Psicologia giuridica e penitenziaria

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ISTITUTO MEME
. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES
S.R.L
MARIA ROSARIA PACENZA – CRIMINOLOGIA - PRIMO ANNO A.A. 2005/06
Istituto MEME s.r.l. Modena
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Psicologia giuridica e penitenziaria
Salute mentale dei detenuti
Scuola di Specializzazione:
Relatore:
Tesista specializzando:
Anno di corso:
Scienze Criminologiche
Dr.ssa Roberta Frison
dr.ssa Maria Rosaria Pacenza
Primo
Modena 24-06-2006
Anno accademico 2005-2006
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Indice
INTRODUZIONE ............................................................................ pag. 3
CAPITOLO 1
LA PSICOLOGIA GIURIDICA: QUESTIONI TEORICHE/
APPLICATIVE............................................................................................. pag. 5
1.1 Breve storia della psicologia giuridica ..................................................... pag. 5
1.2 Ruolo dello psicologo giuridico: identità, formazione e tutela della
professionalità……………………………………………………………….pag. 7
1.3 Funzioni e competenze della psicologia applicata ai contesti della
giustizia........................................................................................................... pag. 8
CAPITOLO 2
TUTELA DELLA SALUTE DEL DETENUTO....................................... pag. 10
2.1 Tutela della salute: principi costituzionale e posizione del detenuto....... pag. 10
2.2 Assistenza alla popolazione reclusa ......................................................... pag. 12
2.3 Disturbi psichici in ambito penitenziario ................................................. pag. 16
2.4 Malattie simulate e atti di autolesionismo................................................ pag. 23
2.5 Proposte di sanità in carcere..................................................................... pag. 26
2.6 Figura dello psichiatra penitenziario ........................................................ pag. 29
2.7 Ruolo dello psicologo in ambito penitenziario ........................................ pag. 34
CAPITOLO TRE
TRATTAMENTO PENITENZIARIO....................................................... pag. 39
3.1 Istituzione totale: ambiente carcerario ..................................................... pag. 39
3.2 Strumenti della rieducazione negli istituti di detenzione ......................... pag. 41
3.3 Osservazione scientifica della personalità e il trattamento ..................... pag. 50
3.4 Psicoterapia carceraria.............................................................................. pag. 53
3.5 Misure alternative alla detenzione............................................................ pag. 54
CONCLUSIONI ............................................................................... pag. 58
BIBLIOGRAFIA ............................................................................. pag. 61
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INTRODUZIONE
La tesi è stata divisa in due parti: nella prima parte si affrontano le questioni teorico-applicative
della psicologia giuridica, approfondendo il ruolo e le funzioni dello psicologo giuridico e le
funzioni e competenze della psicologia applicata ai contesti della giustizia; nella seconda parte,
invece, si affronta il tema del binomio sicurezza-trattamento.
La psicologia giuridica costituisce un ambito disciplinare complesso che si differenzia a livello di
competenze e a livello di oggetto di studio. Si tratta di una disciplina applicativa che valorizza
approcci di taglio psico-sociale: essa, infatti, ha una centratura sui rapporti interpersonali, sui
rapporti tra individuo e società.
La parte relativa al rapporto sicurezza-trattamento si focalizza sulla fase esecutiva e del diritto alla
salute di coloro che si trovano in condizione di privazione della libertà, nonché della tutela della
salute del detenuto partendo dagli art. 27, 32 della Costituzione. Inoltre viene trattato il tema
riguardante l’assistenza sanitaria del recluso promulgata con la legge n. 180, avente come fine, non
l’emarginazione del malato, bensì la tutela della dignità dell’uomo sofferente e il suo diritto alla
salute. Viene così delineata la difficile realtà, quella del carcere, le reazioni che essa provoca in chi
è costretto a viverla, evidenziando i molteplici aspetti, spesso contraddittori, che la caratterizzano; si
parla poi dei disturbi psichici più diffusi all’interno degli istituti, della simulazione della “malattia
mentale” e dei gesti d’autolesionismo (dalle ferite da taglio autoprocurate come forma di protesta e
di rivendicazione per ottenere piccoli benefici, alle più gravi forme di tentato suicidio o di suicidio
vero e proprio).
Di fronte agli effetti disastrosi che la carcerazione può provocare, a livello di decadimento sia
psichico che fisico, assume particolare importanza la figura di un operatore professionale. Il carcere
è, infatti, un microcosmo dove si muovono e interagiscono persone sofferenti, con problemi di
natura psichica e sociale e in cui i complessi equilibri interni sia fisici che psichici possono essere
facilmente alterati. E’ proprio in tale contesto che s’inserisce il lavoro di figure specializzate nelle
teorie e tecniche di stampo psicologico-sociale, in grado di attuare interventi specialistici, orientati
all’individuazione delle cause del comportamento delinquenziale, alla loro rimozione attraverso il
trattamento rieducativo e al reinserimento dell’individuo “deviante” nella società. A proposito
dell’ambiente carcerario, si approfondisce il trattamento penitenziario del detenuto, teso a favorire
la rieducazione ed il reinserimento sociale, quindi l’osservazione scientifica della personalità del
condannato e dell’internato, considerata un presupposto per l’attuazione del trattamento rieducativo
individualizzato. Dopodiché si passa ad elencare i tre perni fondamentali su cui ruota il processo di
rieducazione e risocializzazione: il lavoro, l’istruzione e la religione, ma anche le attività culturali,
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ricreative e sportive, i rapporti con la famiglia e con il mondo esterno . Infine si analizzano alcuni
disegni di legge, in particolar modo il Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute in carcere e la
trattazione delle misure alternative alla detenzione.
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CAPITOLO UNO:
LA PSICOLOGIA GIURIDICA: QUESTIONI APPLICATIVE
1.1 BREVE STORIA DELLA PSICOLOGIA GIURIDICA
La psicologia giuridica in Italia ha radici molto antiche che risalgono agli inizi del ‘900 ma soltanto
nel 1925, con la pubblicazione di “Psicologia giudiziaria” di Altavilla la psicologia giuridica ebbe
una vera sistematizzazione, riuscendo a cogliere le sfumature del Diritto e della Psicologia,
coniugandole all’interno del processo e facendo mantenere entrambe le discipline la loro necessaria
autonomia.
Il vero ritorno incisivo della psicologia giuridica può essere collocato verso la fine degli anni ’70,
con l’impulso degli autori e studiosi come Gaetano De LEO, Guglielmo Gullotta, de Cataldo ed
altri, a parte delle emersioni in superficie di classici criminologi allievi di Di Tullio – come
Ferracuti e Fontanesi che nei congressi contribuirono allo sviluppo della psicologia giuridica
attraverso attività prettamente psicologiche nell’ambito penitenziario e criminologico come ad
esempio lo studio del condannato attraverso una metodologia poi acquisita, come l’esame di realtà.
Attualmente, la psicologia giuridica sembra avere finalmente raggiunto un punto stabile di
equilibrio fra le diverse discipline che regolano l’ambito forense, trovando una sua collocazione tra
il diritto a la psichiatria forense.
La psicologia giuridica costituisce un ambito disciplinare complesso che si differenzia a livello di
competenze e a livello di oggetto di studio. La psicologia giuridica è una materia che si occupa della
pratica forense e, come afferma Gullotta, “per il vasto campo che abbraccia può utilizzare contributi
della psicologia generale, sperimentale, dinamica, comunicazione sociale.
In senso generale, ha come oggetto di studio la giustizia, come campo di espressione del diritto,
come organizzazione e come campo di attività centrato sulle decisioni dei giudici e sugli interventi
tecnici collegati ad esse; anche lo psicologo-clinico mantiene la sua matrice sociale perché studia
tutte le interazioni, tutti i rapporti interpersonali che costruiscono la società, che influenzano gli
individui e in particolare il lavoro nel mondo della giustizia. Si può suddividere la psicologia
giuridica in cinque differenti campi: la psicologia legale che si occupa dei testi giuridici i quali
contengono delle indicazioni sul comportamento umano, sugli individui, sulle aspettative di
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comportamento e sulle ipotesi su come l’uomo funziona. Essa rappresenta un tentativo di leggere
psicologicamente alcune norme, di soffermarsi su alcune categorie giuridiche e d’interrogarsi su
quali siano i presupposti, gli assunti che caratterizzano queste categorie giuridiche. Attualmente, la
psicologia giuridica ha esteso i suoi interessi, oltre che al settore penitenziario e processuale, anche
alla legislazione specifica relativa alle tossicodipendenze, alla malattia mentale e al settore minorile.
La psicologia giudiziaria studia la personalità dell’individuo in quanto imputato, nonché le persone
che partecipano al processo (giudici, testimoni, avvocati, parti lese). Analizza gli aspetti di
responsabilità penale e pericolosità sociale, le strategie e le tattiche in ambito processuale, la
vittimologia e la psicologia della testimonianza. Un’area importante della psicologia giudiziaria è la
psicologia forense
che si occupa dei fattori rilevanti ai fini della valutazione giudiziaria
rispondendo ai quesiti e alle richieste specifiche del giudice, del pubblico ministero o degli avvocati
in sede peritale. La psicologia criminale , che si occupa dello studio della personalità di un
individuo in quanto autore di un reato, dei concetti di criminalità e devianza, di devianza minorile,
dei modelli di analisi e delle teorie interpretative; la psicologia penitenziaria, detta anche
rieducativa, che esamina i problemi psicologici relativi alla detenzione, attraverso attività di
osservazione, sostegno e trattamento del condannato; che esamina la personalità di un soggetto
sottoposto ad una pena, in riferimento all’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354)
sulle misure alternative alla detenzione e sul trattamento individualizzato. In particolare
l’individuazione del trattamento comporta un’attenta considerazione dei bisogni di ciascun
individuo; la psicologia giuridica civile, che valuta, attraverso consulenze tecniche nei casi di
separazione e divorzio e nei casi di adozione, le capacità genitoriali in ordine all’affidamento dei
figli e all’adozione nazionale e internazionale.
Ci sono altre competenze e campi d’interesse della psicologia giuridica; ad esempio, la psicologia
delle situazioni a rischio in età evolutiva si occupa delle condizioni problematiche in età evolutiva,
laddove carenze e difficoltà possono raggiungere livelli di rischio che richiedono un intervento di
tutela dei minori.
Infine c’è un altro settore della psicologia giuridica che studia i modelli d’interazione, d’intervento
e di formazione tra operatori della giustizia e socio-sanitari a vari livelli.
La psicologia giuridica, in collaborazione con altre discipline specifiche, cerca di comprendere e
conoscere i processi sociali, ambientali, familiari e relazionali che possono produrre nel tempo
situazioni di rischio. Un ruolo centrale come metodologia specifica della psicologia giuridica è
senz’altro quello della psicodiagnostica forense, in quanto ormai i Test psicologici soprattutto quelli
proiettivi ed il Rorschach in particolare possono essere considerati parte integrante di qualunque
esame psicologico e psichico delle perizie psichiatriche, psicologiche e delle consulenze tecniche
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d’ufficio, l’esame della personalità in ambito penale nell’età adulta rappresenta tuttora motivo di
discussione e di dibattito, in quanto, come è noto, di fatto è ancora vietata la perizia psicologica e
criminologica.
1.2
IL
RUOLO
DELLO
PSICOLOGO
GIURIDICO:
IDENTITÀ,
FORMAZIONE E TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ
Gli psicologi che si occupano di Psicologia giuridica sono in notevole aumento in questi ultimi
anni, sia per una maggiore sensibilità dei Magistrati alle problematiche psicologiche di alcune
situazioni sia per il crescente numero di situazioni in cui i Magistrati sentono la necessità di un
supporto tecnico, come ad esempio i reati sui minori. Allo psicologo giuridico si aprono nuove
possibilità professionali, per far fronte alle quali deve acquisire nuove competenze professionali e
specializzare il suo intervento. La funzione dello psicologo in ambito giuridico è di tipo
prevalentemente consulenziale ed è finalizzata a rispondere a quesiti legali di natura diversa a
seconda dei Tribunali in cui è formulata la richiesta e delle finalità per le quali è fatta. Per esempio
in ambito penale lo psicologo come perito di fiducia del giudice può essere chiamato ad effettuare
una perizia per valutare la capacità d’intendere e di volere del soggetto autore di reato e la sua
pericolosità sociale. In ambito civile lo psicologo può, ad esempio, essere nominato dal giudice in
caso di separazione e divorzio conflittuale dei coniugi per effettuare una consulenza psicologica al
fine di accertare quale sia il migliore regime di affidamento per il minore.
Lo psicologo giuridico è uno psicologo che ha maturato una particolare esperienza in questo campo,
che conosce non solo le leggi ma il contesto culturale e professionale in cui gli operatori del diritto
si muovono, che sa contestualizzare i propri strumenti diagnostici e d’intervento, che ha bene
presente la specificità del lavoro clinico, sociale ed educativo in ambito forense.
È essenziale che le competenze professionali dello psicologo giuridico includano tre tipi di
esperienza:
1) un’approfondita conoscenza della teoria dello sviluppo psicologico individuale sia normale che
patologico;
2) una solida esperienza clinica ottenuta dopo un lungo periodo di pratica clinica esperita non solo
nel privato ma anche in ambito istituzionale, per evitare che vengano escluse Dall’esperienza le
patologie più gravi;
3) una specifica conoscenza delle dinamiche di gruppo e delle strutture familiari. È ormai accertato
che il comportamento ed il funzionamento mentale del soggetto in gruppo si differenzia
sostanzialmente da quello posto in essere nei rapporti individuali.
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1.3 FUNZIONI E COMPETENZE DELLA PSICOLOGIA APPLICATA AI
CONTESTI DELLA GIUSTIZIA
Vengono utilizzati come criteri organizzatori, tre aree tematiche:
1) Il contesto applicativo: rappresentato dai luoghi della giustizia, costituisce l’ambiente sociale e
comunicativo che accoglie e contiene il lavoro psicologico. È un ambiente organizzativo formato da
diverse professionalità, con differenti ruoli e obiettivi. Il contesto della giustizia è soprattutto un
contesto “normato”, cioè un luogo in cui ogni attività riflessiva e operativa acquista significato solo
rispetto a una norma la quale rappresenta il criterio che definisce le ragioni e gli obiettivi
dell’azione professionale. Ciò richiede allo psicologo un impegno di riflessione mirata sul rapporto
fra categorie giuridiche e costrutti psicologici, altrimenti si correrebbe il rischio di generare
sovrapposizioni di sistemi concettuali (Bateson parlerebbe di “confusione transcontestuale”)
operando sui significati psicologici fuori dalla cornice normativa che ne stabilisce la pertinenza al
contesto.
2) Con riguardo alla presenza della psicologia, va premesso che essa, come funzione e come
esigenza nel contesto giuridico, non sempre corrisponde ad una presenza dello psicologo come
ruolo specialistico. L’esempio più eclatante è costituito dalla contraddizione esistente fra il divieto
posto dall’art. 220 del c.p.p. di ricorrere a perizia psicologica sull’imputato, cioè a tutte le indagini
riguardanti la sua personalità, e le aspettative dell’art. 133 del c.p. che sottolinea l’importanza della
conoscenza dell’autore di reato ai fini della determinazione della pena. Le ragioni potrebbero essere
due: la non caratterizzazione della psicologia come scienza esatta rispetto ad altre scienze; la
tendenza dello psicologo a porsi sul versante dell’aiuto rispetto a quello del controllo. Il tema della
dicotomia controllo-aiuto assume importanza e ci chiarifica i rapporti fra diritto e psicologia. La
presenza dello psicologo nell’ambito della giustizia si riconduce a due principali funzioni: una
prettamente conoscitiva e d’intervento in cui lo psicologo si colloca in maniera diversa a seconda
che si trovi in una posizione esterna (un esempio è costituito dal perito o consulente tecnico che
intervengono solo occasionalmente all’interno del sistema penale o civile) o interna ai contesti della
giustizia (lo psicologo che lavora nei servizi minorili); lo psicologo con funzioni decisionali, invece,
è presente come componente del collegio presso i tribunali per i minorenni e i tribunali di
sorveglianza.
3) La terza area della nostra analisi, i destinatari dell’intervento, pone questione che si riconducono
a tre aspetti principali.
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Il primo richiama la non volontarietà dell’utente di fruire dell’intervento psicologico; la persona non
sollecita la presenza dello psicologo, almeno non dalle prime fasi del loro incontro: pensiamo al
detenuto, adulto o minore.
Il secondo aspetto è che l’ambito di disfunzionalità non è definito dalla persona ma da altri secondo
criteri di rilevanza giuridica.
Il terzo aspetto rinvia all’insieme di significati che l’utente della giustizia porta con sé costruiti nel
tempo attraverso altre vicende processuali, precedenti contatti con i servizi, altre storie
d’intervento. Lo psicologo deve lavorare perché la persona possa mettersi nelle condizioni di
esplicitare una domanda d’intervento, di assumere la problematicità della situazione vissuta
estraendone richieste di azione specialistica. Per lo psicologo questo significa analizzare la
domanda e interrogare se stesso in merito alla propria committenza individuata dal risultato
dell’interazione fra diversi committenti (giudice, avvocato, la famiglia il detenuto); ciò comporta un
attento lavoro di chiarificazione con l’utente, con il committente iniziale e con se stessi, con la
propria professionalità, sulla funzione dello psicologo nella giustizia.
Ho ritenuto opportuno approfondire uno dei campi
della psicologia giuridica: la psicologia
penitenziaria dal momento che tanti sono i problemi che si riscontrano all’interno del carcere e,
purtroppo, pochi sono stati i provvedimenti presi per la tutela dei detenuti.
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CAPITOLO DUE
TUTELA DELLA SALUTE DEL DETENUTO
2.1 tutela della salute: principi costituzionali e posizione del detenuto
L’art. 32 della costituzione dispone: “La repubblica tutela il diritto alla salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Il diritto
alla salute di coloro che si trovano in condizione di privazione della libertà trova quindi tutela e
garanzia quale diritto inviolabile della persona. Tale tutela avviene nell’ambiente sociale dove la
personalità dell’individuo trova espressione, e l’istituto penitenziario, rendendosi concreto in una
formazione sociale, è il luogo in cui il detenuto esplica la propria personalità.
L’amministrazione penitenziaria applica le norme della legislazione italiana relative all’assistenza
sanitaria dei detenuti. Esse dettano principi e criteri organizzativi per l’adeguamento del sistema alle
esigenze della popolazione detenuta e il criterio generale dell’integrazione tra il servizio sanitario
penitenziario e il servizio sanitario nazionale, in modo che l’istituzione penitenziaria possa
rispondere a qualsiasi esigenza anche avvalendosi di quello nazionale.
L’art. 11 della legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce che ogni istituto sia dotato di servizio
medico e servizio farmaceutico rispondenti ad esigenze profilattiche e di cura della salute dei
detenuti e degli internati e che disponga di almeno uno specialista in psichiatria. Sempre nell’art. 11
si definiscono le attività sanitarie interne agli istituti: l’obbligo di visita all’ingresso nella struttura,
la discrezionalità di visita medica dei detenuti indipendentemente da richiesta, la disponibilità del
medico per le visite quotidiane dei malati, l’adozione di misure per l’isolamento sanitario in caso di
malattie contagiose, particolare attenzione alla tutela della salute delle detenute madri e dei loro
figli.
Lo stesso art. prevede che, nell’ipotesi in cui gli interventi diagnostici o terapeutici, non possano
avvenire nell’ambito dell’istituzione penitenziaria, è consentito il trasferimento del pazientedetenuto in ospedale o in altro luogo esterno di cura.
Si può dire, oggi, che la tutela della salute rappresenta una funzione specificamente pubblica: lo
Stato ha un preciso dovere d’intervento in questo settore.
L’OMS (organizzazione mondiale sulla salute) così riassume: “La sanità è uno stato di completo
benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il
possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali
di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, la sua condizione economica e
sociale. La sanità consiste, dunque, nell’efficienza psico-fisica dell’individuo quale presupposto
indispensabile per una completa espressione della sua personalità e socialità e la “tutela della
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salute” si esprime nell’azione dello Stato diretta a prevenire e reprimere quelle situazioni che,
causando la malattia, impediscono al soggetto una vita piena e dignitosa.
