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Sede Via Co
onsolare Valerria n.297
Cod.Fisc. e part.iva 02037
7700834
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TITOL
LO MOD
DULO:
“Psicoologia so
ociale”
1
Psicologia sociale
La psicologia sociale comprende tutti gli studi rivolti a chiarire il fenomeno
dell'influenza sociale. Si estende all'indagine dei comportamenti dei diversi
gruppi sociali e degli individui come membri di tali gruppi.
Le ricerche della psicologia sociale forniscono elementi che permettono di
proporre dei termini come massa, gruppo, ruolo, e delle modalità di
comportamento come il conformismo.
I dati fondamentali furono forniti da un ricercatore statunitense nel 1936, e
sono considerati come il debutto della psicologia sociale ad impostazione
scientifica. Lo psicologo in questione è Musafer Sheriff, a lui si devono i primi
lavori sulla comparsa delle norme di gruppo.
Gli psicologi sociali tipicamente spiegano il comportamento umano in termini di
interazione tra stati mentali e situazioni sociali immediate.
Nella famosa formula euristica di Kurt Lewin (1951), il comportamento (C)
viene visto come una funzione (f) dell'interazione tra la persona (P) e
l'ambiente (A), concetto sintetizzato da Lewin con C = f(P,A).
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Le principali teorie
Psicoanalisi
La psicoanalisi, il cui padre fondatore è Sigmund Freud, considera la
comprensione della vita conscia dell'uomo come subordinata alla comprensione
della sua vita psichica inconscia.
Freud fu artefice di un cambiamento di approccio per ciò che riguarda lo studio
dei problemi psicopatologici, i quali passarono da un'idea organica del
problema, a una idea psicologica, per cui scavando al di sotto della soglia di
coscienza sarebbe stato possibile intervenire in modo efficace sui problemi
psichiatrici.
L'introspezionismo
Nel 1878 Wundt aveva fondato il primo laboratorio di psicologia sperimentale,
segnando così la nascita della materia.
L'enfasi venne posta soprattutto sulla struttura della mente, la quale veniva
analizzata nelle sue manifestazioni esterne, nei prodotti collettivi analizzati
comparativamente in diverse condizioni storiche e socioculturali, secondo
un'ottica centrata sulla psicologia della comunità e non sull'individuo.
Anche Durkheim, nei suoi postulati sulla sociologia, pose il mondo sociale come
rappresentazione collettiva non riconducibile alle rappresentazioni individuali.
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Comportamentismo
Negli Stati Uniti dal 1910 si stabilizza il paradigma del comportamentismo sulla
base delle tesi di John Watson e Skinner.
Secondo questo modello, l'individuo è alla nascita una tabula rasa, sulla quale
le influenze ambientali hanno la possibilità di incidere qualsiasi cosa.
Per i comportamentisti, quindi, il comportamento umano non viene più
spiegato facendo riferimento a contenuti mentalistici, bensì viene ricondotto al
risultato di catene causali di stimoli e risposte secondo un modello di
“connessione Stimolo-Risposta” (S-R).
A queste condizioni, la sperimentazione diventa l'unico metodo accettabile per
lo studio della materia.
Il primo meccanismo di condizionamento è quello studiato da Pavlov, ed è
detto il condizionamento classico.
Esso postula che ad uno stimolo neutro, possa seguire una risposta che in
precedenza era elicitata da uno stimolo diverso incondizionato (è il caso del
condizionamento di un cane al suono di una campana quando è il momento di
cibarsi, in questo modo, ogni volta che sentirà la campana produrrà il
comportamento tipico che avrebbe prodotto in presenza del cibo).
Diverso è il condizionamento operante che si basa sul “meccanismo del
rinforzo”. Vengono cioè ripetuti quei comportamenti che vengono premiati da
rinforzi positivi ("stimoli appetitivi") o rinforzi negativi ("cessazione di stimoli
avversivi"), mentre vengono estinti i comportamenti che vengono puniti da
punizioni.
Fu cosi che gli psicologi sociali trovarono nel modello di Gordon Allport (1924)
il loro modello di riferimento.
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Egli
postulò
che
non
esiste
una
psicologia
dei
gruppi
che
non
sia
essenzialmente una psicologia degli individui. Tale ottica (comportamentista)
venne cosi adottata, ad esempio, per spiegare la formazione e il cambiamento
degli atteggiamenti a seguito degli spot televisivi o della persuasione politica.
