Capitolo 3 Consumi e investimenti 1. Le teorie sul consumo In questo paragrafo faremo riferimento a due teorie alternative rispetto a quella tradizionale keynesiana, in base alla quale si è svolto lo studio della domanda aggregata fino a questo momento. A) La teoria del ciclo vitale di F. Modigliani La teoria postula alcune ipotesi di funzionamento: 1) il comportamento degli individui rispetto al consumo è volto allo scopo di realizzare un livello di consumo costante in ogni anno della vita (cioè, sia durante la fase lavorativa che in seguito durante la fase di pensionamento che, di solito, coincide con la vecchiaia); 2) la teoria fa riferimento sia al flusso del reddito disponibile che alla ricchezza. La funzione del consumo, sulla base di queste ipotesi, risulta trasformata nel seguente modo: (1) C = aWR + cYL dove WR rappresenta la ricchezza reale e YL il reddito da lavoro, con riguardo a quest’ultimo aggregato specifichiamo che esso comprende ogni forma di remunerazione esclusivamente derivata dal lavoro, vengono esclusi i profitti imprenditoriali e, ovviamente, gli interessi sui prestiti e le rendite da proprietà. I parametri a e c rappresentano la propensione marginale al consumo, rispettivamente, della ricchezza e del reddito da lavoro. Per spiegare in che modo l’individuo possa pianificare il suo livello di consumo in modo da renderlo costante lungo la durata della intera esistenza, ci serviremo della Figura 1. Figura 1 WR A YL B C 0 WL nL t Sull’asse delle ascisse è riportato il tempo, sia nL il numero di anni che l’individuo si aspetta di vivere e WL il numero di anni per i quali l’individuo si aspetta di ricevere un reddito da lavoro; 118 Parte Prima: Teoria - Sezione Seconda: Macroeconomia il periodo che intercorre tra WL e nL è la fase di pensionamento. Per il momento trascureremo il risparmio, ipotizzando che non vi sia un vantaggio nel rimandare il consumo in quanto il risparmio non produce interesse. Consideriamo soltanto il reddito da lavoro, esso sarà pari all’area del rettangolo YLBW L0 cioè è pari a (YL × WL). Se trascuriamo la ricchezza, è ovvio che il consumo di tutta la vita di un individuo non potrà eccedere quell’area, l’individuo dovrà ripartire il flusso complessivo dei redditi per tutta la durata dell’esistenza, che, sotto ipotesi molto restrittive, consideriamo nota e pari a nL. La condizione di eguaglianza sopra descritta può essere espressa come: (2) C × nL = YL × WL Il consumo programmato annuale per ogni anno di vita sarà, pertanto, pari a: (3) C= WL × YL nL Il valore WL/nL rappresenta anche la frazione dell’esistenza occupata dalla fase lavorativa. Come abbiamo già accennato, una volta stabilito il consumo, viene determinato il risparmio in via residuale, e infatti, il risparmio sarà pari a: (4) S = YL – C = YL × (nL – WL)/nL dove (nL – WL) rappresenta il periodo di pensionamento. Le ipotesi della teoria sostengono l’eguaglianza tra le aree ((YL – C) × WL e (C × (NL – WL)), ossia il risparmio effettuato durante la fase lavorativa sarà utilizzato come reddito nella fase di pensionamento. Si noti l’ininfluenza, in questa impostazione, del reddito disponibile del periodo, parametro che viene invece posto alla base della costruzione keynesiana. Allargando, parzialmente, le ipotesi restrittive entro cui ci siamo mossi finora, introduciamo le attività patrimoniali. Il risparmio di ogni periodo nella fase lavorativa viene utilizzato nell’acquisto di titoli e attività patrimoniali; nella figura 1 viene anche evidenziato un ciclo della ricchezza. Conformemente a questa teoria, nel corso della vita di un individuo avviene un iniziale accumulo di ricchezza che raggiunge l’apice nell’età della pensione (punto A), da quel punto in poi la ricchezza viene utilizzata per sostenere il reddito e, quindi, consumata. In conclusione, questa teoria ipotizza alti livelli di risparmio per gli individui giovani, da poco entrati nel mondo del lavoro per favorire l’accumulo di una ricchezza che sarà azzerata nella fase di pensionamento. Se introduciamo la ricchezza nello schema di comportamento del nostro ipotetico individuo abbiamo che egli, al tempo t, con un ammontare di ricchezza pari a WR, un flusso di redditi da lavoro dipendente pari a (WL – t) × YL e un’attesa di vita di (nL – t) anni, si comporterà