Dispensa di EGi Francesca Cabiddu (aggiornata)

Dispensa di Economia e Gestione delle
Imprese (corso A)
Seconda parte
Francesca Cabiddu
Anno Accademico 2009-2010
Indice
1. L’impresa e l’ambiente
1. L’analisi teorica dell’impresa ………………………………………………pag. 3
2. Caratteristiche comuni a tutti i tipi d’impresa………………………….pag.3
3. Le relazioni con l’ambiente………………………………………………… pag. 4
2. La struttura del mercato e le forme di mercato prevalenti
1. La struttura del mercato
2. Le caratteristiche della domanda
3. Le caratteristiche dell’offerta
4. Il grado di differenziazione delle produzioni
5. L’esistenza di barriere all’ingresso e all’uscita
6. Rapporto di equilibrio tra domanda e offerta
3. Le funzioni dell’impresa e i fini del gruppo imprenditoriale
1. Le principali funzioni generali dell’impresa
2. I fini del gruppo imprenditoriale: principali teorie
2.1. Teoria della massimizzazione del profitto
2.3. Teoria della sopravvivenza dell’impresa
2.4. Teoria del valore
2.5. Teoria dello sviluppo dimensionale
2.6. Teoria dei limiti sociali alla massimizzazione del profitto
4. La gestione aziendale: profili strategici e operativi
1. La gestione aziendale
2. Il ciclo di direzione aziendale
3. Le funzioni gestionali
5. Le funzioni direzionali d’impresa
1. La funzione di organizzazione ………………………………………pag. 34
1.1. La progettazione della struttura organizzativa ………..pag. 34
1.2. Le scelte organizzative per la costruzione ……………..pag. 34
della struttura organizzativa
1.3. La scelta del modello di struttura ……………………… ..pag.
1.4. La definizione delle procedure decisionali e operative..pag.39
2. La funzione di programmazione …………………………
2.1. Il sistema dei piani d’azione
3. La funzione di conduzione e gestione del personale
3.1. Teorie sulla conduzione del personale
3.2. Gli stili di direzione
3.3. La motivazione
3.4. Il processo motivazionale nell’impresa
4. La funzione di controllo
4.1. Il controllo operativo concomitante
4.2. Le misurazione di efficienza ed efficacia della gestione
4.3. Le tecniche di valutazione dell’efficienza aziendale
4.4. Il controllo strategico aziendale
PRIMO CAPITOLO
L’IMPRESA E L’AMBIENTE
1. L’analisi teorica dell’impresa
Identificare e descrivere in modo sintetico l'impresa non è semplice,
soprattutto perché nelle diverse scienze e, più in generale, nelle diverse
discipline, in cui essa è considerata, si propongono molteplici definizioni che
non sempre consentono un facile orientamento.
L'accertamento della natura e delle caratteristiche delle imprese, quali entità
presenti nello scenario mondiale attuale, deve inoltre tenere conto che si tratta
di una realtà molto diversificata e soggetta a mutamento incessante.
In effetti, i tipi d’impresa riscontrabili in pratica sono molto differenti tra loro
per
forme
giuridiche,
per
dimensioni,
per
caratteristiche
tecnologiche,
finanziarie, distributive, per ambienti di appartenenza, ecc., e le loro
caratteristiche mutano nel tempo. L'analisi teorica dell'impresa implica pertanto
la scelta tra due possibilità entrambe difficili:
a) il riferimento a un'impresa-tipo, che riassuma le caratteristiche di tutte
le imprese, con oggettive semplificazioni e necessarie distorsioni rispetto ad
almeno talune delle realtà da considerare;
b) l'analisi contemporanea di tutti i tipi di imprese, con conseguente
ampliamento
a
dismisura
dell'esposizione
e
connessa
difficoltà
di
caratterizzazione dell'entità considerata (Usai, 1997).
Entrambe le due prospettive ipotizzate presentano dei limiti. La prima, cioè, il
riferimento ad un’impresa tipo ha l’ambizione di riassumere le caratteristiche di
tutte le imprese e quindi semplifica e distorce la realtà
La seconda, l’analisi contemporanea di tutti i tipi di imprese amplia a dismisura
l’esposizione e rende difficile la loro precisa definizione.
2. Le caratteristiche comuni a tutte le imprese
Per poter affrontare in modo adeguato i problemi derivanti dalla scelta di una
delle due prospettive sopra indicate, pare utile non riferirsi né all’impresa tipo, né
a tutti i tipi di imprese, ma piuttosto alle caratteristiche comuni a tutte le
tipologie d’impresa.
Ma quali sono i requisiti comuni a tutte le imprese?
Il primo connotato che contraddistingue tutte le imprese è il fatto che si tratta di
organizzazioni: cioè di collettività di soggetti umani istituite da uno o più
individui in vista del conseguimento di obiettivi comuni.
Requisiti comuni a tutte le imprese
• Natura di organizzazione
• Svolgimento dei processi di produzione
• Esistenza di relazioni di scambio con entità esterne
• Conseguimento di un reddito (divario positivo tra beni ceduti e risorse
impiegate)
Un
secondo
connotato
che
contraddistingue
le
imprese
dalle
altre
organizzazioni è che esse, mediante l’impiego di un complesso differenziato di
risorse, svolgono processi di produzione, cioè creano ricchezza. In altri
termini, operando una trasformazione delle risorse impiegate, ottengono dei
beni di maggior valore, atti a soddisfare direttamente o indirettamente bisogni
umani. In altri termini, questo attributo generale dell'impresa concerne il fatto
che all'origine della sua costituzione esiste la prospettiva della produzione di
beni o di servizi, ovvero degli uni e degli altri. L'atto di volontà che determina la
nascita dell'impresa è comunque sempre connesso con l'esistenza di bisogni dei
clienti, la soddisfazione della quale «giustifica» anche socialmente la decisione di
avviare la produzione dei beni o dei servizi: come si è già notato, la missione
dell'impresa consiste categoricamente nella produzione di beni e servizi per il
mercato.
La caratteristica della «produzione» non è di tipo esclusivo di questa
categoria di organizzazione, poiché anche le organizzazioni che si fanno
rientrare nella pubblica amministrazione producono servizi, ma queste - a
differenza delle imprese - non producono per il mercato e ciò avviene anche per
le unità del terzo settore. Nel caso dell'impresa, tuttavia, il bene o servizio
prodotto ha rilevanza fondamentale e originaria, mentre i motivi che giustificano
l'esistenza della pubblica amministrazione sono differenti, quantomeno perché
questa soddisfa soprattutto bisogni collettivi, più che gli specifici bisogni del
cliente.
I beni ottenuti tramite il processo di produzione sono destinati ad essere
scambiati con entità esterne (utilizzatori o consumatori), in modo da far scaturire
dallo scambio un utile o reddito. Lo scambio al fine del reddito rappresenta un
altro aspetto qualificante l’impresa. L’impresa ha, infatti, bisogno di ottenere un
reddito, cioè un divario positivo fra il ricavo dei beni ceduti e il costo delle risorse
impiegate nella produzione, per poter soddisfare chi ha impiegato i suoi capitali in
un’attività a rischio e per potersi sviluppare in conformità dell’evoluzione del
mercato in cui opera. Un ultimo elemento caratterizzante l’impresa è dato dalle
relazioni di scambio con l’ambiente esterno: queste relazioni possono essere di
tipo input (ingresso) cioè approvvigionamento di risorse necessarie per il suo
funzionamento, oppure di tipo output (uscita), ossia di cessione a terzi del
prodotto (beni o servizi) ottenuti.
I connotati che contraddistinguono l’impresa ci consentono di giungere ad
una definizione di tale entità come: organizzazione che, “mediante l’impiego di
un complesso differenziato di risorse, svolge processi di acquisizione e di
produzione di beni e servizi, da scambiare con entità esterne al fine del
conseguimento del reddito” (Sciarelli, 2008).
Definizione d’impresa
Organizzazione che, mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse,
svolge processi di acquisizione e di produzione di beni e servizi, da scambiare con
entità esterne al fine del conseguimento del reddito
3. Le relazioni con l’ambiente
Una volta definita l’impresa, appare chiaro come, per poterne comprendere
meglio le caratteristiche evolutive e affrontare i problemi che scaturiscono dalla
sua esistenza, non si possa prescindere dall’analisi del contesto socio-economico
di appartenenza, ossia dall’ambiente nel quale essa è inserita. In altri termini la
conoscenza dell’ambiente costituisce un presupposto indispensabile “sia a fini
esplicativi e descrittivi, cioè per lo studio della natura dell’organizzazione e delle
sue caratteristiche, sia a fini prescrittivi e normativi, cioè per l’individuazione
delle più opportune tecniche e modalità di razionalizzazione della sua attività”
(Usai, 2000: 98). In questa prospettiva, assume particolare importanza lo studio
dei rapporti di varia natura che si instaurano tra l’impresa e le altre entità
presenti nell’ambiente.
Il riferimento all’ambiente per approfondire l’analisi delle caratteristiche
dell’impresa e del suo modo di operare assume valenza anche dal punto di vista
metodologico. Infatti, se attualmente anche gli autori che aderiscono ad altre
prospettive
metodologiche
attribuiscono
grande
importanza
alle
indicate
interazioni, tale importanza assume maggiore valore qualora si prescelga, come
metodologia d’indagine, l’approccio per sistemi. L’adozione di tale approccio,
difatti, impone che l’impresa venga concepita quale sistema che si trova
costantemente in interazione con altri sistemi, i quali unitamente ad essa,
costituiscono unità parziali di un più ampio sistema.
L’impresa è un sistema perché è costituita da un insieme di parti od organi
tra loro legati da relazioni di interdipendenza. Ciascun organo, inoltre, svolge una
determinata funzione per il raggiungimento del fine comune.
L’impresa può essere meglio definita come un sistema aperto con chiusura
operazionale perché per vivere deve intrattenere continue relazioni di scambio con
altri sistemi o entità esterne, ma nello stesso tempo deve avere una parziale
chiusura verso l’esterno per mantenere la propria identità.
L’ambiente nel quale opera l’impresa, così come quello delle altre
organizzazioni, può essere suddiviso in:
- Ambiente di riferimento generale
- Ambiente di primo riferimento
- Ambiente pluridimensionale
- Ambiente operativo
In altri termini, ciascuna impresa, ha un ambiente di riferimento generale ed un
ambiente di primo riferimento: essa trae i vincoli, i condizionamenti e le
opportunità più generali, indiretti e strutturalmente più rilevanti dall’ambiente di
riferimento generale, mentre trae i vincoli, i condizionamenti e le opportunità
più diretti e immediati dall’ambiente di primo riferimento. Mentre il primo è
particolarmente rilevante in relazione alle sue caratteristiche politico-istituzionali
(ma non solo a queste), l’ambiente di primo riferimento è importante soprattutto,
ma non solo, per le sue specificità geografiche e socio-economiche. A questi
concetti si è aggiunto, in anni più recenti (Usai, 2005), il concetto di ambiente
pluridimensionale. L’avvento della “società aperta”, lo sviluppo tecnologico e
altre circostanze quali, per esempio, il processo di integrazione europea e i
processi di internazionalizzazione1 e di globalizzazione, hanno determinato
l’esistenza di una sorta di pluridimensionalità dell’ ambiente, o meglio, l’esistenza
di un insieme di ambienti concentrici, il cui contesto centrale è l’ambiente più
vicino all’impresa mentre quello più generale comprende l’intera realtà della Terra
e dell’umanità. Il concetto di ambiente pluridimensionale evidenzia la circostanza
per cui l’impresa non è influenzata esclusivamente dal proprio ambiente di primo
riferimento e dal proprio ambiente di riferimento generale bensì anche da altri
contesti che si trovano al di fuori, ovvero al di dentro dell’ambiente di riferimento
generale e dell’ambiente di primo riferimento.
Va in oltre precisato che, ogni impresa, in relazione all’attività svolta, all’area
geografica di operatività, alla dimensione, alla cultura prevalente degli organi di
governo tende a ritagliarsi nell’ambito dell’ambiente pluridimensionale un
contesto più specifico: l’ambiente operativo, distinguibile in altre due categorie:
L’ambiente transazionale
L’ambiente competitivo
Il concetto di ambiente transazionale si è sviluppato a partire dai lavori
di Oliver Williamson2, che ha ripreso e approfondito alcune idee di Ronald
Coase.3
Tale teoria non vede più l’impresa come una funzione della produzione, dove il
problema principale è quello di utilizzare al meglio la tecnologia disponibile, ma
come una struttura di governo il cui problema principale è quello di stipulare e
garantire transazioni efficienti. Ne consegue che l’unità elementare di analisi è la
transazione, ovvero qualsiasi forma di contratto che abbia una rilevanza
economica per l’organizzazione. In particolare, questo autore ha messo in risalto
1
Con questo vocabolo si allude non solo allo svolgimento di attività all’estero e alla connessa presenza di imprese
estere nel proprio ambiente, ma anche ad una tendenziale attenuazione delle differenze a livello internazionale di
modalità e metodologie operative, di caratteristiche di prodotti, di regolamentazioni e di comportamenti. Si deve
distinguere tra internazionalizzazione attiva e internazionalizzazione passiva. L’internazionalizzazione attiva, si
estrinseca nella capacità competitiva dell’impresa al di fuori del proprio mercato di origine ; l’internazionalizzazione
passiva, si verifica nei casi in cui l’impresa subisca, nell’ambito del proprio ambiente originario, la concorrenza da parte
di imprese esterne senza riuscire nel contempo a estendere le proprie vendite nei loro mercati, o comunque all’esterno.
2 Williamson O., Market and Hierarchy: Analysis and Antitrust Implications, Free Press, New York, 1975.
3 Coase R., The Nature of the Firm, Economica, n. 4, 1937.
che ogni impresa deve risolvere il problema del ricorso al mercato per
l’approvvigionamento delle risorse di cui abbisogna per lo svolgimento del
processo produttivo. Il tipo delle risorse per le quali ricorrerà al mercato,
attivando delle transazioni, dipenderà dalla convenienza a produrre all’interno
dell’impresa o all’acquistare all’esterno (make or buy): Maggiori saranno le
decisioni dell’impresa in direzione della prima prospettiva (make), minore sarà la
possibilità di definire i confini dell’impresa e minore, sarà, anche la dipendenza
della stessa dall’ambiente. Per contro, più si farà ricorso al mercato, maggiore
sarà la sua dipendenza dall’ambiente e più si amplierà l’ambiente transazionale
con il quale dovrà instaurare le sue relazioni di scambio.
“L’ambiente competitivo dell’impresa è costituito dall’insieme di attori con i quali
essa stabilisce delle interazioni sia attive che passive nello svolgimento della sua
normale attività economica..La natura e il comportamento di questi attori
determinano le condizioni dell’ambiente competitivo; queste condizioni indirizzano
(con diversi gradi di intensità) il comportamento dell’impresa e ne influenzano i
risultati potenzialmente realizzabili” (Fontana, Caroli, 2003, pag. 22-23). Sarà,
quindi, l’impresa a scegliere le porzioni di mercato da soddisfare. Attraverso
questa scelta strategica, sarà l’impresa a definire l’ambiente competitivo di
riferimento.
