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di informazione dobbiamo dare al consumatore.
Se il prodotto finale fosse etichettato
sulla base delle materie prime semplicemente con la dizione « le cui conseguenze
sulla natura umana non sono ancora accertate », probabilmente rimarrebbe nelle
fabbriche perché la sensibilità salutistica è
molto diffusa. Si può quindi consentire di
brevettare, purché l’informazione data al
consumatore sia completa. In quel caso allora molti vedrebbero cambiare il campo
di ricerca. Ciò che guida tutte le scelte è la
massimizzazione del profitto, che è condannabile non di per sé ma quando gli effetti in questo caso sulla salute umana e
sull’ambiente possono essere devastanti.
Informate su questo il consumatore, e vedrete che vigerà un’altra legge aurea dell’economia: mentre la moneta cattiva
schiacciava la buona, qui il prodotto cattivo schiaccerà il buono ma solo per nicchie; poi, alla fine, si affermerà, lo valorizzerà sempre di più. Oggi i prodotti biologici hanno ancora una nicchia di mercato,
ma più si diffondono questi strani prodotti
– strani tra virgolette, perché se ne possono trovare di buoni anche a più basso
prezzo – quello che preoccupa è la garanzia che possiamo offrire al consumatore e
chi la deve dare. Non si amano infatti i
controlli da parte delle università; si dice
che è il consorzio che produce quel prodotto che accerta che abbia quelle caratteristiche. Qui siamo fermi alle DOP e alle
IGP, in quanto a certificazione. È questo
per noi il problema più delicato.
Vi ringrazio, perché innanzitutto ho
appreso tante cose che prima non sapevo;
da economista vedo con distorsione questo
fatto, anche se questo lo condivido in
pieno, è un fatto etico che va tenuto in
grande considerazione per non compromettere la salute delle generazioni successive. Al di là della domanda e dell’offerta,
c’è un fatto legato molto alla coscienza di
chi fa ricerca; non penso che quando
Fermi e i suoi collaboratori, in una via qui
vicino, hanno posto le basi per la costruzione della bomba atomica pensassero che
la loro scoperta avrebbe potuto provocare
quel disastro umano che ha provocato,
però è certo che bisogna tenerne grandemente conto.
Secondo me non serve stabilire divieti
che non abbiano poi applicabilità, stabilire
condizioni, come ho sentito dire oggi in
quest’aula, alla quale mi permetta, presidente, di suggerire che il Comitato di bioetica andrebbe rinnovato annualmente, almeno in una parte dei suoi componenti,
anche per dare un contributo di conoscenze aggiuntive.
PRESIDENTE. Ne terremo conto.
CARMINE NARDONE. Mi associo innanzitutto alle considerazioni dell’onorevole Prestamburgo sull’esigenza di rinnovare al più presto il Comitato di bioetica,
adeguandolo ai nuovi compiti, anche dal
punto di vista delle discipline e dell’attualità degli argomenti in discussione e probabilmente anche la temporalizzazione
dell’incarico, per esempio annuale, potrebbe rappresentare un sistema in grado
di rinnovare celermente certi organismi.
Detto questo, signor presidente, devo
svolgere un intervento insolito, perché
sono stato incaricato dalla collega Procacci, che non può essere presente in questa occasione, di formulare a suo nome alcune domande ai nostri ospiti. Porrò
quindi prima le domande dell’onorevole
Procacci...
PRESIDENTE. Tenga presente che non
è una procedura prevista, ma comunque
l’autorizziamo in via straordinaria !
CARMINE NARDONE. La ringrazio,
presidente.
In primo luogo, l’onorevole Procacci
vorrebbe chiedere ai nostri interlocutori
perché l’Unione europea, e con quale valenza scientifica, abbia detto sì alla soia e
al mais transgenici, e quali motivazioni
siano state addotte a supporto di questa
scelta.
Il secondo problema è quello dell’etichettatura: è questa una domanda « transgenica » tra un quesito mio e uno dell’onorevole Procacci, perché io aggiungo:
quale valutazione fornite di una proposta
di etichettatura che è particolarmente sol-
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lecitata e sono personalmente convinto –
però vorrei ascoltare la vostra opinione –
dell’esigenza di un’etichettatura non soltanto degli organismi geneticamente modificati ma generale, di tutti i prodotti naturali, anche non modificati; si potrebbe determinare infatti un’opportunità di scelta
ancora maggiore da parte dei consumatori, che potrebbero optare. Sarebbe un
rafforzativo anche dei prodotti non geneticamente modificati, per dare un’opzione
di scelta più chiara ai consumatori.
La terza domanda concerne il rapporto
con il Terzo mondo e la « rapina » dei geni,
vale a dire quali problemi possono essere
indotti.
Per quanto mi riguarda, sarò brevissimo. Vorrei una vostra valutazione su un
dato: esaminando queste nuove tecnologie
sotto il profilo della sostenibilità generale
e anche intertemporale dello sviluppo,
emergono degli elementi in qualche modo
inediti da valutare. Uno dei punti di valutazione è innanzitutto che tra benefici e
danni – non so se definirli in un altro
modo, forse effetti collaterali negativi – si
notano due aspetti. Il primo è che i benefici sono immediati, in termini temporali,
e fanno riferimento esclusivamente a beni
di mercato; sono quindi beni economici
immediati. I danni fanno riferimento per
lo più a beni non ancora considerati economici – primo problema – e inoltre –
secondo problema – sono posticipati nel
tempo; c’è una divaricazione tra i possibili
effetti dell’uso del diserbante accoppiato
alla soia in termini di desertificazione ed
erosione dei suoli. Il degrado di quella risorsa si verificherà posticipato nel tempo.
