L`analisi sociologica dello sport

L’analisi sociologica dello sport
di PIPPO RUSSO
La riflessione sociologica sul tema dello sport si presenta come
un’impresa discontinua e irregolarmente dislocata, che risente ancora di
una difficoltà ad assegnare una dignità accademica al tema e a conferirgli
uno statuto di specifico campo disciplinare. Lo sport come fenomeno
sociale, infatti, continua a essere un oggetto d’analisi periferica, sul quale
convergono approcci teorici eterogenei per estrazione disciplinare e
strumenti analitici, ognuno con paradigmi e apparati concettuali propri,
col risultato di enfatizzare quasi sempre aspetti singoli del fenomeno
stesso. Rimangono ancora limitati i tentativi di spiegazione sistematica,
assurti con stupefacente velocità al rango di «classici» proprio in ragione
di una «mancanza di concorrenza teorica», oltre che di una così marginale
collocazione del tema nell’ambito delle scienze sociali e di un altrettanto
carente sforzo sistematico nell’approntare schemi concettuali e modelli
di analisi endogeni. Così, all’osservatore che si ponga lo scopo di trarre
un bilancio sullo «stato dell’arte» della sociologia dello sport non resta
che registrare la presenza di una serie di studi circoscritti nei temi e nella
dimensione indagata, e un fiorire di ricerche empiriche — provenienti
soprattutto dagli ambienti accademici anglofoni — che dalla loro stessa
dimensione micro vengono rese utilizzabili soltanto in termini di agenda
(la legittimità del tema scelto come issue rilevante dell’ambito disciplinare), non certo per il contributo euristico offerto alla causa di una più
puntuale definizione del campo teorico. La stessa filiazione della sociologia dello sport come sotto-disciplina risulta problematica: non esiste
infatti una opinione univoca sulla «disciplina-madre» cui essa dovrebbe
fare capo. L’opinione più diffusa, e tutto sommato più accreditabile, è
quella che vorrebbe far rientrare gli studi sociologici sullo sport all’interno
del campo dei cultural studies; ma non mancano gli approcci che
riconducono il tema nell’ambito della sociologia politica (Porro 1995),
o della sociologia dell’organizzazione (Slack 1997); quelli che fanno della
lettura dei processi legati allo sport un’efficace cartina di tornasole per
analizzare l’equilibrio dei rapporti fra generi (Creedon 1994; Cole,
Messner e Mc Kay 1997); quelli che proiettano in focus sui comportamenti
devianti, sia sul versante degli atleti che del pubblico (Dal Lago 1990;
RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLI, n. 2, aprile-giugno 2000
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Dunning 1971; Elias e Dunning 1989; Roversi 1992); quelli che declinano
il rapporto fra sport e mass media (Rowie 1999; Wenner 1998); e, infine,
quelli che ne studiano le trasformazioni provocate dai processi di
globalizzazione (Bale e Maguire 1995; Maguire 1999).
Il quadro appena delineato fa intendere quanto difficile sia la
definizione disciplinare degli studi sullo sport, e la loro specificazione
nell’ambito degli studi sociologici. A partire da queste constatazioni
appare dunque necessario delineare i principali riferimenti teorici sullo
sport all’interno dello spettro complessivo delle scienze umane e sociali,
per poi passare ai — limitati — tentativi di teorizzazione ascrivibili al
campo disciplinare della sociologia, e concludere con l’indicazione di
alcuni filoni di analisi che possono essere ritenuti di ausilio per una più
compiuta definizione dello sport come problematica sociologica.
1. Sport e teoria sociale
L’importanza dello sport nelle scienze umane emerge per la prima
volta all’interno del dibattito relativo a quella che è stata definita la
«dialettica lavoro-tempo libero»1. L’oggetto del contendere attorno al
quale le opposte tesi prendevano partito riguardava il primato fra
propensione ludico-espressiva e propensione strumentale nell’agire umano; quale delle due assume la posizione principale, e quale quella
residuale? L’uomo esprime primariamente le proprie inclinazioni attraverso quelle attività che consistono nell’impiego dei mezzi per la
realizzazione di fini, rispetto alla quale il tempo dedicato a attività non
strumentali assume una valenza residuale? O, viceversa, egli sviluppa al
massimo grado attraverso le attività espressive la sua natura di «animale
simbolico», all’interno della quale le attività strumentali non sono altro
che una classe di pratiche designate a definire, assieme alle altre, il
«rapporto significativo» dell’uomo col mondo circostante? Nel contesto
di questa disputa rientra il ruolo dello sport come gioco organizzato e
formalizzato, della sua natura nel quadro complessivo delle attività umane
e della sua dignità, primaria o residuale, come pratica.