AMBIENTE DI RIFERIMENTO GENERALE
Ambiente
di primo riferimento
Ambiente transazionale
Impresa
Ambiente competitivo
SECONDO CAPITOLO
L’IMPRESA E IL MERCATO
1. La struttura del mercato
L’impresa per attingere alle risorse e per cedere i beni da lei prodotti dovrà
interagire con una pluralità di stakeholders. Questi soggetti o istituzioni si
raggrupperanno in categorie originando dei distinti mercati con i quali l’impresa
dovrà attivare un sistema di scambi. In termini economici, infatti, si ha un
mercato in tutti i casi in cui vi siano due o più contraenti, disposti a scambiare
fra di loro i beni rispettivamente posseduti. In altri termini per mercato s’intende
“il complesso degli atti di scambio che potrebbero manifestarsi in rapporto ad un
determinato prodotto o in un certo ambito territoriale” (Sciarelli, 2008).
Mercati con cui si relaziona l’impresa
•
Mercato del lavoro: costituito dall’offerta di forza-lavoro
•
Mercati
di
produzione:
composto
dai
produttori
di
materie
prime,
semilavorati, impianti e macchinari ecc.
•
Mercato finanziario: rappresentato dagli intermediari finanziari e da altri
prestatori di capitale
•
Mercato di vendita: costituito dagli acquirenti di beni e sevizi prodotti
Ogni mercato si differenzia dagli altri per le modalità con cui si manifesta la
domanda, per le diverse tipologie di clienti, per il grado di differenziazione delle
produzioni, per le diverse barriere all’entrata e all’uscita. Nonostante l’estrema
varietà di situazioni caratterizzanti i mercati, è comunque possibile individuare
alcune forme tipiche di mercato così sintetizzabili:
1. grado di concentrazione, di elasticità e di differenziazione della domanda
2. grado di concentrazione dell’offerta
3. grado di differenziazione delle produzioni
4. esistenza di barriere all’ingresso e all’uscita;
5. rapporto di equilibrio fra domanda e offerta.
2. Le caratteristiche della domanda
La domanda di certi beni o servizi può presentarsi con un diverso grado di
concentrazione. Vi sono, infatti, mercati in cui esiste un solo grande acquirente
nelle cui mani si concentra la maggior parte della domanda complessiva (es.
impianti elettrici); mercati in cui si hanno pochi grandi clienti (es. forniture
industriali) e, infine, mercati in cui la richiesta è polverizzata fra un numero
elevatissimo di compratori (es. mercati di consumo)
Altro importante attributo della domanda è la sua elasticità, cioè il modo
secondo cui la richiesta del mercato reagisce a variazioni del ciclo economico.
L'elasticità della domanda rispetto al prezzo misura la reattività della quantità
domandata ad una variazione percentuale del prezzo, cioè indica di quanto varia
la quantità domandata di un bene se il suo prezzo aumenta o diminuisce di una
certa percentuale, come si evince dal grafico sopra riportato. Quando l'elasticità
della domanda di un bene rispetto al prezzo è inferiore a 1, cioè c'è poca reattività
della quantità domandata alle variazioni del prezzo, si dice che quel bene è di
prima necessità. Quando l'elasticità di un bene è maggiore di 1, c'è cioè molta
reattività della quantità domandata alle variazioni di prezzo, si dice che quel bene
è un bene di lusso.
Un’altra caratteristica della domanda è la differenziazione. Questo attributo è
legato al concetto di diversificazione dell’offerta, come si specificherà meglio nei
paragrafi successivi, e di conseguenza alla differenziazione dei prodotti. Ci si
riferisce, in particolare, al fatto che nei mercati non si ha una domanda ed
un’offerta per un certo tipo di bene ma tante domande e tante offerte per quante
sono le classi o segmenti di acquirenti presenti nel mercato.
3. Le caratteristiche dell’offerta: il grado di concentrazione
L’elemento che più di altri e in modo più immediato e diretto influisce sul
funzionamento del mercato, è il grado di concentrazione della produzione.
In termini di concentrazione dell’offerta si possono verificare le seguenti
situazioni:
a) Monopolio
b) Oligopolio
c) Concorrenza perfetta
Il monopolio è una forma di mercato, dove un unico venditore offre un
prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio
naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale, protetto da barriere
giuridiche). Principali esempi di monopoli naturali sono legati alla realizzazione di
infrastrutture: rete ferroviaria, rete stradale ed autostradale, rete per la
distribuzione dell'acqua, del gas, dell'elettricità, porti, aeroporti, ecc. Attualmente
sono veramente pochi gli esempi di monopolio naturale applicato "puramente":
difatti la liberalizzazione (e non privatizzazione) di servizi, quali telefonia fissa e
autotrasporto, ha minimizzato la diffusione di tale struttura economica a favore
della icastica ricerca della concorrenza perfetta. Un esempio di monopolio legale,
detto anche Monopolio di Stato, è dato dai tabacchi.
Un mercato è oligopolistico se gli offerenti sono pochi e ciascuno di essi è in
grado di esercitare potere di mercato.
Esempi di mercati oligopolistici relativi all’economia italiana sono:
1. – Il mercato delle trasmissioni televisive (duopolio RAI-Mediaset).
2. – Il mercato dei servizi di telefonia mobile.
La
concorrenza
perfetta
è
una
forma
di
mercato
caratterizzata
dall'impossibilità degli imprenditori di fissare il prezzo di vendita dei beni che
producono, i quali prezzi derivano esclusivamente dall'incontro della domanda e
dell'offerta, che a loro volta sono espressione dell'utilità e del costo marginale.
L'impresa
non
può
determinare
contemporaneamente
quantità
e
prezzo
d'equilibrio del mercato.
L'equilibrio concorrenziale si contrappone ad altri modelli, ma possiede delle
caratteristiche che lo rendono desiderabile rispetto a questi ultimi dal punto di
vista dell'efficienza economica.
Un mercato si può definire perfettamente concorrenziale quando si verificano le
seguenti ipotesi:
1. il bene prodotto è omogeneo;
2. le imprese operano in condizione di "informazione perfetta", ossia tutti gli
operatori dispongono di informazioni complete in merito ai costi di
produzione, ai prezzi, al salario reale di equilibrio, ecc.. Non esistono,
quindi, ostacoli all’ingresso nel mercato
3. le imprese che operano sul mercato hanno una dimensione atomica, tale da
non poter influenzare in alcun modo i prezzi di vendita, e che non esistono
barriere all'ingresso e all'uscita dei concorrenti;
4. i fattori della produzione sono perfettamente sostituibili fra loro, ossia
possono essere riallocati alla produzione di diversi beni, mantenendo
sempre la stessa produttività marginale. Questa ipotesi è naturalmente
riferita al lungo periodo ed è fondamentale affinché il prezzo di equilibrio sia
pari al minimo del costo medio di lungo periodo
4. Il grado di differenziazione delle produzioni
Il grado di differenziazione delle produzioni richiama sia la disomogeneità
dei prodotti offerti sul mercato, sia la possibilità di differenziarli e individuarli
rispetto al produttore, alla zona, all’epoca di produzione e rispetto ad altri
caratteri distintivi.
L’esistenza di prodotti differenziati comporta il frazionamento del mercato in tanti
sub-mercati, ciascuno dei quali è entro certi limiti separato dagli altri e costituito
da una particolare clientela.
L’impresa sceglie di operare in uno o più sub-mercati dove cerca di
raggiungere posizioni quasi-monopolistiche.
Si
delineano
così
le
situazioni
di
concorrenza
monopolistica
che
caratterizzano i mercati con tanti produttori ma la possibilità per questi ultimi di
raggiungere posizioni di vantaggio in specifici sub-mercati. Il concetto di submercato è, quindi, caratterizzato da una domanda che si rivolgerà di più ad
alcune imprese, queste godranno di un vantaggio rispetto alle altre, se
riusciranno a rafforzare tali preferenze.
Il concetto di concorrenza monopolistica fa, in altri termini, riferimento alla
presenza simultanea nel mercato di elementi di concorrenza e di monopolio
5. L’esistenza di barriere all’ingresso e all’uscita
Le barriere all’entrata sono rappresentate dai maggiori costi che il potenziale
nuovo entrante in un determinato mercato deve sostenere rispetto agli
imprenditori già presenti in esso.
Si collegano a:
•
Le economie di scala
•
La disponibilità di brevetti e know-how
•
La scarsità dei fattori produttivi essenziali
•
La differenziazione dei prodotti
Le economie di scala sono date dall’abbassamento dei costi unitari di produzione
e di vendita al raggiungimento di determinati volumi produttivi. Tali economie
sono ottenibili non solo nella fase di trasformazione dei beni, ma anche nella fase
di approvvigionamento delle materie e dei servizi e di commercializzazione delle
produzioni finali.
In determinati mercati la dimensione minima dei volumi produttivi è elevata, nel
senso che se non si raggiungono certi volumi produttivi non è possibile avere dei
costi competitivi e riuscire ad acquisire una quota sufficiente di mercato. Questo
significa che un nuovo competitore incontra delle barriere all’ingresso perché deve
organizzare la sua attività su un livello dimensionale elevato. Cioè è difficile non
tanto per l’investimento necessario, quanto per la difficoltà di portar via ai
produttori già operanti nel mercato il volume di vendita necessario ad arrivare al
livello dimensionale minimo necessario per avere convenienza ad entrare nel
mercato.
Oltre alle economie di scala, un’altra barriera all’ingresso è rappresentata dal
possesso di brevetti o di Know-How che impedisce l’entrata di concorrenti fino a
quando non sia possibile sfruttare tali diritti intangibili o per il decadere dei
termini di protezione brevettuale o per il ricorso a brevetti o Know-how sostitutivi.
Gli impedimenti all’ingresso in un determinato mercato possono dipendere
anche dalla scarsità di fattori produttivi essenziali. “Gli impedimenti all’ingresso
derivano in questo caso dal fatto che, una volta che tali fattori (ad esempio,
materie prime o manodopera specializzata) sono stati acquisiti dalle imprese che
operano
nel
mercato,
non
resta
nessuna
disponibilità
per
coloro
che
aspirerebbero ad entrarvi” (Sciarelli, 2008, pag. 23). In altri termini, il monopolio
dei fattori produttivi essenziali da parte dei produttori già presenti nel mercato
rappresenta una barriera assoluta all’ingresso nel mercato di nuovi competitori
Un ultimo tipo di barriera all’ingresso è collegato alla differenziazione dei
prodotti. La differenziazione dei prodotti consente a ciascun produttore di isolarsi
rispetto agli altri concorrenti. Più spinta sarà la differenziazione del prodotto, più
profondo e meno accessibile risulterà il “segmento” entro cui si sarà protetti dalla
concorrenza.
Oltre alle barriere all’entrata in un determinato mercato possono essere
presenti delle barriere all’uscita che vincolano le imprese a permanere nel
mercato impedendo di cessare la loro attività.
Le barriere all’uscita sono create da vincoli sociali (l’impossibilità di fallire per
salvaguardare l’occupazione) o economici (la difficoltà del disinvestimento). Le
barriere all’uscita finiscono per tramutarsi in barriere all’entrata, perché la loro
esistenza dissuade le imprese da entrare in un determinato mercato.
6. L’equilibrio fra la domanda e l’offerta
Per comprendere il funzionamento di un mercato e l’azione delle imprese nello
stesso occorre combinare l’analisi della domanda con quella dell’offerta ossia
valutare contestualmente la posizione di produttori e di utilizzatori/consumatori.
L’equilibrio domanda e offerta ovvero le situazioni in cui la domanda è in grado
di assorbire perfettamente l’offerta sono difficilmente ipotizzabili. In effetti, sono
rare le situazioni in cui la domanda sia in grado di assorbire tutta l’offerta, ma
anche che l’offerta sia in grado di soddisfare tutte le richieste degli acquirenti.
Si distinguono le situazioni di mercato del compratore e di mercato del venditore.
L’equilibrio fra la domanda e l’offerta
Domanda > Offerta = mercato del venditore
Offerta > Domanda = mercato del consumatore
Occorre confrontare le potenzialità di produzione con la capacità di
assorbimento della domanda.
Laddove la capacità di assorbimento supera le capacità produttive prevale il
mercato del venditore.
Nel caso di eccedenza della capacità produttiva rispetto alla capacità di
assorbimento si ha il mercato dell’acquirente.
Anche se l’innovazione tecnologica porta al raggiungimento di capacità produttive
elevate, e farebbe prevalere un potere del compratore, questi difficilmente riesce a
condizionare significativamente l’offerta soprattutto qualora costituta dai grandi
oligopoli internazionali.
TERZO CAPITOLO
LE FUNZIONI DELL’IMPRESA E I FINI DEL GRUPPO IMPRENDITORIALE
(Francesca Cabiddu, Daniela Pettinao)
1. Le principali funzioni generali dell’impresa
L’impresa, come messo in risalto nei paragrafi precedenti, è una realtà
complessa che svolge una molteplicità di ruoli nei confronti di chi partecipa
attivamente allo svolgimento della sua attività, ma anche nei confronti della
collettività e dell’ambiente in cui essa opera.
In generale, si può affermare, che le funzioni, o ruoli, svolte dall’impresa sono
essenzialmente tre e così sintetizzabili:
1) economico-generale;
2) sociale;
3) produzione di reddito (Sciarelli, 2008).
La funzione economico-generale fa riferimento al fatto che l’impresa, essendo
un’organizzazione che produce beni e servizi per il mercato, ha tra i suoi scopi
principali il soddisfacimento dei bisogni umani. L’impresa, in altri termini, svolge
un’attività che va a beneficio dell’intera società, perché attraverso il suo operato
riesce a generare delle maggiori utilità per la collettività nel suo complesso.
La funzione sociale richiama il fatto che l’impresa “va vista anche come
distributrice della ricchezza creata, rappresentando uno strumento per il
soddisfacimento delle necessità soprattutto di coloro che operano al suo interno”
(Sciarelli, 2008, pag. 29) ma anche all’esterno dell’impresa. L’impresa, infatti, da
un lato, nello svolgimento della sua attività aziendale intrattiene una serie di
relazioni di scambio con altre imprese ed individui per l’acquisto delle materie
prime, per il reperimento della forza lavoro, dei materiali, dei macchinari ecc.,
dall’altro lato rappresenta una fonte di lavoro per coloro che operano all’interno
della stessa.
L’ultima funzione dell’impresa è la produzione di reddito. L’impresa può essere
vista come un’entità che può operare nel mercato grazie alle persone ed
all’imprenditore che impegnano in essa, rispettivamente, lavoro e capitali. Appare
evidente che l’impresa, intesa come entità che richiede un investimento di
capitale e il sostenimento di un certo livello di rischio, deve soddisfare un’altra
funzione: la produzione di reddito, come rilevato inizialmente.
Le tre funzioni sono tra loro legate e nessuna delle tre può essere considerata
prioritaria rispetto alle altre. Si può, infatti, affermare che se l’impresa riesce a
soddisfare i bisogni dei consumatori, riesce anche a svolgere una funzione sociale
e a produrre reddito.
La priorità tra le funzioni non è effettiva, ma è legata al punto di osservazione
del fenomeno. Se si prende in considerazione l’interesse generale, si può
affermare che la funzione economico-generale può essere considerata prioritaria
rispetto alle altre. Se, invece, si vuole evidenziare l’importanza dell’esistenza
dell’impresa per chi partecipa alla vita dell’organizzazione, poiché percepiscono da
essa un salario, allora la funzione sociale appare prioritaria. Infine, se si prende
in considerazione il punto di vista dell’imprenditore la funzione più importante
diventa la produzione del reddito.
