la Voce del popolo la Voce del popolo QUEEN IQUARANT’ANNI DI BOHEMIAN RHAPSODY spettacoli www.edit.hr/lavoce Anno 1 • n. 6 martedì, 29 dicembre 2015 IL PERSONAGGIO INTERVISTA MUSICA RECENSIONE Woody Allen ha compiuto 80 anni Una chiacchierata con Veljko Bulajić I dieci migliori album di sempre Il film «Colpi di fulmine» di Parenti Il rinomato regista montenegrino parla della sua ricca carriera e del nuovo progetto in cantiere La rivista “Rolling Stone” ha compilato una lista dei 500 dischi migliori della storia Una classica commedia romantica a episodi pensata per allietare il periodo festivo 3 L’instancabile cineasta americano gira un film all’anno e non intende fermarsi. L’ultimo è “Irrational man” 4|5 6|7 8 2 martedì, 29 dicembre 2015 ANNIVERSARI spettacoli la Voce del popolo QUARANT’ANNI FA VENNE PUBBLICATO IL SINGOLO «BOHEMIAN RHAPSODY» DEL GRUPPO INGLESE QUEEN, UNA DELLE CANZONI PIÙ IMPORTANTI NELLA STORIA DELLA MUSICA LEGGERA S entire un brano dei Queen per la prima volta è per molti un’esperienza particolare. A parte la voce straordinaria del frontman Freddie Mercury e la bravura degli strumentisti (Brian May alla chitarra elettrica, Roger Taylor alla batteria e John Deacon al basso), ciò che affascina nella musica di questa leggendaria band inglese sono le linee melodiche che hanno un che di inaspettato nel modo in cui si sviluppano. Ciò vale soprattutto per i brani composti dallo stesso Freddie Mercury, nei quali il geniale musicista si è avventurato in tutta una serie di generi, sperimentando con la struttura, la durata del brano (una categoria di notevole importanza nella musica pop/ rock, al fine di venire incontro ai tempi radiofonici e televisivi) e con le armonie. Ebbene, abbiamo appena descritto una delle canzoni-simbolo della band: “Bohemian Rhapsody”, il capolavoro di Mercury. Un successo enorme La canzone venne scritta per il quarto album dei Queen, “A Night at the Opera” del 1975, e pubblicata come primo singolo il 31 ottobre del 1975. Il brano ottenne un enorme successo e rimase al vertice della classifica britannica dei singoli per ben nove settimane, arrivando a vendere un milione di copie nel gennaio del 1976. Nonostante il suo straordinario successo, “Bohemian Rhapsody” non venne accolta con entusiasmo da tutti i critici. C’è chi la descrisse come un “pastiche superficialmente impressionante” di stili operistici e chi le rimproverava di essere “un tentativo di avvicinarsi alla furia demente di una società operistica amatoriale”, ma sono molto più numerosi coloro che ne parlarono in termini superlativi. Questo vale soprattutto per i musicisti, tra cui anche Brian Wilson dei Beach Boys, il quale fece riferimento al brano nel 1976 come a “una delle cose più competitive apparse dopo tanto tempo”, descrivendolo come “la preghiera esaudita di un adolescente desideroso di musica artistica”. Con “Bohemian Rhapsody” al vertice della classifica inglese, il cantante Greg Lake dovette accontentarsi del secondo posto per il suo brano natalizio “I believe in Father Christmas”, confessando di esser stato “battuto da una delle più grandi canzoni mai scritte” e descrivendolo come “un’incisione che avviene una volta nella vita”. Il brano venne definito “un’operetta di rock progressivo” e “un ponte tra il meglio del progressive rock e uno stile musicale più aggressivo”. Una particolare struttura musicale In linea con la propensione di Freddie Mercury al gioco con i generi musicali e alla sperimentazione, “Bohemian Rhapsody” si distingue per la sua particolare struttura musicale. Il brano è composto, infatti, da cinque parti diverse: un’introduzione corale cantata a cappella, un segmento in stile ballata che termina con un assolo di chitarra, un passaggio d’opera, una sezione di hard rock e un altro segmento in stile ballata che si chiude con una sezione solo piano e chitarra. Questa forma sarà ripresa da Mercury quindici anni più tardi, nella canzone “Innuendo”, tratta dall’omonimo album. Data la complessa struttura della canzone, le registrazioni iniziarono appena dopo tre settimane di prove, || I Queen negli anni Settanta UN’AFFASCINANTEFUSIONE TRAOPERETTAEROCKPROGRESSIVO || La copertina dell’album “A Night at the Opera” mentre l’incisione richiese altre sei settimane di lavoro. In alcuni segmenti della parte cantata a cappella, le voci dei Queen vennero sovraregistrate diverse volte raggiungendo un totale di circa 180 parti vocali. Si tratta di un risultato davvero impressionante per gli standard dell’epoca, in quanto sembra che gli studi stessi non fossero in possesso di nastri capaci di contenere il numero di registrazioni necessario per l’incisione del brano. Due volte al vertice delle classifiche Un altro elemento insolito è pure la durata del brano, di quasi sei minuti. Per questo motivo la sua diffusione radiofonica pareva improponibile, finchè un giorno Freddie Mercury non si mise in contatto con l’amico disc jockey, Kenneth Everett, consegnandogli una copia della canzone sotto la promessa di non mandarla in onda. Certo che Freddie sapeva esattamente che la promessa non sarebbe stata mantenuta e, || La band durante una performance infatti, Everett cominciò a trasmettere il brano di continuo, arrivando a proporlo addirittura quattordici volte in due giorni. Il successo fu tale che la casa discografica dovette pubblicare il singolo, che vinse il disco di platino e rimase in cima alle classifiche per nove settimane. Effettivamente, “Bohemian Rhapsody” è l’unico singolo che riuscì a raggiungere il vertice delle classifiche due volte (la seconda volta accade qualche mese dopo la morte di Mercury, nel 1992. La canzone rimase al primo posto per cinque settimane). Il significato del testo rimane un mistero Freddie Mercury fu sempre riluttante a spiegare il significato del brano e si limitò a dire che parlava di una relazione; la band protegge ancora oggi il suo segreto, nonostante May sostenga la tesi che la canzone contenga velati riferimenti ai traumi personali del frontman. “Freddie fu una persona molto complessa: vivace e divertente in superficie, nascondeva insicurezze e difficoltà nel conciliare la sua vita con la sua infanzia. Non spiegò mai il testo della canzone, ma credo che vi investì molto di sé stesso”, dichiarò May. Tuttavia, numerosi critici, giornalisti e studiosi continuarono a speculare sul significato del testo. Alcuni sono convinti che vi sia descritto un omicida che sta per suicidarsi, perseguitato da demoni, o che parli di eventi immediatamente precedenti a un’esecuzione. Quest’ultima spiegazione fa riferimento al romanzo “Lo straniero” di Albert Camus che tratta un tema simile. Certi si limitano, invece, a sostenere che il testo venne scritto unicamente per accompagnare la musica e che non abbia un significato preciso. Quale che sia la verità, rimane il