APPUNTI DI TEOLOGIA
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Collana Appunti di teologia
1. Jesús Castellano, Incontro al Signore: Pedagogia della preghiera
2. Arnaldo Pigna, La vita consacrata.
Trattato di teologia e spiritualità
3. Sergio Lanza, La parrocchia in un mondo che cambia.
Situazioni e prospettive
4. Giuseppe Ferraro, Cristo è l’altare.
Liturgia di dedicazione della chiesa e dell’altare
5. Sergio Lanza, Convertire Giona. Pastorale come progetto
6. Aa. Vv., Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?
7. Aa. Vv., Sentieri illuminati dallo Spirito.
Atti del Congresso internazionale di mistica
8. Charles Serrao, Il discernimento della vocazione religiosa.
Formare per trasformare
9. Carlo Laudazi, L’uomo chiamato all’unione con Dio in Cristo.
Temi fondamentali di teologia spirituale
10. Mario Leocata, Sulle tracce del Messia. Iesu Rebus
11. Arianna Rotondo, Dialogo d’amore.
Figure femminili del Vangelo giovanneo
12. Carlo Laudazi, Di fronte al mistero dell’uomo.
Temi fondamentali di antropologia teologica
13. Giuseppe Ferraro, Il Rito del Matrimonio nella celebrazione
dell’Eucaristia
14. Fernando Taccone (ed.), La visione del Dio invisibile nel volto
del Crocifisso
15. Fernando Taccone (ed.), Stima di sé e kenosi
16. Giuseppe Gangale, Priscilla e Aquila. Apostoli di vita coniugale
17. Dario Edoardo Viganò, La Chiesa nel tempo dei media
18. Fernando Taccone (ed.), Croce e identità cristiana di Dio nei primi
secoli
19. Fernando Taccone (ed.), L’agire sociale alla luce della teologia della
Croce. «è necessario che un uomo muoia per tutto il popolo» (Gv 11,50)
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Fernando Taccone (ed.)
L’AGIRE SOCIALE ALLA
LUCE DELLA TEOLOGIA
DELLA CROCE
«è necessario che un uomo muoia
per tutto il popolo»
(Gv 11,50)
EDIZIONI OCD
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Un ringraziamento alla Banca Popolare di Spoleto S.p.a.
che ha consentito la stampa del volume.
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-7229-508-3
© Edizioni OCD – Anno 2011
Via Anagnina 662/b – 00118 ROMA
Tel. 06.79.89.08.1 – Fax 06.79.89.08.40
[email protected] – www.edizioniocd.it
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PRESENTAZIONE
Fernando Taccone*
Questo seminario si propone di indagare l’agire sociale alla luce della teologia della Croce. Rifletteremo su un tema, da una parte molto impegnativo e dall’altra piuttosto insolito, se non inedito. Il riferimento principale è
all’amore di Dio rivelatosi nella Croce del Figlio Suo, che dovrebbe presiedere il quadro interpretativo dell’azione sociale in un tempo nel quale prevale l’ottica, spesso solo conclamata, della giustizia, dei diritti civili, politici
e sociali.
1. La vitalità cristiana dalla morte e risurrezione di Cristo
L’incipit dell’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, mi sembra
ci ponga sulla strada giusta: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è
fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e
risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni
persona e dell’umanità intera».1 Il Santo Padre avverte: «Un cristianesimo di
carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni
sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali»2 ed esorta che «è
necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare
nuovi stili di vita».3 Uno stile che oggi, in molte parti del mondo «è incline
all’edonismo e al consumismo».4
Nell’enciclica il mistero pasquale di Cristo è collocato al centro fin
dall’inizio non solo della dimensione personale, ma anche di quella comunitaria. Non solo, quindi, l’individuo, ma anche la comunità e le sue istituzioni
sono chiamate a confrontarsi e conformarsi alla croce di Cristo.
Nel capitolo terzo, dove il Papa tratta il tema: «Fraternità, sviluppo economico e società civile», scrive testualmente:
* Fernando Taccone, passionista, Direttore della Cattedra Gloria Crucis.
Benedetto XVI, Enciclica Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana 2009, Città
del Vaticano, n. 1.
2 Ibid., n. 4.
3 Ibid., n. 51.
4 Ibid.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce
la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né
confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non
potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce
dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell’affrontare questa decisiva
questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude
la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno
e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole
essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità.5
2. La carità, norma suprema dell’agire
La Sacra Scrittura insegna che Dio è amore e che l’uomo è stato creato
a immagine e somiglianza di Dio. Perciò la vita umana è priva di senso e rimane incomprensibile se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e
non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente.6 Anzi, dobbiamo ribadire,
con Benedetto XVI, che «la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa
qualcuno che ama».7 Vale a dire, nella misura in cui esercita l’amore, in cui
supera l’archetipo dell’autochiusura ed adotta quello della carità e della donazione. Tutto ciò «vale anche in ambito sociale: occorre che i cristiani ne
siano testimoni profondamente convinti e sappiano mostrare, con la loro
vita, come l’amore sia l’unica forza che può guidare alla perfezione personale
e sociale e muovere la storia verso il bene».8 Occorre, dunque, fare della
carità la norma costante e suprema dell’agire.
Il mondo sociale al tempo di Gesù era estremamente strutturato: c’erano
discriminazioni tra puri e impuri, tra giudei e pagani, tra uomini e donne, tra
gli osservanti della legge e il popolo semplice. Cristo si fa solidale con gli oppressi, con i poveri, gli emarginati e quanti erano diffamati come peccatori.
Cristo si mette sempre dalla parte dei deboli e di coloro che sono criticati
Ibid., n. 34.
Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1979, n. 10.
7 Benedetto XVI, Discorso al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 6 giugno 2005.
8 Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace nel 2004, n. 580.
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Presentazione
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secondo i canoni del tempo: la prostituta, il samaritano, il pubblicano, il centurione romano, il paralitico… L’atteggiamento di Gesù è quello di colui che
accoglie tutti e fa loro sperimentare che non sono fuori della salvezza, ma
che Dio ama tutti, perfino gli ingrati e i cattivi (Lc 6,35), perché “non sono i
sani che hanno bisogno del medico” (Mc 2,17) e il suo compito consiste “nel
cercare ciò che era perduto e salvarlo” (Lc 19,10). Gesù non teme le conseguenze di questa solidarietà: è diffamato, ingiuriato, accusato di sovversione,
di eresia, di essere indemoniato, pazzo.9 La nuova prassi inaugurata da Gesù
non era umanitarismo, ma la concretizzazione dell’amore del Padre dentro
la vita del quotidiano.
3. Chiamata al cristianesimo ed edificazione della comunità
Paolo in 1,26 invita i Corinzi a riflettere sulla propria chiamata. Il suo
invito include, necessariamente, anche un giudizio sul loro comportamento.
La distanza tra le esigenze della chiamata e l’attuale situazione di divisione
della comunità di Corinto è incolmabile. Non è, infatti, possibile nessun accordo tra la sapienza del mondo, ispiratrice dei partiti, e quella della croce. I
Corinzi, hanno abbandonato la sapienza della croce, si sono lasciati attrarre
dalla sapienza carnale che è privilegio dei saggi, dei forti e dei nobili di questo
mondo (cfr. 1,27-28). Se la salvezza dipendesse dalla loro sapienza, non sarebbe, certo, opera di Dio, ma conquista dell’uomo, a beneficio, per di più,
di un piccolo numero di iniziati, come nella gnosi. Dio, però, ha sconvolto i
progetti astuti dei sapienti di questo mondo (cfr. 3,19-20), edificando la sua
chiesa sull’unico fondamento di Cristo crocifisso e risorto (cfr. 3,11). Su di
lui, i Corinzi sono esortati a continuare la costruzione della comunità. Per
farlo, però, devono rimanere in quel nulla in cui sono stati raggiunti da Dio
nel momento della loro chiamata (cfr. 7,18-24), affinché la potenza creatrice
di Dio sia messa in condizione di poter operare come ha operato nella croce
di suo Figlio, risuscitandolo dai morti. Il nulla della croce, infatti, è l’unica
dýnamis salvifica che può agire sul nulla dei Corinzi alla stessa maniera che
ha agito sul Cristo. In questo nulla è necessario che essi restino per dare
alla croce la possibilità di continuare ad operare. La forma della comunità,
di conseguenza, non può essere altrimenti che quella della croce. Ma cosa
significa che la comunità deve prendere la forma della croce?
Pensiamo che significhi principalmente due concetti. Primo, il riconoscimento dello stretto rapporto tra la chiesa e la croce (cfr. At 20,28; Rm
3,21-26; 15,3; Ef 2,14-16; 5,25; Tt 2,14; Eb 2,10; 13,12; 1Pt 1,18-19; Ap 5,9).