Negli anni quaranta i lavori di Dollard e di Bandura rivedono le posizioni
originarie dei comportamentisti e ne allargano le prospettive, introducendo
l'idea della mediazione mentale nel processo stimolo-risposta, che diviene cosi
stimolo-organismo-risposta (S-O-R).
Bandura introduce anche il concetto di “imitazione” o “modeling”, secondo cui
l'apprendimento
del
comportamento
avverrebbe
anche
per
semplice
osservazione, una teoria che oggi sembra avvalorata dalla scoperta dei neuroni
specchio.
Psicologia della Gestalt
Sempre negli anni quaranta, viene importata negli Stati Uniti la Psicologia della
Gestalt che apre la strada all'importanza dell'elaborazione percettivo-cognitiva
degli stimoli da parte degli individui.
La teoria della Gestalt pone cioè l'enfasi su fenomeni, cosi come l'individuo li
percepisce e li vive, contribuendo cosi a far abbandonare l'idea della “tabula
rasa” e il paradigma della scuola di Wilhelm Wundt, la quale voleva ricondurre
l'esperienza psicologica a singoli elementi costitutivi.
La mente viene quindi studiata in base alla sua capacità innata di strutturare
attivamente la realtà. La conoscenza non è più ritenuta come semplice risultato
della combinazione passiva dei singoli stimoli, ma si afferma l'idea che il tutto è
più della somma delle parti (legge della formazione NON additiva della totalità
e legge della pregnanza, della buona forma).
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La tendenza a non analizzare le singole unità che costituiscono una
configurazione può peraltro dar conto di quella che viene detta rigidità
percettiva (una volta che si è percepita una figura su uno sfondo, diventa
difficile concepire poi lo stesso complesso di stimoli in modo differente).
Wolfgang Köhler diede evidenza empirica a quanto affermato dalla Gestalt,
dimostrando che il funzionamento della mente di fronte ad un problema è un
processo “produttivo”, che non avviene sulla base di tentativi ed errori, ma
attraverso un preciso atto mentale che porta a cogliere la relazione tra gli
elementi presenti nel campo percettivo si da strutturarlo cognitivamente, da
qui la rigidità mentale a cambiare idea una volta che il problema è stato
inquadrato in una determinata maniera.
Kurt Lewin, allievo di Kohler, trasferì i principi della Gestalt allo studio dei
gruppi ed elaborò una teoria di grande valore: la teoria del campo. Per campo
si intende la totalità dei fatti coesistenti ad un dato momento nella loro
interdipendenza (spazio di vita, ambiente sociale; spazio fisico; spazio di
confine, dove si incontrano il mondo interno e quello esterno).
Questo approccio permette sia di studiare il rapporto tra persona e società, sia
le dinamiche del gruppo sociale. Il gruppo, che è qualcosa di più della somma
dei suoi membri, ha struttura propria, fini peculiari e relazioni con altri gruppi.
In questa definizione di gruppo riecheggia il concetto di “destino comune”.
La teoria del campo rappresentò cosi un vero e proprio cambio di paradigma,
per cui la psicologia sociale non si sarebbe più interessata dell'individuo isolato,
ma dei suoi rapporti con l'ambiente, cosi come veniva percepito dall'individuo
stesso.
Anche la metodologia di ricerca veniva modificata: il ricercatore infatti sarebbe
intervenuto
nell'ambiente
osservato
modificando
il
campo
di
forze
e
osservandone le conseguenze.
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Proprio questa nuova metodologia permise di studiare la leadership nelle sue
accezioni democratiche, autoritarie e lassiste. Ricreando cioè questi tre scenari,
il ricercatore poté osservare i vantaggi del sistema democratico rispetto alle
altre forme di leadership.
Lewin estese le sue ricerche anche su altre questioni politico-amministrative,
giungendo
alla
conclusione
che
il
coinvolgimento
dei
cittadini
alle
problematiche generali portava una loro maggiore collaborazione e quindi
maggior successo, rispetto alla semplice propaganda o coercizione.
L'approccio cognitivista
L'individuo viene considerato come un elaboratore di informazioni che possono
provenire sia dall'interno sia dall'esterno. Noam Chomsky diede inizio ad un
nuovo approccio allo studio del comportamento verbale, il quale pone come
oggetto di studio, i processi mentali sottostanti la capacità di parlare.