Secondo la costituzione italiana, la salute è definita come “fondamentale diritto dell’individuo” e
come “interesse della collettività”. In tale connotazione diritto ed interesse sono reciprocamente
integrati: lo stato di salute non riguarda solo il singolo individuo ma si riflette sulla collettività
stessa; ne deriva una duplicità di piani di tutela, difesa della persona dalla malattia e difesa della
collettività da tutti quegli elementi, ambientali o individuali che possono ostacolare un pieno
godimento del diritto. Nemmeno le condizioni economiche del singolo possono costituire un
ostacolo alla realizzazione di una piena tutela. Difatti, la seconda parte del primo comma dell’art. 32
prevede la gratuità delle prestazioni sanitarie a favore di chi versi in stato d’indigenza.
La tutela della salute abbraccia non solo la difesa dello stato bio-psichico ma anche l’individuo nel
suo bisogno di personalità e socialità. Il diritto alla salute esprime la garanzia di una serie di
situazioni soggettive assai diverse; si possono identificare così: il diritto alla propria integrità psicofisica, il diritto degli indigenti alle cure gratuite, il diritto all’informazione sul proprio stato di salute
e sui trattamenti che il medico vuole effettuare, il diritto del malato di comunicare con i propri
congiunti. Tra questi profili alcuni non portano direttamente allo stato di malattia ma si pongono in
una posizione strumentale alla conservazione del bene salute, altri riguardano la condizione
soggettiva che si produce con l’insorgenza della patologia e che, in una connotazione soggettiva che
va sotto l’espressione “diritto del malato”, comprendono situazioni esprimenti l’esigenza comune di
garanzia di condizioni di tutela efficace e d’effettività del più rilevante di tali diritti: il diritto ad
essere curato”. Il diritto a non farsi curare, ad essere malato com’ espressione di libertà, viene ad
essere escluso nel momento in cui la situazione patologica del singolo mette in pericolo la salute
della collettività. In tal caso sono previsti dalla legge interventi sanitari obbligatori e coattivi con il
solo limite del rispetto della dignità umana. L’esistenza di profili diversi di tutela dimostra come la
violazione o compressione del diritto alla salute non provenga esclusivamente dalla coesistenza di
prevalenti interessi pubblici, come può essere la sicurezza sociale; in sostanza, il diritto alla salute
del detenuto, può essere compresso in quegli aspetti quali servizi, trattamenti, informazione,
partecipazione, ambiente che diminuiscono la garanzia di una completa fruizione sanitaria
limitandone indebitamente la portata. Singolarmente, la tutela della salute della persona reclusa
assume una valenza corretta in relazione a quella che è la concezione della pena riconosciuta nella
nostra Costituzione nell’art. 27 che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La norma costituzionale,
sancendo il principio dell’umanizzazione e della funzione rieducativi della sanzione penale, impone
una concezione della pena non retributiva o preventiva ma attenta ai bisogni umani del condannato
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in vista del suo possibile reinserimento sociale. E’ naturale osservare come, l’umanizzazione della
pena e la rieducazione del detenuto postulano necessariamente la tutela del suo diritto alla salute. La
condizione di benessere psico-fisico diviene, infatti, strumentale all’attività volta al recupero sociale
dell’individuo, a quello che è definito il “trattamento”.
L’assistenza sanitaria del detenuto, pur essendo incidentale rispetto ai fini primari della
carcerazione e della sicurezza, si pone come attività strumentale, si qualifica rispetto alla funzione
di trattamento e di sicurezza. La tutela della salute del detenuto, l’organizzazione sanitaria e i
compiti della medicina penitenziaria è compresa all’interno del binomio sicurezza-trattamento che
caratterizza tutta la fase esecutiva nonostante tutte le ambiguità e le difficoltà insite nel reciproco
rapporto.
2.2 L’assistenza alla popolazione reclusa: la normativa di riferimento e i livelli
d’organizzazione della funzione sanitaria
La Costituzione italiana guarda alla salute non come semplicemente una concezione biofisiologica
ma, come condizione indispensabile per il più completo svolgimento ed integrazione della
personalità. La salute è un bene principale non solo dell’individuo ma anche della società ed è
dunque doveroso un intervento dello stato volto a realizzare un’organizzazione sanitaria adeguata
alle necessità dei cittadini singoli e come parte della collettività. In primo luogo spetta al legislatore,
attraverso la predisposizione di mezzi e l’individuazione di strutture, assicurare il conseguimento
dei fini predetti.
L’organizzazione sanitaria per l’erogazione delle prestazioni a favore del cittadino è stata disegnata
dalla legge 833/78 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN): tale modello risponde ad
una valutazione unitaria dell’assistenza e si caratterizza per una serie di principi e una serie di
regole che fanno di tale legge un provvedimento “esponenziale” e di “riferimento” di tutta la
successiva normativa. In ambito penitenziario, invece, dal 1931, anno del primo regolamento
carcerario, non esiste una norma organica dell’assistenza sanitaria erogata ai detenuti; il
regolamento penitenziario dedica solo alcuni articoli per la maggior parte rivolti ad aspetti specifici
di medicina penitenziaria. Attraverso una lettura sistematica delle varie norme sparse nelle diverse
fonti, è possibile disegnare con sufficiente sicurezza un quadro delle strutture organizzative
attraverso le quali si cercano di realizzare il diritto alla salute del detenuto.
E’ possibile individuare un livello di direzione e un livello operativo nell’erogazione dell’assistenza
sanitaria.
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Il primo livello che comprende la direzione centrale del dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria (DAP), i provveditorati e le direzioni d’istituto, rappresentano gli organi di gestione
amministrativa del sistema penitenziario nell’ambito del ministero di grazia e giustizia. Il
dipartimento è chiamato ad espletare funzioni che vanno dalla gestione amministrativa e contabile
all’organizzazione dei servizi sanitari, dall’attuazione dell’attività edilizia al lavoro penitenziario,
dall’assegnazione dei detenuti agli istituti al loro trasferimento, al governo del personale.
La funzione direttiva è pertanto configurata come un vertice promozionale che deve suscitare e
portare a buon fine un’operazione complessa che coinvolge non solo il personale dipendente, ma
anche i collaboratori esterni e i volontari. E’ difficile individuare nell’ambito della pubblica
amministrazione, funzionari onerati di un carico maggiore e più diverso di compiti e di
responsabilità. Molteplici sono, infatti, le attività dell’ufficio in materia sanitaria: organizza
all’interno della struttura il servizio ai detenuti, promuove i collegamenti con le strutture sanitarie
esterne, con le farmacie, recluta il personale medico e paramedico anche specialistico, provvede alle
situazioni d’indigenza del detenuto. Questo livello unito a quello degli operatori costituisce il vero
snodo dell’assistenza ai detenuti. Nessuna norma di legge precisa le funzioni in materia sanitaria
delle direzioni; solo attraverso atti amministrativi si prevedono specifiche incombenze e dove
finisce o è carente la norma, può supplire solo lo spirito d’iniziativa personale.
La medicina penitenziaria, nell’ambito dell’area sanitaria, è deputata al funzionamento delle
strutture e dei servizi sanitari all’interno degli istituti, dei centri diagnostici terapeutici (CDT) e
degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), con riferimento agli ambulatori, le infermerie, il
servizio farmaceutico e il servizio veterinario e avvalendosi dell’opera di almeno uno specialista in
psichiatria. Inoltre è chiamata a garantire la maggiore e migliore assistenza sanitaria a tutti i soggetti
sul piano della profilassi e della prevenzione, che sul piano degli accertamenti diagnostici e sul
piano degli interventi terapeutici medici e chirurgici; sia in via ordinaria, attraverso le visite, i
controlli che in via d’urgenza e con interventi di pronto soccorso attraverso l’utilizzazione di tutte le
risorse disponibili in termini umani e di strutture. Altresì deve considerare le esigenze e i bisogni
d’assistenza sanitaria specifici di ciascun soggetto o gruppi di soggetti come, in particolare le donne
detenute o internate, specialmente se gestanti o puerperi, e i bambini che esse tengono con sé.
Nell’ambito dell’area specifica del Trattamento, è dato rilevare una serie d’attività socio sanitarie,
di cura e riabilitazione (mediche, farmacologiche, psicologiche) in favore dei detenuti e degli
internati tossicodipendenti ed alcolisti. Non bisogna dimenticare tutta quella serie di attività svolte
dagli Educatori, Psicologi, Psichiatri che sono chiamati nell’atea del trattamento ad assicurare
alcuni momenti di svolgimento della personalità e a fornire un valido aiuto nell’individuazione e
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prevenzione delle psicopatie da internamento e l’assistenza ed il sostegno psicologico a questi
soggetti.
2.2.1 Assistenza sanitaria: la sua specialità nelle carceri
La malattia, la sua evoluzione, l’approccio terapeutico sono destinati a specificarsi nel carcere; le
ragioni, se si vuole, risiedono nel legame che è sempre esistito tra la medicina penitenziaria, lo
svolgimento della pena, tra la vita e condizione del detenuto. Si è passati così da una medicina
clinica da pronto soccorso ad una eziologica, dalla semplice terapia alla prevenzione, da un
semplice servizio ad una vera e propria scienza medica penitenziaria. La specialità è legata anche
alla peculiarità della detenzione sia nella sua dimensione individuale dove il singolo si trova ad
affrontare una realtà nuova e particolare con effetti incisivi sulla personalità psichica e fisica e con il
rischio di sfociare in atti di auto o eteroviolenza, sia nella dimensione collettiva con tutte le
implicazioni che la promiscuità e le relazioni non consensuali spesso comportano (rischi di
contagio, violenza fisica e psichica gratuita).
Specialità, altresì, della funzione medica che non si limita nell’applicazione tecnica ma richiede sia
una preparazione specialistica che un’approfondita conoscenza degli aspetti psicodinamici dei
soggetti detenuti, divenendo basilari le acquisizioni in campo psicologico e criminologico.
Specialità, infine, che discende dalla presenza nel mondo carcere di bisogni e fini diversi, di
problematiche che al di fuori di tale realtà sarebbero oggetto di isolati interventi ma che richiedono,
all’interno, una dialettica interdisciplinare e una regolamentazione organica rivolta non solo alle
esigenze della sicurezza e cautelari ma anche a quei profili trattamentali di cui una moderna politica
penitenziaria deve farsi carico al fine di garantire quello che è il diritto fondamentale della persona
umana: il diritto alla salute così come riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale e dalla vigente
normativa sul Servizio Sanitario Nazionale.
Alla specialità, dunque, della medicina e della normativa fa riscontro la previsione di
un’organizzazione con caratteri propri. Ma preliminarmente si può dire che esiste un
“sistema”sanitario penitenziario e, in quanto tale, giuridicamente autonomo? La risoluzione delle
due questioni è inevitabile per affrontare il rapporto con il S.S.N.
Nell’attuale situazione di fatto, si può affermare che l’assistenza sanitaria ai detenuti esista come
“servizio”sanitario reso dallo Stato per il tramite dell’Amministrazione penitenziaria. Tale
organizzazione si compone di una serie di organi o soggetti funzionalmente e gerarchicamente
legati per assicurare le prestazioni sanitarie alla popolazione detenuta. L’impressione, confermata
nell’analisi dell’organizzazione, è quella che l’assistenza carceraria cominci ad apparire unicamente
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con i medici avendo tutti gli altri solo una responsabilità di tipo gestionale nei confronti
dell’assistenza vera e propria. Nonostante la legge 309/90 abbia previsto una partecipazione del
Provveditore per la stipula di convenzioni a livello regionale con le AA.SS.LL. non sembra che tale
competenza a livello programmatico-territoriale risulti decisiva; di fatto i soggetti su cui grava
l’assistenza e le iniziative sanitarie sono coloro che sono quotidianamente e direttamente a contatto
con i detenuti e cioè in prima linea i Medici e i Direttori degli istituti. L’assistenza sanitaria si pone,
allora, come incidente rispetto ai fini primari della carcerazione, sicurezza e sconto della pena,
come “servizio”che nel tempo ha mantenuto tale retaggio. La tutela della salute deve dunque
dispiegarsi secondo modalità diversi rispetto a quelle che normalmente si avrebbero. Infatti la pena
detentiva, come misura afflittiva e privativa, ha sempre recato in sé l’idea del detenuto come
soggetto privo di diritti e di quei benefici che di solito appartengono alla persona libera. La stessa
medicina penitenziaria era concepita con funzioni limitate e di “pronto soccorso”. La pena nella sua
accezione non implica, però, perdita di quei diritti che riguardano la persona e tutti gli individui
senza condizione sociale o personale; il diritto alla salute rientra indubbiamente tra questi. E non
solo. La funzione della pena assume anche una concezione “personalistica” attenta ai bisogni umani
del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale. Di conseguenza cambia il ruolo
della medicina penitenziaria; la tutela dello stato psico-fisico riveste maggiore importanza nel
detenuto la cui condizione di benessere è strumentalmente alla fase del trattamento, in base al
principio rieducativo della pena così come concepita dalla Costituzione.
Il detenuto deve essere curato. Ma quali sono le modalità e le scelte di politica sanitaria?
La risposta si ferma all’alternativa tra autonomia dell’assistenza sanitaria penitenziaria, integrazione
con il SSN o diretta e unica gestione da parte di quest’ultimo. Ma un’attenta considerazione delle
opzioni legislative non può prescindere dall’analisi di quelle che sono le realtà organizzative del
servizio sanitario e del contesto storico in cui si è formata l’attuale normativa. In sostanza
l’alternativa si pone realisticamente soltanto a partire da un dato momento storico cioè con l’entrata
in vigore della legge 833/78.
L’emanazione della normativa sul SSN, di fatti, si pone come momento di pausa rispetto al
precedente quadro normativo e organizzativo della sanità italiana la quale versava in uno stato
disarticolato e frammentario, caratterizzato dall’esistenza di una miriade di organismi che si
differenziavano per la qualità degli utenti e delle prestazioni erogate. Dall’entrata in vigore della
Costituzione fino all’emanazione della legge 833, il lungo cammino legislativo è stato disseminato
da una serie di provvedimenti legislativi: solo nel ’58 si è avuta l’istituzione del Ministero della
Sanità e sino al ’68 gli ospedali non erano enti sanitari, ma solo enti assistenziali con funzioni
sanitarie. In tale situazione, inizialmente, la previsione di un “separato” servizio sanitario nelle
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carceri con caratteri disorganici costituiva la fedele copia di quello che era la realtà italiana. La
scarsa attenzione alle problematiche dei detenuti, l’attesa di una riforma globale dell’ordinamento
penitenziario fecero sì che l’intervento normativo fosse non in linea con quanto stava accadendo
sul piano nazionale. Non meraviglia come allora la questione sanità delle carceri fosse rimasta nelle
“mani” del Ministero di Grazia e Giustizia, né come mancassero degli indirizzi generali in materia
di salute: quella dei detenuti era e rimaneva un “affare”dell’Amministrazione penitenziaria.
La legge di riforma sanitaria 833/78 rappresenta, sotto il profilo amministrativo, una modifica
dell’assetto dei soggetti pubblici che operano nel campo sanitario; essa ha introdotto una nozione
unitaria dell’attività che realizza la tutela della salute, abolendo il sistema mutualistico e trasferendo
le competenze all’ASL, e allo scopo, dettando una serie di principi e obiettivi.
2.3 Disturbi psichici in ambito penitenziario
Nei detenuti sono stati riscontrati dei disturbi psicologici durante la detenzione, specie nella fase
iniziale. La multiformità dei disturbi psicologici e delle malattie psichiatriche e la possibilità di
forme di passaggio tra l’una e l’altra rende difficile una classificazione. In linea generale, si può
affermare che tali disturbi possono essere ricondotti alle seguenti categorie:
•
Schizofrenia e altri disturbi psicotici. I disturbi che rientrano in questa categoria
sono caratterizzati dalla presenza di sintomi psicotici con presenza di deliri e/o allucinazioni
importanti non accompagnate da uno stato di consapevolezza del soggetto sulla loro natura
patologica.
•
Disturbi dell’umore, che possono assumere diversi gradi d’intensità. Citiamo la
depressione dove il soggetto presenta una grave mancanza d’interessi per tutte le attività della vita
quotidiana, alterazioni del ritmo sonno-veglia. Affaticamento fisico non giustificato, significativa
perdita di peso senza essere a dieta oppure diminuzione dell’appetito. Queste caratteristiche proprie
della manifestazione depressiva sono amplificate dal regime di detenzione, sia per l’intrinseca
gravità dell’elevato rischio suicidario associato, sia per la difficoltà di poter proseguire alcuni
trattamenti di farmacologia.
•
Disturbi d’ansia, come ad esempio l’attacco di
panico con palpitazioni,
tremori, sensazione di soffocamento.
•
Sensazione d’asfissia, brividi, oppure sindromi come la claustrofobia o
l’agorafobia. Riportiamo anche il disturbo da ansia sociale, il disturbo acuto da stress e il posttraumatico da stress a seguita carcerazione o prima carcerazione.
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•
Disturbi sessuali e dell’identità di genere. In questa categoria rientrano le
parafilie che sono state individuate come le più frequenti presenti nei soggetti che commettono
alcuni tipi di reato, poiché comprendono l’esibizionismo, la pedofilia, varie perversioni e violenze
sessuali in genere.
•
Disturbi dell’alimentazione, ad esempio l’anoressia nervosa (frequente in
ambito carcerario), o la bulimia nervosa.
•
Disturbi del sonno che si possono presentare come difficoltà ad iniziare o
mantenere il sonno, oppure come ipersonnia, cioè un’eccessiva sonnolenza, oppure come sonno in
cui però non si riposa.
•
Disturbi del controllo degli impulsi, che possono essere anche causa di reati, ad
esempio la cleptomania, cioè l’incapacità di resistere agli impulsi di rubare oggetti di cui non c’è
bisogno per l’uso personale o per il valore economico; non resistere alla tentazione di compiere
un’azione pericolosa per se e per gli altri; la piromania; gioco d’azzardo patologico.
•
Disturbi dell’adattamento, la cui caratteristica fondamentale è lo sviluppo di
sintomi emotivi o comportamentali efficaci con risposta ad uno o più fattori psicosociali stressanti,
quali ad esempio potrebbero essere la vita all’interno del carcere.
•
Disturbi della personalità: s’intendono quei modelli d’esperienza interiore e di
comportamento che deviano marcatamente rispetto alle attese della cultura del soggetto, esordisce
nell’adolescenza o nella prima età adulta e determina disagio o menomazione. Gli innumerevoli
disturbi antisociali presenti in carcere sono noti poiché si assiste spesso ad un’inosservanza o non
rispetto dei diritti degli altri. Nei disturbi borderline e narcisistico grave, invece, il soggetto ha la
sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè, si aspetta trattamenti di favore, di soddisfazione immediata
delle proprie aspettative; approfitta degli altri per i propri scopi. I detenuti con questi disturbi creano
grossi problemi all’èquipe medica del carcere per la ricorrenza di gesti auto-lesivi anche di
particolare gravità.
•
Disturbi correlati a sostanze: sono disturbi secondari all’assunzione di una
sostanza d’abuso. Importanti sono le problematiche psichiche legate alla tossicodipendenza in
generale. La tossicodipendenza sarebbe un fenomeno sintomatico di un disagio psicopatologico che
la sostanza stupefacente tende a coprire. I disagi più frequenti sono di tre tipi: depressione, vere e
proprie psicosi, ma soprattutto disturbi di tipo borderline.