Naturalmente, c’è un ulteriore problema,
perché si privatizzano gli utili immediatamente e si posticipano – e a danno della
collettività e della sostenibilità generale – i
danni. Si tratta di un elemento di valutazione, e credo che nella valutazione delle
norme e delle regole per le condizioni di
uso e di sicurezza – e lo spirito di questa
Commissione anche nel rapporto tra
scienza e tecnologia è esattamente in questo senso e stiamo cercando di approfondire degli aspetti – in generale, anche in
rapporto alla nuova sfera dei diritti, che
vengono chiamati di terza e quarta generazione, dove insieme ai diritti ambientali
o altro c’è anche il diritto di conservare risorse non riproducibili per le future generazioni, un’estensione del campo dello
stato di diritto alle future generazioni.
Quindi, vorrei una valutazione della tecnologia e delle norme non soltanto nell’immediato, per sapere come possano diventare strumenti adeguati di sostenibilità
generale.
Avete posto inoltre il problema di una
sollecitazione nei confronti del Parlamento
europeo per la scadenza che è prossima. I
tempi dell’indagine conoscitiva che stiamo
svolgendo probabilmente non coincidono
con quelli del Parlamento europeo, e
quindi la vostra sollecitazione l’accolgo
personalmente senza esitazioni ed invito
anche la presidenza della Commissione e
la Commissione stessa a pronunciarsi in
tempi rapidi, prima di questa scadenza,
ma la conclusione dell’indagine è prevista
per la fine di luglio. Il documento conclusivo sarà predisposto e discusso dopo tale
scadenza. Però, considerando la rilevanza
del problema, credo che si potrebbe procedere ad una sollecitazione nei confronti
della Presidenza della Camera e del Governo italiano perché informino il Parlamento europeo che c’è un Parlamento nazionale che sta approfondendo questo
tema, chiedendo un rinvio della decisione;
credo che un’iniziativa di questo genere da
parte di un’istituzione italiana potrebbe
essere utile. Sul piano politico posso dire
di sollecitare in questa direzione.
PRESIDENTE. Valuteremo in sede di
ufficio di presidenza se noi, nel frattempo,
possiamo predisporre una risoluzione, che
forse non sarebbe incompatibile con l’indagine conoscitiva. Potremmo quindi
esprimerci « a stralcio », prima della conclusione dell’indagine, comunicando che
stiamo svolgendo questo lavoro.
È probabile inoltre che nella seduta
dell’8 luglio, quindi prima della decisione,
la Commissione ascolterà l’onorevole Tamino, europarlamentare membro della
Commissione europea che si occupa di
questo tema; se darà la sua disponibilità,
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avremo l’opportunità di ascoltarlo prima e
si potrebbe tentare, in un’altra seduta
della Commissione, di predisporre una risoluzione per chiedere una sospensione.
FORTUNATO ALOI. Ho ascoltato gli
interventi dei nostri ospiti e certamente
hanno sottolineato il fatto che nel passaggio dalla scienza alla tecnologia indubbiamente ci sono dei rischi. Questa mattina,
nella precedente audizione, ho citato un
filosofo della scienza che affermava che la
scienza non si mette ai voti. Certamente
c’è l’esigenza che ampi settori vadano individuati e quindi di riuscire a cogliere
quanto può servire all’uomo. È questo il
senso del discorso. La tecnologia può essere un’applicazione, negativa o positiva, a
seconda delle finalità cui guarda.
Nei giorni scorsi e questa mattina è
emersa la problematica relativa al ruolo
delle multinazionali; è stato detto che, in
fondo, i brevetti sono sempre legati alla logica dell’impresa. Riuscire a brevettare un
gene – di questo abbiamo parlato nei
giorni scorsi – è un adempimento che ha a
monte una ricerca e anche un investimento. Di qui l’innesto delle multinazionali; nella misura in cui i vari organismi
che si muovono in questo senso o i ricercatori non riuscissero a brevettare un
gene. Questa mattina, nella precedente audizione, tutto il distinguo è stato tra invenzioni e scoperte; è questa l’eterna questione, anche se io ho posto un problema
che credo abbia fatto riflettere parlando di
una zona grigia laddove non si sa se si
tratti di invenzione o di scoperta. È un
dato importante: ci sono – ripeto – delle
zone grige che oggi potrebbero sembrare
invenzione ma poi domani, alla luce delle
conquiste scientifiche, potrebbero essere
definite scoperte. Mi muovo in nome del
relativismo della scienza.
Le multinazionali non mi sono simpatiche, tutt’altro; appartengo ad una cultura
e ad una filosofia che certamente non è
nella logica delle multinazionali, che non
fanno nulla per nulla. Infatti, se a valle
non c’è un risultato, se il rapporto costoricavo non è a favore di quest’ultimo, la
multinazionale non si muove.
