Direttore: Pier Luigi Amata IL CENTRO BIOS DELLA CHIRURGIA E MEDICINA ESTETICA A ROMA • VALUTAZIONE PRE-OPERATORIA CLINICO-STRUMENTALE • SOLUZIONI FINANZIARIE PERSONALIZZATE • ASSISTENZA POST-OPERATORIA FOLLOW-UP 1, 3, 6, 12 MESI • VISITE E CONSULTAZIONI: BIOS SPA - VIA D. CHELINI 39, ROMA • MEDICINA ESTETICA • PRIMO COLLOQUIO GRATUITO www.bioscultura.it PRENOTATE SUBITO UN COLLOQUIO CON LO SPECIALISTA AL CUP BIOS - 06 809641 n. 5 - 2010 Segnali utili per capire nuove immunodeficienze Eiaculazione precoce: un problema frequente Le biotecnologie: il futuro della ricerca scientifica L’osteoartrosi del ginocchio: aggiornamento su eziopatogenesi e terapia Edizioni bioS S.p.A. SISTEMA QUALITÀ CERTIFICATO UNI EN ISO 9001:2000 CUP - CENTRO UNIFICATO DI PRENOTAZIONE - 06 809641 [email protected] www.bios-spa.it BIOS S.P.A. - STRUTTURA SANITARIA POLISPECIALISTICA FAX - 06 8082104 00197 ROMA - VIA D. CHELINI, 39 APERTO TUTTO L’ANNO. ANCHE IL MESE DI AGOSTO * • IN REGIME DI ACCREDITAMENTO PER TUTTI GLI ESAMI PREVISTI DAL SSR PER INFORMAZIONI SU TUTTI I SERVIZI E PRENOTAZIONI: INFO CUP 06 809641 DIRETTORE SANITARIO: Dott. Francesco Leone DIAGNOSTICA DI LABORATORIO Direttore Tecnico Prof. Giovanni Peruzzi • DIABETOLOGIA E MALATTIE DEL RICAMBIO • DIETOLOGIA • ENDOCRINOLOGIA * ANALISI CLINICHE ESEGUITE CON METODICHE AD ALTA TECNOLOGIA PRELIEVI DOMICILIARI • LABORATORIO DI ANALISI IN EMERGENZA (DEAL) - ATTIVO 24h su 24h - 365 GIORNI L’ANNO CON REFERTI DISPONIBILI DI NORMA ENTRO 2 ORE DAL RICEVIMENTO DEL CAMPIONE PRESSO LA STRUTTURA DIAGNOSTICA PER IMMAGINI Direttore Tecnico Prof. Vincenzo Di Lella Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone • GASTROENTEROLOGIA • GENETICA MEDICA - DIAGNOSI PRENATALE • GINECOLOGIA - OSTETRICIA • IMMUNOLOGIA CLINICA • MEDICINA DELLO SPORT • MEDICINA INTERNA • NEFROLOGIA • NEUROLOGIA • OCULISTICA • ORTOPEDIA • OSTETRICIA - GINECOLOGIA • • • • • • • DIAGNOSTICA RADIOLOGICA * RADIOLOGIA GENERALE TRADIZIONALE E DIGITALE * ORTOPANORAMICA DENTALE DIGITALE * SENOLOGIA TAC SPIRALE (T.C) (TOTAL BODY) DENTASCAN MINERALOMETRIA OSSEA COMPUTERIZZATA (M.O.C.) • DIAGNOSTICA ECOGRAFICA • ECOGRAFIA INTERNISTICA: singoli organi e addome completo • DIAGNOSTICA ECOGRAFICA CARDIOLOGICA E VASCOLARE: ecocardiogramma, ecocolordoppler • ECOGRAFIA GINECOLOGICA: sovrapubica, endovaginale • ECOGRAFIA OSTETRICO-GINECOLOGICA IN 3D E 4D DI ULTIMA GENERAZIONE: - TRANSLUCENZA NUCALE O PLICA NUCALE - ECOGRAFIA MORFOLOGICA - FLUSSIMETRIA • ECOGRAFIE PEDIATRICHE DIAGNOSTICA SPECIALISTICA Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone • • • • • • ALLERGOLOGIA ANDROLOGIA ANGIOLOGIA AUDIOLOGIA CARDIOLOGIA DERMATOLOGIA • OTORINOLARINGOIATRIA • PNEUMOLOGIA • PSICOLOGIA CLINICA • REUMATOLOGIA • UROLOGIA CENTRI E SERVIZI MULTIDISCIPLINARI Direttore Sanitario Dott. 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La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli è dei singoli autori. Direzione, Redazione, Amministrazione bioS S.p.A. Via D. Chelini, 39 00197 Roma Tel. 06 80964245 [email protected] Eiaculazione precoce: un problema frequente 10 Grafica e impaginazione Vinci&Partners srl impianti e Stampa ArtColorPrinting srl via Portuense, 1555 - 00148 Roma Massimiliano Rocchietti March Edizioni bioS S.p.A. Autorizzazione del Tribunale di Roma: n. 186 del 22/04/1996 In merito ai diritti di riproduzione la BIOS S.p.A. si dichiara disponibile per regolare eventuali spettanze relative alle immagini delle quali non sia stato possibile reperire la fonte Pubblicazione in distribuzione gratuita. L’osteoartrosi del ginocchio: aggiornamento su eziopatogenesi e terapia Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane 16 Finito di stampare nel mese di novembre 2010 bioS SpA Struttura Sanitaria Polispecialistica Via D. Chelini, 39 - 00197 Roma Dir. Sanitario: Dott. Francesco Leone CUP 06.809.641 Un punto di forza per la vostra salute EDitoRiALE Fernando Patrizi 2 L’EDitoRiALE UN tEtto Di SPESA SEmPRE Più PESANtE ANCHE NEL 2010 Come purtroppo verificatosi nel recente passato (2007, 2008, 2009) la BIOS ritiene necessario informare la propria clientela che anche per il 2010 persiste il “tetto” di spesa imposto dalla nostra regione per gli interventi effettuati in convenzione. Il “tetto” di spesa implica che la regione Lazio non corrisponde il pagamento delle analisi riguardante l’eccedenza rispetto a quanto già prefissato. Si vuole mettere in evidenza, in particolare, che il “tetto” di spesa è ridotto di oltre il 30% rispetto alla quantità di analisi che in media la BIOS già erogava per conto del SSR nel lontano 2006. In pratica la nostra regione anche quest’anno non intende pagare le prestazioni che la BIOS sta già erogando a superamento del “tetto”. Va inoltre aggiunto che le tariffe con le quali vengono definite le prestazioni di laboratorio sono ferme da oltre dieci anni e nel 2010 c’è stata un’ulteriore riduzione. Per non dire dei ritardi nei pagamenti che sono ormai una costante. La BIOS conferma ancora, per i mesi restanti del 2010, di voler continuare l’erogazione dei servizi ai pazienti muniti di impegnativa, sebbene il quadro economico penalizzi sensibilmente la nostra struttura calcolando la media produttiva del lavoro svolto. La BIOS auspica, nell’ambito dell’attuale politica dei tagli alla sanità, una rivalutazione del ruolo che le strutture diagnostiche private più qualificate svolgono sul nostro territorio con serietà, efficienza ed efficacia. Rivalutazione necessaria al fine di rimettere in condizione i suddetti Operatori Privati di continuare a garantire stabilmente le stesse condizioni di accesso ai servizi per pazienti muniti dell’impegnativa scritta dal proprio medico di base. è nostra speranza che la gentile clientela, informata con trasparenza della grave situazione, sia in grado di apprezzare la decisione della BIOS di non sospendere il servizio consolidando in tal modo il rapporto di fiducia verso la nostra struttura. SEGNALi UtiLi PER CAPiRE NUoVE immUNoDEFiCiENZE Giuseppe Luzi Immunologo clinico 3 Struttura del sistema immunitario. La struttura del sistema immunitario e le sue funzioni formano un insieme integrato composto da cellule e molecole. Nella nostra specie si distinguono una risposta innata e una adattativa. Nella più “antica” risposta innata sono identificati macrofagi, cellule dendritiche, cellule “natural killer”. La risposta specifica (immunità adattativa) si è evoluta solo nei vertebrati ed è basata sui linfociti T e B che hanno recettori specifici in grado di riconoscere selettivamente varie molecole (antigeni) presenti sugli agenti patogeni e nell’ambiente. Immunità innata e risposta adattativa consentono, interagendo, una sorveglianza costante per difendere l’organismo e mantenere il suo equilibrio. L’immunità adattativa ha origine da una cellula staminale che evolve in due direzioni: quella timo dipendente e quella “bone marrow” (midollo osseo) dipendente (B dipendente). I linfociti T sono a loro volta distinguibili in sottopopolazioni in base a caratteri morfologici e funzionali (T helper, T citotossici, T reg, etc.). I linfociti B, dopo stimolazione, si trasformano assumendo l’aspetto morfologico della plasmacellula. Ogni plasmacellula secerne uno specifico anticorpo. Per rendere la risposta immunitaria coerente con le finalità utili per l’organismo un ruolo importante viene svolto dalle citochine, proteine solubili, in gran parte prodotte dai linfociti T. Le citochine svolgono un ruolo di modulazione sui vari momenti funzionali del sistema immunitario. Un ulteriore controllo della risposta immunitaria viene svolto da particolari recettori, noti come Toll Like Receptor (TLR). Questi recettori includono una classe di molecole in grado di riconoscere strutture comuni a numerosi organismi patogeni. I TLR sono una componente della risposta innata e quando sono attivati danno luogo a un’azione di tipo infiammatorio. Il nome deriva dall’analogia che queste molecole hanno con il gene Toll studiato originalmente nella Drosophila. 4 A partire dagli anni Cinquanta del ventesimo secolo, da quando cioè venne descritto il primo caso di agammaglobulinemia congenita dal pediatra Ogden Bruton, lo studio delle immunodeficienze ha fornito un buon contributo di conoscenze sul sistema immunitario nel suo complesso e sulla possibilità di adottare terapie via via sempre più sofisticate. In realtà l’approccio clinico al sospetto di un’immunodeficienza è ancora ristretto a particolari specialisti come pediatri, immunologi clinici, in parte infettivologi e nella pratica clinica, sia ambulatoriale sia in corso di degenza ospedaliera, il sospetto di un’immunodeficienza è ancora evento non comune. Andiamo un po’ indietro nel tempo: in un lavoro del febbraio 1989, pubblicato sul British Medical Journal (Primary antibody deficiency and diagnostic delay) Blore e Haeney misero in evidenza che “in generale i pediatri hanno un più alto indice di sospetto rispetto agli altri medici e in questo modo i ritardi (di diagnosi per immunodeficienza) sono minori, soprattutto per quanto riguarda le forme di difetto anticorpale”. Più avanti gli autori ribadiscono “…delay seemed especially likely when individuals were referred to organ based specialties”. In pratica cosa vuol dire? Già oltre venti anni fa ci si era resi conto che singoli specialisti - organo orientati - possono giungere con ritardo a una diagnosi di immunodeficienza. Inquadrare le immunodeficienze. Le immunodeficienze (ID) si possono distinguere in primitive (IDP) e secondarie (IDS). Le IDP identificano un danno a carico delle cellule del sistema immunitario su base genetica mentre le IDS non vengono causate, almeno in prima approssimazione, da intrinseche anomalie nello sviluppo e/o nelle funzioni delle varie popolazioni cellulari coinvolte: esse sono conseguenti a cause che modificano in modo reversibile o irreversibile la capacità di espletare una risposta immunitaria efficace. La più nota delle IDS è espressa clinicamente dalla malattia da HIV ma numerosi esempi riguardano gli stati secondari a malnutrizione, trattamento con immunosoppressori, sindromi proteinodisperdenti, stati ipercatabolici. Immunodeficienze primitive in una nuova luce. Nel corso degli ultimi anni gli studi di immunogenetica hanno consentito di identificare un numero consistente di geni correlati a varie IDP. L’aver caratterizzato il rapporto tra alterazioni genetiche ed espressione fenotipica ha permesso di utilizzare test genetici basati sull’espressione di proteine correlate a geni IDP-specifici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health organization - WHO), avvalendosi di un comitato di esperti (international Union of immunological Societies Expert Committee on Primary immunodeficiencies) ha classificato originalmente le IDP a seconda del compartimento cellulare maggiormente colpito: - Difetti combinati dei linfociti T e B Difetti prevalentemente localizzati nel compartimento della risposta umorale Immunodeficienza associata a sindromi Difetti congeniti dei fagociti (numero, funzione o entrambe) Difetti del complemento. Questa classificazione è stata un punto di partenza, dal quale sono derivati ampliamenti complessi nel percorso delle conoscenze che progressivamente si sono accumulate. Le IDP sono in generale considerate malattie rare; ma l’incidenza varia ampiamente, da 1:2.000.000 nati vivi, fino a 1:300/1:400 per il deficit di IgA, che è la forma più comune. In ambito pediatrico la frequenza delle IDP è simile a quelle osservate in patologie leucemiche e dei linfomi. Ai nostri giorni sono note oltre 200 patologie clinicamente descrivibili e sono conosciuti oltre 140 geni. Durante gli ultimi dieci anni nuovi approcci all’inqua- dramento patogenetico delle IDP hanno definito il problema diagnostico sotto una nuova luce. In particolare l’identificazione di difetti immunitari late onset (a comparsa tardiva), per esempio per quanto riguarda l’aumentato rischio di infezione nei confronti di alcuni microbi, ha consentito di comprendere meglio i meccanismi di azione propri dell’immunità innata. Gli studi hanno riguardato le basi genetiche di un’aumentata suscettibilità verso infezioni causate da un numero ristretto di agenti patogeni e