieci anni di distanza Squarzina riprendeva le sue considerazioni sulla registica in Italia in forma più ampia. Guardandosi alle spalle gli riconosceva il merito di aver raggiunto bene la «maggiore età», su «presupposti democratici e antifascisti»; di aver condotto un «aggiornamento tecnico-culturale» e operato una «lettura radicalmente nuova della drammaturgia nazionale» 13 (Ruzante, Goldoni, Pirandello); e ai registi quello di aver rivendicato, nel dopoguerra, un intervento organico dello stato a favore del teatro14. Con l’intento di periodizzare e di restituire valore di spartiacque al 1962 («forse più ancora del fatidico 1968»15), sono due le scansioni temporali16 individuate da Squarzina: la prima, tra il 1950 e il 1962: anni durante i quali la regia italiana perseguiva una linea storicistica e un atteggiamento critico attraverso cui filtrare i testi, «in modo da evincerne una lezione materialistica», rifiutando in questo modo la neutralità come «categoria ideologica»17. Se il pensiero teatrale italiano, in questi anni, ha visto un ripiegamento rispetto alla riteatralizzazione novecentesca, sottolineava l’autore, privilegiando la storia della struttura e e riducendo il “fatto teatrico”, «ha d’altra parte compiuto il lavoro spettantegli il suo tempo» 18 . La seconda, a partire dal 1962, data di abolizione della censura teatrale preventiva e quindi appunto periodizzante per due ordini di ragioni: da una parte, aver determinato lo sviluppo del teatro politico nella sua connotazione marxista e la diffusione 12 L. Squarzina, La scena e la pagina, in «Sipario», dicembre 1962, cit. in C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, cit., pp. 532-533. 13 L. Squarzina,Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, cit. pp. 132-133. 14 A quasi un decennio di distanza, nella voce scritta a due mani con P. Puppa, si leggerà: «Da un punto di vista effettuale, specie per la tendenza interpretativa si è venuto consolidando quello che si può chiamare un sistema di produzione di teatro mediante teatro, che ha ottenuto quasi dovunque strutture funzionali alle sue esigenze, e cioè […] i teatri a gestione pubblica, nelle più varie forme. Sono queste istituzioni che per la loro permanenza e il loro garantismo hanno permesso di superare, sia pure a prezzo di condizionamenti politici e amministrativi e di fardelli burocratici, i ricorrenti collassi economici dell'impresa privata sempre meno in grado di reggere alle crescenti esigenze, fossero queste le domande tecniche del regista-demiurgo, o la necessità di una lunga preparazione, o la coerenza e dignità di un repertorio d'arte da imporre, o l'allargamento del pubblico e il contenimento dei prezzi, o la concorrenza dei mass-media, o i rischi della ricerca. Sono esse d'altronde che, identificatesi con il sistema registico-interpretativo, ne condividono l'indubbia crisi attuale e sono insieme con esso oggetto di ripensamenti e contestazioni». L. Squarzina e P. Puppa, Regia, cit. 15L. Squarzina,Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, cit., p. 136. 16 È Claudio Meldolesi a riformulare la periodizzazione qui proposta: «Credo piuttosto che i registi critici dei primi anni sessanta continuassero a lavorare strutturalmente come dieci anni prima e che dunque le accentuazioni realiste o storiciste, di volta in volta emergenti nel decennio precedente, costituissero delle varianti di linguaggio interne a un modo produttivo già costituito, quello della regia critica appunto», C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, cit., p.135. 17 L. Squarzina,Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, cit., pp. 134-136. 18Ibid., p. 134. 7 dell’opera brechtiana; dall’altra, aver sancito la liberazione dal testo, oggetto imprescindibile all’interno di un sistema di controllo censorio culminante nella verifica a copione (quello approvato) dello spettacolo. È a questo punto, notava l’autore, che si sono rese possibili le sperimentazioni foniche e mimiche sul testo concepito come spartito, i discorsi politici senza reticenze e non privi di radicalismo (si pensi a Dario Fo), il teatro fuori dai teatri e lo stilema neo-barocco (L’Orlando Furioso, 1969, di RonconiSanguineti), la nascita e moltiplicazione dei teatrini off e delle cantine romane, sedi di sperimentazione e fucina di nuove forme provocatorie. Prendendo atto dello schema temporale e mettendo in luce i meriti della regia , Squarzina non si esimeva però dalla critica. Una la conclusione provvisoria, con un corollario e due deduzioni. La rivoluzione registica ha permesso l’acquisizione «della premessa di base che il fatto teatrico è l’azione e non il testo, che teatro è comunità vivente e non codificazione letterario-dialogica» 19 . Peculiare in questo senso l’esempio dell’affrancamento, negli ambienti universitari20, della storia dello spettacolo dalla letteratura drammatica, quale esito, tra gli altri, del lavoro pratico e teorico della regia italiana. Uno spazio specifico quindi: spazio che il regista ha abitato con la sua proposta di un teatro critico «in rapporto al testo ma soprattutto della realtà sulla quale agire mediante un testo, classico o contemporaneo»21. Il corollario è - come contraltare alla riscoperta della componente rituale, alla predilezione per il lavoro collettivo, alla messa in discussione degli spazi teatrali – la mancanza di confronto con la composizione letteraria e la drammaturgia scritta. La prima deduzione sta nell’insufficienza di quella conquista. L’operazione registica rischiava infatti, secondo Squarzina, l’inefficacia, non solo limitandosi al tentativo di smascherare la realtà attraverso un lavoro di interpretazione dei testi, ma anche cercando di costruirne ex novo una alternativa. E «la prova sta nel non aver vinto la passività dello spettatore»22. 19 Ibid., pp. 136-137. È doveroso qui almeno accennare al magistero universitario di Luigi Squarzina data l’importanza che questo ruolo ha rivestito nella parabola umana e artistica del “regista-professore”: iniziato nel 1970 al DAMS di Bologna, continuato alla Sapienza di Roma e conclusosi infine a Roma Tre. Quasi leggendario l’atto fondativo del DAMS di Bologna. Primo corso di laurea italiano interamente dedicato allo spettacolo, alla musica e alle arti, nacque nel 1971 per iniziativa di Benedetto Marzullo, Umberto Eco, Renato Barilli e Adelio Ferrero. Vide coinvolti, tra gli altri: Luciano Anceschi, Gianni Celati, Fabrizio Cruciani, Arnaldo Picchi, Franco Ruffini, Giuliano Scabia e appunto, Luigi Squarzina. 21L. Squarzina,Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, cit., p. 138. 22 Ibid., p. 139. 20 8 Seconda deduzione. Il rischio per le «neoavanguardie italiane»23, era quello di arrendersi al principio di formalizzazione della totalizzazione registica o il «rifiutarlo rifugiandosi nell’irrazionale», proprio là dove le si voleva confinate. «Teatro di compiacimento» quindi o «teatro di disperazione»24 (due possibili facce di una stessa medaglia?). Dopo aver rifuggito il teatro borghese come alcova dell’anti-teatrico, continuava impietoso Squarzina, il regista del dopoguerra sente la responsabilità di aver sancito la scoperta del vero teatro all’interno dello stesso universo dal quale voleva emanciparsi. Il quale, per tutta risposta, si ridà al proprio teatro elegante dello svago, a «quello culinario e digestivo» 25 e allo spettacolo di intrattenimento. Squarzina non mancava però a questo punto una nota positiva, definendo una necessità quanto mai attuale e di estremo interesse per il discorso che si vorrebbe portare avanti: La registica non finisce con la fine della istanza totalizzante della regia. Essa è chiamata, anzi, da una parte, ad allargare enormemente e quasi sfuocare il suo campo definendosi come pedagogia dell’azione disinteressata, e dall’altra a restringersi e funzionalizzarsi come teoria e tecnica dell’intervento teatrico sulla realtà26. E ancora, più estesamente: Se l’utopia in cui crediamo è, in prospettiva, quella di una società che permetta all’uomo associato di vivere per intero la sua vita; se il teatro è quasi l’unica forma di artisticità rimasta a contraddire la riproducibilità e la massificazione; allora l’uomo di oggi può ricavarne una esperienza di autentico rapporto interpersonale […] proprio in quanto l’esperienza che sta vivendo sia avvertibile da lui come ‘disinteressata’ e perciò promotrice del ‘godimento estetico’, non-alienata e non-alienante, non strumentalizzabile a scopo di repressione, non-commerciabile ecc. Che il grande teatro sia sempre stato, nelle epifanie storiche più varie, teatro di propaganda, cosa significa? Che in esso la grandezza la si raggiunge a patto di saper proporre disinteressatamente l’uomo all’uomo27. Il saggio di Squarzina si proponeva quindi di porre luce sulle contraddizioni e la crisi interne alla regia cosiddetta magistrale, auspicando, già allora, un ridimensionamento di 23 Ibid. Ibid., p. 144. 25 Ibid. 26 Ibid., p. 145 (il corsivo è dell’autore). 27 Ibid., p. 143-144. 24 9 certa prassi registica e un’apertura, al di fuori del proprio tempio, in direzione di un autentico dialogo con l’idea di comunità. 1.3 TRENT’ANNI DOPO: UN ORIZZONTE RIZOMATICO Si è visto come Luigi Squarzina individuasse, già alle soglie degli anni Settanta, quella crisi della dimensione totalizzante della regia di cui si troverà tanta traccia nel dibattito degli ultimi anni. E se ci si trova d’accordo con l’osservazione di Marco De Marinis circa la mancanza di una «seria ricognizione critico-storiografica sulla regia teatrale degli ultimi trenta-quarant’anni, insomma qualcosa di equivalente, anche solo alla lontana, alla classica ricerca dedicata da Claudio Meldolesi […] alla prima generazione registica in Italia»28, i «sismografi più sensibili» 29 dell’ultimo decennio non hanno mancato di registrare periodicamente segnali di disagio e di insofferenza contro il «Maestro-PedagogoDittatore»30, nonché «Direttore Unico delle Coscienze»31. L’hanno fatto nel 2005 Franco Quadri e Renata Molinari per il Patalago 28 curando l’inchiesta Il ruolo della regia negli anni duemila, coinvolgendo critici, registi, autori (non attori, significativamente 32 ) e riflettendo: sul ruolo del regista e sulle sue funzioni specifiche rispetto all’accezione articolata e preminente sviluppatasi nel secondo Novecento […] valutando in particolare gli attributi ai quali la regia si sarebbe sottratta, e individuando le caratteristiche specifiche della sua ineliminabile presenza sulla scena33. Se impossibile è render conto del nutrito corpo di interventi raccolti dagli autori, forse più facile tratteggiare sinteticamente la pluralità e l’eterogeneità degli orizzonti. Dove Renato Palazzi, ad esempio, (in riferimento al lavoro di Pippo Delbono e della Socìetas Raffaello Sanzio) sancisce il superamento di una figura registica depositaria della mediazione 28 M. De Marinis, Regia e post-regia: dalla messa in scena all’opera contenitore, in «Culture Teatrali», annuario 2016, n. 25 (La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi, a cura di C. Longhi), p. 66. 29 O. Ponte di Pino, Pompieri e incendiari. L’eterna crisi della regia all’italiana, in «Ateatro», cit. 30 S. Ferrone, Il ruolo del regista nel XXI secolo, cit., p. 241. 31 O. Ponte di Pino, Pompieri e incendiari. L’eterna crisi della regia all’italiana, in «Ateatro», cit. 32 Lo nota acutamente Lorenzo Mango in La regia dopo la regia. Tre variazioni sul tema, in «Culture Teatrali», annuario 2016, n. 25, (La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi, a cura di C. Longhi), p. 85. 33 F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni duemila. Speciale 2005, in s.c., Il Patalogo ventotto. Il ruolo della regia negli anni Duemila, cit., p. 227. 10 interpretativa a favore di un «regista-assemblatore»34 di linguaggi e sensazioni, Colette Godard ci parla di un regista divenuto «capo-cantiere» e di un teatro discernibile dalla performance e dall’installazione solo in ragione della presenza di un testo (un testo che però «deve “parlare di oggi”, con le parole, la sintassi, i cliché di oggi»35). Siro Ferrone auspica l’avvento di un «regista-orchestratore» che succeda al «Regista-MaestroPedagogo»36 e alla sua guida onnisciente. Similmente, Jean Jourdheuil lo considera nei termini di un «capitano di squadra» riconoscendo però che «l'idea del teatro come laboratorio di sperimentazione collettiva è tramontata»37. E se per George Banu «la regia è simile a quei diritti sociali […] che non si possono più rimettere in discussione»38, e per Claudio Meldolesi «quest’arte sembra soprattutto richiedere di essere riconosciuta ulteriormente» 39 , Maria Grazia Gregori si domanda quale possibilità di esistenza sia concessa a quella regia «finestra aperta sul mondo […] lavoro di costruzione poetica da fare con gli attori per rendere evidente ciò che è nascosto». Quella regia che, anche se consunta, è comunque preferibile a «questo teatro del monologo contro tutti e tutto, che ormai ha fatto il suo tempo»40. Pur nella molteplicità dei punti di vista, lampante si presentava e si presenta la crisi d’identità attraversata dalla regia, che ne investe anzitutto il principio d’autorità. E se l’istanza nel senso totalizzante inteso da Squarzina appare superata, è ben lungi però dall’apparirlo la funzione, talvolta apertamente oggetto di nostalgia41. A cinque anni di distanza, sul finire del 2010, è la volta di «Hystrio», rivista per la quale Claudia Cannella si occupa di raccogliere diversi contributi nel dossier Regia 2000. In quest’occasione suona senza appello, la condanna di Renato Palazzi: 34 R. Palazzi, Come cambia la regia. Vita e rappresentazione, maestri della presenza in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila, cit., p. 230. 35 C. Godard, Dire regia, per dire scrittura, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 232. 36 S. Ferrone, Il ruolo del regista nel XXI secolo, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 241. 37 J. Jourdheuil, Realismo, euro-trash, naturalismo, post-moderno e realitismo, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 236. 38 G. Banu, Il ruolo del regista, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 240. 39 C. Meldolesi, Un tempo teatrale disposto a fioriture, ma anche a congelamenti, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 238. 40 M. G. Gregori, La regia, oggi. Auspici per la strada da fare, in F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., pp. 234-236. 41R. M. Molinari, Si può anche chiamare nostalgia. Breve storia personale, quasi lettera autobiografica, sulla regia, in F. Quadri e Ea. (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, cit., p. 261. 11 Sono fenomeni ancora tutti da decifrare […] Una conclusione, però, si può trarne fin da ora: piaccia o non piaccia, essi sembrano in ogni caso segnare il tramonto definitivo di quello che fino a qualche anno fa pareva un dogma inattaccabile, il teatro di regia, e in particolare quella sua specifica tendenza che è la “regia critica” […] Ad attestarlo non è solo la distanza che li separa dalle forme più vive della scena attuale, ma anche la scarsa eredità che hanno lasciato […]42 La creatività teatrale sarebbe quindi da ricercarsi principalmente nel lavoro dei gruppi – tra i quali Palazzi cita a titolo esemplificativo: Teatro Sotterraneo, Anagoor, Babilonia Teatri, Pathosformel, Santasangre e Nanou – e nello strutturarsi del lavoro come creazione collettiva, dove «alla regia si sostituisce dunque la composizione, l’inquadramento dei vari apporti in una costruzione unitaria. E infatti, spesso, in locandina non figura neppure la dizione regia»43. Non dissimilmente Pier Giorgio Nosari parla di un’eclisse della regia a favore di una «(ri)scrittura postdrammatica», una «messinscena postbrechtiana» e «nuovi eco-sistemi di vita e di lavoro»44. Meno radicale Gerardo Guccini, che, ripercorrendo i “famigerati” anni Ottanta – quelli della «stagnazione», del «buco nero»45, del riflusso nel privato e soprattutto della rimozione storiografica 46 – non manca di ricordare il “vituperato” decennio come luogo di affermazione di importanti realtà (fra le altre: Falso Movimento, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Teatro delle Albe….). Anni durante i quali si gettano le basi del teatro di narrazione, iniziano i percorsi di Pippo Delbono e Armando Punzo e ricomincia, da Bologna, l’avventura artistica di Leo de Berardinis. Non demonizzando la prospettiva di una storia “individualizzata” della regia, Guccini coglie inoltre tutte le implicazioni di svolta e salto avanti nelle esplorazioni e scoperte dei «registi-autori-attori»47 (nelle diverse combinazioni). Volendone citare solo disordinatamente qualcuno: Enzo Moscato, Spiro Scimone, Fausto Paravidino, Emma Dante, Toni Servillo, Valter Malosti, Antonio Latella. 42 R. Palazzi, TGeneration e regia critica: un tramonto senza eredi, in C. Cannella (a cura di), Dossier/Regia 2000, in «Hystrio», XIII, 2010, n. 4, p. 42. 43 Ibid., p. 43. 44 P. G. Nosari, Teatri ’90: quando la ricerca non è più scontro tra vecchio e nuovo, in C. Cannella (a cura di), Dossier/Regia 2000, in «Hystrio», XIII, 2010, n. 4, p. 39. 45 G. Guccini, Appunti dal passato secolo sulla nuova regia teatrale, in C. Cannella (a cura di), Dossier/Regia 2000, cit., p. 34. 46 Cfr. anche: G. Guccini, Teatri verso il terzo millennio: il problema della rimozione storiografica, in «Culture Teatrali», n. 2/3, annuario 2000 (Quarant’anni di nuovo teatro italiano, a cura di M. De Marinis), Firenze, La Casa Usher; M. De Marinis, Intermezzo: a proposito della “rimozione storiografica degli anni Ottanta”, in Id., Il teatro dopo l’età d’oro. Novecento e oltre, Roma, Bulzoni, 2013, p. 373. 47 G. Guccini, Appunti dal passato secolo sulla nuova regia teatrale, in C. Cannella (a cura di), Dossier/Regia 2000, cit., pp. 34-36. 12 Due anni dopo, è Franco Cordelli, critico del «Corriere della Sera», a curare, tra il 3 e il 5 dicembre 2012, un convegno esplicitamente dedicato a Il declino della regia48. Ancora: tra il 24 e il 26 marzo 2014, nell’ambito del primo Festival Internazionale della Regia (ideazione, supervisione e direzione artistica: Corrado d’Elia), viene organizzato un ciclo di conferenze significativamente titolato Dalla regia critica alla critica della regia, per ragionare e discutere insieme a registi, attori, critici sul senso della regia teatrale oggi e sui rapporti da essa intrattenuti con la drammaturgia, la performatività, la pedagogia e la triade pubblico/critica/nuovi media49. Infine, l’annale 2016 di «Culture Teatrali», La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi Pensato in omaggio alla «ricerca infinita» di Luca Ronconi e in memoria della sua «sfolgorante parabola artistica», si propone, attraverso le interpretazioni di un considerevole numero di studiosi e le testimonianze di ventitré artisti, di indagare ulteriormente l’annosa questione. Di «tracciare un bilancio delle esperienze registiche nazionali odierne, interrogando il passato e il presente della regia italiana nel tentativo di indovinarne il futuro»50. Elencati alcuni degli spazi di riflessione dedicati alla regia teatrale nell’ultimo decennio, appare evidente come l’insidiosa tematica sia tutt’altro che superata e si ripresenti costantemente e, verrebbe quasi da dire, compulsivamente. Ci troviamo d’accordo con Ferdinando Taviani, quando afferma: Il Novecento teatrale viene definito “il secolo della Regìa”. Il secolo è finito, il termine Regìa non si sa ancora bene che cosa contenga. Nel contenitore c’è una gran confusione. Manca un nocciolo centrale di tecniche o pratiche condivise; non c’è una fenomenologia dai tratti costanti. […] Regìa è quindi una parola che continua ad esser viva, forse proprio perché non dice nulla di preciso, e resta come una questione da sedata. In quanto questione, non in quanto tradizione, s’è trasmessa dal Novecento al Duemila51. 