L’analisi sociologica dello sport di PIPPO RUSSO La riflessione sociologica sul tema dello sport si presenta come un’impresa discontinua e irregolarmente dislocata, che risente ancora di una difficoltà ad assegnare una dignità accademica al tema e a conferirgli uno statuto di specifico campo disciplinare. Lo sport come fenomeno sociale, infatti, continua a essere un oggetto d’analisi periferica, sul quale convergono approcci teorici eterogenei per estrazione disciplinare e strumenti analitici, ognuno con paradigmi e apparati concettuali propri, col risultato di enfatizzare quasi sempre aspetti singoli del fenomeno stesso. Rimangono ancora limitati i tentativi di spiegazione sistematica, assurti con stupefacente velocità al rango di «classici» proprio in ragione di una «mancanza di concorrenza teorica», oltre che di una così marginale collocazione del tema nell’ambito delle scienze sociali e di un altrettanto carente sforzo sistematico nell’approntare schemi concettuali e modelli di analisi endogeni. Così, all’osservatore che si ponga lo scopo di trarre un bilancio sullo «stato dell’arte» della sociologia dello sport non resta che registrare la presenza di una serie di studi circoscritti nei temi e nella dimensione indagata, e un fiorire di ricerche empiriche — provenienti soprattutto dagli ambienti accademici anglofoni — che dalla loro stessa dimensione micro vengono rese utilizzabili soltanto in termini di agenda (la legittimità del tema scelto come issue rilevante dell’ambito disciplinare), non certo per il contributo euristico offerto alla causa di una più puntuale definizione del campo teorico. La stessa filiazione della sociologia dello sport come sotto-disciplina risulta problematica: non esiste infatti una opinione univoca sulla «disciplina-madre» cui essa dovrebbe fare capo. L’opinione più diffusa, e tutto sommato più accreditabile, è quella che vorrebbe far rientrare gli studi sociologici sullo sport all’interno del campo dei cultural studies; ma non mancano gli approcci che riconducono il tema nell’ambito della sociologia politica (Porro 1995), o della sociologia dell’organizzazione (Slack 1997); quelli che fanno della lettura dei processi legati allo sport un’efficace cartina di tornasole per analizzare l’equilibrio dei rapporti fra generi (Creedon 1994; Cole, Messner e Mc Kay 1997); quelli che proiettano in focus sui comportamenti devianti, sia sul versante degli atleti che del pubblico (Dal Lago 1990; RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLI, n. 2, aprile-giugno 2000 304 Pippo Russo Dunning 1971; Elias e Dunning 1989; Roversi 1992); quelli che declinano il rapporto fra sport e mass media (Rowie 1999; Wenner 1998); e, infine, quelli che ne studiano le trasformazioni provocate dai processi di globalizzazione (Bale e Maguire 1995; Maguire 1999). Il quadro appena delineato fa intendere quanto difficile sia la definizione disciplinare degli studi sullo sport, e la loro specificazione nell’ambito degli studi sociologici. A partire da queste constatazioni appare dunque necessario delineare i principali riferimenti teorici sullo sport all’interno dello spettro complessivo delle scienze umane e sociali, per poi passare ai — limitati — tentativi di teorizzazione ascrivibili al campo disciplinare della sociologia, e concludere con l’indicazione di alcuni filoni di analisi che possono essere ritenuti di ausilio per una più compiuta definizione dello sport come problematica sociologica. 1. Sport e teoria sociale L’importanza dello sport nelle scienze umane emerge per la prima volta all’interno del dibattito relativo a quella che è stata definita la «dialettica lavoro-tempo libero»1. L’oggetto del contendere attorno al quale le opposte tesi prendevano partito riguardava il primato fra propensione ludico-espressiva e propensione strumentale nell’agire umano; quale delle due assume la posizione principale, e quale quella residuale? L’uomo esprime primariamente le proprie inclinazioni attraverso quelle attività che consistono nell’impiego dei mezzi per la realizzazione di fini, rispetto alla quale il tempo dedicato a attività non strumentali assume una valenza residuale? O, viceversa, egli sviluppa al massimo grado attraverso le attività espressive la sua natura di «animale simbolico», all’interno della quale le attività strumentali non sono altro che una classe di pratiche designate a definire, assieme alle altre, il «rapporto significativo» dell’uomo col mondo circostante? Nel