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2.3.1 Disturbo di adattamento e carcere
L’ingresso in carcere già di per sé è traumatico. L’impatto con questa istituzione, a carattere
totalizzante e destrutturate, che tende a privare il soggetto della propria, pur incerta, identità,
impone regole ferree ed autoritarie. Con l’ingresso in carcere il detenuto entra in un ambiente con
alti livelli di stress, risultante da un repentino cambiamento della rete affettiva e sociale e
dall’incertezza del futuro, il carcere come ambiente lascia una profonda traccia nell’esperienza
psichica; la permanenza per lungo tempo in strutture chiuse (carceri, ospedali psichiatrici) può dar
luogo a reazioni psicopatologiche assai varie come tipologia e gravità clinica. La speculazione
psicopatologica ha descritto queste condizioni catagolandole nel capitolo delle “Psicosi carcerarie”
privilegiando principalmente l’aspetto di processo e di distacco dalla realtà piuttosto che con gli
aspetti reattivi conseguenti alla necessità di adattarsi alla nuova condizione, pur traumatizzante e
facilmente vissuta come ostile e punitiva. In alcune formulazioni più recenti sono state distinte dalle
psicosi carcerarie le “sindromi reattive alla carcerazione, termine che connota tutte quelle
manifestazioni psicopatologiche reattive che hanno luogo in carcere. In ambito criminologico,
invece, si usa il termine “prisonizzazione” per indicare tutto il complesso di funzioni sociali
(autonomia, libere scelte sessuali, identità, conformismo, sicurezza, empatia), che vengono
compromesse nello stato di detenzione, soprattutto se si tratta di esposizione prolungata del soggetto
alla cultura carceraria (pene lunghe), se vi è esiguità di relazioni con l’esterno (famiglia, lavoro) e
in relazione all’accettazione del codice informale vigente nelle carceri (criminalizzazione). Un altro
termine che rientra nel disturbo di adattamento è il “trauma da ingresso in carcere”; vi fanno parte
quei fenomeni osservati nel passaggio dalla libertà alla detenzione che comportano la comparsa di
una serie di segni fisici quali l’inappetenza fini all’anoressia completa; la stipsi ostinata, talvolta
prolungata; la secchezza delle fauci; la cefalea; l’insonnia spesso ostinata; le palpitazioni; le
vertigini; sensazioni di freddo, caldo, le parestesie, mani umide e fredde; la minzione frequente,
spesso nicturia; l’astenia, la difficoltà a concentrarsi. Oltre a questi disturbi sono presenti fenomeni
psicopatologici quali crisi d’ansia, la comparsa di preoccupazioni ipocondriache e di fenomeni
claustrofobici; elementi di discontrollo degli impulsi con crisi di aggressività fino alla pantoclastia,
ma non frequentemente anche di tipo autolesivo con ingestione di corpi estranei o di tipo
autolesionistico.
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2.3.2 Psicosi carcerarie
Nelle istituzioni penitenziarie le manifestazioni psicopatologiche sono particolarmente frequenti.
Esse possono essere la continuazione di disturbi psichici preesistenti, oppure la strutturazione di
una risposta di tipo psicotico ad eventi particolarmente traumatizzanti dal punto di vista psicologico,
quali l’entrata in carcere, l’attesa di giudizio, la previsione di condanna, la sentenza stessa. Il primo
trauma che il detenuto subisce è costituito sicuramente dall’ingresso in carcere: “La sindrome da
ingresso in carcere” è considerata come una serie di disturbi non solo psichici ma spesso
psicosomatici, che compaiono tanto più frequentemente e pesantemente quanto più elevato è il
grado d’educazione, di sensibilità, di cultura dei soggetti detenuti. Il trauma da ingresso in carcere
può diventare tanto più forte quanto maggiore è il divario fra il tenore di vita condotto in libertà e
quello carcerario. La risposta del soggetto si modula in base alla sua struttura di personalità e alle
abilità/capacità d’adattamento in possesso, nonché all’ambiente-cella e ai compagni. La capacità
d’adattamento sarà superiore in un soggetto con esperienza di precedenti carcerazioni, o che riesca a
trovare nel carcere punti di riferimenti (detenuti che appartengono alla stessa banda criminale, alla
malavita della stessa zona o più semplicemente a piccola delinquenza dello stesso paese o
quartiere). E’ certo che per molti soggetti alla prima detenzione, anche se per ciascuno in modo
diverso, l’impatto con la struttura carceraria costituirà uno dei momenti più drammatici
dell’esistenza. Vari tentativi d’umanizzazione dell’impatto con il carcere e allo stesso tempo di
prevenzione dei comportamenti a rischio sono stati fatti. Il più importante è sicuramente la
predisposizione del Servizio Nuovi Giunti effettuato dagli psicologi del carcere attraverso un
colloquio con ogni singolo detenuto all’atto d’ingresso in istituti volto a valutare la personalità del
soggetto soprattutto al fine di prevenire eventuali gesti autolesivi.
Inoltre sono state riscontrate alcune forme morbose psicopatologiche caratterizzate dal legame
esistente fra la loro insorgenza e lo stato di detenzione, ed è a queste particolari patologie che gli
studiosi si riferiscono quando parlano di “psicosi carcerarie”; cioè vere e proprie forme
psicopatologiche, con sintomi caratteristici, che insorgono in individui in detenzione e che non si
osservano in altri ambienti.
Le psicosi sono definite come “quell’insieme di malattie che pongono l’individuo in una situazione,
temporanea o permanente, di perdita quasi totale della capacità di comprendere il significato della
realtà in cui vive e di mantenere tra se e quella realtà un rapporto di sintonia sufficiente a
salvaguardare un comportamento autonomo e responsabile.
La carcerazione, proprio per il suo essere un evento improvviso e destabilizzante, può favorire lo
sviluppo del meccanismo della psicosi a causa dello scompenso di un io, già fragile, che non riesce
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più a mantenere il suo già traballante equilibrio; può dare il via a forme di schizofrenia che si
sviluppano in tutta la loro sintomatologia dopo l’arresto, oppure in forme borderline che diventano
chiaramente psicotiche.
E’ importante ricordare che tutte queste problematiche sono curate ed assistite all’interno del
carcere dal personale medico, in particolare dallo psichiatra dell’istituto, perché non è prevista una
misura alternativa, che non sia quella del ricovero in O.P.G..
A) Sindrome di Ganser
Continuando nell’analisi dei disturbi psichici, una peculiare forma reattiva alla carcerazione è la
sindrome di Ganser (pseudo demenza psicogena o stato crepuscolare isterico). E’ un raro disturbo
mentale che pur non presentandosi esclusivamente in carcere, si osserva generalmente in soggetti
detenuti nell’attesa di giudizio. Consiste in una reazione isterica basata su di una motivazione
inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente.
Uno fra i sintomi psicopatologici più caratteristici è che i soggetti non sono capaci di rispondere alle
domande più semplici che sono loro rivolte, sebbene dalle risposte è evidente che hanno capito il
significato della domanda e nelle loro risposte è evidente che hanno capito il significato della
domanda e nelle loro risposte tradiscono una sconcertante mancanza di conoscenze che essi hanno
posseduto e che ancora possiedono.
La sindrome è caratterizzata da un comportamento bizzarro, da allucinazioni visive ed uditive, da
deliri, da disorientamenti, da amnesia, da convulsioni isteriche, da marcata variabilità dell’umore.
Il detenuto può fare cose strane durante la visita: si può spogliare ed indossare gli abiti al rovescio
per esempio; sul piano espressivo, non c’è dubbio che tale condizione si presenti con un quadro di
una certa gravità, ovvero apparentemente si qualifichi per la ricorrenza di sensibili alterazioni delle
funzioni psichiche (dell’orientamento, della memoria, dell’attenzione). Si tratta di sintomatologia
“pseudo demenziale”, a metà strada tra la simulazione e la reazione inconscia e con costante
membro isterico a sostegno; di solito vi è presente nei soggetti affetti dalla sindrome un aspetto
recitativo o “bamboleggiante” che questi soggetti assumono. Si tratta di reazioni relativamente rare,
che compaiono per lo più in soggetti dotati di modesta intelligenza o con personalità premorbosa di
tipo isterico, che reagisce a condizioni ambientali stressanti, o in ogni modo vissute con senso di
pericolo o incapacità, con il ricorso a comportamenti apparentemente “folli”, ovvero che egli ritiene
possano essere interpretati come tali, in maniera in parte conscia ed in parte inconscia. La sindrome
impone una diagnosi differenziale con la simulazione in quanto restano dubbi circa il fatto che sia
una simulazione cosciente o incosciente. E’ considerata di difficile trattamento intramurario poiché
si risolve nella rimozione della causa che l’ha prodotta.
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B) Sindrome da “prisonizzazione”
Una molteplicità di vissuti soggettivi sono alla base di quella che è indicata, sul piano nosografico,
come sindrome di prisonizzazione, che si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici che
vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva sino alla sindrome ganseriana. Il processo
di prisonizzazione è stato descritto da vari Autori (Clemmer e Cloward) come processo di
“deculturizzazione” (perdita di schemi di comportamento sociale adeguati alla cultura dominante),
“alienazione” (accomodazione patologica ad un ambiente destrutturate la personalità),
“acculturazione” (acquisizione attiva di ruoli, schemi comportamentali e valori della cultura
carceraria).
Con il termine s’intende, quindi, l’effetto complessivo dell’esperienza carceraria sull’individuo.
Indica l’assuefazione allo stile di vita, ai modi, ai costumi e alla cultura generale. Quasi un percorso
di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell’identificazione quasi completa
con l’ambiente, con i suoi esempi da imitare. Le esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza
inducono l’istituzione penitenziaria a ricercare ed alimentare l’uniformità degli atteggiamenti e dei
comportamenti dei detenuti, attraverso l’imposizione di “valori” comuni che sono i prodotti delle
finalità e delle funzioni carcerarie.
L’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati relativi all’organizzazione della prigione,
lo sviluppo di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del linguaggio
locale, il riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni, e
l’eventuale desiderio di un buon lavoro sono aspetti della “prisonizzazione” che possono essere
riscontrati in tutti i detenuti.
La presenza della “prisonizzazione” dipende in primo luogo dall’individuo stesso, vale a dire dalla
sua sensibilità dalla cultura che a sua volta dipende dal tipo di relazioni che aveva avuto prima
dell’incarcerazione, nonché dalla sua personalità.
Sul piano clinico Catanesi sostiene che la comune reazione d’ansia iniziale, a volte con spunti fobici
e diverse manifestazioni somatiche, nel tempo di due- tre giorni, viene sostituita dalla sindrome da
“prisonizzazione” vera e propria oppure il soggetto, per lo più in casi di recidiva , comincia a
muoversi lungo le direttive di un progressivo adattamento. Il realtà il soggetto detenuto vive
sensazioni angosciose ed opprimenti, può presentare tratti fobici, che possono trasformarsi in paura
per la propria incolumità fisica. Solitamente questa fase, definita di “iperestesia” agli stimoli
ambientali, si esaurisce in due- tre settimane; si nota come all’ansia siano correlati una serie di segni
fisici quali insonnia, inappetenza e un’incapacità di gestire la propria emotività. Queste sono le
manifestazioni più dolorose sulle quali è necessario intervenire non solo farmacologicamente, ma
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soprattutto psicologicamente, poiché in questo momento il soggetto, sentendosi perso, può andare
incontro ad improvvisi gesti autolesivi. Il disturbo si trasforma poi in depressione caratterizzata dal
ritiro in se stessi, la paura è sostituita dallo sconforto.
C) Sindrome persecutoria
Nella forma clinicamente più lieve la sindrome è caratterizzata da sospettosità, atteggiamento
guardingo, aspettative di danno, tendenza a sentirsi valorizzato, ostacolato ed insultato, minacciato,
da parte di altri detenuti o dal personale di custodia. Si tratta di una reattività all’ambiente
carcerario, le cui condizioni di vita favoriscono l’insorgere di tendenze di tipo paranoideo. Nella
forma clinicamente più grave, può giungere ad un “delirio sistematizzato di persecuzione”.
D) Stati di regressione
Con l’aumentare del periodo trascorso in detenzione, in alcuni soggetti si possono verificare
fenomeni di regressione che fanno parte della più generale sindrome da prisonizzazione. Il detenuto
tende a perdere la propria autonomia , si lascia guidare e chiede di essere guidato, limita le
abitudini, si dimostra ansioso di fronte a qualsiasi novità, si chiude in se stesso e ritrova solo nella
sua cella e in solitudine la pace e la tranquillità.
Si tratta di casi clinici in cui i soggetti, chiusi in prigioni di massima sicurezza, presentano una
profonda distrazione della propria identità sino ad arrivare anche a vistose rappresentazioni
simboliche.
E) Fuga dalla malattia
Possiamo dividere la fuga nella malattia in una tendenza alla malattia fisica ed in una tendenza alla
malattia psichica. Per quanto riguarda i disturbi fisici, ricordiamo che in ambito carcerario possono
rappresentare, oltre ad una vera sofferenza organica, anche una sorta di veicolo di comunicazione
privilegiata, attraverso cui il detenuto può manifestare le sue sofferenze e il suo disappunto verso le
istituzioni. Per quanto riguarda la fuga nei disturbi psichici,questa può presentarsi con tutte le
caratteristiche dei disturbi somatoformi delle sindromi di conversione e psicosomatiche. In casi
clinici di gravità maggiore, la fuga nella malattia può avvenire con una produzione volontaria di
gravi sintomi psichici di tipo psicotico, in cui il detenuto cerca di assumere il ruolo del paziente
psichiatrico. Si tratta della sindrome di Ganser di cui ho già parlato.
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F) Sindrome del guerriero
In ambito carcerario sono noti alcuni detenuti che genericamente vengono definiti come coloro che
“non hanno nulla da perdere”. Basta una minima stimolazione o provocazione alla loro presunta
autorità o coraggio, per farli reagire in modo inadeguato ed eccessivo, con aggressività e violenza,
spesso messe in atto con la precisa volontà di ferire o procurare la morte.
Questi soggetti spesso si sottopongono a vistosi tatuaggi sul viso, tra cui l’allungamento della rima
palpebrale, che può conferire agli occhi un aspetto più aggressivo e rendere il volto del soggetto
simile ad una maschera da guerriero. La sindrome del guerriero si può manifestare in una situazione
esistenziale in cui il soggetto è sempre pronto, sempre all’erta nei confronti di uno scontro fisico per
potere manifestare ed ottenere una sua rispettabilità e poter conseguentemente “vivere tranquillo”,
essendo numerose le provocazioni ed i tentativi di sopraffazioni in ambito carcerario.
G) Sindrome da intervallo
Alcuni individui possono vivere brevi periodi di detenzione come una sorta di intervallo, fonte di
sollievo, sia a livello fisico, sia a livello fisico che psichico, da una vita ed un ambiente esterno
divenuti difficili, frustranti, ansiogeni. In carcere è ben conosciuta la cosiddetta sindrome “delle
vacanze a caldo”. Si tratta di soggetti condannati in genere per reati minori generalmente dediti
all’alcool, anziani, senza fissa dimora, i quali spesso in prossimità delle festività riescono a farsi
mettere in carcere “al caldo” (riparati, nutriti, vestiti) per alcuni mesi. La detenzione come sindrome
da intervallo incomincia ad essere presente in alcuni tossicomani.
In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono, che riescono a
resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo subiscono. In ogni sistema
penitenziario vi è purtroppo una duplice contraddizione di fondo: si ha la pretesa di insegnare al
detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a
vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi.
2.4 Malattie simulate
Nell’ambiente penitenziario risulta molto diffusa la simulazione delle malattie in genere e quelle
mentali in particolare.
Così come le condizioni di salute possono incidere sull’esecuzione effettiva della pena, può
accadere che il detenuto accentui o aggravi o addirittura inventi una malattia tale da poter fargli
concedere alcuni benefici. Pensiamo all’interesse a cui mira il detenuto nella simulazione di
malattia mentale, l’obiettivo è quello di ottenere il riconoscimento dell’infermità totale o parziale
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oppure egli simula una malattia per evitare di presenziare al processo, sperando nel rinvio o ancora
simula per ottenere il trasferimento in un luogo esterno di cura dove, pensa, possa essere più
semplice un tentativo di evasione.
Alcuni autori sostengono che si ha “simulazione” tutte le volte in cui ricorrono elementi di falsità in
ordine all’esistenza, alla genesi, all’entità e alle conseguenze delle lesioni; altri affermano che
rientrano nel concetto di simulazione tutte quelle forme assai diverse, che hanno però in comune la
volontà di trarre in inganno il medico circa le proprie condizioni di salute e psicosomatiche.
Comunque sia, la simulazione presuppone l’intenzione cosciente d’ingannare in vista del
raggiungimento di un fine che consiste in un illecito vantaggio, infatti nel DSM-IV si trova scritto
“La caratteristica fondamentale della simulazione è la produzione intenzionale di sintomi fisici o
psicologici falsi o grossolanamente esagerati, motivata da incentivi esterni come evitare il lavoro o
un procedimento penale, oppure ottenere farmaci”.
La scelta del tipo di simulazione dipende da una serie di fattori quali ad esempio il livello
intellettuale del simulatore, il suo grado di autosuggestionalità, la possibilità di mettere in atto
meccanismi psicofisici riflessi e di controllarli con la volontà.
In tutti questi casi il medico che visita tali pazienti dovrà cercare di capire e distinguere quando è in
presenza di una vera e propria malattia e quando invece il soggetto simula, compito questo
delicatissimo, perché deve conciliare da una parte l’interesse del paziente, che ha diritto di essere
curato e assistito, in quanto il sanitario non deve rischiare di sottovalutare i sintomi lamentati;
dall’altra però deve garantire l’interesse della giustizia e informare l’autorità giudiziaria sugli esiti
positivi o meno della patologia presunta per adottare poi eventuali provvedimenti.
Mentre per le malattie organiche esistono accertamenti diagnostici discriminanti, che aiutano il
medico a distinguere una patologia effettiva dalla simulazione, per la malattia psichica può essere
più difficile discriminare fra il vero disturbo e la simulazione di questo, per cui lo psichiatra
nell’obiettivare l’esistenza di disturbi per lo più comportamentali
deve tenere costantemente
presente che essi possono essere sì autentici, ma anche e troppo spesso recitati, al fine evidente di
ottenere indebiti benefici, primo fra tutti la sospensione del giudizio.
Aspetto particolare assume il rapporto di questi pazienti con i trattamenti psicofarmacologici
psicoterapeutici nei confronti dei quali il simulatore è sostanzialmente refrattario e non recettivo:
cosa che invece accade nel vero malato di mente. La vera “malattia mentale” comporta
manifestazioni cliniche di destrutturazione ed alterazione della personalità, di deterioramento della
stessa, che non possono sfuggire all’osservazione e al controllo carcerario e sono documentabili
attraverso la registrazione dei comportamenti cui danno luogo nell’ambito di custodia.
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Altra delicata questione di difficile interpretazione è costituita da tutte quelle situazioni di malattie
psicosomatiche, che spesso si riscontrano in ambiente carcerario. Si instaura un processo di
“somatizzazione”, si passa da una serie di sensazioni di malessere localizzato o diffuso, a vere e
proprie patologie organiche tipo l’asma bronchiale; questi soggetti contemporaneamente esprimono
anche il loro turbamento, tuttavia con manifestazioni emozionali talora difficili da “decodificare”,
che vanno dalle semplici “variabili d’ansia” fino alle forme acute di angoscia, alle più complicate
“equivalenze di depressione”. I disturbi somatici tendono ad essere vissuti con partecipazione
emotiva ansiosa particolarmente intensa, ed è quasi costante lo sviluppo di preoccupazioni di tipo
ipocondriaco (timore di essere affetti da gravi malattie somatiche anche in assenza di evidenze di
tipo obiettivo).
In questi casi assai frequenti i detenuti ripetutamente chiedono nuovi esami diagnostici e nuove
visite mediche, nella “speranza” di avere dei riscontri oggettivi ai loro sintomi, per “ricavarne” se è
possibile anche qualche privilegio.
2.4.1 Atti di autolesionismo
Il tentativo di ottenere indebiti benefici può spingere il detenuto non solo alla simulazione della
malattia mentale, ma anche a gesti ben più gravi, generalmente di natura autoaggressiva, al fine di
richiamare l’attenzione degli operatori penitenziari e conseguentemente di raggiungere l’obiettivo
prefissato.