rispetto al consumo in modo tale da verificare l’eguaglianza: (5) C × (nL – t) = WR + (WL – t) × YL esprimiamo le propensioni marginali al consumo rispetto al reddito (c) e rispetto alla ricchezza (a) come: (6) c = WL – t/nL – t; (7) a = 1/nL – t con WL > t per cui: (8) C = aWR + cYL Capitolo 3: Consumi e investimenti 119 In queste ipotesi, man mano che ci si avvicina alla fine della vita la propensione marginale del consumo rispetto alla ricchezza (a) aumenta, mentre un aumento del numero di anni lavorativi fa aumentare il consumo in quanto, con esso, aumenta il reddito vitale e si riduce il periodo di consunzione delle sostanze (sia reddito che ricchezza). Si può notare che questo schema funziona sotto condizioni estremamente limitative, quali ad esempio la costanza del reddito. Gli individui, in realtà, ignorano sia la lunghezza della propria esistenza nL, sia l’andamento dei loro redditi (WL × YL), sono quindi costretti a fare delle previsioni sui redditi futuri, su queste incertezze costruiscono ipotesi sul reddito atteso. La capacità previsionale degli individui sul livello dei redditi futuri è il punto di partenza per la teoria del reddito permanente. Inoltre, gli individui normalmente tendono a non consumare tutta la loro ricchezza, sia per lasciare un’eredità ai figli, sia per sostenere i redditi di questi durante la fase di ricerca di lavoro. L’introduzione di tali gradi di complessità non modifica però, nella sostanza, i risultati della teoria. Essa è anche in grado di spiegare le differenza del livello di risparmio tra diversi Paesi. In accordo ai suoi principi, infatti, il risparmio dovrebbe essere maggiore laddove la popolazione è costituita per una percentuale preponderante da giovani appena inseriti nel mondo del lavoro e, viceversa, dovrebbe essere molto scarso laddove la percentuale di pensionati è molto alta. Altra discriminante essenziale tra i diversi Paesi è il programma di previdenza sociale vigente, che stabilisce in quale misura lo Stato si accolli gli oneri pensionistici; inoltre, se lo Stato si fa garante nel sostenere i redditi di chi è uscito dal mondo del lavoro per età, gli individui dovranno essere meno accorti nelle decisioni di spesa durante la fase lavorativa e saranno loro necessarie minori restrizioni attuate in modo da assicurarsi il reddito dell’età avanzata. B) La teoria del reddito permanente di M. Friedman Questa corrente di pensiero, che deve a Friedman le sue fondamenta, considera quale cruciale parametro di riferimento per il consumo non già il reddito disponibile, bensì il reddito atteso. Per reddito atteso si intende quel livello di reddito che l’individuo si aspetta di ricevere nel lungo periodo; esso rappresenta una sorta di valore medio che azzera le oscillazioni dei guadagni dovute a momenti di crisi o di “fortuna”, un valore, quindi, in grado di quantificare su quale cifra l’individuo possa contare effettivamente e stabilmente per sbarcare il lunario. Anche questa teoria immagina che gli individui adottino un comportamento di consumo che si mantenga costante nel tempo. Se, ad esempio, accade, come nell’ipotesi suggerita dallo stesso Friedman, di ricevere la paga settimanalmente, l’individuo non concentrerà tutte le sue spese nel giorno in cui riceve la sua remunerazione, ma dividerà il suo reddito in modo da poter sostenere un tipo di consumo sostanzialmente uniforme durante il periodo tra una paga e l’altra. Questo comportamento precauzionale sarà tenuto dall’individuo per tutta la sua vita, egli tenderà a fare oscillare il livello dei suoi consumi intorno ad un valore medio che sarà prossimo a quello che ritiene essere, in base alla sua valutazione, il suo reddito permanente. In prima istanza, pertanto, secondo questa teoria il consumo è pari ad una certa proporzione c del reddito permanente: (9) C = cYP Ma in che modo l’individuo giunge alla valutazione del reddito permanente YP? Il primo parametro su cui l’individuo basa la sua valutazione è un dato certo: il reddito del periodo corrente. L’individuo si aspetta di poter continuare a godere di quel reddito anche per il futuro. A fronte di una variazione, assumiamo in positivo, l’individuo determinerà se tale variazione è destinata a durare e a ripetersi, oppure se essa è transitoria. 