contesto di questa disputa rientra il ruolo dello sport come gioco organizzato e formalizzato, della sua natura nel quadro complessivo delle attività umane e della sua dignità, primaria o residuale, come pratica. Attorno al dilemma tempo libero-sport/lavoro si sono confrontati alcuni fra i teorici sociali di maggior spicco dello scorso secolo, provenienti da ambiti disciplinari diversi e grosso modo riconducibili a due filoni di pensiero: quello del materialismo marxista e quello del conservatorismo culturale. Secondo il primo filone l’attività spesa nella ricerca del miglior governo possibile delle condizioni materiali dell’esistenza rappresenta la 1 Per una esauriente ricostruzione di questo dibattito si veda Hoberman (1984, in part. trad. it. 51-87). L’analisi sociologica dello sport 305 più compiuta realizzazione della stessa natura umana; da ciò deriva che il lavoro non può che essere posto in posizione primaria rispetto al tempo libero e a tutte le espressioni che in esso trovano collocazione (segnatamente, nel nostro caso, gioco e sport). Il tempo libero, secondo gli intellettuali riconducibili all’interno di questo filone, non è altro che «tempo residuo» rispetto all’attività di lavoro, e ogni pratica che in esso venga esperita gode di uno statuto inferiore rispetto a quelle che contraddistinguono il tempo di lavoro. In questo contesto, le attività ludiche e sportive altro non possono essere che pratiche di simulazione o perfezionamento di quelle lavorative. Esemplare di questo modello di approccio è la teoria dello storico marxista Gerhard Lukas (1969), secondo il quale il primo sport praticato dall’uomo non può essere stato che il lancio del giavellotto. Tale pratica, infatti, sarebbe il frutto della necessità dell’uomo di ridurre al minimo il rischio di contatto con belve feroci, o di rendere meno ardua la cattura di prede rapide nella fuga, colpendole a distanza per mezzo di uno strumento letale (la lancia) da usare con la precisione d’obbligo per chi non può consentirsi di scagliare un altro colpo: e dalla necessità di affinare la tecnica di lancio e di migliorarne l’efficienza si sarebbe aperto un canale per le pratiche di addestramento, anticamera della ludicizzazione e della sportivizzazione. Come si può notare, nella ricostruzione fatta da Lukas è l’attività praticomateriale a far da levatrice a quella ludico-sportiva. Rispetto a un’impostazione così monodirezionale, alcuni teorici che si muovono all’interno del medesimo spazio della critica marxista rivalutano il gioco e lo sport come pratiche non secondarie rispetto al lavoro, né reificanti e alienanti come sostenuto dai teorici della scuola di Francoforte. Riprendendo alcuni spunti dei Grundrisse, il sociologo francese Joffre Dumazedier (1959) sostiene che lo stesso Marx aveva previsto il sopraggiungere dell’era del tempo libero. A proseguire lungo questa linea di revisione del rapporto fra lavoro e tempo libero si dedicano Francis Hearn (1976/77) e Lawrence M. Hinmann (1977) i quali, pur sostenendo tesi non del tutto compatibili fra loro, conferiscono un’importanza e un significato diversi alle sfere di attività non materiali della vita quotidiana. A ogni modo, però, nessuno dei critici marxisti citati giunge a scindere il binomio lavoro/tempo libero e a analizzare ciascuno dei termini in modo separato, mai riuscendo a avvicinarsi alla formulazione di una compiuta teoria dello sport come fenomeno indipendente da una matrice materialista delle attività umane. L’altro filone di riflessione teorica che è stato qui citato, opposto a quello del materialismo marxista, è quello del conservatorismo culturale. Le tesi sostenute dagli autori riconducibili all’interno di questa posizione fa riferimento alle attività ludico-espressive come a quelle davvero fondative dell’agire umano, rispetto alle quali le pratiche destinate a assicurare le condizioni materiali minime di esistenza non sono che epifenomeni connotati simbolicamente. Il principale esponente di questo 306 Pippo Russo filone è lo storico olandese Johan Huizinga, il cui testo Homo ludens (1938) rappresenta a tutt’oggi uno dei più alti tentativi di fornire un fondamento culturale e teorico al fenomeno del gioco. La tesi di Huizinga sostiene che l’uomo esprime al meglio la propria natura intima attraverso attività la cui matrice è inequivocabilmente ludica2. Il gioco stesso fornisce secondo l’autore una sorta di grammatica del comportamento all’individuo, argomentazione