48 Medesimo il titolo della raccolta di recensioni scritte da Cordelli tra gli ultimi anni del Novecento e i primi del Duemila, introdotte da una lunga intervista rilasciata ad Andrea Cortellessa; Cfr. F. Cordelli, Declino del teatro di regia, Milano, Doppiozero, 2013 (e-book; poi edito in versione cartacea: Spoleto, Editoria & Spettacolo, 2014). 49 Redazione Ateatro, Dove sta andando la regia? La parola ai registi, in «Ateatro», 14 febbraio 2014, n. 148, reperibile on-line all’indirizzo http://www.ateatro.it/webzine/2014/02/14/dove-sta-andando-la-regia-laparola-ai-registi/ (ultima consultazione: 27 gennaio 2017). 50 Dalla quarta di copertina di «Culture Teatrali»; C. Longhi (a cura di), La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi, in «Culture Teatrali», n. 25, annale 2016, Firenze, La Casa Usher. 51F. Taviani, Discutere règia, in «Primafila», giugno 2004, p. 6. 13 Nella contemporaneità, nel magmatico orizzonte dei –post e di una «gaddiana ermeneutica a soluzione multiple»52, la nozione di regia si è fatta frammentaria, la parola è divenuta sempre più vaga e si è allargata a dismisura sino a comprendere di tutto53. Se quindi da anni, e a buon ragione, si parla di superamento della regia54, sembra che tal superamento possa avvenire (e avvenga) solo entro una logica di dialogo con la regia stessa. 1.3.1 UNA POSSIBILITÁ: IL REGISTA ORCHESTRATORE Valutato il fenomeno della regia nella contemporaneità si vuole a questo punto tentare di inserirvi il lavoro registico di Claudio Longhi, ipotizzando che questo possa essere meglio letto alla luce dell’auspicio di Siro Ferrone, così come è stato mirabilmente formulato: E così, assediata come un “ridotto regale” (Le roi se meurt) la postazione onnisciente del Maestro-Pedagogo-Dittatore, sono riemerse nella loro splendente miseria le Solitudini terrestri degli attori in cerca d’Autore. Una rifondazione che annaspa in mezzo ai relitti delle corti registiche, mentre gli attori migliori recuperano narrazioni epiche o giullaresche, ora esangui e ora energiche. Ma la capacità di raccontare non pare accontentarsi della solitudine (anche quando è sostenuta da geniali performer) o dalla testimonianza autoreferenziale (anche quando esprime un cocente disagio sociale). Si va alla ricerca di un nuovo patto drammaturgico che respinge la guida onnisciente del Regista-MaestroPedagogo e cerca invece un Maestro Orchestratore, incline più ad ascoltare che a parlare, meno programmatico enunciatore di Manifesti, Metodi e Sistemi, più paziente nel trovare e leggere testi che siano un nuovo patto artistico per la comunità dei teatranti55. Venuta meno, come visto, la dimensione totalizzante e il principio di autorità dell’istanza registica, una tra le possibilità pare essere un indebolimento della stessa a favore di un nuovo legame attore-regista (ma non solo) in direzione di un dialogo costante, di un processo di creazione collettiva e condivisione d’intenti che investe la professione attoriale di nuove e rinnovate funzioni. La concezione stessa di attorialità si amplia e si arricchisce, superando le definizioni di attore-interprete, attore-performer, attore-danzatore e 52 Cfr.C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, cit. 53 Cfr. M. Schino, Continuità e discontinuità, in R. Alonge, La regia teatrale. Specchio delle brame della modernità, Bari, Edizioni di Pagina, 2007, pp. 272-273. 54 Cfr. M. De Marinis, La regia e il suo superamento, in In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, cit.; F. Perelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale, Torino, UTET, 2005. 55 S. Ferrone, Il ruolo del regista nel XXI secolo, cit., p. 241. 14 muovendosi verso quella di più ampio respiro, com’è stata definita altrove da Massimo Castri, di «operatore culturale»56. Svestiti i propri panni regali, il regista si mette quindi “al servizio”, alimenta il dialogo e il confronto, accetta proposte, delega e condivide la propria “missione”, che diventa quella dell’ensemble: recuperare il grande assente del “fatto teatrico”, lo spettatore. 56 E’ proprio Claudio Longhi, in un articolo dedicato al regista, a citare il modello operativo proposto da Massimo Castri che qui riportiamo: «1. Rinnovamento e aggiornamento tecnico-espressivo; 2. Trasformazione da attore in quanto “riproduttore tecnico” in operatore culturale; 3. Abbattimento della struttura psicologica sostanzialmente eterodiretta; proiezione dell’attore verso una dimensione di lavoro collettivo e responsabilizzato in senso politico». Cfr. C. Longhi, «Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni), «Dionysus ex machina», 2013, 4, pp. 343 – 387. 15 16 CAPITOLO II UN TEATRO E I SUOI ATTORI AL CENTRO DI UNA CITTÀ 2.1 UNA REVISIONE DELLE MODALITÁ ORGANIZZATIVE DELL’ESPERIENZA TEATRALE Si è cercato di tracciare un orizzonte, se pur parziale, del fenomeno regia nella contemporaneità e si è ipotizzato di collocare al suo interno il lavoro di Claudio Longhi proponendolo nei termini della figura di regista-orchestratore auspicata da Siro Ferrone. A questo punto, prima di scendere nello specifico dello spettacolo Istruzioni per non morire in pace 1.Patrimoni 2.Rivoluzioni 3.Teatro (2016) 57 e del progetto che ne costituisce l’imprescindibile premessa, si vorrebbe analizzare il lavoro del regista così come è venuto configurandosi negli ultimi anni. Anni di sempre più stretta collaborazione con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione e il suo direttore uscente Pietro Valenti, e con la costituzione, nel tempo, di un solido gruppo di collaboratori, che vorremmo qui citare: gli attori Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo; la musicista Olimpia Greco; il costumista Gianluca Sbicca e gli assistenti Giulia Maurigh e Giacomo Pedini. Presupposti fondamentali a questo tipo di lavoro sono state attente considerazioni inerenti la situazione attuale del sistema teatrale italiano. Seguendo i ragionamenti58 dello stesso regista, una prima, importante riflessione, concerne la funzione che ancora oggi può avere un teatro pubblico all’interno di una città. La questione si presenta inevitabile dal momento che, come abbiamo visto, la modalità produttiva teatrale in Italia è costruita su un’intelaiatura che è quella dei Teatri Stabili. Data per acquisita la constatazione che la vocazione storica del teatro pubblico sia stata quella di essere un servizio – modello su cui è nato il Piccolo Teatro di Milano – bisogna prendere atto che quello stesso modello è entrato in crisi. Perché si renda possibile parlare di teatro in termini di servizio infatti, è necessario prima di tutto che ci sia una domanda e, dato di fatto inequivocabile è che la domanda di teatro sia venuta progressivamente disintegrandosi. Si è di fronte in primis ad 57G. Maurigh e G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, libretto dell’omonimo spettacolo per la regia di C. Longhi reperibile nella sua versione on-line all’indirizzo http://www.carissimipadri.it/wpcontent/uploads/2016/01/pdf-nuove-date.pdf (ultima consultazione: 15 febbraio 2017). 58Cfr. C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, cit. 17 un «problema di educazione, di formazione, di costruzione di pubblico» 59 . Non è secondario che i progetti di cui parleremo prendano le mosse anzitutto da fitti appuntamenti all’interno delle scuole in forma di incontri, laboratori, letture. Se è vero che il problema non è riducibile ad una sola variabile e che l’esperienza culturale e la fruizione teatrale in particolare, risentano, tra gli altri, del carattere di iper-stimolazione e iperinformazione proprio dell’epoca in cui viviamo, è altrettanto vero che nelle scuole italiane manca qualsiasi forma di «alfabetizzazione teatrale»60. Come osserva criticamente Claudio Longhi: Le scuole sono sicuramente un punto di partenza e da questo punto di vista la situazione teatrale è veramente disperante. […] Se è già pietosa la situazione dell’educazione musicale e dell’educazione artistica, se possibile l’educazione teatrale è messa ancora peggio, proprio perché non viene nemmeno contemplata. Un esempio che mi capita spesso di fare: io sono laureato in letteratura italiana, da laureato in letteratura italiana sarei stato molto probabilmente candidato ad essere un mediatore per eccellenza tra dei giovani e il teatro. Per poter insegnare letteratura italiana io ho dato due esami di geografia, tre esami di filosofia, tre esami di storia… Non avevo un esame di storia del teatro obbligatorio, quindi mi sarei trovato a insegnare, a occuparmi anche di autori teatrali, senza avere la minima quadratura del cerchio da quel punto di vista. Quindi, credo comunque ci sia una profonda necessità (di teatro), e credo però ci sia un problema di denominare e di articolare quella necessità in una precisa domanda, il che per l’appunto mette in crisi la dimensione del servizio61. Parallelamente alla problematica inerente la funzione che dovrebbe rivestire un teatro stabile, si sviluppa una seconda importante riflessione di ordine più propriamente estetico. Guardando ancora alla storia del sistema teatrale italiano, la nascita dei teatri pubblici ha per certi versi coinciso con la creazione del linguaggio registico. Più precisamente: se il Piccolo Teatro di Milano ha costituito il luogo di nascita di un teatro concepito in termini di servizio, la sua fondazione è stata anche la premessa di base all’esperienza strehleriana e quindi ad una certa idea e una certa prassi registica62. Idea e prassi riconducibili ad un grande modello di regia forte, di un regista che ha una forte vocazione alla trasmissione di 59 C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, ITC di San Lazzaro, cit. 60 Ibid. 61 Ibid. 62 Cfr ad esempio: C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi [1984], cit., L. Squarzina, Il romanzo della regia: duecento anni di trionfi e di sconfitte, Pisa, Pacini Editore, 2005. 18 una verità personale e che quindi si pone in termini di Pedagogo, di Maestro: la cosiddetta regia magistrale. Come si è visto nel primo capitolo, proprio quel modello, autoritario e totalizzante, è stato fortemente messo in discussione nel tempo ed è entrato precocemente in crisi. «Muori pure tranquillo perché non sei indispensabile»63 scriveva Squarzina a proposito del regista, citando Brecht, già negli anni Settanta. Venuta meno, nell’orizzonte frantumato e frammentario post-contemporaneo, l’idea di una “Verità” unica e indebolitasi la funzione magistrale, si è assistito ad un conseguente ridimensionamento della funzione registica. Ridimensionamento che determina a sua volta la necessità di una revisione delle modalità organizzative dell’esperienza teatrale e, tornando al principio, l’attenta valutazione delle responsabilità e del funzionamento di un Teatro Stabile. A fronte di quanto detto, si pone un’ultima questione, inerente lo statuto dell’attore. Come punto di partenza Claudio Longhi cita gli appunti di Massimo Castri, risalenti ancora i primi anni settanta, all’epoca della comunità teatrale dell’Emilia Romagna (ATER), in cui Castri rifletteva criticamente sulla dimensione dell’attorialità in Italia, parlando della necessità di togliersi dalla seduzione dell’eterodirezione e di riscoprire l’attore come “operatore culturale” 64 . È ragionando su quelle pagine e più in generale sulla mancanza di riconoscibilità dell’attore teatrale oggi, che Longhi ragiona: Questa diminuzione d’importanza della figura registica su che cosa si trasmette? Credo che un problema fondamentale oggi sia ridefinire la posizione dell’attore e la posizione che un attore ha all’interno di una comunità. Una comunità di riferimento che è la comunità del proprio pubblico. […] quelle pagine ovviamente risentono di un contesto ideologico, di un clima, di una congiuntura storica, che per certi aspetti ci siamo lasciati alle spalle. Ma vanno dritte al cuore di un problema che è la legittimazione della figura dell’attore all’interno di una comunità. Uno dei problemi grossi oggi per chi fa questo mestiere è per l’appunto la legittimazione della propria funzione […] pubblica.65 In conclusione, volendo schematizzare in forma interrogativa le congerie di considerazioni sin qui analizzata e dalle quali prende le mosse il lavoro di Claudio Longhi, dei suoi collaboratori e del suo ensemble di attori: 63L. Squarzina, Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, in A. Caracciolo (a cura di), Problemi del linguaggio teatrale, cit., p. 135. 64 65 Cfr. C. Longhi, «Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni), cit., pp. 343-387. C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, cit. 19 - Che tipo di funzione può rivestire un teatro all’interno di una città? - In quale modo si può ricostruire un rapporto con il pubblico? - Quale posizione devono assumere l’istanza registica e l’attorialità all’interno di questo dibattito? A partire da queste riflessioni e dalla ferrea volontà di non chiudere la produzione teatrale nella dimensione del prodotto in sé finito, è venuta precisandosi un’idea di processualità, un tipo di progettualità basata sul continuo scambio tra il teatro, i suoi attori e la città. 2.2 SPOSTARE LA BILANCIA A FAVORE DELLA PROCESSUALITÀ: DAL RATTO D’EUROPA A CARISSIMI PADRI Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915)66, è stato un progetto, durato un anno e promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione, iniziato a principio 2015 a Modena in occasione del centenario della Grande Guerra. Come spiega il regista, le radici di questo lavoro non vanno ricercate nell’occasione commemorativa, quanto in una modalità di lavoro che aveva iniziato a prendere forma anni prima: L'idea che sta al fondo di Carissimi Padri... è, in qualche misura, il portato di un più lungo percorso – sempre condotto con Emilia Romagna Teatro Fondazione e il suo direttore Pietro Valenti– che risale alla Resistibile ascesa di Arturo Ui67, uno spettacolo debuttato nella primavera del 2011 a Roma (era infatti, quella, una co-produzione ERT e Teatro di Roma). In quel caso si trattava di una messa in scena più “regolare”, da una drammaturgia di Bertolt Brecht, ma accanto allo spettacolo erano state pensate, a Roma e Modena (le due città degli allora teatri coproduttori), delle attività culturali e didattiche (lezioni, laboratori e piccoli spettacoli) che andavano a integrazione e completamento di quanto proposto sul palcoscenico del Teatro Argentina, prima, e del Teatro Storchi, poi68. 66 Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace” (1900-1915), co-produzione ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro della Toscana, sito del progetto consultabile all’indirizzo http://www.carissimipadri.it (ultima consultazione: 15 febbraio 2017). 67 Cfr. La resistibile ascesa di Arturo Ui, http://archivio.emiliaromagnateatro.com/produzione.asp?P_Spt_CID=1327 (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 68 N. Guerrieri (a cura di), Carissimi Padri…intervista a Claudio Longhi e Giacomo Pedini, 27 marzo 2016, http://www.criticaletteraria.org/2016/03/carissimi-padri-intervistareperibile on-line all’indirizzo claudio.html (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 20 Sul filo di quella prima, parziale, ma felice esperienza, e sempre con Emilia Romagna Teatro, venne messa in atto, durante la stagione 2012-2013, (ma in mezzo vanno almeno citati anche i percorsi sviluppati nelle zone colpite dal sisma del 2012: Raccontare il territorio69 e Beni Comuni70) un’operazione di più ampio respiro, il Ratto d’Europa, per un’archeologia dei saperi comunitari71, che, con gli opportuni adattamenti, fu riproposta insieme al Teatro di Roma, in qualità di co-produttore, anche nella capitale. Il Ratto d’Europa, un progetto terminato con uno spettacolo omonimo al Teatro Storchi di Modena nel maggio del 2013, presentava sul piano dei metodi e parzialmente su quello dei contenuti, l’antecedente diretto di Carissimi Padri. Sotto il primo punto di vista, la parabola scenica finale veniva costruita in dialogo col pubblico e con il territorio attraverso una serie di attività tra le più diverse: letture, mostre, conferenze, proiezioni, laboratori, atelier (una forma di laboratorio concentrato in tre giornate con esito finale, aperto a centocinquanta cittadini senza esperienza teatrale). Attività queste, rese possibili grazie alla collaborazione di numerosi partner tra associazioni, istituzioni culturali, stampa, mondo del lavoro, scuole e Università, centri per anziani72… Come ricorda divertito Claudio Longhi: Il modo in cui abbiamo operato è stato quello, empirico, di una trasversalità assoluta, andando a bussare, letteralmente, a tutte le porte che ci trovavamo davanti. Quando dico bussare letteralmente, intendo dire proprio un processo nomade di attraversamento della città, incontrando le varie realtà e andando a presentarci. Con situazioni talvolta anche paradossali […] più parlavo più la signora si trasformava in un punto interrogativo e ad un certo punto, dopo mezz’ora che raccontavo la rava e la fava, il mito del ratto d’Europa, ecc.. mi guarda e mi dice: “Scusi ma io in che cosa posso esserle utile? Perché, mica andrete a bussare a tutte le porte per sapere se qualcuno è interessato?!” […] Quella specie 69 Raccontare il territorio, informazioni sul progetto reperili all’indirizzo http://www.emiliaromagnateatro.com/raccontare-il-territorio-2014/ (ultima consultazione:10 febbraio 2017). 70 Cfr. Al via beni comuni, il Festival di teatro partecipato nei luoghi colpiti dal sisma, 17 ottobre 2014, reperibile on-line all’indirizzo http://www.modenatoday.it/eventi/beni-comuni-festival-provinciamodena.html (ultima consultazione: 10 febbraio 2010). 71 Ratto d’Europa. Per un’archeologia dei saperi comunitari, sito del progetto consultabile all’indirizzo http://www.ilrattodeuropa.it (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 72 La lista completa dei partner modenesi è reperibile on-line all’indirizzo http://modena.ilrattodeuropa.it/?page_id=337 (ultima consultazione: 3 febbraio 2017); quella dei partner romani all’indirizzo http://roma.ilrattodeuropa.it/?page_id=337 (ultima consultazione: 3 febbraio 2017). 