da micobatteri in particolare. L’ultima classificazione aggiornata delle IDP è stata prodotta dalla international Union of immunological Societies Export Committee on Primary immunodeficiencies nel corso dell’incontro biennale di aggiornamento (giugno 2009). Il lavoro, pubblicato su J Allergy Clin Immunol (2009;124:1161-78), rispetto alla precedente classificazione del 2007 mette in evidenza in particolare alcune nuove caratteristiche sulla natura dei difetti e sulla loro definizione nosologica: 1 Immunodeficienze combinate dei T e B linfociti 2 Immunodeficienze prevalentemente a carico della risposta anticorpale 3 Altre sindromi ben definite di immunodeficienza associate a più estesi difetti 4 Malattie dovute a disregolazione immunitaria 5 Difetti dei fagociti (numero, funzione o entrambi) 6 Difetti dell’immunità innata 7 Disordini autoinfiammatori 8 Deficienze del complemento Immunodeficienze secondarie. Varie cause possono interferire sulla risposta del sistema immunitario inducendo una condizione di immunodeficienza. Nella pratica medica si tratta di un capitolo in espansione e solo in parte adeguatamente gestito a livello clinico. Le condizioni correlate a IDS includono: uso di farmaci immunosoppressori, steroidi ad alte dosi con trattamento prolungato, traumi, chirurgia/anestesia, infezioni recidivanti, la malattia HIV correlata. Tra le cau- se di maggior rilievo epidemiologico si ha lo stato di malnutrizione con deficit di proteine e micronutrienti. Di particolare interesse i dati di più recente acquisizione sul significato della vitamina D e lo stato frequente di ipovitaminosi. In questo ampio capitolo si ricorda anche l’identificazione di deficit immunitari clinicamente eterogenei associati a sindromi multisistemiche (sindrome metabolica, malnutrizione). Quando e come sospettare un deficit immunitario. In linea generale si distingue una procedura ben correlata ai deficit primitivi mentre per le IDS l’approccio non presenta la stessa “rigidità” di sequenza diagnostica. Pertanto gli schemi di diagnosi e di definizione, utilissimi in settori riguardanti le malattie da IDP rare, non sono automaticamente estendibili alle forme secondarie. E tra queste, ovviamente, un significato del tutto particolare ha la malattia da HIV con le sue varianti cliniche. Per le IDP gli aspetti clinici fondamentali riguardano: - infezioni ricorrenti delle alte vie aeree oltre 610 episodi /anno; - infezioni batteriche in numero compreso tra 1 e 3/anno; - infezioni gravi (sepsi, meningite): 1-2/anno; - infezioni in siti anatomici inusuali (es. ascessi cerebrali o epatici); - infezioni da patogeni opportunisti o non consueti (Aspergillus spp., Serratia m., Nocardia spp etc.); - infezioni ad andamento clinico grave anche quando causate da agenti patogeni di comune riscontro; - complicanze gravi dopo vaccinazione con microrganismi “vivi” attenuati; - ritardo di crescita correlabile a fenomeni diarroici cronici; - anamnesi familiare con eventi o decessi dovuti a gravi infezioni; - infezioni causate da mollusco contagioso disseminato, a carattere recidivante; - evidenza di bronchiectasie. 5 L’iter di laboratorio può essere suddiviso in indagini distinte di 1°, 2° e 3° livello. 6 i livello: esame emocromocitometrico, protidemia e protidogramma elettroforetico, dosaggio delle immunoglobuline sieriche; dosaggio C3 e C4; ii livello: dosaggio delle sottoclassi IgG, identificazione di anticorpi specifici per alcuni antigeni; eventuale ricerca di autoanticorpi in casi selezionati; distribuzione delle varie sottopopolazioni linfocitarie (CD3, CD4, CD8, CD19, CD16-56), il loro stato di attivazione prima e dopo stimolo (CD38, CD25, CD69, CD40L, HLA-DR) e le popolazioni naive e memoria T e B (CD45RO, CD45RA, CD27, CD22); test di linfoproliferazione in vitro usando antigeni specifici o mitogeni; parametri delle funzioni complementari. Per quanto riguarda deficit della fagocitosi sono usati alcuni test di biochimica come quello al nitro blue tetrazolio (NBT test) o citofluorimetria a flusso con diidrorodamina 123 (per valutare la produzione di superossido); iii livello: si includono in questo raggruppamento indagini di tipo molecolare, in grado di identificare la presenza di un gene mutato; questo approccio è in funzione della natura e delle caratteristiche del gene (se noto o sconosciuto). Da queste analisi discendono varie implicazioni pratiche. Infatti identificare il difetto del gene oltre a definire una diagnosi “strutturale” dell’anomalia consente un’assistenza alla famiglia ricorrendo ad adeguata consulenza genetica. In età adulta il sospetto di ID deriva da segni e sintomi che adeguatamente interpretati posso- no aiutare indirizzando il medico verso una diagnosi corretta: si possono distinguere indicatori clinici e di laboratorio. In ambito clinico vanno differenziati eventi di natura infettiva e non infettiva. Nel primo gruppo si deve valutare la caratteristica del fenomeno infettivo (gravità, durata e andamento recidivante, varie complicazioni presenti malgrado il corretto uso di antibiotici, isolamento di agenti patogeni non usuali). Nell’ambito delle manifestazioni non infettive i sintomi critici sono: diarrea recidivante con o senza malassorbimento, diagnosi di bronchiectasie non altrimenti interpretabile, fenomeni autoimmuni concomitanti (per esempio tiroidite e vitiligine), crescita ritardata, patologia ematologica (anemia emolitica, trombocitopenia, leucocitopenia). I test di laboratorio vanno considerati in rapporto all’emergere del sospetto e in relazione all’approccio clinico nel corso della storia naturale di un’immunodeficienza, approccio che può interessare diversi settori della medicina clinica: gastroenterologia (diarrea), nefrologia (sindrome nefrosica), pneumologia (bronchiectasie), otorinolaringoiatria (sinusite cronica e infezioni recidivanti dei seni nasali e paranasali), diabetologia (infezioni recidivanti), infettivologia (infezioni da patogeni inconsueti e andamento recidivante), oncologia (in corso di immunodeficienza è documentato un più alto rischio di crescita neoplastica), chirurgia (ascessi non altrimenti motivati, per esempio a livello polmonare). Allo scopo di evitare una diagnosi o un sospetto diagnostico tardivi i parametri da considerare prima che questo ritardo si trasformi in un evento svantaggioso sono tre: 1) presenza di malattie o fenomeni autoimmuni; 2) comparsa di neoplasie non usuali; 3) frequenti episodi di infezioni recidivanti non rispondenti alla terapia antibiotica. Immunosenescenza. Ovviamente anche il sistema immunitario invecchia; quale consistenza “strutturale” ha l’invecchiamento per quanto concerne la risposta immunitaria? In corso di immunosenescenza si assiste a una serie di trasformazioni che tendono ad “abbassare” il livello della risposta immunitaria. Questa downregulation riguarda diversi parametri: diminuita efficacia in risposta ai vaccini, comorbilità, maggiore facilità nel contrarre infezioni. Di particolare interesse alcuni studi che hanno evidenziato una ridotta funzione della linea cellulare B, con alterazione quantitativa delle varie sottopopolazioni linfocitarie e una modificazione nel repertorio della risposta specifica verso gli antigeni che appare ridotta. Immunodeficienze: “dove” scovarle. La definizione di immunodeficienza è oggi una sorta di sfida di natura nuova. Abbiamo potuto cambiare l’ottica di riconoscimento ricorrendo agli strumenti di tecnologie avanzate e grazie a una visione della clinica non più rigida o vincolata ai limiti imposti dalle indagini di laboratorio. Ma proprio il sovrapporsi di conoscenze settoriali e in aree di confine tra ricerca clinica e di base ha generato talora il rischio di sottovalutare le numerose condizioni di deficit immunitario, soprattutto in individui altrimenti sani e in età adulta. Gran parte del merito per questo cambiamento concettuale è di J L Casanova, geniale autore di numerosi lavori che hanno consentito di identificare vari difetti altrimenti non individuabili. Come “pensa- re” un’immunodeficienza in modo nuovo? Facciamo un esempio. Chi si infetta con Herpes Simplex Virus - 1 (HSV 1) di solito non ha problemi, mentre un piccolo numero di individui sviluppa l’encefalite. Ecco: la dimostrazione che in questo gruppo sfortunato ci possa essere un difetto della risposta immunitaria significa che esistono probabilmente alterazioni genetiche che giustificano il decorso “anomalo” o inconsueto in svariate condizioni cliniche. Difetti che si slatentizzano con una forma di singolarità biopatologica: l’immunità non risulta compromessa per il controllo di molti patogeni, mentre diventa insufficiente verso un determinato microrganismo (virus o batterio che sia). Alla luce di quanto esposto e per concretezza ogni medico pratico, così come ha in mano il manuale per il rischio cardiovascolare, per la gestione della terapia anti-ipertensiva, per il diabete, per l’ictus e come ha un riferimento per le linee guide riguardanti la prevenzione dei tumori (cancro della mammella, del colon, dei polmoni, della prostata, etc.), e si potrebbe continuare a lungo, può sicuramente giovarsi di una base di riferimento per sospettare e/o diagnosticare uno stato di immunodeficienza. 7 Riassumendo i punti principali da considerare sono: immUNoDEFiCiENZA CoNGENitA Forme primitive geneticamente definite Forme primitive in via di definizione immUNoDEFiCiENZE SECoNDARiE malattia da HiV Da farmaci, patologie varie, malnutrizione, dismetabolismo, ecc. immUNoDEFiCiENZE DELL’Età ADULtA Difetti congeniti con espressione fenotipica tardiva Difetti genetici di nuova identificazione immunosenescenza 8 Nel 2004 Charlotte Cunningham-Rundles ha pubblicato un lavoro molto interessante, e astuto, base per capire come sia possible identificare uno stato di immunodeficienza partendo dai codici ICD-9 (identifying undiagnosed primary immunodeficiency diseases in minority subjects by using computer sorting of diagnosis codes - J Allergy Clin Immunol 2004;113:747-55.) . In questa ricerca gli autori hanno considerato che le IDP vengono diagnosticate raramente in gruppi di minoranza etnica. L’obiettivo primario è consistito nello sviluppare e validare un metodo atto a identificare soggetti senza diagnosi definita ma con immunodeficienza, facendo riferimento a un ospedale cittadino con una significativa popolazione di utenti appartenenti a gruppi di minoranza. è stato sviluppato un algoritmo sulla base della international Classification of Disease, Ninth Revision (ICD-9) con i codici relativi a soggetti ricoverati al di sotto dei 60 anni di età, considerando la diagnosi di 2 o più dei 174 codici ICD9 relativi a complicazioni associate a immunodeficienza. Dopo aver analizzato 533 pazienti con 2683 accessi ed eseguito controlli su 59 identificati è stato possibile trovare 17 soggetti con im- munodeficienza primitiva e 13 con immunodeficienza secondaria. Questo lavoro è un esempio utilizzabile anche in altre aree e nell’ambito delle ricerche miranti a definire un deficit di risposta immunitaria può essere un vero riferimento per ampliare approcci analoghi. Si può concludere con quanto riassunto nel lavoro di Casanova e Abel, pubblicato su Science (Primary immunodeficiencies: a filed in its infancy 2007; 317: 617 - 619): “A paradigm shift is occurring in the field of primary immunodeficiencies, with revision of the definition of these conditions and a considerable expansion of their limits. Inborn errors of immunity were initially thought to be confined to a few rare, familial, monogenic, recessive traits impairing the development or function of one or several leukocyte subsets and resulting in multiple, recurrent, opportunistic, and fatal infections in infancy. A growing number of exceptions to each of these conventional qualifications have gradually accumulated. It now appears that most individuals suffer from at least one of a multitude of primary immunodeficiencies, the dissection of which is helping to improve human medicine while describing immunity in natura”. “[Un cambiamento si sta manifestando nel campo delle immunodeficienze, con la revisione delle definizioni e una consistente espansione dei relativi limiti. Errori dell’immunità sono stati inizialmente