fatto che si tratta di una delle canzoni più emblematiche nella storia della musica leggera, tanto che venne votata in diversi sondaggi come il brano più bello di sempre. Helena Labus Bačić spettacoli la Voce del popolo IL PERSONAGGIO “T Desiderio, repressione, ansia e sessualità Tuttavia, il concetto freudiano della psicanalisi e la sua formula magica di desiderio, repressione, ansia e sessualità rimane una sua costante tematica. Nel testo “The Denial of Death” (La negazione della morte) di Ernest Becker, che Alvy compra all’amata Annie nel film Annie Hall, vengono citate due strategie per evitare la moralità: la sessualità, che Allen accetta senza barriere, e il Dio che deride. Oltre che da Freud e Bergman, era ossessionato anche da Dostoevskij fin dal 1975, anno in cui girò Love and Death. “Il mondo è un grande ristorante”. “La soggettività e oggettiva”. “Se Cristo fu un falegname, chissà quando prendeva per uno scaffale”. La cornice storica della trama sono le guerre di Napoleone nelle quali viene coinvolto Allen con la sua psiche da “neurotico ebreo”. L’INSTANCABILE CINEASTA AMERICANO WOODY ALLEN HA COMPIUTO 80 ANNI L’ossessione per Dostoevskij prosegue anche nei Crimini e misfatti nei quali Judah (Martin Landau), un medico benestante, organizza l’omicidio dell’amante (Anjelica Huston) dopo che la donna ha minacciato di trasformare la sua vita in un inferno. Dapprima viene assalito dal senso di colpa, poi riesce a dimenticare per poter nuovamente vivere una vita normale, senza il fardello dell’orribile crimine che ha commesso. I riferimenti a due opere seminali di Dostoevskij - “Delitto e castigo” e “I fratelli Karamazov” - sono più che evidenti. Match Point a Londra || Locandina di “Irrational man” 3 di Dragan Rubeša CRIMINI E MISFATTI DELL’UOMOIRRAZIONALE utta la tua vita è nichilismo, cinismo, sarcasmo e orgasmo. In Francia potrei condurre una campagna politica e vincere le elezioni con questo slogan“, dice il protagonista del film di Allen, Decostructing Harry. Oppure, come puntualizza un altro suo protagonista, “la commedia non è altro che tragedia più il tempo”. In queste due frasi è concentrato praticamente tutto l’opus del grande Woody Allen. Anche se i suoi primi film, come Take the Money and Run, Bananas e Sleeper, nei quali lo “schlemiel” - una figura quintessenzialmente comica nella genesi dell’umorismo “yiddish”, è adattato all’estetica “slapstick” -, sono il meglio che ci ha dato questo opus, dopo le commedie dolceamare quali Annie Hall e Manhattan si è orientato verso lavori di stampo bergmaniano che culmineranno con il film Interiors. martedì, 29 dicembre 2015 Questi sono riproposti anche in uno dei film più recenti di Allen, Match Point, in cui, proprio come in Crimini e misfatti, il protagonista uccide l’amante. Però, a differenza di Judah, Chris (il protagonista di Match Point) non soffre di rimorsi, anche se nella pellicola troviamo lo spirito e lo stile di Patricia Highsmith. In quell’occasione, Allen ha sostituito Manhattan con Londra, il punto di partenza della sua tournèe europea che ha toccato Parigi, Barcellona e Roma. Dal momento che la giustizia cosmica non esiste, c’è poca speranza che ci sia giustizia alcuna. L’universo non è morale, ma indifferente. “Nella vita reale razionalizziamo, neghiamo o non siamo più capaci di vivere”. Con queste parole, l’oftalmologo Judah cerca di giustificare il suo crimine. La scelta morale consiste essenzialmente nella questione se la colpa sia più grave nell’ottica del protagonista oppure in quella del mondo che lo circonda. Allen elabora questo dilemma in un miscuglio perspicace di commedia di carattere, di parabola e di film giallo. Nell’ultimo film di Allen Joaquin Phoenix interpreta un professore di filosofia che perde il senso del mondo che continua ad alienarlo. Ma chi è effettivamente questo “uomo irrazionale” che troviamo nel titolo del film? Secondo Allen, egli è ancora una variazione su Dostoevskij e Raskolnikov, i quali lo perseguitano fin dagli anni Settanta, periodo in cui nel film Amore e morte, nel ruolo di un “codardo militante”, competeva con il famoso scrittore russo su chi fosse più misantropo. “Mi piacciono gli scrittori russi, particolarmente Dostoevskij, lui capiva tutto”, dice Phoenix. L’omicidio come siero di vita Si tratta, quindi, di un uomo che cerca di sabotare l’approccio filosofico razionale e in quest’ambito le citazioni di Allen vanno da Kant e Kierkegaard a Husserl e Hannah Arendt. L’assassinio di un uomo ingiusto è tutto ciò che serve al regista per riattivare il meccanismo hitchcockiano McGuffin (L’altro uomo è soltanto uno dei numerosi nessi) – un espediente narrativo attraverso il quale si fornisce dinamicità a una trama (ndr). Ma qui non si tratta di uno scambio di omicidi, ma di un assassinio senza motivo il cui scopo è quello di rendere le indagini più difficili per la polizia. L’omicidio di un giudice corrotto nella speranza che con la sua morte il mondo diverrà un posto “un po’ migliore”. L’omicidio come una terapia che dovrebbe curare il professore dall’impotenza e che gli permetterebbe di vivere la vita fino in fondo. Ossessionato da Dostoevskij, egli commetterà un crimine per gustare nuovamente la vita. Come in Misterioso omicidio a Manhattan e Scoop, l’omicidio diviene un siero di vita. Emma Stone, musa e alter-ego di Allen Il personaggio della studentessa (interpretata da Emma Stone, la stessa che nell’ultima scena di Magia al chiaro di luna ritrova il suo illusionista) riprende nuovamente il ruolo di musa e alter-ego di Woody Allen. In lei c’è molto più Allen che in Abe, il cui “conservatorismo in stile liberale” è a prima vista molto più vicino al suo abito mentale. Il suo compagno è un professore alcolizzato e depresso che giunge occasionalmente nella cittadina costiera in cui vive la ragazza. Il film si basa su una doppia narrazione – da un lato c’è la voce narrante della studentessa, dall’altro quella del professore. In tal modo, l’opera di Allen diventa una sorta di idra a due teste. || Joaquin Phoenix ed Emma Stone Una commedia poliziesca e un dramma metafisico. La commedia è in effetti antiromantica in quanto Stone e Phoenix sono ritratti come una coppia impossibile. Emma Stone è quindi una tipica eroina alleniana, al contempo innocente e metodica, ma fantasiosa fino al delirio. Le indagini sono per lei fonte di agitazione, ma anche di competizione, e fondono l’etica e la strategia. Sta proprio qui la bellezza del suo personaggio, anche se la nostra simpatia sta dalla parte della pazza Parker Posey nel cammeo di una professoressa afflitta dalla solitudine che chiede al suo amante occasionale, Abe, di salvarla dal matrimonio infelice. Una carriera che non tramonta Che cosa resta infine della cinematografia di Woody Allen? Forse una risposta la può dare il professore Phoenix in quell’eccellente dialogo a cena con la studentessa in cui cerca di trattenerla dall’innamorarsi di lui. “Perché?”, chiede lei. “Perché tu sei più buona di me”, risponde lui regalandole un vecchio libro di poesie. Allen ha ancora la forza di trovare la sua “musa” e regalarle un film, “le ‘stardust memories’ emotive come l’unica risposta possibile alla crisi umana e professionale del suo protagonista”, come rileva il critico del cinema Piero Masciullo. Questo film pone una virgola sulla carriera dell’autore. Quel famoso “treno notturno” di Truffaut che veniva citato tempo fa nell’opus di Woody Allen. Il regista americano ha compiuto 80 anni, ma continua a lavorare instancabilmente. Ogni anno un film. Un nuovo “progetto senza titolo di Woody Allen” è annunciato per il 2016, con Kristen Stewart e Jesse Eisenberg, più una serie televisiva, anche questa ancora senza titolo. L’infaticabile macchina commediografica di Allen non ha nessuna intenzione di fermarsi. Mai un punto, soltanto una virgola. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 29 dicembre 2015 INTERVISTA di Sandro Damiani L’OPERACINEMATOGRAFICAÈUNRICOM DACAPOCONL’ENTUSIASMODELL’ESOR A COLLOQUIO CON IL RINOMATO REGISTA VELJKO BULAJIĆ, AUTORE DI NUMEROSI FILM DI SUCCESSO, ATTUALMENTE IMPEGNATO NELLA PREPARAZIONE DI UN NUOVO PROGETTO, AMBIENTATO IN ISTRIA È stata presentata recentemente la voluminosa monografia “Vlak bez voznog reda” dedicata al regista, montenegrino di nascita ma croato di adozione, Veljko Bulajić, classe 1928, il decano della cinematografia dell’area ex jugoslava. Il titolo del libro è quello del film d’esordio del Cineasta, appunto Il treno senza orario, uscito nel 1959 e che a tal punto piacque agli organizzatori del Festival di Cannes da ammetterlo in concorso, insieme a opere di mestri e maestri in pectore, quali Bunuel, Soldati, Zoltan Fabri, i francesi Camus, Resnais e Truffaut... Il film non ottenne nessun ulteriore premio – essere alla rassegna già di per sé lo costituiva - ma grazie a Cannes e alla positiva accoglienza della critica internazionale, gli permetterà una diffusione sino a quel momento inimmaginabile per qualsiasi pellicola jugoslava e dell’Est europeo: Il treno... infatti sarà acquistato da oltre sessanta Paesi di tutto il mondo. “Nacque una stella”, si potrebbe dire. Chissà, forse qualcuno lo disse pure. Bulajić, che allora aveva trent’anni, al momento può vantare un’esperienza abbastanza singolare per un regista di un “Paese socialista”, ovvero un robusto tirocinio a Cinecittà, dove ha modo di vedere all’opera fior fiore di registi italiani. Conosce Cesare Zavattini, collabora con Luigi Zampa; e si fa valere come assistente sul set di La strada lunga un anno, girato in Jugoslavia, da Giuseppe De Santis: questo film nel 1958 sarà candidato all’Oscar per la miglior pellicola straniera (o meglio, in lingua non inglese). Quando, in quel medesimo ‘58 gli viene data l’occasione di girare il primo lungometraggio, ma senza “paracadute” ossia con una équipe di esordienti, al pari di lui, egli è tutto preso dalla cultura cinematografica appena introiettata e fatta di Neorealismo... Uno studio tappezzato di manifesti || Locandina della “Battaglia della Neretva” || Locandina della “Kozara” Mi trovo a casa del Regista, a Zagabria. Lo studio - uno spazio comodo per due, massimo tre persone - è tappezzato di manifesti dei suoi film; fa bella mostra quello firmato da Pablo Picasso per La Battaglia della Neretva. Libri in ogni dove: a occhio si capisce che non è un disordine artificioso, del tipo “facciamo finta che...”, ma quello di chi in continuazione sfoglia, legge, cerca. Qua e là medaglie, placche, un Leone della Mostra che fa da sponda a una pila di riviste, diplomi. Adocchio un vecchio numero di “Cinemasessanta”. Neanche a farlo apposta, poco più in là c’è pure “Cinema Nuovo”, fondata nei primi Cinquanta da Guido Aristarco. Ricordo al mio interlocutore che l’Aristarco, Ugo Casiraghi e Camillo Marino, tre (come si sarebbe detto in altri tempi) “benemeriti” rispetto al cinema italiano, per anni collaborarono a “Panorama” di Fiume. “Lo so – mi risponde con un sorriso che disvela un’immagine, un ricordo balenato in quel preciso momento con Casiraghi ci vedevamo oltre che ai festival, pure a Crikvenica, dove veniva in vacanza. Una volta c’era pure tuo padre” (Alessandro Damiani, ndr). In proposito, si trattò del loro primo incontro, seconda metà dei Sessanta. E quando Bulajić girerà in Bosnia La Battaglia della Neretva, chiamerà del Dramma Italiano, oltre a Nereo Scaglia, Raniero Brumini, Glauco Verdirosi e Bruno Petrali anche il Damiani. Ma gli ultimi quattro, se non ricordo male, non arriveranno a Sarajevo. Mentre Scaglia aveva già girato le sue scene gli altri si apprestavano a farlo: la mattina all’alba di non ricordo che giorno mese anno (probabilmente 1967 o ‘68) montano in macchina, guida Petrali, non fanno in tempo ad arrivare a Delnice che un matto su un Moskvić dalla parte opposta gli monta addosso, li capotta... A Fiume ci arriva la notizia, Diego Brumini ed io veniamo informati a scuola, al Liceo. Spavento. Mia madre, tira moccoli da uccidere un santo. Ma non è niente di grave: Brumini si è fratturato un polso in due punti, Glauco Verdirosi s’è ferito a un piede, mio padre s’è procurato una decina di punti tra bocca e mento e Bruno Petrali – ricorderanno divertiti (dopo!) i tre disgraziati presenti “saltava come un ragazzino: Non me go fato niente, non me go fato niente!”. Un Premio alla Carriera Da quando ci siamo dati appuntamento per questo incontro, che ha per scopo anche un’intervista per “La Voce”, mi chiedo come iniziare non tanto il pezzo che ne scaturirà, ma la parte ufficiale della conversazione. Non ci vedevamo da un anno. L’ultima volta era all’indomani del suo rientro da Roma, dove il Festival del Cinema Mediterraneo gli aveva conferito un Premio alla Carriera. Nel corso della serata era venuto a trovarlo Franco Nero e gli organizzatori avevano proiettato le edizioni italiane de La Battaglia... e Libertas. Sfoglio la monografia, ottimamente confezionata: centinaia di pagine, foto a sfare, articoli in una decina di lingue. Mi soffermo su L’uomo da uccidere del 1979, uno dei film minori di Bulajić, ma al pari di quasi tutti gli altri, premiato al Festival di Pola e, in ambito internazionale, a una rassegna catalana a Bercellona nella neonata Spagna democratica. Fu grazie a questo film che avvicinai Bulajić la prima volta. Si era a Roma. Avevo saputo che in una saletta di Cinecittà si proiettava la pellicola per un pubblico di “eletti”. Tra costoro c’era Gian Luigi Rondi, sincero estimatore del Nostro. Avrei ricordato la serata per “Panorama” con un’intervista. Il treno senza orario L’incipit dell’odierna conversazione, però, mi viene dato dal titolo della monografia... Ah, noticina