21 di sketch surreale è stato abbastanza la fotografia di che cosa è successo per svariati mesi, andando letteralmente a bussare alla comunità ebraica, all’Arcidiocesi, alla CGL, a Confindustria Giovani, nelle scuole elementari, nei centri per anziani.. cercando di capire se c’era un interesse a fare qualcosa insieme. La prima reazione era una specie di chiusura perché la prima cosa che si sospettava è che noi stessimo chiedendo qualcosa. Che ci fosse, in realtà, una specie di seconda intenzione e che da qualche parte saremmo arrivati a chiedere soldi. Questa era la percezione immediata. Ci volevano un paio di incontri perché si disinnescasse questa percezione e ci fosse invece la sensazione che effettivamente.. noi andavamo, dicendo: “Noi sappiamo fare questo. Siamo degli attori, siamo un regista, siamo un teatro, abbiamo queste possibilità.. possiamo fare qualcosa a sevizio vostro? Avete delle attività in cui vi sarebbe utile la nostra presenza? Se ci sono delle attività di questo tipo, bene, noi ci siamo, non chiediamo niente. Voi avreste voglia di fare qualcosa con noi? Avete voglia di mettervi a fare un laboratorio di scrittura e ad affrontare il tema dell’Europa in certi modi?73 Tornare ad abitare la città quindi. Una città che torna a dialogare strettamente con l’idea di comunità. E che lo fa attraverso un teatro, inteso nuovamente come luogo di «riflessione sul proprio presente, di analisi del passato e di immaginazione del futuro»74. Tentando di generare un processo culturale virtuoso e condiviso, nonché una riflessione, intorno ad un tema dato. Coinvolgendo le diverse realtà in attività anche al di fuori dei teatri e cercando di creare tra queste delle intersezioni agenti oltre la stretta finalizzazione all’esito spettacolare. Nel caso specifico del Ratto d’Europa, andando a creare una sorta di drammaturgia collettiva, precipitato dei materiali raccolti nel corso dei laboratori e delle attività con i partner, ma anche frutto di idee e suggestioni nate dal costante confronto con il pubblico. Infine, spostare la bilancia a favore della processualità: il percorso in questo senso, viene ad assumere almeno la stessa importanza del risultato finale, lo spettacolo. Questo sul piano metodologico. Per ciò che concerne il contenuto, il Ratto d’Europa nacque figlio di quella congiuntura storica che vide scoppiare nell’agosto del 2012 il caso spread e durante il quale si cominciò a parlare in termini sempre più drammatici di emergenza economica europea. Ricorda a questo proposito Claudio Longhi: C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, cit. Cfr. C. Longhi, Le cinque parole di Claudio Longhi, ITC di San Lazzaro, 21 luglio 2014, reperibile on-line all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=LBVqXxvWqYo (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 73 74 22 La cosa che mi colpiva enormemente in quel frangente, era l’insistenza, l’ossessività, con il quale il ‘tema Europa’ rimbalzava continuamente nelle pagine dei quotidiani piuttosto che nei notiziari televisivi; e dall’altra parte quando parlavi con le persone avevi continuamente la percezione dell’Europa come una grande nebbia, come un’oggetto sconosciuto, un’oggetto indifferente.. nella migliore delle ipotesi come un’oggetto minaccioso. Ma questa era la migliore delle ipotesi perché già l’oggetto minaccioso presupponeva il fatto che se ne prendesse coscienza come oggetto dotato di un suo profilo, per quanto terrificante. Per lo più per l’appunto, era una specie di punto interrogativo75. Si presentò così la possibilità, pensando ad un progetto che coinvolgesse la città, di una riflessione che investisse il senso di appartenenza nei confronti di quell’Europa “misconosciuta”. Una riflessione operante su due fronti: da una parte le origini mitiche, identitarie, e geografiche; dall’altra la contemporaneità, con lo sgretolarsi dell’idea di Unione Europea a causa della crisi economica, nonché politica e culturale, del continente. E di lì l’idea di una missione per gli otto “attori-agenti” del Ratto, rappresentanti ognuno mondi e mentalità diversi: formare una “squadra” e salvare l’Europa dal rischio di estinzione, attraverso una serie di prove alla “Jeux sans frontières”, per «affrontare infine il “Resto del Mondo”, in una tragicomica disfida decisiva»76. Presa rapidamente in esame la tematica del Ratto d’Europa emergono dunque, anche in questo caso, tratti di continuità con il progetto successivo. Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(19001915) infatti, approfondisce ulteriormente la riflessione intorno all’identità europea. Lo spiega bene Claudio Longhi: Da una parte c’era un’occasione commemorativa dietro l’angolo è vero, ma d’altra parte riflettere sulla Grande Guerra attraverso la costruzione di un progetto annuale di teatro aperto alla comunità era un modo per noi, di proseguire, sia sul piano tematico e non solo su quello metodologico, l’esperienza condotta insieme e ERT con il progetto e lo spettacolo Il Ratto d’Europa. In fondo le origini del primo conflitto mondiale sono da ricercarsi nella scelta suicida compiuta un secolo fa dall’Europa, al culmine di un periodo ricchissimo e di impressionante espansione e sviluppo economico e culturale, che aveva coinciso con l’imporsi degli stati europei nei confronti di buona parte del mondo. Se C. Longhi, S.P.Q. senza quarta parete – esperienze e buone pratiche per teatri aperti alla città, ITC di San Lazzaro, cit. 75 76 Sinossi dello spettacolo reperibile consultazione: 10 febbraio 2017). on-line all’indirizzo http://modena.ilrattodeuropa.it (ultima 23 dunque il Ratto d’Europa era stata una riflessione a largo raggio sullo stato attuale del nostro Continente, il nuovo progetto poteva indagare un momento particolarmente significativo (e caratterizzante) della sua recente storia. La catastrofe segnata dal trentennio bellico 1914-1945 è stato l’impulso alla successiva unione degli stati d’Europa, prima solamente economica e poi, con tutti i limiti e le criticità che conosciamo, vieppiù politica77. Riassumendo quindi: una modalità di lavoro costituitasi nell’arco di sei anni intorno ad un regista e ad un gruppo consolidato di collaboratori, in stretta collaborazione e in aperto dialogo con ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione. Due progetti legati all’idea di un «processo partecipato in cui il teatro si mette in discussione all’interno di una comunità e sviluppa un percorso artistico culturale che, attraverso svariate tappe, culmina nella messa in scena di uno spettacolo finale, precipitato di tutto l’iter sviluppato»78 . Obbiettivo comune ad entrambi: dare il via, grazie a numerose collaborazioni e alla realizzazione di differenti tipologie di attività, a una riflessione il più ingrandita possibile sul tema in oggetto, l’identità europea e le sue radici, «cercando di coinvolgere quante più persone possibile in un grande percorso di formazione, propedeutico all'evento scenico»79, per riconciliare il teatro alla sua originaria funzione comunitaria e di servizio. 77G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, in G. Maurigh, G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, cit., p. 11. 78 A. Marcheselli (a cura di), “Un bel dì saremo”: a Modena nuovo progetto di teatro per la città, intervista a Claudio Longhi, in «Gazzetta di Modena», 16 gennaio 2017, reperibile on-line all’indirizzo: http://gazzettadimodena.gelocal.it/tempo-libero/2017/01/16/news/claudio-longhi-1.14718227 (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 79 L. Guanciale, “Carissimi Padri”, la vittoria di Modena. Un bilancio del progetto teatrale di Ert tracciato da uno dei suoi protagonisti, in «Gazzetta di Modena», 1 marzo 2016, reperibile on-line all’indirizzo: http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2016/03/01/news/padri-la-vittoria-di-modena-1.13048044 (ultima consultazione: 3 febbraio 2017). 24 2.3 UN EQUILIBRIO TRA DUE DIMENSIONI: ORIZZONTALITÀ E VERTICALITÀ Presi sin qui in considerazione i tratti di continuità, si cercherà di entrare nello specifico di Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915) vedendo come le modalità di lavoro “a progetto” si siano chiarite e precisate nel tempo. Di particolare interesse, sotto questo punto di vista, un’ampia intervista80 rilasciata dal regista Claudio Longhi a Lorenzo Donati in occasione del conferimento del Premio speciale Ubu al Ratto d’Europa (dicembre 2013). In quella sede, tra le altre, veniva affrontata la questione dell’orizzontalità e della verticalità, come due poli dell’esperienza teatrale. La riflessione nasceva a margine di un pensiero di Savinio81, secondo il quale il teatro, per essere tale, abbisognerebbe di verticalità, mentre i nostri tempi sarebbero inteatrali e indrammatici in ragione di un’orizzontalità diffusa che sottrae il teatro al suo specifico (lo scontro tra uomo e Dio). Questo dibattito che si è schizofrenicamente ripresentato lungo tutto l’arco del novecento, ponendo l’accento ora sul «“popolare”, preferendo una lettura politicizzata del termine», ora sul «mito romantico dell’identità creatrice»82, abita tutto il lavoro che stiamo prendendo in esame. Ma se all’epoca dell’intervista menzionata, il regista dichiarava di vivere internamente il contrasto tra le due tensioni: Durante la creazione del Ratto ho dunque avuto ben presente il problema che poni, e ho provato a fare in modo che questa consapevolezza andasse ad incidere sulle varie fasi della creazione, sperimentando percorsi orizzontali e altri verticali, in cerca di un equilibrio. Dovessi rispondere alla luce della mia biografia, ti direi che il mio punto partenza è certamente “romantico”, e si riconosce nel mito dell'identità creatrice. Il mio percorso si divide però fra il maestro Ronconi e il maestro Sanguineti, personalità quest'ultima che ha dato una spallata in tutt'altra direzione. Anche per questo sono propenso a trovare un equilibrio fra le due dimensioni di cui stiamo parlando83. A quattro anni di distanza e terminata l’esperienza di Carissimi Padri, il lavoro, pur 80 Cfr. L. Donati (a cura di), Per un teatro verticale e collettivo. Conversazione con Claudio Longhi, reperibile on-line all’indirizzo: http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/3/interviste/230/per-un-teatro-verticalee-collettivo-conversazione-con-claudio-longhi.html (ultima consultazione: 10 febbraio). 81 A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977. Cfr. anche: «Con la fine dei modelli e l’avvenuta autonomia della mente umana, il sentimento dell’universo è passato dal senso verticale al senso orizzontale. Il nostro tempo vive sotto il segno dell’orizzontalità. Da qui il suo pessimismo», Id., Fine dei modelli, in «La Fiera letteraria», 24 aprile, 1º maggio e 8 maggio 1947, ora in Id., Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Alberto De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 492. 82 L. Donati (a cura di), Per un teatro verticale e collettivo. Conversazione con Claudio Longhi, cit. 83Ibidem. 25 permanendo costante la dialettica orizzontalità-verticalità, appare meglio definito. Si delinea in merito, anche a fronte della passata esperienza, una maggior consapevolezza: Questa è una delle ossessioni costanti che ci muove tutte le volte che lavoriamo a ogni singolo appuntamento: come facciamo a non diventare il villaggio Valtur, a non trasformarci in animatori? Da questo punto di vista mi rendo conto che già il passaggio dal Ratto d’Europa a Carissimi Padri ha portato a uno scarto. Dentro il Ratto c’era un tasso di orizzontalità molto più marcato, nel secondo progetto il tentativo di riverticalizzare i rapporti era già molto più forte. La sfida continua quindi è l’equilibrio tra attraversamento e concentrazione, l’apertura verso l’esterno e la non dilapidazione, l’attenzione verso l’altro e la concentrazione per l’affinamento del pensiero84. Vi è quindi con Carissimi Padri un ulteriore sviluppo. La necessità di coinvolgere il maggior numero possibile di persone non abituate all’esperienza teatrale aveva, nelle parole del regista, determinato l’utilizzo, durante l’operazione del Ratto d’Europa, di «modi da cultura “pop”»85. Il progetto successivo, sin dalle sue premesse, si è posto tra gli obbiettivi di riconciliare le diverse tipologie di spettatori. Peculiare da questo punto di vista, tra le varie attività organizzate, il ciclo di letture de La Montagna Incantata di Thomas Mann, svoltosi durante tutto l’arco dell’anno in venti puntate 86 . Romanzo notoriamente difficoltoso, se da una parte ha visto un pubblico di affezionati avvicinatisi col precedente lavoro, dall’altra ha raccolto i consensi di un nuovo pubblico «tra cui i rappresentanti di una certa borghesia colta modenese, che invece aveva l'orticaria a venire agli appuntamenti del Ratto»87. Concerti-spettacolo e conferenze, biciclettate e lezioni, 84 R. Menna (a cura di), Teatro partecipato, attore, regia, scrittura, 02 febbraio 2017, reperibile on-line all’indirizzo: http://www.doppiozero.com/materiali/teatro-partecipato-attore-regia-scrittura (ultima consultazione: 15 febbraio 2017). 85 R. Menna (a cura di), Carissimi padri della Grande Guerra. Un progetto teatrale per la città di Modena. Intervista a Claudio Longhi, 12 febbraio 2015, reperibile on-line all’indirizzo http://www.doppiozero.com/materiali/scene/carissimi-padri-della-grande-guerra (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 86 «La montagna incantata» lettura a puntate del romanzo di Thomas Mann, nella storica traduzione di Ervino Pocar, ideazione di C. Longhi, collaborazione alla drammaturgia V. Cantoni, svoltosi dal 24 gennaio al 5 dicembre 2015 presso la Biblioteca Civica Antonio Delfini; hanno partecipato: l’ensemble di C. Longhi (Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e alla fisarmonica Olimpia Greco); Alberto Bertoni; Gabriele Lavia; Renata Palminiello; Ottavia Piccolo; Laura Marinoni; Marco Martinelli; Luca Lazzareschi; Ivano Marescotti; Anna Della Rosa; Roberto Latini; Franco Branciaroli; Francesca Mazza; Paolo di Paolo; Simone Francia; Cesare Lievi; i giovani studenti modenesi, guidati dall’Accademia della Crucca, ulteriori approfondimenti reperibili on-line all’indirizzo http://www.carissimipadri.it/la-montagna-incantata-lettura-a-puntate-delromanzo-di-thomas-mann/ (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 87 R. Menna (a cura di), Carissimi padri della Grande Guerra. Un progetto teatrale per la città di Modena. Intervista a Claudio Longhi, cit. 26 cene-spettacolo e mises en éspace, oltre ai fortunati atelier, i laboratori aperti alla partecipazione di centinaia di cittadini88, per quella che è stata definita una dimensione di “teatro partecipato”. Sussiste quindi anche in Carissimi Padri una continua tensione tra un livello culturale alto e uno ibrido, rigore intellettuale da una parte e dimensione “popolare” dall’altra, con una spinta però verso una riverticalizzazione delle forze in campo. Un impegno che, in questo senso, ha determinato anche un diverso modo di gestire i materiali testuali presi in esame, raccolti o scritti dagli stessi attori, co-creatori e direttamente coinvolti in ognuna delle attività, nel corso del progetto89. Se lo spettacolo precedente infatti, aveva visto convivere in una sorta di polifonia, materiali nati nel corso delle attività laboratoriali con quelli di provenienza letteraria (Gli ultimi giorni dell'Umanità di Karl Kraus, Le città invisibili di Calvino, Anna Karenina…), con Carissimi Padri si opera un cambio di rotta e viene invece commissionato un testo a Paolo Di Paolo90. Anche in questo caso si potrebbe dire che “galeotto fu il Ratto”, come racconta Claudio Longhi: L’incontro con Paolo è stato del tutto casuale. Mi sono imbattuto con lui durante la declinazione romana del Ratto d’Europa. Nell'ambito de Il giro d’Europa in ottanta giorni, un percorso all’interno delle biblioteche romane, lo invitammo a parlare di Lisbona in ragione del rapporto che ha avuto con Antonio Tabucchi e chiacchierando con lui durante l’incontro del nuovo lavoro, venne fuori che aveva curato una antologia di testi di letteratura italiana sulla Grande Guerra mischiando testi d’epoca ad altri successivi, da Ungaretti a Vassalli insomma. E nacque l’ipotesi, visto che cercavamo un drammaturgo, di proporlo proprio a lui. La genesi di Istruzioni per non morire in pace è stata una bellissima esperienza per l’enorme disponibilità di Paolo che considerava veramente la sua scrittura come materiale dato per l’allestimento lasciandoci incredibilmente liberi di intervenire, cambiare, tagliare, senza l’ossessione di difendere la virgola. Allo stesso tempo molti dialoghi con lui sono stati illuminanti per capire determinati fenomeni, perché guardare le cose attraverso gli occhi di un altro fa crescere91. Si tratta di una scelta incisiva dal momento che, se da un lato emerge la volontà di 88 Il programma completo delle attività è reperibile on-line all’indirizzo http://www.carissimipadri.it/programma/ (ultimo accesso :10 febbraio 2017). 89 È utile qui ricordare che ognuno dei membri dell’ensemble si è dovuto confrontare con la costruzione drammaturgica, con la scelta di musiche e la ricerca di soluzioni comunicative volte a restaurare un rapporto con il proprio pubblico, in quell’ottica di ampliamento delle proprie funzioni di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo. 90 P. Di Paolo, Istruzioni per non morire in pace. Chiuso per la guerra riapertura dopo la vittoriosa pace, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015. 91R. Menna (a cura di),Teatro partecipato, attore, regia, scrittura, cit. 27 riequilibrare l’aspetto partecipativo nella scrittura, dall’altro viene scelto un romanziere come drammaturgo. E del resto Istruzioni per non morire in pace. 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro (2016) non si presenta come un testo teatrale canonico. Emerge vividamente, tra le sue maglie, un confronto continuo con il gruppo di lavoro durante tutto il percorso verso lo spettacolo. Si può notare come, ad esempio, vi fluiscano alcune “scene” tratte dalla Montagna Incantata di Thomas Mann, come vi si ritrovino alcuni aspetti esplorati intorno alle “radiose giornate” di maggio durante uno dei tanti atelier e infine, come vi emerga chiaramente l’indagine operata lungo tutto il progetto, in particolare attraverso Kabarett à la carte92 (il ciclo di otto cene spettacolo) intorno alla forma rivista/cabaret/varietà. Come chiariva Claudio Longhi: In altre parole, per questo spettacolo, chiediamo al drammaturgo di mettere un suo sigillo, di consegnarci una storia sua che nasca attingendo al materiale che noi stiamo producendo e raccogliendo93. Affiora così una dimensione di sfaccettata complessità, che emerge dai contenuti affrontati, dai capitoli e dalle tematiche componenti il progetto e che, confluendo nel testo, andrà poi a precipitare, come vedremo, all’interno dello spettacolo. 92 Kabarett à la carte: 1900-1915, ulteriori approfondimenti reperibili on-line all’indirizzo http://www.carissimipadri.it/kabarett-a-la-carte-1900-1914/ (ultima consultazione: 15 febbraio 2017). 93 R. Menna (a cura di), Carissimi padri della Grande Guerra. Un progetto teatrale per la città di Modena. Intervista a Claudio Longhi, cit., (il corsivo è dell’autore). 28 CAPITOLO III UNA SFIDA ALLA COMPLESSITÀ: ISTRUZIONI PER NON MORIRE IN PACE 1. PATRIMONI 2. RIVOLUZIONI 3. TEATRO 3.1 UN CONFRONTO CARICO DI CONSEGUENZE CON UN PASSATO GRAVIDO DI FUTURO Come si è precedentemente visto, Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915) è stato pensato e progettato in occasione delle commemorazioni per il centenario della Grande Guerra. Accostandosi ad un tema come quello del conflitto mondiale, la prima e inevitabile riflessione che si è presentata al regista e al gruppo di lavoro ha riguardato l’indicibilità, l’inenarrabilità di quegli anni. Per un verso, si è imposto un difficilissimo, quanto necessario confronto con Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus: modello imprescindibile e insuperato nella sua «ambizione enciclopedica»94 di raccontare la guerra a teatro; per l’altro, attraverso la lettura delle Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov 95 di Walter Benjamin, lampante è apparso il carattere di spartiacque della Grande Guerra, linea immaginaria in forma di trincea oltre la quale «sarebbe venuta meno quella “capacità di scambiare esperienze” propria dell’atto del raccontare»96. Tali confronti hanno determinato a loro volta conseguenze rilevanti sul progetto e lo spettacolo. Anzitutto, a fronte della constatazione del citato carattere di annichilimento della “trasmissione”, è seguita la scelta di ante-datare la narrazione al periodo della cosiddetta Belle Époque. Si è deciso così, lambendo solamente lo scoppio del conflitto, di spostare l’asse del racconto verso gli anni della “Grande Pace”, della fiducia nel progresso e della fede positivistica, sotto la cui calma apparente si muovevano i G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, cit., p. 12. Cfr. ad esempio: «E’ come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze. Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute . E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili. Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?», W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, cit. in G. Maurigh e G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, cit., p. 44. 