Non vorrei che frenassimo, proprio per
una forma direi aprioristica di rifiuto
della logica delle multinazionali, il processo della scienza, che effettivamente
però può tradursi in tecnologie non sempre rivolte verso obiettivi che vadano in
direzione dell’uomo. Questa è la mia
prima domanda legata ad una preoccupazione ideologica, e non politica. In sostanza, rispetto alle posizioni aprioristiche,
potrebbe emergere un’altra domanda: in
che misura possiamo operare in maniera
tale da regolamentare, anche a livello delle
grandi lobby che si muovono sul piano internazionale, la possibilità che la tecnologia non vada contro l’uomo ? Nei giorni
scorsi, ci è stato fatto un esempio che non
conoscevo, perché personalmente mi occupo di filosofia e quello delle biotecnologie è per me un campo nuovo che mi sta
affascinando; l’esempio è quello del mais,
per il quale uno scienziato che abbiamo
ascoltato alcuni giorni fa in questa sede ci
ha fatto notare che in fondo il cereale che
oggi abbiamo è il prodotto dell’azione dell’uomo, anche in termini di biotecnologie,
dell’uomo perché il prodotto naturale è
piccolo, brutto e nero. In fondo, oggi abbiamo un certo prodotto perché l’uomo,
nel corso della storia, è riuscito con la sua
azione ad avere un certo risultato: quindi,
per tale ragione, abbiamo il mais bello e
lucido che vogliamo.
Questo è un elemento che dimostra che
non sempre tutto ciò che esiste in natura
non è migliorabile per l’uomo: parto comunque dal presupposto che natura non
facit saltus, anche perché si può forzare la
natura ma essa poi si vendica. L’onorevole
Prestamburgo ricordava il dramma di
Fermi, nel momento in cui si rese conto di
ciò che avrebbe prodotto la scissione dell’atomo ed io ricordo quello che disse uno
scienziato tedesco della scuola di Gottinga,
in relazione a quei possibili effetti: che Dio
salvi l’uomo ! Voglio dire che siamo di
fronte a qualcosa che ci crea forti preoccupazioni, perché il discorso riguarda
l’uomo. Stamattina è emerso che le questioni che stiamo affrontando attengono
appunto all’uomo, a parte il discorso etico
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e morale: al riguardo, sono hegeliano e sostengo che l’etica individuale si chiama
morale e che la morale sociale si chiama
etica.
La questione riguarda l’uomo non solo
dal punto di vista biogenetico; in proposito, potrei chiamare in causa la grande
intuizione – consentitemi questo passaggio
culturale – di Platone che stabiliva il rapporto conoscenza uguale reminescenza;
sembrava comunque che attraverso i geni
si trasmettesse l’intelligenza, mentre gli ultimi risultati della biogenetica indicano
che si trasmette anche la memoria. È un
fatto che certamente finisce per determinare in natura una forma di classismo che
porta me, che non ho avuto un antenato
capace di acquisire nozioni da trasmettere,
in una posizione di subalternità rispetto
ad altri; ma è solo una battuta. Queste
provocazioni sono importanti perché riguardano l’uomo e soprattutto quella che
secondo me è una questione estremamente
importante, la libertà dell’uomo.
Ma è emersa anche un’altra questione:
solo l’uomo ? E le piante non hanno sensibilità ? Si parlava del dolore e va dunque
tenuta presente la possibilità che una
pianta, subendo un vulnus, avverta uno
stato di sofferenza. Non sappiamo, comunque, cosa succederà domani: ho ricordato
un mio vecchio professore, uno scienziato
della botanica che aveva un colloquio continuo con le piante; cose bellissime, poesia,
ma con una serie di implicazioni che vi
sottopongo. Parto, ad ogni modo, dal seguente presupposto: non vorrei – è la mia
preoccupazione – che, in nome di una visione ideologica antimultinazionali, finissimo per determinare una stasi nell’applicazione della scienza, mentre con una regolamentazione (questa è la tesi che qui
sosteniamo) dell’attività di traduzione in
termini tecnologici della scienza da parte
delle multinazionali, probabilmente si può
anche servire l’uomo.
PRESIDENTE. Desidero aggiungere poche brevi domande agli illustri esperti qui
presenti. In primo luogo, desidero precisare che, se hanno suggerimenti specifici
da rivolgerci, saremo ben lieti di ricevere
eventuali loro ulteriori considerazioni anche per iscritto, perché potrebbero essere
utili ai fini della nostra indagine conoscitiva. Desidero poi domandare: quali iniziative da parte del Governo italiano pensate
che potrebbero essere utili nei vari ambiti
internazionali ? Faccio riferimento, per
esempio, alla FAO, dove sono allo studio
numerosi interventi, alle Nazioni Unite,
nonché naturalmente all’Unione europea.
Il fine della nostra indagine conoscitiva,
che in qualche modo rappresenta finalmente un’indagine classica, perché riguarda argomenti che davvero non conosciamo sui quali cerchiamo di acquisire
nuovi elementi conoscitivi, è oltre che di
redigere il documento conclusivo, anche di
avere la possibilità non soltanto di predisporre leggi – cosa che già ieri ed in altre
circostanze abbiamo detto – ma anche di
promuovere risoluzioni ed interventi che
possano servire al nostro Governo per un
atteggiamento più responsabile e soprattutto informato nelle varie sedi internazionali. Vi chiedo quindi se abbiate eventualmente idee o se possiate darci indicazioni
che nostro tramite possano essere trasmesse al Governo italiano ed alle nostre
rappresentanze nelle sedi internazionali.