Il gesto autolesivo è dettato da diverse motivazioni coscienti ed inconsce ed è condizionato sia da
fattori esogeni legati all’ambiente, sia da fattori endogeni legati all’individualità del soggetto.
Secondo alcuni studiosi la condotta autolesiva del soggetto recluso può avere tre origini soggettive
diverse, così da potersi distinguere, tra:
•
Autolesionismo con causa psichica, cioè come sintomo di
psicosi o nevrosi
carceraria;
•
Autolesionismo con causa emotiva, ossia come atto istintivo di protesta nei
confronti dell’operatore dell’amministrazione penitenziaria e/o dell’autorità giudiziaria;
•
Autolesionismo con causa razionale, ossia come atto deliberatamente diretto ad
ottenere strumentalmente un beneficio giudiziario-penitenziario, o attraverso la pressione
psicologica esercitata sugli organi giudiziari o penitenziari; oppure mediante la deliberata
predisposizione del deficit psico-fisico elevato dall’ordinamento giuridico a presupposto oggettivo
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legittimante la concessione di una misura o di una modalità alternativa all’esecuzione penale nella
struttura carceraria.
Questa differenziazione è molto importante perché gli effetti giuridici delle condotte autolesive si
possono fare variare proprio in relazione alle sottostanti cause soggettive motivazionali che
giustificano una serie di reazioni da parte delle autorità penitenziarie e giudiziarie. Si tratta di gesti
che meritano la massima attenzione da parte dei medici penitenziari e soprattutto degli psichiatri
che vengono chiamati di fronte ad emergenze di questo tipo. Infatti per ottenere il rilascio di un
permesso, l’avvicinamento al proprio nucleo familiare, il trasferimento in un altro carcere, la
possibilità di parlare con il magistrato inquirente o un posto di lavoro all’interno dell’istituto, il
detenuto spesso compie gesti di violenza su se stesso. In questo modo egli strumentalizza il proprio
corpo, rasentando forme di autolesionismo molto rischiose con le quali cerca di richiamare
l’attenzione delle Autorità competenti sulla propria posizione processuale o su altre circostanze
personali. Quando il rischio di atti auto o etero-aggressivi è elevato, lo psichiatra richiede la
predisposizione di una sorveglianza particolarmente attenta del detenuto, al fine di prevenire
eventuali gesti violenti. A questo proposito sono state emanate varie circolari dell’amministrazione
penitenziaria ,(circolare amato del 30 dicembre 1987) con le quali si raccomanda al personale di
garantire costantemente con prontezza e scrupolo il massimo impegno, allo scopo di prevenire il
verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti rimovendone sia le cause, sia
impedendone l’esecuzione. Infatti viene riconosciuto allo Stato il potere d’intervenire coattivamente
quando l’atto autolesivo sia posto in modo tale da far coinvolgere l’interesse della collettività.
2.5 Proposte sanitarie in carcere
Perseguire l’idea di un carcere sano potrebbe apparire illusorio o folle ad alcuni, ambizioso o
pericoloso ad altri. Che si sia mossi da un rassicurante pragmatismo, da una solidarietà necessaria,
pretendere di lavorare al miglioramento di una struttura irrimediabile per definizione, suscita
sconcerto, timore, scherno. Come non cedere a tale diffusa intolleranza? In verità, chi conosce
dall’interno l’istituzione penitenziaria dovrebbe domandarsi come si sia potuto con facilità
rinunciare a programmi di restauro del sistema che non fossero quelli di un’apertura spesso
indiscriminata. Tornare a
gettare uno sguardo dentro il carcere senza cedere all’immediata
repulsione che questi ispira, è la sfida che abbiamo di fronte. Renderlo, quando non più sano, se non
altro meno insano, è il dovere di ogni operatore penitenziario. Lavorare in luoghi estremi, in
situazioni terminali, non significa perdere la speranza in un riscatto. Nessun posto appare disperato
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quanto il braccio della morte, dove neppure la consolazione della malattia e delle cure soccorre
l’uomo. Eppure anche lì può verificarsi il miracolo assurdo del ritorno alla vita, in un misto di fiaba
e realtà che non crea confusione. Il vero prodigio non è quello legato ai poteri paranormali di un
uomo, ma la capacità di alcune persone semplici di comprendere il valore del rispetto di cui
circondano coloro che il mondo detesta tanto da mettere a morte.
Nella lingua del carcere il recluso diventa il camoscio e l’agente lo stambecco o il superiore; si
fronteggiano due mondi: quello della trasgressione e quello del controllo, che nutrono un reciproco
pregiudizio, mentre dal benessere dell’uno dipende quello dell’altro, essendo il loro un rapporto che
dura nel tempo, destinato a trasformarsi in una convivenza coatta. Ciò che serve è una risposta
adeguata, dentro e fuori, ai problemi che l’apparato penitenziario segnala. Ne elenco almeno due.
1.
i morbi emergenti: sofferenza mentale, tossicodipendenza, malattie infettive. Non si può
pensare che un sistema repressivo possa controllare simili situazioni, è necessario adeguare la
risposta sanitaria del carcere alle emergenze segnalate e stabilire una omogeneità e quindi dei
collegamenti agili tra servizi territoriali e penitenziari. Non resta che dare rapida applicazione al
decreto legge 230/99, che comporterà un incremento della dialettica intramuraria e tra interno ed
esterno.
2.
la crescita esponenziale degli stranieri reclusi, con la creazione di una faglia sempre più ampia
tra assetto antropologico del carcere e del territorio.
Alla luce di questi brevi accenni, pretendere che dei giovani agenti possano fronteggiare simili
evenienze, è da balordi. La legge stabilisce che venga definito uno specifico Progetto obiettivo per
la tutela della salute in ambito penitenziario, in vigore per tre anni, che dispone il passaggio
graduale alle Regioni e quindi alle ASL della gestione diretta della sanità nel settore penitenziario.
Lo scopo del Progetto consiste nella rimozione degli ostacoli ambientali ed organizzativi che
caratterizzano l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, mediante la formulazione di criteri e
indirizzi per l’attivazione di una rete di servizi sanitari volti a soddisfare la domanda d’assistenza, a
migliorare la qualità delle prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione, a garantire il
raggiungimento degli obiettivi di salute negli istituti penitenziari. Per qualificare e umanizzare
l’assistenza sanitaria nelle carceri e per rendere più efficaci le risposte sanitarie, il Servizio Sanitario
Nazionale e l’Amministrazione penitenziaria realizzano una collaborazione mediante la definizione
di programmi sanitari a livello nazionale, regionale e locale.
Lo stato della salute nelle carceri, sovraffollate, non è conosciuto perché manca un sistema di
rilevazione delle patologie, ma è preoccupante per un’alta percentuale di extracomunitari e
tossicodipendenti presenti. Le patologie infettive, psichiatriche e gastroenterologiche sono quelle
maggiormente diffuse; in particolare malattie infettive come epatiti, tubercolosi, AIDS, sono motivo
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di grande impegno economico e per farvi fronte l’Amministrazione penitenziaria ha utilizzato circa
il 40% del finanziamento per l’approvigionamento dei farmaci. I piani regionali dovranno garantire
gli obiettivi di salute dei detenuti secondo i livelli essenziali e uniformi d’assistenza previsti dal
piano sanitario nazionale. Il progetto obiettivo individua le aree prioritarie d’intervento per la tutela
della salute dei detenuti, indicando i programmi per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle
malattie maggiormente diffuse, volti al superamento degli stati d’invalidità e cronicità determinati
da eventi interni o esterni alla condizione detentiva. E’noto che il carcere è causa di rischi
aggiuntivi per la salute fisica e psichica dei detenuti; nella condizione di restrizione della libertà
personale, i problemi della quotidianità risultano determinanti per lo stato di salute, inteso come
benessere fisico, psichico e ambientale. Edifici degradati, regime alimentare, inattività, atti di
violenza sono le questioni cui con priorità deve essere rivolta l’attenzione e l’iniziativa dei servizi
sanitari. Entro tre mesi dall’entrata in vigore del Progetto obiettivo, ogni ASL effettuerà una
ricognizione dei rischi di ogni carcere per realizzare i necessari interventi strutturali al fine di
migliorare le condizioni la qualità della vita in carcere, mediante l’attuazione di programmi di
educazione alla salute per sensibilizzare detenuti e operatori. Le aziende sanitarie locali, inoltre,
dovranno assicurare il soddisfacimento della domanda di cura dei detenuti garantendo la
tempestività degli interventi, la continuità assistenziale, la qualità delle prestazioni, la verifica dei
risultati. Le principali aree d’intervento sono: la medicina generale, specialistica, d’urgenza,
l’assistenza ai detenuti tossicodipendenti e alle persone immigrate detenute, le patologie infettive e
la tutela della salute mentale. Per quanto riguarda la medicina generale, il modello deve prevedere
visite mediche e colloquio con l’operatore di salute mentale per tutti i nuovi giunti, visite alle
persone che ne facciano richiesta, raccordo con la medicina del territorio e continuità assistenziale.
Nel settore della medicina d’urgenza, si deve garantire il pronto intervento nell’ambito del sistema
d’emergenza-urgenza, aggiornare il personale, integrare le strutture interne con quelle esterne,
disporre all’interno del carcere di strutture per affrontare le urgenze senza ricorrere al ricovero
esterno. Il trattamento del tossicodipendente, invece, prevede l’attuazione delle misure di
prevenzione, diagnostiche e terapeutiche che riguardano sia l’aspetto della sfera psicologica che
quello clinico al fine di garantire la salute del tossicodipendente detenuto e assicurare, la tutela
complessiva della salute all’interno delle strutture carcerarie. Ciò comporta la ridefinizione del
modello assistenziale secondo l’ottica che concili le strategie terapeutiche “con quelle preventive e
di riduzione del danno”.
Gli obiettivi sono: a) un’immediata presa in carico da parte del SERT per evitare inutili sindromi
astinenziali ed ulteriori momenti di sofferenza del tossicodipendente, assicurando la continuità
terapeutica; b) attività di prevenzione; c) effettuazioni d’indagini chimico-cliniche, interventi
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specialistici per l’approfondimento diagnostico, la redazione di programmi personalizzati che
possono prevedere anche l’uso del metadone. Le malattie infettive costituiscono un problema
rilevante in tutte le comunità chiuse, gli obiettivi da raggiungere sono: a) predisporre strumenti
d’informazione per i detenuti e costruire mappe di rischio per le diverse modalità di trasmissione
delle infezioni, al fine di sviluppare ed attuare misure di prevenzione efficaci per controllare/ridurre
le patologie infettive; b) definire procedure standard di valutazione dei nuovi ingressi dopo
un’attenta osservazione; c) definire procedure di screening per identificare gli infetti; d) sviluppare
un sistema di sorveglianza sanitaria che raccolga attendibili dati epidemiologici e costruire modelli
d’intervento psico-sociale per diminuire i comportamenti a rischio. In tema di salute mentale il
piano premette che negli istituti il disagio psichico è più diffuso e maggiore rispetto all’esterno; la
promozione e la tutela della salute mentale negli istituti penitenziari vanno riguardate come obiettivi
che il Servizio sanitario nazionale deve porsi, non solo ai fini sanitari, ma anche a quelli della
sicurezza. Occorre coinvolgere tutti gli operatori in un progetto di complessiva presa in carico e
strettamente collegato con le strutture psichiatriche del territorio.
In
futuro finalmente ogni Regione dovrà individuare nel suo ambito almeno una struttura
ospedaliera per detenuti. Un importante principio è quello secondo cui, le ragioni di sicurezza non
possono mai mettere a rischio la salute e la vita del detenuto. Il nuovo sistema consente: a) di
superare una separatezza storica tra culture e esperienze diverse che hanno una finalità comune,
quella della tutela della salute della persona detenuta; b) di mettere a disposizione del carcere tutto il
potenziale del Servizio Sanitario Nazionale; c) di salvaguardare il patrimonio d’esperienze acquisite
dalla medicina penitenziaria.
Il progetto fissa infine, i compiti e le competenze dello Stato, delle Regioni, delle Aziende Sanitarie
Locali al fine, di evitare al massimo conflitti ed equivoci che finirebbero per affossare la riforma, a
danno della chiarezza, dell’efficienza ma, soprattutto della salute dei detenuti, coloro che alla fine
pagano tutto e sempre personalmente, anche per gli errori altrui.
2.6 La figura dello psichiatra penitenziario
Lo psichiatra penitenziario opera in condizioni molto diverse da quelle sue abituali, da quelle cioè
del prestatore di cura in un rapporto fiduciario che si instaura fra medico e paziente, uniti in ciò che
si denomina “alleanza terapeutica”. Le caratteristiche di questa speciale attività professionale sono
comuni a quelle di ogni altro operatore penitenziario (psicologo, educatore, operatore sociale), per
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cui le questioni deontologiche possono essere trattate sia per lo psichiatra che per gli altri esperti
della persona umana (criminologi) e possono considerarsi come problemi etici generali della
criminologia applicata nell’ambito penitenziario e giudiziario. Va in proposito precisato che lo
psichiatra è una figura professionale oggi presente in ogni istituto penitenziario, dove gli sono
affidate due mansioni: una terapeutica e l’altra di tipo criminologico. Lo psichiatra penitenziario si
trova a dover adempiere ad un duplice mandato, quello terapeutico e quello di difesa sociale. Chi
opera in ambito penitenziario e giudiziario, oltre a farsi carico dell’interesse del soggetto di cui si
occupa, non può dimenticarsi di avere un committente, il giudice o l’amministrazione penitenziaria
e comunque la società, come espressione di un mandato di interesse pubblico. Tra le tante funzioni
che lo psichiatra svolge in ambito penitenziario, vorrei centrare l’attenzione sul suo ruolo come
operatore carcerario. In questo caso l’ambiguità è massima, poiché nella stessa persona sono
presenti sia le funzioni di colui che deve fornire informazioni all’autorità giudiziaria o
all’amministrazione penitenziaria, sia quella di operatore del trattamento. Si tratta in sostanza di una
situazione in cui convivono controllo e cura, in cui lo psichiatra che opera in carcere oltre che
terapeuta (prestando assistenza e cura ai detenuti con disturbi psichiatrici o, più semplicemente, con
difficoltà psicologiche), diviene anche CRIMINOLOGO. Come tale è fra colui che si occupa di
studiare la personalità di un delinquente per valutarne la probabilità di recidiva, la idoneità a fruire
di benefici, di riduzioni di pena, di sanzioni, di misure alternative. Egli per esercitare questa attività,
dovrà spogliarsi, in parte, di ciò che costituisce l’abituale veste professionale di ogni clinico, cioè di
quel particolare atteggiamento di affettività che lo porta ad essere solidale col soggetto che gli si
affida in cerca di aiuto. In pratica l’alleanza terapeutica, che è il cardine dell’empatia del clinico e
che è principio deontologico a cui ogni medico non può rinunciare, viene ad scontrarsi con il fatto
che il paziente, in molti casi, è esaminato non in prospettiva di una cura o di un intervento a suo
favore, bensì per assolvere a richieste e a necessità dell’amministrazione giudiziaria. E’ opportuno
sottolineare che lo psichiatra, in queste istituzioni, non è solo l’esperto dei “pazzi”, ma per la sua
speciale formazione professionale è, l’esperto dell’uomo: non per nulla egli è inserito fra quei
professionisti che costituiscono l’équipe che si occupa di diagnosi criminologica e di trattamento
rieducativo. La duplicità del ruolo, tra l’altro, comporta per lui un atteggiamento che non può
essere certo di diffidenza aprioristica, né di preconcetta ostilità, ma non può essere neppure di
acritica accettazione di tutto quanto gli viene riferito: certo neppure il terapeuta stimerà sempre e
comunque sincere le parole del detenuto, ma la corrispondenza al vero avrà per lui minor
importanza, rilevando piuttosto, ai suoi fini, il perché una cosa viene sottaciuta ed un’altra magari
travisata: in terapia, cioè, conta più il vissuto, in criminologia più il fatto.
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La particolare caratteristica del soggetto che il criminologo-psichiatra si trova di fronte, quella cioè
di aver commesso un reato, comporta d’altra parte il rischio opposto a quello terapeutico, rischio del
“di stanziamento moralistico”.
Ponti, professore di psicopatologia forense, sottolinea che nell’incontro terapeutico non psichiatrico
non ha incidenza il confronto fra due concezioni di vita, fra due morali che possono essere diverse;
ciò può accadere, in quanto uno dei soggetti coinvolti nella relazione ha commesso un reato, ha cioè
infranto delle norme che, più o meno rispecchiano le nostre concezioni su ciò che è giusto e ciò che
non lo è. Anche chi ritenga di essere particolarmente anticonformista, o non voglia imporre i propri
valori morali e sociali, troverà comunque dei comportamenti che non sola disapprova, ma che
magari turbano profondamente il suo senso di giustizia, ed è ovvio che prima o poi lo psichiatra si
trovi di fronte a soggetti che hanno messo in atto questi comportamenti. Tutto ciò non è
necessariamente giusto o sbagliato, è probabilmente solo umano, si tratta di imparare a convivervi,
distinguendo tra “morale” e “moralismo”. L’obiettivo ideale è, secondo Ponti, quello di trovare un
giusto quanto difficile equilibrio fra i compiti valutativi, la consapevolezza del ruolo pubblico e
delle conseguenze che esso comporta e la disponibilità empatica, che solo può consentire la
comprensione.
Altra questione generale è quella che riguarda la necessità di aver consapevolezza del carattere
relativo delle conoscenze in materia di personalità. Contrariamente alle scienze mediche, nelle quali
i margini di incertezza sono assai più ridotti e dove esistono delle verità comunque accettate e
riconosciute, nella psichiatria e criminologia le certezze sono inesistenti. L’esame retrospettivo del
perché la persona ha agito in un certo modo, dei moventi che hanno suggerito il comportamento
delittuoso trascorso, l’indagine sulle caratteristiche psicologiche al momento dell’esame, sui
proposti e progetti futuri, sono tutti accertamenti gravati necessariamente da un bel margine
incertezza. Questo non comporta il rinunziare in partenza alla ricerca di conoscenze, ma certamente
obbliga alla cautela, alla modestia, alla consapevolezza dei limiti dell’operare psichiatrico. E’
evidente quindi che la figura dello psichiatra che opera in ambiente penitenziario sia caratterizzata
da questioni deontologiche non indifferenti, accentuate dalla duplicità di ruolo di cui egli è
investito.
Nel momento in cui l’esperto effettua l’osservazione, quindi, l’ambiguità di ruolo e la difficoltà
dell’operare derivano dal fatto che la sua funzione si esplica nell’ambiente carcerario, a stretto
contatto con i detenuti, esposto a minacce e pressioni provenienti spesso dall’amministrazione
penitenziaria o dagli altri medici penitenziari e contemporaneamente gli viene assegnata una
funzione valutativa. Senza assumere atteggiamenti preconcetti nei confronti del detenuto, dovranno
prevalere la neutralità e l’oggettività connesse al ruolo di rappresentante di valori sociali di cui in
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questa fase lo psichiatra è investito. La situazione si capovolge quando lo psichiatra agisce come
operatore del trattamento, quando cioè il ruolo clinico è quello preminente. Gli obiettivi che
l’operatore qui si pone sono quelli del recare aiuto, di alleviare le sofferenze e le preoccupazioni, di
supportare la persona di fronte alle difficoltà che frequentemente gli si prospettano nel momento
della condanna, durante la carcerazione ed anche in vista dell’imminente reinserimento nella vita
libera. Questo tipo di attività comporta pertanto un atteggiamento di completa disponibilità, di
empatia e di alleanza terapeutica; tale intervento non può essere imposto, ma si fonda sulla richiesta
e sulla libera accettazione da parte del soggetto. Al di là di questi interventi di aiuto e sostegno, lo
psichiatra che stringe un’alleanza terapeutica non può dimenticare di essere anche investito della
responsabilità di effettuare un intervento pur sempre mirato a trattamenti correzionali, tenendo
presente i fini istituzionali della risocializzazione. Come sostengono alcuni autori, la riabilitazione
del detenuto, di una persona estremamente sofferente perché priva del prezioso bene della libertà
personale, non è però compito che può riguardare esclusivamente l’amministrazione penitenziaria,
ma richiede l’impegno di tutte le forze sane della società per consentire che in essa rientri colui che,
con il delitto, se ne è allontanato. Si tratta quindi, di mettere la pena utile non solo per lo stesso
detenuto che la sconta, ma anche per la società che riacquista, a beneficio dell’intera collettività, un
nuovo soggetto profondamente diverso dall’uomo del delitto.