96 G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, cit., p. 12. 94 95 29 rigurgiti nazionalistici che portarono al «suicidio di una certa idea di Europa»97. A cascata ne è emersa una riflessione, in continuità col precedente Ratto d’Europa, sulla contemporaneità e l’identità europea, viste attraverso la lente d’ingrandimento della storia. Guardare le cose da lontano significa, anzitutto, guardare meglio, vedere le cose al di fuori degli schemi percettivi cui si è abituati. […] è più semplice guardare dei casi di per sé distanti, per trovare quegli elementi di continuità, quelle analogie in grado di far riflettere sul proprio agire e sulle conseguenti responsabilità. […] Bisogna però non cadere nella tentazione, inversa, di appiattire gli eventi storici, con le loro analogie con l’oggi, al presente […] Bisogna, in altri termini, fuggire anche l’idea che la storia sia una perpetua attualità. La storia è maestra anzitutto perché insegna che le cose cambiano e che ognuno di noi è necessariamente tenuto ad affrontare dei cambiamenti. Ecco perché credo che si possa recuperare una possibilità di racconto, specie attraverso la storia. C’è una possibilità conoscitiva , data dal sapere che gli eventi mutano e sono modificabili, conoscenze da cui ognuno può trarre una conclusione: la consapevolezza che chiunque può incidere, certo entro i propri limiti e con le proprie forze, sul contesto in cui vive98. Tale sguardo critico al presente non viene però reso esplicito, ma emerge piuttosto dall’ammiccamento straniante da parte degli attori nei confronti nel pubblico, sia durante le attività progettuali che, in forma definitivamente compiuta, durante lo spettacolo. Dall’inavvicinabile summa krausiana derivano poi il «procedere per montaggio, per accostamento di situazioni grottesche»99 e la cifra umoristica, la coloritura bassa, il ricorso alla dimensione del varietà che, indagati approfonditamente dal gruppo di lavoro lungo tutto l’arco dell’anno, divengono la costante stilistica del trittico Istruzioni per non morire in pace. Linee guida in questo senso la descrizione data da Kraus di quei protagonisti del “mondo di ieri” 100 come «personaggi da operetta» che «recitarono la tragedia dell’umanità»101, e l’osservazione di Bertold Brecht, dalle note di regia della Resistibile ascesa di Arturo Ui, secondo cui la dimensione comica, più di quella tragica, si adatti a 97 C. Bazzani (a cura di), A passo di commedia dentro una valigia di guerra, in «Gazzetta di Modena» (inserto spettacoli), 17 gennaio 2015. 98 G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, cit., p. 12. 99 Ibid. 100 Cfr. S. Zweig, Il mondo di ieri: ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1994. 101 Si vuole qui almeno riportare: «La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità», K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Roma, Adelphi, 1980, p. 9. 30 render conto delle umane sofferenze102. Come nella miglior tradizione del Kabarett “con la cappa” di Berlino e di Monaco, della “dinamite nell’ovatta”103 (come è stata definita da Kraus), della satira e della rivista, Istruzioni per non morire in pace procede quindi per scenette, per quadri, alternando a suon di operetta recitazione e momenti musicali, dipingendo così quello che si potrebbe definire un “grande, epico affresco a tinte acide” dell’epoca. Sono tre gli sguardi gettati sulla Belle Époque: il primo, Patrimoni, indaga causticamente i rapporti tra guerra e capitalismo; il secondo, Rivoluzioni, guarda con ironica ammarezza al fallimento delle utopie; il terzo, Teatro, esplora il mondo del varietà e dell’avanspettacolo, fucìna, nella sua apparente leggerezza, di vera critica politica. Questi tre aspetti evidenziati, a ben guardare, si ripresentano in diversa misura in ognuna delle parti e non risolvono la vastità dei temi affrontati: l’avidità di una generazione di padri, la leggerezza di quella dei figli, la complicità del mondo ecclesiastico, il nazionalismo, l’imperialismo, il socialismo, la psicanalisi, l’erotismo… Un mosaico esploso che attraverso uno sterminato numero di frammenti restituisce un’immagine, se non d’immediata lettura, certamente vivida [dal lat. vivĭdus, der. di vivĕre «vivere»] di un epoca. Fil rouge, nell’andirivieni cronologico e spaziale all’interno del quinquennio, è la storia di una famiglia. Due fratelli industriali: Marcello (Nicola Bortolotti) e Fernando (Michele Dell’Utri); di quest’ultimo, quattro figli: Maria, una volta cresciuta, Suor Maria (Diana Manea); Tina (Donatella Allegro), remissiva impiegata alle poste ma amante in segreto di un operaio sindacalista (Eugenio Papalia) alle dipendenze del padre; Berto (Simone Tangolo), aspirante artista in fuga dalla noia nella scintillante Parigi bohémienne di inizio secolo; Lelo (Lino Guanciale), attore sessualmente ambiguo, amante di Josephine (ancora la Manea), puttana e spia, a sua volta coinvolta in una relazione con un Ufficiale tedesco (Simone Francia). Questi i “personaggi” principali che, non mirando 102 Più estesamente: «Oggi si sente ripetere assai spesso che è inopportuno e vano voler consegnare al ridicolo i grandi delinquenti politici, vivi o morti. […] È relativamente facile controbattere l’invito rivolto all’arte a trattare la brutalità con delicatezza, ad innaffiare con garbo la gracile pianticella della conoscenza, a mostrar fiori a chi ci ha mostrato bastoni ecc. E si può anche attaccare questo concetto di “popolo”, che designa qualcosa di “più alto” della popolazione, e dimostrare come qui aleggi lo spettro della famigerata “comunità nazionale” che abbraccia carnefici e vittime, sfruttatori e sfruttati. Ma cosi non è ancora condannata l’immoralità di chi invita la satira a non immischiarsi nelle cose serie. Proprio di cose serie si occupa la satira. I grandi delinquenti politici vanno denunciati, esponendoli soprattutto al ridicolo. Giacché essi anzitutto non sono grandi delinquenti politici, bensì autori di grandi delitti politici, il che è assai diverso […] E in genere vale il principio che la tragedia, molto più spesso della commedia, prende alla leggera le sofferenze dell’umanità», B. Brecht, La contenibile ascesa di Arturo Ui, in Id., Teatro, volume III, a cura di E. Castellani, Torino, Einaudi, 1963, pp. 319-321. Nel testo, citando il titolo dell’opera, si è preferito mantenere la traduzione di Mario Carpitella perché adoperata da Claudio Longhi e dal suo gruppo di lavoro per la messa in scena dello spettacolo La resistibile ascesa di Arturo Ui (2011). 103 Cfr. P. Sorge, KABARETT! Satira, politica e cultura tedesca in scena dal 1901 al 1967, Roma, Elliot, 2014, pp. 5-6. 31 all’introspezione psicologica, vengono restituiti dalla regia, dalla recitazione e attraverso i costumi, firmati da Gianluca Sbicca, come “figurine grottesche”, quasi a sottolineare la dimensione “mostruosa” e non innocente, al di là delle storie individuali, di un mondo avviato alla catastrofe. Ognuno di questi destini a sua volta si incrocia o convive a fianco di quelli di artisti, letterati, politici, uomini di teatro: Sigmund Freud, Georg Heym, Robert Musil, Rudyard Kipling, Emilio Salgari, Stefan Zweig, Lev Trotsky, Winston Churchill, Thomas Wilson, Jean Jaurès, Giovanni Giolitti, Antonio Salandra, Sidney Sonnino, Sarah Bernhardt, Erwin Piscator, Karl Kraus… Solo per citarne alcuni. Sono centoquindici esattamente i “personaggi” di questo spettacolo, all’incirca quindici per interprete. Lo spazio del teatro viene utilizzato interamente, gli attori invadono spesso la platea, si affacciano dai palchi, cantano, ballano e suonano sulla pedana rosso fuoco che occupa per metà la sala104. Il palcoscenico si presenta incorniciato da luci d’avanspettacolo e vi si muovono tre sipari rosso «sangue di bue» 105 che disegnano gli spazi e segnalano, supportati da cartelli e proiezioni106, i salti temporali e l’avvicendarsi delle scene. La musicista (Olimpia Greco), costantemente in scena, alterna fisarmonica e pianoforte, passando in rassegna, in omaggio a Kraus, gran parte del repertorio dell’operetta primonovecentesca. Ingente la quantità di attrezzeria scenica dispiegata: cannoni, vasche da bagno, cartine geografiche, orologi, quotidiani, banconote, lettere e volantini, che non di rado piovono letteralmente dal soffitto. Unica costante alle tre parti, autonome e complementari, il finale, in cui viene scoperto il “gioco”, l’intento. Risuona l’annuncio della dichiarazione di guerra, gli attori infine “calano le maschere” cantando, ma senza più alcuna traccia di bonarietà in volto (il proprio, per la prima volta), l’americana cala dall’alto invadendo la scena, rompendo definitivamente “l’illusione” e, attraverso una proiezione, sullo sfondo, viene causticamente consegnato il monito: “il futuro”. Ciò che emerge vividamente dalla presa in esame della bibliografia di partenza al 104 Le scene sono di Guia Buzzi. Cfr. infra, Scheda dello spettacolo, p. 73. Ha fatto tesoro Claudio Longhi dei “cenni per l’esecuzione” a La contenibile ascesa di Arturo Ui di Brecht: «Questo dramma va rappresentato in stile grandioso, perché gli avvenimenti acquistino quel risalto che purtroppo loro compete; se possibile, con chiare reminiscenze del dramma storico elisabettiano, perciò con sipari e praticabili. Si può recitare, ad esempio, davanti a sipari di juta grezza imbiancati a calce, con chiazze color sangue di bue. All’occorrenza possono essere anche usati fondali dipinti a mo’ di panorama, e sono altresì consentiti effetti musicali di organetti, trombe e tamburi. Ma naturalmente va evitata la pura e semplice parodia, e anche in chiave di grottesco non deve mai venir meno l’atmosfera di orrore. È necessaria un’esecuzione plastica, condotta a ritmo veloce, con gruppi d’insieme chiaramente afferrabili, nel gusto dei vecchi quadri d’argomento storico», B. Brecht, La contenibile ascesa di Arturo Ui, cit. 319. 106 Le proiezioni sono di Riccardo Frati e le ricerche iconografiche a cura di Giulia Maurigh. Cfr. infra, Scheda dello spettacolo, p. 73. 105 32 progetto107, dalla laboriosità del testo di Di Paolo, dalla non comune durata, dall’audacia della resa scenica e dell’ensemble di attori, ma anche dall’ampia ricerca musicale e dall’altrettanto accurata ricerca sul costume di cui si parlerà nel prossimo paragrafo, è soprattutto il coraggioso tentativo di rendere conto dell’ “idea di complessità” a teatro. Il problema della complessità, o meglio del discorso sulla complessità è uno dei grandi problemi estetici del Novecento e del nostro nuovo millennio. Naturalmente è un problema che molto mi affascina , specie se si tratta per l’appunto di affrontare la complessità con un mezzo estremamente semplice come il teatro. Quando fai una cosa a teatro devi riportare tutto in meno di cento metri quadrati e c’è sempre un numero limitato di attori. Il tempo di prova è contingentato, ma soprattutto quello di rappresentazione, perché c’è coincidenza assoluta tra il tempo di chi fruisce e chi agisce in scena. […] Mi rendo conto che prediligo non tanto la direzione della sintesi, quanto quella di inseguire, attraverso la sintesi che è già del teatro, una manifesta e sfaccettata complessità108. 107 Citando solo disordinatamente e in parte gli autori di riferimento: Walter Benjamin, Cristopher Clark, Jaroslav Hašek, Margaret MacMillan, Thomas Mann, Franz Kafka, Karl Kraus, Aldo Palazzeschi, Joseph Roth, Renato Serra, Karl Valentin, Stefen Zweig…Ci teniamo almeno in questa sede a ricordare che il titolo stesso del progetto Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace”(1900-1915) trae origine da una citazione letteraria, l’attacco de La lettera al padre di Franz Kafka (1919). Dice a proposito il regista Claudio Longhi: «“Carissimo padre” è l’attacco della Lettera al padre di Kafka. Un testo che racconta un conflitto generazionale attraverso le parole di un giovane che si confronta con la strabordante autorità paterna. Quelli della Grande Guerra sono anni in cui una generazione di figli viene mandata al macello da una generazione di padri; carissimi, in una doppia accezione: diletti, certamente, ma anche costosi, perché letteralmente costano la vita dei figli, e perché muovono capitali», R. Menna (a cura di), Carissimi padri della Grande Guerra. Un progetto teatrale per la città di Modena. Intervista a Claudio Longhi, cit. 108 G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, cit. 33 3.2 L’IMPIEGO DEL COSTUME IN ISTRUZIONI PER NON MORIRE IN PACE: UNA SOLUZIONE GROTTESCA ALLA MOLTEPLICITÀ Una sfida alla complessità dunque, che ha comportato un’ingente raccolta di materiali testuali, musicali e iconografici. Interessante da questo punto di vista, anche per una lettura ulteriore dello spettacolo, prendere in esame il lavoro svolto in sede di ideazione dei costumi, divenuti tratto stilistico e caratterizzante Istruzioni per non morire in pace 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro (2016). Ogni attore infatti si presenta con il capo interamente avvolto da una calza di tulle elasticizzato, chiusa posteriormente da una zip in modo da favorire, dato il gran numero di personaggi, i cambi rapidi. Ognuna di queste “maschere integrali”, definite dal costumista “camauri” 109 , è caratterizzata dall’applicazione di posticci (rigonfiamenti degli zigomi, allungamenti del naso, prolungamenti del mento, barba e baffi) che agiscono, alterandoli in maniera grottesca, sui lineamenti degli interpreti. A coprire il capo poi, delle parrucche di nailon incollate e scolpite con il vinavil in molteplici pettinature dal gusto volutamente “finto”, anch’esse concepite per essere infilate e sfilate con rapidità. L’attore Nicola Bortolotti in Istruzioni per non morire in pace 2. Rivoluzioni nel ruolo del critico 1. Si noti come il “camauro” ne alteri in maniera determinante e grottesca la fisiognomia110. Foto di scena di Luca Del Pia. 109 Il significato originale della parola è legato ad un copricapo papale in uso tra tardo Medioevo e fine Ottocento. In questa sede lo utilizzeremo nel senso attribuitogli dal costumista dello spettacolo. 110 Per ulteriore materiale iconografico si rimanda alla sezione appendice. 34 Un lavoro intrapreso dal costumista Gianluca Sbicca con diversi mesi di anticipo, in stretta collaborazione con il regista, individuando inizialmente delle linee guida nell’immaginario del cabaret di Monaco e Berlino di inizio Novecento. Dalla prima volta che me ne ha parlato Claudio abbiamo iniziato a preparare il materiale. Mi spiego meglio. Io di solito lavoro così: dopo una prima chiacchierata con il regista preparo dei grandi tomi di fotocopie da cui trarre suggestioni, spunti. Le idee sono nate da queste immagini… Questo ad esempio era proprio il Kabarett di Valentin. Parlando con Claudio a me sono venute in mente queste cose perché credevo rispecchiassero a loro volta le idee che aveva lui dello spettacolo in quel momento e che poi ha mantenuto.111 Circoscritto un universo stilistico di riferimento, la sfida presentatasi al costumista è stata appunto quella di rendere conto della complessità del testo assecondando le richieste del regista. Primo problema ineludibile in questo senso, l’alto numero dei personaggi, centoquindici come abbiamo detto, e la necessità di far sposare le esigenze estetiche a quelle funzionali e produttive. Come racconta Gianluca Sbicca, l’idea iniziale non prevedeva la copertura del volto degli attori, quanto invece un trucco molto caricato in stile Bob Wilson. Da subito è apparso chiaro che la struttura a “quadri” (nella trasposizione scenica da non più di venti minuti ciascuno) in rapporto alla quantità delle “maschere” coinvolte, avrebbe determinato un cospicuo numero di rapidi cambi di costume, annullando di fatto il tempo necessario a quel genere di preparazione. Sicuramente se indossi una maschera, interpreti molti personaggi e sei in uno spettacolo come Istruzioni.. non ti puoi appellare ad una dimensione psicologica. Mi verrebbe da dire che non ti puoi appellare a nessuna dimensione, se non a quella di correre in fretta per arrivare a fare un altro personaggio! (ride)112 Ulteriore questione a porsi: l’esigenza di andare incontro allo spettatore, essendo solo otto gli interpreti, nella riconoscibilità e distinzione dei personaggi. 111 Dove non differentemente riportato, i contributi qui presentati fanno parte di un’ intervista redatta dalla scrivente al costumista Gianluca Sbicca, il quale ha accettato la nostra proposta dimostrando vivo entusiasmo e grandissima disponibilità. Essa è consultabile, nella sua interezza, nella sezione appendice. 112 Cfr. infra, D. Pasini (a cura di), L’arte per l’uomo. Intervista con Nicola Bortolotti, p. 56. 35 Di lì il fortunato concepimento dell’idea dei cosiddetti “camauri” e delle relative parrucche che, oltre a risolvere efficacemente le questioni eminentemente materiali, si sarebbero rivelati determinanti per un’ulteriore lettura del testo in rapporto all’idea registica di Longhi. Si è presentata infatti, in un secondo momento, una riflessione più legata alla dimensione drammaturgica. Il testo di Di Paolo si configura su più livelli intersecantisi tra di loro: uno più propriamente narrativo-finzionale, uno “storico”, uno esplicitamente dedicato all’universo del cabaret e infine, in una sovrapposizione ulteriore, un piano nel quale i personaggi della linea narrativa, essendo anche attori di cabaret di mestiere, recitano dei personaggi storici 113 . Si è reso così necessario, come ci ha spiegato il costumista, un lavoro di caratterizzazione ulteriore. Quando gli attori interpretano i personaggi principali indossano un camauro il più possibile neutrale e bianco, che si limita a velar loro il volto; nel caso dei personaggi storici i lineamenti, attraverso ricerca iconografica, sono ispirati a quelli “reali” e resi in chiave grottesca attraverso l’apposizione di trucco e posticci; i momenti di cabaret sono fortemente segnati da camauri “lisci” ma dipinti a mano in gusto espressionista e da parrucche di gusto violentemente anti naturalista; infine, nell’ultimo caso, l’uso del colore e dei posticci viene ad integrarsi in unico camauro. Il primo step sono stati i camauri bianchi. Da lì siamo partiti. Con più caratterizzazione e meno caratterizzazione siamo andati a creare dei tratti costanti per i diversi livelli. Claudio voleva lo stacco smaccato per le scene di cabaret e il riferimento che mi aveva dato inizialmente era Otto Dix. Ad un secondo confronto, mostratigli dei materiali a mò di esempio, mi disse che gli ricordavano troppo delle maschere, e che avrebbe preferito inseguire la strada dell’Espressionismo come richiamo più generico alla corrente artistica. A quel punto ho fatto un’accurata ricerca sui dipinti espressionisti e ho cercato di riportarli sul camauro a livello astratto, senza ricalcare i lineamenti di una persona, perché ciò che aveva in mente era proprio una macchia di colore, una cosa “tirata fuori”. Questa è stata una sua precisa richiesta114. 113 Troviamo brillante, nella prima parte Patrimoni e nella terza Teatro, l’intuizione registica di Claudio Longhi di sovrapporre più camauri l’uno sull’altro, sfruttando a pieno le possibilità offerte dal testo e dai costumi. 114 Infra., D. Pasini,Una vita per il teatro. Intervista con Gianluca Sbicca, p. 45. 