localizzati nell’ambito di forme rare, familiari, monogeniche, recessive e in genere limitate all’infanzia. Un crescente numero di eccezioni a ciascuna delle definizioni convenzionali si è andato gradualmente accumulando. Ai nostri giorni sembra che gran parte degli individui soffra di almeno una di una vasta serie di condizioni di immunodeficienza, l’identificazione della quale mentre aiuta l’approccio medico ci consente di comprendere l’immunità in natura]”. Presso la bios S.p.A. di via D. Chelini, 39 (Bios diagnostica srl) è attivo il servizio di immunologia Clinica, diretto dal prof. Giuseppe Luzi, immunologo clinico. iNFo CUP 06 809641 LE biotECNoLoGiE: iL FUtURo DELLA RiCERCA SCiENtiFiCA Alessandra Lo Presti Biotecnologa 9 Le biotecnologie Il termine biotecnologia fu coniato nel 1917 da un ingegnere ungherese, Karl Ereky, con riferimento e limitatamente alla lavorazione di alcuni prodotti agricoli. biotecnologia deriva dalla congiunzione di due distinti sostantivi: Biologia e Tecnologia; il primo indica lo studio e la conoscenza (logos) degli esseri viventi (bios) e delle leggi che li governano; il secondo (technè) si riferisce all'applicazione e all'uso di strumenti tecnici per l'ottimizzazione di procedure il cui scopo è la produzione di beni e servizi. Nel corso degli anni la definizione di “biotecnologie" ha subito varie modificazioni; si va da quella della Federazione Europea di Biotecnologia (EFB) del 1982 che per biotecnologie intende "l'uso integrato della microbiologia, della biochimica, della genetica e dell'ingegneria chimica allo scopo di ottenere applicazioni di mi- crorganismi, altri sistemi cellulari o loro sottostrutture per la produzione di composti di vario interesse o per terapie cliniche”, a quella del 1989 più recente e più ampia che definisce le biotecnologie come “l'integrazione di scienze biologiche e ingegneria allo scopo di utilizzare organismi, cellule, loro componenti o analoghi molecolari per l'ottenimento di beni e servizi”. Accanto a queste definizioni ne troviamo anche una più immediata e sintetica: “sfruttamento di sistemi biologici per la produzione di beni e servizi”. La biotecnologia si avvale dell’ingegneria genetica che fonde competenze di genetica e di biologia molecolare. Alla base delle biotecnologie vi è la scoperta della struttura del DNA (acido desossiribonucleico) da parte di James Watson e Francis Crick nel 1953 e la scoperta di Oswald Theodore Avery negli anni ’40, riguardante il DNA come la sostanza nella quale risiedono tutte le informazioni genetiche. Vista secondo la prospettiva sto- 10 rica la biotecnologia risale al tempo in cui si utilizzavano per la prima volta e deliberatamente il lievito per fermentare la birra e i batteri per produrre lo yogurt. La natura della biotecnologia mutò notevolmente grazie alla messa a punto della tecnologia del DNA ricombinante (che si riferisce a numerosi protocolli sperimentali che portano al trasferimento di informazione genetica da un organismo a un altro). Questa tecnologia prevede, in primo luogo, l’identificazione del gene di interesse, quindi l’estrazione del DNA dall’organismo donatore, il taglio (digestione) enzimatico e unione mediante “legatura” con un'altra tipologia di DNA (vettore di clonazione) formando così una nuova molecola di DNA ricombinato (costrutto di DNA). Questo costrutto (vettore di clonazione-inserto di DNA) viene trasferito e mantenuto dentro una cellula ospite. L’introduzione di DNA in una cellula ospite di natura batterica è detta trasformazione. Si identificano e si selezionano quindi le cellule ospiti che hanno assunto il costrutto di DNA (cellule trasformate) da quelle che non lo hanno assunto. La digestione enzimatica del DNA è resa possibile grazie a specifici enzimi detti endonucleasi di restrizione di tipo II che si legano alla molecola di DNA e la tagliano in corrispondenza di precisi siti di riconoscimento (sequenze palindromiche) con un taglio simmetrico e sfalsato o con un taglio ad estremità nette (a seconda dell’enzima di restrizione implicato) producendo estremità coesive (Fig.1). Un qualsiasi DNA tagliato con questi enzimi può essere facilmente attaccato a un'altra molecola di DNA tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha così reso possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante. Da soli gli enzimi di restrizione non bastano per la clonazione molecolare. Quando si allineano le estremità sporgenti create dall’enzima di restrizione, i legami a idrogeno delle basi che si appaiano non sono sufficientemente robusti da tenere unite due molecole di DNA. Si utilizza in genere l’enzima DNA-ligasi T4 che catalizza la formazione di legami fosfodiestere alle estremità dei filamenti di DNA già uniti dall’appaiamento tra le basi dei due prolungamenti. Le molecole di DNA saldate dalla DNA-ligasi-T4 si applicano a trasformare le cellule ospiti. Fig 1. Digestione enzimatica del DNA con endonucleasi di restrizione, generazione di estremità coesive e legatura; da Giorgio Seano al link http://www.ips.it/scuola/concorso_99/genetica/biotecn.htm La trasformazione produce alcune cellule che contengono i costrutti plasmide-inserto di DNA. Avendo il plasmide una sequenza di DNA che gli consente di replicarsi (l’origine della replicazione), l’intero costrutto verrà perpetuato (Fig.2). Fig 2. Generazione di un costrutto vettore di clonazione-inserto di DNA (contenente il gene di interesse) che viene trasferito e mantenuto dentro una cellula ospite (cellula batterica). Duplicazione del plasmide contenente il DNA del gene d’interesse (insulina); da Giorgio Seano al link: http://www.ips.it/scuola/concorso_99/genetica/biotecn.htm Si sono elaborate diverse strategie atte a selezionare le cellule in possesso dei costrutti plasmide-inserto di DNA: 1) saggiando la resistenza a determinati antibiotici o ricercando nelle cellule in accrescimento una determinata risposta colorimetrica; 2) eseguendo saggi immunologici o di attività per i prodotti proteici codificati dal gene clonato; 3) mediante ibridazione del DNA con una sonda contenente una sequenza nucleotidica presente nel gene bersaglio. Al termine di ogni procedura di clonazione è necessario controllare se sia stato clonato un gene strutturale intatto. Applicazioni biotecnologiche. Sono numerosi i campi di applicazione delle biotecnologie; i più importanti sono di seguito riportati. Settore farmaceutico. Tra le più note sostanze prodotte con la tecnica del DNA ricombinante ci sono l'insulina, l'ormone della crescita e l'interferone. L'insulina fu la prima a essere prodotta con il metodo della clonazione del DNA. è possibile migliorare l'efficacia di farmaci già in uso e ottenere prodotti altamente purificati e privi di contaminanti allergenici o biologici. I farmaci ottenuti attualmente con le biotecnologia sono numerosi (si possono ottenere ad esempio ormoni, proteine, anticorpi monoclonali e antibiotici) e molti altri sono in fase di avanzata sperimentazione. Settore industriale e agricolo. Per il settore industriale ritroviamo la costituzione di microrganismi in grado di produrre sostanze chimiche. Per quanto riguarda il settore agricolo ritroviamo la modificazione di organismi per renderli in grado di crescere in determinate condizioni ambientali o nutrizionali. Lo scopo di questo settore è quello di produrre soluzioni per l’agricoltura aventi un impatto ambientale minore rispetto ai processi agricoli classici. Ad esempio, sono state ingegnerizzate alcune piante in grado di produrre autonomamente pesticidi, eliminandone la necessità di somministrazione esterna, più dispendiosa e inquinante. A questo fine è stato prodotto, il mais BT. è in corso un ampio dibattito riguardo all'effettiva eco-compatibilità di questi processi, nonché sulla sicurezza degli organismi geneticamente modificati (OGM). Settore biomedico. Vaccini I vaccini sono preparazioni di microrganismi patogeni uccisi o modificati, o specifiche frazioni di essi, che vengono iniettati in un animale per stimolare l'immunità nei confronti di una determinata malattia. Generalmente, per produrre un vaccino, vengono clonati i geni codificanti le proteine del rivestimento in quanto inducono una consistente produzione anticorpale. L’importanza dei vaccini ricombinanti risiede nel fatto che possono sostituire le sospensioni di virus uccisi o inattivati. L’ingegneria genetica ha permesso di sviluppare con notevole successo alcuni vaccini a subunità. Questi vaccini contengono solo una subunità specifica di una proteina dell'organismo patogeno (generalmente una proteina del rivestimento); con le tecniche del DNA ricombinante è possibile ottenere microrganismi in grado di produrre queste subunità. Le proteine del rivestimento, che sono altamente immunogene, vengono purificate e utilizzate a dosaggi elevati per permettere l'induzione di un livello protettivo di immunità. Sfortunatamente, quando il batterio E. coli viene utilizzato come ospite di clonaggio, i vaccini prodotti sono spesso scarsamente immunogeni e non sono in grado di proteggere il soggetto da una successiva infezione con il virus. Il problema deriva dal fatto che, quando il virus si replica nell'ospite, molte proteine virali del rivestimento subiscono modificazioni post trasduzionali, generalmente con l'aggiunta di residui di zuccheri (glicosilazioni). Le proteine ricombinanti prodotte da E. coli 11 e da altri batteri non sono glicosilate e la glicosilazione è necessaria perché le proteine siano immunologicamente attive; quindi occorre utilizzare ospiti eucariotici. Uno dei vettori utilizzati per il clonaggio in cellule di mammifero è il virus del vaiolo bovino. I vaccini costruiti con le tecniche dell'ingegneria genetica sono destinati ad avere un grande successo poiché sono più sicuri degli usuali vaccini costituiti da virus uccisi o attenuati, sono più riproducibili in quanto il loro patrimonio genetico può essere attentamente controllato, possono essere somministrati in dosi elevate senza effetti collaterali. 12 Terapia genica somatica. Prevede il trasferimento di un gene mediante diverse tipologie di vettori direttamente su linee cellulari somatiche (anche se in alcuni casi è possibile inserire il DNA "nudo") modificando in questo modo l’espressione genica di determinati tessuti quali muscoli, polmoni, cervello, ossa, reni, cuore e molti altri. Essendo rivolta alle cellule somatiche non viene trasmessa alle generazioni successive ma interessa solo il paziente. La terapia genica somatica mira all'identificazione del gene difettoso che causa una patologia e quindi alla sua sostituzione con una copia del gene che funzioni correttamente. Le patologie in cui è possibile applicare la terapia genica sono principalmente i disordini ereditari quali la distrofia muscolare, la fibrosi cistica, l’emofilia, il diabete di tipo I, le malattie metaboliche (fenilchetonuria), le malattie rare a trasmissione genetica nelle quali sia stato individuato il gene difettoso. Da alcuni anni si stanno sviluppando tecniche di terapia genica applicabili anche alla cura del cancro, di malattie cardiovascolari e neurodegenerative. In particolare è stata sviluppata una precisa strategia di attacco per alcune forme di cancro rappresentata dall’inibizione dell’angiogenesi. Nello specifico, con la terapia genica è possibile introdurre nell’organismo malato geni che codificano proteine inibitrici dell’angiogenesi in modo da bloccare o ridurre la neovascolarizzazione del tumore. è anche possibile introdurre nelle cellule tumorali geni in grado di disattivare o contrastare il disequilibrio responsabile della proliferazione incontrollata (dovuta all’anomala attivazione e disattivazione di oncogeni e geni onco-soppressori). Il trasferimento genico può avvenire “in vivo” o “ex-vivo”. In vivo può avvenire localmente, (con un'iniezione intramuscolare o intratumorale, per inalazione o per permeabilità), o per via sistemica (iniezione endovenosa) mentre ex-vivo con il trasferimento genico in cellule in coltura che siano state espiantate e poi successivamente reimpiantate nel paziente. Esistono diverse tipologie di vettori per la terapia genica: vengono utilizzati vettori biologici (vettori virali) e vettori non virali (vettori