2. I fini del gruppo imprenditoriale: principali teorie
In letteratura, laddove c’è pieno accordo sul fatto che l’impresa abbia
determinate funzioni di tipo generale, c’è meno accordo sul significato del
concetto di finalità. A tal proposito alcuni riconoscono all’impresa una finalità
propria, in riferimento alla sua natura di istituto economico, definibile in termini
di “continuazione dell’esistenza attraverso la capacità di autogenerazione nel
tempo, che avviene mediante la continua creazione di valore economico4”, altri
invece considerano l’impresa, in quanto tale, incapace di avere una finalità
propria, essendo quest’ultima emanazione dei fini e delle aspirazioni di coloro che
la guidano e la governano5. Nell’ambito del presente contributo, si aderisce alla
seconda impostazione, si ritiene infatti che l’impresa non ha dei fini ma ha delle
funzioni da svolgere. Il problema dei fini investe gli individui che operano
nell’impresa e soprattutto coloro che ne detengono la proprietà e il governo.
I principali problemi che la teoria ha dovuto affrontare in merito a tale
argomento riguardano sia la necessità di spiegare il funzionamento del sistema
4
Cfr. Guatri, L. Vicari, S. Sistemi d’impresa e capitalismi a confronto, Egea, Milano, 1994, pp. 5 e segg.
“La rimunerazione del lavoro e del capitale proprio è il fine dell’impresa nel senso che si tratta del fine perseguito
dalle due categorie di persone (i prestatori di lavoro ed i conferenti di capitale proprio) che hanno massimo rilievo per la
formazione e per il governo dell’impresa.” Cfr. Airoldi, G. Brunetti, G. Coda, V. Economia Aziendale, Il Mulino, 1994,
p. 20. “…L’impresa, in quanto tale, non può avere dei fini, essendo questi ultimi il frutto di una scelta di coloro che la
governano” Sciarelli, S., Economia e gestione dell’impresa, volume primo, seconda edizione, 2002, p. 74.
5
economico, sia l’esigenza di capire la logica comportamentale ed evolutiva
dell’impresa. Lo studio delle finalità del gruppo imprenditoriale è, dunque, da
ricondursi ad un interesse più generale nei confronti del comportamento delle
imprese e, in particolare, in merito alle modalità di formazione delle decisioni
all’interno delle stesse. In questo senso, la spiegazione dei comportamenti adottati
da un’impresa viene fornita in termini di obiettivi da perseguire e di motivazioni
in grado di spingere i soggetti umani al loro raggiungimento.
La teoria degli obiettivi delle imprese ha interpretato, nel corso del tempo, i
mutamenti verificatisi nella società, elaborando interessanti spiegazioni sulla
nascita e sul funzionamento di queste entità. A tale riflessione si aggiunge la
considerazione per cui le differenti risposte individuate dalla teoria al problema
delle finalità del gruppo imprenditoriale, sono direttamente riconducibili alle
diverse concezioni e definizioni di impresa cui i vari studiosi fanno riferimento.
Ripercorrendo gli studi effettuati sino ad ora sull’argomento, è possibile
evidenziare come le molteplici interpretazioni del problema in oggetto siano
estremamente diversificate in funzione delle differenti condizioni storiche,
culturali ed economiche che hanno caratterizzato lo sviluppo dei diversi studi6.
2.1. Teoria della massimizzazione del profitto
La teoria economica tradizionale individua nella massimizzazione del profitto
la finalità dell’impresa. Tale teoria parte del presupposto che i componenti del
gruppo imprenditoriale sono motivati dal conseguimento del più ampio divario
positivo tra i ricavi e i costi di gestione. In altri termini, la logica delle scelte degli
organi di governo è quella di massimizzare il risultato reddituale ottenibile
dall’attività d’impresa.
La semplicità di questo assunto non deve ingannare circa le modalità con cui
le varie correnti o scuole di pensiero interpretano il profitto stesso.
Per la teoria economica classica il profitto costituisce il compenso che spetta
all’imprenditore per l’organizzazione dei fattori produttivi. In questo senso esso
costituisce una categoria economica analoga al salario, alla rendita o all’interesse
6
In tal senso IVANO PACI, Il contributo della dottrina italiana agli studi sul governo delle organizzazioni, in Sinergie, n.
45/1998. Un’analisi approfondita in merito al tema delle finalità dell’impresa si trova in PIER PAOLO CARRUS, Le nuove
condizioni di realizzazione della missione dell’impresa: strategia, risorse e sistema relazionale, Cedam, Padova, 2000,
capitolo primo.
i quali rappresentano, rispettivamente, i compensi destinati al lavoro, alla terra e
al capitale.
Accanto a questa definizione si sviluppano altre impostazioni concettuali che
inseriscono nella definizione stessa ulteriori elementi qualificativi7. Il profitto,
infatti, può essere inteso come il corrispettivo che ripaga del “rischio” corso con
l’attività d’impresa, costituendo una sorta di “premio di assicurazione” per il
capitale investito nell’impresa o, ancora, come l’acquisizione di posizioni
monopolistiche da parte dell’impresa rispetto ad altri produttori. È, invece,
attribuibile a Schumpeter la riflessione per cui il profitto costituisce un premio
che spetta a colui che promuove l’innovazione. In questa accezione si evidenzia
l’instabilità del profitto nella vita dell’impresa in quanto esso risulta legato al
verificarsi di particolari circostanze, quali il mutamento dei prodotti e dei sistemi
produttivi, tali da assicurare all’imprenditore una condizione di vantaggio nei
confronti della concorrenza.
Concezioni di profitto
1. Compenso che spetta all’imprenditore per l’organizzazione dei fattori produttivi
2. Quota destinata a ripagare il rischio corso nell’attività aziendale
3. Premio che spetta a colui che promuove l’innovazione
4. Risultato dell’acquisizione di posizioni monopolistiche
Un’ultima
teoria,
tende
a
spiegare
l’origine
del
profitto
in
funzione
dell’imperfezione del mercato, cioè quale risultato dell’acquisizione di posizioni
monopolisitiche rispetto agli altri produttori.
Le quattro concezioni di profitto, in realtà, non si escludono a vicenda, ma
risultano complementari. Il profitto, infatti, può essere considerato un’entità
composita: compenso per il lavoro imprenditoriale, premio per il rischio,
contropartita
dell’innovazione
e
la
rendita
connessa
con
la
posizione
monopolistica.
Ciò che si vuole mettere in discussione in questa analisi, non è il profitto in sé
e per sé, che non è in realtà suscettibile di critiche, ma, indipendentemente dalla
definizione di profitto presa come riferimento, l’affermazione che l’obiettivo del
gruppo imprenditoriale è costituito dal perseguimento del massimo profitto. Va,
7
Cfr. SERGIO SCIARELLI, Economia e gestione dell’impresa, seconda edizione, Cedam, Padova, 2001.
infatti sottolineato che tale affermazione si basa su alcune premesse logiche
sviluppate nell’ambito della teoria classica e neoclassica dell’impresa e, in
particolare, su una concezione semplificata dell’impresa e del sistema economico.
La prima tra queste assunzioni di base è costituita dalla centralità
dell’imprenditore e comporta l’associazione del diritto di proprietà dei beni
produttivi con il potere esclusivo dell’imprenditore di decidere e di dirigere
l’impresa.
L’identificazione dell’imprenditore con il proprietario dei mezzi di produzione fa
si che l’ottenimento del profitto costituisca uno strumento per il riconoscimento e
la valutazione della legittimazione dell’impresa ad accedere alle risorse del
sistema. Di fatto, la realizzazione del profitto indica alla società che le risorse
attribuite all’impresa vengono utilizzate in modo appropriato.
Un altro elemento alla base della teoria in oggetto attiene alla razionalità che
caratterizza l’imprenditore e, di conseguenza, alla possibilità che egli sia in grado
di compiere scelte di tipo massimizzante. L’uomo economico della teoria classica
affronta il mondo reale in tutta la sua complessità, scegliendo la migliore
alternativa tra tutte quelle possibili. Parallelamente alla concezione semplificata
dell’impresa proposta dagli autori della teoria classica, infatti, si afferma una
ulteriore semplificazione della concezione riguardante il mercato.
In particolare, secondo la teoria neoclassica, l’impresa, opera in un mercato di
concorrenza perfetta, in condizioni di informazione completa e omogenea.
L’impresa neoclassica è un’impresa che opera in un contesto statico non è
concepita come un’organizzazione ma come una semplice funzione di produzione
con rendimenti decrescenti (in quanto è crescente il costo marginale). L’obiettivo
dell’impresa è, dunque, quello di massimizzare il proprio profitto prendendo
decisioni in modo oggettivamente razionale, basandosi sulla scelta della quantità
da produrre e delle tecniche da impiegare, avendo come unico vincolo quello del
prezzo fissato dal mercato. Dati i prezzi, si tratta di scegliere la quantità e/o le
tecnologie in corrispondenza delle quali è possibile massimizzare il profitto.
D’altro canto, l’esogeneità del prezzo non costituisce l’unica semplificazione
operata dalla teoria. Ulteriori elementi di semplificazione delle condizioni
operative dell’impresa sono rappresentati dalla stazionarietà dei gusti e delle
tecnologie, dalla mancanza di ostacoli alla piena mobilità dei fattori produttivi e
dall’omogeneità dei prodotti offerti.
Con il passare del tempo, a mano a mano che l’analisi assume ipotesi di
maggiore aderenza alla realtà, il principio della massimizzazione del profitto perde
di rigore esplicativo. In scenari teorici caratterizzati da crescente complessità e da
una maggiore importanza delle variabili ambientali, la tesi secondo la quale il
profitto costituisce la principale finalità dell’impresa viene messa in discussione
con riferimento a molteplici aspetti.
Gli assunti di Simon sulla razionalità limitata evidenziano l’impossibilità di
perseguire risultati ottimi e sostituiscono a questa prospettiva quella del risultato
soddisfacente. Le condizioni di razionalità che caratterizzano l’uomo della teoria
neoclassica, infatti, appaiono all’Autore “davvero eccessive. L’uomo economico ha
un sistema completo e coerente di preferenze che gli permettono di scegliere tra le
alternative che gli si offrono; egli è sempre a perfetta conoscenza di quali siano le
alternative; non esistono limiti alla complessità dei calcoli che egli può fare al fine
di determinare quali alternative siano migliori”8. All’uomo economico della teoria
classica Simon sostituisce un uomo amministrativo che percepisce il mondo come
una semplificazione della “confusione” che costituisce il mondo reale. Tale
semplificazione deriva dalla disponibilità degli uomini a trascurare tutti quegli
aspetti della realtà che in un dato momento vengono ritenuti irrilevanti.
Scegliendo in base a tale immagine semplificata della realtà, la quale contiene
soltanto alcuni aspetti della stessa, il comportamento umano non può essere
ritenuto di tipo massimizzante. L’uomo amministrativo cerca di scegliere un corso
dell’azione che sia abbastanza buono. È un uomo che sceglie ma che, nello stesso
tempo, ha conoscenze e capacità limitate per poterlo fare in modo ottimo.
Teoria della massimizzazione del profitto: alcuni limiti
1. Teoria convincente in senso astratto;
2. Per conferire un valore alla teoria è necessario introdurre il fattore tempo e
il fattore rischiosità;
3. Profitti soddisfacenti e non massimi.
La massimizzazione del profitto, inoltre, per potersi esplicare richiede la
definizione dell’arco temporale entro il quale il profitto stesso deve essere
8
HERBERT SIMON, Il comportamento amministrativo, Il Mulino, Bologna, 1958, pagg. 22 e 23.
massimizzato9. Quale profitto l’impresa vuole rendere massimo: quello di un
esercizio, di due esercizi, di una specifica operazione, di un complesso di
operazioni? Intende puntare al massimo profitto sostenendo altresì il rischio più
elevato circa il risultato dell’attività dell’impresa? L’imprenditore tende a
massimizzare il risultato nel lungo termine mentre può decidere di realizzare nel
breve periodo una politica di vendita a prezzi di costo o inferiori al costo per
conquistare un’ampia porzione di mercato e recuperare, nel tempo, le quote di
reddito sacrificate.
Va, inoltre, sottolineato, che l’imprenditore tende a condizionare le sue
aspirazioni reddituali ad un determinato grado di rischiosità globale della
gestione. L’espansione, per esempio, in altri settori produttivi o in mercati esterni
potrebbe rispondere non tanto al fine di massimizzare il profitto quanto piuttosto
a quello di diversificare e compensare i rischi di gestione.
Affermare che il profitto deve essere massimizzato appare convincente in senso
astratto, ma in termini concreti non appare una finalità perseguibile.
Nella realtà attuale, la tesi secondo la quale il profitto costituisce la finalità
dell’impresa non solo viene messa in discussione ma anche la concreta possibilità
del perseguimento di una prospettiva orientata alla sua massimizzazione appare
difficilmente insostenibile.
2.2. Teoria della sopravvivenza dell’impresa
La teoria neoclassica della massimizzazione del profitto ha rappresentato per
molto tempo uno dei principali punti di riferimento dell’analisi economica.
Tuttavia, a partire dalle critiche di scarso realismo e di eccessiva rigidità di tale
teoria, si svilupparono diversi modelli alternativi di analisi volti ad individuare le
logiche sottostanti i processi decisionali d’impresa.
Il progressivo distacco dai canoni della teoria classica e neoclassica può essere
attribuito al fatto che, se da un lato tali teorie sembravano rispecchiare il
comportamento delle imprese di minori dimensioni, operanti in mercati
assimilabili allo schema astratto della concorrenza perfetta, dall’altro lato, i loro
assunti apparivano riduttivi nell’interpretazione delle motivazioni che regolano la
condotta delle grandi imprese. Queste ultime, che proprio in quegli anni
9
Su questo aspetto e su altre critiche alla massimizzazione del profitto si veda LORENZO CASELLI, Finalità generali
dell’impresa, in LORENZO CASELLI (a cura di), Le parole dell’impresa. Guida alla lettura del cambiamento, Franco
Angeli, Milano, 1995.
cominciavano a svilupparsi, essendo contrassegnate da un’organizzazione di tipo
gerarchico, da un ampia autonomia decisionale dei managers e da un elevato
potere di mercato, difficilmente potevano essere equiparate, nelle logiche
comportamentali, alle imprese del passato. Nelle grandi imprese l’identità di
interessi fra proprietà e direzione, principio cardine della teoria del massimo
profitto, diviene problematica. La crescita delle dimensioni dell’impresa comporta
la progressiva separazione tra la proprietà, frazionata in quote rappresentate da
titoli azionari negoziabili sui mercati finanziari, e il potere di governo e di
direzione della stessa che, data la crescente complessità, viene progressivamente
trasferito dall’imprenditore a manager di professione. Il fatto che la gestione sia
attuata da dirigenti o manager comporta un mutamento dei fini della gestione
dell’impresa. In particolare, la separazione tra livello di proprietà e di governo
dell’impresa non rende più sostenibile la teoria della massimizzazione del profitto.
Mentre, infatti, i proprietari potevano essere interessati ad ottenere il massimo
profitto
dall’impresa,
i
dirigenti
sono
preoccupati
della
sopravvivenza
dell’impresa.
Il fine del gruppo imprenditoriale, in tale nuova prospettiva, è quindi quello di
garantire la continuità dell’organismo aziendale. Ciò si traduce, da un lato, nel
puntare al profitto come mezzo per irrobustire la struttura patrimoniale
dell’impresa e, dall’altro lato, nel rifiutare lo svolgimento di attività con livelli di
rischio che possano porre in pericolo la vita dell’organizzazione.