120 Parte Prima: Teoria - Sezione Seconda: Macroeconomia Una promozione o un avanzamento di carriera costituiscono esempi di variazioni non transitorie e quindi rientrano nella determinazione del reddito permanente, una vincita alla lotteria o un’occasionale seconda attività saranno giudicate variazioni temporanee e, pertanto, non modificheranno il livello del reddito permanente. In alcuni casi, le cose non sono però tanto chiare e per l’individuo è difficile stabilire se la variazione registrata in un certo periodo è destinata a persistere o meno. A questo punto la sua valutazione del reddito permanente sarà pari a: (10) YP = Yt–1 + θ(Yt – Yt–1) con il valore θ compreso tra 0 e 1. In pratica, il reddito permanente sarà pari al reddito del periodo precedente più una certa percentuale che pondera la variazione registrata tra il reddito del periodo corrente (in cui si effettua la valutazione) e il reddito del periodo precedente. Se il fattore (Yt – Yt – 1) è uguale a 0, ossia se non vi sono state variazione tra il reddito del tempo t ed il reddito del tempo t – 1, non vi saranno neanche variazioni del reddito permanente. Variazioni positive del reddito saranno scontate di una percentuale pari a θ che misura in quale maniera il reddito permanente cresca più lentamente del reddito reale. Quest’ultimo risultato si spiega in quanto, essendo gli individui, come già detto, incapaci di stabilire con certezza quali variazioni di reddito siano transitorie, valuteranno tutte le variazioni, in una certa percentuale, permanenti. Formulazioni più complesse della teoria tengono conto non soltanto del reddito del periodo precedente ma di alcuni periodi precedenti (i più recenti naturalmente). Il modo in cui si formano aspettative sui redditi futuri dipende largamente da cosa si sia verificato nel passato. Così individui che registrano ampie variazioni del livello del reddito da un anno all’altro (ad esempio, gli agricoltori) tenderanno ad attribuire al parametro θ un valore estremamente basso, mentre individui che contano su un flusso di reddito più o meno costante nel tempo (ad esempio, gli stipendiati) attribuiranno al parametro θ un valore prossimo all’unità. Altre considerazioni vanno fatte rispetto al motivo di una variazione del reddito, come abbiamo già detto prima (differenza tra una promozione e una vincita alla lotteria). A questo punto siamo in grado di scrivere la formula del consumo enunciata secondo i dettami di questa teoria: (11) C = cYP = cθYt + c(1 – θ) Yt–1 La propensione marginale al consumo di lungo periodo cθ sarà inferiore alla propensione marginale al consumo di breve periodo c. Questa differenza si spiega con un semplice meccanismo precauzionale, ossia una volta registrata la variazione positiva del reddito, l’individuo non adegua immediatamente il suo consumo al maggiore reddito ora disponibile in quanto ignora in quale misura la variazione sarà permanente; soltanto nel periodo successivo, se si verifica la stessa variazione positiva, l’individuo adeguerà completamente il suo consumo al più alto reddito. Prima di concludere, notiamo che le due teorie sovraesposte non sono contraddittorie né si escludono a vicenda. La teoria del ciclo vitale mette in evidenza, principalmente, i motivi del risparmio e come esso vari nelle diverse fasi della vita di un individuo, la teoria del reddito permanente mostra come si formino le aspettative sui redditi futuri. L’acquisizione di quest’ultimo elemento teorico è estremamente utile alla politica economica, infatti esso spiega come mai gli effetti sui consumi, poniamo di un aumento della imposizione fiscale, siano sensibilmente diversi a seconda che lo Stato preannunci l’inasprimento delle imposte come transitorio o come permanente. Se le più alte tasse sono avvertite come transitorie esse sortiscono un effetto meno repressivo sul consumo del periodo in quanto non intaccano, se non in minima percentuale (per un θ molto basso), il livello del reddito permanente su cui si basa il comportamento relativo al consumo. Capitolo 3: Consumi e investimenti 121 2. Altre considerazioni sui modelli di consumo Ricerche empiriche sono state svolte per rilevare, alla luce dei fatti, quale tra i tre approcci sia più confacente a quello che si verifica nella realtà, si sono cioè operati confronti tra: a) teoria