Egli individua una serie di regole (regole della trasformazione), che si basano
sull'idea della “grammatica generativa”, secondo cui la capacità di parlare la
propria lingua non deriva dalla semplice imitazione, esisterebbe cioè una
predisposizione
innata
che
ne
consente
l'acquisizione.
Nasce
cosi
la
“Psicolinguistica”.
Miller, Eugene Galanter e Karl Pribram continuano la critica al modello
comportamentista allontanandosi da esso e postulando una nuova unità che
caratterizza il comportamento: il Test-Operate-Test-Exit (T-O-T-E). Esso si rifà
ad una concezione cibernetica, secondo cui il comportamento sarebbe il
risultato di un monitoraggio costante della corrispondenza dell'ambiente alle
condizioni programmate.
Ulric Neisser aggiunse un ulteriore elemento in questo campo, teorizzando che
gli individui trattengano solo una parte limitata degli stimoli e che sono carenti
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di informazioni, pertanto devono utilizzare delle strategie di semplificazione che
vanno dalla rigidità, alla selezione, al raggruppamento in categorie più ampie.
La mente viene cosi vista come dotata di grandi capacità di costruzione
(costruttivismo) secondo la quale alla raccolta di informazioni si accompagna
una vera e propria elaborazione dei dati in entrata.
Viene pertanto superata l'ottica gestalista, e la mente umana viene considerata
alla stregua di un computer, per cui le informazioni in entrata si combinano con
tutti gli altri dati di cui si dispone producendo cosi un output inedito.
Jean Piaget diede inizio ad una nuova fase della ricerca psicologico-sociale. Egli
iniziò a studiare lo sviluppo intellettuale il quale porta il bambino a passare
dall'uso iniziale di riflessi, ad azioni sempre più complesse fino ad arrivare al
pensiero simbolico. L'intelligenza viene vista cioè in termini di adattamento
mentale, il quale ha come fine il mantenimento di un equilibrio progressivo tra
le nuove conoscenze e quelle che già si possiedono attraverso l'uso di schemi
mentali.
Avverrebbe quindi un duplice processo, di assimilazione e accomodamento che
implica una continua riorganizzazione della mente. In altre parole, gli schemi
sono organizzazioni di conoscenze costruiti in maniera dinamica attraverso
diverse metodologie a seconda della maturazione dell'individuo (1 intelligenza
senso-motoria, neonato; 2 periodo pre-operatorio, due anni; 3 periodo delle
operazioni concrete, sei anni; pensiero formale, dai quattordici anni in su).
Gli schemi individuati da Piaget sono alla base di quei comportamenti che
possono risultare sbagliati a seguito di interpretazioni errate basata ad
esempio sugli stereotipi.
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Aggressività e altruismo
L'aggressività e l'altruismo rappresentano il polo positivo e il polo negativo del
comportamento umano.
Entrambe possono essere interpretate in maniera differente in funzione dei
diversi modelli di riferimento; ed entrambe vanno valutate all'interno di un
approccio multi-dimensionale che tenga conto dei fattori che ne “influenzano la
messa in atto”, “le caratteristiche di chi produce l'azione”, “le caratteristiche
del target”, e quelle della “situazione” in cui si manifestano.
La maggior parte degli psicologi definisce aggressività ogni comportamento
teso a fare del male ad un'altra persona, fisicamente o psicologicamente.
L'aggressività ha una base naturale cui però si aggiungono le condizioni sociali,
che possono favorire uno stato di frustrazione e, di conseguenza, di collera.
Spesso l'aggressività è diretta all'agente frustante, ma può anche essere
spostata verso persone od oggetti differenti da esso.
Nella psicologia individuale l'aggressività è interpretata come un'espressione
della "volontà di potenza", diretta al superamento dei sentimenti d'inferiorità.
Sia nell'uomo, sia nell'animale vi è un'aggressività sana che permette loro di
affrontare i pericoli e le difficoltà della vita con coraggio, audacia e iniziativa;
ma nella specie umana essa ha manifestazioni particolari e diverse nell'uomo
(es: colpisce col pugno) e nella donna (es: graffia), che derivano anche dalle
peculiari caratteristiche fisiche dei due sessi.
Negli animali l'atteggiamento aggressivo è legato ad una necessità di
sopravvivenza, mentre nell'uomo subentrano altri elementi che qualificano il
suo comportamento come irresponsabile.