2.3. Teoria dello sviluppo dimensionale
Un’altra teoria che si fonda sull’evoluzione in senso manageriale della
struttura imprenditoriale privilegia la finalità dello sviluppo dimensionale.
All’approccio in esame possono essere ricondotti diversi Autori tra i quali: William
Baumol, Oliver Williamson e Robin Marris.
Secondo Baumol10 i managers tendono a massimizzare il valore delle vendite
dalla loro impresa in corrispondenza di un dato vincolo di profitto. Tale
comportamento è dovuto alla considerazione per cui l’espansione dell’impresa al
ritmo più elevato possibile gli consente di consolidare la loro posizione e di
accrescere la loro forza contrattuale. La massimizzazione dei ricavi totali,
10
WILLIAM J. BAUMOL, Business behaviour, value and growth, New York, Harcourt Brace and World, 1959.
piuttosto che la massimizzazione del profitto, costituisce, secondo questo Autore,
la finalità dell’impresa.
La considerazione degli azionisti quali stakeholders dell’impresa, impone alla
prospettiva della massimizzazione dei ricavi totali tramite lo sviluppo delle vendite
un solo limite dovuto alla necessità di conseguire un livello minimo di profitto in
grado di soddisfare le attese degli azionisti. In particolare, i manager hanno
interesse ad accrescere la dimensione dell’impresa, anche se ciò significa la
rinuncia alla massimizzazione dei profitti, fino a quando sono in grado di ottenere
un profitto che corrisponda ad un livello minimo sufficiente ad assicurare
all’impresa l’autofinanziamento e a soddisfare le aspettative degli azionisti.
Teoria dello sviluppo dimensionale
- I comportamenti imprenditoriali sono tesi all’ampliamento del volume
d’affari rispetto a quello dei profitti globali
- Il profitto viene sostituito con il fatturato quale obiettivo primario della
conduzione aziendale
Egli ipotizza che il management persegua la massimizzazione dei ricavi, sotto il
vincolo di un profitto minimo, ovvero di un volume di utili sufficiente, da un lato,
a generare finanziamenti adeguati ai programmi di investimento dell’impresa e,
dall’altro, a proteggere la dirigenza dal malcontento degli azionisti e quindi dal
rischio di scalate ostili.
Nel modello di Baumol il tasso di profitto minimo costituisce una grandezza
strategica in grado di determinare la condotta dell’impresa. Tale tasso è
determinato dalla misura in cui l’impresa deve remunerare il capitale fornito dai
suoi finanziatori. In questo senso, il profitto si configura come un elemento
strumentale al finanziamento dello sviluppo dell’impresa.
L’analisi di Williamson11 si sviluppa intorno al tentativo di individuare i bisogni
e le motivazioni dei manager, di esprimerli quantitativamente in un modello
formale e di verificarne l’impatto sulle decisioni che le imprese possono prendere.
Secondo questo Autore, ogni manager possiede una propria funzione di utilità e
un certo margine di discrezionalità nel perseguire politiche aziendali che tendano
alla sua massimizzazione. Tale possibilità di perseguire i propri interessi, tuttavia,
11
OLIVER E. WILLIAMSON, The economic of discretionary behaviour: managerial objectives in a theory of the firm,
Prentice Hall, 1964.
non è priva di condizioni essa, infatti, deve essere compatibile con un vincolo
minimo di profitto. Anche in questo caso il profitto minimo costituisce un vincolo
dovuto alla necessità dell’impresa di remunerare gli azionisti e di evitare la caduta
del valore di borsa delle azioni.
Infine, lo schema concettuale proposto da Marris12 riprende e sviluppa tutti gli
elementi presenti nei modelli di Baumol e di Williamson. Secondo questo Autore,
infatti, la grande impresa manageriale, caratterizzata dalla separazione tra
proprietà e direzione, ha come finalità quella della crescita dimensionale. In essa i
managers godono di un elevato potere discrezionale che utilizzano per il
raggiungimento
dei
propri
interessi,
quali
stipendio,
prestigio,
potere
e
affermazione sociale. In questo senso, lo strumento ideale per soddisfare tali
interessi
è
rappresentato
dalle
decisioni
che
conducono
all’espansione
dell’impresa. Tuttavia, tra i desideri del manager rientrano anche la sicurezza del
posto di lavoro e del potere conseguito, i quali possono essere conseguiti solo se si
raggiunge una certa stabilità del controllo azionario dell’impresa. Il gruppo
dirigente tende, quindi, a massimizzare una funzione di utilità bidimensionale
che comprende, da un lato, l’obiettivo della crescita e, dall’altro lato, quello della
sicurezza. Si ritiene, infatti, che lo sviluppo dimensionale garantisca il
raggiungimento di più obiettivi simultaneamente ed in particolare i seguenti:
- un irrobustimento dell’organizzazione (garanzia di sopravvivenza);
- l’assunzione di una maggiore forza nei confronti dei concorrenti (garanzia di
redditività aziendale);
-l’incremento delle retribuzioni ai livelli più elevati di direzione
In sintesi, si può affermare che nel lungo periodo non c’è contrapposizione tra la
teoria della massimizzazione del profitto e la teoria dello sviluppo dimensionale.
Nel corso della gestione si potranno perseguire obiettivi di breve e lungo periodo
per cui sarà possibile riscontrare la preminenza dell’uno o dell’altro. Nell’analisi
dei comportamenti imprenditoriali il compito più difficile è l’individuazione del
sistema dei fini od obiettivi che guidano pro tempore le scelte d’impresa. Per
questa ragione, è importante distinguere il concetto di fine da quello di obiettivo,
assegnando al primo un contenuto più ampio e generale rispetto al secondo.
12
ROBIN MARRIS, The economic theory of managerial capitalism, Mac Millan, London, 1964 (trad. it.: La teoria
economica del capitalismo manageriale, Torino, Einaudi, 1972).
Fini: attributi generali
1. Universalità: devono essere comuni a tutte le entità della stessa natura;
2. Generalità: devono comprendere gli scopi specifici di certi gruppi o attività;
3. Permanenza: devono restare costanti nel tempo.
Obiettivo
1. E’ una meta particolare, fissata in certe circostanze e in rapporto ad un
periodo di tempo determinato;
2. E’ caratterizzato dalla mutevolezza nel tempo e nello spazio;
3. Risulta subordinato alla finalità ultima dell’impresa.
2.4. Teoria del valore
Nel dibattito sui fini imprenditoriali, una teoria più recente è quella di
Rapparpot sulla strategia del valore. Il fine dell’imprenditore, secondo tale teoria,
è quello di massimizzare il valore dell’impresa in termini reali e non reddituali.
Secondo questa strategia il fine dell’imprenditore è quello di massimizzare il
valore dell’impresa, valore espresso in termini di capitalizzazione se si tratta di
aziende quotate in borsa oppure in termini di valore di mercato collegati alla
stima del capitale economico. In altri termini, la strategia del valore tenderebbe a
guidare l’opera dell’imprenditore e manager, portandole a preferire le scelte tese a
massimizzare il valore del capitale azionario (cioè, ad accrescere il valore reale
dell’impresa), perché in questo modo l’impresa diventerebbe più attraente, più
sicura e garantirebbe, quasi sempre, migliori retribuzioni a chi la governa.
2.5. Teoria dei limiti sociali della massimizzazione del profitto
Ogni impresa rappresenta un’organizzazione cooperativa caratterizzata da
situazioni di conflitto di interessi. Le situazioni di conflitto possono prodursi nei
confronti di soggetti esterni all’impresa o tra i soggetti operanti all’interno della
stessa, si parla, infatti, di conflitti esterni e di conflitti interni.
Per quanto riguarda i conflitti esterni questi possono riguardare: il prezzo e le
modalità di vendita delle produzioni nei rapporti con i clienti; le politiche
concorrenziali nei confronti di altri produttori, i prezzi e le condizioni d’acquisto
rispetto ai fornitori ecc.
I conflitti interni, invece, possono essere generati dalle modalità di distribuzione
dei ricavi fra le varie categorie sociali legate all’impresa e alle modalità di
prestazione del lavoro.
Tra i due tipi di conflitto esistono delle differenze, non soltanto con riferimento
alle ragioni che li determinano, ma anche con riferimento alle modalità che
possono essere utilizzate per favorire una loro ricomposizione.
I conflitti esterni sono risolvibili sulla base del rapporto di forza esistente tra
l’impresa e le altre organizzazioni con cui entra in contatto. Nel caso l’impresa in
esame non dovesse riuscire a risolvere il conflitto, essa sarebbe costretta a
cercare un nuovo modo per soddisfare le esigenze oggetto del conflitto.
Esempio di conflitto esterno
Nell’esempio di un conflitto con un fornitore, all’impresa si prospettano tre
possibilità:
- pervenire ad un nuovo accordo di reciproca soddisfazione;
- cambiare fornitore;
- produrre anziché acquistare il bene di cui si tratta.
Tratto da: Sciarelli S., Il sistema d’impresa, Cedam, 2001, pag. 40.
Dall’esempio sopra riportato, appare evidente che l’impresa in caso di conflitti
esterni può porre in essere differenti azioni per risolvere i conflitti. Diversa è,
invece la situazione per quanto riguarda i conflitti interni, dove le possibilità di
manovra dell’imprenditore sono inferiori nonostante egli ha la possibilità di
escludere l’opponente dall’organizzazione.
Il
richiamo
alla
situazione
cooperativo-conflittuale
tipica
dell’impresa
è
strumentale ai fini della dimostrazione dei limiti della massimizzazione del
profitto.
L’imprenditore, infatti, per poter massimizzare il profitto può cercare di ampliare i
ricavi e/o ridurre i costi, in modo da far accrescere il reddito. Per aumentare ii
ricavi ha due possibilità: aumentare il prezzo o la quantità venduta dei beni.
Ma un rialzo del prezzo, quasi sicuramente non verrà positivamente accettato dai
compratori, i quali potrebbero decidere, per evitare di pagare un prezzo più alto,
di rivolgersi ad un altro fornitore. Pertanto, l’effettiva possibilità dell’imprenditore
di far leva sulla variabile prezzo per massimizzare i suoi profitti appare
difficilmente applicabile e potrebbe, addirittura, rivelarsi controproducente. Lo
stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda l’aumento della domanda. Se
l’impresa si trova ad operare in un mercato dove la domanda è più meno stabile,
per poter raggiungere l’obiettivo di ampliamento della domanda l’impresa dovrà
necessariamente erodere la quota di mercato dei concorrenti. Questi ultimi
chiaramente porranno in essere delle azioni che contrastino la strategia del rivale.
L’impresa potrebbe a questo punto decidere di operare sul versante dei costi. Per
ridurre i costi l’impresa può operare su due fronti: abbassare il costo unitario di
produzione o impiegare una minore quantità di risorse. La riduzione del costo
unitario di produzione troverà la naturale opposizione dei gruppi sociali come i
lavoratori, i fornitori, i distributori ecc. che si vedrebbero rispettivamente ridurre
la remunerazione del lavoro, ridurre i prezzi pagati ai fornitori, i margini di
guadagno ecc. Lo stesso ragionamento deve essere fatto per quanto concerne la
riduzione della quantità di risorse.
In altri termini, ciò che si vuole sottolineare è la “convinzione secondo la quale
per il governo dell’impresa non è sufficiente il conseguimento degli obiettivi
economici, peraltro necessari. Si richiede invece che essi si realizzino con
modalità
appropriate,
non
limitate
al
mero
rispetto
dei
vincoli
posti
dall’ordinamento vigente, ma caratterizzate anche dall’adesione ad un sistema di
valori etici, culturali e sociali condivisi, che possano informare i rapporti
dell’impresa con i clienti, i fornitori, i dipendenti, la comunità sociale e politica e
la collettività nel suo insieme, di cui la stessa impresa costituisce espressione”13.
13
PIER PAOLO CARRUS, Le nuove condizioni di realizzazione della missione dell’impresa: strategia, risorse e sistema
relazionale, op. cit., pag. 37.
QUARTO CAPITOLO
LA GESTIONE AZIENDALE: PROFILI STRATEGICI E OPERATIVI
1. La gestione aziendale
Il termine gestione aziendale fa riferimento all’insieme di attività che consentono
all’impresa di funzionare in modo coordinato per il conseguimento degli obiettivi
comuni.
La gestione aziendale e, quindi, il funzionamento dell’impresa richiedono lo
svolgimento di due tipologie di funzioni denominate, rispettivamente, funzioni
direzionali e funzioni gestionali.
Lo svolgimento di queste funzioni richiede una partecipazione diffusa, in
quanto, coinvolge tutto il personale aziendale, seppure con responsabilità e poteri
diversificati.
2. Il ciclo di direzione aziendale
Il processo e il significato di direzione aziendale ha subito nel tempo profondi
cambiamenti. In una concezione tradizionale la direzione aziendale consisteva:
nella segmentazione del lavoro in atti e operazioni elementari; nella loro
assegnazione al personale; nel controllo del risultato ottenuto.
Il crescere delle dimensioni delle imprese, la progressiva diversificazione
produttiva, l’ampliamento della base geografica di riferimento, così come la
crescente complessità dell’ambiente e delle attività e dei processi aziendali hanno
portato al superamento della concezione tradizionale di direzione.
Nella concezione moderna di direzione aziendale la funzione del dirigente si
caratterizza per un articolato sistema di attività (funzioni) interdipendenti,
costituite dalla programmazione, organizzazione, conduzione del personale e
controllo che costituiscono quello che viene più propriamente definito il ciclo di
direzione aziendale (Sciarelli, 2008).
Il ciclo di direzione aziendale può essere così rappresentato:
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
Nel ciclo di direzione aziendale ogni attività deve essere:
- programmata, stabilendo in anticipo obiettivi, decisioni, modalità e risorse da
impiegare;
- organizzata, individuando chi e con quali responsabilità dovrà curarne la
realizzazione
- guidata, fornendo le direttive e motivando gli organi operativi;
- controllata, valutando i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati.
La funzione di controllo chiude un ciclo informativo ma ne innesca uno nuovo,
come evidenziato nella figura sottostante.
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
Come appare evidente dalla figura sopra riportata il controllo produce
informazioni sui risultati conseguiti all’interno dell’impresa. La programmazione
richiede l’integrazione dei dati così ottenuti con quelli relativi al contesto esterno
(informazioni sull’ambiente). Le informazioni sul controllo interno e sull’ambiente
vengono trasferite da chi dirige a chi esegue. Infine, chi esegue deve trasmettere i
risultati della propria attività agli organi di controllo
3. Le funzioni gestionali
Le funzioni gestionali sono atti di decisione, controllo ed esecuzione relativi
all’attuazione dei processi operativi suddivisibili in processi di scambio e di
trasformazione.
I
processi di scambio comprendono tutte le funzioni coinvolte nella
realizzazione del processo di scambio di risorse con entità esterne (ad es. la
funzione di approvvigionamento, di vendita, di finanza ecc)
I processi di trasformazione, invece, racchiudono tutte le funzioni necessarie per
ottenere la trasformazione delle risorse acquisite in prodotti (es. la funzione di
produzione, di gestione delle scorte ecc.)
In un’impresa industriale le funzioni di gestione possono essere distinte in
funzioni primarie, di supporto e ausiliarie.