Attorno al dilemma tempo libero-sport/lavoro si sono confrontati alcuni
fra i teorici sociali di maggior spicco dello scorso secolo, provenienti da
ambiti disciplinari diversi e grosso modo riconducibili a due filoni di
pensiero: quello del materialismo marxista e quello del conservatorismo
culturale.
Secondo il primo filone l’attività spesa nella ricerca del miglior
governo possibile delle condizioni materiali dell’esistenza rappresenta la
1 Per una esauriente ricostruzione di questo dibattito si veda Hoberman (1984, in
part. trad. it. 51-87).
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più compiuta realizzazione della stessa natura umana; da ciò deriva che
il lavoro non può che essere posto in posizione primaria rispetto al tempo
libero e a tutte le espressioni che in esso trovano collocazione (segnatamente, nel nostro caso, gioco e sport). Il tempo libero, secondo gli
intellettuali riconducibili all’interno di questo filone, non è altro che
«tempo residuo» rispetto all’attività di lavoro, e ogni pratica che in esso
venga esperita gode di uno statuto inferiore rispetto a quelle che
contraddistinguono il tempo di lavoro. In questo contesto, le attività
ludiche e sportive altro non possono essere che pratiche di simulazione
o perfezionamento di quelle lavorative. Esemplare di questo modello di
approccio è la teoria dello storico marxista Gerhard Lukas (1969),
secondo il quale il primo sport praticato dall’uomo non può essere stato
che il lancio del giavellotto. Tale pratica, infatti, sarebbe il frutto della
necessità dell’uomo di ridurre al minimo il rischio di contatto con belve
feroci, o di rendere meno ardua la cattura di prede rapide nella fuga,
colpendole a distanza per mezzo di uno strumento letale (la lancia) da
usare con la precisione d’obbligo per chi non può consentirsi di scagliare
un altro colpo: e dalla necessità di affinare la tecnica di lancio e di
migliorarne l’efficienza si sarebbe aperto un canale per le pratiche di
addestramento, anticamera della ludicizzazione e della sportivizzazione.
Come si può notare, nella ricostruzione fatta da Lukas è l’attività praticomateriale a far da levatrice a quella ludico-sportiva.
Rispetto a un’impostazione così monodirezionale, alcuni teorici che
si muovono all’interno del medesimo spazio della critica marxista
rivalutano il gioco e lo sport come pratiche non secondarie rispetto al
lavoro, né reificanti e alienanti come sostenuto dai teorici della scuola
di Francoforte. Riprendendo alcuni spunti dei Grundrisse, il sociologo
francese Joffre Dumazedier (1959) sostiene che lo stesso Marx aveva
previsto il sopraggiungere dell’era del tempo libero. A proseguire lungo
questa linea di revisione del rapporto fra lavoro e tempo libero si dedicano
Francis Hearn (1976/77) e Lawrence M. Hinmann (1977) i quali, pur
sostenendo tesi non del tutto compatibili fra loro, conferiscono un’importanza e un significato diversi alle sfere di attività non materiali della
vita quotidiana. A ogni modo, però, nessuno dei critici marxisti citati
giunge a scindere il binomio lavoro/tempo libero e a analizzare ciascuno
dei termini in modo separato, mai riuscendo a avvicinarsi alla formulazione di una compiuta teoria dello sport come fenomeno indipendente
da una matrice materialista delle attività umane.
L’altro filone di riflessione teorica che è stato qui citato, opposto
a quello del materialismo marxista, è quello del conservatorismo culturale.