fisici o chimici). I vettori non virali sono stati messi a punto per sopperire ai limiti dei vettori virali, si possono produrre su larga scala, non risultano essere infettivi o mutagenici. I vettori fisici (come ad esempio la pressione idrodinamica, il trasferimento mediato da campo elettrico o l’iniezione diretta nei tessuti) possono essere utilizzati per il trasferimento ex-vivo; l’iniezione diretta nei tessuti è efficace solo quando la terapia non richiede una grande quantità di espressione del gene trasferito. I vettori chimici (ad esempio i liposomi cationici, policationi come DEAE dextrano, polietilenimmina o complessi di polilisina) hanno un’efficienza ridotta rispetto ai vettori biologici. I vettori biologici (o virali) sfruttano la caratteristica intrinseca dei virus di essere parassiti intra-cellulari obbligati; sono in grado di infettare la cellula ospite, con grande specificità, di inserirsi nel genoma dell’ospite o di replicarsi nel nucleo come un episoma (ad esempio Adenovirus) e consentire così l’espressione dei geni per la produzione di nuove particelle virali. I vettori virali si dividono in vettori retrovirali, vettori adenovirali, vettori derivati da Herpes simplex virus e vettori adenoassociati. I virus ricombinanti utilizzati per la terapia genica ex-vivo sono progettati per essere inattivi: solitamente sono stati privati dei geni virali necessari per la replicazione, al posto dei quali sono stati inseriti i geni di interesse terapeutico che si vuole dare al paziente. Questi virus non competenti per la replicazione vengono detti difettivi e non sono più in grado di dar luogo a un'infezione produttiva e l’espressione del gene introdotto è permanente. Fra le problematiche relative all’uso dei vettori virali esiste la remota possibilità che i virus introdotti possano ricombinare con altri virus endogeni e quindi originare una progenie virale capace di provocare un'infezione produttiva. I principali problemi da tener presenti per la terapia genica con vettori virali sono le caratteristiche intrinseche del virus utilizzato. I retrovirus infatti infettano solo cellule in attiva divisione e vengono prodotti in basse quantità; gli Herpes Simplex Virus infettano cellule del SNC, possono instaurare nei neuroni infezioni latenti ma non si integrano e quindi non è possibile avere un'espressione a lungo termine dei geni inseriti. I vettori adenovirali possono invece infettare un'amplissima gamma di tipi cellulari. L'ingresso nelle cellule avviene mediante endocitosi mediata da recettori ed è molto efficiente, ma il DNA inserito non sembra integrarsi e quindi l'espressione dei geni inseriti può essere mantenuta solo per brevi periodi. I vettori basati su virus “adeno” associati garantiscono un'espressione genica a lungo termine e un elevato grado di sicurezza; infatti essi si integrano nel cromosoma ma, poiché per inserire il gene esogeno occorre eliminare il 96% del loro genoma originario, possiedono pochissimi elementi virali. Fra i problemi connessi con la terapia genica (con qualsiasi tipo di vettore) è da tener presente la risposta immunitaria che potrebbe generarsi nel paziente, la difficoltà con cui il gene terapeutico si inserisce in maniera stabile nelle cellule bersaglio e la selettività delle cellule da trasfettare. proteine (vengono per questo considerati inibitori specifici della traduzione). La specificità delle molecole antisenso è talmente elevata che anche due geni che differiscono per una mutazione di un solo nucleotide possono essere inibiti in modo differente. Possono interagire nel meccanismo dell’espressione genica in vari modi (Fig.3): ❱ legandosi al DNA, inserendosi nella doppia elica (con la formazione di un triplex, tripla elica) e bloccando quindi la trascrizione; ❱ legandosi all’mRNA, sia prima che dopo lo splicing, impedendo la traduzione; questi sono oligonucleotidi antisenso in quanto sono complementari all’mRNA; ❱ legando le proteine appena formate (aptameri); ❱ degradando gli mRNA (ribozimi). Gli ONs antisenso oltre che bloccare stericamente l’unione mRNA ribosoma, rendono la catena di acido nucleico alla quale si legano più soggetta alle RNasi. Gli ONs sono applicabili a diverse patologie (in alcune forme di cancro in cui vi è iper-espressione di oncogeni, o nel caso della sovrapproduzione di angiotensina nell’ipertensione, nel trattamento di alcune patologie infiammatorie, in alcune malattie virali fra cui HIV, epatite B, per le artriti reumatoidi, allergie e molte altre). Per l’aquisizione dell’oligonucleotide da parte delle cellule si utilizzano diverse tecniche fra cui i lipidi cationici, i liposomi, i peptidi, i dendrimeri, i policationi, la coniugazione con il colesterolo, l’aggregazione con ligandi di superficie cellulare, la streptolisina O e l’elettroporazione. Il futuro delle biotecnologie. Negli ultimi anni le ricerche nel campo delle biotecnologie (in particolare nel settore relativo alla terapia genica) si stanno focalizzando sullo studio di terapie basate sull’uso degli oligonucleotidi anti-senso e sugli small RNA interference. Gli oligonucleotidi antisenso (ONs) sono corte sequenze di acidi nucleici a singolo filamento, lunghi dai 15 ai 20 nucleotidi, complementari a una data sequenza target che agiscono interagendo con l'RNA messaggero, bloccando la traduzione e quindi la produzione di determinate Un'altra tipologia di molecole sulle quali si stanno svolgendo diversi studi e sulle quali si sta focalizzando la biotecnologia sono gli small interfering RNA. Gli small interfering RNA (siRNA), noti anche come short interfering RNA or silencing RNA (RNA di silenziamento) appartengono a una classe di RNA a doppio filamento, lunghi 20-25 nucleotidi, utilizzati per interferire nell’espressione di un gene specifico. Sono utilizzati in diverse vie metaboliche cellulari per il silenziamento genico post trascrizionale e si stanno utilizzando principalmente nella ricerca biomedica e nello sviluppo di famaci. 13 Fig 3. Targeting intracellulare degli oligonucleotidi (ONs). Gli ONs si possono legare a DNA nucleare come molecole triplex (1) oppure legandosi all’interno del loop della replicazione (2). Gli ONs possono legarsi agli mRNA nascenti nel nucleo (3) o agli mRNA maturi nel citoplasma nella parte iniziale (4) o lungo la sequenza ma più a valle (5) determinando blocco della traduzione proteica o inducendo la degradazione da parte della RNAsi H del filamento target. Aptameri si legano e inibiscono la funzione di specifiche proteine (7). Immagine di Costi Mariapaola dal file Terapia genica link http://cdm.unimo.it/home/dipfarm/costi.mariapaola/terapia_genica.pdf 14 Una problematica relativa agli siRNA è che possono indurre alcuni effetti non specifici e una elevata quantità di siRNA potrebbe generare diverse risposte cellulari aspecifiche in grado di attivare una risposta immunitaria. La maggior parte dei lavori scientifici sembra indicare che il fenomeno sia dovuto alla presenza di PKR, un sensore cellulare per gli RNAds, e sembra probabile il coinvolgimento anche del gene RIG-I (acronimo di retinoic acid inducible Gene i). Un metodo promettente per ridurre l'effetto aspecifico consiste nell'adattare gli siRNA fino a far assumer loro la struttura di un microRNA. Dal momento che la presenza citosolica dei microRNA è assolutamente naturale e comporta uno dei più potenti meccanismi di silenziamento cellulare, tale approccio promette di essere assai efficace, permettendo di incorporare minori concentrazioni di siRNA per avere un silenziamento molto più efficiente e selettivo. Recenti applicazioni degli oligonucleotidi. Gli oligonucleotidi antisenso sono attualmente in corso di valutazione con trial clinici, molti dei quali riguardano applicazioni oncologiche. Fra questi, i composti diretti verso c-myb, bcl-2, PKA, PKC-alfa, c-raf chinasi e Ha-ras. Altre applicazioni riguardano la molecola di adesione intercellulare-1 (ICAM-1) coinvolta in diverse malattie infiammatorie. è da evidenziare un recente studio nel quale vengono utilizzati specifici oligonucleotidi antisenso diretti verso forme mutate della proteina p53. è noto che p53 è la più comune alterazione genetica nel cancro della specie umana. Questo lavoro dimostra che gli oligonucleotidi antisenso contenenti una differenza di un solo nucleotide riescono a discriminare fra ogni forma mutata di p53 e fra la forma wild type (WT); inoltre in seguito all’utilizzo di tali oligonucleotidi antisenso si è evidenziata su linee cellulari tumorali umane una forte inibizione dell’espressione delle forme di p53 mutate. Problemi aperti nel prossimo futuro. Una delle problematiche riguarda il trasporto degli oligonucleotidi antisenso al gene bersaglio senza che essi vengano degradati; occorre studiare con attenzione la tecnica sperimentale da utilizzare per l’acquisizione degli oligonucleotidi da parte delle cellule in modo da garantirne non solo l’ingresso ma anche una maggiore stabilità. Occorre inoltre valutare la via di somministrazione più adeguata e la concentrazione ottimale di oligonucleotidi per avere un effetto terapeutico prolungato nel tempo, senza effetti collaterali per i malati. Occorre anche studiare se, in seguito alla somministrazione di oligonucleotidi rivolti verso una determinata proteina, vengano indotte modificazioni della trascrizione di altre proteine. Per quanto riguarda la tecnica RNA interference, sebbene sia altamente specifica e capace di interferire con l’attività di un gene, rallentandola, occorre tener presente la possibilità di induzione di risposte cellulari aspecifiche. Questa tecnica, utilizzata dai ricercatori per studiare le funzioni e le caratteristiche di specifici geni, potrebbe comunque avere un impatto decisivo sul fronte terapeutico. Sono necessari quindi ulteriori studi per eliminare le risposte cellulari aspecifiche e gli effetti collaterali. EiACULAZioNE PRECoCE: UN PRobLEmA FREqUENtE Massimiliano Rocchietti March Endocrinologo - Andrologo 15 L’eiaculazione precoce (EP), come dimostrano diversi studi epidemiologici su larga scala, rappresenta la più frequente disfunzione sessuale maschile. In Italia ne soffre un uomo su cinque nella fascia d’età tra compresa tra 18 e 70 anni. Secondo le principali società scientifiche internazionali, la definizione di EP si basa sui seguenti criteri: - eiaculazione che si verifica, in modo persistente o ricorrente, in seguito a stimolazione sessuale minima, prima o durante la penetrazione vaginale; - mancanza di controllo eiaculatorio; - conseguenze psicologiche negative a livello personale. Come hanno dimostrato numerosi studi epidemiologici, l’EP è la più frequente disfunzione sessuale nell’uomo, con una prevalenza compresa tra il 20% e il 30%. In Italia, in particolare, il 20% degli uomini ha riferito di essere affetto da EP che è quindi più frequente della disfunzione erettile (DE), che colpisce il 12.8% degli uomini. Inoltre la prevalenza dell’EP, a differenza di quella della DE, è indipendente dall’età. L’EP è stata per la prima volta descritta come entità o sindrome clinica da Bernard Shapiro nel 1943, che ne fece una prima distinzione tra tipo A e B, successivamente classificati da Godpodinoff in EP lifelong, o primaria, e acquisita, o secondaria. L’EP lifelong o primaria colpisce il 50 % degli uomini con EP. Essa è caratterizzata da: - eiaculazione precoce ad ogni (o quasi) rapporto sessuale; - il problema si presenta con tutte (o quasi) le partner; - insorge fin dal primo (o quasi) rapporto sessuale; - l’eiaculazione avviene entro 30-60 secondi (nell’80 % dei pazienti) o 1-2 minuti (nel 20 %); - persiste per tutta la vita (nel 70 %) e può peggiorare con l’età (30 %). Alcuni soggetti eiaculano già durante la fase preliminare, prima della penetrazione o al primo contatto con la vagina (ejaculatio ante-portas). Uno studio recente ha dimostrato, per la prima volta, l’ipotesi di un’influenza genetica sul tempo di eiaculazione negli uomini con EP lifelong. Infatti, già il gruppo di Waldinger e coll. 16 aveva ipotizzato che l’EP lifelong dipendesse da un’alterazione neurobiologica con vulnerabilità genetica, che determinava una riduzione della neurotrasmissione serotoninergica e/o dalla disfunzione dei recettori 5-HT (o