Le funzioni primarie sono rappresentate dalla produzione e dalla vendita: la prima
comprende il complesso di operazioni necessarie per attuare il ciclo di
trasformazione delle materie in prodotti finiti; e la seconda fa riferimento alle
operazioni che consentono la collocazione di tali prodotti nel mercato. La
produzione e la vendita, di solito sono affiancate da altre due funzioni: la funzione
finanziaria, cui compete l’impiego e il reperimento dei fondi necessari per lo
svolgimento dell’attività dell’impresa, e la logistica industriale, cioè l’insieme di
attività di pianificazione, gestione e controllo dei flussi fisici (materie prime,
materiali e prodotti finiti) dai fornitori fino ai consumatori finali al fine di
assicurare la disponibilità dei prodotti nel tempo, nello spazio e nei volumi
richiesti14. Tale funzione è suddivisibile in tre sottofasi:
- logistica in entrata (acquisizione di prodotti e distribuzione alle unità
utilizzatrici);
14
Per un approfondimento di tale argomento cfr. Pinna R., L’evoluzione nella dimensione organizzativa della supplì
chain. Dalla gestione di un flusso alla gestione di una rete, Franco Angeli, Milano, 2006.
- logistica interna (gestione dei flussi di materiali nelle fasi interne);
logistica in
uscita (ricezione e evasione degli ordini e trasporto fino alla rete
distributiva).
Accanto alle funzioni primarie si trovano altre funzioni, svolte di norma all’interno
dell’impresa,
che
fanno
da
supporto
alle
prime
come,
per
esempio,
approvvigionamenti, Ricerca e sviluppo e contabilità.
Infine, ci sono le funzioni ausiliarie (trasporti, manutenzione impianti, pubblicità
ecc.) cioè quelle che, per motivi organizzativi ed economici, l’impresa può
esternalizzare, affidandole ad altre organizzazioni.
QUINTO CAPITOLO
LE FUNZIONI DIREZIONALI
1. Funzione di organizzazione
Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate,
ciascuna avente una specifica funzione o rapporto rispetto al complesso.
Le parti, nel caso dell’impresa, sono gli organi della stessa e l’organizzazione si
rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le responsabilità che
ciascuno dovrà assumere nel corso della gestione (Sciarelli, 2008).
Lo scopo della funzione di organizzazione è duplice:
- Ottenere condizioni di massima efficienza operativa mediante la suddivisione e
la specializzazione delle attività e il loro opportuno coordinamento;
- Soddisfare le attese di coloro che lavorano nell’impresa (motivazione) e
migliorare il rendimento globale dell’organizzazione
La funzione di organizzazione si pone lo scopo di definire la struttura
organizzativa.
1.1.. La progettazione della struttura organizzativa
Ogni impresa opera con una particolare struttura di organi, che nella forma più
semplice si basa sull’accentramento del potere decisionale nelle mani di un unico
soggetto, l’imprenditore, e sull’esistenza di più centri di esecuzione. Nelle forme
più complesse si articola in una molteplicità di unità differenziate di decisione,
controllo ed esecuzione.
In generale, nelle imprese di piccole dimensioni non esiste una ripartizione
formale
di
compiti
e
responsabilità
né
una
definizione
dei
circuiti
di
comunicazione, si parla in questo caso di struttura spontanea.
Nelle imprese di grandi dimensioni, invece, esiste una ripartizione formale dei
compiti caratterizzata da una molteplicità di unità differenziate di decisione, di
controllo ed operative definite formalmente dal management aziendale (struttura
di piano)
1.2. Le scelte organizzative per la costruzione della struttura organizzativa
La progettazione della struttura organizzativa consiste nel definire, per tutte le
persone e le unità organizzative, le modalità con cui vengono suddivise e
coordinate le singole attività lavorative.
A livello micro, la progettazione della struttura organizzativa si occupa di dividere
e coordinare il lavoro all’interno di singoli gruppi o unità organizzative. In
particolare, il focus è rivolto al livello di specializzazione, alla qualificazione e alla
motivazione dei dipendenti.
A livello micro la progettazione si deve preoccupare di definire i compiti, le
mansioni ed i ruoli.
Compito: Insieme di attività elementari necessariamente collegate in funzione di
proprietà/capacità del lavoro umano e tecnica impiegata
Mansione: Insieme di compiti che possono essere assegnati ad una posizione
Ruolo: Aspettative sul comportamento di una persona in riferimento agli obiettivi
dell’organizzazione che devono orientare le sue azioni.
A livello macro, le attività dell’organizzazione vengono divise e coordinate tra le
diverse unità organizzative. La progettazione macro si occupa di determinare i
meccanismi di coordinamento tra unità organizzative, le modalità di aggregazione
delle posizioni e i livelli gerarchici dell’organizzazione.
La prima scelta che l’impresa deve porre in essere per la costruzione della
struttura organizzativa a livello macro è relativa alla determinazione del confine
efficiente dell’organizzazione. Il confine sarà influenzato dalla scelta di quali
funzioni attuare all’interno dell’impresa (make) e quali altre funzioni delegare
all’esterno, facendo ricorso a fornitori esterni di prodotti e servizi (buy).
Premesse per la costruzione della struttura organizzativa
•
Determinazione del confine efficiente dell’impresa (make or buy): produzione
interna o ricorso al mercato
•
Caratteristiche dell’ambiente in cui l’impresa dovrà operare
•
Insieme di vincoli dell’impresa
Nella definizione della struttura organizzativa influiranno notevolmente anche le
caratteristiche dell’ambiente di primo riferimento e di riferimento generale in cui
l’impresa si trova ad operare. Più il contesto esterno risulterà caratterizzato da
condizioni di instabilità e di dinamismo, maggiore dovrà essere la flessibilità
dell’organizzazione.
E’ opportuno, infine, sottolineare che per la progettazione organizzativa è
necessario tenere conto del complesso di vincoli che caratterizzano l’operare
dell’impresa e che possono fare rinunciare a scelte teoricamente ottimali. I vincoli
sono rappresentati da:
a) le capacità professionali disponibili ed acquisibili nel mercato del lavoro;
b) l’investimento in costi fissi, che si è disposti a sostenere per la creazione della
struttura;
c) i costi di lavoro sostenibili dalla gestione.
1.3. La scelta del modello di struttura
Nella
progettazione
organizzativa
momento
particolarmente
delicato
è
rappresentato dalla scelta del modello strutturale. Tra i modelli organizzativi
adottati nelle piccole imprese è molto comune la cosiddetta struttura semplice,
caratterizzata dall’accentramento del governo in una sola persona o in un
ristretto gruppo di persone, dalla divisone di responsabilità prevalentemente
operative per aree funzionali fondamentali (ad es. produzione e vendita) e dalla
ridotta
formalizzazione
sia
dell’assetto
organizzativo,
sia
delle
procedure
informative e operative.
Al crescere delle dimensioni dell’impresa il modello più ricorrente è caratterizzato
da una struttura formale che stabilisce in modo ufficiale l’assetto delle funzioni,
dei poteri e delle responsabilità all’interno dell’impresa.
I tipi di struttura più frequentemente adottati dalle imprese industriali sono i
seguenti: modello funzionale, modello divisionale, modello per progetto e per
matrice.
Il modello funzionale si caratterizza per la suddivisione delle aree di
responsabilità per gruppi di compiti, cioè per la ripartizione delle competenze
alto-direzionali in termini di funzioni primarie della gestione.
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam
2008
Con l’applicazione del modello funzionale si persegue la specializzazione del
lavoro tra responsabili di funzioni, a cui è attribuita la direzione di un complesso
di attività omogenee e interdipendenti tra di loro. Il coordinamento di queste
attività, sul piano interfunzionale spetta alla direzione generale.
L’inconveniente del modello funzionale è dato dal modesto coordinamento tra le
diverse aree di responsabilità.
Il modello divisionale solitamente viene adottato dalle imprese maggiormente
diversificate.
Questo
modello
è
caratterizzato
dalla
ripartizione
delle
responsabilità di direzione per gruppi o famiglie di prodotti ciascuna affidata ad
un direttore divisionale responsabile dei risultati economici ed operativi della
divisione diretta. In altri termini, tale modello comporta il frazionamento
dell’impresa in più parti (divisioni) ciascuna delle quali potrebbe rappresentare
un’impresa a se stante e costituire un centro di profitto. Alcune funzioni
vengono decentrate al livello di divisione, altre vengono accentrate. Il criterio
generale è quello di decentrare le funzioni che possono ottenere i maggiori
benefici dalla specializzazione (es. produzione e vendita) e di accentrare quelle che
richiedono un più elevato coordinamento sul piano aziendale (es. finanza, il
personale, approvvigionamento ecc.).
Modello divisionale
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam
2008
Accanto alle strutture organizzative, di cui si è fin qui discusso, si pongono, poi i
modelli cosidetti a struttura “elastica”, in grado cioè di adattarsi più prontamente
ad esigenze contingenti e rapidamente mutevoli di gestione. Tali modelli sono il
modello per progetto e quello per matrice.
Il modello per progetto rappresenta un’ulteriore articolazione del modello
funzionale, in quanto è all’interno di questo che vengono costituiti dei gruppi di
lavoro incaricati di elaborare e porre in attuazione determinati progetti.
Il modello a matrice rappresenta l’istituzionalizzazione di quella per progetto
(che ha natura temporanea), in quanto la struttura aziendale assume un
carattere reticolare con un intreccio di competenze funzionali e per progetto. Ogni
responsabile si troverà alle dipendenze di due superiori:il direttore di linea (es.
produzione) e il direttore di prodotto.
In effetti, nell’organizzazione per matrice si hanno tre tipi di ruoli:
- la direzione generale, responsabile dell’intera struttura organizzativa
- Le direzioni divisionali e funzionali responsabili delle funzioni sotto-stanti
al livello precedente
- Le responsabilità congiunte divisionali/funzionali dei gruppi operativi
inseriti nella struttura.
Entrambi i modelli a struttura elastica si prestano a rispondere alle esigenze di
imprese caratterizzate da tecnologie complesse e da prodotti con breve ciclo di
vita. E’, inoltre, importante precisare che l’organizzazione per progetto è una
variante dei modelli tradizionali, che non può essere considerata come un modello
a se stante, mentre quella per matrice rappresenta un nuovo tipo di struttura.
Il modello a matrice
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
1.4. La definizione delle procedure decisionali e operative
La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione
organizzativa, in quanto il funzionamento del sistema d’impresa richiede
necessariamente la definizione di procedure di lavoro e informative.
Le procedure stabiliscono delle norme di comportamento adottabili in modo
ripetitivo nel tempo per la soluzione di problemi similari o analoghi. Le procedure
possono essere rappresentate graficamente mediante i diagrammi a flusso ( o
flow-chart).
Il flow-chart è una rappresentazione grafica che riproduce le fasi di una data
procedura utilizzando e collegando tra loro simboli standard. L’uso del flow-chart
si è sviluppato nell’ambiente informatico sin dagli anni ‘50 per poi diffondersi in
tutti gli altri campi che prevedevano la gestione di processi e progetti. Tale
strumento aiuta a comprendere lo sviluppo del processo in quanto descrive la
sequenza logica delle fasi di attività così come dovrebbero essere realizzate.
La scomposizione in fasi del processo può essere utile per identificare le cause di
un particolare problema e trovarne le soluzioni. Il flow chart può avere una
struttura ad albero o a rete, oppure combinare le due strutture. Esso si compone
di simboli (solitamente figure geometriche) e linee.
Nella stesura del diagramma di flusso devono essere osservate inoltre alcune
regole:
-
scrivere le fasi principali del processo;
-
sviluppare il diagramma verticalmente e/o lateralmente disegnando linee
continue congiungenti i simboli che rappresentano le operazioni da
compiere;
-
disegnare le fasi nella sequenza in cui avvengono gli eventi, ricordando
che l’ordine di lettura del diagramma è dall’alto verso il basso e da sinistra
verso destra, quando non specificato diversamente. Per rendere più chiaro
il significato di una operazione, quando il simbolo non esaurisce quello
che si voleva esplicitare è necessario fare uso di note esplicative o rinvii;
-
ricordare che tutte le figure, escluse la prima e l’ultima, devono avere un
input e un output. Tenere inoltre presente che, alcune figure possono
avere più input o più output e che i “nodi decisionali” fanno sviluppare il
diagramma in direzioni diverse;
-
cercare di strutturare le domande in modo da ottenere risposte del tipo
SI/NO.
La realizzazione del diagramma di flusso, rispettando le fasi sopra indicate,
consente di verificare, rispondendo ad alcuni interrogativi, se la sequenza delle
attività formulata sia quella più idonea per la realizzazione di una determinata
procedura o se sia possibile individuarne una più adatta all’organizzazione
considerata.
I quesiti su cui è necessario interrogarsi con riferimento alle singole operazioni
sono essenzialmente tre: «cosa» si deve fare? «perché» si deve fare? Quali sono i
soggetti implicati nelle diverse operazioni ?,
Rispondendo con attenzione ai precedenti quesiti è possibile rappresentare una
data situazione nelle sue componenti elementari e quindi definire in quale misura
esse concorrono alla realizzazione di una procedura. In questo modo si
predispone una base di analisi che consente una razionalizzazione delle
procedure e pertanto favorisce l'eliminazione di tutte le fasi che sono ridondanti,
poco utili e che anzi appesantiscono la realizzazione dell'attività.
Esempio di diagramma di flusso
Guasto stampante
Telefonare al
tecnico
No
Risponde?
No
Si
Richiesta di
intervento
FINE
È libero?
Appuntamento
2. Funzione di programmazione
La funzione di programmazione assume un ruolo centrale nel processo di
direzione aziendale perché si propone di regolare, sulla base dell’organizzazione
creata, il corso futuro della gestione.
La programmazione è il processo di predeterminazione degli obiettivi, delle
politiche e delle attività da compiere entro un determinato periodo di tempo.
Nell’impresa, programmare significa, quindi, assumere in anticipo il complesso di
decisioni attinenti alla gestione futura .
L’attività di programmazione non deve essere confusa con il termine previsione,
che significa anticipazione dei futuri andamenti di alcune variabili da cui trarre
informazioni per orientare i comportamenti e le scelte aziendali. In questo caso,
non vi è un processo decisorio, ma solo la valutazione anticipata di fenomeni
interessanti l’impresa.
L’attività di previsione può, al limite, essere considera una delle fasi in cui può
essere idealmente scomposta la funzione di programmazione, così come di seguito
proposto:
a)
previsione;
b)
identificazione dei potenziali obiettivi;
c)
scelta degli obiettivi;
d)
identificazione di vie gestionali alternative per il conseguimento degli
obiettivi;
e)
scelta delle vie gestionali (Usai, 1997).
Tali attività sono
strettamente interdipendenti e concorrono in maniera
complementare a dare forma e contenuto al processo di programmazione, il quale
peraltro non può identificarsi con alcuna delle cinque classi di attività, perché
esse devono appunto essere considerate aspetti coordinati del composito processo
di programmazione.
L’attività di previsione
L'analisi proiettata nel futuro delle condizioni interne all'impresa e del mutevole
ambiente socio economico, nel quale l'attività operativa deve compiersi,
caratterizza la fase di previsione. Tale attività è fondamentale per un adeguato
svolgimento delle operazioni dell'impresa e deve essere svolta da qualsiasi
organizzazione. Tale attività per essere efficace deve essere realizzata in maniera
continua e sistematica. A tal fine sono indispensabili ricerche e studi, riferibili
all'ambiente in generale e all'impresa in particolare.
L’identificazione dei potenziali obiettivi.