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Cfr. L. Boff, Passione di Cristo passione del mondo, Cittadella, Assisi 1978, p. 31.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
La chiesa è frutto della croce e, quindi, il suo unico fondamento è Cristo crocifisso e risorto. Secondo, la chiesa, nel suo comportamento, deve ispirarsi e
lasciarsi guidare unicamente da quella «potenza e sapienza di Dio» (1,24) che
è la «parola della croce» (1,18). È, infatti, la comunità in quanto tale, più che
i singoli, che Paolo ammonisce ad effettuare il suo discernimento, perché
le sue scelte non sembrano molto coerenti con le scelte di Dio. Il giudizio
discriminante della croce è diretto, certamente, al mondo e alla sua sapienza,
ma, ancora di più, alla stessa chiesa che della croce ha fatto la sua bandiera.
L’altro aspetto che Paolo evidenzia nel comportamento carnale della
chiesa di Corinto è dato dal ruolo dei «potenti» (1Cor 1,26) o «forti» (1Cor
1,27), «persone influenti» che con il loro potere politico ed economico riescono a condizionare la vita delle persone e della comunità. Il rischio, ancora una volta, è di pensare la chiesa in termini troppo umani. Dio non ha
scelto la potenza per rivelare il suo amore, ma la debolezza della croce (cfr.
1Cor 1,25). La sua chiamata, poi, non è stata condizionata dai potenti del
mondo, ma per svergognare l’alterigia dei forti, oltre a scegliere la debolezza
della croce, Dio ha scelto anche i deboli del mondo (cfr. 1Cor 1,27). La
chiesa di Corinto, quindi, se non vuol diventare schiava degli uomini (1Cor
7,23), deve imparare ad appoggiarsi solo al legno robusto della croce (cfr.
1,18.24.25) e non sulle canne rotte dei potenti del mondo (cfr. 2Re 18,21; Is
36,6; Ez 29,6).
L’ultimo aspetto, cui Paolo sembra dare particolarmente risalto, è la mancanza di nobiltà della comunità: lo status, cioè, di uomini liberi con nobili
origini e larghe possibilità economiche. Alla visione troppo umana della comunità di Corinto – in cui, peraltro, sono pochi coloro che possono presentare simili credenziali (cfr. 1Cor 1,26) – Dio contrappone, ancora una volta,
la scelta discriminante della croce. Egli, infatti, si è scelto per sé, per mezzo
della croce di Cristo, gli humiliores, coloro che hanno ben poco di cui gloriarsi, per confondere coloro che, invece, ripongono la loro gloria nei titoli
nobiliari. Per essersi lasciati attrarre dalle cose alte e non da quelle umili,
per essersi stimati saggi, potenti e nobili da se stessi (cfr. Rm 12,16), per aver
dimenticato, in sintesi, «la parola della croce», la comunità si è divisa in partiti. Solamente la riconciliazione con la croce di Cristo potrà, ora, indurre i
credenti a riconciliarsi anche tra loro (cfr. Ef 2,16; Col 1,20ss).
Le scelte di Dio, infine, hanno uno scopo ben preciso: confondere i sapienti e i forti, annullare le cose esistenti del mondo, affinché nessun uomo
si glori davanti a Dio (cfr. 1,27-29). Dio, quindi, ha convocato per sé una comunità composta prevalentemente di gente umile e disprezzata, non perché
essi sviluppino le loro fortune mondane, ma perché, con la loro nuova vita
«in Cristo», diano gloria a Dio e siano testimoni della condanna della potenza e della sapienza del mondo. L’identità dei Corinzi, quindi, non è più
determinata dalle coordinate culturali del mondo, ma dal sigillo della croce
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con il quale, nel battesimo, sono stati segnati e sepolti con Cristo (cfr. 2Cor
1,22; Rm 6,3ss). Il Crocifisso è divenuto per loro il segno dell’appartenenza
a Cristo e della condanna dei valori mondani (cfr. Gal 2,19ss; 6,14; Rm 6,6).
Esso è, perciò, l’unica forza e l’unica sapienza a cui devono ricorrere. Ricordino, poi, che «la parola della croce» giudica non solo il mondo, ma anche
la stessa chiesa, la quale, adeguandosi alla sapienza del mondo, si comporta
da nemica della croce di Cristo (cfr. Fil 3,18), rischiando di perdersi con
essa. Come è possibile, infatti, conciliare «Cristo crocifisso» con l’astuzia
dei sapienti, l’arroganza dei forti, l’arrivismo dei titolati? L’unica sapienza,
l’unica forza, l’unico titolo nobiliare che i Corinzi possono vantare è Cristo
crocifisso, il risorto, il quale è stato fatto sapienza per noi da Dio, giustificazione, santificazione e redenzione (cfr. 1,30). In lui quindi rimangano, in lui
facciano cessare le loro divisioni, in lui vivano, in lui solo si glorino.
4. L’autentica carità diventi carità politica e sociale
L’amore reso presente nella croce di Cristo si estende a quello che Lui
ama: le persone e il mondo; «nei santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si
allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino».10 Tale
amore, pertanto, va vissuto secondo differenti modalità (amore di Dio, di se
stessi, del prossimo, del cosmo), che non si devono confondere, ma neppure
separare: sono articolazioni di uno stesso amore. L’autentica carità punta,
pertanto, a diventare carità sociale e politica. Infatti, per tanti aspetti, il prossimo da amare si presenta “in società”, così che amarlo realmente, sovvenire
al suo bisogno o alla sua indigenza può voler dire qualcosa di diverso dal
bene che gli si può volere sul piano puramente inter-individuale: amarlo sul
piano sociale significa, a seconda delle situazioni, avvalersi delle mediazioni
sociali per migliorare la sua vita oppure rimuovere i fattori sociali che causano la sua indigenza.
Si desume, quindi, che il criterio principale per lo sviluppo della società
è il precetto dell’amore, e che l’amore deve essere considerato come l’anima
dell’ordinamento sociale.11 È quindi necessario, se si vuole rendere la società
più umana, più degna della persona, rivalutare l’amore nella vita sociale affinché esso orienti, purifichi ed elevi tutti i rapporti umani, politici ed economici.
Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 42.
Cfr. Pio XI, Quadragesimo anno, n. 20; Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et
Spes, n. 38.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla
luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve
ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità,
riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani
designiamo con la parola “comunione”.12 Tutto ciò evidenzia che lo sviluppo
umano o sarà di tutti – persone, comunità, paesi – o di nessuno. Se qualcuno,
pure uno solo, rimane a causa degli altri nel sottosviluppo – economico, culturale, religioso –, qualcosa di umano manca agli altri; questi si trovano ancora in una fase di sottosviluppo, almeno morale: difatti il sottosviluppo altrui è un costante appello al proprio sforzo per aiutarlo. L’impegno solidale
riguarda tutti: credenti e non; ma è pure certo che senza la luce della fede e
l’aiuto della grazia non è facile che la fraternità umana arrivi molto lontano:
ben presto sorgono ragioni di lite, di rivalità... insomma, di egoismo.
In tal senso, bisogna evidenziare che i discepoli di Cristo hanno un particolare obbligo di impegnarsi nella solidarietà: chi non vive l’unità e la comunione con il prossimo non ha colto quel nuovo criterio (comandamento
dell’amore) che è distintivo della vita cristiana. Così lo ricordava Josemaría
Escrivá: «Un uomo o una società che non reagiscano davanti alle tribolazioni
e alle ingiustizie, e che non cerchino di alleviarle, non sono un uomo o una
società all’altezza dell’amore del Cuore di Cristo. [...] Il loro cristianesimo non
sarà la Parola e la Vita di Gesù; sarà un travestimento, un inganno, di fronte
a Dio e di fronte agli uomini».13 La solidarietà implica l’immedesimarsi nelle
necessità altrui, vale a dire farle proprie, e poi agire con rigorosa coerenza:
promuovere l’inalienabile dignità di ogni uomo e contribuire a che si sviluppi come persona; tende a che tutti possano agire, nella società e nel lavoro, con coscienza e con responsabilità proprie. La solidarietà è, pertanto,
il dinamismo che vivifica e rende efficaci i meccanismi e le strutture socioeconomiche, non permettendo che si convertano in meccanismi perversi o
strutture di peccato.
La solidarietà è, inoltre, una virtù: non va confusa con «un sentimento di
vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone,
vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di
impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché
tutti siamo veramente responsabili di tutti».14 Come virtù, la solidarietà è,
pertanto, una disposizione salda e tenace ad agire sempre in favore del bene
altrui che, in ambito sociale, è il bene comune. Da qui l’esigenza di un costante impegno di solidarietà, che deve presiedere ogni ambito sociale: la-
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Cfr. Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 40.
J. Escrivá, È Gesù che passa, n. 167.
Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.