per i lettori: non amo la convenzione della “correttezza formale”, del “lei” nelle interviste tra persone che altrimenti si danno del “tu”. Con Veljko, inoltre, la frequentazione è stata sempre affettuosa. Dopo la summenzionata serata romana, pochi mesi dopo, in estate, ci furono incontri quasi quotidiani a Pola, quando mi ci avevano catapultato, per seguire il Festival, sia Tele-Capodistria che “La Voce” e il “Primorski Dnevnik” triestino. Dopo pochi anni ci ritrovammo a Firenze, lui ovviamente da cineasta, io da coorganizzatore di una manifestazione di un certo peso: “Il Segno d’Argento”, convegno cinematografico con l’assegnazione dell’omonimo premio da parte dell’Istituto di Scienze Cinematografiche diretto da Fabrizio Guarducci e presieduto (“Honour chairmen”) da Bernardo Bertolucci, Martin Scorsese e Tinto Brass. Infine, una decina di incontri giornalieri durante le riprese di “Libertas”, in Istria. Penso più per amicizia che altro, aveva visto in me(?) il contadino toscano che accoglie Marino (Držić) e la sua compagna, in fuga (Sven Medvešek e Sandra Ceccarelli) da Firenze a Venezia inseguite dai bravi degli oligarchi di Ragusa. Mi si permetta una dolorosa digressione: la mia di compagna, in quelle sequenze era la cara Andreja Blagojević. Partiamo, è proprio il caso di dirlo, dal “Treno...”. Come t’è nata l’idea? “Negli anni immediatamente precedenti, avevo girato dei ‘corti’, incentrati su vicende squisitamente umane: la vita nel dopoguerra, i problemi quotidiani della gente dei campi, di mare, ecc. Convinto sin da quei tempi (lo sono tutt’ora) che i grandi film si possono fare unicamente su grandi temi della vita, quotidiani o collettivi che siano, mi ricordai di mia madre che un giorno alla stazione di Sarajevo, dove vivevamo, vide vagoni e vagoni strapieni di gente, intere famiglie, alcune con animali al seguito, provenienti dall’entroterra dalmata, dall’Erzegovina, che andavano... nemmeno loro lo sapevano dove. Alcuni cantavano, altri piangevano, chiedendosi cosa fosse, dove fosse la Slavonia, il Banato... Andavano, o meglio venivano mandati al nord a colonizzare la Slavonia e la Vojvodina, ove i fertilissimi campi erano rimasti senza che nessuno potesse fruttarli per il bene comune e perdippiù in un periodo di fame e carestie senza precedenti. Oltre tutto, lasciavano terre aride, avare, miseria incalcolabile. Avendo di mio una qual sensibilità verso quelle genti e avendo appreso qualcosa dalla “lezione neorealista” non mi fu difficile, pur lavorando con una équipe, come me di esordienti, di evocare questo dramma, quest’epopea con un’equilibrata dose di pathos e con un occhio critico, quanto me lo poteva permettere, prima che il regime, la mia stessa formazione”. La tua formazione... intendi quella di persona, di essere umano... “Certo. I miei ed io siamo montenegrini. L’onore, l’ogoglio, l’onestà... non sono aria fritta per noi. Vivevamo a Sarajevo, io avevo sei anni (1934, nda) quando in occasione di una celebrazione del “sacrificio” di Gavrilo Princip mio padre, a nome dell’associazione degli insegnanti della città, disse che se il Princip fosse resuscitato e avesse visto in che condizioni si viveva nel Regno di Jugoslavia, sarebbe ritornato tra i morti. Applausi dei presenti... e due giorni dopo mio padre finisce in galera. Secondo aspetto della mia formazione: come la maggior parte dei coetanei, da ragazzino vivevo e giocavo in strada. Nel giro di cento metri quadrati avevamo la chiesa cattolica e quella ortodossa, la sinagoga e la moschea, inoltre né lo si sapeva né la cosa importava, tra di noi, l’appartenenza etnica, nazionale, religiosa e le relative, tante!, festività le passavamo girando per le case e mangiando i cibi tradzionali e i dolci... Terzo aspetto della mia formazione. Ho appena tredici anni quando Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria invadono la Jugoslavia e neanche quindici quando mi aggrego ad una formazione partigiana. Ho da aggiungere altro?” Da qui, anche da qui, l’amore per i film con argomento principale la guerra? “Beh, essere cresciuto con la guerra e con le sue conseguenze, come minimo ti fa pensare, ti rende particolarmente sensibile al tema, ti porta a volerne parlare per farlo conoscere, scongiurare. Non per vantarmi, la Voce spettacoli del popolo martedì, 29 dicembre 2015 5 MINCIARE ORDIENTE ma sono tra i pochi cineasti che, trattando questioni relative a fatti di guerra, ha sempre perlomeno tentato di mettere in luce il meglio che essa nonostante tutto riesce, per contrasto, a scatenare: la solidarietà, l’attaccamento alla vita, il recupero di valori che appunto la follia e i massacri portano all’annullamento”. Già nel tuo terzo lungometraggio infatti – parlo di ‘Kozara’ - protagonista non è tanto la guerra in sé, i suoi eroi, quanto chi la subisce, il popolo... “Esatto, ma su questa falsariga si muove anche La Guerra (Rat), che lo precede. Diciamo che il film, con l’ottimismo un po’ ludico di Cesare Zavattini, che ne fu lo sceneggiatore, ingenuamente scongiura il conflitto nucleare, di cui al tempo si parlava con timore, quasi fosse predestinato”. Con i tuoi primi tre film, due dei quali cosceneggiati da cineasti italiani (il citato Zavattini ed Elio Petri) sei di casa a Cannes e a Venezia. Ad un certo momento invece di pigiare sull’acceleratore, fare cioé un ulteriore film da festival internazionale, da mercato mondiale, fai un passo indietro. È il 1963, Skopje, la capitale macedone, viene distrutta da un potentissimo terremoto... Bulajić “ricorda” di essere stato un buon documentarista. “Prendemmo immediatamente atto delle proporzioni della tragedia, di cosa e quanto avrebbe avuto bisogno la città, la Macedonia, il Paese per tornare alla normalità. E ciò era possibile solo con un forte contributo internazionale. In men che non si dica predisponemmo un’agenda di lavoro. Forte del nome guadagnatomi, ottenni tutto ciò che chiesi in tema di mezzi e uomini. Tre giorni dopo il sisma, con la città letteralmente fumante cominciamo a girare. Tra riprese e montaggio se ne andrà quasi un anno di lavoro. Alla fine la pellicola va a Venezia e a Cannes. Arrivano numerosi premi, compreso uno dell’UNESCO. Skopje è sulla bocca di tutto il mondo, oltre i doverosi due, tre giorni del dopo sisma. Cominciano anche ad arrivare ingentissimi aiuti”. Dai drammi veri crudi reali passi ovvero torni a quelli cinematografici. Nel 1966 abbiamo “Lo sguardo nella pupilla del sole” (Pogled u zjenicu sunca). Ancora guerra, protagonisti questa volta sono i singoli, non un popolo, non “la gente”. Singoli, ma non “eroi”. “A parte il fatto che personalmente sono legato a tutti i miei film, devo dire che La pupilla... è stato di capitale importanza per convincermi ad affrontare il tema legato alla pellicola che poi mi segnerà per il resto della