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Vincenzo Varano *
Gentili colleghe, cari colleghi, desidero innanzi tutto ringraziare Giuseppe Franco Ferrari, Presidente dell’Associazione di Diritto pubblico comparato ed europeo (ma, anche, mi piace ricordarlo, membro da tempo del
Consiglio Direttivo dell’AIDC in rappresentanza della componente “pubblicistica” del mondo della comparazione giuridica), e gli amici della attivissima e meritoria Fondazione Cesifin Alberto Predieri, Beppe Morbidelli, che ne è il Presidente, e Ginevra Cerrina Feroni, per l’onore dell’invito,
tanto gradito quanto immeritato, a presiedere questa sessione del convegno biennale della vostra associazione.
Spiego perché gradito. Se è vero che solo di recente si è raggiunto l’obiettivo della creazione di un unico settore scientifico disciplinare, intitolato Diritto comparato (12/E2); se è vero che di questo risultato va dato atto
all’attuale direttivo dell’AIDC; è pur vero che l’inizio della battaglia culturale tendente a questo fine risale a molto tempo fa, e a un impegno molto
avvertito, anche se non coronato subito da successo, da molti padri fondatori della comparazione giuridica italiana, pubblicisti e privatisti, da Gorla a Sacco a Cappelletti, a Bognetti a Pizzorusso. Ricordo in proposito
che l’AIDC ha sempre voluto che nel suo Direttivo sedessero anche pubblicisti a testimonianza proprio di questo impegno (oggi è per l’appunto Giuseppe Ferrari che siede nel direttivo in questa veste), e che addirittura per
molti anni il Presidente dell’Associazione è stato Alessandro Pizzorusso.
Ricordo anche che il diritto privato comparato è stato forse più pronto all’abbattimento delle barriere, se è vero che nei concorsi per quella disciplina sono stati accolti candidati che non erano privatisti: non lo ero io, non
lo è Betta Grande, non lo è Vittoria Barsotti, tanto per fare qualche esempio più risalente, e qualcuno più attuale.
Mi sono formato alla scuola di Mauro Cappelletti, e questo ha significato formarmi come comparatista, riflettere sulla comparazione giuridica al
* Già Professore ordinario di Sistemi giuridici comparati nella Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Firenze.
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di là degli steccati. Mauro non faceva distinzioni fra pubblicisti, privatisti,
processualisti. Noi allievi, per quanto potessimo sceglierci oggetti diversi di
indagine eravamo consapevoli di usare lo stesso metodo, di essere uniti da
un impegno culturale comune, siamo forse i primi in Italia a essere nati innanzi tutto come comparatisti. La distinzione fra pubblico e privato comparato – i due archetipi, se così posso dire, della comparazione giuridica –
era così resistente, anche perché la comparazione è stata per lungo tempo
considerata una marginale ancorché erudita, appendice, era considerata servente, alla disciplina principale, a quella vera, il diritto privato e il diritto
pubblico. Cappelletti venne da Macerata a Firenze, chiamato sulla cattedra
convenzionata di diritto agrario comparato, nel 1963, scrisse per l’occasione un saggio sul processo agrario – disciplina, il diritto agrario, che insieme a tante altre, già di per se metteva in crisi la dicotomia pubblico-privato
– e fondò un istituto, che chiamò non per caso Istituto di Diritto comparato, aperto ad ogni tipo di comparazione. L’allargamento degli orizzonti di
indagine verso la common law, e soprattutto verso l’ala americana della common law (in cui se questa dicotomia non è sconosciuta, soprattutto oggi,
non ha tuttavia conosciuto l’enfasi che ha avuto nella nostra tradizione giuridica), ha ulteriormente contribuito ad attenuare, a sdrammatizzare la distinzione fra pubblico e privato comparato, fino ad arrivare al risultato che
oggi appare finalmente conseguito. Da ultimo, ma non meno importante,
quella che è entrata proprio in crisi è la distinzione fra diritto pubblico e
diritto privato, che ci accompagna fin da Ulpiano e che certamente è uscita
esaltata dalle codificazioni: quali è quanti settori dell’esperienza giuridica
possono oggi sicuramente ed esclusivamente ascriversi all’uno o all’altro
campo?