keynesiana che mette in relazione il consumo con il reddito disponibile; b) teoria del ciclo vitale (Modigliani) che pone come obiettivo degli individui la costanza di un certo livello di consumi da essi stessi determinato sotto il vincolo del reddito per l’intera esistenza; c) teoria del reddito permanente (Friedman) che si basa anch’essa su un valore previsionale, reddito permanente, rispetto al quale gli individui attueranno le proprie scelte di consumo. Robert Hall e Majorie Flavin hanno, ad esempio, riscontrato storicamente quale sia stata, rispetto a differenze nei redditi tra diversi periodi, la percentuale di variazione che si è mantenuta nel tempo, rivelandosi non transitoria e quindi meritevole di essere inserita come valore di reddito permanente. Una volta identificata questa percentuale si è voluto vedere se gli individui fossero stati in grado di includerla nelle loro aspettative, ossia gli autori hanno verificato se la percentuale stabile di variazione del reddito era rispettata nell’incremento proporzionale dei consumi. Quello che ne è risultato e che gli individui tendono a basare le loro decisioni di spesa unicamente sul reddito disponibile e a considerare permanenti variazioni che sono in realtà transitorie o che lo sono per una percentuale più alta di quanto previsto dai consumatori. Questo comportamento è stato definito come “iperattività” del consumo rispetto al reddito corrente ed è stato imputato alla “miopia” dei consumatori che non distinguono le variazioni del reddito destinate a permanere dalle altre, il che li porta a «spendere tutto e subito». Ma anche qualora gli individui fossero in grado di prevedere con migliore approssimazione la misura della permanenza di variazioni del reddito, altri fattori potrebbero impedire loro un comportamento conforme alla teoria del reddito permanente. Tra questi fattori rientra sicuramente il vincolo di liquidità. Questo vincolo entra in gioco tutte le volte che gli individui non possono adeguare i loro livelli di consumo al reddito permanente o non possono perpetrare i comportamenti di spesa ipotizzati dalla teoria del ciclo vitale semplicemente perché non hanno soldi. In pratica, anche interpretando correttamente restrizioni di liquidità come momentanee e ovvero desiderando mantenere un livello di consumo uniforme e calibrato su un valore attendibile di reddito permanente in tutti i periodi dall’esistenza, alcuni individui sono costretti a rinunciare ai consumi trovandosi senza denaro. In queste ipotesi, soltanto il reddito disponibile rappresenta il valore di riferimento per il consumo. È stato dimostrato che l’annuncio da parte del governo degli USA di aumentare gli assegni di previdenza sociale non ha sortito nessun effetto di incremento del consumo fino a quando i maggiori introiti non sono stati effettivamente intascati. La liquidità, dunque, rappresenta un grosso limite all’uniformità del consumo ipotizzata dalle due teorie che abbiamo esaminato in questo capitolo. Altro elemento che interferisce con la teoria del ciclo vitale è quello del risparmio per motivo di incertezza e precauzionale. Questa motivazione di risparmio fu attentamente vagliata da Keynes, il quale per primo additò l’incertezza e il timore per il futuro quale ulteriore incentivo al risparmio, diverso dal solo tasso di interesse della teoria classica. L’incertezza per il futuro induce cautela nella spesa e quindi favorisce la propensione al risparmio. Gli anziani avvertono, secondo evidenze empiriche, maggiori timori rispetto al proprio futuro e pertanto, piuttosto che aumentare i consumi nella fase del pensionamento, aumentano il risparmio, contro le ipotesi della teoria del ciclo vitale. Infine, questa teoria è anche contrastante con il desiderio di lasciare una sostanziosa eredità ai figli. 122 Parte Prima: Teoria - Sezione Seconda: Macroeconomia Sempre in riferimento alla teoria del ciclo vitale, sottolineiamo la discrepanza di questo approccio rispetto alla teoria classica del tasso di interesse. Secondo la teoria classica, aumentando il tasso di interesse si inducono le persone al risparmio che diventa più profittevole; se però, in accordo alla teoria del ciclo vitale, si ritiene che gli individui risparmino per poter sostenere il consumo nella fase di pensionamento, l’aumento del tasso di interesse rende il risparmio meno necessario (Dornbusch-Fischer) in quanto, con un alto tasso di interesse l’individuo può ottenere le riserve economiche per garantirsi il consumo desiderato nella vecchiaia con un più basso risparmio attuale. Peraltro le ricerche empiriche non riescono a fornire risposte definitive alla questione. 