Le tesi sostenute dagli autori riconducibili all’interno di questa posizione
fa riferimento alle attività ludico-espressive come a quelle davvero
fondative dell’agire umano, rispetto alle quali le pratiche destinate a
assicurare le condizioni materiali minime di esistenza non sono che epifenomeni connotati simbolicamente. Il principale esponente di questo
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filone è lo storico olandese Johan Huizinga, il cui testo Homo ludens
(1938) rappresenta a tutt’oggi uno dei più alti tentativi di fornire un
fondamento culturale e teorico al fenomeno del gioco. La tesi di Huizinga
sostiene che l’uomo esprime al meglio la propria natura intima attraverso
attività la cui matrice è inequivocabilmente ludica2. Il gioco stesso fornisce
secondo l’autore una sorta di grammatica del comportamento all’individuo, argomentazione che rappresenta una sorta di anticipazione delle tesi
di Caillois sulla categoria ludus dei giochi che più avanti verranno
illustrate; il gioco è un’attività a forte connotazione culturale, che si
esprime attraverso una ritualità dalla vaga matrice religiosa o rituale e
fornisce il principale canale espressivo per l’inclinazione simbolica della
natura umana. L’argomentare di Huizinga parte da un presupposto
polemologico che si orienta contro due nemici ben identificabili, per
quanto mai dichiarati in tutto il corso del libro: l’utilitarismo borghese
e il materialismo marxista, che in generale rappresentano i bersagli contro
i quali si indirizzano gli strali della corrente cultural-conservatrice.
Rivalutando il gioco come principale attività espressiva della natura
umana, egli attacca in modo indiretto quanto raffinato le due correnti
che dominano la scena ideologica a cavallo dei due secoli e la loro comune
matrice strumentalista.
Meno raffinata, per quanto più suggestiva, è la proposta del filosofo
spagnolo José Ortega y Gasset (1924), il quale fa un esplicito riferimento
allo sport come fattore di costruzione dello stato. L’elaborazione di Ortega
y Gasset si colloca a metà strada fra la filosofia della storia e la
ricostruzione mitologica; egli, universalizzando un episodio mitico della
storia romana (il ratto delle Sabine) indica nel senso di sfida e nello spirito
di corpo virilista che motivano la predazione esogina (cioè, il rapimento
di donne appartenenti a raggruppamenti sociali estranei alla famiglia, alla
stirpe e alla tribù) il primo gesto emancipatorio rispetto ai vincoli con
le cerchie sociali di ascrizione. Il carattere sportivo di questo gesto
predatorio viene rintracciato in quella batteria di motivazioni antiutilitariste all’interno delle quali il senso di sfida, l’affermazione di identità
e la gratuità del rischio giocano un ruolo determinante. La sommatoria
del ragionamento di Ortega y Gasset enuncia il carattere irrazionale
dell’origine dello stato moderno, e anche in questo caso è possibile leggere
in controluce la vena anti-razionalista alimentata in polemica allo scientismo marxista e liberal-borghese.
Gli approcci di Huzinga e Ortega y Gasset, nonostante il loro valore
speculativo e letterario, sono criticabili sotto due profili: quello della
2 In uno dei passaggi più significativi del libro, l’autore scrive: «Nel gioco abbiamo
a che fare con una funzione degli esseri viventi, la quale non si lascia determinare appieno
né logicamente né eticamente. Il concetto di gioco rimane isolato singolarmente da tutte
le rimanenti forme di pensiero con cui possiamo esprimere la struttura della vita spirituale
e sociale» (1938, 10).
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scientificità, rispetto al quale sono entrambe ampiamente opinabili; e
quello della fedeltà storica, alla cui prova i riscontri sono alquanto labili.
Soprattutto, né Ortega y Gasset né tantomeno Huizinga si soffermano
sull’analisi specifica dello sport come fenomeno sociale.
Allontanandosi dalla tematica sul rapporto lavoro/tempo libero e
centrando l’attenzione sul gioco e sullo sport, va segnalata l’ormai classica
ricerca dell’antropologo francese Roger Caillois (1958), all’interno della
quale si procede a una classificazione dei giochi la quale, oltre a
rappresentare uno strumento analitico ancora molto valido, apre una
prospettiva su quella dimensione agonistica che costituisce il nucleo
centrale di ogni fenomeno sportivo. Caillois indica due contrapposte
polarità nella vasta gamma di giochi umani: da un lato, i giochi che
vengono fatti rientrare nella definizione di paidìa, che sono quelli che
sorgono come fenomeni spontanei dell’interazione fra individui e sono
contrassegnati da scarsa regolazione; dal lato opposto, i giochi che
vengono ricondotti entro la categoria ludus, i quali evidenziano una
tendenza verso la fissazione di principi d’azione ai quali i giocatori sono
tenuti a uniformarsi. All’interno di questo continuum, poi, Caillois
individua una tipologia quadruplice di giochi: 1) quelli definiti alea, la
caratteristica dominante dei quali è data dalla preponderanza del caso
nella determinazione dell’esito; 2) quelli che vengono etichettati come
agon, nei quali domina la dimensione della competizione; 3) quelli
denominati mimickry, nei quali l’aspetto della finzione e del mascheramento rappresentano il nucleo dell’interazione ludica; 4) quelli che fanno
insorgere una dinamica di ilinx, cioè di vertigine e sballo.