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Presentazione
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voro, rapporti intergenerazionali ed internazionali, ma anche sport, svago,
ecc. Non deve dimenticarsi la tendenza a richiamare i diritti tralasciando i
doveri, e a sottolineare quanto ho fatto dimenticando quanto ho ricevuto;
mentre l’insegnamento sociale ricorda che:
il principio della solidarietà comporta che gli uomini del nostro tempo coltivino maggiormente la consapevolezza del debito che hanno nei confronti della
società entro la quale sono inseriti: sono debitori di quelle condizioni che rendono vivibile l’umana esistenza, come pure di quel patrimonio, indivisibile e indispensabile, costituito dalla cultura, dalla conoscenza scientifica e tecnologica,
dai beni materiali e immateriali, da tutto ciò che la vicenda umana ha prodotto.
Un simile debito va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale, così
che il cammino degli uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni
presenti e a quelle future, chiamate insieme, le une e le altre, a condividere, nella
solidarietà, lo stesso dono.15
5. Un percorso privilegiato per la Cattedra Gloria Crucis
Inaugurando la Cattedra Gloria Crucis in questa università,16 il compianto
filosofo Prof. Stanislas Breton, passionista, poneva la sua ultima questione
relativa alla finalità, cioè al dover-essere e al dover-fare di una Cattedra che
evoca la gloriosa passione di Cristo.
Per rispondervi, disse il Prof. Breton, mi appoggio alla scena memorabile descritta dal Vangelo di Matteo al capitolo 25. La scena è ben conosciuta, ma forse,
essendo la visione dell’ultimo giorno, ci lascia se non indifferenti almeno insufficientemente attenti. È importante invece che questo testo continui a interpellarci proprio perché è l’ultima parola sulla nostra storia umana e sul mondo che
abitiamo. Che cosa ci viene detto?
Poiché questi testi vi sono familiari, mi limito a citare le espressioni più commoventi di quest’ultima e memorabile parola: «Ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete accolto;
nudo e mi avete vestito; prigioniero e siete venuti a visitarmi…ciò che avrete
fatto ai più piccoli dei miei fratelli l’avrete fatto a me».
La cosa più sorprendente in questo testo è il ricorso ai verbi più comuni e usuali;
verbi che dicono il quotidiano più quotidiano della vita umana. Ci aspetteremmo
15 Compendio, cit., n. 195.
La Cattedra Gloria Crucis è iniziata il 29-30 ottobre 2003 alla Pontificia Università
Lateranense con il seminario di studi in onore del Prof. Padre Stanislas Breton passionista,
nel suo 90° genetliaco.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
dei riferimenti più nobili. Per esempio, non ci è detto niente sulle pratiche e credenze religiose, come se la religione stessa scomparisse davanti a pratiche più elementari ma anche più determinanti per la fede in Cristo,17 come “l’adorazione
in spirito e verità” e non più il culto nel tempio di Gerusalemme o in quello di
Samaria (Gv 4.21-25). Invece, il dono di sé ai più piccoli fra i propri fratelli è un
mistero di fede: “è a me che l’avrete fatto”. I più piccoli, gli ultimi di tutti, sono
abitati dall’enigmatico Io che, partecipando del loro quasi-niente, implora su di
essi la fede generosa che li farebbe essere.
È così che la kenosi divina “al di là dell’essere” si esprime o si riflette nella kenosi umana “al di qua dell’essere” di quelli che non hanno niente perché non
sono veramente. È qui che la Croce di Gesù fa appello alla nostra fede per fare
in modo che dall’ex nihilo della loro condizione di miseria avvenga finalmente
l’essere in quanto essere di quelli che non hanno più volto umano. La fede che
emerge sull’ultimo giorno del mondo sollecita una vera generosità creatrice. La
croce sarà veramente gloriosa se ci ispirerà questa incondizionata generosità.18
La profezia incosciente di Caifa: «È necessario che un uomo muoia per
tutto il popolo» (Gv 11,50) rimane il punto alto di riferimento di ogni azione
sociale. Benedetto XVI insegna: «L’amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel
campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio,
Amore eterno e Verità assoluta».19
L’augurio è che dalle riflessioni di questo Seminario sorga e si formi una
nuova stagione di bravi servitori dello Stato e della Chiesa caratterizzata
da una identità culturale forte fondata sulla dottrina sociale della Chiesa
“grande strumento di evangelizzazione”20 oggi.
Gli esperti relatori di questo seminario, che ringrazio per la disponibilità,
ci illumineranno sulle gravi problematiche che il nostro tema apre.
Buona lettura.
17 Su questo punto delicato, si legga il colloquio con la samaritana: «donna, viene l’ora…
è già venuta, quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».
18 S. Breton, CP, La gloria della croce, in Aa.Vv., Memoria Passionis in Stanislas Breton,
Edizioni Staurós, S. Gabriele (TE) 2003, pp. 259-260.
19 Benedetto XVI, Enciclica Caritas in Veritate, cit., n. 1.
20 Compendio, p. XII.
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DALLA CROCE DI CRISTO,
UN NUOVO PENSIERO E
UNA NUOVA STAGIONE POLITICA
Mario Toso*
Chi salverà la politica?
Non si può certamente affermare che solo da oggi la politica ha bisogno
di redenzione e di riscatto. Ma da dove le possono giungere? Dall’uomo?
Dalla sua mera opera di educazione? A queste e ad altre domande risponde
la Caritas in Veritate, specie al n. 1, ove leggiamo: «La carità nella verità, di
cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto,
con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero
sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera».1
Si potrebbe così riformulare il pensiero di Benedetto XVI: la «carità nella
verità», di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva
per il vero sviluppo della vita politica, sia sul piano nazionale che mondiale.
Secondo la Caritas in Veritate, infatti, l’odierna politica sempre più ridotta a «lotta per il potere»,2 le democrazie, caratterizzate da forme populiste e oligarchiche, massmediatizzate e «leaderizzate», sempre meno partecipative e ancorate ad universi assiologici condivisi, nonché la formazione
sociale che ad essa corrisponde possono essere risemantizzate per ritrovare
la loro mission originaria di servizio al bene comune, se i cittadini e i loro
rappresentanti prendono coscienza che esse sono espressione di una struttura d’essere protesa all’amore e alla verità che la sostanziano.
Mario Toso, sdb, S.E.Mons., segretario del Pontificio Consiglio Justitia et Pax.
Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. Si vedano anche l’edizione LAS (Roma 20102), dal titolo La speranza dei popoli.
Lo sviluppo della carità nella verità, con lettura e commento da parte di Mario Toso; l’edizione Cantagalli (2009) con introduzione di S. Ecc. Mons. Giampaolo Crepaldi; l’edizione
Libreria Editrice Vaticana-AVE (Città del Vaticano-Pomezia 2009) corredata dal commento
di vari autori (Franco Giulio Brambilla, Luigi Campiglio, Mario Toso, Francesco Viola, Vera
Zamagni); l’edizione Libreria Editrice Vaticana-EDB, Città del Vaticano-Bologna 2009, con
Linee guida per la lettura, a cura di G. Campanini; e inoltre: Aa.Vv., Amore e Verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica «Caritas in veritate» di Benedetto XVI, Edizioni Paoline, Milano 2009.
2 Cfr. M. Bovero, Democrazia al crepuscolo?, in Aa.Vv., La democrazia in nove lezioni,
Laterza, Roma-Bari 2010, p. 4.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Solo ravvivando e rafforzando l’amore e la verità di cui la vita politica e
democratica devono essere intessute, solo portandole a compimento, mediante la ricezione dell’Agápe e del Lógos, donati all’umanità da Cristo morente sulla croce, è possibile il «rinascimento» della pólis, con una nuova
stagione di uomini retti, di operatori economici, finanziari e politici «che
vivono fortemente nelle loro coscienze l’appello al bene comune».3
2. Il «dimorare» nella carità e nella verità di Cristo è principio di nuovo
pensiero politico, aperto alla Trascendenza, è causa della robustezza
degli «ethos» dei popoli
Per la Caritas in Veritate, prima d’essere un principio ermeneutico e di
discernimento sociale, la «carità nella verità» è una condizione d’esistenza,
uno «stato» germinale di comunione ontologica e spirituale con Dio e con
gli altri, posto dalla creazione, indebolito dal peccato originale, ricostituito
dalla redenzione. È piattaforma esistenziale su cui si fondano ultimamente
i pilastri della città e trovano nutrimento gli ethos dei popoli. Dalla vitalità
della comunicazione e della comunione con Dio derivano purificazione e
liberazione per la ricerca del bene comune, coraggio e generosità per l’impegno nel campo della giustizia e della pace.
Come si può intuire dalle riflessioni appena accennate, il passo del n.