serotonina). Janssen e coll., in uno studio su 89 uomini con EP lifelong, ha mostrato esistere una stretta relazione tra le varianti del gene che codifica per la proteina di membrana deputata al reuptake della serotonina e la durata dello IELT (tempo di latenza eiaculatoria intravaginale). L’EP aquisita o secondaria mostra le seguenti caratteristiche cliniche: - EP che esordisce in un certo momento della vita; - il soggetto ha precedentemente sperimentato eiaculazioni normali; - l’esordio può essere improvviso o graduale; - la disfunzione può essere secondaria a patologie endocrine (ipogonadismi, ipertiroidismo), urologiche, neurologiche, problemi psicologici o di relazione di coppia, farmaci (anfetamine, agonisti dopaminergici) o droghe (cocaina). Le patologie urologiche che possono causare EP sono: - le infezioni delle ghiandole accessorie dell’apparato genitale maschile (le cosiddette MAGI, Male Accessory Gland infections) quali: prostatiti, prostato-vesciculiti, prostatovescico-epididimiti; - patologie organo-terminali (fimosi, frenulo corto del prepuzio); - la Disfunzione Erettile. La salute sessuale è un argomento delicato, difficile da affrontare sia per il paziente che per il medico. Esistono pertanto metodiche atte a favorire il medico nella sua attività di diagnosi e interazione con il paziente. Una di queste tecniche, denominata ALLOW, prevede un iter suddiviso in cinque fasi. Secondo questo schema, il medico comincia a porre domande sulle relazioni sessuali e legittima l’importanza dei problemi sessuali. Quindi considera le proprie difficoltà diagnostiche e terapeutiche e può eventualmente decidere se inviare il paziente allo specialista per l’impostazione della terapia. Infine il medico può anche continuare allargando la discussione e, insieme al paziente, decidere quale strategia terapeutica intraprendere. Una volta poi che la conversazione ha avuto inizio, è utile senz’altro ricorrere all’impiego di questionari validati da proporre al paziente durante la visita, ai fini di una corretta indagine clinico-diagnostica. Uno dei questionari più utilizzati è il PEDT (Premature Ejaculation Diagnostic Tool), che rappresenta uno strumento multidimensionale e validato, di facile e rapida compilazione. è costituito da 5 domande dirette a indagare il controllo, i tempi di eiaculazione, la frustrazione e le difficoltà interpersonali. La risposta sessuale maschile è rappresentata dal succedersi delle seguenti fasi: desiderio, eccitazione (con erezione), plateau, orgasmo (con eiaculazione), risoluzione. Il ciclo della risposta sessuale maschile si conclude con i 3 eventi che caratterizzano l’eiaculazione: emissione, eiaculazione propriamente detta, orgasmo. L’eiaculazione è causata da un riflesso spinale simpatico sul quale vi è un limitato controllo volontario: mentre la sensazione di inevitabilità eiaculatoria aumenta, il controllo volontario diminuisce, fino a un punto di non ritorno. Durante l’eiaculazione si ha la chiusura del collo vescicale, il rilassamento dello sfintere uretrale esterno e, quindi, una serie di contrazioni ritmiche della muscolatura striata del pavimento pelvico, con propulsione del liquido seminale in uretra. Il centro spinale generatore dell’eiaculazione è inoltre modulato da numerose strutture sovraspinali, del tronco encefalico e del diencefalo. I neurotrasmettitori coinvolti nel processo eiaculatorio sono numerosi e comprendono serotonina, dopamina, GABA, noradrenalina, ossitocina, acetilcolina e ossido nitrico. è noto che la serotonina (5-HT) esercita un effetto inibitorio sull’eiaculazione e sull’attività sessuale maschile. Nel ratto maschio si ha liberazione di serotonina a livello ipotalamico al momento dell’eiaculazione. In particolare si è osservato che l’aumento di questo neurotrasmettitore a livello ipotalamico e dell’area preottica mediale successivo all’eiaculazione può inibire un’eiaculazione successiva ed è responsabile del periodo refrattario posteiaculatorio. La serotonina è, inoltre, il principale neuromediatore responsabile dell’inibizione tonica discendente sui riflessi sessuali. Il gruppo neuronale responsabile di questa azione inibitoria è stato individuato nel nucleo reticolare paragigantocellulare, situato nel midollo allungato. Infatti, circa l’80% dei neuroni di tale nucleo è di tipo serotoninergico. Il ruolo della serotonina nella risposta sessuale, in particolare nell’eiaculazione, è supportato dall’osservazione degli effetti collaterali degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI), che comprendono anche eiaculazione/orgasmo ritardato. La serotonina è quindi un neurotrasmettitore chiave nel processo eiaculatorio. Ad oggi sono stati individuati almeno 16 diversi recettori serotoninergici, localizzati a livello ipotalamico, del tronco encefalico, del midollo spinale, ma sembra che la risposta sessuale maschile sia mediata principalmente dai sottotipi 5-HT2C e 5-HT1A, situati soprattutto a livello del nucleo paragigantocellulare. Il processo eiaculatorio è quindi mediato dai recettori 5-HT1A, che favoriscono l’eiaculazione e 5-HT2C, che invece ritardano l’eiaculazione. L’ipotesi corrente più accreditata attribuisce l’eziologia dell’EP a una iposensibilità del recettore 5-HT2C postsinaptico e a una ipersensibilità del recettore 5-HT1A presinaptico. Si ritiene che la soglia eiaculatoria del soggetto con EP, che presenta bassi livelli di serotonina e/o iposensibilità del recettore 5-HT2C , sia geneticamente determinata ad un livello più basso. In particolare è stato dimostrato che l’aumento dell’attività del trasportatore per il reuptake della serotonina (5HTT), che esercita un ruolo chiave nella patogenesi dell’EP, è associato a un polimorfismo del gene che codifica per questa proteina di membrana. Quali sono le possibili opzioni terapeutiche? Considerata inizialmente un problema psicologico, l’EP è stata trattata per decenni con terapie non farmacologiche quali le tecniche comportamentali e cognitive. Successivamente, sono state utilizzate anche terapie farmacologiche sia topiche (anestetici locali), sia sistemiche (antidepressivi e inibitori delle fosfodiesterasi-5). In generale le tecniche comportamentali (ad esempio il metodo “stop-start” o il metodo “squeeze”) sono orientate ad addestrare l’uomo a riconoscere i segnali pre-eiaculatori e a con- trollare l’eiaculazione. Di solito queste tecniche all’inizio offrono un beneficio in un’elevata percentuale di pazienti (45-65 %) ma possono alterare la spontaneità del normale rapporto sessuale e, soprattutto, non hanno un effetto duraturo nel tempo. Le terapie cognitive e sessuali, attraverso il miglioramento della comunicazione tra i partner, mirano alla riduzione dello stress e dell’ansia correlata al sesso. I trattamenti farmacologici topici, in creme o spray, agiscono invece determinando una desensibilizzazione peniena, che a sua volta ritarda l’eiaculazione. Tuttavia, non è stata dimostrata alcuna correlazione statisticamente significativa tra lo IELT e la sensibilità peniena. I trattamenti farmacologici dell’EP per os comprendono gli antidepressivi sia triciclici sia SSRI (inibitori del reuptake della serotonina) e gli inibitori della PDE-5 (fosfodiesterasi tipo 5). Tuttavia il primo farmaco ad avere l’indicazione terapeutica specifica per l’EP è la dapoxetina, da poco reperibile in commercio. Le linee guida 2009 dell’European Urological Association infatti indicano la dapoxetina come il primo e unico farmaco approvato per l’ EP. Essa agisce determinando un’inibizione del 5-HTT, con conseguente inibizione del reuptake della serotonina e potenziamento dell’azione del neurotrasmettitore. Il farmaco viene assunto on demand 1-3 ore prima dell’attività sessuale; a differenza degli altri SSRI, che vanno somministrati cronicamente, la dapoxetina risulta efficace al bisogno. In conclusione l’EP rappresenta la più frequente disfunzione sessuale nell’uomo, addirittura più frequente della DE. L’uomo che soffre di EP spesso prova scarsa autostima, disagio, frustrazione, ansia, depressione. Tutto questo rende l’EP una condizione medica da diagnosticare e trattare in modo appropriato. Per quanto riguarda la terapia farmacologica, molto promettente sembra essere la dapoxetina, farmaco di recente immissione in commercio, che viene somministrato on demand. Presso la bios S.p.A. di via D. Chelini, 39 è attivo il servizio di Andrologia. medico responsabile dott. Giovanni Maturo. iNFo CUP 06 809641 17 L’oStEoARtRoSi DEL GiNoCCHio: AGGioRNAmENto SULLA EZioPAtoGENESi E tERAPiA. 18 iL PUNto Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane PREmESSE L’osteoartrosi (OA) costituisce la patologia articolare più diffusa e la principale causa di dolore cronico, interessando milioni di individui in tutto il mondo. L’OA può essere considerata la conseguenza di una disfunzione combinata, di natura biochimica, biomeccanica e biomorfologica della cartilagine articolare, con coinvolgimento anche dell’osso subcondrale, della membrana sinoviale e del comparto capsulo-legamentoso. Anche se la cartilagine articolare è la primitiva sede di lesione, la membrana sinoviale partecipa a tale processo involutivo con una “sinovite aspecifica” e l’osso subcondrale presenta fenomeni di congestione vascolare e attività osteoblastica con neoformazione di osso alla periferia della cartilagine (osteofiti); concomita una fibrosi capsulare e legamentosa. Va sottolineato che l’OA è solo “prevalente- mente” una malattia osteodegenerativa in quanto nella sua storia naturale intervengono poussée di tipo infiammatorio, responsabili anch’esse della condrolisi (1) (Fig.1). Fig 1. Esame istologico della cartilagine articolare e dell’osso subcondrale in un’artrosi avanzata. Si rileva la graduale riduzione in spessore della cartilagine con fine fissurazione superficiale e scarsa colorazione dei piccoli raggruppamenti di condrociti; è presente, inoltre, una sclerosi ossea con lieve fibrosi midollare (col. EE x 40 ). Da una visione meccanicistica della OA, in cui la cartilagine veniva considerata un tessuto inerte tAb 1 - PRiNCiPALi FAttoRi Di RiSCHio PER L’oStEoARtRoSi Definiti età componente genetica (anomalia del gene CoL2A1;HLA-A1 e HLA-b8 positivi) fattori meccanici (stress articolare, perdita di assialità, perdita di sensibilità, ecc.) patologia dismetabolica (iperglicemia, diabete, ipercolesterolemia) obesità (non solo per il sovraccarico) Probabili nutrienti e altri fattori alimentari (sostanze ossidanti), fumo, densità ossea (aumento di densità dell’osso subcondrale) che con l’invecchiamento andava incontro ad una progressiva usura, si è successivamente affermata una visione metabolica, nella quale il condrocita è il protagonista nei processi di sintesi e degradazione della matrice (2); mentre in condizioni normali i processi anabolici e catabolici della cartilagine sono in equilibrio dinamico, nell’OA si altera questo equilibrio a favore del processo di degradazione. In un complesso meccanismo biochimico entrano in gioco proteasi e inibitori delle stesse citochine e mediatori pro-infiammatori, con intervento della membrana sinoviale (2). Premesso quanto sopra i principali fattori di rischio per l’OA sono riportati nella tabella 1 (3). LA GoNoARtRoSi Il ginocchio è un’ articolazione complessa costituita da tre compartimenti maggiori: articolazioni tibio-femorale mediale e laterale e articolazione patello-femorale. Ciascuna di tali articolazioni può essere interessata da OA (gonoartrosi) separatamente e in diverse combinazioni (4,5). Le localizzazioni più comuni sono la tibio-femorale mediale isolata e l’associazione di tibio- femorale mediale con la patello-femorale. Numerosi contributi in letteratura concordano nel dire che la gonoartrosi radiologicamente evidente è meno frequente della OA delle mani, ma più della coxartrosi (6,7). L’incidenza della gonoartrosi aumenta con l’età, con prevalenza per le donne dopo i 50 anni; in ragione dell1% all’anno nelle donne di età compresa tra 70 e 89 anni. Anche se la struttura muscolare dell’uomo risulta più idonea che nella donna ad assolvere il compito di protezione dei legamenti del ginocchio, una condizione di ipotonotrofismo dei muscoli attivatori del ginocchio è più precoce