carriera, cioè La Battaglia della Neretva. Mi spiego. Ne La pupilla... in primo piano abbiamo il dramma di quattro combattenti colpiti dal tifo... ma cosa succede quando invece di quattro sono a migliaia, in piena guerra, i feriti malati invalidi infermi mutilati... Al centro della cosiddetta “quarta offensiva tedesca” è appunto la folle idea di un capo partigiano che al rischio di perdere definitivamente la guerra contro il nemico – in campo accanto ai tedeschi c’erano gli italiani, i cetnici e gli ustascia – vuole assolutamente portare in salvo qualche migliaio di feriti e malati, perché lasciarli sul campo significherebbe condannarli a sicura morte, dato che il nemico non era un semplice esercito avverso, ma un insieme di criminali uno peggio dell’altro”. E arriviamo finalmente a ciò che ad ogni comune mortale nato in questi loci in tempi bui, interessa: come te la sei vista con Tito, visto che era lui il capo partigiano matto che vuole salvare capra e cavoli? D’altronde, come non sentire il parere, quando si parla di vicende in cui è storicamente coinvolto, il PadrePadrone? “Come immaginavo, il papa è papa, non... papista. Mentre tutti – colleghi politici amici, per non dire dei consiglieri di Tito – mi dicevano che era una sciocchezza fare un film in cui il vero protagonista della vicenda ne è assente, non lo si vede mai in campo, e poi – figuriamoci! – senza di lui, che è un patito di cinema, ecc., ecc. Ebbene, proprio Josip Broz Tito in persona a quattrocchi, una volta che gli spiegai il perché della mia scelta, mi disse di andare per la mia strada - ‘e non ascolti i miei consiglieri!’”. creazione (collettiva, d’accordo) che ha una gestazione molto lunga, a volte anni di lavoro, tra preparazione produzione e postproduzione; e non è finita, spesso l’opera va poi accompagnata nella sua promozione... Il nostro lavoro è sempre un ricomiciare da capo, con alla base un forte entusiasmo, oserei dire da ragazzini, da esordienti. Insomma, tutto ciò di cui mi sono occupato nel Treno..., nella Neretva, nel Grande trasporto (premiato a Firenze, nda), di tutto ciò mi sono poi ri-occupato in Libertas ed ora, ma sono appena agli inizi, del prossimo film che entro il 2016 girerò”. Cosa lo aveva convinto? A quasi dieci anni da “Libertas”... torni in Istria. “Non me lo disse, ma penso due cose fondamentali. La prima. Tutti avrebbero visto nel film un’opera oleografica, un ulteriore strumento di propaganda politica e di innalzamento del culto della personalità. E tutti, compresi coloro che la storia della ‘quarta offensiva’ la conoscevano, ne avrebbero messo in forse la veridicità. Penso che ciò gli avrebbe fatto molto male. Tito non rischiò la pelle, né in quella né in altre occasioni, per ‘passare alla Storia’, ma perché credeva in ciò che stava facendo. Se poi oggi, specie in quest’area, che lui ha preservato dalla guerra fratricida per quarantacinque anni, c’è chi pensa il contrario, beh, non posso che compatirli”. Alla Storia, invece è “passato” il tuo film: un istituto britannico (o americano?) lo ha inserito nei dieci migliori film di guerra di tutti i tempi. Non c’è pellicola jugoslava, né tanto meno croata che abbia ottenuto un successo delle dimensioni della “Neretva”: centinaia di milioni di spettatori, migliaia di articoli, critiche, saggi. Che dire poi della presenza di tante riconosciute star, anche solo per poche inquadrature: Orson Welles, Yul Brynner, Sergej Bondarchuk, Curd Jürgens, Oleg Vidov, Sylva Koscina, Franco Nero, Hardy Kruger, Anthony Dawson nonché tutto il gotha attorale jugoslavo, fatti salvi (perché altrove impegnati) Bekim Fehmiu e Ljuba Tadić... Che effetto ti fa? “Mi inorgoglisce. Ma, bada, è un sentimento che nel mondo cinematografico abbiamo tutti. Non esiste una ‘stanchezza’ un’‘abitudine’ al premio, al riconoscimento, ecc. L’opera cinematografica, pensaci bene, è una “Sì, ma mentre allora il paesaggio istriano rievocava le campagne toscane, questa volta l’azione si svolge proprio in Istria”. Inutile chiederti i particolari. È tua abitudine parlarne quantomeno durante la lavorazione, non prima, ma qualcosa mi potresti pur anticipare. Non lo dico a nessuno. Non lo giuro! “Appunto.... Allora. Reggiti forte. È una storia d’amore, di ricordi, ricordi brutti – la guerra – e belli, un incontro tra un uomo e una donna, giovani entrambi; un incontro ulteriore dell’uomo con un’umanità insperata dentro i vortici della guerra. Quindi, dopo tanti anni, il ritorno in quelle terre del dramma e del giovanile e occasionale amore. Una riflessione sulla vita”. Una rapsodia crepuscolare? “Sarebbe ridicolo, al crepuscolo, parlare di aurore”... Sono le nove di sera. Ci lasciamo con un “a rivederci sul set”: peraltro, pare che tornerò a vestire i panni del contadino, questa volta istriano e magari armato di fucile (spero “contro l’invasor”). Zagabria è avvolta nella caciara prenatalizia, orgogliosa del titolo di “destinazione prediletta per le festività decembrine”. La cosa mi fa sorridere... avendo vissuto inverni interi tra Roma e Firenze, la capitale croata mi pare solo un po’ più illuminata del solito e molto più scopertamente consumistica. Altro che Santo Natale... 6 spettacoli martedì, 29 dicembre 2015 MUSICA la Voce del popolo a cura di Ivana Precetti Q uello di Fine Anno è sempre un periodo di riflessione, su noi stessi e sul nostro operato, un periodo in cui si tirano le somme e ci si prepara per affrontare al meglio ciò che ci prospetta il futuro. Se, poi, lo si fa ascoltando un buon disco, i pensieri scorrono più facilmente e risultano anche più belli. Perché la musica ha questo magico dono: farti sentire meglio in ogni momento della tua vita, anche quando le cose non sembrano andare per il verso giusto. Ma già che ci siamo, in tema di musica avete mai tentato di stilare una vostra classifica di quelli che potrebbero essere gli album più belli di sempre? La storica rivista statunitense “Rolling Stone” – ampiamente considerata la principale forza promozionale per la musica nella cultura americana, assieme a MTV – lo ha fatto compilando una lista dei 500 dischi migliori di tutti i tempi. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band Noi ci limiteremo ai primi dieci iniziando dal primo posto che spetta a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles. Si tratta dell’ottavo album della discografia ufficiale dei Fab Four. Messo in commercio il 1° giugno 1967, è fra i più famosi della storia del rock e uno dei primi concept album della musica rock. Secondo una stima delle vendite dei dischi musicali riportata dalla stampa, “Sgt. Pepper“ ha totalizzato più di 32 milioni di copie vendute. Vinse un Grammy Award nel 1967 come miglior album dell’anno. Wikipedia scrive che “già pochi anni dopo l’uscita del disco, il critico letterario Guy Aston, dopo aver affermato che grazie a tale album ‘i Beatles sono riusciti a fare della musica pop qualcosa che si ascolta seriamente, e che si potrebbe trattare come qualsiasi altro tipo di espressione artistica’, osserva che ‘l’influenza di Sergeant Pepper sul pop è stata enorme’, in quanto questo disco avrebbe dato ispirazione a tutta una serie di album di altri musicisti, che ambiscono a proporsi come ‘discorsi definitivi sulla condizione umana’. ‘I Beatles erano sempre stati l’espressione di un mondo di adolescenti: qui essi assumono volontariamente il ruolo che in un primo tempo era stato loro imposto dalla stampa, quello di capi spirituali. Sergeant Pepper è per molti aspetti un disco didattico per il pubblico; i Beatles hanno scoperto la ‘liberazione spirituale’ e vogliono estenderla al mondo. Nelle canzoni che compongono l’album, i Beatles cercherebbero di insegnare una via per ‘migliorare la vita’ e ‘diminuire la solitudine attraverso vari atti di liberazione psicologica, imparando ad avere visioni, ad amare’”. TRA I PRIMI DIECI DISCHI NELLA CLASSIFICA DELLA RIVISTA «ROLL GLIALBUMPIùBELLI LACORONASPETTA Pet Sounds Il secondo posto della classifica di “Rolling Stone” è occupato da “Pet Sounds” dei Beach Boys. È l’undicesimo album in studio del gruppo statunitense, pubblicato nel 1966 dalla Capitol Records. Unanimemente riconosciuto come uno degli album più influenti della storia della musica pop, è spesso stato posto alla prima posizione in numerose classifiche di album migliori di tutti i tempi – scrive Wikipedia –, come in quella del Times e del New Musical Express. L’album, che include brani celebri come Wouldn’t It Be Nice e God Only Knows, è considerato essenzialmente un lavoro solista di Brian Wilson più che un album vero e proprio dei Beach Boys, e fu creato nel periodo in cui Wilson smise di andare in tour con il gruppo per focalizzare la sua attenzione sulla scrittura e la registrazione dei brani. In “Pet Sounds“ Wilson arriva a una musica molto più matura e lontanissima dal sound originario, grazie anche alla sperimentazione di strumenti insoliti come campanelli di biciclette, clavicembali, flauti, il Theremin e l’abbaiare dei cani (tra cui Banana, quello di Wilson). Anche la complessità delle già intricate armonie vocali riceve un’ulteriore spinta in avanti con l’impiego di elaborate stratificazioni sonore a formare una sorta di “sinfonia pop barocca”. Revolver Al terzo posto c’è invece “Revolver“, il settimo album della discografia ufficiale dei Beatles; venne messo in commercio nel Regno Unito il 5 agosto 1966. In esso si ritrovano, per la prima volta nella discografia del gruppo di Liverpool, elementi del rock psichedelico. “Revolver“ nasce dall’intreccio di questi filoni e la traccia finale, Tomorrow Never Knows, ne è la sintesi più eloquente. Come ebbe a dire il tecnico di studio Geoff Emerick – che giocò una parte rilevante nelle sonorità dell’album –, “Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile“. Il lavoro costituisce anche il punto di equilibrio nelle dinamiche del duo Lennon e McCartney. Se il primo aveva fino ad allora rappresentato l’elemento più autorevole, e perciò a lui era riservata la linea vocale della traccia di apertura e quella di chiusura nella maggioranza degli album precedenti, dopo “Revolver“ Paul avrebbe giocato un ruolo primario nella restante parte della carriera dei Beatles, e non solo dal punto di vista musicale. Highway 61 Revisited Segue, al quarto posto, “Highway 61 Revisited” di Bob Dylan, pubblicato nell’agosto del 1965. Cuore della cosiddetta “trilogia elettrica” (iniziata con Bringing It All Back Home e proseguita con Blonde On Blonde), è universalmente considerato uno dei migliori lavori di Dylan, nonché una fondamentale pietra miliare della musica contemporanea. “Highway 61 Revisited“ fu inciso in soli sei giorni. La Highway 61 è una strada americana che va dal Minnesota (Stato di nascita di Dylan) fino alla foce del fiume Mississippi. L’album fu decisamente rivoluzionario, soprattutto per i testi, ma anche per Dylan stesso: segnò finalmente il definitivo passaggio del cantautore alla chitarra elettrica. La canzone di apertura dell’album, Like a Rolling Stone (che alcuni ipotizzano scritta pensando a Edie Sedgwick, musa di Andy Warhol e amica di Dylan), ha riscosso un enorme successo ed è diventata un inno generazionale. Rubber Soul La rivista “Rolling Stone“ ha piazzato al quinto posto un altro disco dei Beatles, “Rubber Soul” uscito nell’autunno del 1965. È un album pubblicato quando il gruppo di Liverpool era al culmine della popolarità. È il primo disco dei Beatles a non riportare il nome del gruppo sulla copertina. Nella discografia dei Fab Four, “Rubber Soul“ è considerato uno degli album più curati sul piano tecnico e uno dei più innovativi dal punto di vista musicale, e c’è chi vi ravvisa il raggiungimento della maturità artistica del gruppo inglese. Ritenuto l’anello di raccordo fra la musica ancora legata a quella degli esordi di “Help!“ e lo sperimentalismo di “Revolver“, “Rubber Soul“ rappresenta indiscutibilmente un salto di qualità nella produzione beatlesiana per la maggiore ricchezza e pienezza del suono ma anche perché i quattro Beatles cominciavano in quel periodo ad acquisire maggiore consapevolezza e coinvolgimento delle fasi tecniche di registrazione e di missaggio. L’album fu registrato in sole quattro settimane, al termine di un tour negli Stati Uniti apertosi il 15 agosto di quell’anno con la storica esibizione allo Shea Stadium di New York. A soli quattro mesi dall’uscita di “Help!“ fu pubblicato nel Regno Unito, in tempo per le festività natalizie, il 3 dicembre, contemporaneamente al singolo We Can Work It Out/Day Tripper, facendo ottenere così al gruppo, per il terzo anno consecutivo, il primo posto nella classifica delle vendite natalizie di dischi sia a 33 che a 45 giri. Paul contribuì a rendere il suono più pieno e ricco sostituendo in studio di registrazione il fidato Höfner – che avrebbe continuato a utilizzare nelle esibizioni dal vivo – con un basso Rickenbacker appositamente costruito per mancini. Per “Rubber Soul“ – scrive Wikipedia – spettacoli la Voce del popolo martedì, 29 dicembre 2015 7 brani pop come Lost in the Supermarket; altri generi in cui spazia l’album sono il reggae, il rockabilly, il rhythm and blues, il jazz. È considerato, sempre dalla rivista “Rolling Stone“, come il migliore album degli anni Ottanta, pur essendo uscito nel dicembre 1979. Con oltre due milioni di copie vendute nel mondo, l’album è stato certificato disco di platino e disco d’oro negli Stati Uniti, oltre che disco d’oro e d’argento nel Regno Unito, dando una notorietà a livello mondiale al gruppo. Blonde on Blonde “Blonde on Blonde“ di Bob Dylan si è classificato al nono posto dei migliori album di sempre. È il settimo album discografico del celebre cantautore pubblicato nel 1966 dalla Columbia Records. Il disco è ritenuto il primo significativo album doppio della storia del rock, anticipando di un mese “Freak Out!