3. Le decisioni di investimento: il comportamento delle imprese Per analizzare cosa determini l’investimento, occorre comprendere quali elementi siano alla base del comportamento dell’impresa. Nel modello neoclassico si suppone che le imprese decidano di investire quando lo stock di capitale disponibile per la produzione è più basso di quello desiderato. In questo modo sarà utile analizzare: a) in cosa consiste lo stock di capitale desiderato e come esso venga determinato; b) come avvenga il processo di adeguamento tra stock di capitale disponibile e desiderato. Iniziamo col dire che la domanda di capitale delle imprese riflette la curva di produttività marginale del capitale. Infatti, il capitale, come ogni altro fattore di produzione (lavoro, terra, risorse naturali) opera secondo la legge dei rendimenti decrescenti, cioè via via che si aggiungono unità di capitale alla produzione il contributo di questo alla stessa (produttività marginale) si abbassa. Le imprese continueranno a domandare unità di capitale fino al punto in cui il suo prezzo (costo d’uso del capitale, sostanzialmente pari al tasso di interesse) diventa maggiore del suo contributo alla produzione. Essendo pressocché fisse le quantità di risorse da impiegare nella produzione (materie prime, combustibili, spazi, ecc.) le imprese, nello stabilire quale sia il sistema produttivo più conveniente, ossia quello che impiega un mix di fattori produttivi più vantaggioso, prenderanno in considerazione contemporaneamente il costo d’uso del capitale e il costo d’uso del lavoro (salario). L’espressione del capitale desiderato K* sara pari a: (12) K* = g(ck,Y) Dove si vede che la variabile K* (capitale desiderato) dipende dal suo costo ck e dal livello della produzione Y. Se il livello di produzione aumenta, aumenterà la domanda di capitale, che invece risulterà contratta da un aumento dei costi d’uso del capitale. 123 Capitolo 3: Consumi e investimenti La Figura 2 mostra come si determina graficamente la quantità di capitale desiderato. Figura 2 Prodotto marginale del capitale Y A PMK1 YY1 0 K* K0 K Capitale Dato il costo d’uso del capitale ck, lo stock desiderato è quella quantità che eguaglia il prodotto marginale del capitale (decrescente) con il suo costo (ck). Un aumento del volume complessivo di produzione sposta l’intera curva verso l’alto, in quanto le imprese vorranno impiegare maggiori capitali a parità di costi. Ma se è il livello del prodotto a determinare la quantità di capitale desiderato, a quale livello di prodotto occorre riferirsi? In alcuni settori dell’economia, come quello dei trasporti, l’aumento della capacità produttiva richiede lunghi periodi di investimento, pertanto la domanda di capitale dovrà essere calibrata sul livello di prodotto atteso; in altri settori le cose sono più semplici e occorrono poche settimane o qualche mese, al massimo, per aumentare la capacità produttiva e quindi il livello di produzione. Anche la domanda di capitale deve basarsi sulle aspettative future. Fino a questo momento abbiamo limitato l’accezione di costo d’uso del capitale al solo tasso di interesse, in altri termini abbiamo ipotizzato che l’impresa si procuri il denaro necessario all’acquisto di capitali (macchinari e attrezzature) ricorrendo ad un prestito. Allargando il concetto di costo d’uso del capitale possiamo fare alcuni rilievi: a) oltre al tasso di interesse, l’impresa deve “pagare” il deprezzamento del capitale. Il deprezzamento (o ammortamento) inizia nel momento stesso in cui l’unità di capitale, ad esempio un nuovo macchinario, inizia a essere impiegato nella produzione. Vi saranno fin da subito costi aggiuntivi che includono le spese di manutenzione correnti, le riparazioni, l’eventuale obsolescenza, che, per alcuni tipi di capitale (ad esempio i computer) insorge molto precocemente; b) il tasso di interesse di riferimento per l’impresa dovrebbe essere correttamente depurato dall’inflazione, in