36 L’attore Simone Tangolo, indossando il camauro di gusto espressionista sopra descritto, recita una scena di cabaret in Istruzioni per non morire in pace 1. Patrimoni. Foto di scena di Luca Del Pia. In ultimo le scene di cabaret, in ragione di un’ulteriore astrazione, vengono corredate da accessori di carta quali sciarpe, elmetti, mostrine e talvolta veri e propri costumi. Il testo in questo modo, attraverso la densa collaborazione tra regista e costumista, viene sviscerato e reso scenicamente in tutte le sue possibilità come il “grande affresco acido” di cui parlavamo precedentemente. Non è secondario che Claudio Longhi e Gianluca Sbicca condividano, oltre che una solida amicizia consolidatasi nel tempo, una lunga esperienza di lavoro insieme, con Luca Ronconi prima e nei successivi allestimenti di Longhi poi, e che il costumista vesta, ormai da anni, gli stessi attori. La soluzione brillantemente escogitata da Sbicca, annullando di fatto l’espressività del volto e restituendo delle figurine grottesche, dei fantocci di “cartapesta”, crea un forte effetto di straniamento e pone sin dal principio lo spettatore nella condizione di confrontarsi criticamente con lo spettacolo. L’inventiva di Gianluca Sbicca, la sapiente bulimia del testo di Paolo Di Paolo e l’irrefrenabilità degli interpreti, si fanno quindi ingredienti prìncipi di una ricetta brechtiana e grottesca meditata da Claudio Longhi lungo un anno di progetto, per rendere conto di quell’«esagitato caravanserraglio della società europea di primo Novecento»115. 115 C. Longhi, Istruzioni per non morire in pace. Note di regia, reperibile on line all’indirizzo http://www.emiliaromagnateatro.com/spettacoli/istruzioni-per-non-morire-in-pace/ (ultima consultazione 15 febbraio 2017). 37 Una società di ‘sonnambuli’, tutti intenti a sognare le «magnifiche sorti e progressive» del genere umano e intanto impegnati nella messa a punto di uno dei più spaventosi ordigni di distruzione che l’umanità abbia mai concepito. Non c’è salvezza per questa folla. E come non c’è salvezza, non ci può essere tragedia per questa umanità che ha perduto la ragione. C’è spazio solo per la risata acida della rivista e del varietà. Ma nelle pieghe di quei volti lontani sembra di ritrovare il nostro presente, un presente su cui possiamo però intervenire.. Brecht era solito ripetere: «il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile»116. 3.3 IL MESTIERE DELL’ATTORE: «NON L’ARTE PER L’ARTE, MA L’ARTE PER L’UOMO»117 Un teatro di vera cultura non acquisterà il suo realismo al prezzo della rinuncia alla bellezza artistica. Anche se la realtà è brutta, non per questo deve essere bandita da una scena preoccupata di problemi stilistici. Sarà, anzi, proprio quella bruttezza il soggetto principale della rappresentazione – le bassezze umane quali la cupidigia, la vanagloria, la stupidità, l’ignoranza, la litigiosità, nella commedia, e l’ambiente sociale disumanato nel dramma. La smania di abbellire è di per sé stessa cosa assolutamente vile tanto quanto l’amore del vero è di per se stesso cosa nobile. L’arte è capace di bellamente rappresentare il brutto della bruttezza e nobilmente il volgare della volgarità, giacché gli attori sono pure in grado di rappresentare con grazia ciò che è sgraziato e con vigore la debolezza118. È in particolare l’ultima frase di questa bella citazione tratta dalle Note sul teatro popolare di Bertold Brecht ad interessarci in questa sede. Ci sembra infatti che gli attori di Istruzioni per non morire in pace, da anni ensemble consolidato, non si esimano dall’“arduo compito”. Durante i tre capitoli dello spettacolo sono instancabili: cantano, ballano, suonano, si vestono e svestono in continuazione e corrono, corrono incessantemente, dietro e davanti le quinte, dal palco alla platea, dalla platea alla barcaccia, dalla barcaccia di nuovo in palco, macinando kilometri impensabili all’interno di un teatro. E ciò nonostante non smentiscono, neanche nella serata più “sfortunata”, l’affermazione di Brecht. Se l’intento era quello di rappresentare l’orrore e le contraddizioni di un mondo avviato più o 116 Ibid. Questa bella definizione la dobbiamo all’attore Nicola Bortolotti, che qui ringraziamo. Cfr. infra, D. Pasini (a cura di), L’arte per l’uomo. Intervista a Nicola Bortolotti, p. 56. 118 B. Brecht, Note sul teatro popolare, in Id., Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2001, pp. 106-107. 117 38 meno inconsapevolmente alla guerra; di rendere la complessità ipertrofica di un’epoca storica con la quale, date le preoccupanti similitudini con l’oggi, ci si ritrova a dover fare i conti e di farlo ridendo (ma non solo). Senza però per questo perdere il gusto per la pulizia e l’incisività del gesto, l’attenzione alla dizione e all’uso misurato della parodia, l’alchemico dosaggio di “straniamento” e “immedesimazione” e, più in generale, senza dimenticare l’uso sapiente di tutti gli attrezzi del mestiere… Se questo era l’intento, per tirare le fila, noi crediamo che questi attori l’abbiano raggiunto e che l’abbiano fatto rappresentando «con grazia ciò che è sgraziato e con vigore la debolezza»119. É da considerare anche che vi sono arrivati preparati. Si intende dire che quello che noi riteniamo un felice e generoso risultato lo è anzitutto nei termini di un compimento, della conclusione di un percorso più ampio. Un percorso più ampio che ha come premesse fondamentali una dimensione di lavoro condiviso in un arco di tempo prolungato. il gruppo di lavoro (definizione che, come sai, ha preso per il posto di quella di "compagnia"), è stabile da diversi anni e la collaborazione con il regista, è in alcuni casi molto antica […] Ecco: questo essere "sempre noi" da molto tempo è un aspetto di grande valore, umano e professionale, con ricadute esterne e interne al gruppo. Tralasciando le prime, di cui puoi leggere in molte interviste a Claudio, vengo a ciò che riguarda il nostro lavoro di attori. Ci conosciamo, ci apprezziamo e siamo anche molto amici; in scena siamo diventati così sensibili alle sfumature espressive dei nostri colleghi che recitare insieme – ma, più in generale, lavorare insieme – è diventato facilissimo: ci aiutiamo, ci completiamo, improvvisiamo... Lavoriamo in gruppi di "specializzazione" e ci sentiamo a tutte le ore del giorno. Il che non è sempre sano, magari, ma certamente è utile. In scena abbiamo assunto come grammatica comune quella che negli anni ci ha trasmesso il nostro regista: un certo modo di muoversi, di abitare la scena, di parlare e persino di scrivere ormai sono stilemi riconoscibili nel nostro linguaggio recitativo […] Le nostre personalità di attori però non si sono livellate, e non credo sarebbe mai possibile. Restiamo diversi, e così ci piace essere120. Come abbiamo già ricordato l’ensemble di attori orbitanti intorno al regista Claudio Longhi si è stabilizzato a partire dalla messa in scena de la Resistibile ascesa di Arturo Ui (2011) di Bertold Brecht e lo ha fatto intorno ad una modalità di lavoro che implica, prima dell’esito spettacolare, una lunga ricerca e una costellazione di attività, a stretto contatto 119 120 Ibid. Cfr. infra, D. Pasini (a cura di), Parlando di necessità. Intervista a Donatella Allegro, p. 51. 39 col proprio pubblico, correlate al tema in oggetto. Si pone quindi, per questi attori, la possibilità di munirsi del bagaglio di contenuti e degli strumenti comunicativi necessari a sostenere e rendere coinvolgente la trasposizione di un testo altamente in-formativo in uno spettacolo della durata, nella sua versione integrale, di nove ore. Con le parole dell’attore Nicola Bortolotti, si tratta «di lavorare avendo fatto un’esperienza di “immersione nel mare delle cose a cui ti rivolgi”»121. Ci sembra fondamentale sottolineare l’utilità di questa modalità progettuale che, se da un lato ha il grandissimo pregio di tentare una fuoriuscita del teatro dalla dimensione di nicchia nella quale si trova (non senza qualche responsabilità), dall’altro comporta significative ricadute sull’attorialità in senso stretto. Da un lato, rimettendoci nel solco di un lavoro iniziato con La resistibile ascesa di Arturo Ui e proseguito con i progetti successivi – in primo luogo Il Ratto d’Europa –, abbiamo cercato di continuare a riflettere (e praticare) su ciò che possiamo immaginare sia il concetto di straniamento, tentando soprattutto di indagare le relazioni tra lo straniamento e la tradizione teatrale italiana del caratterista. In altri termini ci siamo trovati a lavorare su un crinale in cui un’eredità scenica consolidata si tocca e convive con il piano dell’avanguardia. Contestualmente ci siamo concentrati nello sviluppo della funzione creativa attoriale, grazie al fatto che abbiamo avuto la possibilità di collaborare su un arco temporale lungo, dedicandoci tutti ad approfondire gli argomenti trattati e a “metterci le mani” da punti di vista differenti.122 È in gioco quindi la possibilità, come sottolinea l’attrice Donatella Allegro, di costruirsi un bagaglio culturale e raggiungere un certo grado di consapevolezza rispetto ad un contesto e un’ambientazione storica. Non è trascurabile, da questo punto di vista, il fatto che la prima cosa ad essere stata consegnata in mano agli attori dal regista sia stata una bibliografia123. Se perciò l’ensemble può giovarsi di un approfondito lavoro di ricerca sui contenuti, non meno incisivo è il fatto che venga coinvolto direttamente nel processo creativo lungo tutto l’arco del progetto durante il quale elabora in autonomia i materiali da presentare durante le attività col pubblico. Non di rado scrivendo testi, componendo intervalli musicali e proponendo, munito degli attrezzi di cui sopra, una prima idea di regia. 121 Cfr. infra, D. Pasini (a cura di), L’arte per l’uomo. Intervista a Nicola Bortolotti, p. 56. G. Pedini (a cura di), Intervista a Claudio Longhi, cit., p. 16. 123 Oltre a Donatella Allegro è l’attore Michele Dell’Utri a parlare. Cfr. G. Maurigh (a cura di), Istruzioni degli attori,in Ea. e G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, cit., p. 21. 122 40 È anche un mettersi alla prova, se vuoi… Confrontandosi ad esempio con la scrittura, la ricerca di un pezzo musicale, il modo di arrangiare questo pezzo al testo che hai scritto per un determinato tipo di occasione. Ma anche un lavoro di ricerca su di un periodo storico, di materiali che stimolino in qualche modo la comunità che hai intorno rispetto ad un determinato argomento. Tutto questo determina una grande crescita per il mestiere dell’attore e in verità, dal mio punto di vista, si tratta di una riscoperta di un modo di lavorare che esisteva già. Modo di lavorare che poi influisce appunto nel momento in cui vai a scrivere un testo e questo testo viene percepito, riconosciuto dallo spettatore, come qualcosa che lo rispecchia in qualche modo, come qualcosa che parla di lui oggi124 . Si configura così un nuovo (o forse antico?) rapporto regista-attori che, eliminata la presenza di presunte gerarchie e coadiuvato dal lavoro degli onnipresenti assistenti, riconsidera lo statuto dell’attore e le sue funzioni, culturali e creative. Volendo tentare una sintesi e appellandoci ai concetti incontrati sinora, crediamo di trovarci in presenza di «attori-artisti-non solo interpreti»125 e “operatori culturali”126 sotto la guida di un «regista emancipato»127 – «Maestro Orchestratore»128. Non stupisce a questo punto del discorso la “facilità” con la quale gli otto attori e la musicista abbiano affrontato la prova «“atletica”, fisica e di concentrazione»129 della maratona finale. Come abbiano sostenuto, con sapienza e consapevolezza, il confronto con i diversi piani del testo di Di Paolo. Come abbiano fronteggiato e brillantemente gestito l’annullamento della dimensione psicologica da una parte e la frustrazione della componente narcisistica dall’altra130, entrambi connaturati ai camauri ideati da Gianluca Sbicca. Come si siano generosamente “messi a servizio” della 124 Cfr. infra. D. Pasini (a cura di), L’attore non può e non deve avere il paraocchi. Intervista con Simone Tangolo, p. 63. 125 Cfr. C. Meldolesi, Questo strano teatro creato dagli attori artisti nel tempo della regìa, che ha rigenerato l’avanguardia storica insieme al popolare, in «Teatro e storia», annale 1996, n.6, reperibile online all’indirizzo http://www.teatroestoria.it/pdf/18/Claudio_Meldolesi_216.pdf (ultima consultazione: 15 febbraio 2017. 126 Cfr. C. Longhi, «Fin de partie». Massimo Castri (21 gennaio 2013, settant'anni), «Dionysus ex machina», cit., p. 352. 127 Cfr. «Il regista detiene solo un ruolo preminente tra pari. Il regista si è rivolto verso l’immaginazione degli altri, verso lo scambio di idee e le decisioni condivise. […] da maestro autoritario lui o lei è diventato/a un regista emancipato», A. Jovićević, Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative: Estetica o Inestetica, in «Biblioteca Teatrale», 2009, nn. 91-92, (I modi della regia del nuovo millennio, a cura di Ea. e A. Sacchi). 128 S. Ferrone, Il ruolo del regista nel XXI secolo, cit., p. 241. 129 D. Allegro, cit. in G. Maurigh (a cura di), Istruzioni degli attori, in Ea. e G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, cit. 130 Cfr. infra, D. Pasini (a cura di), L’arte per l’uomo. Intervista a Nicola Bortolotti, p. 56. 41 visione registica, oltre che di vita131, di Claudio Longhi. E infine, ma non da ultimo, come abbiano risolutamente affrontato una “sfida alla complessità”. Avendo proceduto in modo consapevolmente asistematico e certamente personale, ci piace concludere queste poche righe dedicate agli attori di Istruzioni per non morire in pace, e al quanto mai necessario lavoro che svolgono da anni, con due citazioni. La seconda servirà, in qualche modo, a chiudere un cerchio. Quindi la vostra preparazione deve cominciare in mezzo Agli uomini vivi. La vostra prima scuola sia il posto di lavoro, la casa, il quartiere. Sia la strada, la metropolitana e il negozio. Tutti gli esseri umani li dovete osservare in questi luoghi, gli estranei come se fossero conoscenti, ma i conoscenti come se fossero estranei. […] Per osservare si deve imparare a confrontare. Per confrontare si deve avere già osservato. Con l’osservazione si crea una scienza, ma la scienza è necessaria all’osservazione. Eppoi: osserva male colui che con l’osservato non ha nulla a che fare. Con occhio più acuto il frutticoltore osserva il melo, che non il passante. Ma non vede l’uomo con esattezza chi non sa che l’uomo è il destino dell’uomo. L’arte dell’osservazione applicata agli uomini, è solo un ramo dell’arte di trattare gli uomini. Il vostro compito, attori, è di essere pionieri e maestri nell’arte di trattare gli uomini. Conoscendo la loro natura e mostrandola, voi gli insegnate 131 Cfr. infra, Ea. (a cura di), Una vita per il teatro. Intervista a Gianluca Sbicca, p. 45. 42 a trattare se stessi. Gli insegnate la grande arte del vivere insieme.132 Se l’utopia in cui crediamo è, in prospettiva, quella di una società che permetta all’uomo associato di vivere per intero la sua vita; se il teatro è quasi l’unica forma di artisticità rimasta a contraddire la riproducibilità e la massificazione; allora l’uomo di oggi può ricavarne una esperienza di autentico rapporto interpersonale […] proprio in quanto l’esperienza che sta vivendo sia avvertibile da lui come ‘disinteressata’ e perciò promotrice del ‘godimento estetico’, non-alienata e non-alienante, non strumentalizzabile a scopo di repressione, non-commerciabile ecc. Che il grande teatro sia sempre stato, nelle epifanie storiche più varie, teatro di propaganda, cosa significa? Che in esso la grandezza la si raggiunge a patto di saper proporre disinteressatamente l’uomo all’uomo133. 132 B. Brecht, Discorso agli attori-operai danesi sull’arte dell’osservazione, in Id., Scritti teatrali, Torino, Einaudi , 2001, pp. 226-227. 133L. Squarzina,Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, cit., p. 145 (il corsivo è dell’autore). 43 44 CONCLUSIONI Giunti al termine di questo breve lavoro si impone un succinto riepilogo. Abbiamo cercato di inquadrare, pur se parzialmente, il fenomeno della regia teatrale in Italia proponendone la “crisi” come tratto peculiare e caratterizzante. Abbiamo sfiorato la comprensione dell’orizzonte rizomatico di possibilità poste alla regia nell’era del post-drammatico e cercato di rendere conto di una di queste possibilità, guardando al regista Claudio Longhi e al suo gruppo di lavoro, e alle riflessioni che ormai da anni li accompagnano sulla funzione registica, su quella attoriale e, più in generale, quella di un teatro pubblico nei confronti dello spettatore. Infine, dopo aver presentato la modalità di lavoro “a progetto” ormai rappresentativa di questo ensemble, modalità che determina diverse conseguenze anche sul piano della resa scenica nonché dell’attorialità, abbiamo tentato di render conto di tali ripercussioni attraverso uno sguardo necessariamente parziale dello spettacolo Istruzioni per non morire in pace 1. Patrimoni 2. Rivoluzioni 3. Teatro (2016). Giunti a questo punto, più che tirare le fila di un discorso che è, in realtà, solo al suo inizio, preferiamo proporre un’immagine, altrettanto personale, che crediamo possa aiutare a meglio comprendere ciò di cui, sin qui, si è parlato. Modena. Teatro Storchi. Domenica 17 gennaio 2016. L’una circa, di notte. Dalle 15.30 un gruppo di attori presenta un lavoro che tenta di dar conto della complessità di un’epoca. Non una qualunque. Quella Belle Époque carica di fiducia nel progresso che ha trascinato un mondo di sonnambuli, troppo affaccendati da sé stessi, verso la catastrofe (e di cui siamo, se non i figli, i pronipoti). Dopo intrighi economici e politici, rivoluzioni mancate o mal riuscite, famiglie e amicizie disgiunte, decine di citazioni, centinaia di personaggi e tanto, tanto Kabarett (ma anche molto altro), un solo attore, sulla pedana rossa che si immerge nella sala, in un monologo da soldato al fronte. «Il futuro, papà. Il futuro..». E dall’altra parte? Dopo nove ore dall’altra parte c’è ancora un pubblico. È numeroso, eterogeneo, affaticato ma ancora attento, silenzioso. Sa cosa sta per succedere perché l’ha già visto nelle parti precedenti e ormai ha capito, il finale è lo stesso. Entra l’ensemble al completo, a volto scoperto. Sono stravolti, sfiniti… Quello sfinimento che dall’attore tira fuori il meglio. La musicista attacca una melodia semplice, “antica”. Intonano un canto di trincea, «Ta pum». E poi succede qualcosa di diverso dai precedenti spettacoli. Dalla sala, dai palchetti, si alza lo stesso coro. Cinquanta tra atelieristi, laboratoriandi, studenti, 45 spettatori affezionati, si alzano e cantano. Il resto del pubblico si guarda intorno, smarrito, commosso. Un teatro che canta all’unisono. «Ta pum». I fenomeni sono complessi e il “teatro partecipato”, come è stato chiamato quello di Claudio Longhi e del suo ensemble, non è da meno. Le derive possibili134 sono molte e restituire il teatro, specialmente quello pubblico, alla sua funzione comunitaria, oggi, non è impresa da poco. Ma, a chi era presente in quel teatro, quella sera, sembrava quanto meno di aver già fatto un tratto di strada. Ta pum Venti giorni sull’Ortigara, Senza cambio per dismontà… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Quando poi si discende al piano Battaglione non ha più soldà… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Quando sei dietro quel muretto Soldatino non puoi più parlà… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Qui sull’orlo sul margine estremo Ogni slancio comincia a tremar135… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Cfr. infra D. Pasini (a cura di), Parlando di necessità. Intervista a Donatella Allegro, p. 51; L’arte per l’uomo. Intervista a Nicola Bortolotti, p. 56; L’attore non può e non deve avere il “paraocchi”, Intervista a Simone Tangolo, p. 63. 