“ di Frank Zappa, e segna il definitivo passaggio dall’era del 45 giri a quella del 33 giri. Viene spesso indicato dalla critica come uno dei più grandi album di tutti i tempi. Conclude la cosiddetta “trilogia elettrica” di Dylan, cominciata con “Bringing It All Back Home“ e proseguita con “Highway 61 Revisited“ (ambedue del 1965). Le sessioni di registrazione ebbero inizio a New York nell’ottobre del 1965, con la partecipazione di numerosi session men, inclusi i membri della backing band di Dylan dal vivo, i “The Hawks“ (più tardi “The Band“). Le sedute continuarono fino al gennaio 1966, ma soltanto una traccia che finì sull’album fu completata, One of Us Must Know (Sooner or Later). Dietro suggerimento del produttore Bob Johnston, Dylan, accompagnato dal tastierista Al Kooper e dal chitarrista Robbie Robertson, si trasferì a Nashville, Tennessee. Queste sessioni, con l’apporto di alcuni musicisti della scena locale, furono maggiormente fruttuose, e nel febbraio-marzo ‘66 si ebbe la registrazione di tutte le rimanenti canzoni dell’album. L’album raggiunse la posizione numero 9 nella classifica statunitense Billboard 200, diventando doppio disco di platino, e la posizione numero 3 in Gran Bretagna. Dall’album furono estratti due singoli di successo: Rainy Day Women #12 & 35 e I Want You. Due canzoni presenti sull’album, Just Like a Woman e Visions of Johanna, sono considerate tra le migliori composizioni di Dylan, e sono state entrambe inserite nella lista delle 500 migliori canzoni di sempre redatta dalla rivista “Rolling Stone“. LING STONE» CE NE SONO BEN QUATTRO DEI FAB FOUR White Album LIDITUTTIITEMPI: AIBEATLES furono utilizzate tecniche di registrazione innovative, poi evolutesi nelle moderne forme di missaggio elettronico e digitale. What’s Going On Il sesto posto della classifica RS è occupato da “What’s Going On“ di Marvin Gaye, pubblicato nel 1971 dall’etichetta discografica Tamla-Motown Records. L’album tratta temi come l’abuso di droga, la povertà e la guerra del Vietnam, e per questo inaugurò un nuovo corso nella musica soul. Viene considerato una sorta di concept album, dato che alcune tracce fanno da introduzione alla successiva. Viene anche catalogato come album Song cycle, perché la traccia finale riprende la traccia iniziale dell’album. I temi trattati sono interpretati dal punto di vista dei veterani della guerra del Vietnam, che fatto ritorno a casa non vedono altro che ingiustizia, sofferenza e odio. Il successo commerciale e critico dell’album fu immediato. Rimase per oltre un anno nella classifica degli album pop di Billboard e le vendite superarono i 2 milioni di copie fino alla fine del 1972, diventando così l’album del cantante con le migliori vendite fino a quel momento. Inoltre “What’s Going On“ ricevette anche i migliori punteggi da varie riviste musicali e non, tra le quali “Time“, “Rolling Stone“ (per il quale diventò Album dell’anno), “The New York Times“ e “Billboard“, che gli attribuì il Billboard Trendsetter Award del 1971. Un sondaggio del 1999 condotto dal giornale inglese “Guardian/Observer“ lo nominò Miglior album del XX secolo. Exile on Main Street Al settimo posto figura “Exile on Main Street“ dei The Rolling Stones, pubblicato nel 1972. Si tratta della decima uscita in Gran Bretagna e la dodicesima negli Stati Uniti della band. Album doppio, uscito il 12 maggio in Inghilterra e il 22 maggio negli USA, “Exile on Main Street“ aveva come titolo provvisorio “Tropical Disease“ (“malattia tropicale”) poi sostituito con quello noto. Raggiunse il numero 1 sia nella classifica inglese, sia in quella statunitense, rimanendovi rispettivamente per una e quattro settimane. Il 23 maggio 2010 la riedizione dell’album ha esordito direttamente alla prima posizione della classifica di vendita inglese. Il titolo dell’album, che in italiano è traducibile come “In esilio sulla strada principale”, allude all’esilio della band dall’Inghilterra a causa di problemi con il fisco con conseguente trasferimento in Francia. Infatti, le registrazioni sono state fatte nella cantina della villa in Francia di Keith Richards. In questo album – scrive Wikipedia – si instaura un duello tra blues e boogie, tra rumore e silenzio, tra armoniche country e chitarre slide in giubilo. La canzone più famosa è probabilmente Tumbling Dice, ma molto note sono pure Rocks Off, Shine a Light, Sweet Virginia, All Down the Line e Happy. Quest’ultima fu incisa da Keith Richards insieme al produttore Jimmy Miller e al sassofonista Bobby Keys mentre aspettava gli altri membri che erano in ritardo in studio. London Calling L’ottavo posto della classifica RS spetta ai The Clash con “London Calling”. È un album doppio uscito nel 1979, con il quale il gruppo si impose negli Stati Uniti. L’album si compone di 19 brani, accreditati a Joe Strummer e Mick Jones, tranne The Guns of Brixton di Paul Simonon, Brand New Cadillac di Vince Taylor e Revolution Rock di Jack Edwards e Danny Ray. Il disco presenta una notevole complessità compositiva e mescolanza dei generi: sebbene non vi siano ravvisabili canzoni classificabili come puro punk, vi sono pezzi ska, come Rudie Can’t Fail, insieme a Concludiamo la lista con “White Album“ (o “The Beatles”) dei Fab Four, al decimo posto della classifica RS. È il nono album ufficiale della storica band inglese. Meglio noto come ”White Album“, per via della copertina totalmente bianca (con il nome del gruppo stampato semplicemente in rilievo), il disco fu pubblicato il 22 novembre del 1968 dalla Apple Records. Verso la fine del maggio 1968, poco prima di iniziare a lavorare al nuovo album, i Beatles si ritrovarono nella casa di George Harrison a Esher, nel Surrey, e con un registratore Ampex a quattro piste incisero i nastri di prova delle loro recenti composizioni, materiale denominato “The Kinfauns Demos“ o “The Esher Session“, di mediocre qualità tecnica però rivelatore della genesi di molti pezzi del prodotto finale. La formazione era reduce dalla trasferta in India e dall’esperienza della meditazione trascendentale nel ritiro di Rishikesh, sotto la guida del guru Maharishi. L’ashram di Rishikesh fu determinante per la crescita compositiva e strumentale dei quattro musicisti: la serenità e il tempo libero, che concedevano loro spazi di creatività e tempi per comporre nuove canzoni, e l’assenza di elettricità che li costrinse a utilizzare le chitarre acustiche, raffinandone le competenze strumentali e imparando da Donovan (altro discepolo del Maharishi) la tecnica del finger-picking – che sarebbe stata usata in più di una traccia dell’album – contribuirono in maniera fondamentale alla realizzazione del disco. Il gruppo tornò dall’India con una trentina di composizioni, molte delle quali finirono nei “Kinfauns Demos“. Il produttore George Martin – scrive Wikipedia – si disse subito contrario a che si realizzasse un album doppio, avanzando con forza l’opinione che la carta vincente sarebbe stata piuttosto un album singolo di alta fattura. I Beatles però erano ormai orientati a incidere un doppio album, e nonostante il parere di Martin scelsero di insistere nel loro progetto iniziale. 