La tipologia approntata da Caillois, col suo campionario di definizioni
e esempi, mantiene ancor oggi un valore analitico, ma mostra un difetto
nella carenza di attenzione verso la dimensione individuale dei giochi;
la stessa polarità ludus-paidìa, infatti, avrebbe ben potuto essere spesa
nel tentativo di illustrare l’ambivalente tendenza dell’attore a cercare
conformità e certezza d’interazione nelle regole (ludus) e a violarle al
tempo stesso, dando corso ai propri istinti individualisti e auto-espressivi
(paidìa). Per ciò che attiene il tema dello sport, l’individuazione di una
classe di giochi riconducibili alla dimensione di agon traccia una linea
che fa delle moderne discipline agonistiche fenomeni appartenenti a un
modello di espressività umana originario, per nulla residuali rispetto alle
attività pratiche-materiali di conquista dei mezzi di sopravvivenza.
Un’ultima fonte non sociologica che qui merita di essere passata in
rassegna è quella che mette in diretta connessione gli sport moderni con
la ritualità religiosa delle società tradizionali e pre-moderne. Il principale
rappresentante di questa scuola può essere indicato nello storico tedesco
Carl Diem (1971), il quale individua le prime pratiche proto-sportive nei
giochi che venivano celebrati come manifestazioni collaterali alle grandi
celebrazioni religiose in molte società antiche. La connessione fra
esperienza mistica, ritualità delle pratiche celebrative e esercizio di una
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fisicità regolata secondo criteri non estemporanei viene indicata da Diem
come l’origine degli sport contemporanei. L’analisi si rivela utile sotto alcuni
aspetti, soprattutto quelli relativi al carattere cerimoniale del gioco sportivizzato che nelle teorie fin qui indagate era mancata; la prospettiva di
Diem, però, regge a stento alla critica avanzata da Guttman (autore del
quale ci si occuperà diffusamente tra poco), che poggia su due ordini di
eccezioni: l’assenza di un carattere fatidico nell’interazione ludica, riassumibile entro l’elemento del «risultato»; il carattere strumentale dei giochi
stessi, compresi all’interno di un più complessivo rito indirizzato all’ottenimento del favore degli dei. Entrambi i rilievi offuscano quell’idea di
continuità fra i giochi religiosi pre-moderni e gli sport contemporanei.
2. Le fonti sociologiche sullo sport
Passando all’analisi dei lavori sullo sport più dichiaratamente sociologici, quello che più di tutti ha segnato il cammino verso la fondazione
di una disciplina specifica è quello di Allen Guttman, docente di
American Studies all’Ahmerst College. Il suo Dal rituale al record (1978)
rappresenta il più ambizioso tentativo di costruire una teoria sociologica
sullo sviluppo degli sport moderni. Guttman individua una connessione
fra la parabola dell’industrialismo e la «sportivizzazione» dei giochi;
questa connessione si compone a partire da 7 linee di sviluppo evolutivo,
comuni a entrambi i fenomeni:
1) secolarismo: si tratta dell’elemento che porta Guttman a assumere
posizioni critiche nei confronti della ricostruzione di Diem. Gli sport
moderni sono cerimonie laiche, avulse da motivazioni trascendenti e
fondate sul primato assoluto della dimensione umana;
2) uguaglianza: gli sport moderni promuovono una democratizzazione
della pratica e del consumo rispetto a molte delle attività proto-sportive
delle epoche precedenti. Lo sport consumato e praticato cessa progressivamente di essere una linea di demarcazione fra una classe e l’altra.