L'aggressività, infine, sia nell'uomo sia nell'animale, è causata dagli impulsi
dell'ipotalamo
e
da
situazioni
esterne
e
può,
inoltre,
trasformarsi
in
atteggiamenti d'odio o d'amore.
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Gli psicologi individuano anche un'aggressività ostile, definita come l'insieme di
atteggiamenti accompagnati da collera o da qualche altra emozione negativa.
Essa può essere causata da motivi psicologici, fisici, familiari e sociali. Tra le
cause di ordine psicologico rientrano inoltre varie tipologie di frustrazione.
Fattori interni dell'aggressività
Frustrazione ed aggressività
La ricerca delle possibili connessioni tra l'aggressività d'un individuo ed il
proprio grado di frustrazione eseguita negli Stati Uniti tra il '40 ed il '60, sotto
la spinta degli scritti di Miller, Mowrer e Sears, portò all'affermazione che ogni
qual volta l'individuo si trova in uno stato di frustrazione, manifesta alcune
tendenze aggressive.
L'aggressività, in questi casi, non è sempre diretta verso il responsabile della
frustrazione, ma preferibilmente verso soggetti più deboli. Quest'affermazione,
pur essendo logica, è tuttavia estremamente semplicistica, poiché si è notato
che non sempre la frustrazione produce aggressività, ma questo stato può
causare aggressività solo in alcune occasioni e può anche generare altre
reazioni; inoltre si può avere aggressività senza un precedente stato di
frustrazione. Quindi l'ipotesi del rapporto tra frustrazione ed aggressività
dev’essere riformulata come segue: la frustrazione può stare alla base di
talune forme di aggressività e, a volte, l'aggressività può avere come causa la
frustrazione.
A questo punto si pone il problema di individuare quelle particolari condizioni in
cui la frustrazione provoca aggressività. Dalle ricerche americane risulta che
una delle situazioni che induce l’individuo a tenere comportamenti ed
atteggiamenti aggressivi è l’aumento del livello di frustrazione. Una seconda
condizione è l'arbitrarietà della frustrazione stessa.
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Si sono infine analizzate quelle situazioni, quelle condizioni, quegli eventi che
causano stress e frustrazione, in maniera più o meno evidente.
I ricercatori si sono soffermati in particolare sulle fonti della frustrazione
normalmente accettate come parte del vivere quotidiano; i fattori che possono
aumentare l'incidenza dei comportamenti aggressivi sono il rumore, il calore,
l’inquinamento ed il fumo di sigarette (si trova, per esempio, una forte
correlazione fra il caldo ed i vari tipi di violenze urbane).
Nel corso degli studi si è tuttavia rilevato che ,al di là delle frustrazioni, ogni
forte emozione può far scaturire atteggiamenti aggressivi.
Eccitazione ed aggressività
In conformità con questa teoria, i ricercatori hanno dimostrato che, per
aumentare le potenzialità aggressive degli individui basta impegnarli in rudi
esercizi fisici, attività competitive, oppure somministrare loro degli stimolanti.
Si è scoperto, inoltre, che l’attivazione emotiva provocata da una certa attività,
può essere trasferita su di un bersaglio completamente diverso.
L'eccitazione emotiva che, determinatasi in una particolare circostanza, attiva
una reazione in una situazione completamente diversa, è chiamata dislocazione
d'emozione.
A causa di questo precedente troviamo spesso una forte correlazione tra amore
ed aggressività.
Naturalmente, non tutti gli stati emotivi producono reazioni aggressive: le
emozioni, infatti, scatenano reazioni violente quando l'aggressività tende ad
essere la risposta dominante, ovvero un aumento dell'eccitazione rende
addirittura certo il verificarsi di un comportamento aggressivo che prima era
solo probabile.
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Un secondo fattore utile a determinare se uno stato emotivo condurrà o no ad
una risposta aggressiva, è la definizione che gli si assegna.
Quando gli individui sono alle prese con un’accesa discussione, chiamano i
propri sentimenti con il termine di rabbia. Utilizzando questa definizione, è
probabile che l'eccitazione dia luogo ad un comportamento aggressivo.
La
stessa
eccitazione
ad
una
partita
sportiva
è
definita
"effetto
dell’accalorarsi": in questo caso la reazione aggressiva sarà meno probabile. Il
fattore chiave dell'aggressività può essere dunque considerata l’attivazione
emotiva di cui la frustrazione è uno dei fattori scatenanti.