135 Riportiamo in questa sede la versione utilizzata durante la maratona finale di Istruzioni per non morire in pace del 17 gennaio 2016 al Teatro Storchi di Modena. Una delle strofe è stata modificata dal gruppo di lavoro adattandovi dei versi di Renato Serra in occasione delle tappe cesenati del progetto. Si ringraziano per le gentili informazioni l’attore Simone Tangolo, responsabile delle musiche insieme all’attrice Donatella Allegro e alla musicista Olimpia Greco. Cfr: «Fra mille milioni di vite, c'era un minuto per noi: e non l'avremo vissuto. Saremo stati sull'orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia generazione; che arriviamo adesso al limite, o l'abbiamo passato di poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spesa male la nostra vita, senza costruire e senza conquistare? Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come l'acqua fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego», R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, Palermo, Sellerio,1994, p. 43. (il corsivo è nostro). 134 46 Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Dietro al ponte c’è un cimitero Cimitero di noi soldà… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Cimitero di noi soldati Forse un giorno ti vengo a trovà… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… Ta-pum, ta-pum, ta-pum… 47 48 APPENDICE UN MODO DI INTENDERE LA VITA Milano, 7 gennaio 2017 Intervista con Gianluca Sbicca A fronte della tua esperienza personale e professionale, cosa comporta in termini umani e artistici il sodalizio con un regista in particolare? Ci riferiamo a Luca Ronconi in primo luogo e a Claudio Longhi in seconda battuta. Riscontri delle linee di continuità nei modi di lavorare di questi due registi? Qualcosa sì… Il non avere una vita per esempio! (ride) Quella è la caratteristica principe. Longhi vive in teatro. Luca non più, ma fosse stato per lui ci sarebbe pure morto e ce l’ha quasi fatta (affettuosamente)… Mettiamola così! Un sodalizio professionale determina ovviamente la conoscenza di un linguaggio, in questo caso quello di un regista. Un modo, un’estetica… Ma un modo, non solo di intendere il palcoscenico, quasi di intendere la vita, in realtà. E più ci lavori e più logicamente “mastichi” i loro codici e certe volte ti ci appai anche, nel senso che vedi anche una somiglianza, un riflesso. Un riflesso che a volte è somigliante al regista, e certe volte è l’esatto opposto ed è anche un bene (ride). Con Claudio negli anni è subentrata anche un amicizia molto forte e stretta e quindi non riesco a metterli a confronto fino in fondo. Perché per me Ronconi è stato un Maestro… È un Maestro (con dolcezza). E c’era come una reverenza, ma anche un modo di interagire con lui… (Non gli ho mai dato del tu, gli ho sempre dato del lei per esempio) che con Claudio non c’è. E questa cosa ha i suoi pro e i suoi contro perché ad esempio se a Ronconi ho potuto dire di no un paio di volte, a Claudio non lo posso dire (ride). Però c’è appunto una fiducia totale da parte di Claudio che con Ronconi logicamente non c’era. Vuoi perché Ronconi aveva quei suoi bei quarant’anni di esperienza e nella sua carriera ha fatto veramente di tutto, quindi sapeva già l’effetto di una cosa perché l’aveva già fatta, la rifaceva… E aveva una sua estetica. Claudio, secondo me, la sta maturando, spettacolo dopo spettacolo, questa sua estetica. Abbiamo cominciato a capire cosa gli piace e cosa non gli piace e lui l’ha capito con noi. Ci sono delle cose che gli fanno orrore, delle cose che invece gli piacciono molto e… Si cerca di farlo contento ecco! (ride) Come modo di lavorare in realtà, io trovo delle similitudini… Diciamo che Ronconi manteneva come un distacco, una distanza mascherata in realtà. Claudio invece fa l’esatto contrario. Ti coinvolge fino sotto le mutande. Anche se 49 poi magari c’è una distanza… Per coinvolgerti, ti coinvolge fin sotto le mutande! (ride) Questo con Ronconi non succedeva. Anche se poi in realtà, come mole di lavoro, erano proprio simili. Non scherzo quando ti dico che, dalle otto della mattina fino all’una di notte! Poi Ronconi con gli anni è invecchiato quindi determinati ritmi non ce la faceva più fisicamente… Ma io, quando l’ho conosciuto… Quelli erano gli orari. Cercavano di togliere le macchinette con la coca-cola perché se beveva la caffeina era finita! Giorni di pausa non esistevano, i riposi… “Ma proprio devo dà i riposi!”, faceva gli allestimenti sotto Natale perché non voleva stare da solo e faceva le prove fino alla vigilia e poi il 27 così non ti potevi muovere, capodanno idem (ride, ridiamo). Era così… La sua vita era il teatro. E di riflesso a tutti quanti. Perché se sposi un progetto, ti ci ritrovi dentro comunque. Mi riallaccio a quest’ultima cosa che hai detto. Tornando a parlare di Claudio Longhi, c’è quindi una condivisione d’intenti, lo sposare una causa, un’etica anche? E, una domanda che ti avrei posto successivamente... Per quanto ti riguarda il teatro è un fatto estetico o etico? Per quanto mi riguarda è anzitutto e soprattutto estetico, diventa poi ovviamente anche etico. […] Come intento lo condivido al cento per cento. Sono stato molto critico su questo spettacolo… Alla fine mi sono reso conto che era una cosa che andava fatta. Critico perché produttivamente le risorse erano per uno spettacolo e poi ci siamo trovati a farne tre. Sei soddisfatto del lavoro? Sì (convinto). Molto soddisfatto. Per questo ti dico, alla fine ho anche chiesto scusa a Claudio perché mi sono reso conto che era una cosa che andava fatta. Però se va rifatta un’altra volta mi deve dare subito e immediatamente delle buone giustificazioni! (ride). Sai… Ci sono delle cose che permetti a dei registi proprio perché ne sposi totalmente la causa e Claudio è uno di questi. Se un altro regista mi avesse chiesto una cosa del genere sinceramente non l’avrei fatta. […] Ci sono delle cose, degli effetti, che per essere ottenuti, necessitano di un determinato lavoro e quel lavoro serve a evitare le imperfezioni. […] 50 Quando avete cominciato a lavorare a questo spettacolo? Cinque, sei mesi prima all’incirca. La cosa particolare è che avevamo il copione della prima parte ma non sapevamo come sarebbe continuato, era un divenire. Partivi con una cosa il più pulita possibile in modo da piegarla a tutte le eventuali esigenze. Questo, dico la verità, in particolare per ciò che concerne la scenografia. Per quanto mi riguarda, ovviamente, un personaggio una volta identificato rimaneva quello. Anche come scelta registica abbiamo cercato di non cambiarli. Ad esempio Josephine è così dall’inizio dello spettacolo, magari ha degli elementi che toglie e mette, ma per tutto l’excursus temporale indossa lo stesso costume. Proprio perché… Essendoci 130 personaggi circa, se iniziavi anche a cambiarli… Che poi è diventata anche una scelta funzionale, vuoi al riconoscimento del personaggio ma anche alla stilizzazione, a renderli un po’ delle figurine più che dei personaggi compiuti… La scelta dei camauri è nata proprio da questo. Per cercare, non di farli assomigliare l’uno all’altro, ma di avere in qualche maniera un filo conduttore, visivo anche, oltre che obbligato. Obbligato nel senso che, gli attori erano nove, i personaggi 130. È stata però anche una scelta estetica. La primissima idea in verità era proprio farli recitare così, usando magari solo dei posticci. Dalla prima volta che me ne ha parlato Claudio abbiamo iniziato a preparare il materiale. Mi spiego meglio. Io di solito lavoro così: dopo una prima chiacchierata con il regista preparo dei grandi tomi di fotocopie da cui trarre suggestioni, spunti (me li mostra). Le idee sono nate da queste immagini… Questo ad esempio era proprio il Kabarett di Valentin. Parlando con Claudio a me sono venute in mente queste cose perché credevo rispecchiassero a loro volta le idee che aveva lui dello spettacolo in quel momento e che poi ha mantenuto. L’immaginario del Kabarett berlinese appunto… L’epoca era quella… Qualche idea di travestimento… Poi la moda maschile del periodo, anche per fargli capire come fossero, sù per giù, vestiti. Stessa cosa al femminile. Siamo partiti da queste cose. Ad esempio credo ci sia il vestito di Josephine, però in nero (me lo mostra). L’ho visto e ho detto: “Per me è questa. La voglio vestita così!”, “Ma..”, “No! IO la voglio vestita così!!”. 51 A questo proposito, a fronte di questa lunga collaborazione, in sede di ideazione dei costumi, che peso riveste il fatto di conoscere e lavorare da anni con gli attori ai quali sono destinati? La fisicità della Diana Manea ad esempio! (Attrice del gruppo di lavoro con il ruolo, fra gli altri, di Josephine) Bè appunto, conoscendoli uno sa già dove può andare a parare e dove no e quindi da dove partire. È come quando disegni… Se usi il carboncino è un effetto, se usi un acquarello è un altro e a seconda dell’effetto che vuoi ottenere, conoscendolo già, utilizzi l’uno piuttosto che l’altro. Parti da un dato di fatto. Per ottenere una determinata cosa ci sono 2500 modi, di quei 2500 modi ci sono delle volte in cui te ne vengono precluse la metà, ma non è un problema perché ne hai altrettanti. La persona che lo indossa è uno degli ingredienti del costume, secondo me. Tornando alla genesi del lavoro, si era detto che inizialmente l’intenzione era quella di non coprirgli il volto… Sì l’intenzione era quella. Poi ci siamo resi conto che i personaggi aumentavano esponenzialmente! (ride) A un certo punto siamo arrivati alla conclusione che, in qualche modo, avremmo dovuto trovare una ricetta. Le parrucche ad esempio sono nate da un problema di budget, da subito. E quindi ci siamo inventati questa cosa di renderle rigide, perché avremmo potuto utilizzare un materiale economico (vinavil) ma piegabile a necessità estetiche. Vedo anche delle foto di scena dai lavori di Bob Wilson… È un genere di trucco che abbiamo preso in considerazione e a Claudio sarebbe sicuramente piaciuto. Il problema è che negli spettacoli di Bob Wilson un cambio veloce dura venti minuti (ride) e noi da subito avevamo capito che i nostri sarebbero stati tanti e velocissimi. Di lì è nata l’idea dei camauri, dall’esigenza di cambiargli la faccia nel modo più veloce possibile. Poi diciamo che… Una volta capito che si poteva fare, a Claudio è un po’ presa la mano e non c’era più un cambio normale… Erano tutti veloci! (ride) C’è da dire che, quando ti rendi conto di un’esigenza estetica da parte del regista, come il bisogno di ritmo, di una certa fluidità, non ti senti neanche di castrarlo. E quindi gli vai incontro 52 anche se magari ti costa il vedere una parrucca non perfettamente a posto (ride). […] I costumi comunque sono un ingrediente della torta, è lo spettacolo a comandare. All’interno di “Istruzioni..”, anche se tutti schermati da un filtro grottesco, convivono diversi piani: uno narrativo di finzione, uno “storico”, uno esplicitamente dedicato al Kabarett. In ultimo, un intersecarsi di questi livelli per cui, dei personaggi di finzione, a loro volta attori di cabaret, interpretano magari dei personaggi storici. Come si è sviluppato in questo senso il lavoro? Il primo step sono stati i camauri bianchi. Da lì siamo partiti. Con più caratterizzazione e meno caratterizzazione siamo andati a creare dei tratti costanti per i diversi livelli. Claudio voleva lo stacco smaccato per le scene di cabaret e il riferimento che mi aveva dato inizialmente era Otto Dix. Ad un secondo confronto, mostratigli dei materiali a mò di esempio, mi disse che gli ricordavano troppo delle maschere, e che avrebbe preferito inseguire la strada dell’Espressionismo come richiamo più generico alla corrente artistica. A quel punto ho fatto un’accurata ricerca sui dipinti espressionisti e ho cercato di riportali sul camauro a livello astratto, senza ricalcare i lineamenti di una persona, perché ciò che aveva in mente era proprio una macchia di colore, una cosa “tirata fuori”. Questa è stata una sua precisa richiesta. Io magari avrei fatto una cosa più morigerata, però mi sono anche reso conto a posteriori che non avrebbe staccato quanto voleva rispetto a quelli bianchi perché già quelli bianchi diciamo che erano qualcosa di pesantuccio! (ride). Lo stesso discorso immagino sia valso per le parrucche… Sì, diciamo che ci è un po’ presa la mano nel senso che avrebbero dovuto essere così solo quelle da cabaret, poi abbiamo visto che in realtà funzionavano di più esagerandole e quindi abbiamo corretto un po’ il tiro. Tant’è che di stacco fra le une e le altre poi non ce n’è così tanto. Il punto è che spesso funziona proprio così, certe cose si valutano strada facendo. Anche la ricorrenza di certi costumi, il fatto cioè che alcuni componenti siano stati utilizzati per più personaggi tra quelli secondari, non era stato pensato. Erano previsti più cambi. Ma il mondo è questo e la luna non ci possiamo ancora arrivare! Siamo venuti a più miti consigli. E la carta, idea tua o di Claudio? 53 Di Claudio. Voleva una cosa che accumunasse tutti i pseudo-numeri di cabaret, una cosa un po’ astratta rispetto a tutto il resto dello spettacolo che già… Era astratto di suo! (ride) Questa richiesta ti ha messo in difficoltà? No, perché l’avevo già usata più volte. Ci ho fatto anche uno spettacolo intero, tutto di carta. Lo specchio del diavolo (mi mostra delle foto). Qui era tutto di carta: cappotti, piumini, maglioni, camicie… Carta stampata a gessato, a spinato, le decorazioni dipinte interamente a mano. Fu in occasione delle Olimpiadi di Torino, nel 2006. Era la storia della finanza, quindi della cartamoneta. Solo t-shirt e scarpe non erano di carta. Per cui diciamo che ero abbastanza sicuro dell’effetto. Una domanda più personale. Qual è la parte del tuo lavoro che ti piace di più? L’inizio. Quando tutto è possibile. Quello è il pezzettino che mi piace di più. In verità devo dire anche la prima volta che li vedi in scena, più o meno. Più o meno nel senso che, da una parte, la cosa bella è che, qualcosa che prima avevi solo in testa, ad un certo punto, magicamente, te la ritrovi davanti tridimensionale… Però subentrano anche tutta una serie di ansie che prima, essendo solo nella tua testa, non esistevano, tipo: «oh come le sta di merda!» (ride)… Per esempio. E tutta una serie di altre ansie che non ti abbandonano fino al debutto. Poi tutti i nodi si sciolgono. Di alcune cose sei pago e ti piacciono, altre meno, ma in ogni caso il lavoro, il mio, a quel punto è concluso e subentra comunque un certo appagamento. Lavorerai ancora con Claudio Longhi? Certo. Lo spero. È quello che mi da più soddisfazione! 54 PARLANDO DI NECESSITÀ Intervista con Donatella Allegro Bologna, 15 febbraio 2017 C. Longhi cita spesso degli appunti di M. Castri in cui si parla della necessità di sfuggire la seduzione della eterodirezione e di riscoprire l'attore come "operatore culturale". Alla luce del tuo/vostro lavoro che cosa significano le parole di Castri? E quali ricadute comporta questo allargamento di orizzonte sull'attorialità in senso stretto? Non posso che essere d'accordo, e credo che ormai sia ampiamente condivisa da moltissimi attori. Nel nostro gruppo di lavoro, come in altri di cui ho fatto parte e altri ancora, l'attore è anche dramaturg, formatore... Operatore culturale, come dici giustamente tu. È più comune di quanto sembri, prima di tutto perché saper fare più cose è indispensabile per la sopravvivenza materiale dell'attore (ma non solo dell'attore), e poi perché per le compagnie indipendenti il rapporto polimorfo con il territorio è vitale. Io, per esempio, ho cominciato a fare teatro con la Compagnia del Teatro dell'Argine, ho collaborato con Pietro Floridia, in qualche modo avevo già l'impronta. Quella che ho trovato nel gruppo ERT-Longhi è una linea progettuale che realizzava "in grande" qualcosa che avevo già. Questa concezione dell'attore, poi, c'è almeno dagli anni settanta – non voglio dire che sia una novità – però penso che sia abbastanza eccezionale per chi lavora in un teatro nazionale. Tu parli, citando Castri, di necessità. Come ho già detto, per molti attori lo è senz'altro, è anche una leva intellettuale, nonché il modo di sopravvivere a un mestiere che può anche svuotarsi di senso, una volta smarrito l'entusiasmo iniziale. Certo è necessario per i teatri, che non possono sopravvivere pensando di proporre solo la classica stagione. Resta da convincere la gente che sia necessario – questo è un passo ancora da compiere. Evidentemente, poi, è anche un fatto etico. Ma non mi spingerei mai a dire che è l'unico modo di fare teatro eticamente o politicamente, ecco. Nel nostro caso specifico, a livello spettacolare una differenza c'è senz'altro: capita spesso che gli spettacoli che facciamo con il gruppo siano molto performativi, più interattivi e meno strutturati rispetto ad altri lavori più classici; inoltre lavoriamo spesso in spazi non teatrali e collaboriamo con non professionisti. Questa fluidità, questo continuo cambio di ruolo e di situazione fa sì che l'interpretazione sia meno strutturata: il momento relazionale è così importante da superare spesso quello della preparazione; nello stile recitativo, poi, si concede parecchio all'improvvisazione, con anche rotture extra-accademiche, per intenderci. Poi è chiaro che al momento di mettere in scena lo spettacolo "di cartellone" si 55 torna nei ranghi. Cosa comporta far parte di un solido gruppo di lavoro confermatosi nel tempo (penso anche agli assistenti e al costumista) e di un ensemble di attori che assomiglia sempre più ad una compagnia stabile? E anche in questo caso quali sono le ricadute sull'attorialità in senso stretto? Forse è utile precisare che la nostra stabilità non ha contorni così netti, a livello contrattuale. Di stabile c'è un rapporto, il che significa che si dà per scontato di lavorare insieme ancora a lungo, e chi ci guida cerca di darci il maggior numero di "giornate" lavorative annue, la cui quantità è in parte stabilita all'inizio, in parte variabile. La garanzia di avere o meno un certo lavoro l'anno prossimo, per fare un esempio, è data non dalla struttura del rapporto con la produzione, ma dalla qualità del rapporto che c'è tra noi e il regista, tra noi e la produzione (o, meglio, viceversa). Sono cose delicate, in divenire. A volte "ci lasciamo" per diversi mesi. Ma questo è un dato strutturale nel teatro italiano: si sceglie questo mestiere già sapendo che garanzie non ce ne sono per nessuno. Il gruppo di lavoro (definizione che, come sai, ha preso per il posto di quella di "compagnia"), è stabile da diversi anni e la collaborazione con il regista, è in alcuni casi molto antica: diversi di noi, variamente combinati, avevano già lavorato con Claudio Longhi già tempo addietro; avendo lui una visione, come si dice oggi, ha coltivato dei rapporti e li ha messi a frutto con l'esperienza degli ultimi anni. Ecco: questo essere "sempre noi" da molto tempo è un aspetto di grande valore, umano e professionale, con ricadute esterne e interne al gruppo. Tralasciando le prime, di cui puoi leggere in molte interviste a Claudio, vengo a ciò che riguarda il nostro lavoro di attori. Ci conosciamo, ci apprezziamo e siamo anche molto amici; in scena siamo diventati così sensibili alle sfumature espressive dei nostri colleghi che recitare insieme – ma, più in generale, lavorare insieme – è diventato facilissimo: ci aiutiamo, ci completiamo, improvvisiamo... Lavoriamo in gruppi di "specializzazione" e ci sentiamo a tutte le ore del giorno. Il che non è sempre sano, magari, ma certamente è utile. In scena abbiamo assunto come grammatica comune quella che negli anni ci ha trasmesso il nostro regista: un certo modo di muoversi, di abitare la scena, di parlare e persino di scrivere ormai sono stilemi riconoscibili nel nostro linguaggio recitativo – tanto che, quando mi capita di lavorare con altri, mi accorgo che con questa lingua che inconsapevolmente parlo devo fare i conti, usarla o sceglierne un'altra... Le nostre personalità di attori però non si sono livellate, e non credo sarebbe mai possibile. Restiamo 56 diversi, e così ci piace essere. Entrando nello specifico di ‘Istruzioni..’, quali implicazioni ha, in generale, per un attore, indossare una maschera? E in