che rappresenta una sorta di anticipazione delle tesi di Caillois sulla categoria ludus dei giochi che più avanti verranno illustrate; il gioco è un’attività a forte connotazione culturale, che si esprime attraverso una ritualità dalla vaga matrice religiosa o rituale e fornisce il principale canale espressivo per l’inclinazione simbolica della natura umana. L’argomentare di Huizinga parte da un presupposto polemologico che si orienta contro due nemici ben identificabili, per quanto mai dichiarati in tutto il corso del libro: l’utilitarismo borghese e il materialismo marxista, che in generale rappresentano i bersagli contro i quali si indirizzano gli strali della corrente cultural-conservatrice. Rivalutando il gioco come principale attività espressiva della natura umana, egli attacca in modo indiretto quanto raffinato le due correnti che dominano la scena ideologica a cavallo dei due secoli e la loro comune matrice strumentalista. Meno raffinata, per quanto più suggestiva, è la proposta del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1924), il quale fa un esplicito riferimento allo sport come fattore di costruzione dello stato. L’elaborazione di Ortega y Gasset si colloca a metà strada fra la filosofia della storia e la ricostruzione mitologica; egli, universalizzando un episodio mitico della storia romana (il ratto delle Sabine) indica nel senso di sfida e nello spirito di corpo virilista che motivano la predazione esogina (cioè, il rapimento di donne appartenenti a raggruppamenti sociali estranei alla famiglia, alla stirpe e alla tribù) il primo gesto emancipatorio rispetto ai vincoli con le cerchie sociali di ascrizione. Il carattere sportivo di questo gesto predatorio viene rintracciato in quella batteria di motivazioni antiutilitariste all’interno delle quali il senso di sfida, l’affermazione di identità e la gratuità del rischio giocano un ruolo determinante. La sommatoria del ragionamento di Ortega y Gasset enuncia il carattere irrazionale dell’origine dello stato moderno, e anche in questo caso è possibile leggere in controluce la vena anti-razionalista alimentata in polemica allo scientismo marxista e liberal-borghese. Gli approcci di Huzinga e Ortega y Gasset, nonostante il loro valore speculativo e letterario, sono criticabili sotto due profili: quello della 2 In uno dei passaggi più significativi del libro, l’autore scrive: «Nel gioco abbiamo a che fare con una funzione degli esseri viventi, la quale non si lascia determinare appieno né logicamente né eticamente. Il concetto di gioco rimane isolato singolarmente da tutte le rimanenti forme di pensiero con cui possiamo esprimere la struttura della vita spirituale e sociale» (1938, 10). L’analisi sociologica dello sport 307 scientificità, rispetto al quale sono entrambe ampiamente opinabili; e quello della fedeltà storica, alla cui prova i riscontri sono alquanto labili. Soprattutto, né Ortega y Gasset né tantomeno Huizinga si soffermano sull’analisi specifica dello sport come fenomeno sociale. Allontanandosi dalla tematica sul rapporto lavoro/tempo libero e centrando l’attenzione sul gioco e sullo sport, va segnalata l’ormai classica ricerca dell’antropologo francese Roger Caillois (1958), all’interno della quale si procede a una classificazione dei giochi la quale, oltre a rappresentare uno strumento analitico ancora molto valido, apre una prospettiva su quella dimensione agonistica che costituisce il nucleo centrale di ogni fenomeno sportivo. Caillois indica due contrapposte polarità nella vasta gamma di giochi umani: da un lato, i giochi che vengono fatti rientrare nella definizione di paidìa, che sono quelli che sorgono come fenomeni spontanei dell’interazione fra individui e sono contrassegnati da scarsa regolazione; dal lato opposto, i giochi che vengono ricondotti entro la categoria ludus, i quali evidenziano una tendenza verso la fissazione di principi d’azione ai quali i giocatori sono tenuti a uniformarsi. All’interno di questo continuum, poi, Caillois individua una tipologia quadruplice di giochi: 1) quelli definiti alea, la caratteristica dominante dei quali è data dalla preponderanza del caso nella determinazione dell’esito; 2) quelli che vengono etichettati come agon, nei quali domina la dimensione della competizione; 3) quelli denominati mimickry, nei quali l’aspetto della finzione e del mascheramento rappresentano il nucleo dell’interazione ludica; 4) quelli che fanno insorgere una dinamica di