nell’uomo. Nell’inchiesta di DT Felson e coll. del 1992 emerge il dato dell’importanza nelle donne della perdita di peso al fine di ridurre il rischio di una gonoartrosi sintomatica (8,9). Nel 1986 L’ACR ha codificato i criteri clinici per la definizione della gonoartrosi (10) (Tab.2). L’ARA nel 1989 ha modificato i precedenti criteri nei termini riportati nella tabella 3. I pazienti con gonoartrosi possono essere suddivisi in due categorie principali: pazienti giovani, spesso di sesso maschile, con una patologia iso- tAb 2 - CLASSiFiCAZioNE CLiNiCA DELLA GoNoARtRoSi (1986) 1) dolore al ginocchio per diversi giorni; 2) rigidità mattutina ≤30 minuti; 3) scrosci alla mobilizzazione attiva; 4) età maggiore di 38 anni. 19 tAb 3 - CRitERi DELL’ARA PER LA CLASSiFiCAZioNE DELLA GoNoARtRoSi (1989) 1) dolore al ginocchio e: 2) osteofiti radiologicamente apprezzabili o 3) a - presenza di aumento del liquido sinoviale (origine meccanica; età≥ di 40 anni) e b - rigidità mattutina ≤30 min e c - scrosci 20 lata del ginocchio, che può essere messa in relazione a una pregressa lesione traumatica o intervento chirurgico, come una meniscectomia; pazienti di età medio-avanzata, spesso obesi e prevalentemente di sesso femminile, che spesso presentano una gonoartrosi simmetrica, associata o meno a quella di altre sedi articolari, incluse le mani. L’obesità è fortemente correlata alla OA tibio-femorale, in particolare in soggetti anziani, di sesso femminile (11). Il ruolo dell’obesità trascende il concetto di sovrappeso, in quanto il tessuto adiposo è capace di liberare citochine e adipochine (leptina, adiponectina, resistina, visfatina) con azione pro-infiammatoria sulla formazione ossea e catabolismo della cartilagine artrosica (12). Recenti studi hanno enfatizzato l’importanza di fattori occupazionali e genetici: flettere le ginocchia e accovacciarsi, se effettuate sotto carico, sono azioni particolarmente predisponenti per l’OA tibio-femorale, mentre l’OA patello-femorale è legata maggiormente a fattori genetici, oltre che malformativi (displasie, varismo/valgismo, iperlassità legamentosa, ecc.) (13). La gonoartrosi può esitare in deformità dell’articolazione, in particolare per collasso del piatto tibiale, con episodi più o meno ravvicinati di tumefazione della stessa per la presenza di un versamento articolare, espressione di flogosi sovrapposta. Autorevoli studi (14) hanno descritto la storia naturale della gonoartrosi, che è caratterizzata da una evoluzione lenta, che può essere clinicamente e radiologicamente stabile per diversi anni (Fig. 2); ai possibili miglioramenti clinici non cor- Fig 2. A sinistra immagine radiografica, in proiezione anteroposteriore, di un ginocchio affetto da gonoartrosi: è presente una riduzione in ampiezza della rima articolare femoro-tibiale mediale,una sclerosi ossea marginale e una osteofitosi a “goccia”. A destra, immagine radiografica, in proiezione laterale,di un ginocchio affetto da gonoartrosi femoro-tibiale e femoro-rotulea: è particolarmente ridotta in ampiezza la rima articolare femoro-rotulea, con produzione di osteofiti. tAb 4 - CoNSiDERAZioNi CLiNiCo –PAtoGENEtiCHE SULLA GoNoARtoSi ❯ molti individui, nonostante l’esistenza di numerosi fattori di rischio, non sviluppano la gonoartrosi; ❯ una gonoartrosi clinicamente e/o radiologicamente evidente può essere correlata oltre che all’obesità , anche alla iperglicemia, ipercolesterolemia e ipertensione arteriosa; ❯ esisterebbe una predisposizione alla gonoartrosi, oltre che alla rizoartrosi, nelle donne isterectomizzate; ❯ il grado di impegno delle articolazioni degli arti inferiori è correlato al grado e durata dell’obesità, oltre che all’età del soggetto; ❯ è rilevante il rapporto tra gravità della gonoartrosi e la perdita di assialità femoro –tibiale, indipendentemente dal grado di obesità. rispondono, però, miglioramenti radiologici. Lequesne (15) ha formulato un indice funzionale per la gonoartrosi assegnando un punteggio: A) al genere di dolore (notturno, mattutino, alla marcia, con aiuto); B) all’autonomia nella deambulazione, senza dolore; C) alla difficoltà nella vita quotidiana. Una valutazione clinica dello stato di malattia può essere praticata anche attraverso la ricerca di diversi indici di funzionalità (ad es. WOMAC), che ci forniscono dati sulla qualità della vita del paziente. Un marcatore dell’attività di OA, testato in casi di gonoartrosi (16 ) sarebbe l’IgG-BK, molecola antigenica bersaglio di anticorpi nell’OA. Possiamo indicare nella Tab. 4 alcune considerazioni clinico-patogenetiche riassuntive sulla gonoartrosi (6,7,17). StRAtEGiA tERAPEUtiCA. A prescindere dall’eliminazione dei “fattori di rischio”, quando è possibile, la terapia della OA sino a qualche anno fa disponeva solo di farmaci ad azione analgesico-antinfiammatoria, cioè “sintomatici”, che non interferivano nella storia naturale della malattia (17). La TERAPIA MEDICA della gonoartrosi deve essere “individuale”, basata sull’evidenza, secondo uno schema di piramide rovesciata al fine di: 1) ridurre la sintomatologia dolorosa 2) mantenere e migliorare la motilità articolare 3) migliorare la qualità della vita 4) limitare la progressione del danno articolare 5) informare il paziente sulla sua condizione. LA TERAPIA NON FARMACOLOGICA si avvale di presidi fisioterapici ed educazionali (la ginnastica aerobica senza torsioni del ginocchio; preparazione con potenziamento della muscolatura della coscia, idro-chinesiterapia, dieta, ortesi e/o ausilii). LA TERAPIA FARMACOLOGICA prevede in prima istanza l’impiego del paracetamolo (sino a 4g/die) (18); un rafforzamento degli effetti di questo farmaco si può ottenere con l’associazione di oppioidi, che però può comportare possibili effetti indesiderati. In caso di non responsività al paracetamolo si può ricorrere ai FANS (NSAID) non selettivi o selettivi della COX2 (19). Controversa l’utilità dell’impiego della glucosamina solfato e del condroitinsolfato nella OA, quali “Symptomatic Slow Acting Drugs for OA”, a cicli ripetuti durante l’anno (20, 21, 22). La terapia intrarticolare prevede due tipi di in- tAb 5 - moDALità Di tRAttAmENto PER oA DEL GiNoCCHio Non Farmacologica Farmacologica intra-articolare Chirurgica Educazione Paracetamolo Corticosteroidi Artroscopia Esercizio NSAID Acido ialuronico Osteotomia Solette Analgesici oppiacei UKR Apparecchiature ortotiche Ormoni sessuali TKR SYSADOA Spa NSAID topici Capsaicina topica Vitamine/Minerali EMF pulsata Ultrasuoni TENS Nutrienti 21 tervento: quello con i corticosteroidi, giustificata della presenza di sinovite acuta con versamento articolare e quella con acido ialuronico, che risponde all’esigenza di una “viscosupplementazione”. L’acido ialuronico agirebbe direttamente sui sinoviociti e condrociti con stimolo della sintesi dell’acido ialuronico endogeno da parte dei primi e stimolo della sintesi dei proteoglicani da parte dei condrociti; inibirebbe inoltre, gli enzimi condrolesivi. Altra importante azione dell’acido ialuronico sarebbe l’effetto “scavenger” sui radicali liberi, una azione sui leucociti (fagocitosi, chemiotassi), la modulazione dell’attività cellulare attraverso l’interazione con un recettore cellulare, in definitiva un’azione antiflogistica (23, 24, 25). Nella tabella 5 (pag. precedente) sono riassunte le mo- dalità di trattamento medico e chirurgico della gonoartrosi. Recenti contributi in letteratura segnalano altre molecole da utilizzare come “structure modyfing agents”, quale il Pharthenolide, che inibisce l’attivazione del processo infiammatorio mediato dall’IL-1, mediante l’inibizione di TNF alfa, delle MMP 1,3,9, e stimola la sintesi di collagene di tipo II e aggrecano nei condrociti umani in vitro (26). Una funzione analgesica nella OA manifesterebbe il TONEZUMAB, anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante diretto contro il NGF (Nerve Growth Factor) (27,28). Aperto il capitolo dell’impiego delle cellule staminali; la terapia chirurgica è l’estrema ratio in caso di insuccesso della terapia medica conservativa. bibLioGRAFiA 1) 2) 3) 22 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) Dieppe P et al. Osteoarthritis and related disorders. In Klippel JH, Dieppe PA. Rheumatology IV, 8.1 Ed Mosby 1998 Ferraccioli G et al. La clinica dell’osteoartrosi primaria. Reumatismo 2003;55,3 (Suppl 4):16-20 Sowars m. Epidemiology of risk factors for osteo-arthritis; systemicfactors. Curr Opin Rheumatol 2001;13:447-51 Felson Dt. The epidemiology of osteoartrosis: Results from the Framingham Osteoarthritis Study. Semin Arthritis Rheum 1990;20 (Suppl 1):42-50 Felson Dt The course of osteoarthritis and factors that affect it. Rheum Dis Clin North Am 1993; 19:607-15 Dougados m et al. Longitudinal radiologic evaluation of osteoarthritis of the knee J Rheumatol 1992:378-83 Spector tD et al. 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Una sera il collega primario radiologo di un vicino ospedale mi chiamò chiedendomi un favore; mi pregava di ricoverare un suo zio, al momento degente presso il reparto di chirurgia toracica di un ospedale di Roma, in quanto affetto da un avanzato cancro vertebrale, oramai definito non più curabile. Me lo chiedeva perché la famiglia del malato viveva nella nostra città e quindi poteva assistere il congiunto nei momenti conclusivi della sua vita e non era riuscito a trovare un altro letto libero nell’intero ospedale. Pur se dirigevo un Reparto di Malattie Infettive dove non era previsto il ricovero di malati neoplastici, aderii alla richiesta, disponendo di una stanza singola da poter temporaneamente utilizzare. La mattina successiva, accompagnato dal collega radiologo, suo nipote, si ricoverava il pa- ziente. Era un uomo di 59 anni, in condizioni generali non particolarmente compromesse, il quale da circa quattro mesi presentava una rachialgia a livello della regione dorsale, prima modesta poi sempre più intensa, tanto da rendere molto penosa la stazione eretta. Non presentava altra sintomatologia, salvo saltuaria febbricola, astenìa e modico dimagramento. Nell’anamnesi non risultavano patologie precedenti significative, salvo coliche renali ripetute per nefrolitiasi e, da alcuni anni, sintomi minzionali riferibili a iperplasia prostatica. Non vi erano mai stati traumi né interventi chirurgici. Era proprietario di una azienda vinicola e affermava di non essere mancato dal lavoro per malattia neppure un giorno. Tra le indagini di laboratorio recenti vi era solo una modica elevazione della VES. All’esame obiettivo, negativo per il torace e gli altri organi esaminati, si rilevava spiccato do- imPARARE DALLA CLiNiCA Augusto Vellucci Infettivologo 23 24 Percival Pott (1714-1788) lore alla pressione esercitata sul dorso, a livello della sesta-settima vertebra dorsale. Il collega mi sottopose tutte le radiografie effettuate nei precedenti mesi; lo studio radiografico della colonna, negativo all’inizio della sintomatologia dolorosa, dopo due mesi aveva evidenziato un processo distruttivo a carico della parte inferiore del corpo della sesta vertebra dorsale, vicino all’area del disco intervertebrale tra sesta e settima vertebra, con un quadro, a giudizio dei vari specialisti interpellati (oncologi, chirurghi toracici), da riferire a un processo neoplastico vertebrale. A conferma di tale interpretazione, il collega mi sottolineava il rilievo radiografico di una reazione della membrana periostale con neoformazione di una lamina ossea, sul bordo destro della vertebra alterata; e mi diceva che questo rilievo viene ritenuto un indicatore della aggressività del processo patologico sottostante. I radiologi, è sempre il collega che parla, definiscono l’aspetto radiografico di questa formazione come “triangolo di Codman”. Nell’ipotesi di una patologia metastatica, erano state effettuate numerose indagini di laboratorio e strumentali, che avevano evidenziato solo un calcolo in sede renale destra, qualche esito fibrocalcifico sottoclaveare nel polmone destro, e modico aumento di volume della prostata, senza rilevare alcun segno riferibile a un processo neoformativo a carico dei vari organi studiati. I tentativi ripetuti per effettuare una biopsia della regione vertebrale colpita non erano riusciti; l’ultima