questo particolare caso, indossarne molte (corredate di costume), passando schizofrenicamente da un "personaggio" all'altro? Oltre a questo passaggio, se ne riscontra un altro, presente già nel testo. L'incontro/scontro tra diversi piani: storico; d'invenzione; onirico; cabaret (con attori di cabaret che talvolta interpretano personaggi storici, in un ulteriore sovrapposizione). Come avete gestito questa convivenza forzata di livelli tanto diversi? Lecoq diceva ai suoi allievi che la maschera neutra rende i rapporti essenziali, quella espressiva esasperati. I nostri "camauri" ottenevano entrambi gli effetti. Per prima cosa privano, ma al tempo stesso liberano, della propria mimica facciale: ti tolgono parte dei tuoi strumenti espressivi, ma insieme ti liberano da quei piccoli vizi che non domini. Ti liberano dalla riconoscibilità, immediata, anche. Quanto ai personaggi dietro le maschere... Non ci sono personaggi dietro le maschere. Sempre Lecoq diceva che non bisognava identificarsi nella maschera, ma giocare a identificarsi. Parlava ancora di esercizi e di maschera neutra, ma vale anche per noi. Mi spiego meglio: siccome la recitazione di quello spettacolo non ha niente di immedesimato, niente di piscologico, il passaggio da un personaggio all'altro è fondamentalmente un fatto tecnico: insieme agli elementi di costume bisognava cambiare la voce, la camminata, il rapporto con gli altri caratteri in scena. Dentro l'attore, se è questo che intendi, c'è soprattutto una tensione alla precisione, alla concentrazione estrema per ottenere bene questi passaggi. La maschera aiuta, perché libera da quella mimica individuale che sarebbe un ostacolo alla metamorfosi. Infine, per esperienza so che due spettacoli abitano ‘Istruzioni..’, uno davanti e l'altro dietro le quinte. In che modo siete riusciti a far convivere le esigenze tecniche dei cambi veloci, delle corse da una parte all'altra del teatro, con quelle "interpretative"? Uno spettacolo con tanti cambi significa uno spettacolo con molte corse. Si è riusciti a gestire la situazione grazie alla qualità della squadra tecnica e una buona autonomia di noi attori rispetto alla gestione dei costumi e dell'attrezzeria. Va detto, infatti, che il personale 57 sul palco era un po' sottodimensionato e senza l’ottimo lavoro dei tirocinanti non è detto che saremmo riusciti a far quadrare tanta complessità. La prosa non gode dei finanziamenti dell'opera, lo sappiamo. Ma il lavoro di squadra e l'organizzazione sono tutto. A livello stilistico, vale quello che ti ho detto per i personaggi: tecnica, concentrazione, controllo. E furbizia. Lo stile cabaret, o onirico – tanto per citarne due – non sono resi solo dalla recitazione: c'è la regia che muove gli attori in modi diversi e, soprattutto, ci sono le luci, le musiche, le scene... Ecco perché dico furbizia e concentrazione. Prima capisci razionalmente lo stile, poi però ti lasci aiutare da tutti gli altri elementi del teatro, e insieme a questi ti trasformi. E sapere di indossare una maschera aiuta. La mia impressione personale è che la recita più riuscita di questo spettacolo sia stata proprio la sfiancante maratona finale di nove ore. Sei d'accordo? Eventualmente quali potrebbero essere le ragioni? La maratona di nove ore è stata molto faticosa soprattutto perché arrivava alla fine di due mesi di lavoro durissimi. Da alcuni anni mi sembra che le "maratone" siano piuttosto in voga in teatro; in parte credo che faccia parte del ricreare un'atmosfera di ritualità, di partecipazione della città al fatto teatrale; in parte è chiaro che mettono in luce la fatica, la tenuta degli attori, e quindi anche la loro bravura – se reggono. Ma, per quel che mi ricordo io, ci sono state cose altrettanto faticose, per esempio la mancanza di pause, la lunghezza delle giornate di lavoro. Da attrice, come definiresti la regia di Claudio Longhi? Quando ho conosciuto Longhi, si vedeva il suo legame con Ronconi e si vedeva che aveva lavorato con grandi attori di parola: Branciaroli, Orsini, Popolizio, Mandracchia... Ai tempi di Sanguineti, di Koltès, ricordo il gusto di cesellare le parole, di pesarle. Ora è diverso: a livello di parola, Longhi propone delle "soglie", ti fa notare quando cambia il testo, raramente imbecca una battuta che non riesci a sciogliere. Se serve lo fa ancora, certo. Ma mi sembra che l'aspetto visivo abbia ora più importanza: lavoriamo molto sui cambi scena, sui movimenti, sulle coreografie. L'effetto mi pare più operistico dal punto di vista dell'immagine e più grottesco dal punto di vista della recitazione. E in alcuni casi, come lui stesso teorizza da anni, su quest'ultimo aspetto la regia si sottrae, si fa invisibile: lui crea la 58 scatola, ma poi lascia che gli attori la abitino abbastanza liberamente. L’ARTE PER L’UOMO Intervista con Nicola Bortolotti Bologna, 15 febbraio 2017 C. Longhi cita spesso degli appunti di M. Castri in cui si parla della necessità di sfuggire la seduzione della eterodirezione e di riscoprire l'attore come "operatore culturale". Alla luce del tuo/vostro lavoro che cosa significano le parole di Castri? E quali ricadute comporta questo allargamento di orizzonte sull'attorialità in senso stretto? Ti racconto una cosa abbastanza personale. Quando eravamo in scena con l’ Arturo Ui, all’Argentina di Roma, un giorno, prima dello spettacolo, mi sono guardato intorno… Tra l’altro quel teatro lo conoscevo abbastanza bene perché c’ero stato per parecchio tempo, molti anni prima, con Ronconi, per l’allestimento dei fratelli Karamazov. Mi sono guardato intorno e mi sono riempito gli occhi… È un teatro meraviglioso, fantastico. E in quell’occasione mi è capitato di pensare una cosa. I luoghi che noi viviamo come attori sono ingannevoli. Un teatro come l’Argentina ad esempio, un teatro meraviglioso appunto… Pensato per un pubblico, per un tipo di comunicazione, per delle rappresentazioni e dei presupposti sociali del secolo scorso. Oggi diventano ingannevoli perché noi del mestiere, come giustamente faceva notare anche Claudio a lezione (Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro), non abbiamo più quella riconoscibilità e quel riconoscimento sociale che potevano avere i grandi attori, di fine Ottocento o inizio Novecento. Una volta invece ero a provare uno spettacolo a Solomeo, che è questo paesino in Umbria, di proprietà di Brunello Cuccinelli, un imprenditore che porta avanti quest’idea d’azienda etica in cui nessuno timbra il cartellino, i dipendenti sono trattati come familiari, la mensa in sostanza è un ristorante, nessuno è mai stato licenziato… Modello d’azienda tra l’altro studiato in tutto il mondo. Per far questo in sostanza si è comprato l’intero borgo e, essendo grande amante della cultura e delle arti, vi ha fatto costruire anche un teatro. Teatro che è stato inaugurato da una regia di Ronconi. Ora… L’ho presa molto larga ma, mentre mi trovavo in questo luogo per delle prove appunto, mi è capitata in fronte agli occhi quest’immagine paradigmatica della nostra condizione. Nei sotterranei del teatro c’era una signora che aggiustava, rammendava a mano, uno dei tappeti di Cuccinelli. Cosa 59 c’entra penserai tu. Per me l’immagine dell’Argentina e quella della signora vanno insieme. Noi, per quel che contiamo socialmente, a torto o ragione… Ecco, noi siamo come la signora nel sotterraneo che rammenda il tappeto… Siamo una nicchia. L’Argentina è l’immagine che abbiamo di noi. C’è da rendersi conto che lavoriamo in un settore di nicchia ma una nicchia con un valore molto importante. E che però i luoghi in cui recitiamo, teatri come il Piccolo e l’Argentina, quelli che in qualche modo ci fanno sentire arrivati, in realtà ci ingannano perché ci tagliano fuori dal rapporto con il “mondo”. Dopo quella riflessione all’Argentina ero in cerca di qualcosa che mi portasse un po’ verso quel “fuori” ed è arrivato il Ratto d’Europa. Il flashmob davanti all’Argentina, che pur non è nelle mie corde, l’apertura al pubblico durante le prove del Teatro delle Moline che è un esempio nella mia recente esperienza, i laboratori per gli over quaranta rimasti senza lavoro a Roma… Per tirare delle file: questo genere di cose danno ad un attore che operi nell’accezione più ampia appunto di “operatore culturale”, la possibilità di ricontattare quella parte del proprio mestiere che non è l’arte per l’arte, ma l’arte per l’uomo. Per cultura e tendenza chi fa teatro è portato a dimenticare questa cosa perché il nostro è un ambito che inevitabilmente chiude un po’. Però come diceva Peter Brook, io lavoro sei mesi chiuso in teatro ma poi gli altri sei vado in giro, altrimenti che cosa racconto? Se non usciamo cosa acquisiamo? Essere un attore-operatore culturale significa forse attingere, al di là delle attività culturali, certamente fondamentali, alla vita. Questo in grande. Più in piccolo significa ritrovare un contatto con la comunità a cui ti orienti per tornare a lavorare avendo fatto un’esperienza di “immersione nel mare delle cose a cui ti rivolgi”. Per quello che riguarda l’attorialità in senso stretto: le ricadute più problematiche, non in senso negativo, sono tenere insieme una dimensione più diretta, popolare, meno costruita, con il tentativo di non perdere la qualità del tuo lavoro e questa è una grande sfida. La qualità del lavoro va preservata, non bisogna smettere di affinare gli strumenti, scoprirne dei nuovi. Il tipo di strumento tecnico, il tipo di mestiere in senso lato, il tipo di comunicazione, non sarà la stessa del Piccolo, ma la qualità deve essere alta in entrambi i casi. Bisognerebbe insomma tenere sempre la barra alta come se si recitasse alla Comédie Française. Colgo l’occasione, dopo questa bellissima riflessione, di farti un’ulteriore domanda che mi è affiorata mentre ti ascoltavo e negli occhi ripercorrevo le tappe del vostro lavoro. Credi ci sia il rischio, affacciandosi con entusiasmo verso il “fuori”, chiamiamolo così, e a fronte delle dinamiche socio-culturali del nostro tempo, che il riconoscimento dell’attore60 persona superi quella dell’attore o attore-operatore culturale? Che, in altri termini, i contenuti che cercate di trasmettere diventino in qualche modo secondari? Ti rispondo sempre in modo personale. Per quanto mi riguarda ad esempio, una cosa che non apprezzo è quando mi viene detto: “Bravi! Bravissimi come sempre!”. “Bravi come sempre” significa che sono entrato in un loop per cui, qualsiasi cosa propongo, va bene. Significa che non mi si guarda più, che si viene per un'altra ragione e questo a me non piace. In qualche misura è demotivante. Diciamo che rispetto a certe dinamiche, un po’ naturalmente, un po’ caratterialmente, io mi tutelo. Come tu ben sai il nostro lavoro implica, aldilà delle attività culturali che organizziamo, anche dei momenti più conviviali. La cena dopo lo spettacolo, la foto, il commento su Facebook, il messaggio. Io trovo che ci sia un valore nell’andare a fare lo spettacolo al centro anziani, la cena spettacolo alla lega sportiva e il laboratorio con l’Accademia della Crucca o con Confindustria. C’è un valore in questo tipo di lavoro e io cerco di concentrarmi su questo valore. Non sfuggo alla cena con i miei laboratoriandi di Confindustria, alla fotografia al centro anziani, alle chiacchere dopo lo spettacolo. Però un conto è essere educati e gentili, l’altro è che la barra si sposti troppo verso la dimensione personale e, in quest’ultimo caso, il rischio è che si perda poi la qualità della fruizione. Si rischia che alcune persone vengano a teatro o all’attività per “vedere l’amico”. Perché non è solo nostra quell’idea di attore che recita all’Argentina, c’è in qualche misura anche nello spettatore e, non sconfesso quello che ti ho detto prima, ma è anche giusto che sia così. Che nel nostro lavoro sussista un’aura, un alone di mistero, di non accessibilità, di qualcuno che ti mostra qualcosa ma non sai chi è veramente, è importante per il nostro mestiere. Secondo me un buon modo per tutelarsi è chiarire la presenza, comunque, di una certa distanza, di un ruolo. In questo modo tutelo l’etica del mio lavoro e anche quella di chi vi assiste o partecipa: non siamo su livelli diversi ma abbiamo ruoli differenti. Distinguere i ruoli serve a preservare la qualità di quello che fai. Cosa comporta far parte di un solido gruppo di lavoro ( penso anche agli assistenti e al costumista) confermatosi nel tempo e di un ensemble di attori che assomiglia sempre di più ad una compagnia stabile? E anche in questo caso, quali sono le ricadute sull’attorialità? La prima cosa che mi viene in mente è un senso di fiducia, la possibilità di potersi fidare delle persone con le quali lavori. Ovviamente, come in ogni cosa, ci sono delle ricadute 61 positive e delle ricadute negative. È positivo ad esempio, avendo sempre poco tempo, far parte di un gruppo di colleghi che conosci, anche attorialmente, e di cui ti fidi. Per farti uno degli ultimi esempi: è capitato che mi trovassi in coppia con Lino (Guanciale) in uno spettacolo itinerante al museo Novecento di Firenze. Come può spesso capitare in queste occasioni che comportano spostamenti di persone, ci è stato fatto segno di velocizzare e, senza dirci nulla, assolutamente nulla, abbiamo bypassato una serie di passaggi e ci siamo ritrovati ad un punto successivo del copione in modo del tutto naturale. Questo è un grande valore. Conoscersi artisticamente e fidarsi. Il lato negativo è ovviamente il rischio di cadere in una sorta di automatismo. L’occhio esterno serve, più che a dare una direzione al lavoro, a venirti a riprendere proprio laddove la cosa diventi scontata, ripetitiva. Conoscersi così bene in alcuni casi giova, in altri salva la vita, in altri no. Giacomo Pedini, Giulia Maurigh, Gianluca Sbicca, sono tutte persone alle quali sai di poterti appoggiare nel momento in cui hai bisogno e viceversa. Questo è il presupposto fondamentale e dato che questi presupposti non sono mai venuti meno, evidentemente è un meccanismo che funziona. Ad esempio fa parte della distribuzione del lavoro avere delle competenze all’interno del gruppo di tipo drammaturgico, musicale, inerenti la comunicazione. Noi veniamo incaricati di occuparci di alcune cose, a volte singolarmente, a volte insieme. È capitato che, aldilà della consegna, non potendo fare una cosa, i miei compagni l’abbiano fatta per me e viceversa, appunto. C’è come quest’idea di procedere insieme, ecco. Entrando nello specifico di ‘Istruzioni..’, quali implicazioni ha, in generale, per un attore, indossare una maschera? E in questo particolare caso, indossarne molte (corredate di costume), passando schizofrenicamente da un "personaggio" all'altro? Oltre a questo passaggio, se ne riscontra un altro, presente già nel testo. L'incontro/scontro tra diversi piani: storico; d'invenzione; onirico; cabaret (con attori di cabaret che talvolta interpretano personaggi storici, in un ulteriore sovrapposizione). Come avete gestito questa convivenza forzata di livelli tanto diversi? Sicuramente se indossi una maschera, interpreti molti personaggi e sei in uno spettacolo come Istruzioni.. non ti puoi appellare ad una dimensione psicologica. Mi verrebbe da dire che non ti puoi appellare a nessuna dimensione, se non a quella di correre in fretta per arrivare a fare un altro personaggio! (ride) Ci è stato chiesto dopo lo spettacolo: “ma voi vi immedesimate nel ruolo o prendete una distanza brechtiana?”. (con ironia) Mah… 62 Veramente non abbiamo avuto il tempo di pensare a nessuna di queste cose (ride). Scherzi a parte. La maschera mi richiama immediatamente due cose. Le prime che mi hanno accompagnato dopo aver saputo di dover indossare una maschera sono state: l’assenza della dimensione psicologica e la precisione del gesto. Sicuramente è difficile vedere la parte identitaria di te, il volto, cancellata. Da una parte c’è una nota, diciamo, non piacevole, riguardante il narcisismo dell’attore che vuol essere riconosciuto e invece non lo è. Dall’altra ci sono due cose: la maschera ti protegge, ti libera molto, non è certamente una mia scoperta. Poi c’è anche il fatto che alcuni attori vivono la schizofrenia di voler essere riconosciuti e al tempo stesso di non-voler essere riconosciuti. E nell’indossare una maschera succede che, se la parte che vuole essere riconosciuta viene frustrata, l’altra però viene nutrita. Perché non vuole essere riconosciuto? Bè… Adesso lo dico male ma… Ci sono gli attori maschera di sé stessi, quelli che vanno sul palco per dare esibizione di sé, della propria persona. E poi ci sono gli attori interpreti, che magari ci arrivano lo stesso a quel punto, ma da una strada diversa. Quelli che magari dopo lo spettacolo vanno via in fretta, fuggono alle foto… Non perché non siano narcisisti, ma perché il loro narcisismo passa attraverso il riconoscimento di quello che fanno, non di quello che sono come persone. Tecnicamente la maschera comporta una moltiplicata attenzione al gesto, al movimento e alla vocalità. In Istruzioni.. dato il numero di personaggi, diventa necessario puntare verso una caratterizzazione a tinte forti, altrimenti proprio il tuo aspetto “ti si mangia” rispetto a quello che puoi dire o che puoi fare. Sia il tipo di maschera che indossavamo, il camauro, che il tipo di spettacolo, richiedono che si faccia qualcosa di molto segnato. Diversamente risulta tutto debole. Per quanto riguarda il numero di personaggi e il fatto di passare da uno all’altro così in fretta… Sinceramente dopo un po’ non ci si pensa più. Il lavoro delle prove, che si sono strutturate in due tempi, è servito a quello. Quelle più lontane dall’allestimento sono servite per centrare determinati problemi e lavorare sulle figure e il modo in cui caratterizzarle. Nelle seconde semplicemente “siamo andati”, come nello spettacolo. Introietti un dato e vai! (ride). Il punto è che in una situazione del genere, non ci si può fermare su nessun’altro tipo di dimensione che non sia quella su cui hai lavorato in precedenza. I piani che si intersecano: tutto ciò non è più una preoccupazione nel momento in cui ci sei dentro, è una questione analitica che ti poni prima. Una volta 63 analizzati, nel momento in cui ci vai dentro con le mani e con i piedi, i problemi diventano di ordine molto pratico. Infine, per esperienza so che due spettacoli abitano ‘Istruzioni..’, uno davanti e l'altro dietro le quinte. In che modo siete riusciti a far convivere le esigenze tecniche dei cambi veloci, delle corse da una parte all'altra del teatro, con quelle "interpretative"? La mia impressione personale è che la recita più riuscita di questo spettacolo sia stata proprio la sfiancante maratona finale di nove ore. Sei d'accordo? Eventualmente quali potrebbero essere le ragioni? Questa domanda chiude un po’ il cerchio con la prima. Come convivono i due spettacoli? Non possono farlo che diventando un unico spettacolo. Lo stesso tipo di attenzione che hai quando vai in scena la devi avere anche dietro. É come se fossi sempre in scena. Per capire, forse, quella che hai in scena, è bene guardare quella che hai quando non lo sei. L’attenzione a infilarti i pantaloni velocemente senza inciamparti, a metterti le scarpe giuste, a cambiarti il camauro… L’attenzione a chi ti sta intorno, a chi ti aiuta e a chi sta facendo altre cose… È la stessa che poi di deve accompagnare anche in scena. E non si può fare se non, da quando comincia lo spettacolo fino a quando davvero è finito, mantenendo quello stesso tipo di attenzione. E infatti in questo senso avere anche solo dieci minuti di stacco tra una scena e l’altra è destabilizzante in uno spettacolo come questo. Tant’è vero che, se non ricordo male era l’ultima domanda, hai perfettamente ragione quando dici che la recita più riuscita è stata la maratona. Non solo perché restituisce un senso complessivo del testo, ma anche perché, dal punto di vista attoriale, ti mette dentro una cosa che non finisce mai. Rimettersi in contatto con la complessità del percorso dà un senso di pienezza che annulla la fatica. È più faticoso pensarlo che farlo. Certo non ne esci se pensi ad un certo tipo di concentrazione claustrale. Ecco. Se dovessi dire la cosa che maggiormente mi porto a casa proprio in termini attoriali dell’esperienza di andare a fare lo spettacolo al centro diurno è una certa qualità dell’attenzione. Con quella puoi affrontare nove ore di spettacolo. 