ilinx, cioè di vertigine e sballo. La tipologia approntata da Caillois, col suo campionario di definizioni e esempi, mantiene ancor oggi un valore analitico, ma mostra un difetto nella carenza di attenzione verso la dimensione individuale dei giochi; la stessa polarità ludus-paidìa, infatti, avrebbe ben potuto essere spesa nel tentativo di illustrare l’ambivalente tendenza dell’attore a cercare conformità e certezza d’interazione nelle regole (ludus) e a violarle al tempo stesso, dando corso ai propri istinti individualisti e auto-espressivi (paidìa). Per ciò che attiene il tema dello sport, l’individuazione di una classe di giochi riconducibili alla dimensione di agon traccia una linea che fa delle moderne discipline agonistiche fenomeni appartenenti a un modello di espressività umana originario, per nulla residuali rispetto alle attività pratiche-materiali di conquista dei mezzi di sopravvivenza. Un’ultima fonte non sociologica che qui merita di essere passata in rassegna è quella che mette in diretta connessione gli sport moderni con la ritualità religiosa delle società tradizionali e pre-moderne. Il principale rappresentante di questa scuola può essere indicato nello storico tedesco Carl Diem (1971), il quale individua le prime pratiche proto-sportive nei giochi che venivano celebrati come manifestazioni collaterali alle grandi celebrazioni religiose in molte società antiche. La connessione fra esperienza mistica, ritualità delle pratiche celebrative e esercizio di una 308 Pippo Russo fisicità regolata secondo criteri non estemporanei viene indicata da Diem come l’origine degli sport contemporanei. L’analisi si rivela utile sotto alcuni aspetti, soprattutto quelli relativi al carattere cerimoniale del gioco sportivizzato che nelle teorie fin qui indagate era mancata; la prospettiva di Diem, però, regge a stento alla critica avanzata da Guttman (autore del quale ci si occuperà diffusamente tra poco), che poggia su due ordini di eccezioni: l’assenza di un carattere fatidico nell’interazione ludica, riassumibile entro l’elemento del «risultato»; il carattere strumentale dei giochi stessi, compresi all’interno di un più complessivo rito indirizzato all’ottenimento del favore degli dei. Entrambi i rilievi offuscano quell’idea di continuità fra i giochi religiosi pre-moderni e gli sport contemporanei. 2. Le fonti sociologiche sullo sport Passando all’analisi dei lavori sullo sport più dichiaratamente sociologici, quello che più di tutti ha segnato il cammino verso la fondazione di una disciplina specifica è quello di Allen Guttman, docente di American Studies all’Ahmerst College. Il suo Dal rituale al record (1978) rappresenta il più ambizioso tentativo di costruire una teoria sociologica sullo sviluppo degli sport moderni. Guttman individua una connessione fra la parabola dell’industrialismo e la «sportivizzazione» dei giochi; questa connessione si compone a partire da 7 linee di sviluppo evolutivo, comuni a entrambi i fenomeni: 1) secolarismo: si tratta dell’elemento che porta Guttman a assumere posizioni critiche nei confronti della ricostruzione di Diem. Gli sport moderni sono cerimonie laiche, avulse da motivazioni trascendenti e fondate sul primato assoluto della dimensione umana; 2) uguaglianza: gli sport moderni promuovono una democratizzazione della pratica e del consumo rispetto a molte delle attività proto-sportive delle epoche precedenti. Lo sport consumato e praticato cessa progressivamente di essere una linea di demarcazione fra una classe e l’altra. 3) specializzazione: soprattutto grazie alla diffusione e allo sviluppo degli sport di squadra vengono a raffinarsi delle strategie di divisione del lavoro che consentono l’ottimizzazione delle risorse disponibili; 4) razionalizzazione: la regolamentazione precisa e scrupolosa delle pratiche viene assunta come uno degli imperativi principali per ogni pratica ludico-agonistica che oltrepassi la soglia della sportivizzazione; 5) burocratizzazione: è un passaggio reso necessario dalla razionalizzazione; affinché, infatti, alle regole venga garantita effettività e vincolatività è necessaria la creazione di uno o più organi di coordinamento; 6) quantificazione: è questo l’elemento che secondo Guttman rappresenta in modo più significativo la natura degli sport moderni, i quali vengono sottoposti a una forma numerica di razionalizzazione che fa della misurazione di un’ampia classe di prestazioni l’elemento centrale; L’analisi sociologica