Gli individui soggetti ad una spinta emotiva possono diventare particolarmente
attivi; se l'aggressività è la risposta dominante nella situazione in cui si trovano
ed essi definiscono le proprie reazioni come rabbia, frustrazione e irritazione,
allora la spinta emotiva sfocerà in un comportamento aggressivo.
Fattori esterni dell'aggressività
L’aggressività è una spinta interna fortissima che ci induce a distruggere l’altro,
quando questa si scatena lo fa violentissimamente con atti di crudeltà
realmente disumani.
Tuttavia ci sono delle situazioni esterne che possono influenzare e sollecitare il
nostro impulso distruttivo, indirizzandoci verso un tipo particolare di violenza
oppure disattivando i naturali freni inibitori.
Sesso, pornografia ed aggressività
Non c'è necessariamente un legame tra l'eccitazione sessuale e l'aggressività,
ma si è notato che l'eccitazione sessuale provoca, in genere, un abbassamento
delle tendenze aggressive.
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Tra
l'altro
il
materiale
pornografico
può
provocare
uno
spostamento
dell'attenzione dall'aggressività alla sessualità, evitandone la manifestazione.
Esiste quindi una relazione complessa tra aggressività ed eccitazione, ma
molto dipende da com'è definito lo stato di eccitazione; se questo è ben visto e
considerato piacevole, l'aggressività è improbabile, se invece ci si sente in
colpa perché la sessualità è considerata "sporca, colpevole e disgustosa" il
comportamento aggressivo non è da escludere.
Recentemente ci si è interessati soprattutto all'influenza della pornografia
violenta, spesso rivolta contro le donne, le conclusioni sono sconcertanti:
anche se la pornografia in genere non ha conseguenze nocive, quella violenta è
un pericolo sociale reale e dovrebbe essere disciplinata, infatti:
· La pornografia violenta eccita sessualmente gli stupratori recidivi, spingendoli
alla ripetizione dell'atto violento. Inoltre, se la vittima appare in uno stato di
eccitazione, ciò viene interpretato come una forma di tacito consenso, l'atto è
indi giudicato sessualmente stimolante dalla maggior parte degli studenti liceali
sottoposti ad un esperimento di questo tipo. A questi studenti fu poi chiesto se
sarebbero giunti a violentare una donna, circa il 35% rispose di sì, a condizione
della propria incolumità e della segretezza dell'episodio.
· Se si fa uso di materiale pornografico violento, ci si può convincere che le
donne amino la violenza. Alcuni studenti videro un filmato che rappresentava
uno stupro; dopo una settimana li si interrogò al proposito. Confrontati ai
soggetti di un gruppo di controllo, che non aveva visto il film, erano convinti
che alle donne piacesse essere trattate con violenza. In un'altra ricerca si
chiese ad alcune donne se si sentivano eccitate quando l'uomo le trattava con
violenza; tutte risposero di no, ma pensavano che altre avrebbero potuto
esserlo.
· Se, in situazioni sperimentali, si mostra materiale pornografico violento a
soggetti maschi, essi sono più motivati a somministrare scosse elettriche alle
donne. L'effetto persiste anche se le donne rappresentate nelle immagini si
oppongono alla violenza e provano dolore.
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Questa tendenza alla violenza sessuale che si accresce in seguito alla visione di
materiale pornografico violento, fortunatamente rimane latente e solo in alcuni
casi è messa in pratica; è pericolosa perché conferma l'assunto culturale
secolare per il quale le donne si vergognano della loro sessualità e non
dovrebbero esprimerla, perciò lo stupro darebbe loro modo di soddisfare i
propri
istinti
sessuali
un'affermazione
di
senza
tale
peso,
provare
sensi
confermata
da
di
colpa.
materiale
È
chiaro
come
pornografico
a
disposizione di tutti, non riduce affatto l'incidenza della violenza a sfondo
sessuale nel mondo.
Droga e aggressività
È opinione di tutti associare all'alcool un atteggiamento aggressivo ed alla
marijuana un comportamento più pacifico, a volte addirittura gioviale. Verso la
fine degli anni settanta vennero condotti numerosi esperimenti, mirati a
comprendere se esistesse un'effettiva connessione tra l'uso di droghe e alcool
e la violenza.