La mia seconda domanda riguarda la
vicenda delle etichettature: è una questione molto importante, rispetto alla
quale, però, devo dire con molta franchezza che la battaglia sarà persa se essa
sarà finalizzata solo ad etichettare i prodotti geneticamente manipolati. In sede internazionale, nel trattato sul commercio,
questa cosa non passerà, in quanto non si
può etichettare soltanto un certo tipo di
prodotto: allora, essendo personalmente
un deciso fautore dell’etichettatura di
tutto, sostengo che bisognerebbe comprendere se vi sia la possibilità di intervenire
con iniziative di carattere generale.
Vi è un interesse del consumatore alla
perfetta conoscenza di tutto, della qualità
e dei processi di produzione: all’interno di
ciò è possibile, questo sì, obbligare le
realtà produttrici di prodotti geneticamente manipolati ad accettare l’etichetta-
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tura, che non diventerebbe elemento discriminante per una produzione rispetto
ad altre, quindi impugnabile in sede internazionale, mentre sarebbe un elemento
fondamentale di tutela del consumatore
che riguarda tutti i tipi di produzione.
Ritengo che questa battaglia sia una
delle prime da condurre con molta determinazione. Vorrei inoltre sapere se abbiate notizia che in altri paesi, in particolare negli Stati Uniti, vi è addirittura, al
contrario, una parte delle multinazionali
che producono prodotti geneticamente
manipolati che ha già accettato l’ipotesi
dell’etichettatura e sta addirittura tentando operazioni di marketing volgendo in
positivo quella che da noi è una preoccupazione; esse, in sostanza, intendono quasi
invitare a consumare prodotti geneticamente manipolati più moderni, anziché le
cose arcaiche prodotte in modo tradizionale ! Ritengo che anche a tale riguardo
occorra capire quale può essere la nuova
frontiera di una discussione fondata sulla
piena conoscenza. Bisognerebbe comunque valutare anche l’elemento del controllo dei meccanismi di comunicazione;
altrimenti, se vi è un massiccio investimento nel campo della comunicazione, la
tutela del consumatore rischia di essere in
parte vanificata e gli si confondono ulteriormente le idee.
Dobbiamo altresì chiederci quali debbano essere gli interventi nel settore della
ricerca, visto che è in corso la riforma del
Ministero per le politiche agricole. Sapete
che si tratta di un ministero che cambia
frequentemente nome e vorremmo che finalmente cambiasse anche la sostanza. All’interno della riforma, come ho detto in
altra occasione, sono previsti finalmente
fra i compiti di istituto del ministero quelli
relativi alle biotecnologie ed alla biodiversità (due settori che sono in qualche modo
collegati). Nei prossimi sei mesi, dovrebbero essere emanati i decreti legislativi di
attuazione della riforma del Ministero per
le politiche agricole: questa volta, spero
che si possa completare la riforma, perché
non siamo più di fronte alla richiesta di
fare riforme legislative, come succedeva
per il MIRAAF...
CARMINE NARDONE. I decreti verranno esaminati in questa sede ?
PRESIDENTE. Vedremo a che Commissione saranno assegnati; in ogni caso vi
sarà un nostro ruolo specifico perché,
trattandosi non più dell’istituzione del ministero ma della definizione di singoli
aspetti, come la riforma degli istituti di ricerca, la nostra Commissione dovrebbe essere investita del parere. È molto probabile che questa volta la riforma si farà,
perché sarebbe davvero un discredito per
il Governo se, avendo un potere delegato
per l’emanazione dei decreti legislativi,
non riuscisse a riformare determinati settori. Al riguardo, è molto importante, in
primo luogo, il modo in cui nel nuovo ministero si applicherà la tutela della sicurezza alimentare (altro tema che è stato
inserito), oltre che come si interverrà per
le biotecnologie e la tutela delle biodiversità.
In materia, sarebbe molto utile conoscere quello che si fa in altri paesi: forse
voi potete fornirci qualche dato comparativo, adesso od eventualmente in seguito,
su quali siano gli strumenti utilizzati dai
Ministeri dell’agricoltura di altri paesi.
Come abbiamo detto più volte in Commissione, continuiamo peraltro ad insistere
sul fatto che questo problema va affrontato non dalla Commissione che si occupa
della sanità, alla quale compete il caso patologico, la malattia che può colpire un
cittadino nell’immediato (in tal caso, la sanità ha un diritto-dovere di intervento),
quanto invece dal lato dell’agricoltura e
della sicurezza alimentare (quindi la competenza del ministero di cui noi ci occupiamo); ci si deve preoccupare sulla lunga
distanza della qualità intrinseca dei prodotti e della possibilità per il settore agricolo di resistere, direi addirittura nei secoli, ad un tipo di innovazione che potrebbe produrre benefici nell’immediato e
comportare però la distruzione di un settore fondamentale per il futuro.
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È quindi importante tenere presente
che tra le nostre necessità vi è quella di
acquisire elementi utili, per esempio, rispetto alla riforma degli istituti di ricerca
del ministero. Una volta che se ne ipotizzi
l’accorpamento, è utile che alcuni di essi
abbiano capacità specifiche nel settore e
bisogna capire come possiamo intervenire
per fare in modo che vi sia una ricerca
pubblica che si possa confrontare con la
ricerca privata, evitando paradossi come
quello di cui sono stato direttamente testimone: quando si parlava dei problemi di
mais, soia, eccetera, chiesi al Ministero
della sanità sulla base di quali dati in un
primo tempo sostenesse che si poteva autorizzare questa immissione ed il ministero, in modo informale, mi rispose che
era sulla base dei dati di ricerca della
Monsanto. È un paradosso: il Ministero
della sanità italiana non mi può dire che i
dati di ricerca sono quelli della Monsanto;
sarebbe come chiedere all’oste com’è il
vino !