dello sport 309 7) record: esso costituisce l’evoluzione della appena accennata tendenza alla misurazione delle prestazioni e costituisce la massima realizzazione della natura degli sport moderni. Il record, che per la propria natura di performance di eccellenza sanzionata in termini numerici rappresenta infatti la massima realizzazione dell’industrialismo nello sport e si distacca al massimo grado dal rituale, che viceversa rappresentava la natura non quantitativa dei giochi pre-sportivizzati, è il concetto che al più alto grado realizza la sintesi fra giochi sportivizzati e spirito dell’industrialismo. La lezione di Guttman ha costituito per lungo tempo un termine di riferimento per chiunque abbia voluto affrontare un approccio sociologico allo studio dello sport, e molte delle sue intuizioni rimangono valide come strumenti analitici. Ciò che sarà interessante valutare è il grado di resistenza dell’impianto teorico guttmaniano all’attuale svolta in senso postindustriale e postmoderno dello sport, che impone una revisione dei paradigmi fin qui utilizzati e della quale si parlerà più avanti. Un’altra grande lezione sociologica sullo sport è quella formulata da Norbert Elias (Elias e Dunning 1989). Partendo dal suo fortunato paradigma sul processo di civilizzazione come tendenza evolutiva delle moderne democrazie, Elias individuò in un analogo processo di sportivizzazione, consistente nella sterilizzazione e formalizzazione dei giochi. Individuata l’origine degli sport moderni nell’Inghilterra settecentesca, l’autore ricostruì una corrispondenza fra la fondazione e il consolidamento della prima democrazia parlamentare e la diffusione di un atteggiamento verso i loisir fisici più incline alla loro regolazione che alla repressione. Ciò avveniva in un paese che prima di altri era riuscito a neutralizzare i cicli di violenza interna e a costruire un clima di fiducia reciproca tra fazioni opposte. L’approccio neo-simmeliano di Elias rimane carente nella spiegazione del perché gli sport di matrice inglese (calcio, rugby, tennis) sviluppatisi entro un contesto storico-sociale ben connotato, abbiano poi trovato diffusione pressoché totale sul pianeta, conquistando il favore presso paesi e culture diversi per cultura, indici di sviluppo e democratizzazione. Un approccio sociologico al tema dello sport che mostra una dichiarata affinità con l’impostazione eliasiana è quello della scuola configurazionale (Dunning 1971; Elias e Dunning 1989; Bale e Maguire 1994). I suoi teorici sostengono che gli attori degli odierni sport di vertice agiscono all’interno dell’agone non soltanto in rappresentanza di se stessi o della compagine in cui sono inseriti, ma sono i rappresentanti di una più ampia collettività (che può giungere a comprendere un intero stato-nazione), dei suoi stili, della sua cultura, delle tensioni correnti all’interno della struttura sociale3. 3 «(…) le pressioni e i controlli reciproci che operano in società urbano industriali vengono riprodotte generalmente nella sfera dello sport. Ne risulta che sportivi di alto livello non possono essere indipendenti e giocare per divertimento ma devono accettare una modalità di partecipazione allo sport eterodiretta e seria. Non possono più giocare 310 Pippo Russo Gli studi configurazionali si sono intrecciati nei tempi più recenti con quelli relativi agli effetti dei processi di globalizzazione (Porro 1997; Porro 1999). Da questo intreccio si è potuta osservare una realtà prismatica nella quale realtà ormai fortemente post-nazionali conservano uno spazio per l’espressione di un intramontabile nazionalismo sportivo (Russo 1999). Spostando l’ottica in direzione delle teorie critiche sullo sport, il contributo più degno di nota è quello del sociologo francese Pierre Bourdieu (1979; 1980); il quale, facendo ricorso al suo concetto di campo, ha visto nello sport un ambito contrassegnato simbolicamente entro il quale si riproducono fedelmente le asimmetrie vigenti all’interno del sistema sociale complessivo4. Il modello di riferimento, secondo Bourdieu, rimane quello dello sport elitario, con la sua dimensione di campionismo e di enfasi sul successo personale che veicolano i medesimi contenuti alle classi sociali privilegiate e a quelle subalterne venendo recepito in modo diverso a seconda delle aspettative che si trova a incontrare. L’ultima tematica sociologica sullo sport da passare in rassegna è quella che fa riferimento allo «sport per tutti». Essa