La seconda area di attività concerne l'identificazione dei potenziali obiettivi
dell'organizzazione. Questa fase è molto importante e costituisce la base del
processo di determinazione delle finalità dell'organizzazione.
L'attività qui in esame risulta essere decisiva per l'efficace operare delle
organizzazioni perché, solo se si ha sufficiente capacità creativa nell'individuare
ogni possibile obiettivo, si può disporre di una base idonea alla quale riferire la
scelta delle mete da perseguire.
La scelta degli obiettivi
La terza attività che si può individuare nel processo di programmazione è la scelta
degli obiettivi, ed essa è conseguente in senso temporale e logico all'ampia
individuazione di possibili obiettivi. Questi possono distinguersi in:
a) obiettivi generali;
b) obiettivi parziali.
I primi riguardano il sistema di esigenze ed aspirazioni dei gruppi sociali
interessati all'attività dell'impresa considerata. Gli obiettivi parziali costituiscono
mete cui devono tendere singoli settori, o loro parti, gruppi operativi e singoli
individui.
Gli organi operanti ai vari gradi dell'impresa e i diversi individui contribuiscono in
maniera complementare al conseguimento degli obiettivi generali; si può
affermare, in particolare, che ogni obiettivo parziale si pone in posizione
strumentale rispetto agli obiettivi immediatamente superiori e questi a loro volta,
contribuiscono al raggiungimento di obiettivi superiori e così via sino a
raggiungere la maggior meta dell'organizzazione.
Identificazione e scelta delle vie gestionali
Il quarto momento logico del processo di programmazione concerne l'attività di
identificazione e di creazione delle vie gestionali capaci di condurre agli obiettivi
prefissati. Con l'espressione «vie gestionali» si vuole intendere il complesso di
politiche, di procedure operative, di attività e di mezzi necessari per l'attuazione
dei programmi.
La quinta area di attività in cui può essere scomposto il processo intellettuale di
programmazione è la scelta delle «vie gestionali».
2.1. Il sistema dei piani d’azione
Il processo di programmazione si traduce in un sistema dei piani d’azione, in
cui sono specificati gli obiettivi da perseguire, i mezzi da impiegare e le operazioni
da compiere entro certi periodi. Il sistema dei piani è distinto secondo:
- i contenuti (piani strategici o piani operativi)
- l’ambito gestionale (Piani globali, piani di aree d’affari e piani di funzioni)
- l’orizzonte temporale (piani di lungo, medio, breve e brevissimo periodo).
- il grado di analisi (piani di massima, piani esecutivi).
Il sistema di piani dell’impresa
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
I due tipi fondamentali di piano sono il piano strategico ed il piano operativo.
Il piano strategico è un piano a lungo termine di carattere innovativo, che si
riferisce alla strategia globale.
Il piano strategico, in altri termini, rappresenta l’elemento di riferimento di tutto il
sistema, in quanto sia il piano operativo, sia i singoli piani di esercizio dovranno
essere elaborati in funzione del perseguimento degli obiettivi di lungo termine. Il
conseguimento di questi ultimi richiederà la formulazione di piano di sviluppo
strategico
(le
cui
alternative
principali
di
crescita
potranno
essere
la
concentrazione oppure la diversificazione), la predisposizione di un piano di
investimenti da compiere per realizzare la strategia prescelta e, infine, la messa a
punto di un piano organizzativo per creare le strutture più idonee a dare
attuazione alla strategia di sviluppo. Il piano strategico può, quindi, essere
idealmente scomposto nel piano di sviluppo, nel piano degli investimenti e nel
piano organizzativo.
Il piano operativo, invece, è un piano di breve-medio termine, di adattamento,
centrato prevalentemente sulle funzioni aziendali. Esso è scomposto in segmenti
annuali, il primo dei quali, di norma, presenta il massimo grado di analiticità, in
quanto dovrà guidare lo svolgimento delle operazioni correnti d’esercizio. In
pratica, il piano di medio termine verrà fatto “scorrere” nel tempo, in modo da
coprire sempre un uguale periodo di gestione. La tecnica dello scorrimento
consisterà nell’aggiungere, anno per anno, un nuovo segmento annuale, dopo
aver eventualmente rettificato i segmenti precedenti in rapporto ai risultati
dell’esercizio appena concluso. In tal modo, l’impresa disporrà sempre di un
programma triennale articolato in segmenti annuali.
Esempio. Supponendo che il piano si riferisca al triennio 2010-2012, al termine
dell’anno 2010 si correggeranno, se necessario, i programmi già fissati per il 2011
e 2012 e poi si aggiungerà quello relativo al 2013.
Dalle considerazioni fino ad ora riportate appare evidente che la funzione di
programmazione necessità di alcune caratteristiche essenziali: formalizzazione,
integrazione, quantificazione e pluriennalità.
Caratteristiche della funzione di programmazione
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
Un piano si sostanzia nell’indicazione di sequenze di decisioni ed operazioni
finalizzate al raggiungimento di obiettivi stabiliti. L’ottenimento degli obiettivi è
subordinato alla possibilità di adottare opportune politiche gestionali e alla
disponibilità di un determinato stock di risorse. In modo più specifico, gli obiettivi
rappresentano i traguardi cui dovrà tendere l’organizzazione, le politiche
costituiscono le linee generali d’azione, le attività configurano i flussi operazioni
da attuare durante la gestione e le risorse si pongono quali opportunità-vincoli da
rispettare nello svolgimento di tali operazioni.
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
L’impresa opera in un sistema di vincoli, interni ed esterni, che necessariamente
condizionano la programmazione aziendale.
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
La programmazione di lungo termine ha carattere innovativo e può modificare il
sistema di vincoli entro cui l’impresa opera. La programmazione di breve termine
è di adattamento.
3. La funzione di conduzione e gestione del personale
La funzione di conduzione e gestione del personale consiste nella ricerca,
inserimento, impiego e motivazione del personale da assegnare alla gestione delle
attività d’impresa15. Il suo obiettivo è l’ottenimento del miglior rendimento
dell’organizzazione.
La conduzione e gestione del personale si manifesta nello svolgimento di un
insieme di operazioni spesso molto diverse tra loro, le quali iniziano col processo
di reclutamento e poi di selezione e assunzione del personale, continuano, in
ordine temporale, con l'addestramento e la formazione, con l'inserimento
nell'ambiente di lavoro e con la guida durante lo svolgimento dell'attività.
Fasi della funzione di cogestione del personale
Reclutamento
Selezione dei candidati
Assunzione (contratto di lavoro)
Addestramento e formazione
Inserimento nell’ambiente di lavoro
Il reclutamento è la fase che da inizio alla funzione di direzione del personale
ed è il momento in cui l’impresa, dopo aver individuato le posizioni di lavoro da
coprire, ricerca le persone da inserire all’interno della sua struttura organizzativa.
L’obiettivo del reclutamento è di prendere contatto, nel più breve tempo
possibile, con un numero di candidati sufficiente per soddisfare al meglio i criteri
di selezione a un costo contenuto (Costa, 1997).
Le fonti di reclutamento si distinguono in fonti interne e fonti esterne.
Si parla di fonti interne quando l’impresa decide di ricercare il personale per la
posizione da ricoprire tra i propri lavoratori, scegliendo così di far crescere in
qualche modo una risorsa interna.
15
Alcuni autori (Sciarelli, 2008) distinguono la funzione del personale in due parti distinte: la conduzione del personale
e la gestione del personale. La funzione di conduzione del personale è riferita ai problemi d’impiego e di guida delle
risorse umane presenti in azienda, mentre la funzione di gestione del personale è riferita più specificamente alle fasi del
reclutamento, selezione, addestramento, formazione e inserimento nell’ambiente di lavoro. In questa sede, pur
riconoscendo la validità di tale distinzione, si è preferito non realizzare tale distinzione e si sono quindi considerate
congiuntamente la conduzione del personale con la gestione del personale.
Si parla, invece, di fonti esterne quando l’impresa ricerca il nuovo personale
all’esterno della stessa. Sono fonti esterne: le scuole di specializzazione e le
università; i centri per l’impiego, le società di reclutamento ecc. Gli strumenti più
utilizzati per il reclutamento sono gli annunci sulla stampa (inserzione) o il
concorso pubblico.
Esempio di inserzione
Profilo: Impiegato amministrativo.
Il
profilo prescelto si occuperà di affiancare il responsabile dell’ufficio,
effettuando registrazioni contabili e controllando gli incassi giornalieri. Il
candidato ideale ha un’età compresa tra i 24 ed i 30 anni, possiede la laurea in
economia (o un titolo equivalente), ha una buona conoscenza del pacchetto office
ed ha maturato una precedente esperienza nella medesima mansione. La sede di
lavoro è Cagliari
La selezione consiste nell’insieme di attività coordinate che sono attuate
dall’impresa al fine di scegliere tra più candidati quelli aventi le caratteristiche
migliori per svolgere le mansioni prestabilite. La selezione avviene tra i candidati
reperiti per effetto del processo di reclutamento.
L’impresa, di norma, realizza un primo stadio di selezione attraverso l’analisi
dei curriculum vitae presentati dai candidati. A seguito di questa prima
scrematura vengono avviate le procedure di selezione attraverso colloqui, test,
prove ecc.
Strumenti di selezione
Analisi dei curriculum vitae presentati dai candidati
Intervista
Prove attitudinali
Controllo delle referenze
Esame del candidato durante l'addestramento
Visita medica
La tecnica certamente più utilizzata nella selezione è il colloquio o intervista. Il
colloquio pur essendo uno strumento dell’impresa, favorisce uno scambio di
informazioni tra l’intervistatore e l’intervistato.
L'intervistatore ha l’obiettivo di acquisire in tempo limitato le informazioni utili
per valutare le caratteristiche del candidato in funzione della posizione da
ricoprire, mentre il candidato ha l’obiettivo di riuscire ad ottenere il maggior
numero di informazioni possibili per valutare le caratteristiche della posizione di
lavoro in funzione dei propri interessi e delle proprie motivazioni .
L’assunzione si concretizza con la predisposizione del contratto di lavoro, dove
verranno specificati gli impegni assunti dal datore di lavoro e dal dipendente. Per
esempio, nel contratto di lavoro sarà specificato il sistema di avanzamento delle
carriere, i sistemi di incentivazione, l’orario di lavoro, ecc.
La fase successiva a quella dell’assunzione è la fase di addestramento che si
concretizza nell’insieme di attività pianificate dal “capo” attraverso le quali una
persona impara a fare un lavoro.
L’attività di formazione è tesa ad attivare processi di apprendimento per
migliorare a tutti i livelli la professionalità e l'operatività.
L’inserimento del dipendente nell'ambiente di lavoro, consiste, infine,
nell’assegnazione al dipendente della posizione organizzativa nella quale dovrà
svolgere la sua funzione.
3.1. Teorie sulla conduzione del personale: il concetto di uomo
La funzione di conduzione del fattore umano, come evidenziato nel
precedente paragrafo, ha per obiettivo l’ottenimento del miglior rendimento
dell’organizzazione e riguarda i problemi d’impiego e di guida delle risorse umane
presenti in una determinata impresa.
Lo stile di direzione impiegato per la conduzione del personale, cioè il modello
di governo dei rapporti di lavoro nell’organizzazione, è, secondo Mc Gregor,
influenzato dalla teoria scelta come modello di riferimento per la concezione dell
rapporto dell’uomo con il lavoro.
In
particolare,
tre
possono
essere
considerate
le
principali
teorie
organizzative che hanno studiato il rapporto tra uomo e lavoro all’interno
dell’organizzazione: l’organizzazione scientifica del lavoro, la scuola delle relazioni
umane, la visione sistemica.
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
L’organizzazione scientifica del lavoro fa riferimento al contributo di Taylor16
che,
nell’opera
Principi
di
organizzazione
scientifica
del
lavoro
(1911),
nell’affrontare il problema del basso rendimento degli operai attribuisce tale
fenomeno a due ragioni principali: da un lato, all’ignoranza e alla natura umana
(gli uomini sono di norma pigri ed hanno poca voglia di lavorare), dall’altro lato,
agli inadeguati metodi organizzativi.
Per eliminare le cause che rallentano la produzione, secondo Taylor è
necessaria una trasformazione radicale non solo del modo di produrre ma
dell’intera struttura organizzativa. In particolare, egli propone uno studio
scientifico17 dei metodi di lavorazione, studio che si basa essenzialmente su un
principio metodologico generale: esiste sempre e comunque un metodo unico e
migliore per risolvere problemi o compiere azioni di qualunque genere (one best
way).
E’ proprio nello sviluppo del cosiddetto one best way che Taylor spiega gli
immensi vantaggi derivanti alla produzione se si sostituiscono i movimenti lenti
con quelli rapidi, se si eliminano gli atti elementari inutili, e si cronometra il
tempo necessario per eseguire ogni singolo movimento.
16 Taylor F. W., L’organizzazione scientifica del lavoro, op. cit., pag. 148.
17 “Il suo metodo è scientifico non soltanto perché prevede analisi sistematiche, comparate e con misure esatte di tutti
gli aspetti della produzione. Esso è scientifico anche perché, opponendosi all’empiria dei capireparto tradizionali,
discende direttamente dalla direzione centrale. E’ questa che deve assumere in prima persona l’iniziativa strategica di
centralizzare il potere, razionalizzare i metodi produttivi e stabilire ferree gerarchie. Questa massima affermazione del
principio organizzativo ha bisogno di una legittimazione. Taylor la dà in nome della scienza”. Bonazzi G., Storia del
pensiero organizzativo, op. cit., pag. 35.
L'immagine d'uomo nell’organizzazione che emerge dal pensiero di Taylor
presenta dei forti connotati meccanicistici18, in quanto l’uomo è visto più come
strumento da utilizzare al meglio all’interno dell’organizzazione piuttosto che
come individuo da motivare e da far partecipare alle decisioni aziendali.
Differenti dall’organizzazione scientifica del lavoro sono le teorie riconducibile
alla Teoria delle relazioni umane e all’approccio per sistemi. Entrambi queste
teorie non considerano l’uomo come un ingranaggio che si lascia inserire
passivamente nel sistema aziendale, ma come un elemento attivo da motivare e
coinvolgere nel processo decisionale.
3.2. Gli stili di direzione
Le differenti concezioni che hanno preso in considerazione il rapporto tra
l’uomo e l’organizzazione hanno, chiaramente, alla loro base un differente stile di
direzione, cioè un differente modello di governo dei rapporti di lavoro
nell’organizzazione. Per comprendere tale affermazione, appare, necessario fornire
una definizione di stile di direzione.
Lo stile di direzione può definirsi come l'insieme dei comportamenti
manageriali, derivanti dai valori e dai convincimenti esistenti e stabilizzati in un
modello di rapporto umano utilizzato nelle relazioni di potere all'interno
dell'organizzazione e in specie nell'esercizio della leadership e nello svolgimento
del rapporto di lavoro (Usai, 1997). E' evidente che dal modello adottato dipende il
«clima» umano che caratterizza le relazioni di potere, posto che il soggetto
subordinato non è indifferente al tipo di modello prescelto e che quindi reagisce in
termini di grado e tipo di autorità riconosciuta al soggetto che gli è preposto.