Interessante è lo studio di Taylor: in questa ricerca venne fatta bere a soggetti
di sesso maschile, una speciale mistura a base di ginger, al quale erano stati
mescolati alcool e THC, (sostanza attiva contenuta nella marijuana) oppure
sciroppo di menta (al gruppo di controllo).
In un primo tempo i soggetti ricevettero una piccola dose di sostanza, in
seguito questa fu aumentata. Successivamente essi parteciparono ad una gara
competitiva
nella
quale
dovevano
somministrare
scosse
elettriche
agli
avversari.
Si osservò che coloro, cui era stata somministrata una piccola dose di droga e
alcool usarono meno elettroshock del gruppo di controllo, cui era stato dato
sciroppo e menta. La prima conclusione fu dunque che piccole dosi delle due
sostanze sembravano avere effetto rilassante.
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I risultati cambiarono completamente ed emerse la differenza tra alcool e
marijuana nel caso in cui le dosi furono maggiori.
I soggetti che avevano ingerito una forte dose di alcool, somministrarono
scosse di maggiore entità, mentre coloro che avevano avuto una massiccia
quantità di marijuana somministrarono scosse d'entità minore. Dunque sia
l'alcool sia la marijuana influiscono sull'aggressività, l'alcool ha però un effetto
eccitante e la fa accrescere, mentre grosse dosi di droga producono un
affievolimento sia dell'eccitazione sia dell'aggressività.
Tuttavia, anche se le droghe influiscono sul livello di eccitazione psichica, è il
modo in cui sono socialmente definite ad avere un effetto determinante sul
comportamento. La gente è convinta che l'alcool renda aggressivi, pertanto
trova nell'ubriacarsi la scusa buona per aggredire in quanto, attribuendo al
consumo
di
alcool
il
proprio
comportamento,
riesce
a
scaricarsi
ogni
responsabilità.
Proprio per questo si hanno sentenze più permissive quando un'infrazione è
stata commessa sotto l'effetto dell'alcool. La ricerca di Gelles, del 1974,
condotta sui maltrattamenti inflitti ai familiari, dimostra che un uomo, quando
picchia la moglie e i figli in stato di ubriachezza, è considerato meno
responsabile di quando è sobrio, si arriva molto spesso a giustificare la
violenza e addirittura a biasimarla.
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Altruismo e comportamento prosociale
Si parla di comportamento altruistico quando vi è un'intenzione di aiutare gli
altri e quando il prestare aiuto non è determinato da obblighi professionali,
quando cioè è dettato dalla libera scelta.
Si preferisce invece parlare di un generico comportamento “prosociale” quando
è chiara l'intenzione di portare aiuto, ma non ne è chiara la motivazione.
Pertanto, non tutte le azioni prosociali sono anche altruistiche.
La decisione per la messa in atto di un comportamento prosociale è frutto di un
calcolo di costi e benefici che passa dai seguenti passi:
1) La percezione del bisogno dell'altro;
2) La considerazione della propria responsabilità;
3) la valutazione di costi e benefici;
4) scelta dell'azione da compiere nel portare aiuto.
La decisione di portare aiuto è influenzata anche da una serie di fattori legati
alla situazione o al contesto in cui le persone di trovano.
Tra questi, il più noto è quello che viene detto “effetto astanti” , per cui a
seconda della presenza o meno di altre persone e del contesto, esse vi
potranno inibire dal prestare aiuto, o al contrario spingere a fare qualcosa.
Nel primo caso Latane e Darly ricondussero questo fenomeno alla diffusione
della responsabilità per cui davanti a un incidente, con la presenza di tante
persone, si ritiene che già altri abbiano prestato soccorso o che comunque lo
stessero per fare. Dalla ricerca di Moriarity si è aggiunto il postulato secondo
cui se viene richiesto un aiuto in modo diretto, nella quasi totalità dei casi, gli
individui rispondono in maniera positiva.
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L'effetto bystander è possibile perché la presenza di altri condiziona il modo in
cui viene interpretata una situazione ambigua (quando nessuno agisce, si è
portati a credere che ci siamo sbagliati, che non c'è un reale pericolo). Lo
stesso effetto produce anche l'apprensione dovuta alla possibilità di venire
giudicati pubblicamente.
Quando però la responsabilità di un'azione non può che essere nostra, e la
situazione non è ambigua, la paura a essere disapprovati ci spinge ad agire. Si
parla in questo caso di “norma della responsabilità sociale”.