manovra era stata effettuata proprio il giorno prima, con un lungo ago introdotto posteriormente a livello della sesta-settima vertebra dorsale, ma senza esito. Facevo notare al collega che l’ultima radiografia portata in visione, effettuata due settimane prima, mostrava, oltre a una più estesa alterazione distruttiva del corpo della sesta vertebra dorsale, un evidente notevole interessamento del disco intervertebrale tra sesta e settima, che appariva quasi del tutto distrutto, e che il cosiddetto triangolo di Codman era aumentato di spessore e un po’ modificato di aspetto. Il processo spondilitico aveva insomma assunto un tipico quadro spondilo-discitico con periostite reattiva. Feci allora effettuare subito un ultimo controllo radiologico; la radiografia mostrava, sul lato destro della vertebra colpita, proprio all’altezza di quello che era stato interpretato come triangolo di Codman, la comparsa di un’ampia opacità paravertebrale, a contorno semilunare, riferibile a raccolta liquida; si confermava l’assenza di alterazioni in atto a carico dell’ apparato pleuro-polmonare. Dinnanzi a un quadro patologico su riferito, la diagnosi di neoplasia vertebrale appariva realmente convincente? A parte le condizioni generali del paziente, ancora discrete, eravamo sì di fronte a un processo distruttivo del corpo della sesta vertebra dorsale, ma con chiaro interessamento del disco sottostante e, ora, con formazione di una raccolta paravertebrale liquida; insomma era un quadro tipico di una spondilo-discite infettiva ascessualizzata. Questa patologia colpisce le vertebre e i dischi intervertebrali e può estendersi ai tessuti vicini sia infiltrando le strutture poste anteriormente alla colonna, sia posteriormente comprimendo il midollo o le radici dei nervi spinali. E nel nostro caso era ora evidente la formazione liquida paravertebrale di tipo ascessuale. Ricordai allora al collega radiologo che nel 1756 un chirurgo inglese dell’ospedale St. Bartholomew di Londra, il dott. Percival Pott, mentre cavalcava sulla Old Kent Road di Londra, cadde e si fratturò un femore in più parti. Fu bravo a rifiutare l’amputazione dell’arto leso, che a quel tempo veniva proposta per le fratture gravi esposte, ma che era molto pericolosa (facilmente insorgevano infezioni e si aveva un esito letale), e trascorse una lunga convalescenza scrivendo, tra l’altro, un articolo sulla patologia ossea causante paralisi alla metà inferiore del corpo (“Remarks on that kind of palsy of the lower limbs” ). In esso Pott, riferendo il caso di un ragazzo quattordicenne figlio di una famiglia amica che presentava una vera gobba per lesione vertebrale, descrisse esattamente quella che chiamò “artrite tubercolare delle vertebre” e che da allora è universalmente nota come morbo di Pott. E ricordavo al collega che la malattia è spesso riferita anche nella migliore letteratura classica, con molti famosi esempi di questo morbo, come la “gobba” che Victor Hugo attribuisce a Quasimodo (”hunchback”) di Notre Dame, ritenuta da causa tubercolare, e come la morte del dott. Rank, caro amico di Nora, la protagonista, per “consunzione tubercolare della colonna” nella “Casa di Bambola” di Henrik Ibsen. Insomma una malattia ben nota, anche se ai nostri giorni meno diffusa che in passato. Il morbo di Pott è una spondilite tubercolare localizzata più frequentemente nella porzione toracica della colonna vertebrale; inizia abitualmente nel corpo vertebrale colpito, vicino all’area del disco; ma questo poi viene sempre interessato, determinando appunto una spondilo-discite, esattamente come il caso in esame. Gli esami radiografici hanno ben evidenziato tale comportamento nel nostro malato: questa osservazione doveva orientare verso una diagnosi più corretta, dato che i tumori vertebrali raramente interessano il disco intervertebrale (“tumors of the spine rarely cross the disk spine” - Harrison’s Internal Medicine). E nel Pott, intensificandosi l’infezione tubercolare, nella sede della lesione si produce un vero e proprio ascesso, costituito da materiale denso e caseoso, ricco di micobatteri; proprio quello che è comparso chiarissimo nell’ultimo controllo radiografico. Poiché i rilievi erano stati fatti in presenza degli aiuti e degli assistenti del mio Reparto, preferii andare a esporre le mie conclusioni al collega radiologo nel mio studio privato. E allora dissi chiaramente che la malattia del soggetto in esame non mostrava caratteristiche tumorali e che la diagnosi da porre era quella appunto di spondilite tubercolare dorsale, o morbo di Pott. Facevo anche notare che il paziente aveva già sofferto di un’infezione tubercolare, come rivelava il reperto radiografico di esiti fibrocalcifici sottoclaveari nel polmone destro, visti all’esame radiografico del torace. E aggiungevo che, come avviene spesso, l’ascesso che si era formato poteva migrare verso zone declivi e verso gli spazi intercostali adiacenti. Non dovevamo dimenticare che era stato messo in atto, proprio la sera prima, il tentativo di una biopsia a livello della lesione inserendo più volte un lungo ago a livello degli spazi circostanti la vertebra colpita, senza riuscire a effettuare il prelievo, ma con ogni probabilità determinando qualche apertura a eventuali migrazioni dell’ascesso. La mia diagnosi era definitiva e proposi al collega di iniziare subito la terapia antitubercolare. Ovviamente questa decisione non poteva essere facilmente accettata; erano due mesi che il paziente veniva trattato come un soggetto affetto da tumore, con la conferma di altri medici, sia oncologi che chirurghi toracici. Ascessi freddi: vie anatomiche di clivaggio Ago-tC: tentativo di biopsia (da C. Salfi - Codivilla Putti- Cortina d’Ampezzo) 25 A questo punto, il collega chiedeva una qualche conferma oggettiva. Dopo circa 15 minuti trascorsi nel mio studio, sentimmo bussare decisamente alla porta; era un mio assistente che riferiva che il paziente stava urlando per un dolore violento, comparso all’improvviso, diffuso a tutto l’emitorace destro, che gli rendeva penosa la respirazione profonda. Corremmo dal malato e, all’esame obiettivo, rilevai una completa ottusità su tutto l’emitorace destro, che ore prima era perfettamente normale alla visita e anche all’ esame radiografico. Era comparso un versamento pleurico massivo, evidentemente derivato dall’ascesso paravertebrale, diffusosi negli spazi intercostali e, come ipotizzato, favorito dalla puntura della sera prima che aveva facilitato la migrazione; la radiografia confermava una completa opacità all’emitorace destro. Ora potevamo avere la richiesta “conferma oggettiva”. Una puntura pleurica, subito effettuata, faceva raccogliere una gran quantità di liquido opa26 Liquido pleurico ad aspetto caseoso (da Carvalho: Sondalo 2008) co, biancastro, caseoso. All’esame microscopico il liquido pleurico estratto era ricco di micobatteri, positivi alla colorazione di Ziehl-Neelsen, proprio quelli tubercolari scoperti dal dott Robert Koch alla fine del 1800. micobatteri colorati al ZiehlNeelsen Robert Koch 1843-1910 La diagnosi era ormai sicura; la terapia antitubercolare subito iniziata e condotta in modo corretto, associata ai necessari provvedimenti ortopedici di immobilizzazione e scarico della colonna vertebrale, hanno permesso di ottenere, in alcuni mesi, una completa guarigione. Il paziente mi chiese di conoscere la storia del dottor Pott, che evidentemente aveva contribuito alla sua guarigione; e da allora, nell’anniversario del ricovero presso il nostro reparto, ci inviava qualche bottiglia del miglior vino della sua azienda per berlo in ricordo di Sir Percival Pott, chirurgo inglese del XVIII secolo. il prof. Augusto Vellucci è il responsabile del servizio Check-up della bioS S.p.A. di via D. Chelini, 39. il Servizio è articolato in molteplici protocolli diagnostici mirati ad un efficace controllo dello stato di salute. iNFo CUP 06 809641 Ricercatori dello University College di Londra hanno ridotto la motilità di alcuni volontari facendoli muovere al “rallentatore”. Ciò grazie ad elettrodi posti sul capo che hanno incrementato nel cervello la produzione di onde β, prodotte quando si è rilassati (le onde α correlano con lo stato di veglia). Studio utile per il morbo di Parkinson? AnoSSIA E AnGIoGEnESI L’anossia (la Natura “cura se stessa”) favorisce la liberazione compensatoria di fattori angiogenici nel miocardio e nell’encefalo. Ma diminuisce NO (ossido nitrico) e la trombomodulina, mentre stimola l’adesività piastrinica e la trombosi. I dAnnI dELLo ZUcchERo Tra i numerosi danni arrecati alla salute dall’iperglicemia vi è anche da considerare che essa stimola la produzione di endotelina, potente vasocostrittore prodotto dall’endotelio alterato. TonSILLITI nELL’InFAnZIA Sono molto più frequenti rispetto alle età successive poiché le tonsille, avendo il bambino un sistema immunitario immaturo, in questa età producono un ridotto quantitativo di anticorpi. Tonsillectomia al bisogno per prevenire la malattia reumatica. AnEURISMI dELL’AoRTA AddoMInALE Il dolore, dovuto a erosione vertebrale, o a compressione delle radici nervose o a ostruzione dell’uretere, ha la caratteristica di modificarsi con i cambi di posizione. dUISbURG, 21 MoRTI: Un AVVERTIMEnTo “Mio figlio beve negli ultimi tre giorni della settimana, si ubriaca, vomita, fa l’alba in discoteca” si lamentano padri e madri. Ma spesso con un atteggiamento rinunciatario. Chi è genitore non si deve rassegnare dicendo “fanno tutti così”. Al di là delle responsabilità di chi doveva provvedere a un regolare afflusso dei partecipanti a Duisburg, in Germania, il grave problema di fondo di questi “rave party” - all’aperto o in discoteca - è che costituiscono un esplicito invito all’alcol, al fumo, alle droghe e problemi connessi. Ne è compromesso l’armonico sviluppo dei ragazzi che, non avendo il coraggio della propria identità, si nascondono nel gruppo e non pensano al loro domani. Il futuro, buco nero dei giovani. E se poi cominciassimo a pensare a una probabile connessione fra aumento della percentuale degli studenti rimandati o bocciati e il progressivo dilagare di questi incontri, con i conseguenti danni cerebrali? è forse arrivato il momento di valutare a fondo e in modo risolutivo il “problema discoteche”. PREMATURI nATI SoTToPoESo Presentano maggior rischio di complicanze a lungo termine, anche in età adulta: bassa statura, patologia cardiovascolare, insulino-resistenza, diabete tipo 2, dislipidemia, patologia renale. è anche stata descritta diminuzione del livello intellettivo. La cura con l’ormone della crescita (GH) sulla sviluppo intellettivo e cognitivo ha scarsa efficacia nei bambini, mentre invece si è rivelata utile nell’adulto. Per lo sviluppo psicomotorio di questi bambini rimangono determinanti i fattori psico-sociali e genetici: in particolare l’ambiente familiare e scolastico, l’intelligenza dei genitori, la condizione socio-economica. mixiNG ELETTRodI nEL PARkInSon? 