s a p e r e sistono due forme di diabete: il ‘tipo 2’ che insorge nella seconda metà della vita, soprattutto fra persone sovrappeso e progredisce lentamente e il tipo 1 che esordisce generalmente nei primi 20 anni di età e prevede la terapia insulinica fin dal primo momento. Giusto? No, sbagliato. «Oggi si calcola che ben tre persone con diabete su 10 abbiano delle forme di diabete differenti, anche se molto spesso erroneamente classificate come diabete di tipo 1 o di tipo 2», afferma Paolo Pozzilli, docente di Endocrinologia e Malattie metaboliche alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Campus Biomedico di Roma. Non si tratta quindi di ‘curiosità’ o di ‘eccezioni alla regola’, ma di condizioni relativamente frequenti che richiedono un approccio terapeutico specifico. «Il che conferma la necessità di sottoporre a un inquadramento diagnostico specialistico tutte le persone con diabete o, per meglio dire, tutte le persone con iperglicemia», sottolinea Pozzilli che ha firmato molti dei più importanti studi pubblicati nel mondo sulla genetica, sull’immunogenesi e sul percorso diagnostico di queste forme di diabete. «Per la precisione, possiamo dire che è il diabete di tipo 1 a essere eterogeneo perché molte di queste forme definite ‘intermedie’ tra diabete di tipo 1 e tipo 2, sono caratterizzate dalla presenza di un’autoimmunità, vale a dire di anticorpi in grado di attaccare o che stanno attaccando la beta-cellula come se si trattasse di un corpo estraneo», continua Pozzilli. La più frequente fra le forme autoimmuni si chiama LADA (Latent Autoimune Diabetes in Adults) o E Diabete né uno, né due. Il diabete è più eterogeneo di quel che si immagina. Solo sette persone con diabete su 10 hanno un ‘classico’ diabete di tipo 1 o di tipo 2. Il resto sviluppa condizioni differenti che è importante riconoscere e trattare in modo appropriato. NIRAD (Not insulin-requiring diabetes at diagnosis). L’Italia è leader negli studi su questo tipo di diabete: per merito del compianto professor Umberto Di Mario è stato varato lo Studio di riferimento mondiale sull’argomento, ora portato avanti dal Team guidato da Raffaella Buzzetti dell’Università La Sapienza di Roma. «Su 20-25 persone diagnosticate all’inizio con un diabete di tipo 2, una è in realtà un ‘LADA’», ricor- 31 d s a p e r e Molte forme definite ‘intermedie’ tra diabete di tipo 1 e tipo 2, sono caratterizzate dalla presenza di una autoimmunità, vale a dire di anticorpi in grado di attaccare la beta-cellula come se si trattasse di un corpo estraneo. Paolo Pozzilli, docente di Endocrinologia e Malattie metaboliche presso l’Università Campus Biomedico di Roma. d 32 da Pozzilli, direttore della Scuola di Specializzazione e del Dottorato di Ricerca in Endocrinologia del Campus Biomedico. Parliamo quindi di circa 100 mila persone. Il LADA può essere descritto come un diabete di tipo 1 che insorge lentamente e che viene diagnosticato dopo i 25 anni, generalmente fra i 30 e i 50 anni. «In questi pazienti l’esame degli anticorpi diretti contro le cellule che producono insulina mostra i chiari segni di un attacco autoimmune simile a quello che avviene nel diabete di tipo 1. Le betacellule, però, anziché soccombere rapidamente all’attacco come avviene nel classico diabete di tipo 1, mantengono a lungo una secrezione residua di insulina», nota Luigi Laviola docente e ricercatore in Endocrinologia presso l’Università di Bari. All’esordio, che di rado avviene con una situazione di crisi quale la chetoacidosi (tipica del diabete tipo 1 classico), «il medico vede un diabete più precoce ma non dissimile dal classico diabete di tipo 2 ed è indotto a trattarlo in modo molto graduale, il che potrebbe non essere appropriato», ricorda Laviola. «Se il paziente non è visitato di frequente dallo specialista, l’errore di diagnosi porta a maturare molti mesi di scompenso prima che si decida di adeguare la terapia», sottolinea Pozzilli. Come accorgersi che un caso di diabete di tipo 2 è in realtà un LADA? Il 70% delle persone con questa forma di diabete hanno una caratteristica: non sono particolarmente sovrappeso, (hanno un indice di massa corporea fra 23 e 27) e non hanno alterazioni significative della pressione o dei grassi nel sangue. Questo induce spesso il medico a effettuare un esame degli anticorpi; l’uni- co che può distinguere le forme autoimmuni da quelle ‘metaboliche’ di diabete. «Diverso è il discorso per quel 30% di persone che oltre al LADA hanno la sindrome metabolica, sono quindi sovrappeso o obesi e hanno le