3) specializzazione: soprattutto grazie alla diffusione e allo sviluppo
degli sport di squadra vengono a raffinarsi delle strategie di divisione
del lavoro che consentono l’ottimizzazione delle risorse disponibili;
4) razionalizzazione: la regolamentazione precisa e scrupolosa delle
pratiche viene assunta come uno degli imperativi principali per ogni
pratica ludico-agonistica che oltrepassi la soglia della sportivizzazione;
5) burocratizzazione: è un passaggio reso necessario dalla razionalizzazione; affinché, infatti, alle regole venga garantita effettività e vincolatività
è necessaria la creazione di uno o più organi di coordinamento;
6) quantificazione: è questo l’elemento che secondo Guttman rappresenta in modo più significativo la natura degli sport moderni, i quali
vengono sottoposti a una forma numerica di razionalizzazione che fa della
misurazione di un’ampia classe di prestazioni l’elemento centrale;
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7) record: esso costituisce l’evoluzione della appena accennata tendenza
alla misurazione delle prestazioni e costituisce la massima realizzazione della
natura degli sport moderni. Il record, che per la propria natura di
performance di eccellenza sanzionata in termini numerici rappresenta infatti
la massima realizzazione dell’industrialismo nello sport e si distacca al
massimo grado dal rituale, che viceversa rappresentava la natura non
quantitativa dei giochi pre-sportivizzati, è il concetto che al più alto grado
realizza la sintesi fra giochi sportivizzati e spirito dell’industrialismo.
La lezione di Guttman ha costituito per lungo tempo un termine
di riferimento per chiunque abbia voluto affrontare un approccio
sociologico allo studio dello sport, e molte delle sue intuizioni rimangono
valide come strumenti analitici. Ciò che sarà interessante valutare è il
grado di resistenza dell’impianto teorico guttmaniano all’attuale svolta in
senso postindustriale e postmoderno dello sport, che impone una
revisione dei paradigmi fin qui utilizzati e della quale si parlerà più avanti.
Un’altra grande lezione sociologica sullo sport è quella formulata da
Norbert Elias (Elias e Dunning 1989). Partendo dal suo fortunato
paradigma sul processo di civilizzazione come tendenza evolutiva delle
moderne democrazie, Elias individuò in un analogo processo di sportivizzazione, consistente nella sterilizzazione e formalizzazione dei giochi.
Individuata l’origine degli sport moderni nell’Inghilterra settecentesca,
l’autore ricostruì una corrispondenza fra la fondazione e il consolidamento
della prima democrazia parlamentare e la diffusione di un atteggiamento
verso i loisir fisici più incline alla loro regolazione che alla repressione.
Ciò avveniva in un paese che prima di altri era riuscito a neutralizzare
i cicli di violenza interna e a costruire un clima di fiducia reciproca tra
fazioni opposte. L’approccio neo-simmeliano di Elias rimane carente nella
spiegazione del perché gli sport di matrice inglese (calcio, rugby, tennis)
sviluppatisi entro un contesto storico-sociale ben connotato, abbiano poi
trovato diffusione pressoché totale sul pianeta, conquistando il favore presso
paesi e culture diversi per cultura, indici di sviluppo e democratizzazione.
Un approccio sociologico al tema dello sport che mostra una dichiarata
affinità con l’impostazione eliasiana è quello della scuola configurazionale
(Dunning 1971; Elias e Dunning 1989; Bale e Maguire 1994). I suoi teorici
sostengono che gli attori degli odierni sport di vertice agiscono all’interno
dell’agone non soltanto in rappresentanza di se stessi o della compagine
in cui sono inseriti, ma sono i rappresentanti di una più ampia collettività
(che può giungere a comprendere un intero stato-nazione), dei suoi stili,
della sua cultura, delle tensioni correnti all’interno della struttura sociale3.
3 «(…) le pressioni e i controlli reciproci che operano in società urbano industriali
vengono riprodotte generalmente nella sfera dello sport. Ne risulta che sportivi di alto
livello non possono essere indipendenti e giocare per divertimento ma devono accettare
una modalità di partecipazione allo sport eterodiretta e seria. Non possono più giocare
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Gli studi configurazionali si sono intrecciati nei tempi più recenti con
quelli relativi agli effetti dei processi di globalizzazione (Porro 1997;
Porro 1999). Da questo intreccio si è potuta osservare una realtà
prismatica nella quale realtà ormai fortemente post-nazionali conservano
uno spazio per l’espressione di un intramontabile nazionalismo sportivo
(Russo 1999).