Nel convincimento che non sia sufficiente la carcerazione da sola ad avviare un processo di
riabilitazione, tutti i mezzi a disposizione, sociali, scientifici e legislativi debbono essere utilizzati al
fine di permettere al detenuto il reinserimento nella società. Secondo alcuni autori l’impegno sociale
e legislativo dovrebbe essere rivolto alla costruzione di un nuovo patto sociale e di una nuova
identità comportamentale del detenuto. Concetto che rappresenta un’opposizione al principio che
considerava inopportuno ogni intervento psicologico o psichiatrico sulla personalità del detenuto,
visti come violenza sul libero arbitrio del carcerato.
Molti psichiatri penitenziari ritengono che il loro compito sia quello della diagnosi e cura degli stati
morbosi, nonché della prevenzione delle ricadute, con l’obiettivo di minimizzare i danni che un
sistema ingiusto produce a persone socialmente sfavorite. Altri considerano la rieducazione sociale
un parto della riabilitazione psichiatrica, sostenendo che per riabilitare una persona sia a livello
psichiatrico che giuridico, sia necessario suscitare in essa una passione che può nascere solo
all’interno di una relazione psicoterapeutica. L’ordinamento penitenziario all’art. 1 stabilisce che
“nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che
tenda, anche attraverso contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”.
Quando poi la stessa legge all’art. 15 stabilisce gli elementi del trattamento e li individua
nell’agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno, oltre che nell’istruzione, nel lavoro,
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nella religione, è chiaro che il trattamento rieducativo ha per scopo essenziale la ripresa, un giorno,
della vita all’esterno del penitenziario, e cioè il recupero del reo alla vita sociale. In questo contesto
ritengo che il compito dello psichiatra penitenziario sia quello di recare cura e assistenza ai detenuti
e non quello di rieducare. Curare perché sono molti i disturbi psichici di cui soffrono i condannati
sia a causa delle stesse condizioni di vita all’interno del carcere, sia per tutti quei disagi che in
carcere trovano terreno fertile per sbocciare e maturare. Assistere perché dopo un periodo di
carcerazione, di allontanamento forzato dalla vita collettiva non è semplice rientrare nella società ed
un supporto psicologico e psichiatrico può senz’altro essere d’aiuto nel tragitto personale che ogni
detenuto deve compiere per accettare il carcere, il limite e soprattutto il contenimento che molti
soggetti da soli non sono riusciti a trovare.
Solo dopo tale conquista si può iniziare a parlare di rieducazione. La necessità di svolgere una
funzione intermedia fra i bisogni del detenuto e il mandato repressivo e contenitivo del carcere è
quindi alla base di tutte le responsabilità che gravano sullo psichiatra penitenziario. Egli rimane
colui che da un lato non può ignorare la legalità, ma dall’altro comprende i motivi che hanno
portato allo sconfinamento nell’illegalità. Inevitabilmente egli si troverà ad essere soggetto a
pressioni e sarà coinvolto in una lunga serie di scontri: con il personale militare , ad esempio, ma
anche con gli altri medici penitenziari che, concepiscono il carcere in maniera diversa, ritenendo
inconcepibile parlare di “sofferenza psichica” e “affettiva dei detenuti”. Spesso si sente dire dagli
operatori penitenziari che per svolgere la propria professione in un carcere bisogna tracciare delle
linee di confine: solo riuscendo a non farsi coinvolgere personalmente, infatti, si può sopravvivere.
Il ruolo dello psichiatra, invece, se adempiuto seriamente e con umanità, non permette un distacco
netto dalle vicende personali dei reclusi; il farsi carico di grandi problematiche per offrire una
progettualità di ricostruzione personale al paziente, è senz’altro una delle più grosse responsabilità
che incombono sullo psichiatra. Ma non è l’unica, poiché il confine tra malattia mentale e
normalità, in certi casi, diventa labile. Riguardo alla decisione di presentare richiesta di ricovero
esterno: allo psichiatra non solo spetta il difficile compito di valutare se per il detenuto sia più
opportuno rimanere in carcere o essere ricoverato all’esterno, ma anche quello di sfidare nel
secondo caso l’organizzazione carceraria a causa del già ricordato atteggiamento di resistenza
dell’amministrazione penitenziaria che, per motivi di sicurezza e di custodia, è restia ad effettuare
ricoveri esterni. Non bisogna dimenticare, infine, che i detenuti fanno tante richieste, e sono
disposte a fare qualunque cosa per vederle soddisfatte. Minacciano di tagliarsi, anche di uccidersi se
non vedono il magistrato inquirente, se non ricevono la visita urgente dello psichiatra, dal quale
magari non vogliono altro che uno psicofarmaco. In questa molteplicità di richieste e di minacce lo
psichiatra deve sapere o quantomeno decidere che cosa si può concedere e in che misura.
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2.7 Ruolo dello psicologo in ambito penitenziario
L’introduzione della figura dello psicologo nell’istituzione detentiva per adulti avviene con la legge
n. 354 del ’75. L’art. 80 di tale legge, prevede, che: “Per lo svolgimento delle attività
d’osservazione e di trattamento, l’amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti
esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica”.
L’evoluzione della concezione della pena, vede dal XIX sec. in poi, l’affermazione della
rieducazione come elemento centrale del trattamento penitenziario. Per mezzo del trattamento
penitenziario s’intende realizzare un percorso rieducativo che consenta, attraverso il recupero del
soggetto deviante, il suo reinserimento nella società. L’introduzione, nel sistema carcerario, di
figure specializzate nelle teorie e tecniche di stampo psicologico-sociale, in grado di attuare
interventi specialistici, orientati all’individuazione delle cause del comportamento delinquenziale,
alla loro rimozione attraverso il trattamento rieducativo e al reinserimento dell’individuo che ha
deviato nella società, diviene pertanto necessaria. Con la legge 354/78, quindi, si ha l’introduzione
della figura dello psicologo che, nel ’79, entra operativamente a far parte dell’équipe d’osservazione
e trattamento degli istituti penitenziari per adulti.
In ambito penitenziario l’intervento psicologico si realizza fondamentalmente in tre servizi, che
prendono il nome della tipologia dei soggetti cui ci si rivolge: il Servizio Nuovi Giunti,
l’Osservazione e Trattamento, il Presidio Sanitario Tossicodipendenze.
Il Servizio Nuovi Giunti, istituito con la circolare Amato del 1987, ha come finalità la tutela della
vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati, rivolgendosi non solo ai
soggetti che sono privati della libertà per la prima volta, ma anche a coloro che provengono da un
altro istituto e sono assegnati ad un carcere, per trasferimento temporaneo o assegnazione definitiva,
focalizzando l’accento sulle sue supposte competenze specialistico-predittive; la circolare indica i
fattori di rischio suicida in ambito carcerario considerando tre aspetti: epidemiologici/anamnestici,
di personalità e affettivi.
Accanto alle attività già contemplate dall’ordinamento penitenziario, come il colloquio d’ingresso e
la prima visita medica, si prevede che venga svolto un colloquio preventivo diretto dallo psicologo,
finalizzato alla comprensione delle procedure da mettere in atto per tutelare, sia dal punto di vista
fisico che psichico, il soggetto, nonché la sicurezza degli altri detenuti e internati e del personale
dell’istituto. Lo psicologo risponde ad un mandato specifico, relativo alla valutazione della
probabilità che il soggetto possa commettere atti autolesivi e di subire violenza, sulla base
dell’identificazione dei nessi tra condizioni psico-sociali del soggetto e “livelli di rischio”.
L’indagine è condotta a due livelli: sulla situazione ostile contingente e sul terreno del vissuto
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passato del soggetto con un esame dei dati anamnestici e sociali. Lo psicologo dopo aver valutato
attentamente lo stato cognitivo-affettivo dell’individuo, si esprime sulla dislocazione del detenuto
all’interno del carcere, dando indicazioni in merito a precisi interventi da imporre sul regime di
vita. Il parere dello psicologo è espletato nell’immediatezza, in un circuito all’interno del quale si
lavora all’insegna dell’emergenza; in tempi brevissimi lo psicologo è chiamato ad effettuare una
diagnosi, che sarà indicativa della prima forma di trattamento riservato al soggetto. Appare, però,
fortemente riduttivo pensare di poter ipotizzare in poco tempo una diagnosi predittiva, di
predisposizione al suicidio, in considerazione del fatto che il suicidio esprime insiemi
motivazionali, dinamici, interattivi e culturali di estrema complessità già in contesti normali. La
possibilità di entrare in contatto con il detenuto indipendentemente dalla sua posizione giuridica sia
dai primi giorni di detenzione, consente di lavorare subito sull’individuazione dei bisogni e dei
problemi, offrendo al detenuto uno spazio di dialogo e di riflessione. L’attenzione dovrebbe, poi,
essere spostata sull’istituzione carceraria nella sua globalità. Da una funzione di controllo e
contenimento, ci si potrebbe spostare sul come e cosa cambiare nel contesto in cui la persona è
inserita. La prevenzione al suicidio è possibile, infatti, solo se all’individuazione di un rischio
elevato conseguono misure d’osservazione e trattamento veramente efficaci, che non si riducono
all’isolamento o al collocamento in celle di sicurezza.
Le attività d’osservazione e trattamento sono previste, nei confronti dei detenuti condannati ed
internati. Per la loro normativa dispone che venga condotta: “un’osservazione scientifica della
personalità per rilevare le carenze fisicopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale” che ha
lo scopo di formulare delle indicazioni da seguire per svolgere il trattamento rieducativo ed il
relativo programma; a livello operativo si traduce nella necessità di considerare l’insieme degli
intrecci relazionali che si attivano nel “qui ed ora” della relazione osservatore/osservato e che
determinano e modificano l’acquisizione dei dati. L’osservazione deriva da una costruzione
realizzata dal sistema osservatore e che influenza la percezione dell’altro nel rapporto interattivo;
numerosi sono gli studi che analizzano le aspettative e le percezioni precostituite che il detenuto
può possedere nei confronti dello psicologo,prima del vero e proprio incontro con lui. A questo
proposito lo psicologo potrebbe correre dei rischi; infatti se non considerasse le aspettative riguardo
al suo ruolo professionale che potrebbero essere posseduti dal detenuto influenzandone le azioni,
avrebbe una visione distorta dell’altro ed inoltre potrebbe accadere che reagisca inconsapevolmente
alle attese del detenuto assumendo un determinato atteggiamento riguardo ai bisogni e agli obiettivi
perseguiti da quest’ultimo. È importante che lo psicologo consideri sempre il contesto fisico ed
interpersonale in cui si realizza il processo di conoscenza per comprendere i fattori e le variabili che
intervengono e capire le interazioni in base alle regole, aspettative, bisogni e emozioni emergenti.
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Allo psicologo penitenziario è commissionata una conoscenza di fenomeni già precostituiti
socialmente in un contesto ben preciso, che è quello carcerario. Occorre indagare sui processi
interattivi che si attivano, non solo nella relazione psicologo/detenuto ma anche in quella
detenuto/istituzione carceraria, e psicologo/istituzione.
Lo psicologo dovrebbe, pertanto, attivare un processo di ridefinizione del sé, modificando il
significato che il soggetto ha finora dato alla su esistenza e ai suoi comportamenti, aiutando
l’individuo a comprendere che, se vuole, può (non deve) fare scelte diverse da quelle fino a quel
momento operate. In tale ottica il trattamento consisterebbe, più che nel fornire la ricetta adatta alla
patologia, nell’elaborazione critica che comprende il sé nella sua globalità e che aiuti il soggetto a
riflettere criticamente sulle esperienze finora realizzate.
E’infatti noto come la detenzione determini una serie di meccanismi operanti in ambito carcerario
che, ostacolano la rieducazione, rendendo difficili e spesso contraddittorie, la socializzazione e il
reinserimento. Tra questi ricordiamo: l’isolamento, senso di perdita della dimensione individuale e
culturale, processo di prisonizzazione relativo all’assunzione d’abitudini.
Inoltre, altra caratteristica fondamentale affinché il trattamento sia efficace, riguarda la
“volontarietà”; per far sì che ci sia un cambiamento deve esistere da parte del soggetto interessato
una forte condivisione dei contenuti e degli obiettivi del trattamento, ed una reale volontà di
cambiare. Solo in quest’ottica la rieducazione non s’identifica con un processo in cui l’individuo è
passivamente trasformato da agenti esterni che tentano d’incidere sulla sua vita. Per la concessione
delle misure premiali è fondamentale che il detenuto aderisca alle attività trattamentali e ai valori
proposti in maniera implicita negando, quindi, in un certo senso, il rifiuto o la negazione di questi
ultimi.
Il DAP (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) prevede per i tossicodipendenti un
programma comprendente un Intervento di base e dei trattamenti avanzati.
L’intervento di base prevede che si accerti, per ogni soggetto che entri per la prima volta
nell’istituto penitenziario, l’eventuale condizione di tossicodipendenza. Una volta che il detenuto
risulti tossicodipendente, viene inviato nella struttura riservata, dove verrà effettuata la sua presa in
carico sia sotto il profilo medico-sanitario che psicologico. Spesso in questa prima fase emergono
ambiguità ed ambivalenze; nel definirsi come tossicodipendenti gli interessati sentono e chiedono di
godere di diritti, d’attenzioni, trattamenti e benefici particolari. Nello stesso tempo tali soggetti
prendono le distanze e accrescono il distacco dal gruppo delinquenziale detenuto. I reati commessi
sono ritenuti dei non reati, perché compiuti per necessità. Il trattamento psicologico al momento del
primo ingresso rappresenta l’aspetto più problematico poiché la maggior parte delle volte è lo stesso
soggetto a rifiutarlo, interessato com’è a richiedere la droga o i suoi sostituti. In tutti modi il DAP
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prevede sempre, nell’ambito degli interventi di base, che gli operatori penitenziari, con l’aiuto di
collaborazioni esterne realizzino esperienze di trattamento che comprendano: interventi d’urgenza,
interventi psicologici di sostegno, aiuto pedagogico e sociale per il mantenimento degli interessi
affettivi attraverso programmi e modalità d’intervento.
E’inoltre importante motivare il soggetto a trattamenti più avanzati, da effettuarsi presso i presidi
esterni; essi sono diretti a quei soggetti che, al momento del primo ingresso in carcere, hanno un
valido programma socio-riabilitativo in corso e sono seguiti dagli operatori penitenziari in
collaborazione con i Ser.T. Gli obiettivi del trattamento avanzato da seguire non si limitano ad
un’azione di sostegno psicologico ed educativo , ma comprendono un cambiamento più profondo
degli atteggiamenti personali connessi alla tossicodipendenza ed un coinvolgimento maggiore nelle
attività lavorative e socializzanti.
Dopo di ché è possibile definire un modello d’intervento che offre ai soggetti che si trovano in
regime di detenzione un percorso di continuità secondo tre fasi:
•
fase dell’Accoglienza in cui l’attenzione dello psicologo è rivolta alla gestione
dell’impatto emotivo del soggetto con il sistema carcerario; in tale momento il soggetto viene preso
in carico attraverso attività d’ascolto e sostegno;
•
fase dell’Analisi della Domanda in cui l’attenzione dello psicologo è rivolta alla
comprensione dei bisogni e delle istanze di cui il soggetto è portatore, per consentire a quest’ultimo
di riflettere criticamente su di sé. In tal modo il momento detentivo viene visto dal detenuto come
una situazione ponte tra un passato che ha prodotto la condizione attuale ed un futuro che potrebbe
svilupparsi seguendo nuove direttive e registri;
•
fase dell’Orientamento coincide con la definizione degli obiettivi da
raggiungere, sia relativamente alla richiesta di un percorso trattamentale extramurario, sia alla
possibilità d’intraprendere un lavoro psicologico su se stessi, durante il periodo della detenzione.
In genere, un individuo che si rivolge allo psicologo espone il suo problema esprimendo una
richiesta esplicita d’aiuto per il superamento delle proprie difficoltà. Di primaria importanza, per
instaurare il rapporto terapeutico, è indagare sulle motivazioni che riguardano la domanda esplicita,
analizzando e comprendendo i messaggi relazionali impliciti per giungere ad ciò che è la reale
domanda d’aiuto del soggetto. Tutto ciò denominato come “Analisi della Domanda”, serve per
definire quanto può essere fatto nello specifico contesto, formulando obiettivi realistici verso i quali
muoversi e serve ad individuare l’utenza: chi richiede, cioè, l’intervento professionale.
Ciò che caratterizza la figura dello psicologo è la capacità d’interrogarsi costantemente su di sé,
dando valore alle possibili deviazioni e strumentalizzazioni; ciò vuol dire saper organizzare il
proprio intervento in base ai vincoli offerti dal mandato istituzionale nella chiarezza tra le parti in
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causa, considerando anche il mandato di riservatezza proprio al rapporto con l’utente ossia col
soggetto partecipe di un progetto d’acquisizione di conoscenza.
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CAPITOLO TRE
TRATTAMENTO PENITENZIARIO
3.1 Istituzione totale: ambiente carcerario
Gli istituti carcerari, in genere servono a proteggere la società da chi è stato individuato come un
pericolo intenzionale nei suoi confronti. Tali organizzazioni, definite da Goffman “istituzioni
totali”, sono caratterizzate dal fatto che agiscono con un potere inglobante o totale, simbolizzato
dall’impedimento allo scambio sociale ed all’uscita verso il mondo esterno. Tali caratteristiche sono
fondate sulle stesse strutture materiali dell’istituzione, che sono le porte chiuse, le mura alte e le
finestre con sbarre. Oltre agli aspetti esteriori vi sono altri elementi che caratterizzano le cosiddette
“istituzioni totali” e che rendono profondamente differente la vita coatta nell’istituzione rispetto a
quella libera, condotta dall’individuo nel mondo esterno. Uno degli aspetti fondamentali della
società attuale è che l’uomo manifesta le tre fondamentali forme dell’esistere (vivere, lavorare,
divertirsi) in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto autorità diverse. Secondo Goffman la
caratteristica principale delle istituzioni totali può essere ritenuta la rottura delle barriere che
abitualmente separano queste tre sfere di vita. Infatti, nelle istituzioni penitenziarie, le modalità di
vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la medesima autorità; ogni forma d’attività si manifesta in
un gruppo più o meno numeroso d’individui, che sono trattati alla stessa stregua ed obbligati ad un
ritmo di vita analogo e che vivono le differenti fasi delle attività quotidiane secondo schemi
rigidamente preordinati da un sistema di regole ben definite e da personale addetto alla loro
esecuzione; nell’istituzione carceraria si verifica quindi una tipica contrapposizione tra i detenuti e
il personale di custodia. Infatti i detenuti hanno scarsi contatti con il mondo esterno da cui sono
separati, mentre il personale di custodia è o dovrebbe essere socialmente integrato nel mondo
esterno. I contatti tra questi due gruppi d’individui, in posizione assai diversa, sono finalizzati al
rispetto del regolamento. Il detenuto al momento di diventare tale deve provare i “rituali” che
regolano l’ingresso negli stabilimenti penitenziari. Al rituale d’ammissione in carcere, che già può
provocare una perdita del senso di sicurezza personale, si aggiungono le sfavorevoli conseguenze
dovute al fatto che individui con caratteristiche diverse debbano vivere con compagni indesiderabili
o sgraditi. Oltre a ciò quando il detenuto è ammesso alla vita in comune, si rende conto di non poter
disporre di uno spazio personale e di una vita intima, privata.