quanto quest’ultima favorisce il debitore. L’impresa, quindi, prima di accollarsi un debito e mentre ne valuta la convenienza, dovrà riferirsi al tasso di interesse reale, cioè quello che si ottiene dalla formula: tasso di interesse nominale – tasso di inflazione atteso c) la politica fiscale influenza le decisioni di investimento con riguardo al modo in cui esso viene finanziato. La presenza di un’imposta sul reddito della società spinge le imprese a finanziare i programmi di investimento con capitali presi a prestito, piuttosto che con fondi propri (in pratica, quote di utili non distribuiti), in quanto gli interessi passivi sono dedotti dal reddito 124 Parte Prima: Teoria - Sezione Seconda: Macroeconomia di impresa prima della tassazione. La politica fiscale influisce positivamente sul programma di investimenti quando consente la detrazione di una certa quota di spesa per investimenti; d) anche la politica monetaria influenza le decisioni di investimento attraverso le sue manovre sui tassi di interesse, sotto l’ipotesi che gli investimenti aumentino quando il tasso di interesse scende; e) elevate quotazioni azionarie stimolano gli investimenti, in quanto se il costo di ogni azione è alto, il finanziamento degli investimenti avviene, in via alternativa e preferenziale rispetto all’indebitamento, attraverso l’emissione di un numero relativamente basso di azioni; f) l’elemento tempo, spesso fondamentale nei processi economici, gioca il suo ruolo anche nei programmi di investimento. Abbiamo già notato come il livello di capitale desiderato possa non coincidere con quello attuale, soprattutto perché l’ampliamento della capacità produttiva può richiedere tempi lunghi. Taluni investimenti, per propria natura, richiedono anni prima di essere attuati (costruzione di stabilimenti, di sistemi di comunicazione, implementazione di nuovi modelli organizzativi, ecc.). L’impresa, in questi casi, è chiamata a decidere anche come scaglionare il programma pluriennale di investimenti. In questa determinazione può assumere un peso preponderante la politica fiscale; nel momento in cui vi siano variazioni del risparmio di imposta sugli investimenti tra un periodo e l’altro, l’impresa può essere condotta ad accelerare il programma di investimenti da un consistente risparmio di imposta annunciato come temporaneo. 4. Alcune alternative al modello neoclassico sul processo decisionale di investimento Un approccio non incompatibile col modello neoclassico è quello secondo cui le decisioni di investimento vengono adottate secondo una analisi dei rendimenti futuri. Come sappiamo, il valore di una somma, poniamo 100 unità, tra un anno, al tasso del dieci per cento sarà pari a 110 unità; analogamente, 110 unità monetarie disponibili tra un anno equivalgono a 100 unità attuali. Nel valutare la convenienza economica di un investimento pluriennale, andrà considerato il valore attuale del flusso di rendimenti derivanti da quell’investimento, scontandoli al tasso di interesse corrente. Ad esempio: valutiamo la convenienza economica di un investimento consistente in un iniziale esborso di 1.500 € e i cui flussi di reddito sono riportati nella tabella seguente (Figura 3) e attualizzati a un tasso del 4,5%: Figura 3 Rendimenti a scadenza Valori attuali Fine primo anno Fine secondo anno Fine terzo anno Fine quarto anno 200 350 550 800 200 = 191,39 1+ 0,045 300 550 800 = 320,50 = 481,96 = 191,39 (1+ 0,045)2 (1+ 0,045)3 (1+ 0,045)4 Dalla tabella si evince che il rendimento alla fine del primo anno è pari a 200 € , importo che riportato finanziariamente al tempo corrente, o, in termini equivalenti, il cui valore attuale è pari a 191,39 (1). Il rendimento alla fine del secondo anno è, invece, pari a 300 , il cui valore attuale è 320,50 . (1) La formula utilizzata per il calcolo del valore attuale dei rendimenti dell’investimento è mutuata dalla matematica finanziaria. Si tratta del valore attuale, ad un tasso d’interesse i, di un capitale C disponibile dopo 1, 2, ..., n periodi nel regime finanziario dell’interesse composto; esso è pari, rispettivamente, a: 1 1 1 V1 = C ; V2 = C ; …; Vn = C 1+ i (1+ i)2 (1+ i)n Capitolo 3: Consumi e investimenti 125 La somma algebrica dei valori attuali dei diversi flussi di cassa relativi all’investimento è: – 1.500 + 191,39 + 320,50 + 481,96 + 670,85 = 164,7 Pertanto, l’investimento è conveniente. Anche questo approccio, dunque, pone il livello del tasso di interesse quale variabile inversamente proporzionale al volume degli investimenti. Il modello dell’acceleratore collega le decisioni di investimento da parte delle imprese non già al costo d’uso del capitale e al tasso di interesse, ma piuttosto alle variazioni registrate sul livello di produzione. In altri termini, quando l’impresa si accorge che la domanda per i suoi prodotti è in crescita diventa, per essa, altamente desiderabile espandere la produzione e intraprendere programmi di investimento, ciò indipendentemente dal costo d’uso del capitale. Le ricerche empiriche svolte allo scopo di misurare il peso del costo d’uso del capitale nelle decisioni di investimento non sono approdate a risultati certi, pertanto è ancora opinabile se il modello dell’acceleratore espliciti meglio di quello neoclassico il comportamento delle imprese riguardo alle decisioni di investimento. Un aspetto molto significativo nelle decisioni di investimento delle imprese è quello della fonte di finanziamento. Si riscontra molto spesso, nelle economie di tutto il sistema occidentale, una preponderante tendenza all’utilizzo di utili non distribuiti per il finanziamento degli investimenti. Il ricorso a questa fonte, da un lato, connette le decisioni di investimento essenzialmente all’andamento del bilancio di impresa, dall’altro, dimostra il comportamento estremamente cauto del sistema bancario che impedisce un miglior andamento dell’economia o ritarda la ripresa nelle fasi di recessione. Le banche, spesso, anziché aiutare l’economia nazionale nei momenti critici, tendono a inasprire le fasi recessive restringendo il credito alle imprese, e di converso, attuano politiche di rilancio degli investimenti quando il sistema economico è già di suo in espansione. Altra pecca delle banche è quella di concedere prestiti prevalentemente a imprese di dimensioni medie o grandi, abbandonando le piccole al loro destino. Oltretutto questo comportamento, che talvolta si traduce in un razionamento del credito, svincola le decisioni di investimento delle imprese dal livello del tasso di interesse; infatti, anche qualora un’impresa valutasse vantaggioso intraprendere un programma di investimento ad un certo tasso di interesse (quantunque alto), essa potrebbe non trovare alcuna banca disposta a concederle il finanziamento. Il razionamento del credito si verifica in varie ipotesi: 1) quando le banche decidono di non accettare un certo debitore, ritenendolo ad alto rischio di insolvenza, sebbene questi sia disposto a pagare un tasso di interesse elevato; 2) quando le banche si allineano spontaneamente alla stretta creditizia stabilita dall’autorità monetaria centrale, riducendo il volume complessivo dei prestiti; 3) quando l’autorità centrale monetaria impone un limite preciso all’espansione dei prestiti. Ulteriori dettagli sul sistema bancario verranno proposti nei capitoli immediatamente successivi. Secondo Keynes, al di là di qualsivoglia considerazione economica, le decisioni degli uomini d’affari sono guidate dagli animal spirits, ossia da quella sorta di istinto animale che li spinge a formulare aspettative ottimistiche o pessimistiche riguardo all’andamento dei mercati e ad agire sulla base di tali previsioni. 5. L’investimento in abitazioni Abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo che gli investimenti vengono ripartiti in tre categorie. La seconda, che riguarda le abitazioni, si sovrappone, quasi a coincidere, al mercato delle case. 126 Parte Prima: Teoria - Sezione Seconda: Macroeconomia La principale caratteristica di questa tipologia di investimento è il suo lunghissimo periodo di durata, pertanto la frazione dell’offerta di case rappresentata da «nuove abitazioni» è quasi ininfluente rispetto allo stock di case esistenti. Le case rappresentano anche una tipologia di attività patrimoniale e rientrano nella ricchezza degli individui. È possibile rappresentare graficamente la domanda di case, si osservi la figura 4 PA Pnc (1) (2) Prezzo della casa Prezzo della casa come attività finanziaria Figura 4 Sc P1A Dc Snc P’nc 1 0 Stock di case C Dc 2 0 Offerta di nuove case Qnc Come si può notare abbiamo nel