Per Mac Gregor (1960), nel momento in cui i dirigenti prendono in
considerazione la relazione che i loro dipendenti hanno con il lavoro, fanno
riferimento a due teorie: la teoria X e la teoria Y. La teoria X richiama le teorie
tradizionali, come l’organizzazione scientifica del lavoro, secondo cui l’uomo non
ama il lavoro, fa di tutto per evitarlo, si sforza solo se è obbligato. Partendo da tali
18 "L'espressione più visibile dell'analogia meccanicistica (impresa come macchina) è una conseguenza dell'approccio
analitico-riduzionistico utilizzato nel campo di studi dell'impresa e riscontrabile principalmente, sotto un profilo
teorico, nell'opera di F. W. Taylor.
Al riguardo, Taylor propone una rappresentazione dell'impresa in un modello formale dal quale scaturisce una visione
meccanicistica e deterministica della dinamica imprenditoriale. Ne risulta una costruzione concettuale che pone una
maggiore enfasi sulla struttura, ossia sulle componenti e sulle relazioni che tra queste si instaurano, piuttosto che sulle
relazioni con l'esterno e, quindi, sulle proprietà emergenti del sistema". Golinelli G., L'approccio sistemico al governo
dell'impresa. L'impresa sistema vitale, Volume I, CEDAM, Padova, 2000, pag. 40.
presupposti propone uno stile di direzione incentrato sull’autorità e il comando.
La «Teoria Y» parte dal presupposto che le persone tendano spontaneamente ad
assumere responsabilità, abbiano per natura un atteggiamento di lealtà e di
impegno, si identifichino con l'impresa, con gli obiettivi e con la professione. Tale
teoria si sostanzia in uno stile di direzione basato su una concezione
«democratica»
dell'individuo,
che
tende
a
favorire
la
motivazione
e
la
responsabilizzazione dei soggetti per il tramite della realizzazione dei presupposti
per una forte identificazione dell'individuo con la propria organizzazione.
Nella realtà nessuno dei due stili di direzione è applicato integralmente.
Qualsiasi impresa richiede l’esistenza di una gerarchia attorno a cui costruire,
mediante la motivazione, dei rapporti di consenso e collaborazione. A questo
punto è necessario capire che cosa si debba intendere per motivazione.
3.3. La motivazione
Il significato attribuibile al termine motivazione, pur essendo utilizzato con
riferimento a comportamenti abbastanza eterogenei, può essere ricondotto a due
filoni di studio principali, tra loro complementari:
•
le teorie del contenuto, focalizzate sui tipi di bisogno che motivano le
persone all’azione19;
•
le teorie di processo, che si concentrano ad esaminare quali fattori
influiscono sulle scelte degli individui portandoli ad assumere un
determinato comportamento piuttosto che un altro20.
Nelle teorie del contenuto il termine motivazione viene utilizzato nel significato
generale di forza che spinge l’uomo ad agire per soddisfare le proprie esigenze21,
mentre nelle teorie del processo lo stesso concetto fa riferimento al come i diversi
stati interiori all’individuo lo portano a selezionare percorsi d’azione alternativi22.
19
Tra gli autori delle teorie del contenuto è opportuno ricordare: MASLOW A., Motivation and Personality, Harper and Brothers, New
York, 1954; ALDERFER C., Existence Relatedness, and Growth: Human Needs in Organizational Setting, Free press, New York,
1972; HERZBERG F., Work and the Nature of Man, World Pub., New York, 1966; MCCLELLAND D.C., The Achieving Society, D. Van
Nostrand Company Inc., Princeton, 1961.
20
Tra i sostenitori delle teorie di processo ricordiamo tra gli altri: VROOM V.H., Work and Motivation, Wiley, New York, 1964;
PORTER L.V.V., LAWLER E.E., Managerial Attitudes and Performance, Irwin-Dorsey, Homewood, 1968.
21
In tale accezione, Lorenzo Caselli definisce le motivazioni come «quelle forze interne di natura psicosociologica che provocano un
comportamento particolare dell’individuo». CASELLI L., Teoria dell’organizzazione e processi decisionali dell’impresa, Giappichelli
editore, Torino, 1966, p. 92.
22
Nell’ambito del presente contributo, le due definizioni considerate verranno utilizzate in modo complementare, il termine
motivazione verrà quindi usato sia nel significato di forza che dà avvio al comportamento d’acquisto, sia nel significato di processo
interiore che guida l’azione.
Tra le teorie del contenuto, la più nota è quella elaborata da Abraham Maslow23
che propone cinque categorie di bisogni che è possibile collocare lungo una scala
gerarchica. Più in dettaglio, secondo l’Autore, i bisogni differiscono tra di loro per
natura e per grado di complessità: ci sono quelli definibili primari, o biologici
(come mangiare e dissetarsi) e quelli secondari, determinati dal contesto sociale e
culturale in cui si trova il soggetto.
La motivazione
Tre persone erano al lavoro in un cantiere edile.
Avevano il medesimo compito,
ma quando fu loro chiesto quale fosse il loro lavoro,
le risposte furono diverse.
"Spacco pietre" rispose il primo.
"Mi guadagno da vivere" rispose il secondo.
"Partecipo alla costruzione di una cattedrale" disse il terzo.
Peter Schultz
I livelli dei bisogni, in base alla scala gerarchica di Maslow, possono essere così
classificati:
♦ bisogni fisiologici: riguardano la sopravvivenza immediata. Rientrano in
questo livello: il mangiare, il dormire, il bere, il ripararsi dal freddo, ecc.;
♦ bisogni di sicurezza: riguardano la sopravvivenza nel lungo periodo. In
tale categoria si può ricomprendere la sicurezza del posto di lavoro, della
casa, della salute, dell’assicurazione ecc.;
♦ bisogni di appartenenza o socialità: riguardano l’esistenza di un
ambiente sociale gradevole. Costituiscono alcuni esempi di tali bisogni:
l’identi-ficazione in un gruppo, l’appartenenza ad un partito, ecc.;
♦ bisogni dell’ego: riguardano l’aspirazione ad un riconoscimento sociale
del proprio status, come il prestigio, il rispetto di sé, la stima o il
riconoscimento;
♦ i bisogni di autorealizzazione: riguardano l’aspirazione ad un lavoro che
arricchisca la dimensione psicologica interiore dell’uomo.
23
Cfr. MASLOW A., Motivation and Personality, op. cit.
L’ipotesi di Maslow è che l’ordine gerarchico dei bisogni stabilisce anche
l’ordine di priorità della loro soddisfazione: non sarà possibile l’insorgenza di
bisogni di ordine superiore se non dopo l’avvenuta soddisfazione di bisogni di
ordine inferiore.
3.4. Il processo motivazionale nell’impresa
All’interno delle imprese il processo motivazionale dell’individuo si realizza
quando alcuni degli obiettivi dell’organizzazione divengono anche obiettivi del
lavoratore. Nel momento in cui si realizza un adeguato livello di integrazione tra
obiettivi individuali e obiettivi organizzativi l’individuo si sente integrato
nell’organizzazione e motivato a prestare la propria attività lavorativa all’interno
della stessa .
Il processo motivazionale all’interno dell’impresa può essere distinto in due
parti: motivazione a produrre ed a partecipare:
la motivazione a partecipare induce l’individuo ad accettare l’inserimento
nell’organizzazione;
la motivazione a produrre, invece, influenza le decisioni inerenti lo sforzo e
l’impegno da erogare nell’organizzazione.
I due tipi di motivazione rispondono a stimoli diversi e richiedono, quindi,
l’adozione di distinte tecniche e incentivi (Sciarelli, 2008).
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
La motivazione a partecipare può essere favorita dall’esistenza di una leadership
adeguata e dall’analisi delle mansioni.
Il concetto di leadership è tutt’oggi alquanto ambiguo poiché include in sé
diverse definizioni. I diversi approcci teorici, hanno enfatizzano diversi aspetti
relativi alla leadership: le qualità e capacità intrinseche del leader, le
caratteristiche dei seguaci e le modalità con cui il leader riesce ad influenzare le
azioni e gli atteggiamenti del gruppo di lavoro.
Si definisce comunemente con il termine leadership l'esercizio di potere
associato all'autorità24 e quindi basato, oltre che sulle condizioni per l'esercizio
del potere formale, anche sulle norme di riconoscimento dell'autorità. In concreto
risulta che si possono verificare situazioni di esercizio del potere associate, ovvero
dissociate, in presenza o in assenza di autorità: la leadership emerge solo nel caso
di associazione tra potere e autorità.
Non esistono delle caratteristiche precise che possono essere considerate
necessarie per essere leader, si può piuttosto affermare che, in generale, la
leadership è esercitata da chi ha la capacità di guidare un gruppo25 e di
comprendere il sistema di «valori», di attese, di propensioni, che caratterizzano gli
individui coinvolti nell’organizzazione. Nel momento in cui all’interno dell’impresa
è possibile individuare una leadership aziendale è più facile che nei dipendenti si
sviluppi la motivazione a partecipare.
Per quanto concerne, invece, l’analisi delle mansioni (o job evaluation), fa
riferimento allo studio sistematico e approfondito delle singole posizioni
organizzative. Tale attività è diretta a:
-
valutare le caratteristiche delle operazioni e dei compiti connesse alle
singole posizioni;
-
stimare le conoscenze e le capacità richieste all’esecutore;
- definire le responsabilità nei confronti delle altre unità organizzative.
La motivazione a produrre, invece, può essere favorita all’interno dell’impresa
dalla utilizzazione di un sistema premiante e dal ricorso a strumenti di
ristrutturazione del lavoro come.
24
“ L'autorità deve essere intesa in modo speculare rispetto al potere formale, nel senso che, pur implicando entrambi i
concetti le relazioni tra soggetto detentore del potere e dell'autorità e soggetto destinatario di esse, nel caso del potere
l'esercizio ha come soggetto di base il detentore, mentre l'autorità ha come soggetto di base il destinatario che crea i
presupposti per la legittimità del potere stesso”. Usai G., L’efficienza nelle organizzazioni, op.cit., pag. 129.
25
La parola leader deriva dal verbo inglese to lead, che significa guidare, condurre, dirigere.
Il sistema premiante è dato dalla possibilità offerta in termini di sviluppo di
carriera a chi dimostri di avere più capacità professionale e maggiore volontà di
impegnarsi.
Gi strumenti per la ristrutturazione del lavoro, invece, possono essere così
sintetizzati:
- Job enlargement (allargamento delle mansioni): consiste nella semplice
somma di compiti a uno stesso livello. Per esempio: nella catena di montaggio un
allargamento delle mansioni può portare il passaggio da una fase di lavorazione di
pochi secondi ad una di qualche minuto;
- Job rotation (rotazione delle mansioni): consiste nella possibilità offerta ai
dipendenti di poter svolgere periodicamente compiti diversi all’interno di uno
stesso livello al fine di evitare la monotonia derivante dalla ripetitività del lavoro
svolto;
- job enrichment (arricchimento delle mansioni):consiste nel miglioramento
della qualificazione professionale ed in un maggior controllo sulla situazione di
lavoro e sulla conseguente responsabilizzazione.
Il ricorso a tali strumenti può favorire la motivazione a produrre da parte dei
dipendenti.
4. La funzione di controllo
La funzione direzionale di controllo consente di verificare la conformità dei
risultati ottenuti, in seguito allo svolgimento dell’attività dell’impresa, rispetto alle
scelte definite in sede di organizzazione e di programmazione della gestione.
In via generale, si può affermare che il controllo è necessario per assicurare
l’ordinato svolgimento dell’attività aziendale.
Tale processo si svolge in tre momenti successivi e complementari:
a) in via antecedente rispetto all’azione (mediante i vari tipi di analisi di mercato,
le tecniche di ricerca operativa ecc.);
b) in via concomitante allo svolgimento dell’azione (mediante l’analisi degli
scostamenti tra le prestazioni realizzate e gli obiettivi fissati in sede di
programmazione);
c) in via susseguente per mezzo della costruzione di indici di rendimento o di
efficienza aziendale.
Il controllo antecedente serve a valutare in via preventiva l’adeguatezza di alcune
scelte ed è strettamene collegato con la funzione di programmazione, in quanto
può essere considerato una forma di controllo anticipato delle future linee di
gestione.
Il controllo concomitante ha lo scopo di guidare, a tutti i livelli dell’organizzazione,
l’attuazione dei piani formulati. Appare, quindi, evidente, che anche tale modalità
di controllo è collegata con la funzione di programmazione.
Il
controllo
susseguente,
infine,
fa
specifico
riferimento
alla
valutazione
dell’efficienza e dell’efficacia della gestione, cioè come strumento d’indirizzo per la
formulazione delle decisioni future.
Il controllo direzionale comprende il controllo operativo, le valutazioni di
rendimento e il controllo strategico.
1. Il controllo operativo si distingue in due fasi: il controllo antecedente e il
controllo concomitante. Tale tipologia di controllo consente di verificare il
raggiungimento dei risultati economici e finanziari della gestione operativa;
2. La valutazione di rendimento rientra nel controllo susseguente allo
svolgimento delle prestazioni e si concretizza nella misurazione del grado di
efficienza e di efficacia della gestione aziendale;
3. Il controllo strategico, infine, è di tipo prospettico, ed è teso a verificare la
congruenza dell’azione rispetto all’evoluzione della condizione interna
dell’impresa ed ambientale.
Controllo di direzione
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
4.1. Il controllo operativo concomitante
Il controllo operativo concomitante, come messo in risalto in precedenza, può
essere definito come la procedura attuata, durante lo svolgimento delle operazioni
aziendali allo scopo di seguire lo sviluppo della gestione e di assicurare, nei limiti
del possibile, il rispetto degli obiettivi fissati in sede di costruzione dei piani.
Ogni sistema di controllo si compone di quattro fasi principali:
1) la fissazione degli obiettivi e degli standard da raggiungere;
2) la rilevazione e misurazione dei risultati ottenuti
3) l’analisi causale degli scostamenti
4) gli interventi di correzione
Fonte: Sciarelli S., Elementi di Economia e Gestione delle Imprese, Cedam 2008
Per ogni attività da compiere si stabiliscono degli obiettivi (es. produrre un certo
numero di pezzi, vendere una determinata quantità di prodotti finiti, ecc.), da
sottoporre a controllo. Gli obiettivi possono essere desunti dalla programmazione
formulata o essere fissati in fase di attuazione di specifiche politiche o azioni.
La fissazione degli obiettivi è un momento importante nell’impostazione del
processo di controllo operativo perché, se essi non sono realistici e chiaramente
definiti, sarà difficile attribuire la dovuta rilevanza alle successive fasi di
misurazione e di analisi dei risultati conseguiti.
Il raffronto tra gli obiettivi fissati e i risultati conseguiti potrà fare emergere degli
scostamenti non accettabili e indurre ad analizzare le cause scatenanti. L’analisi
causale è particolarmente rilevante perché deve fornire gli elementi necessari a
comprendere i fattori che hanno determinato le deviazioni. Un’analisi non corretta
può, infatti, indirizzare in modo sbagliato gli interventi di gestione. Va, peraltro
precisato, che l’analisi causale termina con gli interventi di correzione (in
decisioni sul piano operativo) solo quando le deviazioni dagli standard eccedono i
limiti previsti.
Schema del controllo operativo del piano di vendita
ORGANI
PERIFERICI
DI VENDITA
REPARTO VENDITE
Dati analitici di
vendita
REPARTO
AMMINISTRAZIONE
VENDITE
REPARTO PROGRAMMAZIONE E
CONTROLLO
Analisi degli scostamenti
ALTRE
LINEE
FUNZIONALI
DIREZIONE COMMERCIALE
Interventi correttivi
REPARTO
VENDITE
REPARTO
PROGRAMMAZ. E
CONTROLLO
REPARTO
PROMOZIONE
VENDITE
Fonte: rielaborazione personale da Sciarelli (1991)
4.2. Le misurazione di efficienza ed efficacia della gestione
La funzione di controllo di gestione non può considerarsi ancora concluso
una volta realizzato il controllo operativo concomitante, ma deve essere seguito
dalle valutazioni sui rendimenti. Questi ultimi rappresentano dei controlli a
posteriori (fine esercizio) del rendimento dei vari fattori impegnati nella
combinazione produttiva. Essi misurano l’efficienza e l’efficacia della gestione.