È stata anche rintracciata un'altra norma che influenza il comportamento
altruistico: la reciprocità spiegherebbe infatti le azioni in aiuto di chi è meno
fortunato.
Il comportamento prosociale è influenzato anche dal tipo di relazione che lega
chi deve dare aiuto a chi ne ha bisogno o lo richiede. Onde per cui si tende a
prestare aiuto più alle persone della propria famiglia o agli amici, o a coloro
che conosciamo, piuttosto che agli estranei.
Sembrerebbe inoltre, che le donne ricevano più aiuto degli uomini ma solo se
sono gli uomini a prestare soccorso. In termini generali, saremmo portati a ad
aiutare coloro che secondo noi “meritano aiuto”.
Nel valutare la richiesta di aiuto, quindi, facciamo inferenze sulle cause del
bisogno e siamo portati ad aiutare le persone i cui problemi hanno cause che
sono al di fuori del loro controllo personale (se ci chiedono dei soldi per
comprare le sigarette, non siamo portati a darli; se ci viene detto che
serviranno per mangiare, saremo più propensi ad aiutare).
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Serge Moscovici sostiene che l’altruismo può essere declinato in tre forme.
1. Altruismo Partecipativo
Sono comportamenti che favoriscono la vita collettiva di persone appartenenti
ad una stessa comunità (famiglia, chiesa, nazione, associazione, partito, etc).
Si sacrificano tempo ed energie propri in favore di altri coi quali si condivide
un’appartenenza. Ne è un esempio il volontariato.
2. Altruismo Fiduciario
È quello che ha lo scopo di stabilire un “legame di fiducia e confidenza” con il
destinatario dell’aiuto, il quale dovrà suggellare il legame con la riconoscenza.
Un esempio sono le relazioni di vicinato. In questo caso i benefici dell’altruismo
non si riflettono unicamente sul destinatario, ma anche su chi ha effettuato il
gesto.
3. Altruismo Normativo
Basato sui principi della responsabilità e della solidarietà, è dettato dalle norme
sociali. Norme sociali implicite (cioè quelle non ufficiali) secondo le quali
l’altruismo è “un bene”; ma anche norme esplicite, come le leggi (ad esempio:
cassa integrazione, pensione sociale, etc).
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Rapporto e differenze tra la psicologia sociale psicologica e sociologica
Nonostante
sia
possibile
rintracciare
un'origine
comune,
a
cavallo
tra
l'ottocento e il novecento, con il trascorrere del tempo, la psicologia sociale
si differenzia in psicologica e sociologica.
La prima è quella che finisce con il prevalere ai giorni nostri ed essa pone
grande enfasi sulla sperimentazione.
La seconda invece si avvicina sempre di più alla sociologia vera e propria.
George Herbert Mead ipotizza un continuo confronto tra il proprio punto di
vista e quello degli altri (l'altro non solo specifico, ma anche generalizzato).
Ciò permetterebbe all'individuo di realizzare una sorta di oggettività sociale, la
quale consente di individuare con chiarezza la propria posizione personale.
Se la psicologia sociale nacque in Europa, essa si sviluppò poi soprattutto negli
Stati Uniti, dove ricevette una forte attenzione all'individuo e alle conseguenze
pragmatiche del lavoro di ricerca.
La particolare cultura americana, basata sull'idea di progresso affidato alle
capacità e all'intraprendenza dei singoli o dei gruppi, fece affermare il
paradigma teorico del Comportamentismo, il quale si oppone al modello,
dominante fino ad allora, dell'introspezionismo.
In generale, gli psicologi sociali preferiscono le ricerche empiriche in
laboratorio.
Le loro teorie tendono ad essere specifiche e focalizzate, piuttosto che globali e
generali.
"Sociale" è un dominio interdisciplinare che fa da ponte tra la psicologia e la
sociologia.
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Durante gli anni immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale, ci
fu collaborazione frequente tra psicologi e sociologi (Sewell, 1989).
Negli anni recenti le due discipline si sono specializzate in modo crescente ed
isolate l'una dall'altra, con i sociologi che si concentrano su "macro variabili"
(struttura sociale), con estensione molto più ampia.
Ciononostante, gli approcci sociologici alla psicologia sociale rimangono
un'importante controparte alla ricerca psicologica in questa area.
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