parte dall’assunto relativo all’esistenza di uno sport altro rispetto a quello imperante sui mass-media e che fa ancora da modello di riferimento per la maggioranza del pubblico. La tematica dello «sport per tutti», tendente a restituire una centralità all’individuo nella pratica sportiva e di riportare a dimensione d’uomo la sfera dell’agonismo organizzata, viene fatta rientrare dal sociologo tedesco Klaus Heinemann (1990) all’interno di una complessa e articolata teoria sull’evoluzione dei sistemi sportivi i quali si trovano a un certo punto a affrontare una fase di sfida in direzione di un’inclusione di attori che, in proporzione crescente, rimangono emarginati dai meccanismi del modello sportivo di alta prestazione. per se stessi e sono costretti a rappresentare unità sociali più ampie, come le città, le contee, i paesi. (…) essi devono fornire una “prestazione sportiva”, cioè il tipo di soddisfazione che coloro che controllano e coloro che “consumano” lo sport richiedono, lo spettacolo di una contesa eccitante per assistere alla quale la gente sia disposta a pagare; oppure la conferma, ottenuta con la vittoria, dell’“immagine” e della “reputazione” dell’unità sociale con cui si identificano quelli che controllano e/o consumano il gioco» (Dunning, in Elias e Dunning 1989, trad. it. 280). 4 «(…) l’universo delle pratiche e degli spettacoli sportivi si presenta di fronte ad ogni nuovo arrivato come un insieme di scelte già preparate, di possibili già oggettivamente costituiti, di tradizioni, regole, valori, attrezzature, tecniche, simboli, che traggono il loro significato dal sistema sociale che costituiscono e che, in ogni momento, sono debitori di una parte delle proprietà alla situazione storica» (1979, trad. it. 216). L’analisi sociologica dello sport 311 3. La sociologia dello sport in Italia e i nuovi filoni di ricerca Per quanto riguarda gli studi sociologici italiani che abbiano avuto lo sport come focus, soltanto di recente è stato possibile registrare un, seppur timido, fiorire di analisi e ricerche. La prima tematica trattata in modo scientifico è stata quella legata ai gruppi ultrà. Originale, in questo senso, è stato lo studio di Dal Lago (1990), che applicando gli strumenti dell’analisi etnografica ha offerto una lettura di questa particolare realtà che si pone in netta contrapposizione rispetto a quelle maggiormente diffuse, accomunate da una tendenza a far rientrare i casi in questione all’interno delle analisi sulle subculture devianti. Più tradizionale, rispetto a quello di Dal Lago, è l’approccio di Roversi (1990; 1992) che riprende le categorie utilizzate da Dunning negli studi sul fenomeno hooligan. Su un versante politologico si colloca l’analisi di Porro (1995), il quale descrivendo lo sviluppo del sistema sportivo italiano e le sue peculiarità individua nello sport un’arena politica entro la quale vengono fatte oggetto di disputa risorse scarse. Le analisi più recenti su sport e mass media (Russo 2000) e sulle tendenze evolutive dello sport contemporaneo (Porro 2000) si interrogano sulle trasformazioni che i giochi sportivizzati hanno già subito e si apprestano a subire in presenza di uno scenario mutato, nel quale interessi economici e commerciali sempre più pressanti, la riconfigurazione del rapporto fra spettacolo e fruitori e l’abbattimento di ogni limite alla performance agonistica5 hanno provocato un rivolgimento talmente veloce da rendere obsoleti molti degli strumenti analitici disponibili. Paradossalmente, si potrebbe dire che la sociologia dello sport, mentre cerca ancora affannosamente una strutturazione disciplinare e accademica, si trova già costretta a affrontare una ri-strutturazione concettuale. Che rischia di ritardarne ulteriormente il cammino verso l’acquisizione di uno status di disciplina a se stante. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Bale, J. e J. Maguire (a cura di) 1994 The global sports arena, London, Frank Cass. Bourdieu, P. 1979 La distinction, Paris, Minuit; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1980. 5 Su questo tema mi permetto di rimandare a P. Russo, Il costume dell’uomo-squalo, in «il Manifesto», 9 maggio 2000, p. 16. 312 Pippo Russo 1980 Question de sociologie, Paris, Minuit. Caillois, R. 1958 Les jeux et les hommes, Paris, Gallimard; trad. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, Bompiani, 1981. Cole, C.L., Messner, M.A. e J. 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