1 della Caritas in Veritate, qui sopra citato e interpretato, potrebbe essere
sufficiente per dare l’avvio ad una teologia della politica e anche ad una filosofia corrispettiva. La prima sarebbe centrata sulla vita appunto della politica, considerata come espressione del mistero della salvezza che è seminato
nei solchi della storia mediante incarnazione, morte e risurrezione di Gesù
Cristo. La teologia politica, pertanto, si dedicherebbe prevalentemente alla
lettura e all’interpretazione dell’esistenza politica in quanto inserita nel mistero di Cristo, ossia dal punto di vista del Regno di Dio. Contrariamente
a coloro che potrebbero pensarla come una riflessione deduttiva, essa si
costituisce con un metodo induttivo, ossia mediante riflessione applicata
all’esperienza della presenza evangelizzatrice, liberatrice ed umanizzatrice
della Chiesa. La filosofia politica, invece, verrebbe a costituirsi mediante una
riflessione centrata sulla pólis e sulla storia della civiltà, sulle sue relazioni
con la Chiesa nel mondo, con il Regno di Dio, dal punto di vista dell’esistenza della società politica.
Vi sono altri passi nella Caritas in Veritate che meriterebbero adeguata
attenzione e svolgimento. Essi stupiscono per la loro profondità, sinteticità
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Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 71.
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e per la loro folgorante promessa di verità. Basterebbe meditarli per qualche
istante per rimanerne catturati e convinti. Si pensi anche solo alla lapidarietà
e alla ricchezza semantica di un’affermazione già centrale nella Populorum
Progressio, che Benedetto XVI ha fatto propria al n. 8 della Caritas in Veritate: «[…] l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo
[…]». Identica affermazione potrebbe essere applicata alla politica e all’impegno sociale dei credenti. L’annuncio di Cristo è il primo e principale elemento, tra i tanti, che può ricondurre l’odierna politica, spesso deviata dal
suo fine primario, ossia dal bene comune, entro l’alveo della sua naturale
vocazione. Così, si potrebbe dire che l’accoglienza di Cristo stesso, mediante
la fede, fa sì che i cittadini possano percepirsi viventi nel Nuovo Adamo, con
Lui, per Lui. È, questa, la principale causa della rivitalizzazione dell’anima
valoriale delle democrazie, frantumata e indebolita nella nostra postmodernità, nonché della riforma delle stesse tecniche procedurali che non possono
essere disgiunte da precise scelte valoriali. Da una tale coscienza di comunione permanente con il Signore Gesù e con i fratelli, per i credenti impegnati in politica possono derivare energie e robustezza spirituale, tali da farli
vivere in un dono incessante di sé, con coerenza e professionalità, secondo
una cittadinanza attiva e responsabile.
3. La «carità nella verità» principio di novità politica, perché rafforza la
fraternità universale e la vita all’insegna del dono e della gratuità
E ora fermiamoci a riflettere e a mostrare gli apporti di rinnovamento
per la politica che la Caritas in Veritate sollecita meno implicitamente. Essa
non solo indica lo stato d’esistenza della «carità nella verità» come principio
originario di ogni novità, ma anche spiega come possa esserlo per le persone,
per i popoli, per le culture e per le istituzioni.
Per la Caritas in Veritate, che, tra le principali cause del sottosviluppo dei
popoli e della politica, indica la carenza di fraternità4 e di pensiero, data la
relativizzazione della verità nelle società odierne,5 la «carità nella verità» ci
pone davanti alla stupefacente esperienza del dono.6 Sia l’Agápe che il Lógos
ci precedono. Non nascono dal nostro volere e dal nostro pensare. Si impongono a noi. «Perché dono ricevuto da tutti – scrive Benedetto XVI – la carità
nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini se-
4 5 6 Agire_IB.indd 15
Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 19.
Cfr. ibid., n. 2.
Cfr. ibid., n. 34.
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condo modalità in cui non ci sono barriere né confini».7 Detto diversamente,
le persone originano le società sulla base del loro essere intrinsecamente sociale, fraterno, comunionale e dialogico: un essere «trovato», «dato», creato
da Dio e non da noi. La «carità nella verità», vita di comunione con Gesù
Cristo, giunge a perfezionare la nativa capacità sociale e solidale, ossia quelle
doti naturali che sollecitano le persone ad aggregarsi in società di comunicazione, di comunione e di collaborazione. Grazie alla «carità nella verità»,
la fraternità – che non è fondata dalla ragione,8 bensì scoperta da essa come
ciò che accomuna tutte le persone, perché create figlie di uno stesso Padre
e convocate dal suo amore a vivere in una stessa famiglia – è portata a pienezza. Potenziando la fraternità, ossia quel principio per cui ognuno riconosce nell’altro non solo un simile, bensì un fratello, la «carità nella verità»
incrementa l’unità e l’universalità del genere umano; alimenta stili di vita e
atteggiamenti permanenti di dono, di dedizione all’altro, nelle famiglie, nelle
istituzioni, nell’impenditoria, nella finanza; irrobustendoli, anima interiormente la giustizia e il bene comune.
In definitiva, la «carità nella verità» consente di vivere più autenticamente la dimensione fraterna del nostro essere sociale, nonché la collaborazione solidale o impresa comune che costituisce l’essenza etica della vita
nella polis. Ciò è possibile sia perché, come già detto, rende vitale la nostra
comunione con l’Agápe e il Lógos che è Cristo, sia perché costituisce un
orizzonte sapienziale e un principio ermeneutico entro e mediante cui sono
possibili: a) una conoscenza più esaustiva della realtà, delle persone nelle
loro espressioni sociali quali, ad esempio, la finanza, l’economia, la tecnica
e lo sviluppo; b) quella sintesi culturale umanistica, di cui la nostra cultura
frammentata e settorializzata ha estremo bisogno per non cadere nel nichilismo e per poter coltivare una visione di futuro per l’umanità.
4. La «carità nella verità» offre un orizzonte sapienziale che con la sua
sintesi culturale aiuta a superare le dicotomie dell’etica politica
post-moderna
L’orizzonte sapienziale, offerto dalla «carità nella verità», è un orizzonte
rivelato, costituito da una vita e da un sapere più che umani, divini, non solo
naturali ma anche sovrannaturali, non solo razionali, bensì sovrarazionali.
Esso costituisce un contesto di transdisciplinarità, ove l’interdisciplinarità,
ossia l’insieme di vari saperi umani, oltre ad essere armonizzato e unificato,
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Ibid., n. 34.
Cfr. ibid., n. 19.
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è sollecitato a superare se stesso. In tale contesto, ogni singolo grado del sapere è chiamato ad integrare la propria specifica conoscenza, con l’apporto
di altre scienze, in un tutto che sollecita al riconoscimento dei limiti della
propria competenza per uscirne e concorrere a costituire quella sinfonia di
saperi che maggiormente si avvicina a una conoscenza compiuta della complessità del reale.
Nel contesto sapienziale della transdisciplinarità, reso disponibile dalla
«carità nella verità», la ragione politica è chiamata a riconoscere e a rapportarsi con altri tipi di ragione, a cominciare da quella metafisica per giungere
a quella teologica. Ciò consente alla ragione politica di valorizzarsi e di rafforzarsi nella sua peculiarità e, allo stesso tempo, di non venire assolutizzata,
ossia di essere deideologizzata, complementata e subordinata in un tutto che
la trascende. La ragione politica, che è ragione teorico-pratica, vissuta in un
contesto di transdisciplinarità sapienziale, guarirà così da quegli scetticismi e
da quelle discontinuità etiche in cui l’aveva sprofondata la cultura moderna,
staccandola dal Fondamento e impedendole, pertanto, di accedere al telos
umano, ossia a un insieme ordinato di beni relativi al compimento in Dio.
La «carità nella verità», consentendo di accedere ad una visione integrale dell’uomo come essere unitario, in cui l’individuale non è separato dal
relazionale, la libertà non è disgiunta dalla verità, il politico non è opposto
al religioso, aiuta a pensare alla condotta umana come ad un tutto guidato
e unificato dal telos umano. L’esistenza dei cittadini è un continuum, senza
cesure tra etica personale ed etica pubblica, a differenza di quanto viene
teorizzato dalle etiche neocontrattualiste ed utilitaristiche contemporanee,
le quali dipendono da un’etica di terza persona.
Grazie ad un’etica delle virtù – ossia un’etica in cui è primaria la prospettiva del soggetto agente e non dello «spettatore imparziale» – Benedetto
XVI aiuta il pensiero politico contemporaneo ad affrontare le dicotomie
proprie dell’etica postmoderna, erede dell’etica hobbesiana, fondamentalmente scettica, poggiante su una visione antropologica pessimistica. In particolare, aiuta a superare le cesure, peraltro censite nella Caritas in Veritate:
– tra etica e verità, che hanno la pretesa di prefigurare l’etica pubblica prescindendo dalla verità sull’uomo, sul suo bene globale, privilegiando la «verità» offerta dai sondaggi e dalle statistiche;
– tra etica personale (dell’individuo) ed etica politica (della comunità politica), secondo cui cittadini intrinsecamente asociali ed egoisti possono vivere eticamente
solo nella comunità politica, grazie ad un’autorità che impone con la forza un
ordine sociale giusto. È questa l’eredità culturale ricevuta da Thomas Hobbes.