È importante anche esporre alcune diverse tappe attraverso le quali il detenuto entra a far parte di
un’istituzione totale. In questa fase, quando la detenzione è iniziata da poco tempo, le reazioni del
detenuto sono diverse, a seconda che si tratti di un individuo alla prima esperienza di vita carceraria,
di un giovane o di un adulto. Il detenuto nel progressivo “adattamento” alla vita carceraria acquista
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sempre una maggior anonimia, pur tentando di mantenere la propria identità personale, che gli viene
data anche dal fatto che entra in possesso ed utilizza il cosiddetto “gergo costituzionale”, che come
mezzo di comunicazione, assume rilevanza perché non è usato solo dai detenuti, ma può essere
conosciuto anche dal personale di custodia, che lo utilizza nei rapporti più stretti e diretti con i
detenuti. In seguito il detenuto esperimenta nuove possibilità d’adattamento che gli consente di
ottenere qualche soddisfazione proibita o di raggiungerne altre con mezzi non consentiti. La
possibilità di giovarsi di mezzi per ottenere “qualche soddisfazione non concessa” diventa un modo
di difesa dell’io, nel senso che il detenuto può dimostrare a se stesso di possedere una certa
autonomia ed una capacità di farsi valere, riuscendo a trasferire nella vita del carcere alcune
manifestazioni proprie della vita libera. Queste forme di limitata autonomia non impediscono ai
detenuti, soprattutto alla prima esperienza di detenzione, di partecipare a quel senso di “ingiustizia”,
diffuso e comune a molti di loro, che si manifesta soprattutto verso la società, perché il detenuto,
pur riconoscendosi colpevole, crede di essere stato soggetto ad una pena eccessiva ed inizia così a
giustificare l’azione antisociale compiuta e a prospettarsi l’azione rivendicativa per l’ingiusto
trattamento subito, con nuovi crimini; inizia così a realizzarsi nel detenuto il convincimento di
essere predestinato alla “carriera criminale” anche dopo l’espiazione della pena, al termine della
quale non tutti ritengono di aver soddisfatto il debito verso la società, ma anzi se ne sentono
creditori per quella parte d’ingiusta condanna subita per opera di una società che non è esente da
colpe. Sebbene s’instaurano esperienze di solidarietà e di fratellanza tra i detenuti, lo spirito di
gruppo non si mantiene molto elevato, perché il detenuto userà forme diverse d’adattamento nelle
differenti fasi della sua detenzione, giungendo ad una sorta d’atteggiamento oscillante e di
compromesso che rappresenta l’opportunistica combinazione d’adattamenti diversi che gli
consentono di far fronte alle differenti sollecitazioni presenti nell’ambiente, che lo portano a
partecipare alle iniziative d’altri detenuti o a mostrarsi molto osservante del regolamento. Nel
tentativo di adattarsi all’ambiente carcerario l’individuo sceglie un modello di condotta nei rapporti
con gli altri ed agisce conformemente al ruolo che si è, inconsapevolmente, dato. A seconda del
ruolo scelto e del modello d’adattamento i detenuti parteciperanno alla vita carceraria più o meno
attivamente, con comportamenti ostili o di passiva rassegnazione. A questi schemi di condotta non
aderiranno coloro che ricorrono, inconsciamente, alla malattia, non riuscendo ad adattarsi alle
esigenze del gruppo in quel determinato ambiente. I detenuti che invece assumono durante la
detenzione ruoli di prestigio, difficilmente accetteranno quanto l’ambiente offre loro; quelli
passivamente adattati accetteranno d’altra parte di lavorare e di produrre, tentando di inserirsi nei
cosiddetti “posti migliori”. Può esservi anche un altro tipo di detenuto che, nell’isolamento del
carcere, accetta la solitudine come un apporto positivo ad un arricchimento interiore. Questo tipo di
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detenuto si sottrae all’ambiente carcerario, al suo nuovo mondo di vita per scegliere una solitudine
che, pur se imposta, gli permette di realizzare concretamente alcuni aspetti dell’umana esistenza.
Risulta chiaro che nelle istituzioni i ruoli assunti dai detenuti e le diverse forme d’adattamento
possono rivelare aspetti negativi e destrutturati della personalità dell’individuo. Esiste anche un
altro modo di giudicare il livello d’adattamento all’istituzione che viene espresso in termini di
proiezione nel futuro. Nella prospettiva temporale assume importanza quel fattore psicologico detto
“speranza”, fiduciosa aspettativa di un futuro nel quale la situazione reale cambierà in modo tale da
soddisfare i desideri di un individuo. Solo quando il detenuto rinuncia a sperare, egli cessa di
espandersi attivamente, di fare programmi e perfino di desiderare un futuro.
Per il detenuto lo spazio vitale, limitato per quanto riguarda il presente, è molto condizionato anche
dal futuro psicologico, che è una parte di quello che Lewin ha chiamato “prospettiva temporale”.
Infatti secondo alcuni studi riguardanti la sofferenza in carcere (Farber) si è potuto constatare una
sicura relazione tra il grado della sofferenza e certi fattori collegati al futuro o al passato: per
esempio la convinzione di un detenuto che la sua sentenza fosse ingiusta, la speranza per una
possibile liberazione, l’incertezza per la concessione della grazia. Quindi non è solo la privazione
attuale a creare angoscia o sofferenza, ma anche certi aspetti del passato e soprattutto del futuro
psicologico. Secondo Farber i detenuti sono in grado, nonostante le sofferenze subite, di svolgere
compiti vantaggiosi riguardante l’attività interna ed il tempo libero e quindi di adattarsi alla vita
dell’istituzione pur in modo precario. Il futuro psicologico non è condizionato solo dalla speranza di
una possibile liberazione o dall’incertezza per la concessione della grazia: il detenuto, infatti, fa
progetti, che proietta nel momento in cui recupererà la libertà, e nel rappresentarsi il futuro espone
situazioni irrealizzabili, difficilmente o facilmente realizzabili. Oltre alle privazioni dovute allo
spazio di vita ridotto ed impersonale, il detenuto è limitato negativamente anche in quel settore
dell’ambiente di vita che è connesso alle prospettive future. Appare pertanto necessario modificare
l’ambiente carcerario in funzione della rieducazione del detenuto: ciò forse potrà realizzarsi
attraverso l’individualizzazione del trattamento, che è uno dei presupposti delle nuove vigenti
norme sull’ordinamento penitenziario.
3.2 Gli strumenti della rieducazione
Ogni forma di società ha delle istituzioni che la difendono dalle persone che sono
“intenzionalmente” pericolose, cioè da individui che infrangono in modo grave l’ordinamento
normativo su cui poggia la società. Il tipo prevalente di tali istituzioni è il carcere dotato di un
regime formalmente amministrativo che provvede a soddisfare le esigenze vitali degli individui che
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vi sono racchiusi, mettendo in atto le
“terapie” di rieducazione per un loro inserimento
nell’ambiente sociale.
Goffman definisce le istituzioni totali luoghi di “residenza” in cui un gruppo di persone viene
totalmente determinato da altre senza alternative al tipo di vita imposta e senza possibilità di uscire
verso la società esterna; all’interno di tale luogo chiuso e immutato, controllato da un’autorità unica,
con un sistema di regole formali ben definite, la persona deve soddisfare le diverse sfere ed
esigenze della vita. È importante chiarire che esistono diversi istituti di ritenzione con una
metodologia differente di recupero: vi è l’istituto di custodia preventiva (in cui dovrebbero venire
custoditi detenuti solo imputati in attesa di giudizio), l’istituto per l’esecuzione delle pene (dove
l’individuo sconta una pena già definitiva) e soprattutto un istituto per l’esecuzione delle misure di
sicurezza (in cui l’individuo con determinate caratteristiche di comportamento o di malattia,
dovrebbe trovare l’ambiente idoneo e favorente un suo effettivo reinserimento).
I tre perni fondamentali su cui ruota il processo di rieducazione e risocializzazione sono il lavoro,
l’istruzione e la religione.
Il nuovo ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354) così si esprime al primo comma
dell’art. 15: “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente
dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività ricreative e sportive e agevolando opportuni
contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”.
a)- Il lavoro
“In ogni stabilimento carcerario le pene si scontrano con l’obbligo del lavoro”.
Il secondo comma dell’art. 20 dell’ordinamento stabilisce che il lavoro penitenziario non ha
carattere afflittivo ed è remunerato; è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di
sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro; deve essere qualificato e qualificante per il
reinserimento sociale; deve tener conto delle attitudini, desideri, capacità dei soggetti e deve essere
garantito nel riposo e nella tutela assicurativa e previdenziale. L’art. 21 prevede anche due modalità
di organizzazione del lavoro: una interna all’istituto, l’altra esterna.
Si può rilevare che vi è effettivamente il recupero delle dignità del lavoro del detenuto formalmente
parificato al lavoro libero.
In realtà, però, le cose non stanno così; vi sono elementi contraddittori e situazioni ambigue che
smentiscono la lettera e mantengono il detenuto-lavoratore in una condizione nettamente inferiore e
degradante rispetto al libero lavoratore. Infatti, nelle carceri italiane predominano due sistemi di
lavoro: il lavoro in economia e il lavoro in appalto. Le varie amministrazioni dello stato dovrebbero
commissionare alla Direzione Generale degli istituti di Prevenzione e Pena tutti gli
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approvvigionamenti di vestiario, coperte, scarpe ecc.. di cui necessitano. Se esiste una precaria
funzione in questo tipo di lavorazioni è dovuto essenzialmente alla mancanza di chiari e definiti
criteri organizzativi, alla carenza di personale specializzato in grado di dirigere, pianificare,
eseguire e controllare il lavoro, e spesso alla inesistenza del macchinario necessario. Occorre poi
rilevare una situazione strutturale ed ambientale particolarmente sfavorevole ed inadatta a
raggiungere livelli proficui di lavoro. Le lavorazioni, nella maggioranza delle carceri italiane,
debbono infatti svolgersi in ambienti occasionali e quindi strutturalmente inadeguati poiché
l’edilizia carceraria attuale è ancora quella di oltre un secolo fa. La precarietà di tali lavorazioni
trova quindi ulteriore convalida negli stessi luoghi di lavoro, spesso umidi e malsani, nati
dall’accostamento di alcune celle con la demolizione o sorti in nuove costruzioni o capannoni che in
generale non sono soggetti a norme ed ispezioni igienico-sanitarie. Ai detenuti non resta che
l’adeguamento, la sottomissione e l’adattamento. Chi di loro subisce tutto ciò, è già ritenuto e si
ritiene fortunato perché i posti di lavoro sono veramente scarsi nonostante la domanda di lavoro sia
elevata; essi accettano occupazioni con ritmi stressanti e monotoni, pur di usufruire di qualche
gratificazione che dia loro la sensazione di poter godere ancora di una identità personale.
Al di là del lavoro per l’amministrazione esiste in carcere anche quello per conto dei privati, il
cosiddetto “lavoro in appalto”. L’impresa privata generalmente consegue guadagni elevati, dato che
può disporre di una manodopera a buon mercato, con un risparmio notevole sui salari rispetto alla
manodopera libera. Ma è anche vero che le imprese appaltatrici sono costrette ad operare in un
sistema oggettivamente arretrato che incide in modo negativo sul rendimento produttivo dei
lavoratori e sulla qualità stessa dei prodotti. Chi ci rimette in questo sistema di lavorazione è
soltanto il detenuto: egli infatti subisce continuamente un processo di alienazione sul posto di lavoro
dovuto alla tipologia delle mansioni che rispondono a più criteri di esecuzione ritmica e snervante.
Il lavoro per conto dell’impresa privata, anche se percepito come sfruttamento, è dai detenuti
desiderato ed auspicato poiché riescono a trarne degli utili maggiori rispetto a quelli normalmente
conseguiti lavorando per l’amministrazione. Inoltre dà loro la possibilità di uscire di cella e di
parlare con persone che vengono dalla “libertà”. Il contatto con l’esterno, per chi vive in un regime
chiuso, limitato ed immutato, diventa un’esigenza vitale che riaccende speranze di reinserimento o
almeno attenua la sensazione dei sepolti vivi.
Il lavoro carcerario sembra rispondere a due obiettivi: quello di guadagnare sulla “pelle” dei
detenuti, con la manifesta giustificazione di concedere loro un servizio rieducativo sotto forma di
una occupazione; e quello di dividere i detenuti stessi i quali sono costretti, per sopravvivere, a
manovre di sotterfugio pur di ottenere i posti più ambiti e retribuiti. Eppure il lavoro in quanto tale è
un valore sancito dalla Costituzione (art. 1 e 4), un diritto naturale e sociale; non può soggiacere a
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discriminazioni di qualsiasi tipo. Si può imporre al detenuto l’obbligo del lavoro come mezzo per
educarsi ai doveri sociali, ma non possiamo negare i diritti costitutivi sanciti dagli art. 35-36-38
della Costituzione. La realtà carceraria italiana ci mostra un quadro del lavoro detentivo che giunge
a negare completamente qualsiasi discorso che si agganci al concetto di riabilitativo della pena. Di
conseguenza il lavoro non può essere deprezzato solo perché eseguito in carcere e non si può far
pagare doppiamente il detenuto obbligandolo all’espiazione della pena e poi decurtandogli dal
salario la somma per il risarcimento in sede civile dell’offeso. Si ha l’impressione allora che dietro
l’enunciazione di principi generali giusti ci sia una diversa concezione del lavoro carcerario; gli
stessi detenuti affermano: “nel momento in cui lo Stato nega al cittadino-detenuto il riconoscimento
integrale dei diritti legati al lavoro, non solo nega gli imperativi costituzionali e contraddice le
finalità socializzanti della pena, ma trasforma la pena in un meccanismo antisociale di sfruttamento
e di alienazione in nessun modo giustificabile, sia sotto il profilo morale, sia sotto quello
terapeutico, sia sotto quello giuridico. Occorre sottolineare un fatto di notevole importanza:
l’inesistenza di possibilità lavorative per la maggior parte dei reclusi. La realtà è che il lavoro
manca in tante carceri italiane e non solo negli istituti giudiziari in cui è comprensibile un certo
disagio nel favorire nuove lavorazioni, data la posizione provvisoria dell’imputato, ma anche negli
istituti di pena o addirittura nelle case di lavoro. Se si crede effettivamente nelle potenzialità
riabilitative e rieducative insite nel lavoro occorre che sia data a tutti i detenuti che la chiedono la
possibilità di un’occupazione qualificante.
La mentalità prevalente in Italia è quella secondo cui l’individuo deve pagare perché egli è il solo
colpevole del reato, la società non è responsabile in alcun modo del delitto, essa è innocente. Se si
rimane chiusi in questa ottica non ha senso parlare di rieducazione e di sviluppo della persona
umana poiché non si riesce a concepire perché mai la società dovrebbe impegnarsi a recuperare il
recluso per farne un suo membro attivo ed onesto. Si ritiene che sia indispensabile, per poter
concedere al lavoro carcerario un carattere risocializzante, abolire innanzitutto i mestieri sorpassati
o alienanti, occupazionali più che lavorativi. Non si tratta di far passare il tempo, ma di far lavorare
sul serio le persone, di insegnare loro un mestiere che possa poi anche essere esercitato
possibilmente sul mercato esterno. Per giungere questo è indispensabile e necessario trovare la
maniera di conciliare l’esigenza della struttura con quelle che sono le esigenze di una normale
azienda lavorativa; in altri termini è doveroso creare ambienti e luoghi di lavoro in cui il reclusolavorante possa esprimere se stesso senza essere condizionato da una serie di elementi negativi che
finiscono per incidere più o meno profondamente sulla sua psiche e dunque sul rendimento
lavorativo. Ci si riferisce a quegli ostacoli che il detenuto incontra non solo sul posto di lavoro ma
anche nella quotidiana vita trascorsa nell’istituto ritentivo. Si dovrebbe dare lavoro a tutti i detenuti
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che lo richiedono; il nuovo ordinamento prevede a questo scopo anche la possibilità di lavoro
esterno all’istituto di ritenzione. Ci si augura che il detenuto non debba subire all’esterno lo
sfruttamento e l’alienazione che attualmente subisce nel lavoro svolto internamente. Dovrebbe
anche essere permesso il controllo del sindacato esterno per tutte le competenze ad esso inerenti e
quello dell’Ispettorato del lavoro che garantisca igiene e sicurezza nella condizione lavorativa dei
detenuti. Infine occorrerebbe che fossero mobilitate tutte le forze sociali per creare un reale ed
effettivo reinserimento dell’ex-detenuto nel proprio ambiente, assicurandogli soprattutto un posto di
lavoro che gli permetta di vivere degnamente. Anche attualmente il liberato dal carcere viene a
trovarsi in una situazione di disagio; è spesso costretto a ricorrere nuovamente al delitto perché il
nuovo contatto sociale non fa che riprodurre in lui le situazioni di conflitto preesistenti alla sua
condanna, fra le quali una delle principali è la mancanza di un vero e remunerato lavoro. E’ chiaro
che per giungere ad un lavoro carcerario istruttivo e qualificante occorre non solo un’innovazione
strutturale degli ambienti di lavoro e del carcere in generale ma anche personale adeguato che possa
effettivamente trasmettere la conoscenza ed i metodi acquisiti dal progresso sociale. Ogni mezzo di
rieducazione deve tenere presente il futuro del detenuto ed essere rivolto pertanto al suo inserimento
nella società. Perché si possa giungere a questo traguardo è indispensabile l’interscambio continuo
tra carcere e società che in materia di lavoro non può limitarsi alla semplice possibilità che
l’imprenditore pubblico o privato possa impiantare lavorazioni in carcere secondo personali criteri.
Dovrebbe essere la collettività a prendersi a cuore l’iniziativa di recuperare l’individuo come
cittadino e come lavoratore; al di là di una competenza professionale occorre però un’apertura
democratica di tutti i dirigenti tendente a stimolare un processo di autoresponsabilizzazione nei
detenuti-lavoratori. Anche se si pervenisse a creare lavorazioni esterne, in cui convergono
esclusivamente detenuti o ex-detenuti rimarrebbe intatto ed irrisolto il problema del loro
reinserimento: favorire lavori appositi per i carcerati liberati significa mantenerli emarginati dal
resto dei lavoratori e considerarli ancora persone diverse; poco si è operato e si opera per risolvere o
attenuare il problema del reinserimento e dell’integrazione sociale di chi ha subito anni di carcere.
Si tratta di fare delle scelte, sia a livello singolo sia soprattutto a livello sociale: se si crede
nell’uomo e nella giustizia sociale forse allora si riescono anche a trovare i fondi necessari per
operare a favore dei più emarginati. Qui si vuole sottolineare principalmente l’esigenza di creare un
persistente legame tra carcere e quartiere. A tal fine potrebbe venire sviluppata una rete di assistenti
sociali i quali contribuirebbero a far conoscere i problemi dei reclusi ed a muovere quindi istanze di
concreto impegno, o a togliere lo scetticismo e la repulsione che tanti liberi cittadini hanno nei
confronti di chi è o è stato ristretto in un carcere.
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b)- l’istruzione
L’art. 1 del regolamento Rocco stabiliva: “I detenuti sono obbligati a frequentare le scuole istituite
negli stabilimenti”. L’art. 136 precisava: “in ogni stabilimento sono istituite scuole elementari per i
detenuti analfabeti”.
La realtà, come al solito, smentisce i principi; sono veramente pochi coloro che giungono, con una
frequenza regolare, a finire l’intero corso di studi. La colpa di ciò può essere facilmente addossata ai
detenuti, ritenuti svogliati; tuttavia bisogna chiedersi che cosa fa l’istituzione per favorire la
partecipazione dei reclusi, dal momento che l’amore per lo studio non si improvvisa, se non si
riesce a suscitare in loro un certo interesse. Possiamo affermare che ben poco si è fatto per
organizzare delle scuole funzionali e funzionanti.
La norma prevede, che venga agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari, nonché la
frequenza a corsi scolastici per corrispondenza, per radio e per televisione.