Evidentemente, dobbiamo chiedere che
vi sia una ricerca pubblica attrezzata,
forte, nazionale e probabilmente addirittura europea per certi casi, che certamente non può essere regionalizzata, con
il tentativo di spartirsi gli istituti di ricerca
tra le venti regioni italiane, determinando
quindi venti microstrutture; al contrario,
questa sfida, che è addirittura di tipo planetario, ci impone di rafforzare la nostra
ricerca.
L’ultima domanda è la seguente: cosa
pensate della cosiddetta autorizzazione
alle manipolazioni genetiche a condizione
che vi sia la reversibilità ? È un tema che
personalmente mi incuriosisce molto: vi è
una parte di discussione nell’ambito della
quale si sostiene che la manipolazione genetica può non essere considerata pericolosa quando è reversibile, cioè quando si
può tornare indietro. Sapete che uno dei
problemi essenziali di tutta la materia è
che essa è fortemente incontrollabile: in
più occasioni, nei convegni, ho sentito sostenere, anche da alcune parti del mondo
ambientalista, che le manipolazioni genetiche possono essere accettabili purché
siano reversibili, ovviamente soltanto nel
settore vegetale e non in quello animale,
nel quale sarebbe ben difficile pensare alla
reversibilità. Vorrei conoscere la vostra valutazione al riguardo.
ANTONIO ONORATI, Presidente del
centro internazionale Crocevia. Vorrei riprendere soltanto alcuni degli argomenti
sollevati, in particolare quello relativo alla
questione del profitto. Non abbiamo mai
condotto con accanimento la guerra al
profitto, ci compete però fornire alcuni
dati. L’elenco dei 126 rilasci autorizzati in
Italia dal Ministero della sanità per quanto
riguarda l’agricoltura contiene una serie di
imprese – sempre le stesse e nessuna delle
quali è italiana – raggruppate per prodotti
(mais, cicoria, soia).
Al terzo appello per il programma europeo sulle biotecnologie della DG12 (che
per il momento ha distribuito il 24,6 per
cento dei fondi europei per un totale di
113 milioni di ECU, quasi mille miliardi di
lire), per il 19 per cento i contratti sono
stati vinti totalmente da imprese private e
per il 77 per cento è presente almeno
un’impresa privata. Quando si parla di
grandi investimenti che debbono trovare
compensazione nel brevetto e nell’applicazione commerciale, parliamo di grandi investimenti essenzialmente pubblici, anche
se il controllo pubblico sulla ricerca biotecnologica è solo del 12 per cento.
In secondo luogo, non è vero che la ricerca biotecnologica costi cara, quello che
è costato molto è l’accumulazione di sapere, ma rispetto a ricerche di altra natura, in particolare quella chimica, questo
tipo di ricerca costa poco. Ciò che non costa veramente nulla è la materia prima: la
ricerca biotecnologica usa come materia
prima i geni che oggi si prendono gratis. Il
contratto più fantastico che conosco è l’accordo INBIO-MERC (una grande società
multinazionale della farmaceutica e della
chimica), la quale ha pagato due milioni di
dollari per il controllo del cinque per
cento della biodiversità oggi esistente nel
pianeta in un accordo con il Costa Rica.
Non mi sento quindi di condividere la ne-
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cessità di affrontare il tema del profitto in
termini di giusta compensazione ad una
applicazione commerciale.
Al contrario, il rapporto con le multinazionali va misurato rispetto ai poteri di
monopolio. Non siamo di fronte all’esplosione fantastica della libera concorrenza;
nel campo delle biotecnologie, strettamente collegato all’industria agroalimentare ed ai sistemi di produzione di materie
prime agricole sempre più indistinte – di
fatto di biomasse buone per tutto – la
vera battaglia non è per la liberazione
delle forze proprie del mercato, non vi è
un sano conflitto tra gli interessi nazionali
ed europei e quelli del Giappone e degli
Stati Uniti. In realtà è un sordidissima
guerra tra piccoli potentati, giganteschi da
un punto di vista economico, per garantirsi diritti esclusivi di monopolio per procedere contro la liberalizzazione. Da questo punto di vista, quindi, l’ideologia funziona assolutamente al contrario.
Questo dato è molto importante e
spiega anche perché improvvisamente,
dopo una stasi, dopo la scivolone di Dolly,
si spinga per un’accelerazione sulle biotecnologie e per votare la brevettazione nel
Parlamento europeo. Fra due mesi sarà
consegnata la nuova politica agricola comunitaria; fra sei mesi (informalmente si
è già cominciato) si comincerà a discutere
di GATT e prima di questi appuntamenti
un gruppo ristretto di multinazionali –
non tutte quelle del pianeta – tenta di
piazzare le sue armi contro la liberalizzazione.
Il secondo elemento importante è collegato alla domanda posta dall’onorevole
Procacci relativamente alle materie prime
utilizzate nelle manipolazioni genetiche.