L’efficienza viene misurata dal rapporto tra i risultati conseguiti e le risorse
impegnate, mentre l’efficacia è misurata dal rapporto tra gli obiettivi ottenuti e
quelli che si sarebbero dovuti conseguire26.
In altri termini il concetto di efficienza richiama il conseguimento del
risultato voluto con il minimo impiego di risorse; mentre il concetto di efficacia
esprime la corrispondenza tra il risultato di un'azione, o comunque di una
26
Nell’ambito della presente dispensa nel parlare di funzione di controllo direzionale si prenderà in considerazione il
concetto di efficienza inteso in senso ampio, tanto da includere anche il concetto di efficacia.
circostanza, e un modello, o standard, utilizzato per indicare la positività del
risultato stesso. “Mentre l'efficienza evoca il conseguimento del miglior risultato
possibile con il minimo impiego di risorse, l'efficacia evoca il conseguimento di un
risultato in modo superiore o uguale al modello o standard ipotizzato,
indipendentemente dal quantum di risorse impiegate o, estremizzando il concetto,
dal fatto che la prestazione abbia richiesto impiego di risorse” (Usai, 1997, pag.
10)
Il concetto di efficienza in senso globale non è facilmente misurabile perché è
difficile individuare un unico valore o un unico indice che possa essere
considerato rappresentativo del risultato della gestione aziendale. Per questi
motivi si utilizzano diverse grandezze per la sua misurazione ed in particolare: il
reddito di esercizio, il cash flow e il margine o utile operativo.
Il reddito di esercizio è considerato una misura parziale del risultato della
gestione, perché riferito ad un segmento annuale, difficilmente derivabile
dall’andamento degli anni precedenti e da quelli successivi. Il reddito, infatti,
viene considerato un elemento significativo solo nel lungo periodo.
Per questi motivi, si considerano maggiormente indicativi, quali elementi di
valutazione dell’efficienza aziendale, il cash flow e il margine o utile operativo.
Il cash flow è dato dalla sommatoria dell’utile netto, degli ammortamenti e
degli accantonamenti al netto degli usi. Il suo valore è indicativo della capacità di
autofinanziamento
dell’impresa
e,
per
questa
ragione,
viene
considerato
maggiormente espressivo del risultato della gestione.
Il margine operativo lordo (MOL) è un indicatore di redditività che evidenzia il
reddito di un’ impresa basato solo sulla sua gestione caratteristica al lordo,
quindi, di interessi (gestione finanziaria), tasse (gestione fiscale), deprezzamento
di beni e ammortamenti. Il MOL permette, in altri termini, di vedere se l'impresa è
in grado di generare ricchezza tramite la gestione operativa e d è per questo che
viene considerato maggiormente indicativo del reddito d’esercizio.
I valori sintetici fin qui richiamati, come mette in risalto Sciarelli (2001) non
forniscono informazioni relative alla misura dell’efficienza interna ed esterna,
occorre quindi prendere in considerazione altri elementi da sottoporre alla
funzione di controllo. Si vuole, in particolare, fare riferimento all’efficienza
organizzativa, economica e di mercato dell’impresa.
L’efficienza organizzativa riguarda la struttura, le procedure e gli uomini
impegnanti nell’impresa. Il rendimento dell’organizzazione può essere, infatti,
influenzato dal modello di organigramma adottato, dalle procedure definite per
l’attività direzionale ed esecutiva e dal saper fare, saper essere e sapere
relazionale degli individui impegnati all’interno dell’organizzazione.
La misurazione di tale tipo di efficienza viene realizzata attraverso il ricorso a
misure che consentano la valutazione del personale e analisi organizzative
appropriate.
Il rendimento del personale è determinato attraverso indici quantitativi e
qualitativi, di cui il più importante è l’indice di produttività, che si determina
rapportando il risultato conseguito con lo sforzo sostenuto. La produttività
consente di misurare l’efficienza del lavoro sia umano che meccanico.
La produttività, essendo un indice quantitativo di rendimento, non offre
nessuna informazione sulla qualità delle prestazioni rese. Occorre, quindi
affiancare, alle misurazioni della produttività, la valutazione degli aspetti
qualitativi del lavoro (ad . es quantità di materie impiegate, sfridi di produzione
ecc.).
L’efficienza economica può essere misurata avvalendosi i due indici
quantitativi:
- l’indice di economicità;
- L’indice di redditività.
Il primo consente di misurare la situazione di equilibrio o di squilibrio
esistente nel conto economico aziendale e viene costruito ponendo al numeratore
i costi e al denominare i ricavi della gestione.
L’indice di redditività, invece, viene misurato attraverso il ricorso ad un
insieme di indici che permettono di osservare la capacità di un'impresa di
produrre reddito e di generare risorse.
In particolare, l’indice di redditività aziendale esprime, in senso globale, il
risultato ottenuto dai mezzi destinati all’attività dell’impresa e si calcola
rapportando al reddito o utile d’esercizio, il risultato ottenuto dai mezzi destinati
all’attività aziendale (reddito netto/ Capitale netto iniziale + Capitale netto finale)
Gli indici di redditività sono in realtà molteplici: ROE27, ROS28, ROI29 ecc.
L’indice di efficienza esterna o di mercato (Sciarelli, 2001), infine, è
rappresentato dalla quota di mercato.
La quota di mercato indica la percentuale delle vendite di un'impresa sul
totale delle vendite del settore di mercato cui l'impresa appartiene. In particolare,
la quota di mercato di un prodotto può essere definita come l’ammontare delle
vendite del prodotto, espresso in percentuale sulle vendite complessive del
mercato:
Quota di mercato di un prodotto
QMi
=
Qi
Q
Dove:
QMi = Quota di mercato del prodotto i
Qi = Vendite in quantità o in valore del prodotto i
Q = Vendite totali del mercato di riferimento
Dalla definizione di quota di mercato sopra riportata appare evidente che la sua
misurazione è resa complessa dalla difficoltà di definire il mercato di una
specifica impresa. C’è inoltre da precisare che mentre gli altri indici di efficienza
presi in considerazione in precedenza possono essere determinati utilizzando dati
interni, la determinazione della quota di mercato richiede la conoscenza delle
vendite globali di un determinato mercato e, quindi, si avvale di un dato esterno.
Un altro strumento che viene utilizzato per misurare l’efficienza esterna è il
benchmarking, cioè l’attività sistematica di controllo della concorrenza mediante il
confronto delle performance realizzate. Si tratta, in altri termini, di uno
strumento, che persegue la finalità di comprendere i fattori che determinano il
vantaggio competitivo dei migliori concorrenti, attraverso un confronto della
propria organizzazione con altre similari o identiche. Lo scopo è di individuare le
27
Il ROE (return on equity) indica la redditività del patrimonio netto, ovvero il ritorno economico
dell’investimento effettuato dai soci dell’impresa. ROE = Utile netto/Capitale netto.
28 Il ROS (return on sale) misura la redditività delle vendite in termini di gestione caratteristica
(reddito operativo). ROS = Reddito operativo/ Fatturato
29
Il ROI è l’indice di redditività del capitale investito. Esso esprime, cioè, quanto rende il capitale
investito in una determinata impresa. ROI = Risultato operativo/Capitale investito.
cause del vantaggio competitivo osservando le best practices delle imprese
concorrenti.
Il valore comparativo dell’analisi è influenzato dalla corretta selezione delle realtà
aziendali da confrontare.
4.3. Le tecniche di valutazione dell’efficienza aziendale
Sono molteplici le tecniche che possono essere utilizzate per la valutazione
dell’efficienza aziendale. Nell’ambito della presente dispensa si prenderà in
considerazione solo una di tali tecniche: il diagramma di redditività impiegato per
misurare la potenzialità economico-strutturale dell’impresa.
La potenzialità economico-strutturale dell’impresa, come messo in risalto nei
capitoli precedenti, è uno dei vincoli interni all’impresa che condiziona lo
svolgimento della sua gestione. Essa dipende dalla struttura dei costi e dei ricavi
aziendali e, in particolare, attiene al rapporto che intercorre tra costi fissi, costi
variabili e ricavi.
Il criterio più utilizzato per distinguere i costi fissi e variabili è il volume di
produzione: sono fissi quei costi che non mutano al mutare dei volumi di
produzione, viceversa sono variabili quei costi la cui altezza dipende dalla
quantità prodotta. Alcuni esempi di costi variabili sono rappresentati dal costo
delle materie prime consumate durante il processo produttivo, dai costi delle
lavorazioni esterne, dai costi di energia elettrica del macchinario, dai costi delle
provvigioni e dai costi dei trasporti. Mentre sono esempi di costi fissi le quote di
ammortamento, gli affitti e canoni, le manutenzioni, la pubblicità e gli stipendi
tecnici, commerciali e amministrativi. In realtà esiste anche una terza di classe di
costi denominata costi semivariabili (o semifissi): sono quei costi che non possono
essere considerati né totalmente variabili, né totalmente fissi, come ad esempio, si
potrebbero considerare tali i costi dell’energia oppure i costi di alcuni stipendi e
salari (una parte fissa, l’altra parte legata alle quantità prodotte o vendute). Nella
pratica si considerano totalmente fissi o variabili, secondo la prevalenza dell’una
o dell’altra componente oppure la parte fissa è separata da quella variabile.
Lo strumento utilizzato per misurare le potenzialità economico-strutturali
dell’impresa è il diagramma di redditività.
Una volta introdotti tutti i parametri utili allo studio della potenzialità
economico strutturale, vale a dire prezzi e costi (fissi e variabili), è possibile
introdurre l’equazione del profitto (Sciarelli, 2008).
In base all’equazione del profitto:
RO = P x Q - Cvu x Q - CF
dove:
RO = reddito operativo
P = prezzo
Q = quantità
PxQ = ricavi totali
Cvu = Costi variabili unitari
Cvu x Q = Costi variabili totali
CF = costi fissi totali
Attraverso l’equazione del profitto è possibile determinare il punto di pareggio
o break even point (BEP), cioè l’ammontare delle vendite che consente di coprire
tutti i costi aziendali e andare in pareggio, ossia avere un RO = 0. Fissato a zero il
reddito operativo, la quantità di break even è cosi determinabile.
P x Q - Cvu x Q – CF = 0
P x Q = Cvu x Q + CF
P x Q - Cvu x Q = CF
(P - Cvu) Q = CF
Q*= CF/ (P-Cvu)
Q* è la quantità in corrispondenza della quale i ricavi totali e costi totali si
eguagliano, per cui il reddito operativo si annulla. La quantità presente al
denominatore è il margine di contribuzione unitario, e può essere definito come il
contributo che la vendita di ogni unità di bene prodotta e venduta porta alla
copertura dei costi fissi della gestione caratteristica e alla formazione del reddito
operativo (Di Martino, Parolini, 1994).
Questa relazione può anche essere espressa graficamente attraverso il diagramma
di redditività rappresentato nelle figure sottostanti.
Fonte :http://www.univirtual.it/corsi/fino2001_I/daltoso/m06/immagini/bep.gif
Fonte: http://digilander.libero.it/valentinaanzalone/Immagini/Mat_Grafico_2.GIF
Nel grafico sopra riportato Q rappresenta la quantità di break even, in
corrispondenza della quale l’impresa non ha degli utili ma non consegue neanche
delle perdite. Se l’impresa dovesse produrre e vendere una quantità inferiore a
quella del punto di pareggio, si troverebbe in una situazione di perdita, perché le
vendite non sarebbero sufficienti a coprire i costi totali dell’impresa. Se le
quantità prodotte e vendute fossero, invece, superiori al punto di pareggio,
l’impresa si troverebbe nell’area dell’utile, per cui le vendite sarebbero sufficienti a
coprire i costi e ad avere un reddito operativo positivo.
Graficamente il BEP è il punto di incontro tra la retta dei ricavi totali e quella
dei costi totali, quest’ultima ottenuta sommando le curve dei costi variabili totali e
fissi totali. La distanza tra la retta dei ricavi e quella dei costi totali rappresenta il
reddito operativo, positivo a destra del BEP, per cui si avrà un utile, negativo alla
sinistra del BEP, per cui si avrà una perdita.
4.4. Il controllo strategico aziendale
Oltre il controllo operativo e le misurazioni di efficienza ed efficacia della
gestione aziendale è importante attuare, all’interno dell’impresa, il controllo
strategico aziendale.
Il controllo strategico ha come obiettivo di fondo, la “verifica di coerenza tra il
comportamento aziendale e le aspirazioni del gruppo proprietario o gestore
dell’impresa e si prospetta, quindi quale controllo di carattere eccezionale,
realizzato in momenti particolarmente significativi della vita di un’azienda e
affidato in prevalenza a specialisti o consulenti esterni dell’azienda stessa
(Sciarelli, 2001, pag. 140).
Il controllo strategico aziendale viene attuato anche per fa fronte ai limiti del
controllo di gestione, così sintetizzabili:
1. rapporto di interdipendenza nei confronti del sistema di programmazione
adottato. Il controllo di gestione, in altri termini, sarà strettamente legato al
tipo di programmazione realizzata: se l’impresa porrà in essere solo
programmi a breve termine, la funzione di controllo non potrà andare oltre
a questo limite;
2. difficoltà di ampliare le analisi sul piano dell’intera struttura organizzativa
aziendale. Il controllo gestionale, di norma, tende a verificare le disfunzioni
che si verificano in specifiche aree funzionali, ma non offre la possibilità di
realizzare una valutazione più ampia sul modello di organizzazione
utilizzato e sulle modalità di impiego delle risorse umane all’interno
dell’impresa considerata.
Le finalità conseguibili con il controllo strategico possono essere così
sintetizzate:
•
congruenza esterna del comportamento strategico dell’impresa;
•
congruenza organizzativa tra strategia e struttura dell’impresa;
•
efficienza funzionale del sistema di direzione.
Il controllo esterno della strategia deve consentire di valutare l’efficacia della
gestione nel medio- lungo termine. In particolare, deve tendere a verificare il
mantenimento del vantaggio competitivo, dell’impresa considerata, rispetto ai
concorrenti e lo svolgimento dell’attività entro determinati margini di rischio.
La congruenza tra strategia e struttura dell’impresa deve partire dall’analisi
dei documenti presenti all’interno di una determinata organizzazione (es.
organigramma, schede di responsabilità ed altro), per poi analizzare l’effettivo
svolgimento del ciclo di direzione aziendale (programmazione, organizzazione,
direzione del personale e controllo), per concludere con l’analisi delle modalità di
svolgimento delle singole funzioni gestionali.
L’efficienza
funzionale,
infine,
avrà
l’obiettivo
di
verificare
l’adeguato
collegamento tra strategia e struttura durante il funzionamento dell’impresa.
Il controllo strategico può essere attuato attraverso due modalità principali:
•
verifica
periodica
della
strategia
e
della
congruenza
con
l’assetto
organizzativo
•
check-up approfondito.
Entrambe le modalità indicate sono importanti e non si escludono a vicenda.
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