All’interno del carcere l’istruzione si configura come strumento proteso sia ad una formazione
scolastica o professionale, sia alla promozione di nuovi stimoli e interessi per migliorare il substrato
culturale del condannato, che rimane libero di scegliere se aderire all’intervento offerto
dall’amministrazione penitenziario (Corso, 2000). Per l’istruzione, “non è tanto importante quello
che si apprende, quanto l’insieme dei valori in cui l’apprendimento avviene e la natura e il
significato dei rapporti umani che sono i tramiti del trasferimento delle conoscenze”(Di Gennaro,
Breda, La Greca, 1997).
La realtà odierna del carcere ci dice pure che, al di là della scuola elementare o, in qualche istituti,
della scuola media inferiore non esiste più alcuna possibilità per il recluso di continuare gli studi.
Finora la struttura carceraria ha rifiutato la scuola perché percepita e vissuta dagli operatori
istituzionali come fonte di potenziale ribellione anziché come crescita positiva della personalità e
responsabilità sociale del recluso. La scuola dovrebbe invece diventare uno strumento stabile e
generalizzato in grado di sollecitare nel detenuto una presa di coscienza della realtà sociale nella
quale è maturata la sua esperienza e in cui deve tornare ad agire e a vivere; dovrebbe innanzitutto
mirare a formare una coscienza civile negli individui; è il solo modo che può valorizzare
l’istruzione come strumento di rieducazione.
Il nuovo ordinamento introduce miglioramenti sostanziali per favorire lo studio e l’istruzione in
carcere; ci si deve chiedere se essi rispondano ad un cambiamento nell’istruzione carceraria o non
rischino invece di restare delle affermazioni piuttosto astratte che trovano il rifiuto di una realtà non
disposta ad accoglierle. Se rimangono intatte le attuali concezioni della giustizia si può prevedere
un domani in cui verranno concessi studi superiori, materiali adeguati; ma ciò non porterà ad una
nuova istruzione basata su pregnanti modalità rieducative e risocializzanti. La scuola che ne uscirà
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non diverrà mezzo per realizzare la crescita della personalità dell’individuo in tutte le sue
potenzialità creative, ma sarà un mezzo per strumentalizzare.
I reclusi sanno questo e sanno anche che è solo partendo dalla base, nella solidarietà, che potrà
maturare una presa di coscienza nuova, diversa, in grado di riscattarli sia come individui, sia come
esseri sociali. Battersi in carcere per una cultura diversa non calata dall’alto ma attenta alle esigenze
dei detenuti, significherà battersi nella società per un sistema diverso non manovrato dall’alto ma
attento ai bisogni dei più deboli.
Si è fermamente convinti che una valida istruzione carceraria è legata continuamente e
scambievolmente con la realtà esterna e da quest’ultima deve essere gestita. Se la formazione
culturale e professionale rimane ristretta nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria, diventa
molto difficile poter parlare di una scuola che permetta un’effettiva risocializzazione ed un effettivo
reinserimento nell’ambiente esterno al carcere. Perché i corsi culturali e professionali abbiano un
preponderante valore dal lato risocializzante, occorre una loro animazione da parte di personale
didattico strettamente congiunto con gli Enti locali, i quali, essendo al corrente delle dinamiche
occupazionali sviluppatesi all’interno del loro territorio, possono favorire corsi più aderenti alle
esigenze esterne del mercato del lavoro.
Perciò si auspica che il regime in semilibertà possa favorire la possibilità dell’istruzione all’esterno,
e che istituita appunto per favorire il reinserimento sociale, dovrebbe sollecitare la partecipazione
del recluso a corsi di istruzioni liberi, cioè aperti ai cittadini incensurati: una modalità che
permetterebbe al carcerato di sentirsi una persona accettata nella quale la società ha ancora fiducia.
Ci si augura che il regime di semilibertà trovi ampia applicazione, con la serietà e l’impegno dovuti,
soprattutto per quelle categorie di reclusi che scontano una misura di sicurezza e che hanno dunque
un immediato bisogno di sentirsi riaccettati da quell’ambiente che ha contribuito alla loro
esclusione e in cui presto devono ritornare.
c)- la religione
Per quanto riguarda la religione, l’art. 26 dell’ordinamento penitenziario attribuisce ai detenuti ed
agli internati la libertà di professare la propria fede religiosa, d’istruirsi in essa e di praticarne il
culto. Di per sé la religione può essere realmente strumento di edificazione ed elevazione morale,
ma solo in quanto scelta libera e cosciente del recluso; favorire un discorso religioso in carcere
significa rispettare le intime convinzioni dell’individuo, concedendogli la possibilità di
approfondire, sviluppare e testimoniare le proprie esigenze spirituali. La religione è stata invece
concepita solamente come strumento coattivamente imposto per rafforzare la disciplina interna
dell’istituto detentivo. Inserire direttamente la chiesa, attraverso i suoi ministri, nella gerarchia
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carceraria, voleva dire accaparrarsi l’enorme forza cattolica per meglio imporre l’ideologia
dell’afflizione e dell’esclusione. In una simile prospettiva, la religione scadeva come mezzo di
elevazione morale del detenuto; l’idea che potesse essere strumento di rieducazione era del tutto
priva di fondamento; serviva solo a mantenere negli istituti ritentivi una struttura autoritaria.
L’odierno nuovo ordinamento lascia auspicare un sostanziale cambiamento della realtà religiosa
carceraria. L’art. 26, ribadisce infatti un principio già proprio della nostra Costituzione: “la libertà
religiosa del recluso”. E’ dunque aperta la possibilità di avere una presenza in carcere di vari
ministri di culti diversi, ci si rende conto che non può ridursi la tematica religiosa negli istituti
detentivi a una semplice ricerca di principio sulla istituzionalizzazione o meno del culto cattolico o
di qualsiasi altro culto, ma ci si chiede qual’ è la metodologia migliore affinché la religione diventi
strumento di rieducazione e risocializzazione.
Un rischio c’è ed è quello che l’assistenza religiosa, quale quella svolta dal cappellano preoccupato
per il recluso, venga considerata dai detenuti come strumento di potere e non come momento
concreto di autentica presa di coscienza per una profonda liberazione dell’uomo.
L’azione del sacerdote dovrebbe limitarsi alla sola garanzia dell’assistenza religiosa per coloro che
la richiedono e nello stesso tempo dovrebbe essere rivolta all’esterno per sollecitare le coscienze
cristiane a considerare fratelli coloro che stanno scontando la pena o l’hanno già scontata. Di
positivo resta la constatazione della presa di coscienza e di posizione di molti cattolici che con
l’annuncio dei principi evangelici della chiesa hanno cominciato realmente a far sentire la propria
voce in difesa di chi è veramente più debole e bisognoso.
d)-altri aspetti della rieducazione
L’art. 27 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che negli istituti devono essere favorite ed
organizzate anche attività culturali, sportive, ricreative ed ogni altra attività volta alla realizzazione
della personalità dei detenuti e degli internati. Finora i servizi ricreativi e culturali sono consistiti
nella tele, radio, cinema, non presenti peraltro in tutte le carceri; le attività sportive si sono
concretizzate prevalentemente in partite di calcio disputate fra squadre di detenuti nei cortili
disponibili di pochi e grandi istituti carcerari e solo quando venivano garantite la disciplina e la
sicurezza dello stabilimento. Analizzando l’art. 27 del nuovo ordinamento si rileva il
riconoscimento di un fatto di notevole valore: a far parte della commissione che cura
l’organizzazione delle attività culturali, sportive e ricreative vi è una rappresentanza dei detenuti e
degli internati. E’ questo un passo in avanti nella stessa concezione riabilitativa della pena. C’è da
sperare che essa venga sviluppata ulteriormente perché è solo autoresponsabilizzando i detenuti che
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si può iniziare a rimuovere e a mettere in moto quelle istanze creative dell’individuo, finora
represse, che lo fanno sentire una persona in grado di fare e dare qualcosa per gli altri.
Il disposto dell’art. 27 si inserisce, quale “momento di partecipazione, strumento di socializzazione
e d’integrazione” (Corso, 2000) nell’ambito di una realtà carceraria che, deve connotarsi “come una
comunità viva e partecipante in una società interessata ai suoi problemi e in comunicazione diretta
con il suo ambiente” (Di Gennaro, Breda, La Greca, 1997). I programmi delle attività culturali,
ricreative e sportive tendono a favorire la possibilità di espressioni differenziate, e si avvalgono
anche dall’ausilio di esponenti della comunità esterna, il cui ruolo, risulta di fondamentale
importanza al fine del reinserimento sociale dei condannati e degli internati, in grado d’instaurare
con i reclusi buone relazioni umane facilitando la realizzazione di quelle condizioni necessarie per
motivare i soggetti ad orientarsi verso modelli di vita promossi dalla comunità sociale.
Altro elemento del trattamento penitenziario è rappresentato dai rapporti con la famiglia ai quali
deve essere dedicata particolare cura. Il legislatore, prendendo atto dell’importanza delle relazioni
affettive del detenuto con la propria famiglia ha introdotto novità nella disciplina dei colloqui dei
detenuti con i congiunti, aumentandone il numero massimo mensile (sei) e stabilendo che essi
debbano avvenire in locali interni sprovvisti di mezzi divisori o in spazi all’aperto.
Il nuovo regime dei colloqui considera il fatto che un più frequente contatto dei reclusi con i
familiari produce effetti positivi in quanto favorisce: il rafforzamento delle relazioni con la famiglia,
il contenimento dell’effetto dell’isolamento della persona conseguente all’internamento nella
struttura detentiva, la riduzione delle tensioni dei detenuti e degli internati all’interno degli istituti.
I rapporti familiari, vengono inoltre curati attraverso la corrispondenza epistolare e telefonica. I
detenuti possono inviare e ricevere lettere o messaggi telegrafici e la corrispondenza epistolare in
busta chiusa può essere soggetta ad ispezione, solo quando vi sia il sospetto che contengano
elementi di reato arrecando pregiudizio all’ordine e alla sicurezza dell’istituto penitenziario.
Strumento essenziale per il soggetto e lo sviluppo dei rapporti familiari, nonché misura idonea a
favorire un graduale reinserimento del condannato nella società esterna, è l’istituto dei permessipremio; si tratta di uno strumento attraverso il quale si consente al detenuto di trascorrere un breve
periodo di tempo nell’ambiente libero, con l’obbligo del rientro in carcere alla scadenza del termine
(Corso, 2000), permettendo al condannato di riallacciare gradualmente i rapporti con la comunità
esterna, coltivando interessi affettivi, culturali o di lavoro. L’esperienza dei permessi-premio
rappresenta una parte integrante del programma di trattamento penitenziario e deve essere seguita
dalla collaborazione tra educatori e assistenti sociali penitenziari con gli operatori sociali del
territorio. I permessi-premio sono concessi solo ai condannati, con esclusione degli internati, che
hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi. La condotta dei
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condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, hanno manifestato un
senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale e attività organizzate negli
istituti.
Al fine di stabilire positive relazioni del detenuto con la propria famiglia, il legislatore ha introdotto
l’istituto dell’assistenza all’esterno dei figli minori di età non superiore a dieci anni (art. 21-bis).
Con tale introduzione, il legislatore ha inteso attribuire ai compiti di cura ed assistenza dei figli di
età non superiore ai dieci anni, lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante
dell’attività lavorativa (Canevelli, 2001); in particolare, l’assistenza all’esterno dei figli minori
nasce dall’esigenza di assicurare la certezza dell’esecuzione della pena e garantire la continuità del
rapporto madre-figli, dal momento che comporta, in ogni caso, la permanenza in carcere della
detenuta per una parte della giornata.
3.3 Osservazione scientifica della personalità ed il trattamento
Le attività trattamentali costituiscono un elemento fondamentale del circuito penitenziario perché è
grazie ad esse che si attua il percorso di rieducazione, recupero e reinserimento nella società una
volta espiata la pena.
Il trattamento si fonda su diverse norme:
•
La Costituzione, all’art. 27, comma 2: “Le pene …. devono tendere alla
rieducazione del condannato”;
•
a)
La legge penitenziaria 26 luglio 1975, n. 354, agli articoli:
art. 1: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve
assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità,
senza discriminazione in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni
politiche e a credenze religiose ...”.
b)
art. 13: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della
personalità di ciascun soggetto ...”.
c)
art. 15: “Il trattamento del condannato e dell’internato e svolto avvalendosi
principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e
sportive e agevolando contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia.
La rieducazione rappresenta al tempo stesso un diritto del cittadino e un dovere per lo Stato. In
particolare, lo Stato ha l’obbligo di reintegrare il condannato nella comunità sociale, utilizzando
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strumenti risocializzativi sostenuti dalla “criminologia clinica” ossia “disciplina volta allo studio
non tanto dei fenomeni generali della delinquenza ma del singolo delinquente a fini diagnostici,
prognostici e terapeutici” (Ponti, 1999).
L’art .1 della legge n. 354/75 afferma che: ”Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad
umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”.
Ma cosa s’intende per trattamento penitenziario? Secondo una definizione normativa, il trattamento
penitenziario, “è il complesso delle regole che disciplinano l’esecuzione della pena” (Filippi,
Spangher, 2000) e differisce dal trattamento rieducativo, inteso come insieme d’interventi rivolti al
condannato e all’internato per fini rieducativi. Con riferimento al primo, la norma citata, sancisce
oltre al principio dell’umanizzazione della pena, anche il divieto di effettuare discriminazioni basate
sulla nazionalità, sulla razza, sulle condizioni economiche e sociali; in relazione al secondo, invece,
il legislatore sancisce l’obbligo di attuare, nei confronti dei condannati e degli internati, un
trattamento rieducativo individualizzato “che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente
esterno, un reinserimento sociale degli stessi”, e che deve rispondere ai particolari bisogni della
personalità di ciascun soggetto. Per far sì è necessaria l’osservazione scientifica della personalità del
condannato e dell’internato (detta anche osservazione criminologica), tesa a rilevare, ai sensi della
legge n. 354/75, le carenze fisio-psichiche e le altre cause del disadattamento sociale, ispirandosi ai
principi positivistici, fondati su un’ingenua fiducia nelle capacità delle scienze dell’uomo per
individuare le cause del comportamento delinquenziale e porre rimedio attraverso un trattamento
risocializzativo.
L’osservazione criminologica è svolta da un’équipe composta dal direttore dell’istituto
penitenziario, dall’educatore, dall’assistenza sociale, da professionisti esperti in psicologia, servizio
sociale, psichiatria e le attività di osservazione comprendono una fase diagnostica e una predittiva o
prognostica.
La diagnosi criminologica definisce le caratteristiche della personalità del reo, evidenziandone sia i
fattori individuali, che quelli microsociali, condizionanti la condotta criminale (Mantovani, 2001).
In sostanza essa tende a ricostruire la criminogenesi e la criminodinamica: la prima ci dà “una
spiegazione di come interagiscono le caratteristiche psicologiche del soggetto con le sue particolari
esperienze di vita, con i fattori sociali e ambientali, con le circostanze situazionali al momento della
commissione del delitto, così da derivarne la scelta criminosa” (Ponti, 1999); la seconda ha come
obiettivo la comprensione del “come” è stato compiuto il singolo delitto o si è sviluppato l’intero
percorso criminale del soggetto, in altre parole comprendere l’intrecciarsi delle dinamiche
psicologiche e il loro interagire nelle motivazioni (Ponti, 1999). Gli strumenti usati durante la fase
diagnostica: a) l’esame medico e psichiatrico, volto ad individuare i fattori individuali, morbosi,
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organici che sono alla base del comportamento delinquenziale; b) l’esame psichico, fondamentale
per comprendere la struttura, le caratteristiche, i dinamismi mentali dell’individuo, avvalendosi
essenzialmente del colloquio clinico e dei reattivi (tests) mentali, ossia prove standardizzate che
servono ad evidenziare alcune caratteristiche psichiche dell’individuo per arrivare ad una
valutazione qualitativa e quantitativa dell’intelligenza e alla conoscenza dei tratti della personalità
del soggetto; c) l’inchiesta sociale, effettuata dagli assistenti sociali del ministero della giustizia, che
consiste in un’indagine condotta sull’abituale ambiente di vita del soggetto per conoscere i fattori
ambientali predisponenti al crimine e di fornire un profilo biografico dell’individuo, indispensabile
per delinearne la personalità e valutare il reato (Mantovani, 2001). Per quanto riguarda, invece, la
prognosi crminologica, è definita come “l’insieme d’indagini volte a consentire un giudizio di
predizione sul comportamento futuro del reo” (Mantovani, 2001). La fase
predittiva si fonda
essenzialmente sull’esame comportamentale e analizza in particolare le dinamiche relazionali con
gli operatori del carcere e con i compagni di detenzione, l’atteggiamento nei confronti della
disciplina carceraria, l’interesse verso le attività lavorative, culturali e ricreative, i legami con la
famiglia, l’esito di eventuali permessi o licenze; inoltre l’esame comportamentale viene integrato da
una serie di documenti che sono utili nel momento in cui si adottano misure alternative o si
concedono benefici nei confronti del soggetto. E’ importante sottolineare che il giudizio
prognostico presenta dei margini d’incertezza, legati al fatto che l’uomo è libero di scegliere le
proprie condotte e che le previsioni sul comportamento umano sono fondate su di un criterio
statistico; sebbene, quindi, la criminologia fornisca un patrimonio cognitivo che può ridurre i
margini di errore, si deve essere consapevoli della relatività della prognosi criminale.
L’osservazione scientifica della personalità, compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel
corso della stessa, rappresenta un continuum che segue l’individuo nel corso dell’intera detenzione,
anche se si può rilevare un momento iniziale in cui l’osservazione serve ad inquadrare le
problematiche della singola personalità per poter formulare una prima ipotesi di trattamento
individualizzato. In proposito, è stato posto in rilievo come la base del programma di trattamento
comprenda “almeno tre aspetti fondamentali: a) la comprensione del vissuto del soggetto
riguardante il suo passato, gli avvenimenti che lo hanno condotto nella situazione attuale, i problemi
personali e familiari; b) la comprensione di come il soggetto si percepisce oggi, e cioè come giudica
se stesso e le sue capacità e come guarda gli altri; c) la comprensione delle intenzioni e delle
disponibilità del soggetto nei confronti del futuro e delle possibilità concrete che il sistema
penitenziario è in grado di offrirgli” (Di Gennaro, Breda, La Greca. 1997).
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3.4 La psicoterapia carceraria
L’individuo asociale è in un certo senso un “malato”; su tale “malattia mentale” occorre portare
l’indagine per evidenziarne scientificamente le reali cause, ricercate non solo nel laboratorio di un
istituto, quanto e soprattutto al letto di questo “malato sociale” ossia nel luogo di pena. Solo quando
saremo in grado d’identificare e combattere la causa della “malattia sociale”, allora potremo
combattere tale malattia quale fenomeno collettivo; altrimenti si procede all’isolamento del
“malato”.
La psicologia dell’inconscio parte dal presupposto che le azioni umane si basino su motivi inconsci
e consci, e ne deriva che ai delinquenti spesso è ignoto il perché delle loro azioni. Solo attraverso
un metodo psicoanalitico si può giungere alla comprensione dell’ignoto movente, il che costituisce
un trattamento, anzi una delle fasi che concorrono ad attuarlo.
Gli istinti premono sotto la spinta di sentimenti edonistici, ma ad essi è la realtà (la società) che
deve opporsi in maniera congrua. Il principio della realtà consiste nel condizionare il rapporto che
intercorre tra le spinte dell’istinto e le concrete possibilità edonistiche che ne sono appagamento; è
naturale che le rinunce vanno imposte solo quando ciò sia necessario. Si determina così uno stato di
equilibrio tra rinuncia e soddisfacimento degli istinti, il quale viene alterato nel momento in cui
vengono imposte le rinunce. Il problema educativo in generale consiste infatti in una sistematica
correzione degli istinti antisociali per armonizzarli con i principi di coesistenza; così come vi è un
adattamento alla realtà fisica, esiste anche un adattamento alla realtà sociale derivante dal risultato
tra principio edonistico e quello di realtà. All’intima soddisfazione che si prova nel vincere se stessi,
corrisponde, nel campo educativo, un’esterna soddisfazione, l’amore di coloro che ci chiedono un
sacrificio, rinunce o limitazioni di condotta. I detenuti sono spesso insensibili all’idea della
sofferenza morale (rimorso), rimangono sconvolti di fronte alle misure adottate; in questo stato
d’animo di paura il delinquente appare disperato, depresso, senza speranza, vive un’angoscia per
l’interminabile pena perché si rende conto che con le sue forze non riuscirà mai a rimanere in
libertà. Non appena però viene trattato come d’abitudine, assume subito l’abituale maschera e
l’atteggiamento tipici di chi è al bando; gli altri detenuti sono un elemento di coesione educativa
perché bene accetti, mentre il personale direttivo e amministrativo sono guardati con sentimento
ostile. O il delinquente diventa il disciplinato detenuto, che aspetta la liberazione per ritornare al
delitto con maggior ardore, oppure egli cade nella psicosi.