8 martedì, 29 dicembre 2015 LA RECENSIONE IL FILM «COLPI DI FULMINE» DI NERI PARENTI È UNA CLASSICA COMMEDIA ROMANTICA A EPISODI L a soluzione migliore per evadere dalla realtà troppo spesso pesante e opprimente e allontanarsi dal flusso incessante di informazioni con le quali il mondo contemporaneo ci sommerge quotidianamente è l’abbandono a risate spensierate. Ma qual è il periodo dell’anno più idoneo? Il mese di dicembre. Le sale cinematografiche italiane propongono ormai da decenni, tradizionalmente nel periodo natalizio, i cosiddetti cinepanettoni, il cui solo intento è far ridere e divertire. I film di carattere prevalentemente comico sono la “condicio sine qua non” nel periodo festivo. Quattro risate e un lieto fine sono la formula vincente. Quest’anno la Comunità degli Italiani di Fiume ha promosso una serie di proiezioni di film italiani per dare il benvenuto alle festività natalizie, proponendo un programma composto da un genere particolare di film: la commedia all’italiana. Al posto dei cine-panettoni qui si riprende una tradizione più seria, meno volgare ma ugualmente divertente: la commedia all’italiana è un genere particolare in cui, nelle situazioni comiche, anche assurde, troviamo sempre una dose di serietà. Infatti, i temi ruotano spesso intorno alla corruzione e non manca un atteggiamento critico verso la società. Il tutto è condito con un umorismo disarmante. la Voce del popolo Anno 1 /n. 06 / martedì, 29 dicembre 2015 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] SPETTACOLI Edizione Caporedattore responsabile f.f. Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Denis Host-Silvani Collaboratori Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Ana Varšava Foto Creative Commons spettacoli la Voce del popolo di Ana Varšava L’AMOREALL’ITALIANA Film selezionati da Mario de Luyk I tre film proposti, selezionati dal noto critico triestino Mario de Luyk e proiettati nel Salone delle Feste del Palazzo Modello, sono opere di celebri registi italiani: Il ragazzo invisibile (2014), di Gabriele Salvatores, Sotto una buona stella (2014), diretto da Carlo Verdone, e Colpi di fulmine (2012), di Neri Parenti, sul quale è incetrato questo testo. Il filone dei cine-panettoni ha le sue origini nel 1983. Molto spesso è caratterizzato da volgarità e da rappresentazioni stereotipiche di italiani in diverse situazioni. Uno degli esponenti di spicco del filone è Neri Parenti, il regista del succitato film Colpi di fulmine. Nel film ci troviamo di fronte a una situazione particolare del momento che il regista evita di utilizzare i motivi caratteristici del genere. La pellicola è invece definita come una “classica commedia romantica a episodi“, nonostante abbia qualche punto in comune con un cine-panettone: la sua première si è svolta nel mese di dicembre del 2012. Il film racconta due storie il cui punto in comune è appunto il colpo di fulmine, ossia il tema dell’amore. “Il Prete” con Christian de Sica Nel primo episodio, intitolato “Il Prete”, Christian de Sica, nei panni dello psichiatra Alberto Benni, si trova in una situazione poco invidiabile: mentre guarda dalla finestra vede arrivare la guardia di finanza giunta per arrestarlo, in quanto ingiustamente accusato di corruzione. Chiama il fratello avvocato Carlo per un consiglio. Egli è innocente, ma il fratello gli suggerisce di fuggire e cambiare identità. Ci penserà dopo a chiarire la situazione. Il dottor Benni si troverà in seguito in una serie di situazioni comiche, a partire dalla scena in cui si traveste da prete. Durante la fuga conosce per caso don Dino; il prete è in viaggio verso un paesino in cui nessuno lo conosce e gli offre un passaggio. Ben presto i due hanno un incidente stradale e il prete vero perde permanentemente la memoria. A Benni non resta altro che approffitare della situazione. Trova, pertanto, un rifugio perfetto nel paese di don Dino. Nei panni di prete Alberto attira numerosi fedeli grazie ai suoi metodi poco ortodossi, soprattutto durante le confessioni che gli riescono molto bene, essendo psichiatra di professione. A piano a piano, le cose si complicano, ma alla fine tutto si risolverà, nonostante si tratti di un episodio in cui non mancano le forzature nella trama. Ci sarà il “colpo di fulmine” tra “il prete” Alberto, un innocente in fuga dalla legge, e il maresciallo dell’Arma, Angela, ma tutto si concluderà con un lieto fine. “Corpo de Furmine” La seconda parte, che porta il titolo “Corpo de Furmine”, si concentra sulla storia d’amore a prima vista tra Adele, una pescivendola popolana con i modi volgari, e un’ambasciatore, Ermete Maria Grilli, un’uomo erudito e poliglotta. Insistendo sull’alto grado di conoscenza della lingua francese, sui modi cortesi e sull’alta cultura egli assume l’autista Ferdinando che dimostra di possedere tutte queste qualità. Tuttavia, il colpo di fulmine porterà l’ambasciatore a trasformarsi in un “romanaccio” dopo che il suo autista accetta di insegnargli i modi “alla romana“, che prima di innamorarsi detestava. All’inizio, il modo di parlare dei due, in un italiano colto, viene scambiato per un’altra lingua dai pescivendoli “romanacci” al mercato. Nel suo tentativo di diventare un vero romano, Ermete si trasforma in maniera tale da mettere addirittura nei guai sé stesso e il suo fedele autista. Impara a parlare il dialetto romano e in occasione di una protesta dei pescivendoli, tra i quali c’è pure la sua adorata Adele, viene costretto a portare una maglietta con la scritta “Ermete Maria Grilli è uno stronzo” davanti all’ambasciata e a protestare contro sé stesso. Si dimostra, però, un uomo coraggioso con un grande cuore, sempre pronto ad aiutare il prossimo. Nell’epilogo ci sarà un rovesciamento dei ruoli in cui Adele, ora nel ruolo di futura moglie dell’ambasciatore, attraverserà dei grandi cambiamenti e fingerà dinanzi alla madre di Ermete di conoscere il francese che studia sotto la supervisione del marito. Così come lui un tempo cercava di adeguarsi a lei. Il matrimonio a Ginevra chiude una storia complessa e ricca di scene comiche. Le interpretazioni degli attori nel secondo episodio sono convicenti il che rende la storia particolarmente intrigante. Speriamo che con questo vi abbiamo spronati a vedere qualche film a lieto fine nel periodo festivo. Buone Feste!