Rileggevo ieri, mentre preparavo queste brevi note, il primo capitolo,
scritto da Giovanni Bognetti, per il bel manuale di diritto costituzionale
comparato curato da Carrozza, Di Giovine e Ferrari. Si intitola l’“Oggetto
e il metodo”, e le sue prime tre righe contengono un enunciato che, con gli
opportuni adattamenti, può essere utilizzato da ogni comparatista: “Le opere dedicate al Diritto costituzionale comparato hanno di regola per oggetto le Costituzioni degli Stati del periodo storico contemporaneo, studiate con il metodo comparatistico”. Enunciati analoghi possono essere espressi da privatisti, processualisti, amministrativisti dediti alla comparazione:
l’oggetto cambia, il metodo resto quello del confronto critico e ragionato
fra più sistemi o gruppi di sistemi giuridici nazionali (e tutti i comparatisti
concordano a definire questa attività macrocomparazione) o più istituti nel
quadro di sistemi giuridici nazionali (è la micro comparazione) per una serie di finalità di carattere teorico e/o pratico. Dall’acquisizione di cono-
Saluti di apertura
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scenza alla ricerca del modello legale o interpretativo migliore. La comparazione, sia del pubblicista che del privatista, deve puntare a rilevare convergenze ma anche differenze – e soprattutto in epoca di globalizzazione
imperante, deve forse essere più attento alle differenze, talvolta espressione
di culture da preservare, piuttosto che all’appiattimento verso il quale la
globalizzazione tende. La comparazione, infine, spinge il giurista ad aguzzare la vista: l’utilità del metodo si esalta se non ci si sofferma sulle norme,
the law on the books, che possono magari essere identiche in due ordinamenti, ma avere applicazioni completamente diverse. La comparazione,
cioè deve arrivare a vedere qual è la law in action, sia che punti alla conoscenza sia che si proponga lo scopo ulteriore della ricerca del modello migliore.
L’accordo sul metodo, e sulla sua definizione, è dunque totale. L’oggetto può essere, e molto spesso è diverso. Esistono tuttavia oggetti di comparazione che devono essere ben presenti a chi, per esempio, si occupa di sistemologia, indipendentemente dalle sue origini di pubblicista, di privatista, di processualista o altro. È ovvio che oggi, chi scrive, ad esempio, un
manuale di introduzione alle grandi tradizioni giuridiche non può limitarsi
a scrivere un testo fondato quasi esclusivamente sulla cultura privatistica
(basti ricordare i pur grandi manuali di David e di Zweigert e Kötz), ma
deve piuttosto, soprattutto direi, richiamare l’attenzione sui vari aspetti che
caratterizzano nel profondo una tradizione, sulla cultura che ne è alla base,
e quindi sulla formazione storica, sul fenomeno codice ma anche sulle carte costituzionali, sulla struttura dell’amministrazione della giustizia, sul giudice e il suo ruolo, sul processo, sulla giustizia costituzionale, e sui fermenti
innovativi che stanno rivoluzionando questa o quella tradizione, il tutto visto nella prospettiva delle fonti del diritto e della loro evoluzione: penso soprattutto all’ordinamento inglese e alle grandi rivoluzioni che lì si sono susseguite sotto la spinta (altro elemento di unificazione dei giuristi di varia
estrazione) dell’Europa.
Mi resta da spiegare perché l’onore di questa presidenza è immeritato.
È questione di oggetto, non di metodo, dell’oggetto che avete posto, con
straordinaria tempestività, al centro della vostra riflessione. È un oggetto che
mi trova molto sensibile e preoccupato come cittadino, ma impreparato
come studioso. Le domande che mi pongo sono ingenue, e mi mancano soprattutto le risposte. È governabile questa crisi finanziaria che ci sta avvolgendo, e da chi, e come? L’ingegneria finanziaria è globale, come ben si può
vedere in questi mesi, travolge Paesi ed economie grandi e piccoli; la politica, il governo, è rimasto locale. L’intervento dell’UE, delle autorità monetarie come il Fondo possono aiutarci a mettersi al sicuro? A che prezzo? È
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accettabile che la BCE e/o alcuni Capi di Stato o di Governo possano dettare a un Paese cambiamenti di Governi, elezioni, revoche di referendum,
l’adozione di misure drastiche, e la modifica profonda di modelli di stato
sociale magari fragili ma costruiti con fatica, per sconfiggere ondate speculative che non si sa da dove vengono e dove si dirigeranno, e da chi sono
guidate? Non si corre il rischio che il processo democratico venga profondamente alterato, se non sospeso, da decisioni espresse in modo non trasparente da organi e da istituzioni – quelle europee, per esempio, o il FMI o le
agenzie di rating – che non si caratterizzano certo per accountability e per
la loro legittimazione democratica? E del resto, per quel che riguarda l’Unione Europea, gli Stati membri hanno sì operato rinunce importanti alla
loro sovranità, hanno riconosciuto il primato del diritto comunitario ma
senza volerle in fondo conferire una vera legittimazione soprattutto quando hanno respinto l’idea di una Costituzione europea. A mio modesto parere, invece, l’unione monetaria non può reggersi da sola, senza una politica economica e fiscale comuni, senza una diversa configurazione della BCE
come prestatore di ultima istanza, e senza una vera effettiva unione politica: pensare di costruire l’Europa soltanto attraverso una moneta comune (e
neppure a tutti gli stati membri) rischia di essere soltanto una pericolosa
illusione, come gli avvenimenti di questi mesi stanno dimostrando.
E qui mi fermo, scusandomi per avervi portato via anche troppo tempo,
e mi accingo ad ascoltarvi con grande interesse e con il desiderio di imparare e di capire.
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