Sulla base di una simile separazione ci si illude di poter vivere rettamente nella
vita pubblica prescindendo dalla vita virtuosa sia dei cittadini che dei loro rappresentanti;
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– tra etica e consenso civile, dato che le teorie dialogiche e neocontrattualiste
contemporanee fondano l’etica sociale esclusivamente sul dialogo pubblico,
sulla convenzione e sul consenso della maggioranza. Secondo questa posizione,
i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di
un’assemblea di cittadini, dimenticando la loro oggettività e la loro fondamentale «indisponibilità»;9
– tra famiglia e giustizia sociale, senza considerare che la vita pubblica dipende
strettamente dal bene-essere delle famiglie, dall’apertura moralmente responsabile alla vita. «La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto
“indice di sostituzione”, mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne
aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori
qualificati, restringe il bacino dei “cervelli” a cui attingere per le necessità della
nazione»;10
– tra etica della vita ed etica sociale, quasi che una società potesse avere basi solide accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della
vita umana;11
– tra etica ecologica ed etica ambientale, che esigono dalle nuove generazioni il
rispetto dell’ambiente naturale, mentre l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse, ignorando l’ecologia umana, secondo cui i doveri che abbiamo
verso l’ambiente devono essere collegati con i nostri doveri verso la persona;12
– tra etica e tecnica, per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile è vero bene e,
quindi, diviene lecito;13
– tra sfera economica e sfera della società, tra economia e politica: la prima sarebbe
sempre e necessariamente «cattiva», assolutizzando la massimizzazione del profitto senza curarsi dei diritti dei lavoratori e del bene comune e contrapponendosi alla seconda, il cui fine sarebbe unicamente quello di intervenire per porre
rimedio agli scompensi e ridistribuire una ricchezza ingiustamente concentratasi
nelle mani di pochi;14
– tra economia, fraternità, gratuità e giustizia sociale: solidarietà, fraternità e gratuità non troverebbero spazio nella sfera dell’economia, anzi dovrebbero rimanerne escluse, pena l’inefficienza del sistema economico di un Paese;15
– tra cultura e natura umana. Poiché l’identità della persona sarebbe data volta
a volta dall’immagine elaborata e proposta dalle diverse culture, non potrebbe
Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 43.
Ibid., n. 44.
11 Ibid., n. 15.
12 Ibid., n. 51.
13 Ibid., nn. 70-71.
14 Ibid., n. 36.
15 Ibid., n. 34.
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esistere una struttura ontologica ed etica basica dell’essere umano che trascende
il tempo e i diversi contesti socio-culturali in cui egli è storicamente inserito.16
Il solo elenco di queste gravi dicotomie mette in luce la rilevanza culturale
della Caritas in Veritate, il suo significato epocale dal punto di vista della
rifondazione o risemantizzazione del discorso morale politico, oggi fortemente compromesso nelle sue basi a causa di assunti secolaristici e relativistici.
Il grandioso progetto di Benedetto XVI muove da premesse sensibilmente diverse. Riconoscono in Dio il fondamento ultimo della morale: l’ordine morale viene scoperto dapprima nei suoi elementi basici – si pensi alle
regole d’oro: «fa il bene ed evita il male»; «non fare a nessuno ciò che non
vuoi che sia fatto a te» –, presenti nella coscienza di ogni uomo e, poi, viene
costruito finalizzandolo al Sommo Bene, Dio. In questo contesto, la politica è ripensata e «trasfigurata» anzitutto nei termini di un umanesimo teocentrico che viene compreso, pervaso e posseduto dall’alto di una pienezza
d’amore, quella del Figlio di Dio, che ama sino alla follia della croce e che
inaugura l’umanesimo cristiano.
Un umanesimo cristiano implica un umanesimo aperto alla Trascendenza, non fondato su uno schema etico-culturale esclusivamente antropocentrico. Secondo tale schema, la condotta umano-politica è guidata da una
coscienza ove Dio è considerato come bene e fine ultimo; e l’unione del cuore
e della mente con Dio è il criterio del vero ordine dei fini. Dio, in definitiva,
è l’autore primo, anche se non unico, dell’ordine morale politico, che va realizzato servendo per primo Dio. Dio è l’aiuto per agire secondo un ordine
che realizza la politica secondo la sua volontà; è il giudice e il remuneratore
della vita impegnata in politica, sia essa virtuosa o viziosa.
Nell’attuale contesto socioculturale postmoderno, Benedetto XVI rilancia un’etica di prima persona, un’etica delle virtù che, grazie alla sua costitutiva apertura alla Trascendenza, recupera la legge morale naturale, ossia
una morale universale, che consente di risemantizzare i grandi principi della
giustizia e del bene comune, quali pilastri della vita sociale.17
L’etica che viene proposta dalla Caritas in Veritate non è, dunque, staccata dalla religione, dal rapporto con Dio. Si tratta, in particolare, di un’etica
che cresce nel grembo della fede cristiana. Il cristianesimo, esperienza di
comunione con Gesù Cristo, anima la vita morale degli uomini, senza nulla
togliere alla sua autonomia, anzi rafforzandola nella sua linea costitutiva
Ibid., n. 26.
Sulla risemantizzazione dei principi della giustizia e del bene comune si rimanda a M.
Toso, La speranza dei popoli, pp. 33-37.
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di compimento umano in Dio. Il cristianesimo, dunque, irriducibile ad una
mera etica politica naturale, la trascende, riconfermandola nella sua dignità
e nella sua dimensione sovrannaturale.
Benedetto XVI, proponendo il superamento delle dicotomie sopra elencate, in definitiva chiede di universalizzare l’etica. Essa: a) non dev’essere
vissuta solo in alcuni segmenti della politica e dell’economia (banche e fondi
etici), ma in tutti i loro momenti e settori; b) non va osservata solo al termine
della giornata quando eventualmente si opera nel volontariato, mentre durante la professione abituale ci si lascia guidare da ben altri criteri. L’etica
non è un’etichetta da apporre sulla propria attività professionale come un
marchio di qualità, cui però non corrisponde la realtà di ogni momento.
5. La dimensione «pubblica» della carità
Con la sua enciclica Benedetto XVI intende rivendicare la dimensione
pubblica del cristianesimo, spesso ritenuto superfluo se non addirittura dannoso per la civiltà da parte di non pochi benpensanti. La valutazione più
benevola nei confronti della religione cristiana è quella secondo cui esso è
una fonte di buoni sentimenti, utili sì per la convivenza sociale, ma marginali
nelle questioni di fondo.
Ebbene, a fronte di questo ridimensionamento, che vede il cristianesimo
relegato ad un ruolo consolatorio e periferico, alla filantropia e alla beneficenza, Benedetto XVI lo rilancia proponendolo come midollo dell’etica e
della vita politiche.
Il cristianesimo è a fondamento della politica, ne è un asse portante, non
un elemento decorativo. Lo è, in certa maniera, come le armature di ferro
sorreggono dall’interno i pilastri di cemento. Il cristianesimo, come vita di
amore, come carità, non si riduce ad azione assistenziale. È, anzitutto, sostanza, principio vitale sia delle microrelazioni amicali, familiari sia delle macrorelazioni: rapporti sociali, economici, finanziari e politici.18
Da un tale punto di vista, la carità svolge un ruolo pubblico di rilevanza
primaria per le società. Non ha una funzione suppletiva o contingente, integrativa delle carenze degli Stati, bensì una funzione d’animazione permanente
ed essenziale della vita sociale, che ha i suoi principi base nella solidarietà,
nella sussidiarietà, nella giustizia e nel bene comune. La carità è quell’atteggiamento costante, quella virtù che pervade e sorregge questi principi,
perfezionandoli, informandoli di sé, in una logica di dono e di gratuità.
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Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 2.