Oggi malgrado una convenzione sulla biodiversità, che non funziona perché il segretariato ne ha espropriato la parte agricola (già consolidata in un accordo quadro
internazionale approvato alla FAO da 114
paesi), bloccando la parte relativa alla
compensazione, cioè quanto bisogna pagare le risorse genetiche, ai diritti di utilizzazione, al riconoscimento della sovranità,
si può continuare a ramazzare geni do-
vunque siano ed i paesi restano essenzialmente indifesi. È noto però a tutti che la
biodiversità, cioè il maggior potenziale di
geni, è distribuito nel pianeta in maniera
speculare: al sud, dove stanno i poveri, vi è
più biodiversità; al nord, dove stanno i ricchi e le industrie, ci sono più tecnologie e
meno geni. Questo è vero anche per
l’uomo: il genoma umano più interessante
è quello dei popoli nativi, non a caso il
progetto genoma ha cominciato la sua attività monitorando accuratamente le 897 ultime tribù della terra. Da questo punto di
vista siamo ancora nella deregulation più
totale e nella legge della giungla.
Questo è provato da un altro elemento.
Nell’ agricoltura – il mais ne è un esempio
– è vero che la diversità biologica è il risultato dell’azione dell’uomo, ma nessuno
scienziato serio confonde la creazione varietale fatta sul mais selvatico dagli indiani
o sul grano selvatico dagli etiopi o dagli
uomini del Mediterraneo, che hanno moltiplicato la diversità tra le specie, tra le varietà e all’interno di ogni singola varietà
adattandola agli ecosistemi anche più piccoli, con la manipolazione genetica. Questo
processo è andato avanti per via naturale
e si è interrotto una prima volta con la rivoluzione industriale, ma il salto con la
manipolazione genetica è incommensurabile.
Ho sentito anche parlare di sciocchezze
come di mais geneticamente manipolato
con caratteristiche che prima non aveva e
quindi con un patrimonio genetico più
ricco: è un po’ come la sciocchezza di ritenere che un’isola in cui si introducono cinque animali che prima non c’erano sia più
biodiversa; in realtà si è distrutto un ecosistema e nessuno sa cosa succederà.
Mi preme infine portare testimonianza
della nostra attività e descrivere la situazione del nostro paese: la FAO è la sede in
cui il negoziato internazionale sul controllo delle risorse genetiche di interesse
agricolo va avanti con grande fatica, con
un’opposizione feroce tra un gruppo molto
piccolo di paesi e il resto del pianeta. L’ultima discussione nel mese di aprile si è
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conclusa con una contrapposizione tra due
paesi ed i delegati di altra ottanta: gli Stati
Uniti e l’Australia contro il resto del
mondo. Il presidente, di fronte al rappresentante del governo degli Stati Uniti che
parlava di due posizioni, non ha potuto
fare a meno di rimarcare il fatto che da
una parte c’erano ottanta paesi e dall’altra
ce n’erano solo due, ottenendo un grande
applauso liberatorio.
Devo segnalare alla Commissione che
non ho l’impressione che la delegazione
italiana sia adeguata al livello della discussione – mi costerà caro averlo detto –
come non è adeguata la posizione dell’Unione europea, che però si va evolvendo
positivamente dopo il vertice mondiale, in
particolare nella Commissione risorse genetiche: non è adeguata perché non c’è
coordinamento nelle posizioni, non c’è approfondimento e perché addirittura si
nega il diritto degli agricoltori. Noi seguiamo questa Commissione da circa dieci
anni e non mi ricordo una presa di parola
della delegazione italiana, ad esclusione di
quando l’Italia era presidente dell’Unione.
Questo mi sembra gravissimo, anche considerato che il nostro paese ospita la FAO
e l’Istituto internazionale delle risorse genetiche. Un appoggio serio a questo Istituto da parte dell’Italia è mancato e credo
sarebbe utile un impegno maggiore. Potremmo invece fare molto sul piano del
coordinamento dei centri di ricerca agricola internazionale in cui l’Italia siede a
vario titolo e partecipa finanziariamente
senza avere coscienza di quale parte
svolga in essi.
Nella discussione in preparazione del
quinto quadro di ricerca dell’Unione europea vi è stato un gruppo di pilotaggio, finanziato dagli svedesi e dall’Unione, che
ha riunito scienziati e non governativi, al
primo punto del quale è scritto che, se
davvero ci si vuole occupare di biodiversità, occorre cambiare il paradigma della
ricerca. Mi sentirei di chiedere la stessa
cosa alla ricerca agricola italiana: al di là
dei metodi diversi, bisogna pensare a criteri diversi.
Mi fermo qui e segnalo alla Commissione che abbiamo predisposto una nota
scritta che contiene maggiori dettagli in
ordine agli argomenti affrontati.
FABRIZIO FABBRI, Campaigner per gli
alimenti geneticamente manipolati di
Greenpeace. Rispondendo al dubbio sollevato dall’onorevole Aloi circa un pregiudizio nei confronti delle compagnie trasnazionali, per quanto riguarda Greenpeace –
ma mi sento di poter estendere questa
considerazione anche alle altre associazioni che si occupano del problema della
bioingegneria – non c’è alcun preconcetto,
ma una valutazione obiettiva di quanto sta
accadendo. Se si guarda l’accelerazione di
cui parlava il dottor Onorati, per esempio
per quanto riguarda la Monsanto, non si
può fare a meno di notare come l’introduzione di organismi transgenici resistenti al
roundup abbia coinciso con la scadenza
del diritto di monopolio del principio attivo del glifosato. Questo è un dato di
fatto: di fronte al serio pericolo dell’ingresso nel mercato di altre industrie chimiche che potessero usare questo principio attivo, escono fuori nuove varietà di
vegetali che vengono vendute in kit insieme al pesticida Roundup.