La risocializzazione di un delinquente detenuto dovrebbe incominciare con il primo giorno di
esecuzione della pena e terminare con l’effettiva scarcerazione. Il compito più importante
nell’ambito carcerario consiste nello svincolare il soggetto dal gruppo criminale inserendolo in un
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gruppo sociale; la psicoterapia di gruppo in carcere è un aiuto fondamentale per raggiungere questo
fine. Di solito la selezione delle persone da sottoporre a trattamento si realizza automaticamente; il
gruppo d’individui che la pensano allo stesso modo si isola sempre più dai coetanei e quindi dalla
società formando dei sottogruppi, a seconda del tipo di delitto e delle regioni di provenienza. Tutti
sono uniti nella lotta verso coloro che stanno al di fuori del loro gruppo; per la maggior parte i
detenuti si trovano d’accordo nella loro ostilità contro funzionari e giudici. Il gruppo di delinquenti
che si sottopongono alla terapia, invece, fa un altro tipo di percorso; conoscendosi nei singoli
componenti forma col tempo un gruppo unitario a parte e ha luogo un processo di separazione dal
gruppo criminale originario. Il “gruppo in terapia” viene considerato nemico da coloro che non
appartengono ad esso e i suoi membri vengono considerati traditori. A volte uno dei membri del
gruppo non riesce a sopportare l’ostilità di cui è oggetto e ritorna nei ranghi del gruppo criminale.
L’espulsione dei pazienti dai “gruppi” e, l’ammissione in un gruppo sociale accettato è un passo
importante nel trattamento dei detenuti; nella fase di espulsione il gruppo terapeutico conduce ad un
legame simile a quello familiare, attribuendo al terapeuta valori materni e andando alla ricerca del
desiderio di sicurezza sociale; nello stesso tempo, i pazienti imparano a rinunciare alle proiezioni
all’esterno e a rientrare in se stessi. Si arriva così a costituire il gruppo sociale, nel quale ognuno si
sente protetto e bene accetto e, inoltre, si determina la sensazione di appartenere alla gran parte
della società. Dopo un due-tre anni di trattamento avremo un gruppo terapeutico con alcune
caratteristiche: più intenso senso di sofferenza e desiderio di guarigione, libera espressione di
pensiero nel gruppo, comportamento sociale adeguato nei confronti del personale e anche
all’interno del gruppo, risveglio nel detenuto del senso della responsabilità.
3.5 Le misure alternative alla detenzione
Sul versante extracarcerario la rieducazione ed il reinserimento sociale del condannato si ottengono
attraverso le misure alternative alla detenzione, che rappresentano la più importante novità della
riforma penitenziaria del 1975, in quanto orientano l’esecuzione penale sul concetto di
“decarcerizzazione”, termine quest’ultimo che racchiude in sé quelle tendenze di riduttivismo della
pena detentiva ricorrendo a strumenti diversi dalla detenzione per ogni tipo di delittuosità (Ponti,
1999). La filosofia sottostante è quella di proporre un sistema sanzionatorio non più incentrato sul
carcere, il cui ruolo, deve essere ridotto e limitato il più possibile. Le misure alternative alla
detenzione sono riservate a coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva, cioè, a quelle
persone nei confronti delle quali il giudice ha pronunciato un “verdetto di colpevolezza” non più
soggetto ai mezzi d’impugnazione ordinari (appello, ricorso per cassazione).
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MARIA ROSARIA PACENZA – CRIMINOLOGIA - PRIMO ANNO A.A. 2005/06
Dal punto di vista sistematico le misure alternative alla detenzione consistono: nell’affidamento in
prova al servizio sociale, nella detenzione domiciliare, nella semilibertà e nella liberazione
anticipata. A queste si aggiungono l’affidamento in prova in casi particolari, e la liberazione
condizionale sancita dall’art. 176 e seguenti del codice penale.
L’affidamento in prova al servizio sociale: l’art. 47 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che
“se la pena detentiva inflitta non supera tre anni, il condannato può essere affidato al servizio
sociale fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare”. Si tratta in sostanza
della misura alternativa in eccellenza, tesa ad evitare all’origine la carcerazione di soggetti ritenuti
non pericolosi ed a favorirne il reinserimento sociale attraverso il controllo e l’assistenza dei servizi
sociali in ambiente libero, per poi estendere il proprio campo di applicazione anche ai condannati
che hanno commesso reati più gravi, “nell’ottimistica convinzione che, il condannato abbia perduto,
dopo un certo numero di anni di prigione e grazie all’ipotetico trattamento, quella capacità a
delinquere che era insita nella gravità del reato commesso”(Ponti, 1999). La misura può essere
concessa solo quando “contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo
che egli commetta altri reati”. Ciò significa che il giudice, deve verificare sia l’effettiva
disponibilità e idoneità del soggetto alla rieducazione mediante l’affidamento al servizio sociale, sia
la totale assenza di pericolosità sociale, ma deve tener conto soprattutto del risultato
dell’osservazione scientifica della personalità del condannato. Nel concedere la pena, il tribunale di
sorveglianza redige un verbale contenente le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire riguardo ai
suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di
frequentare determinato locali. L’affidamento in prova è revocato quando il comportamento del
condannato, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova.
L’affidamento in prova in casi particolari:: si tratta di una misura alternativa alla detenzione
caratterizzata dalla specificità dei destinatari, che sono soltanto i
tossicodipendenti e gli
alcooldipendenti. La scelta del legislatore deriva dalla consapevolezza dell’inidoneità delle strutture
penitenziarie ad attuare programmi di recupero per questi detenuti; infatti, si è preso atto, che “il
carcere, come luogo d’isolamento e d’astinenza dalle sostanze psicotrope da cui il soggetto dipende,
può comportare la sola disintossicazione fisica, ma non favorisce certo quella di tipo psicologico
(Di Ronza, 2000). Tale scelta si muove in un duplice senso: non rinunciare, da un lato, alla
penalizzazione della tossicodipendenza e, dall’altro, favorisce il processo di decarcerizzazione dei
condannati tossicodipendenti (Patarini, 2001). Infine, il legislatore ha previsto che, l’affidamento in
casi particolari non può essere concesso più di due volte allo stesso soggetto.
La detenzione domiciliare: più che rispondere ad esigenze rieducative e di reinserimento sociale
del condannato, essa trae fondamento dal principio costituzionale dell’umanizzazione della pena,
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nonché dall’art. 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo.
Non va confusa con gli arresti domiciliari, i quali consistono in una misura cautelare personale che
si applica all’imputato nella fase processuale alla presenza di gravi indizi di colpevolezza e
d’esigenze cautelari; mentre la detenzione domiciliare ha come destinatarie persone condannate con
sentenza passata in giudicato ed attiene alla fase dell’esecuzione della pena. L’art. 47-ter
dell’ordinamento penitenziario, prevede che la pena della reclusione non superiore a quattro anni,
nonché la pena dell’arresto, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo di privata
dimora, quando si tratta di: donna incinta o madre prole d’età inferiore a dieci anni, con lei
convivente; padre, esercente la potestà, di prole d’età inferiore ad anni dieci con lui convivente,
quando la madre sia deceduta o impossibilitata a dare assistenza; persona in condizioni di salute
molto gravi; d’età superiore a sessanta anni; persona minore d’anni ventuno per esigenze di salute,
studio, lavoro e di famiglia. La revoca della misura alternativa è disposta quando il soggetto risulti
imputato o è sottoposto a misura cautelare per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza.
La semilibertà: il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di
trascorrere parte del giorno fuori del penitenziario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o
comunque utili al reinserimento sociale. Lo stato di detenzione continua a permanere anche se
quotidianamente intervallato da contatti con l’ambiente esterno. La semilibertà non va confusa con
la semidetenzione considerata una vera e propria sanzione penale che è applicata dal giudice di
cognizione con la sentenza di condanna. La semilibertà può essere concessa in ogni tempo
all’internato, mentre per quanto riguarda il condannato l’art. 50 dell’ordinamento penitenziario
prevede due ipotesi diverse in ragione dell’entità e della specie di pena da espiare. La prima ipotesi
stabilisce che possono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e la pena della
reclusione non superiore a sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale. La
seconda ipotesi riguarda il condannato a pene che supera i sei mesi. La semilibertà del condannato a
pena detentiva medio-lunga s’inserisce nell’ottica della progressione del trattamento propria dei
sistemi penitenziari che privilegiano l’aspetto rieducativo dell’esecuzione (Casaroli, 1994). I
progressi compiuti nel corso del trattamento devono consistere in un’evoluzione della personalità
che faccia ritenere positivamente avviato il processo di revisione critica del passato e d’abbandono
dei disvalori che sono stati all’origine del crimine commesso, con conseguente anticipato
reinserimento del soggetto nel contesto sociale (Corso, 2000). Il legislatore ha previsto che ai
condannati ed agli internati semiliberi possano essere concesse, a titolo di premio, una o più licenze
con lo scopo “di consentire un più naturale mantenimento dei rapporti familiari preparando il
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soggetto ad acquisire progressivamente le necessarie capacità d’autonomia per gestire la sua vita
sociale dopo la dimissione”(Filippi, Spangher, 2000).
La liberazione anticipata: ai sensi dell’art. 54 dell’ordinamento penitenziario “al condannato a
pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, ai fini di un
efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo
semestre di pena scontata”. Essa si risolve in una riduzione di pena concessa a seguito di un
comportamento meritevole del detenuto, che ha l’effetto di anticipare la sua liberazione oppure
l’accesso ai benefici della liberazione condizionale, dell’affidamento in prova, della semilibertà e
della detenzione domiciliare. Presupposto per la concessione del beneficio è, oltre lo stato di
detenzione, la partecipazione del condannato all’opera di rieducazione, intesa come coinvolgimento
attivo nelle attività trattamentali dell’ambiente intramurale. La liberazione anticipata, da un lato,
favorisce il detenuto a tenere un costante comportamento “adattivo” rispetto alla detenzione,
rendendo “più governabile” le carceri; dall’altro, consente all’amministrazione penitenziaria di
mantenere a livelli minimi l’offerta di concrete opportunità di trattamento rieducativo in ambito
intramurario (Fanchiotti, 2002).
La liberazione condizionale: consiste nella scarcerazione del condannato sottomettendolo alla
misura di sicurezza della libertà vigilata, con l’assistenza del servizio sociale, per una durata uguale
alla pena da espiare o, nel caso di condannato all’ergastolo, per un periodo di cinque anni a
decorrere dalla data di concessione della misura. Si tratta di una misura alternativa alla detenzione
applicabile solo a persone condannate a pene di media e lunga durata; presupposti per la
concessione sono, oltre ai limiti di pena citati, il presunto pentimento del reo ed il risarcimento del
danno causato dal reato. La liberazione condizionale è revocata quando il soggetto, durante il
periodo di libertà vigilata, commette un reato della stessa indole rispetto a quello per la quale ha
subito la condanna, oppure trasgredisce agli obblighi della libertà vigilata.
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CONCLUSIONI
Il carcere viene considerato lo specchio della società, anche se per svolgere le funzioni di
risocializzazione dovrebbe mutare completamente nelle strutture e nei servizi. Oggi in Italia stiamo
vivendo una situazione di crisi e di tensione che coinvolge più o meno tutti i settori della vita
sociale e che si riflette in particolar modo su quelle istituzioni che da qualche tempo registrano
problemi di forti e generalizzate conflittualità. Infatti, da un lato c’è da frenare la pressione molto
elevata e in aumento all’interno del carcere, dall’altro ci si rende conto che le grosse promesse di
correzioni non potranno essere mantenute perché la situazione sociale non lo permette. La società è
diretta verso un atteggiamento di paura, perché si sente coinvolta anche nell’esecuzione penale,
sentita come problema proprio di cui nessuno si può disinteressare. Ci si deve chiedere se oggi c’è
interesse a recuperare e risocializzare il detenuto. In questa situazione d’impotenza in cui tutte le
forze umane e sociali sembrano condannate all’immobilismo esiste ancora uno spazio d’azione.
Partendo dalla presa di coscienza di una situazione problematica e complessa, con notevoli risvolti
ambigui, si tratta di operare per sviluppare un dibattito che coinvolga la maggior parte delle forze
sociali. Si può sperare, in tal modo, di sviluppare una sensibilizzazione ai problemi carcerari che
può aprire ad un cambiamento di mentalità nella nostra società. Ed è anche un modo per sollecitare
le autorità a prendersi le dovute responsabilità favorendo concrete situazioni occupazionali e sociali
in grado di reinserire realmente il detenuto ed ex-detenuto e impegnando energie alla formazione di
“operatori carcerari” ed assistenti sociali in grado di rispondere alle nuove istanze culturali,
giuridiche e politiche, miranti a concretizzare l’acquisito concetto di funzione risocializzante della
pena.
E’infatti, in via di definitivo superamento l’idea della pena quale castigo fine a se stesso: un male
con cui la società retribuisce il male-reato. La pena è anche tutto questo, ma deve anche possedere
una finalità positiva, quella di offrire a chi ha necessità di recupero, delle possibilità di riabilitazione
che soltanto la società libera può offrire.
Per superare la logica afflittiva e permettere il rispetto del diritto alla salute anche dentro il carcere,
come primo passo è necessario individuare terreni d’intervento anche minimi che non perdano di
vista la questione fondamentale: di aprire il carcere al Servizio Sanitario Nazionale. La salute va
vista come un diritto, anzi è uno dei diritti fondamentali dell’individuo tutelati dalla nostra
Costituzione (art. 32 Cost.).
La legge operante nelle carceri è concepita secondo la logica del premio: “Se fai il bravo, ti sono
dati compensi”, perciò è indotta l’ipocrisia del comportamento adattivo, perché solo se corretto si
possono ottenere sconti di pena. Non è così all’estero in cui il carcere è punitivo e basta, la pena si
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sconta interamente, senza riduzioni, senza che intervengano le valutazioni dei cosiddetti esperti che
in Italia possono influenzare le decisioni dell’apparato della magistratura di sorveglianza. E’
evidente che, se la salute psicofisica è uno dei diritti fondamentali dell’individuo, essa non può non
essere considerata dall’attuale sistema carcerario: questa è una delle principali ragioni per cui il
Servizio Sanitario Nazionale deve entrare con l’istituzione penitenziaria. La legge è vecchia,
andrebbe rivista sotto moltissimi aspetti. Per esempio rende poco naturale il rapporto fra il detenuto
e l’operatore: uno dei primi ostacoli da abbattere è la diffidenza degli operatori verso i detenuti e
viceversa, per poter stabilire un continuo rapporto di cooperazione. Da qui una richiesta d’eticità dei
sanitari nella propria attività professionale: di stare in ogni modo e sempre dalla parte di chi soffre.
Conquistare un diverso approccio al problema della salute in carcere è la condizione di base per
tentare di risolvere le questioni concrete che tante volte sono state denunciate:
-
L’organizzazione di un’assistenza sanitaria di base nel carcere e i rapporti con i presidi
territoriali assegnati a personale competente;
-
L’effettivo riconoscimento per le A.U.S.L. del loro ruolo anche verso il carcere;
-
Il riconoscimento della responsabilità dei sanitari, interni ed esterni, nel giudizio sullo stato di
salute;
-
Il superamento dell’obbligo di piantonamento per i detenuti ricoverati esternamente già in
misure alternative e degli intralci per ottenere le visite specialistiche od operazioni esterne;
- un piano sanitario che programmi presidi territoriali per i bisogni dei detenuti riguardo al ricovero.
Sono questi alcuni dei provvedimenti d’attuare se veramente si vuole iniziare a rispondere
seriamente alla questione del diritto alla salute in carcere.
La carcerazione può svolgere le sue funzioni di correzione e recupero, solo se si comprenderà che
l’Io del detenuto ha bisogno di un sostegno psicologico e sarà messo in condizioni di potersi
sviluppare con tecniche di riabilitazione che siano corrette e creative. Acquisiscono pertanto
notevole importanza sia il concetto d’individualizzazione e di territorialità della pena, sia quello del
lavoro penitenziario, inteso come fattore di rieducazione, come esperienza qualificante capace di
aiutare il detenuto a ritrovare pienamente il senso della sua identità civile e della sua dignità umana.
La qualità della vita in carcere quindi, va perseguita attraverso l’acquisizione di due importanti
obiettivi: a) il lavoro penitenziario, b) gli interessi affettivi.
Finalità primaria della carcerazione è il riadattamento sociale. Riadattare alla vita significa far
comprendere il senso della libertà, risvegliare le qualità e i sentimenti buoni latenti in ogni persona,
cercare di eliminare gli aspetti negativi, orientare verso un nuovo ed equilibrato indirizzo di vita
sociale e familiare, evitando di ricadere nelle sottoculture dove l’aggressione e la violenza ne
rappresentano i requisiti peculiari. La posizione più rispondente a queste prerogative è quella di chi
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vede nell’approccio, nel colloquio, nel dialogo, nel contesto umano il mezzo più sicuro per far
uscire il detenuto dal suo pauroso isolamento, per distoglierlo dalle sue idee d’esclusione.
L’istituzione penitenziaria deve essere in grado di garantire
interventi psicoterapeutici e di
formazione sociale e professionale e soprattutto di far compiere al “deviante” quel salto di qualità
nel rapporto con la realtà sociale che gli può consentire di abbandonare l’agire antisociale, visto da
lui come unica possibilità esistenziale adatta a dargli successo nella vita. La medicina penitenziaria
italiana offre una grande testimonianza di civiltà e di solidarietà sempre a fianco dei più deboli ed
emarginati. Il problema si pone su come salvaguardare la propria autonomia assicurando continuità
assistenziale e rendendo particolarmente efficace e sicuro il rapporto medico-paziente. Se il carcere
non è nelle condizioni di poter tutelare la salute e non può curare, diventa automaticamente
incompatibile.
Occorre
pertanto
serietà,
competenza
nella
programmazione,
capacità
d’investimento, innovazione della tecnologia, formazione del personale. Accanto ad un paziente in
carcere bisogna mettere un Medico e un Infermiere professionalmente motivato; solo in questi
termini la tutela della salute in carcere può essere considerata un bene costituzionalmente protetto.
E’ vero che la criminalità almeno in certi settori è in aumento ma, il fenomeno, non si combatte
certo con la “tolleranza zero” da molti invocata. Si dovrebbero attuare interventi tempestivi ed
adeguati, non solo repressivi ma anche preventivi, gestiti da un sistema pubblico efficiente. Non è
soltanto con la forza che ci si deve difendere, occorre anche la ragione, che deve sempre prevalere.
Il carcere è un luogo “malato”, e come tale va curato. Sicuramente qualcosa è stato fatto, ma nei
confronti dei detenuti manca ancora una cultura del rispetto dell’umanità e della dignità.
Inoltre si ritiene significativo suscitare motivazioni adeguate nei detenuti, ridefinire e rendere
consapevole il loro stato di bisogno, correggendo eventualmente aspettative
incongrue.
Naturalmente è importante che il detenuto acquisti fiducia negli interventi sanitari e sociali offerti e
ciò in larga misura dipende dal livello di capacità organizzativa e d’integrazione col Servizio
Sanitario Nazionale da parte dell’amministrazione penitenziaria.
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