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Secondo Benedetto XVI è proprio la verità che ci fa comprendere la vera
natura della carità, nonché la sua forza di liberazione nelle vicende sempre
nuove della storia. Quando non sia conosciuta secondo la verità del suo essere, la carità appare come una forma di sentimentalismo. «L’amore diventa
un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore
in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni
contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il
contrario».19
6. La dimensione «istituzionale» della carità
La verità fa risplendere agli occhi di tutti lo splendore e la rilevanza pubblica della carità in ambito giuridico, culturale, politico ed economico. Ciò
facendo, aiuta i cristiani a riscoprire la dimensione politica ed istituzionale
della carità. Come afferma Benedetto XVI in un contesto culturale in cui gli
stessi credenti appaiono poco attenti alla riforma delle istituzioni – si pensi
anche solo alla riforma della legge elettorale – la forma politica ed istituzionale della carità non è «meno qualificata ed incisiva di quanto lo sia la carità
che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali
della pólis».20
Il cristiano che guarda alla città di Dio non deve disinteressarsi delle
cose di questo mondo, della città dell’uomo. Egli ha il dovere di impegnarsi
nel miglioramento delle istituzioni temporali, rendendo i mezzi sempre più
omogenei ai fini. Contribuirà così all’edificazione di quella universale città
di Dio, città senza barriere, verso cui avanza la storia della famiglia umana.
Detto diversamente, promulgando un’enciclica sociale, mediante cui intende rilanciare l’impegno evangelizzatore ed umanizzatore della Chiesa nel
mondo, ovvero il ruolo pubblico del cristianesimo, Benedetto XVI tematizza
il rapporto tra cristianesimo ed istituzioni. L’idea di fondo che la Caritas in
Veritate vuole comunicare è la seguente: nel momento in cui ci si ripromette
di offrire al mondo un nuovo lievito spirituale ed etico-culturale, non ci si può
disinteressare delle istituzioni (politica, economia, mercato, sindacato, partiti,
leggi, ordinamento giuridico, ricerca e formazione), della loro funzione, della
loro tenuta, del loro compito educativo. Dato che da sole non sono sufficienti
per creare un buono stato di cose, il benessere morale degli uomini e del
mondo, occorre che le istituzioni siano sostenute da un’opera di redenzione e
di formazione delle coscienze che attingano energie all’esterno. Pur con i loro
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Ibid., n. 3.
Ibid., n. 7.
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limiti, le istituzioni sono importanti e necessarie per rafforzare e sostenere le
pratiche di collaborazione che perseguono beni umani fondamentali per la società e per la Chiesa stessa: procreazione, salute, alimentazione, educazione,
ordine sociale, arte, libertà religiosa, progresso scientifico.
Al pari di tutti i cittadini, i cattolici sono chiamati ad aggiornarsi e a seguire
con attenzione il funzionamento delle istituzioni, perché queste possono influire positivamente o negativamente sullo sviluppo integrale dei popoli, sul
loro stesso progresso economico e, in particolare, sull’esperienza morale delle
persone. Bisogna tener presente che, quando le istituzioni sono in contrasto
con l’ordine morale, corrompono ed intaccano la stessa integrità dell’esperienza morale.21 E ciò non è cosa di poco conto, se ci si pone l’obiettivo della
creazione di un mondo più giusto e pacifico. Quando le leggi, i decreti – si
pensi anche solo a quello sullo «scudo fiscale» – e i comportamenti di coloro
che ricoprono ruoli pubblici contribuiscono a diffondere la convinzione che
è perfettamente inutile, anzi è dannoso vivere rettamente, è chiaro che un tale
ambiente sociale deteriorato diviene per se stesso diseducativo. Ma è proprio
in questi casi che chi desidera conservare la rettitudine e l’integrità dell’esperienza morale è particolarmente chiamato a condurre un’esistenza eroica,
attingendo all’amore donato da Cristo dall’alto della sua croce. Non solo.
È anche sollecitato a lottare decisamente per modificare quelle istituzioni e
quelle pratiche che gradualmente corrompono ed accecano le coscienze e
sgretolano la tradizione morale alimentata dal cristianesimo.
Lo stesso pontefice ha recentemente attirato l’attenzione sul fatto che la
diffusa legalizzazione del divorzio, propiziata da leggi piuttosto permissive e
liberalizzanti e la conseguente proliferazione delle cosiddette famiglie allargate stanno provocando danni gravi per
il capitale sociale delle società. Il fenomeno delle famiglie “allargate” e mutevoli
moltiplica i “padri” e le “madri” e fa sì che la maggior parte di coloro che si sentono “orfani” non siano figli senza genitori, ma figli che ne hanno troppi […].
Questa situazione – soggiungeva Benedetto XVI –, con le inevitabili interferenze
e l’incrociarsi di rapporti, non può non generare conflitti e confusioni interne,
contribuendo a creare e a imprimere nei figli una tipologia alterata di famiglia,
assimilabile in un certo senso alla stessa convivenza a causa della sua precarietà.22
Cfr. G. Abbà, Costituzione epistemica della filosofia morale, LAS, Roma 2009, p. 100.
Benedetto XVI, Discorso ai vescovi delle regioni del Nordest 1 e 4 della Conferenza
Episcopale del Brasile (venerdì 25 settembre 2009), in «L’Osservatore romano» (sabato 26
settembre 2009), p. 7.
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7. Per una conclusione: la potenza rivoluzionaria e riformatrice dell’amore
della Croce
L’amore nella verità – caritas in veritate –, che ci è donato dalla croce, è
un amore non solo per l’uomo, per la giustizia e per il bene comune, ma è soprattutto amore per Dio. Da quest’ultimo tipo di amore dev’essere animato
il credente e l’uomo di buona volontà, se non vogliono perdere la speranza
nei confronti del miglioramento della vita politica. È amando la giustizia e
il bene comune in se stessi, ma soprattutto per Dio, che è possibile continuare a lottare per conseguirli tra mille difficoltà e anche tra gli insuccessi. È
l’amore per Dio, considerato come un Tutto, che ci chiama ad uscire da ciò
che è limitato e non definitivo, che ci dà il coraggio di operare e di proseguire
nella ricerca del bene di tutti, anche se non ne vediamo immediatamente la
realizzazione, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi, le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo. È Dio
che ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché,
essendo il nostro Tutto, è la nostra speranza più grande.23
Il credente è chiamato a vivere una spiritualità a cui corrisponde l’immagine di un Uomo-Dio sanguinante, vestito di scarlatto e coronato di spine, e
che prende su di sé tutte le angosce del mondo e anche quelle per una politica
che può farlo precipitare nel baratro. È sulla statura morale dell’Uomo-Dio,
nel quale si è figli di uno stesso Padre, che la fede commisura e conforma i
cittadini e i loro rappresentanti, contribuendo alla rettitudine della loro vita.
È rimanendo uniti a Cristo, crocifisso e risorto, che essi partecipano al mistero della sua opera redentrice e vengono abilitati alla trasfigurazione della
politica e delle sue istituzioni.
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Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 78.
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Theologia crucis e
cittadinanza politica
Nella Lettera ai Filippesi
Antonio Pitta*
Introduzione
Nell’epistolario paolino la Lettera ai Filippesi si contraddistingue per la
declinazione tra il linguaggio politico (cfr. Fil 1,27; 3,20) e quello della croce
(cfr. Fil 2,8c; Fil 3,18). A ben vedere, anche in altre sue lettere Paolo affronta
questioni relative ai rapporti tra le sue comunità, sparse nelle principali città
dell’Impero, e le autorità amministrative (cfr. Rm 13,1-7) o giudiziarie (cfr.
1Cor 6,1-11), ma soltanto in Filippesi utilizza il vocabolario propriamente
politico: il verbo politeuesthai si trova soltanto due volte nel Nuovo Testamento (cfr. Fil 1,27 e At 23,1) e il sostantivo politeuma in Fil 3,20 risulta
hapax legomenon.1 Qual è la relazione tra theologia crucis e cittadinanza politica? Una visione così contrastante tra i nemici della croce di Cristo e la
cittadinanza politica che risalta in Fil 3,17-21 presenta tratti di attualità, nonostante siano notevolmente mutate le conformazioni e i rapporti tra Chiesa
e Stato? La tematica merita di essere approfondita poiché nella stessa lettera
compare per la prima volta nel Nuovo Testamento l’attributo soter, rivolto al
Signore Gesù Cristo cfr. (Fil 3,20), che in seguito assumerà i tratti di un vero
e proprio titolo soteriologico (cfr. Ef 5,23; Lc 2,11; 2 Pt 1,1.11; 2,20; 3,2).
1. Associazioni cultuali e autorità politiche
La Lettera ai Filippesi, scritta molto probabilmente a cavallo tra la fine
degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 d.C., da Roma, è inviata a una ekklesia
(cfr. Fil 4,15) di piccole dimensioni e propriamente domestica.2 Il sostantivo
Antonio Pitta, Ordinario di Esegesi del Nuovo Testamento nella Pontificia Università
Lateranense.
1 Gli altri termini del vocabolario politico sono rari nell’epistolario paolino e senza incidenza politica: cfr. polis in 2Cor 11,26.32; Rm 16,23; Col 4,13; Tt 1,5; politeia in Ef 2,12.