27 dIGIUno E cALcoLoSI bILIARE 28 Ogniqualvolta durante un pasto lo stomaco viene disteso dall’arrivo del cibo, si verifica contemporaneamente una contrazione della colecisti con il preciso scopo di far affluire nell’intestino la bile, indispensabile per un’ottimale digestione specie dei grassi. Nella bile, soluzione soprasatura molto complessa, sono presenti colesterolo e acido bilirubinico, insolubili in acqua e sali biliari con spiccata azione solvente. I tre tradizionali pasti - colazione, pranzo, cena - sono pertanto accompagnati dallo svuotamento della cistifellea. Se viene saltato un pasto, si verifica stasi biliare nella stessa, stasi che favorisce la precipitazione delle sostanze insolubili. Educazione alimentare: la pessima abitudine molto diffusa (dato trascurato dalla letteratura internazionale!) di non fare la prima colazione va assolutamente corretta poiché, in questo caso - specie se coesiste una ipotonia colecistica di base la cistifellea, repleta, rimane immobile per circa 18 - 20 ore. Facile al formazione dei calcoli. MIcRobIoTA InTESTInALE Ecosistema complesso che interagisce con la mucosa intestinale e il suo tessuto linfatico, realizzando un’utile simbiosi. è composto da un elevatissimo numero di microrganismi che pesano circa un chilo e mezzo e costituiscono il 60% delle feci. SIndRoME dEL Lobo FRonTALE Quadro psicologico complesso e variabile, con turbe dell’attenzione e della volontà: rallentamento psicomotorio, indifferenza affettiva, superficialità critica, disinteresse del proprio pensiero. oRESSIZAnTI Cosiddetti dal greco ορεξις (appetito) in quanto stimolano il senso della fame. Comprendono numerose sostanze. Neuropeptide Y, potente oressizante, espresso dall’ipotalamo: il suo rilascio è controllato dal calo della leptina e dell’insulina, e dall’aumento dei glicocorticoidi. “Agouti-related peptide”: prodotto dall’ipotalamo, viene liberato dal digiuno e dal calo della leptina. Grelina o “ormone della fame”, unico peptide oressizante rilasciato dal tubo gastroenterico: aumenta nel digiuno e nell’anoressia, diminuisce dopo i pasti e nell’obesità. Ormone melanocortinico, espresso dall’ipotalamo. Orexine A e B: prodotte dall’ipotalamo, dalla mucosa gastroenterica e dal pancreas, sono liberate a seguito di ipoglicemia, del digiuno e dell’insulina. Oppioidi endogeni: sintetizzati dall’ipotalamo, sono correlati con il gusto e con il piacere fornito dal cibo. Endocannabinoidi, prodotti dll’ipotalamo e dal tubo gastroenterico. Adiponectina: secreta dal tessuto adiposo, aumenta nel digiuno e nel dimagramento. oMEoSTASI PondERALE è conservata se vi è equilibrio fra oressizanti e anoressizanti. a cura del prof. Alessandro ciammaichella Medico internista cevano le cure anti-cancro, infatti, alle donne potrebbero essere prelevati gli ovociti, per poi impiantarli nell'ovaia "esterna". 2) Prospettive incoraggianti per la terapia genica Terapia genica per trattare la beta-talassemia. http://www.nature.com/nature/journal/v467/n 7313/pdf/nature09328.pdf La beta talassemia è una malattia ereditaria tra le più diffuse e dipende da un difetto genetico che porta a insufficiente produzione dell'emoglobina, la molecola che è presente nei globuli rossi del sangue e che trasporta l'ossigeno nell’organismo. In uno studio pubblicato sul Journal of Assisted Reproduction and Genetics i ricercatori della Brown University di Rhode Island, USA, guidati dalla dottoressa Sandra Carson, hanno descritto una tecnica di ingegneria dei tessuti tridimensionale, utilizzando cellule di donne di età fertile. Per la prima volta al mondo questi scienziati hanno creato in laboratorio un'ovaia artificiale in grado di funzionare esattamente come quella umana. L'ovaia artificiale può accogliere gli ovociti ancora immaturi fino a che siano pronti per essere depositati nel grembo materno. Questa nuova tecnica permetterà alle donne che devono subire pesanti cure chemioterapiche, che danneggeranno l'apparato riproduttivo, di aprire nuove possibilità al concepimento. Prima che ri- Nella rivista Nature sono stati pubblicati i risultati di uno studio effettuato presso l’Università di Parigi dal gruppo di ricerca della dottoressa Marina Cavazzana Calvo in collaborazione con il gruppo del dr Philippe Leboulch del Brigham & Women's Hospital e Harvard Medical School di Boston, USA. In questo studio il primo malato di beta-talassemia è stato trattato con successo con una terapia FRom bENCH to bEDSiDE 1) Un’ovaia artificiale per ovociti immaturi con tecniche di ingegneria dei tessuti è prodotta in laboratorio un’ovaia artificiale in grado di accogliere ovociti ancora immaturi. http://www.springerlink.com/content/9t612k8 8w3263g1/fulltext.pdf 29 genica introducendo la versione normale del gene responsabile della malattia (il gene per la molecola 'beta-globulina”). Il paziente, che prima poteva sopravvivere solo grazie a trasfusioni mensili, non ha avuto più bisogno di tali trattamenti. I ricercatori hanno prelevato cellule staminali del sangue del paziente e corretto il difetto genetico che causa la malattia con la terapia genica, per poi reiniettare le cellule corrette nel malato. Il gene sano, introdotto nel DNA delle staminali con un vettore virale, ha permesso all'uomo di produrre da sé quantità sufficienti di emoglobina sana e quindi di non essere piu' dipendente, ormai già da 21 mesi, dalle trasfusioni. 3) nuove idee per la vitamina b Vitamina b contro l'Alzheimer. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2935890/pdf/pone.0012244.pdf 30 Alcuni ricercatori norvegesi dell’Institute of Basic Medical Sciences, dell’Università di Oslo, in collaborazione con ricercatori dell’Università di Oxford, hanno studiato come l'assunzione giornaliera di vitamina B abbia un effetto protettivo sulla struttura cerebrale. La vitamina B potrebbe proteggere dall'Alzheimer le persone anziane con un deficit di memoria non particolarmente grave. Sembra, infatti, che possa ritardare la naturale lenta corrosione del cervello. La vitamina B aiuta infatti a decomporre l'amminoacido omocisteina che, se presente in dosi eccessive, danneggia i vasi sanguigni e favorisce la demenza senile. A questa ricerca hanno partecipato 168 volontari di età superiore ai 70 anni con sintomi di MCI (mild cognitive impairment), ossia in uno stadio preliminare di demenza senile. Per due anni hanno assunto una dose discreta di vitamina B6 e B12 oppure un placebo. L'assunzione di vitamina B ha limitato in media del 30% la riduzione delle funzioni cerebrali dovute all'invecchiamento. 4) cellule staminali premiate Premio internazionale ad una ricercatrice italiana. http://www.stemcells.com/view/0/VirtualIssues.html#yia http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/st em.293/pdf La dottoressa Cinzia Rota dell'Instituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo ha ricevuto il 2 ottobre 2010 a Seoul, durante il Simposio Internazionale sulle cellule staminali, lo Stem Cells-Young investigator Award 2010. Ad assegnarlo ogni anno è la rivista scientifica 'Stem Cells', per premiare un giovane ricercatore che, come autore principale, abbia pubblicato un articolo giudicato rilevante dalla giuria editoriale, nel campo delle cellule staminali e della medicina rigenerativa. Il lavoro vincitore, pubblicato a marzo su 'Stem Cells', è stato condotto dai ricercatori dell'Istituto Mario Negri di Bergamo in collaborazione con la Fondazione IRCCS Policlinico di Milano e con il Laboratorio di Terapia Cellulare 'G. Lanzani' dell'Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo. Lo studio stabilisce per la prima volta che cellule staminali mesenchimali isolate dal sangue del cordone ombelicale sono in grado di riparare il dan- 31 cellule staminali mesenchimali murine, da tessuto adiposo, in coltura fotografate da M. G. Valorani no acuto del rene in topi trattati con il farmaco antitumorale cisplatino, e di ripristinare la normale funzione renale prolungando la durata della vita. Queste ricerche condotte nel topo hanno implicazioni pratiche e, se saranno in futuro confermate nell’uomo, le staminali mesenchimali del cordone ombelicale potranno aiutare a curare i pazienti con insufficienza renale acuta e contribuire a riparare altri organi riducendo la necessità di trapianto. 5) Prevenzione dell'influenza per la stagione 2010-2011 comunicato stampa del Ministero della Salute. http://www.salute.gov.it/dettaglio/phPrimoPianonew.jsp?id=285 La vaccinazione antinfluenzale rappresenta un mezzo efficace e sicuro per prevenire l’influenza e le sue complicanze. Il Ministro della Salute Ferruccio Fazio ha emanato la circolare con le raccomanda- zioni per la prevenzione dell’influenza stagionale 2010-2011 che tengono conto dell’attuale livello di allerta pandemica per il virus AH1N1. La campagna di vaccinazione stagionale, che inizia ad ottobre, è promossa dal Servizio Sanitario Nazionale ed è rivolta principalmente ai soggetti classificati e individuati a rischio di complicanze severe, e a volte letali, in caso contraggano l’influenza e alle persone non a rischio che svolgano attività di particolare valenza sociale. L’offerta di vaccino a queste categorie è gratuita e attiva da parte delle Regioni e Province Autonome. L’elenco delle categorie alle quali offrire prioritariamente la vaccinazione, le altre misure preventive nei confronti dell’infezione, insieme ad ulteriori informazioni e alle indicazioni per la sorveglianza delle sindromi simil-influenzali e dei virus influenzali circolanti nel nostro Paese, sono visionabili nella circolare del 29 luglio 2010. a cura della dott.ssa Maria Giuditta Valorani Postdoctoral Research Assistant 32 HANNo CoLLAboRAto iN qUESto NUmERo Dott.ssa Alessandra Lo Presti Biotecnologa Prof. Massimiliano Rocchietti March Dirigente medico Endocrinologo - Andrologo Prof. Lelio R. Zorzin Medico Chirurgo specialista in Reumatologia già Docente Università La Sapienza di Roma Dott.ssa Silvana Francipane Medico Chirurgo Dr.ssa Maria Giuditta Valorani Postdoctoral Research Assistant Blizard Institute of Cell and Molecular Science, Queen Mary University of London - GB Prof. Giuseppe Luzi Immunologo Clinico Prof. associato di Medicina Interna Prof. Augusto Vellucci Specialista in Malattie Infettive Medico Responsabile del Servizio Check-Up BIOS S.p.A. Prof. Alessandro ciammaichella già Primario Medico Ospedaliero La nuova alternativa al dolore muscolo-scheletrico FATTORI DI CRESCITA GEL PIASTRINICO INFO: CUP BIOS S.P.A. 06 809641 La Bios S.p.A. di Via D. Chelini, 39, nell’ambito delle sezioni di Ortopedia, Traumatologia e Medicina dello Sport ha istituito un’area dedicata esclusivamente alla nuova metodica denominata “Fattori di Crescita”. Questa terapia innovativa apre nuove prospettive di guarigione per migliaia di persone che soffrono di problemi ortopedici. Inizialmente usata quasi esclusivamente nello sport professionistico, adesso viene utilizzata anche da atleti di livello amatoriale e da tutti coloro che soffrono di patologie di tipo traumatiche-infiammatorie dei tendini e dell’apparato osseo e muscolare. Questa nuova metodica consiste nel prelievo di una piccola quantità di sangue del paziente, dal quale si ricava plasma arricchito di piastrine. Le piastrine, cellule ricche di fattori di crescita contribuiscono attivamente alla riparazione delle lesioni attraverso la rigenerazione cellulare. In cosa consiste il trattamento con fattori di crescita ? Sostanzialmente nell’iniezione nella zona interessata di plasma arricchito di piastrine ottenuto attraverso centrifugazione del sangue del paziente. Le piastrine attivate ed iniettate rilasciano i fattori di crescita a livello della lesione stimolando così il processo di guarigione. I fattori di crescita hanno azione antinfiammatoria,analgesica, osteorigenerativa e angiogenetica. Il trattamento è assolutamente innocuo e privo di effetti collaterali. Quando va eseguito ? Dopo aver provato, senza successo i normali trattamenti non invasivi, certamente, prima di un eventuale intervento chirurgico. Quanti trattamenti occorrono ? La terapia varia a seconda della patologia da trattare e va da una a più applicazioni. Quali sono le patologie interessate ? ➔ artrosi e altre lesioni della cartilagine (osteocondriti, etc.) ➔ pseudoartrosi, ritardo di consolidamento osseo ➔ tendiniti acute e croniche (spalla, gomito, polso, ginocchio, piede) ➔ lesioni e traumi muscolari (strappi, stiramenti, etc.) ➔ pubalgie (tendinopatia dei muscoli addominali e adduttori della coscia) ➔ primo stadio di artrosi del ginocchio e dell'anca ➔ esiti dolorosi di artroscopia di spalla e di ginocchio ➔ periartrite scapolo-omerale (infiammazione di uno o più tendini della spalla) L’impiego dei fattori di crescita, è comunque ormai esteso a diversi campi della medicina: chirurgia ortopedica, chirurgia plastica, chirurgia otorinolaringoiatrica, chirurgia maxillofacciale, implantologia, chirurgia generale, neurochirurgia, urologia, chirurgia vascolare maggiore e cardio toracica, oftalmologia, guarigione delle ulcere cutanee. Come avviene il trattamento: La procedura viene eseguita, con la collaborazione dei medici del centro trasfusionale del Santo Spirito, in assoluta trasparenza davanti al paziente in regime ambulatoriale. Si articola in varie fasi: ➔ visita preliminare ➔ consulenza medico centro trasfusionale ➔ prelievo del sangue venoso ➔ centrifugazione ➔ estrazione del plasma ricco di piastrine ➔ anestesia locale ➔ iniezione del concentrato piastrinico ➔ medicazione