64 Come definiresti la regia di Claudio Longhi? Caratteristica di Claudio in quanto regista è proprio quel tipo di attenzione di cui dicevo prima. Non concentrato sul raggiungere una cosa che per forza si è proposto, ma attento agli stimoli che gli vengono da un gruppo di lavoro che ha un’esperienza consolidata. Per noi la sua direzione è fondamentale e credo che per lui sia fondamentale attingere agli stimoli che noi gli diamo. Come se tu dovessi attraversare una città e tornare a casa con la spesa per preparare la cena: Claudio ti può dire, nella sua visione di insieme rispetto a quello che andrà a preparare, che i negozi dove puoi fare la spesa sono quelli delle prossime tre strade, poi però sei tu ad andarci. A lui interessa che venga fatta la spesa in via Oberdan ad esempio. Però in quali negozi entrare e cosa portare a casa, lo decidi tu. E una volta a casa lui magari sceglie le cose che gli interessano di più per preparare la cena. Ecco… Mi è venuto questo paragone, totalmente improprio perché credo che Longhi non sappia cucinare neanche un piatto di pasta all’olio! (ride) Però è un po’ così. 65 L’ATTORE NON PUO’ E NON DEVE AVERE I “PARAOCCHI” Intervista con Simone Tangolo 17 febbraio 2017 C. Longhi cita spesso degli appunti di M. Castri in cui si parla della necessità di sfuggire la seduzione dell’eterodirezione e di riscoprire l'attore come "operatore culturale". Alla luce del tuo/vostro lavoro che cosa significano le parole di Castri? E quali ricadute comporta questo allargamento di orizzonte sull'attorialità in senso stretto? Credo che in modo più o meno consapevole stiamo mettendo in pratica quanto teorizzato da Castri. Da una parte con Claudio (Longhi) sussistono un costante dialogo, una marcata attenzione alle proposte che facciamo e soprattutto molta indipendenza da parte nostra; dall’altra la direzione che abbiamo preso come attori è davvero quella di un allargamento dei compiti, delle funzioni. Non si tratta più insomma di ricevere e interpretare un testo seguendo le direttive del regista. È un tipo diverso di lavoro. È anche un mettersi alla prova, se vuoi… Confrontandosi ad esempio con la scrittura, la ricerca di un pezzo musicale, il modo di arrangiare questo pezzo al testo che hai scritto per un determinato tipo di occasione. Ma anche un lavoro di ricerca su di un periodo storico, di materiali che stimolino in qualche modo la comunità che hai intorno rispetto ad un determinato argomento. Tutto questo determina una grande crescita per il mestiere dell’attore e in verità, dal mio punto di vista, si tratta di una riscoperta di un modo di lavorare che esisteva già. Modo di lavorare che poi influisce appunto nel momento in cui vai a scrivere un testo e questo testo viene percepito, riconosciuto dallo spettatore, come qualcosa che lo rispecchia in qualche modo, come qualcosa che parla di lui oggi. E di ritorno, per quanto riguarda l’attorialità in senso stretto, questo tipo di esperienza influirà anche sulla recitazione di un “testo classico”. Per forza. A meno che l’attore non sia un “pannello riflettente” (ride). Quello che faccio io ad esempio, che ho imparato a fare in questi anni, è discostarmi dal pensare di recitare e concentrarmi invece più a “parlare”. Può sembrare un paradosso ma non lo è. In verità lo fanno molti bravi attori. Si tratta di coniugare la tecnica accademica al modo più adatto di comunicare rispetto la situazione alla quale ti trovi di fronte. E ovviamente trovarsi in una scuola, in una biblioteca, non implica il dimenticarsi del proprio bagaglio d’attore, ma l’utilizzare quel bagaglio con l’attenzione rivolta a chi ti ascolta. Non si può prescindere dal fatto che uscendo da un teatro, può capitare di rivolgersi a persone che in un teatro non ci sono mai entrate. Ecco. L’attore non può e non deve avere i 66 “paraocchi”. Deve tenerne conto e arrivare a comunicare anche a quelle persone. Ciò non significa mettere in piedi un “villaggio vacanze”, ma unire sapientemente i tuoi strumenti ad alcuni, diciamo, più propriamente “comunicativi”, in modo da coinvolgere chi hai di fronte e riportarlo con te, poi, in teatro. È anche uno scambio. Avvicinandoti e cercando di capire la persona che non è mai entrata in un teatro appunto, la coinvolgi e la metti in condizione di capire te. Quando poi andrai a proporgli un certo stile recitativo e certe scelte registiche sarà più preparato a comprenderle. Si tratta di maturare insieme, diciamo. Non per niente proponiamo nelle scuole medie delle lezioni-spettacolo. È anche un fatto di “educazione”. Il nostro tipo di lavoro, quello che abbiamo costruito con Claudio Longhi, sicuramente porta grande attenzione al territorio, allo spettatore e in qualche modo sposta il centro rispetto allo spettacolo in senso stretto. Se questa modalità si scontra un po’ con le aspirazioni, con una certa dimensione egocentrica dell’attore, d’altra parte trovo anche sia l’approccio più realistico al tempo in cui viviamo. La differenza sostanziale è la mancanza di un risultato immediato, di quell’appagamento che dà uno spettacolo. Nel nostro caso il risultato viene costruito nel tempo. Sussiste quindi una condivisione d’intenti, di un etica… Assolutamente. Se così non fosse, questa modalità di lavoro non potresti portarla avanti. Proprio perché non dà riscontri immediati. Ci devi credere insomma. Il fatto di lavorare insieme da anni, di essere un gruppo consolidato, un ensemble di attori che assomiglia sempre più ad una compagnia stabile, come si traduce sul palco? Certamente c’è una conoscenza professionale e umana che aiuta moltissimo. Si porta avanti un lavoro, si sviluppano delle riflessioni, si crea un tipo di affiatamento che inevitabilmente si riflette anche sull’attorialità. E banalmente, se ti ritrovi ad avere dei tempi di prove strettissimi, come spesso capita, una conoscenza di questo tipo aiuta moltissimo. Le squadre migliori, anche nello sport, sono quelle che hanno avuto il tempo di conoscersi. Entrando nello specifico di ‘Istruzioni..’, quali implicazioni ha, in generale, per un attore, indossare una maschera? E in questo particolare caso, indossarne molte (corredate di 67 costume), passando schizofrenicamente da un "personaggio" all'altro? Oltre a questo passaggio, se ne riscontra un altro, presente già nel testo. L'incontro/scontro tra diversi piani: storico; d'invenzione; onirico; cabaret (con attori di cabaret che talvolta interpretano personaggi storici, in un ulteriore sovrapposizione). Come avete gestito questa convivenza forzata di livelli tanto diversi? Indossare una maschera implica uno studio attento e l’utilizzo di strumenti ulteriori. La maschera modifica, livella tutto. E quindi ti devi, per forza di cose, appellare al corpo, alla voce. Si tratta anche di perdere tanti vezzi, fronzoli e di cercare in una sorta di, chiamiamola astrattezza, una verità tua che comunque non ti porti a recitare come un manichino. Se è vero che potrai usare un modo più innaturale di muoverti e un modo più artificioso di parlare, non dovrai comunque dimenticare di far passare una “verità” attraverso questa sovrapposizione di “finzioni”. È un lavoro molto interessante per gli attori. In Istruzioni.. questa cosa poi è portata all’estremo. Questo continuo uscire ed entrare da un personaggio all’altro ti porta ad una dimensione di abbandono… Di “non pensare per pensare”. Smetti il pensiero razionale e segui il flusso di un delirio organizzato che ti incanala in un perpetuo stato di estrema attenzione. Questo stato ti porta a trovare delle soluzioni che normalmente non cercheresti mai. Credo ci sia anche un intento propriamente registico in questo… Non è un mistero che un attore in condizioni di sfinimento dia risultati diversi, e che ci siano cose che è possibile sperimentare solo facendole. Questo è anche un principio base del nostro mestiere. L’attore conosce nel momento in cui fa. Poi si può teorizzare di tutto, certo… Ma l’attore non sa finchè non arriva a fare una cosa. Dopo averla fatta, la capisce. E in Istruzioni.. Secondo me, il fine, l’intento, più che di rappresentare, è quello di evocare. Questa perlomeno è anche la strada che ho seguito io come attore. Mi accodo a quest’ultima cosa che hai detto… A fine spettacolo vi è stato chiesto riguardo l’uso o meno delle tecniche di “straniamento” e “immedesimazione”. Sappiamo come non si tratti di categorie assolute e chiaramente definite. Troverei comunque interessante riproporti la domanda. Si tratta di un’altalena più o meno consapevole. In alcuni momenti semplicemente utilizzi tutti i tuoi strumenti e li misceli. C’è da dire che la prima grande vera prova è quella con il pubblico. Ed è in base a quella che capisci come “dosare” questi “ingredienti”. A volte 68 seguirai più la strada dell’immedesimazione. Altre, sacrificherai un “effetto sicuro”, per seguire ciò che ritieni giusto rispetto al lavoro che hai fatto. Il punto è che, sì, io credo che un certo grado di immedesimazione sussista sempre dal momento che puoi empatizzare con quello che stai dicendo o meno. Credo anche però che un attore debba essere in grado di decidere se seguire quella strada o, invece, proprio perché sente molto vicine a sé le cose che sta dicendo e, credendoci fortemente, sente di doversi immedesimare, di fare proprio il contrario. Di dire, in sostanza: “in questa cosa ci credo così tanto che non la recito. La dico”. Talvolta questo aiuta a far meglio arrivare dall’altra parte ciò in cui credi. Come definiresti Claudio Longhi come regista? Longhi è un risultato dei suoi studi, delle sue esperienze, delle persone che ha incontrato, con le quali ha lavorato e, pur essendo caro ad un certo tipo di teatro, riesce a miscelare sapientemente tutto quello che è il suo mondo e renderlo dal punto di vista registico coniugandolo a quello degli attori che ha di fronte. E questa non è una qualità di tutti i registi. 69 70 APPENDICE ICONOGRAFICA Si riportano qui in parte e a titolo esemplificativo i modelli creati da Gianluca Sbicca in fase di ideazione dei “camauri”. Si noti come le maschere e parrucche siano state pensate e concepite sui tratti somatici degli interpreti. Per le immagini si ringrazia Giulia Maurigh. 71 Un momento di ilarità durante la prova costumi. A sinistra l’attore Simone Francia con indosso il costume del Soldato francese. A destra il costumista Gianluca Sbicca raggiante dopo aver finalmente trovato un berretto rigido a completamento della divisa. Foto di Vittorio Taboga. 72 L’attore Nicola Bortolotti durante la prova costumi. Si noti il trucco bianco, indispensabile per creare uniformità con il “camauro” e per accentuarne la resa grottesca. Foto di Vittorio Taboga. 73 Da sinistra: gli attori Donatella Allegro (Tina bambina), Diana Manea (Maria bambina), Lino Guanciale (Lelo bambino) e Simone Tangolo (Berto bambino) in Scena 3. Stanza di Lelo, 1910 1. Patrimoni, durante il passaggio della cometa di Halley. Foto di scena Luca Del Pia. In primo piano l’attrice Diana Manea (Josephine), sullo sfondo, da sinistra gli attori Simone Francia (Ufficiale tedesco) e Lino Guanciale (Lelo) in Scena 2. Inverno 1915, 1. Patrimoni. Si notino la pedana rosso fuoco e i sipari color rosso «sangue di bue» di Guia Buzzi. Foto di scena Luca Del Pia. 74 In primo piano l’attore Eugenio Papalia (Trotsky), sullo sfondo Diana Manea (Aleksandra Sokolovskaya) in 2. Rivoluzioni, scena 4, Parigi 1915. Da notare come il camauro estremizzi in direzione grottesca i lineamenti reali di Lev Trotsky e come l’attore caratterizzi il personaggio. Foto di scena Luca Del Pia. In primo piano l’attore Simone Francia (Fotografo), sullo sfondo da sinistra gli attori: Lino Guanciale (Guglielmo II), Diana Manea (Regina Vittoria), Eugenio Papalia (Giorgio V) nella scena Primo numero: Foto di gruppo in 3. Teatro. In questo caso l’interpretazione è di “secondo livello”: i personaggi infatti sono attori di cabaret essi stessi, nel mentre di recitare una scena. Anche qui vediamo l’utilizzo dei camauri espressionisti e degli accessori di carta. Foto di scena Luca Del Pia. 75 In primo piano l’attore Lino Guanciale (Georg Heym) Sullo sfondo gli attori, poco visibili: Nicola Bortolotti e in fondo da sinistra Eugenio Papalia, Michele Dell’Utri e Simone Tangolo nella scena cabaret di apertura di 2. Rivoluzioni cantando Come era bello vivere nel 1912! Da notare gli accessori di carta voluti da Claudio Longhi e ideati da Gianluca Sbicca. Foto di scena Luca Del Pia. 76 SCHEDA DELLO SPETTACOLO ISTRUZIONI PER NON MORIRE IN PACE ∗ 1. PATRIMONI 2. RIVOLUZIONI 3. TEATRO di Paolo Di Paolo regia Claudio Longhi scene Guia Buzzi costumi Gianluca Sbicca proiezioni Riccardo Frati luci Tommaso Checcucci arrangiamenti musicali Olimpia Greco trucco e acconciature Nicole Tomaini regista assistente Giacomo Pedini assistente alla regia volontario e ricerche iconografiche Vittorio Taboga assistente ai costumi Sara Gomarasca si ringrazia Giulia Maurigh per la collaborazione alle ricerche drammaturgiche e iconografiche con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell'Utri, Simone Francia, Olimpia Greco (fisarmonica e pianoforte), Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo direttore tecnico Robert John Resteghini direttrice di scena Madrilena Gallo; capo macchinista Claudio Bellagamba; macchinisti Andrea Bulgarelli, Marco Fieni; capo elettricista Fabio Bozzetta; attrezzista Erica Montorsi; sarta Loredana Averci ∗ Laschedariportataèquellapresentesullibrettodellospettacolo. 77 scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione capo costruttore Gioacchino Gramolini costruttori Marco Fieni, Sergio Puzzo scenografi realizzatori Erica Montorsi, Livio Savini grafica Jean-Claude Capello Si ringrazia il Museo della Figurina per le immagini presenti nello spettacolo Si ringraziano infine Vanja Baltic, Stefano Codeluppi, Giuseppe Maisto, Valentina Mirenda, Daphne Pasini, Francesco Sabaini 78 BIBLIOGRAFIA ∗ VOLUMI R. 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Novecento e oltre, Roma, Bulzoni, 2013. Il criterio per le sezioni VOLUMI e ARTICOLI E SAGGI è alfabetico, per la RASSEGNA STAMPA e la ∗ SITOGRAFIA cronologico. Fanno eccezione i siti veri e propri che si trovano alla fine di quest’ultima. 79 M. De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000. M. MacMillan, Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi [1984], Roma, Bulzoni Editore, 2008 (1a ed. Sansoni). F. Perelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale, Torino, UTET, 2005. F. Quadri e R. Molinari (a cura di), Il ruolo della regia negli anni Duemila. Speciale 2005, in s.c., Il Patalogo ventotto. Il ruolo della regia negli anni Duemila, Milano, Ubulibri, 2005. A. Sacchi, Il posto del re: estetiche della regia teatrale nel modernismo e nel contemporaneo, Roma, Bulzoni, 2012. A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977. M. 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Per un’archeologia dei saperi comunitari, sito del progetto consultabile on-line all’indirizzo http://www.ilrattodeuropa.it (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). Raccontare il territorio, informazioni sul progetto reperibili all’indirizzo http://www.emiliaromagnateatro.com/raccontare-il-territorio-2014/ (ultima consultazione: 10 febbraio 2017). 85 Carissimi Padri…Almanacchi della “Grande Pace” (1900-1915), co-produzione ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro della Toscana, sito del progetto consultabile on-line all’indirizzo http://www.carissimipadri.it (ultima consultazione: 15 febbraio 2017). G. Maurigh e G. Pedini (a cura di), Istruzioni per non morire in pace, libretto dell’omonimo spettacolo per la regia di C. Longhi, reperibile nella sua versione estesa online all’indirizzo: date.pdf 86 http://www.carissimipadri.it/wp-content/uploads/2016/01/pdf-nuove(ultima consultazione: 15 febbraio 2017). RINGRAZIAMENTI Giunti a questo punto l’impresa più ardua è ringraziare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito alla stesura di questo lavoro. Ogni persona citata in questa pagina ha svolto un ruolo fondamentale, tengo però a precisare che la responsabilità di eventuali errori, inesattezze e mancanze contenuti in questa tesi è imputabile solo a chi scrive. In primo luogo un ringraziamento al relatore professor Gerardo Guccini per aver accettato questo lavoro, pur al di fuori del proprio ambito, con apertura ed entusiasmo. Un sentito grazie al docente e regista Claudio Longhi. Le sue lezioni, il suo lavoro e la sua umanità sono stati fonte d’ispirazione e fondamentali alla genesi di questo scritto. Più in generale la mia gratitudine va a tutti i professori incontrati in questi tre anni di Università per aver contribuito alla mia formazione, a tutto il personale universitario ed in particolare a quello della biblioteca del Dipartimento delle Arti per l’accortezza, la competenza e la disponibilità dimostrate. Un affettuoso e particolare ringraziamento è rivolto a Giulia Maurigh e ad Angelo Vassalli per le attente riflessioni, i preziosi consigli, la pazienza e il sostegno che generosamente non hanno mai mancato di offrirmi. Fondamentale per questo elaborato è stata l’esperienza di tirocinio curricolare presso ERT durante le prove, l’allestimento e le recite dello spettacolo Istruzioni per non morire in pace. Difficile elencare esaustivamente in questa pagina tutti coloro ai quali va la mia gratitudine: l’ensemble di attori, alla cui umanità e dedizione è destinata parte di questo lavoro; Donatella Allegro, Nicola Bortolotti e Simone Tangolo a cui rivolgo un ringraziamento ulteriore per aver generosamente condiviso con me le proprie riflessioni; gli assistenti; il personale tecnico; i miei colleghi tirocinanti. Impossibile in questo contesto dimenticare Loredana Averci, sarta di scena dello spettacolo, maestra sul palco e nella vita. In ultimo un affettuoso ringraziamento va al costumista Gianluca Sbicca, per la disponibilità e gentilezza con le quali ha accettato di parlare con me del proprio lavoro. Nell’ottica della fine di un percorso lungo tre anni non posso non citare i miei compagni di viaggio, studiosi e teatranti, per l’entusiasmo e la passione che li distingue e per avermi donato, ognuno a suo modo, un pezzettino di sé: Aleksandra, Antonio, Domenico, Fidel, Francesco, Lino, Marta, Martina, Marzia, Nicoletta, Sebastiano, Simone, Viviana G., Viviana V. . 87 Un grazie speciale alle mie coinquiline. A Cecilia, alla sua forza e determinazione. A Elena, le cui pazienza e dolcezza non hanno mai smesso di accompagnarmi e alla quale devo più di quanto possa essere contenuto in un’intera pagina. Grazie ad Oksana, amica, compagna, sorella, costantemente al mio fianco. Grazie ad Antonio e Manuela e all’affetto che da sempre mi dimostrano. Grazie ai miei zii Bruno e Francesca, per il sostegno e la fiducia mai venute meno. Grazie a mia nonna Luisa, per avermi amata così tanto. Grazie a mio nonno Roberto, al quale devo tutti i miei valori più alti. Grazie ad Anna, per la sua fondamentale presenza nella mia vita. Infine, grazie a mia madre, Silvia, alla quale devo tutto. La ringrazio per non essere mai mancata, per avermi sostenuta oltre l’immaginabile, per l’indomito coraggio che la contraddistingue e che resta, per me, l’insegnamento più grande. Questo modesto lavoro è dedicato a lei. 88 89