2 Sulle questioni introduttive di Filippesi, relative alla datazione, alla prigionia di Paolo
e all’integrità letteraria cfr. A. Pitta, Lettera ai Filippesi. Nuova versione, introduzione e commento (ILB NT 11), Milano 2010.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
ekklesia mutuato dall’Antico Testamento, soprattutto mediante la formula
ekklesia tou theou (cfr. ekklesia kyriou in Dt 23,3-4,9 o theou in Nee 13,1),
non indica un edificio ben visibile e circoscritto in un’area urbana, bensì
un’assemblea di persone radunate per finalità politico-religiose.
Con una buona dose di anacronismo si è ritenuto che mentre nell’Antico
Testamento e nella letteratura giudaico-ellenistica il termine ekklesia caratterizzasse una funzione religiosa, in quella pagana assumesse tratti politici,3
ignorando che i confini tra ambito religioso o cultuale e politico fossero
quanto mai labili se non inconsistenti in epoca ellenistica.4 D’altro canto
già Tucidide utilizzava il sostantivo ekklesia con accezione politico-religiosa:
«Poi, quando arrivò il giorno, fecero rinchiudere l’assemblea (ten ekklesian)
a Colono (è un recinto sacro a Poseidone fuori della città)».5 Per il I sec. d.C.
ci troviamo in un periodo del Principato romano e propriamente neroniano
che permette di delineare una conformazione ibrida delle prime comunità
cristiane.6 La prima domus ecclesiae può assumere i tratti di una sinagoga,
quando si sviluppa dove sono presenti comunità giudaiche della diaspora
(come a Roma e a Corinto), di una scuola filosofica e di un’associazione cultuale (come in Galazia e a Filippi). Anche di fronte a questa conformazione
ibrida si è giunti a una omologazione impropria che ha visto sostenitori per
l’una o l’altra ipotesi. In realtà è fondamentale cercare di distinguere il contesto socio-religioso di una città dall’altra, poiché in dipendenza di esso, si
sviluppano le prime comunità cristiane.
Nel caso specifico Filippi non è Corinto, né Roma dove la presenza giudaica è ben consolidata da tempo, bensì una cittadina tra le poche romanizzate in modo sostanziale in Macedonia: si aggirava intorno ai 10.000-15.000
3 Cfr. G. Barbaglio, Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico, EDB, Bologna
2006, p. 214.
4 Fra i più recenti contributi sull’ecclesiologia paolina in generale cfr. J.-N. Aletti, Essai
sur l’ecclésiologie des lettres de Saint-Paul (EB NS 60), Gabalda, Pendé 2009, pp. 1-109;
J.D.G. Dunn, La Chiesa, in La teologia dell’apostolo, pp. 520-602; A. Pitta, «Ecclesiologia
paolina», in G. Calabrese – P. Goyret – O.F. Piazza (edd.), Dizionario di ecclesiologia, Città
Nuova, Roma 2010, pp. 542-549. Circa la valenza interculturale del termine ekklesia nelle
lettere paoline cfr. il recente contributo di A. Du Toit, Paulus Oecumenicus: Interculturality
in the Shaping of Paul’s Theology in «NTS» 55 (2009), pp. 121-143.
5 Tucidide, Storie, 67,2,2.
6 Nonostante gli sviluppi successivi, sulle conformazioni delle comunità paoline della
diaspora resta attuale il fondamentale contributo di W.A. Meeks, The First Urban Christians.
The Social World of the Apostle Paul, Yale University Press, New Haven - London 1983. Circa
i dibattiti e gli approfondimenti successivi cfr. i contributi raccolti in T.D. Still – D.G. Horrell (edd.), After the First Urban Christians. The Social Scientific Study of Pauline Christianity
Twenty-Five Years Later, T. & T. Clark, London - New York 2009.
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abitanti, includendo le aree rurali circostanti. Inoltre sino a oggi non abbiamo attestazioni su una presenza giudaica prima del 70 d.C. a Filippi.7 In
base alla narrazione degli Atti degli Apostoli è menzionata soltanto Lidia,
peraltro ignorata in Filippesi e nel resto del Nuovo Testamento, che è definita come «timorata di Dio» (At 16,14): la categoria di quanti simpatizzano
per il giudaismo palestinese o della diaspora, senza pervenire a una definitiva
giudaizzazione. Anche se il migliaio di iscrizioni rinvenute a Filippi e nel
territorio circostante dimostra la presenza di diversi culti locali (di origine
greca e tracia) o importati (cfr. il culto di Iside di origine egiziana),8 questi
sono assorbiti e sottoposti al culto dell’Imperator. Particolare importanza ha
nella cittadina romanizzata il cursus honorum civile, cui potevano accedere
soltanto i cittadini liberi, ma che era negato agli schiavi e ai liberti, anche se
questi potevano essere ingaggiati per incarichi civili.9
Il breve retroterra delineato è di fondamentale importanza per la Lettera
ai Filippesi non soltanto rispetto al vocabolario politico che la caratterizza,
ma per il cursus honorum e l’importanza del servizio municipale. I contrasti
tra la divinizzazione dell’imperatore e la carriera pubblica, da una parte, e il
cursus pudorum o del disonore, intrapreso volontariamente da Cristo Gesù,
nel famoso elogium di Fil 2,6-11, e da Paolo nella sezione autobiografica
di Fil 3,4-11, dall’altra, si spiegano bene nel contesto civile-religioso di Filippi.10 Alcuni studiosi hanno cercato di motivare nello stesso retroterra la
prima citazione di episkopois kai diakonois in Fil 1,1b per il Nuovo Testamento, equiparandoli ai responsabili delle associazioni cultuali minori della
città.11 In realtà non ci sono pervenute iscrizioni, né tanto meno attestazioni
7 Sul contesto sociale, politico e religioso di Filippi cfr. L. Bormann, Philippi: Stadt und
Christengemeinde zur Zeit des Paulus (NT. Sup. 78), Brill, Leiden 1995; P. Oakes, Philippians. From People to Letter (SNTS.MS 110), University Press, Cambridge 2001, pp. 1-54;
P. Pilhofer, Philippi. Die erste christliche Gemeinde Europas (WUNT 87), Mohr Siebeck,
Tübingen 1995; C.S. De Vos, Church and Community Conflicts: The Relationships of the
Thessalonian, Corinthian, and Philippian Churches with their wider Civic Communities (SBL.
DS 168), Scholars Press, Atlanta (GA) 1999, pp. 233-287; R.S. Ascough, Paul’s Macedonian
Association: The Social Context of Philippians and 1 Thessalonians (WUNT 2.161), Mohr
Siebeck, Tübingen 2003.
8 Il catalogo delle iscrizioni provenienti da Filippi e dal territorio circostante è stato
raccolto dal fondamentale contributo di P. Pilhofer, Philippi. II. Katalog der Inschriften von
Philippi (WUNT 119), Mohr Siebeck, Tübingen 2000.
9 J.H. Hellerman, Reconstructing Honor in Roman Philippi. Carmen Christi as Cursus
Pudorum (SNTS.MS 132), University Press, Cambridge (UK) 2005.
10 J.H. Hellerman, The Humiliation of Christ in the Social World of Roman Philippi, Part
2, in «Bibliotheca Sacra» 160 (2003), pp. 421-433.
11 Così P. Pilhofer, Philippi, I, pp. 146-147, che assimila l’episkopos con il procurator,
di alcune iscrizioni. L’analogia è forzata per la funzione vicaria affidata al procurator e non
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letterarie su tali assimilazioni, per cui restano alcuni tratti d’ombra sulla conformazione della prima comunità cristiana insediata in Europa.12 Il binomio
può essere reso con “sorveglianti e ministri”, con accezione generica, senza
ancora distinguere l’episkopos dal diakonos e dal presbyteros delle successive
lettere pastorali e della tradizione sub-apostolica.
2. I nemici della croce
Se sulla cittadina della Macedonia non ci sono pervenute attestazioni per
la presenza di una comunità giudaica, prima del 70 d.C., le mordaci invettive
di Fil 3,2 («Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi
dalla circoncisione») assumono i tratti di una strategia preventiva pronunciata contro altri predicatori cristiani di origine giudaica che hanno contrastato la predicazione di Paolo, come di fatto si è verificato in Galazia
(cfr. Gal 1,6-10; 3,1-4; 5,2-12).13 Per inverso se prescindiamo da Fil 3,2-4,
nell’ordito della lettera risalta il contrasto tra i cristiani di Filippi e gli altri
cittadini: «Soltanto comportatevi da cittadini in modo degno del vangelo di
Cristo… e senza lasciarvi spaventare in nulla dagli oppositori, che è per loro
dimostrazione di perdita, per voi invece di salvezza, e questo viene da Dio,
perché a voi è stata data la grazia per Cristo non soltanto di credere in lui,
ma anche di soffrire per lui» (Fil 1,27-29).