classiche alterazioni dei parametri pressori e sanguigni», ricorda Pozzilli, «in questo caso il dubbio nasce dal fatto che, pur mettendo in atto i consigli del Team e seguendo la terapia farmacologica, il paziente non riscontra miglioramenti nel profilo glicemico, anzi, ha un graduale peggioramento». È importante fare una diagnosi corretta prima di tutto perché un paziente LADA deve essere seguito da uno specialista con visite, test e screening svolti a intervalli molto più brevi di quel che avviene per il classico paziente con diabete di tipo 2, «la persona con diabete LADA va incontro, in genere, a un deterioramento del compenso metabolico molto più rapido del paziente con diabete tipo 2 ‘classico’, e quindi va seguita con attenzione per prevenire lo sviluppo delle complicanze. Inoltre, alcuni studi suggeriscono che in questi pazienti potrebbe essere utile l’adozione precoce della terapia insulinica, al fine di proteggere le beta-cellule residue e prevenire lo scompenso metabolico», sottolinea Laviola. Diabete doppio. Una forma di diabete che richiede un’attenzione particolare è il cosiddetto ‘diabete doppio’. Si tratta di bambini/adolescenti che associano un diabete di origine autoimmune e un diabete dovuto alle classiche cause metaboliche: sovrappeso e quindi insulinoresistenza. In questi casi la cellula che produce insulina è sot- s a p e r e toposta sia all’attacco degli anticorpi sia all’‘avvelenamento’ dovuto all’alta concentrazione di glucosio e grassi nel sangue. Il paziente, inoltre, associa al diabete altri fattori di rischio come nel diabete di tipo 2, «con un rischio superiore di sviluppare complicanze e una maggiore difficoltà nel riportare sotto controllo l’equilibrio glicemico», conclude Laviola. «Capita sempre più spesso di vedere ragazzi con diabete di tipo 1 sovrappeso e obesi», nota Amedeo Vergerio, responsabile della U.O. di Diabetologia Pediatrica presso l’ospedale di Feltre, «sono situazioni difficili perché il sovrappeso è legato all’insulinoresistenza. L’insulina è meno efficace e bisogna assumerne di più. Ma un eccesso di insulina favorisce l’au- mento di peso: «Si crea in questo caso un circolo vizioso che, se non viene messa in atto un’alimentazione adeguata, crea un fabbisogno ‘eccessivo’ di insulina che supera anche di molto il fabbisogno effettivo». I pediatri hanno anche dei pazienti ‘facili’: «Si tratta in genere di bambini in cui l’esordio è stato rilevato molto precocemente, che hanno ancora una discreta capacità di produrre insulina e che, con uno stretto controllo iniziale della glicemia, possono avere una fase di remissione, la cosiddetta ‘luna di miele’ anche piuttosto lunga che rende il profilo glicemico relativamente stabile e protegge, almeno, nelle fasi iniziali’, dalla variabilità glicemica, oggi considerata importante per le eventuali Amedeo Vergerio, responsabile della Unità operativa di Diabetologia Pediatrica dell’ospedale di Feltre. Diabeti diversi in età pediatrica Amedeo Vergerio, responsabile dell’Unità operativa di Diabetologia Pediatrica presso l’ospedale di Feltre nella sua lunga esperienza clinica ha visto non pochi casi di diabete ‘diversi’ dal classico tipo 1. Anche in età pediatrica, ad esempio, non è raro trovare dei casi di diabete di tipo 2 o di ‘pre-diabete’ in adolescenti sovrappeso, con glicemie appena alterate ma con evidente insulinoresistenza. «Non sono poi così pochi. Nel mio Centro ne seguo 6 contro circa 100 pazienti con dm1», racconta Vergerio, per alcuni di loro è sufficiente un programma di riduzione del peso, per altri, con familiarità al diabete tipo 2, se il tentativo di intervento sull’alimentazione non ha avuto successo, è necessario, in certi casi, intervenire con una terapia farmacologica. Molto rari invece i casi di MODY, «che generalmente in età pediatrica non porta seri scompensi», ricorda Vergerio, «possiamo notare delle glicemie lievemente alterate. Qui è essenziale la collaborazione con i pediatri di famiglia che devono inviare allo specialista i pazienti con glicemia a digiuno deci- samente superiore ai valori normali», spiega Vergerio. A quel punto lo specialista deve capire se si tratta di un diabete tipo 1 in fase precoce o di un MODY: «Posso diagnosticare il MODY con una curva da carico di glucosio, cioè facendo assumere al paziente una determinata quantità di glucosio, misurando la glicemia prima e, a intervalli prestabiliti, nelle due ore successive, perché il profilo di questa curva da carico è molto particolare nei pazienti MODY. Se la curva è positiva, chiedo un esame genetico per stabilire che tipo di MODY è. Nel frattempo propongo ai genitori di controllarsi e far controllare tutti i loro parenti e non di rado rileviamo delle iperglicemie o un diabete vero e proprio», racconta Vergerio. Se non si tratta di MODY, la ‘scelta’ è fra un classico diabete di tipo 1 diagnosticato ‘per tempo’ o, molto raramente, un LADA. «In ogni caso vanno valutati gli anticorpi anti-Gad e anti-Insula», dalla positività della risposta anticorpale, e dalla riserva insulinica, lo specialista può valutare la possibile evoluzione del diabete. 