La seconda considerazione riguarda i
reali benefici sociali dell’utilizzo di prodotti transgenici rispetto a quelli tradizionali. Questo è l’altro aspetto che, unito al
precedente, fa sorgere qualche dubbio che
in realtà si tratti di interessi solamente
economici. Ribadisco che noi non siamo
assolutamente scandalizzati che ci siano
profitti o che comunque l’economia di un
sistema giochi un ruolo preponderante; è
importante però che, a fronte di un tendenziale rischio, ci sia un potenziale beneficio per i consumatori. E questo, a nostro
avviso, alla luce dei fatti non c’è.
Per quel che riguarda la differenza tra
le invenzioni e le scoperte, starei un po’
attento, perché è in atto un’operazione di
normalizzazione e di acquietamento degli
animi da parte del settore scientifico, il
quale afferma che gli agricoltori già oggi
comprano i semi di mais per avere le
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piante più alte.Questo è vero, ma scaturisce dalla creazione di ibridi che hanno
solo in prima generazione delle caratteristiche di alta rigogliosità e che poi, piantate in seconda generazione, ridarebbero
le pannocchie di cui lei parlava. Se gli
agricoltori riseminassero il raccolto del
mais in seconda generazione, tutte le caratteristiche negative che si erano tenute
nascoste in prima generazione riemergerebbero.
Per quanto riguarda gli organismi transgenici, non si può parlare di scoperta,
perché l’assetto cromosomico che in essi si
è creato non è possibile in natura; non potrebbe mai avvenire un’ibridazione di una
specie animale con una vegetale, di un
batterio con un virus, di un virus con un
animale, di un gene umano con una pianta
o una carpa. In natura esistono delle barriere che impediscono che ciò avvenga, e
questo la dovrebbe dire lunga e ci dovrebbe far riflettere sul motivo per cui
queste barriere nel corso di milioni di
anni si sono evolute.
Di fronte agli scienziati che vogliono
presentare gli organismi transgenici come
qualcosa di già esistente è bene tenere in
considerazione questa grandissima differenza: da una parte c’è l’estrapolazione e
la manifestazione di caratteri presenti ma
nascosti, dall’altra c’è un assetto cromosomico che non si potrebbe mai creare.
Quanto all’etichettatura globale, si
tratta per noi di un principio sacrosanto,
non solamente in relazione alla questione
transgenica; il consumatore deve avere la
possibilità di capire cosa acquista e cosa
questo costa in termini sociali, ambientali
e di salute. Per quanto riguarda le etichettature in positivo, c’è un problema: abbiamo già espresso il nostro parere al riguardo. Secondo noi l’etichettatura in positivo non deve essere imposta – chi dovesse decidere di non utilizzare organismi
transgenici si troverebbe ad essere quasi
penalizzato – ma potrebbe essere un’opzione lasciata al libero arbitrio delle
aziende, purché accompagnata da una certificazione (universitaria, di un laborato-
rio) che con un metodo molto semplice,
del costo di qualche centinaia di mila lire
e che richiede un tempo molto limitato –
venti minuti, mezz’ora –, possa certificare
l’assenza di organismi transgenici. È necessario cioè che l’etichettatura in positivo
sia comunque garantita e porti una
« pezza d’appoggio » da parte di un organismo scientifico che si assuma la responsabilità, rispetto al consumatore, che realmente non ci siano prodotti transgenici.
IVAN VERGA, Responsabile per le iniziative sulle biotecnologie dell’associazione
Verdi Ambiente e Società. Poche battute sul
problema dell’etichettatura: ha ragione il
presidente quando afferma che esistono
dei vincoli dal punto di vista degli accordi
del WTO; è vero anche che su questa materia specifica – ambientale, sanitaria –
gli Stati che aderiscono al WTO hanno
molti margini di trattativa, arrivo al paradosso, anche se dovessero portare ad un
contenzioso, perché le questioni ambientali e sanitarie hanno un’attinenza precisa
da questo punto di vista. È evidente che
voi avete una responsabilità che è molto
diversa dalla nostra, ma io personalmente
non avrei alcun timore ad affrontare la
questione dell’etichettatura disgiunta dalle
clausole – chiamiamole così – non vincolanti su questa materia del WTO; non ce
l’avrei proprio per la natura della risposta
che dà l’industria della brevettazione genetica; quando quest’ultima si pone la questione dell’etichettatura non ne fa chissà
quale problema, risponde in termini rigidamente avulsi da quelli che la realtà in
quella circostanza richiama e parla di vantaggio comparativo. Si tratta di ciò di cui
l’onorevole Prestamburgo parlava prima in
relazione alla questione del prodotto
buono e del prodotto cattivo.
MARIO PRESTAMBURGO. Presunto
cattivo.
IVAN VERGA, Responsabile per le iniziative sulle biotecnologie dell’associazione
Verdi Ambiente e Società. Presunto cattivo.