Spostando l’ottica in direzione delle teorie critiche sullo sport, il
contributo più degno di nota è quello del sociologo francese Pierre
Bourdieu (1979; 1980); il quale, facendo ricorso al suo concetto di
campo, ha visto nello sport un ambito contrassegnato simbolicamente
entro il quale si riproducono fedelmente le asimmetrie vigenti all’interno
del sistema sociale complessivo4. Il modello di riferimento, secondo
Bourdieu, rimane quello dello sport elitario, con la sua dimensione di
campionismo e di enfasi sul successo personale che veicolano i medesimi
contenuti alle classi sociali privilegiate e a quelle subalterne venendo
recepito in modo diverso a seconda delle aspettative che si trova a
incontrare.
L’ultima tematica sociologica sullo sport da passare in rassegna è
quella che fa riferimento allo «sport per tutti». Essa parte dall’assunto
relativo all’esistenza di uno sport altro rispetto a quello imperante sui
mass-media e che fa ancora da modello di riferimento per la maggioranza del pubblico. La tematica dello «sport per tutti», tendente a
restituire una centralità all’individuo nella pratica sportiva e di riportare
a dimensione d’uomo la sfera dell’agonismo organizzata, viene fatta
rientrare dal sociologo tedesco Klaus Heinemann (1990) all’interno di
una complessa e articolata teoria sull’evoluzione dei sistemi sportivi i
quali si trovano a un certo punto a affrontare una fase di sfida in
direzione di un’inclusione di attori che, in proporzione crescente,
rimangono emarginati dai meccanismi del modello sportivo di alta
prestazione.
per se stessi e sono costretti a rappresentare unità sociali più ampie, come le città, le
contee, i paesi. (…) essi devono fornire una “prestazione sportiva”, cioè il tipo di
soddisfazione che coloro che controllano e coloro che “consumano” lo sport richiedono,
lo spettacolo di una contesa eccitante per assistere alla quale la gente sia disposta a pagare;
oppure la conferma, ottenuta con la vittoria, dell’“immagine” e della “reputazione”
dell’unità sociale con cui si identificano quelli che controllano e/o consumano il gioco»
(Dunning, in Elias e Dunning 1989, trad. it. 280).
4 «(…) l’universo delle pratiche e degli spettacoli sportivi si presenta di fronte ad
ogni nuovo arrivato come un insieme di scelte già preparate, di possibili già oggettivamente
costituiti, di tradizioni, regole, valori, attrezzature, tecniche, simboli, che traggono il loro
significato dal sistema sociale che costituiscono e che, in ogni momento, sono debitori
di una parte delle proprietà alla situazione storica» (1979, trad. it. 216).
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3. La sociologia dello sport in Italia e i nuovi filoni di ricerca
Per quanto riguarda gli studi sociologici italiani che abbiano avuto
lo sport come focus, soltanto di recente è stato possibile registrare un,
seppur timido, fiorire di analisi e ricerche. La prima tematica trattata
in modo scientifico è stata quella legata ai gruppi ultrà. Originale, in
questo senso, è stato lo studio di Dal Lago (1990), che applicando gli
strumenti dell’analisi etnografica ha offerto una lettura di questa particolare realtà che si pone in netta contrapposizione rispetto a quelle
maggiormente diffuse, accomunate da una tendenza a far rientrare i casi
in questione all’interno delle analisi sulle subculture devianti. Più
tradizionale, rispetto a quello di Dal Lago, è l’approccio di Roversi (1990;
1992) che riprende le categorie utilizzate da Dunning negli studi sul
fenomeno hooligan.
Su un versante politologico si colloca l’analisi di Porro (1995), il quale
descrivendo lo sviluppo del sistema sportivo italiano e le sue peculiarità
individua nello sport un’arena politica entro la quale vengono fatte oggetto
di disputa risorse scarse.
Le analisi più recenti su sport e mass media (Russo 2000) e sulle
tendenze evolutive dello sport contemporaneo (Porro 2000) si interrogano
sulle trasformazioni che i giochi sportivizzati hanno già subito e si
apprestano a subire in presenza di uno scenario mutato, nel quale interessi
economici e commerciali sempre più pressanti, la riconfigurazione del
rapporto fra spettacolo e fruitori e l’abbattimento di ogni limite alla
performance agonistica5 hanno provocato un rivolgimento talmente veloce
da rendere obsoleti molti degli strumenti analitici disponibili. Paradossalmente, si potrebbe dire che la sociologia dello sport, mentre cerca
ancora affannosamente una strutturazione disciplinare e accademica, si
trova già costretta a affrontare una ri-strutturazione concettuale. Che
rischia di ritardarne ulteriormente il cammino verso l’acquisizione di uno
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