33 d s a p e r e Luigi Laviola, docente e ricercatore in Endocrinologia presso il Policlinico Universitario di Bari. La persona con diabete LADA va incontro, in genere, a un deterioramento del compenso metabolico molto più rapido del paziente con diabete tipo 2 ‘classico’, e quindi va seguita con attenzione per prevenire lo sviluppo delle complicanze. MODUS n° 37 – aprile 2012 Editore: Roche Diagnostics S.p.A. Direttore responsabile: Massimo Balestri Direttore scientifico: Raffaele Marino Segreteria di redazione: Eliana Pezzetti Per abbonamento: numero verde 800-822189 d 34 complicanza croniche, come e forse più, dell’emoglobina glicata. Ovviamente dietro questi ‘pazienti facili’ c’è un fattore genetico: «Sul tratto HLA del codice genetico la variante DR3 e DR4 corrisponde a un diabete autoimmune che porta a una veloce distruzione della beta-cellula, mentre ad altre varianti corrisponde una perdita molto più lenta di massa beta-cellulare», sottolinea Pozzilli; «se in questi anni notiamo in tutto il mondo un aumento di incidenza del diabete di tipo 1, questo aumento è quasi inesistente nella popolazione con la variante ‘classica’ del diabete di tipo 1 mentre è più marcato nella popolazione ‘a basso rischio’. Questo fa pensare che esista una quota di popolazione che il diabete di tipo 1 lo avrebbe sviluppato comunque e una quota che lo sviluppa solo se si determinano certe condizioni che si stanno facendo sempre più frequenti». Quali sono? Chi risponderà con sicurezza a questa domanda potrà candidarsi al premio Nobel. Fin da quando Gianfranco Bottazzo, nei primi anni ’80, scoprì l’origine autoimmune del diabete di tipo 1 e definì un modello in base al quale la malattia nasce dall’incontro fra una predisposizione genetica e una causa ‘esterna’ o ambientale, scienziati di tutto il mondo si prefiggono di scoprire questa causa o una di queste cause. Ogni ipotesi è valida: Inquinamento? Stress? Obesità? Minore esposizione generale a batteri e virus? «Un’ipotesi che sembra avvalorata è l’allattamento con latte di mucca. Lo studio Trigr che valuta su un lungo periodo Direzione e amministrazione: via G.B. Stucchi, 110 20900 Monza (MB) Coordinamento editoriale: In Pagina - MI Foto: Francesca Anichini, Monica Carbosiero, Carlo De Santis, Aniello Malvone, Matteo De Stefano, Nadia Scanziani, Istockphoto, 123rf, Corbis. l’effetto preventivo dell’allattamento al seno, pare stia confermando l’ipotesi di partenza», rivela Pozzilli. MODY. Tornando alle forme di diabete diverse dal tipo 1 e dal tipo 2, il MODY (Maturity onset diabetes of the young) è una condizione rara o meglio una famiglia di 10 condizioni diverse. Quelle meno rare in Italia sono il MODY 2 e il MODY 3, alcune migliaia di casi in tutto. La persona con MODY normalmente non è grassa e sviluppa il diabete, tipicamente prima dei 25 anni, generalmente in seguito a un test fatto per caso. «Il sospetto deve sempre nascere quando si rileva una fortissima familiarità. La persona con MODY, se risale nel suo albero genealogico, troverà per ogni generazione e nucleo familiare almeno un caso di diabete a esordio precoce», sottolinea Luigi Laviola, diabetologo presso il Policlinico Universitario di Bari. Quando il medico rileva una familiarità di questo tipo, indipendentemente dall’entità dello scompenso glicemico, è sempre opportuno un test genetico per verificare il sospetto e classificare la forma di MODY. «Prima di tutto perché la terapia è diversa. Alcune forme sono ben controllate con il corretto stile di vita, altre necessitano della terapia insulinica, magari solo basale, altre invece rispondono meglio alle sulfaniluree», nota Laviola. «Alcune forme hanno una bassa tendenza alle complicanze, altre invece vanno seguite con attenzione», conclude Paolo Pozzilli. d Stampa: MONDADORI PRINTING SPA Registrato presso il tribunale di Milano l’11 aprile 1981, con numero 138 Omaggio di Roche Diagnostics S.p.A. Impegnata per un ambiente migliore, Roche utilizza carta riciclata