Prima o poi si arriva al dunque. Arriviamo
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alla determinazione per cui la stessa industria che propone il prodotto industriale
non è certa, nel momento in cui vi è un’indicazione presunta, di ottenere un vantaggio dal punto di vista del mercato. Credo
che siamo fuori ogni regola di mercato.
Non possiamo da una parte declamare la
libertà di mercato e poi, come ha dimostrato il dottor Onorati, dall’altra blindarlo
aprioristicamente, per poi dire che l’unica
libertà di mercato è quella consentita « a
me ».
Un’informazione: come avrete visto – è
il vostro mestiere, per cui da questo punto
di vista sarete certamente più informati di
me, ma anche a me non è sfuggito – la
grande politica delle fusioni in atto negli
ultimi tre o quattro anni da parte delle industrie chimiche e dell’agrofarmaceutica
in corso in tutto il pianeta riguarda esattamente questo argomento. Non è secondario. È il tentativo di creare un trust ulteriormente gravoso rispetto ad una politica
di monopolio. Sono problemi che sono
stati affrontati negli anni cinquanta con le
sette sorelle del petrolio: siamo in una
condizione ancora peggiore, ma non è un
problema ideologico. Quando mi si dice
che mercato uguale libertà, io ci credo; qui
siamo a livello non di mercato ma di monopolio uguale a non libertà, né di impresa, né di concorrenza, né di libero
scambio, né di libera scelta. Il problema è
rovesciato, e ciò è dimostrato anche da
quest’ultima considerazione: ci sono più
economie (non voglio fare una lezione che
invece dovrebbe svolgere il professor Prestamburgo); ci sono le economie « di
carta ». La Monsanto non solo ha fatto le
considerazioni che bene ha espresso il dottor Fabbri, ma ha anche realizzato un
semplice principio esclusivamente finanziario, che non attiene per nulla alla politica industriale; la Monsanto aveva dei
gravissimi problemi dal punto di vista
della sua solidità industriale ed ha deciso,
con una programmazione economicoscientifica, di immettere grandi quantità di
prodotti geneticamente manipolati sul
mercato ed ha provocato immediatamente
un’emotività dal punto di vista del mercato
finanziario, determinando quello che si
definisce lo « schizzamento » verso l’alto
del titolo azionario. Non ha realizzato
qualcosa in funzione del mondo agricolo e
contadino, per il problema della fame nel
mondo: alla Monsanto – scusate i termini
– non gliene può fregare di meno. Ha
semplicemente fatto un’operazione di ingegneria finanziaria, che ha risanato l’azienda. Dal punto di vista dell’ingegneria
finanziaria sono stati bravissimi, hanno risanato la loro azienda; definire questa
un’operazione di carattere etico-morale, di
aiuto al mondo agricolo, di risoluzione dei
problemi alimentari del pianeta mi sembra davvero eccessivo. Non è un problema
di pregiudiziali, è un problema di « mettere i puntini sulle i » rispetto alle compatibilità economiche, rispetto ad alcune regole – non ve lo devo insegnare io, lo sapete meglio di me, ne siete coscienti –; il
legislatore deve stabilire delle regole. Il
mercato avrà anche le sue, ma le regole
della convivenza le deve determinare il legislatore. Se in queste regole del mercato
non è contemplata la convivenza, non so
cosa fare nei confronti del mercato. Non è
– ripeto – un problema di pregiudiziali.
FABRIZIO FABBRI, Campaigner per gli
alimenti geneticamente manipolati di
Greenpeace. Relativamente al problema
della reversibilità, a mio avviso, siamo di
fronte ad un fattore di falso buon senso
per un semplice motivo: quando si agisce
su organismi viventi in maniera così drammatica come la creazione di patrimoni ed
assetti genici in natura, si sta facendo
qualcosa che semplicemente non si conosce; in questo caso, è bene che il mondo
scientifico, piuttosto che portare certezze,
indichi i suoi limiti.
Oggi nel mondo scientifico, qualsiasi laboratorio, anche il meno attrezzato, è in
grado di fare operazioni di bioingegneria,
il che dimostra la semplicità tecnologica e
tecnica, quasi manuale, della manipolazione genetica, ma nessuno sa quali sono i
limiti, come si riproducono questi organismi, quando può succedere un crossing
over naturale o verificarsi uno scambio di
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patrimonio genetico, che normalmente in
natura avviene. Parlare di reversibilità, di
utilizzare delle tecniche per le quali si può
tornare indietro è pura utopia: chi di voi
ha letto Jurassic Park di Michael Crichton
– siamo nella fantascienza, ma nemmeno
tanto – si può rendere conto di cosa significhi inserire limiti intrinseci nella manipolazione genetica; semplicemente, si sta
portando un elemento prettamente utopistico, non scientificamente provato, a dimostrazione di una sorta di buon senso
che in realtà non vi è.
FORTUNATO ALOI. L’esigenza è, da
una parte, consentire alla scienza di procedere secondo ampia libertà, dall’altra
parte contenere sul piano legislativo eventuali guasti.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Onorati, il dottor Verga ed il dottor Fabbri per
il loro contributo alla nostra indagine
conoscitiva.
La seduta termina alle 13.20.
IL CONSIGLIERE CAPO DEL SERVIZIO
STENOGRAFIA
DOTT. VINCENZO ARISTA
Licenziato per la stampa
dal Servizio Stenografia il 9 luglio 1997.
STABILIMENTI TIPOGRAFICI CARLO COLOMBO
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