settore 1 la curva di domanda di abitazioni DC1 che reagisce al costo delle abitazioni esattamente come qualsiasi altro bene di consumo, ed infatti era stato premesso nell’introduzione di questo capitolo che le case sono assimilabili a un bene di consumo di lunga durata. Il prezzo del bene viene stabilito, come al solito, dall’incontro tra domanda e offerta (SC), quest’ultima è rappresentata come fissa perché, in un dato momento, lo stock delle case proponibili alla vendita è dato. La differenza tra il settore 1 e il settore 2 è che il secondo si concentra sull’offerta di nuove case Snc tale curva è nota in economia come curva di offerta di flussi, in quanto essa può essere tracciata soltanto in relazione ad un certo lasso di tempo in cui le nuove case si rendono disponibili. La curva di domanda di case risentirà di varie circostanze: a) b) c) d) e) f) g) la tassazione sulla ricchezza; il livello del tasso di interesse per le altre attività finanziarie; le agevolazioni fiscali che lo Stato propone per l’acquisto della prima casa; il livello degli affitti; il livello dei mutui ipotecari; lo stock esistente di case; la normativa urbanistica più o meno restrittiva nei confronti di nuove costruzioni o rispetto alla tutela del preesistente; h) elementi soggettivi e oggettivi che possono influenzare le decisioni di acquisto (ad esempio la valenza assunta dallo status sociale del proprietario rispetto a quello dell’inquilino, la preferenza soggettiva o oggettiva a risiedere in una certa area della città ecc.). Capitolo 3: Consumi e investimenti 127 La curva di offerta sarà modificata essenzialmente dal numero di nuove case costruite nel periodo precedente, dai costi di produzione ecc. Nel lungo periodo il mercato delle abitazioni, in assenza di aumenti della popolazione e della ricchezza, sarà in equilibrio se il tasso di attività edilizia risulta uguale al tasso di ammortamento delle case, cioè se non si costruisce se non per rimpiazzare le demolizioni o per riparare i danni di abitazioni ancora agibili. Se, invece, la popolazione e/o la ricchezza stessero aumentando, il tasso di attività edilizia dovrebbe calibrarsi su questi aumenti perché l’equilibrio sia raggiunto e sia duraturo. La difficoltà di raccordare tutti questi tassi di crescita (della popolazione, della ricchezza, dell’attività edilizia) fa sì che il mercato delle case sia spesso squilibrato. 6. Le scorte Rientrano nella tipologia di «scorte» i beni finiti riservati a vendite future e i prodotti non ancora ultimati. Abbiamo più volte accennato al ruolo delle scorte nel ciclo economico, dove variazioni inattese delle stesse in aumento o in diminuzione rappresentano un inequivocabile barometro dell’andamento dei mercati. È abbastanza fisiologica la presenza di scorte in un’impresa. Le scorte sono mantenute a un certo livello per fronteggiare improvvise impennate delle vendite, che facendo trovare l’impresa impreparata potrebbero ledere all’immagine esterna della stessa e farla giudicare inattendibile per le prossime forniture. È questo uno dei motivi. Altri motivi che giustificano la presenza di scorte si collegano con il risparmio ottenibile nell’emettere un solo grosso ordine di prodotti semilavorati, piuttosto che tanti ordini di dimensioni ridotte; o ancora, le scorte possono essere necessarie a sostenere il processo produttivo che, per motivi tecnici o economici, deve essere mantenuto a un livello di produzione costante, indipendentemente dalle fluttuazioni del volume di vendite. Le scorte rappresentano un costo per le imprese che devono immagazzinarle e gestirle con varie movimentazioni. Le nuove tecniche di mantenimento delle scorte tentano di ottimizzare la loro quantità all’interno delle imprese. Un paese, altamente competitivo dal punto di vista commerciale, il Giappone, deve molto della sua efficienza alla tecnica di gestione delle scorte, che tutto il mondo tenta di copiare. Tale tecnica, nota come just in time, si basa su di un rapporto fiduciario ad alta sincronizzazione tra impresa e fornitori, i quali sono in grado di portare in loco i semilavorati man mano che il processo produttivo lo richiede azzerando i tempi di trasporto e i costi di immagazzinaggio. In tutti i paesi a economia moderna il livello delle scorte è stato drasticamente ridotto.