Il conflitto con l’ambiente civile-religioso torna in Fil 2,14-16a: «Fate
tutto senza mormorazioni e controversie, affinché siate irreprensibili e integerrimi, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione distorta e perversa, in cui risplendete come stelle nel cosmo, tenendo ferma la parola di
vita…». Per contrastare le avversità economiche ed etiche in cui vivono e
operano i destinatari, Paolo li esorta a consolidare l’unità ecclesiale (cfr. Fil
2,1-4) e ad attestare una gioia condivisa per il progresso dell’evangelo. L’ultimo accenno agli avversari si ripresenta in Fil 3,18-19 dove Paolo li definisce
all’episkopos in Fil 1,1 e perché, negli anni 50 d.C. non abbiamo testimonianze di convertiti al
cristianesimo provenienti dalle classi sociali più elevate di Filippi.
12 Sugli sviluppi dell’episkopos in Fil 1,1 e nella tradizione paolina successiva cfr. R.
Penna, La funzione ecclesiale dell’episkopos nel Nuovo Testamento (lettere pastorali), in R.
Penna, Paolo e la Chiesa di Roma (bcr 67), Paideia, Brescia 2009, pp. 240-251.
13 Recentemente M. Nanos, Paul’s Reversal of Jews Calling Gentiles “Dogs” [Philippians
3:2]: 1600 Years of an Ideological Tale Wagging an Exegetical Dog?, in «Biblical Interpretation» 17 (2009), pp. 475-481, per contrastare l’interpretazione antigiudaica di Fil 3,2 propone
l’ipotesi che si tratti di avversari di origine gentile. In realtà riteniamo che non siano presi di
mira alcuni giudei o gentili, bensì alcuni anonimi cristiani di origine giudaica. Per gli approfondimenti cfr. A. Pitta, Paolo, la Scrittura e la Legge (SB 57) EDB, Bologna 2008, pp. 72-78.
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come nemici della croce di Cristo: «Molti infatti si comportano, come spesso
vi ho detto, ora però dico anche piangendo, da nemici della croce di Cristo;
la loro fine (è) la perdizione, giacché il loro dio (è) il ventre e la gloria nella
vergogna, essi che pensano alle cose terrene». Per esortare i Filippesi a seguire il suo esempio (Fil 3,17) e di quanti, come Timoteo ed Epafrodito, non
curano i propri interesse e hanno rischiato la vita sino a rasentare la morte
(cfr. Fil 2,19-30), Paolo indugia nuovamente su coloro che hanno per «dio
il loro ventre».14
I tre paragrafi citati orientano verso l’identità gentile e civile degli avversari: forse si tratta di cittadini che ostacolano le piccole comunità domestiche, sorte in seguito all’evangelizzazione di Paolo, per la loro assurda e
originale fede nella croce di Cristo, considerata piuttosto come servile supplicium e pena capitale del disonore totale.15 Per questo molto probabilmente si deve a Paolo l’aggiunta «morte però di croce», inserita al momento
culminante della kenosis di Cristo (Fil 2,8c), nell’elogium di Fil 2,6-11, di
matrice prepaolina.16 Pertanto la fede nel messia crocifisso rende nemici gli
amici di un tempo e crea un conflitto irrimediabile tra la minoranza cristiana
e la maggioranza civile di Filippi.
3. Un proclama antipolitico?
L’istanza a operare da cittadini degni dell’evangelo di Cristo (cfr. Fil 1,27)
è rapportata all’appartenenza di una cittadinanza celeste (cfr. Fil 3,20) che
pone in crisi o quanto meno relativizza l’acquisizione di una cittadinanza
romana o politica. Le diverse asserzioni polemiche della Lettera ai Filippesi
14 Per la centralità della mimesi umana in Filippesi cfr. A. Pitta, Mimesi delle differenze
nella Lettera ai Filippesi, in «Rivista biblica» 57 (2009), pp. 347-370.
15 J.H. Hellerman, The Humiliation of Christ in the Social World, Part 2, p. 428.
16 Si deve a E. Lohmeyer, Kyrios Jesus. Eine Untersuchung zu Phil 2,5-11, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Heidelberg 1928, pp. 51-96 il merito di aver inaugurato la ricerca
verso l’origine prepaolina di Fil 2,6-11. In seguito cfr. J. Heriban, Retto phronein e kenosis.
Studio esegetico su Fil 2,1-5.6-11 (BSR 51), LAS, Roma 1983, 72; R.P. Martin, Carmen Christi.
Philippians ii.5-11, in Recent Interpretation and in the Setting of Early Christian Worship
(SNTS.MS 4), University Press, Cambridge (UK) 1967, pp. 42-62; R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II Gli sviluppi, San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 122; E. Testa, Un inno prepaolino della catechesi primitiva (Fil 2,6-11), in «SBFLA» 47 (1997), pp. 97-116; T.H. Tobin, The World of Thought in the
Philippians Hymn (Philippians 2:6-11), in J. Fotopoulos (ed.), The New Testament and Early
Christian Literature in Greco-Roman Context. Studies in Honor of David E. Aune (NT. Sup.
122), Brill, Leiden - Boston 2006, p. 91.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
hanno indotto alcuni studiosi a sostenere che la visione politica di Paolo
sia di tipo eversivo o anti-imperiale.17 Non si può negare che se la cittadinanza cui appartengono i credenti non è soltanto escatologica o futura, ma
è attuale, se i loro nomi sono scritti nel libro della vita e non nel registro
municipale della città (cfr. Fil 4,3) e se si trovano a operare in una generazione distorta e perversa (cfr. Fil 2,15) il modo con cui Paolo stigmatizza gli
avversari di Filippi è tutt’altro che politicamente corretto. Se il kyrios e soter
non è l’imperatore, da cui dipende l’incolumità fisica e morale dei cittadini,
ma Gesù Cristo, un contrasto deve pur risaltare nella strategia politica di
Paolo. Tuttavia non è fortuito che tali conflitti siano declinati, nello stesso
tempo, con un comportamento integerrimo e irreprensibile, per cui la fede
nel messia crocifisso non implica un atteggiamento antistatale che assuma
i tratti dell’anarchismo.18 Così Paolo raccomanda ai Filippesi nell’epilogo
della lettera:
La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini, il Signore è vicino. Non preoccupatevi di nulla, ma in tutto con preghiera, supplica e con ringraziamenti le vostre
richieste siano fatte conoscere presso Dio. E la pace di Dio che eccede ogni
intelligenza custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. Per il resto,
fratelli, quanto è vero, quanto degno, quanto giusto, quanto onesto, quanto amabile, quanto onorevole, se c’è qualche virtù, se c’è qualche lode, questo considerate (Fil 4,5-8).19
Nonostante le avversità economiche e morali i credenti sono esortati ad
assumere i valori più positivi dell’etica sociale e civile, altrimenti rischiano di
proporre un’etica alternativa che, presentandosi come tale, li delegittima dal
loro impegno politico. Di fatto la o le piccole comunità cristiane di Filippi
non sono relegate in un ghetto della cittadina romanizzata, ma continuano
a operare in essa, tenendo alta la Parola di vita (cfr. Fil 2,16) nello stesso
contesto persecutorio. Ed è in questo contrasto tra attestazione contro i nemici della croce di Cristo e affabilità nota a tutti gli uomini che si decide la
17 R.A. Horsley, Paul and Empire: Religion and Power in Roman Imperial Society, Trinity
Press International, Harrisburg (PA) 1997.
18 Analoghe critiche all’ipotesi di Horsley sono state avanzate da E. Adams (First-Century
Model for Paul’s Churches: selected Scholarly Developments since Meeks, in T.D. Still – D.G.
Horrell (edd.), After the First Urban Christians, pp. 74-76.
19 M. Bockmuehl (Jewish Law in Gentile Churches. Halakhah and the Beginning of Christian Public Ethics, T. & T. Clark, Edinburgh 2000, p. 139) evidenzia bene il paradosso fra le
antitesi precedenti di Fil 1,27-30; 2,15.21; 3,2-14.18-21 e Fil 4,8, in cui sono assunti i valori
più naturali della polis.
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loro sopravvivenza e la loro testimonianza per il vangelo di Cristo (cfr. Fil
1,27). Qual è dunque il criterio che permette di testimoniare il vangelo senza
dimenticare quanto di virtuoso e lodevole si trova nella città terrena cui,
comunque, si appartiene?
4. L’unica realtà che conta e fa la differenza
Le tre principali unità letterarie che si susseguono nella Lettera ai Filippesi (Fil 1,12-30; 2,1-3,1a; 3,1b-4,1) sono scandite dall’unica realtà che
conta e che diventa criterio unificante per quanto permette di testimoniare
la croce di Cristo, senza cedere a forme di disimpegno civile o politico.
Nella sezione di Fil 1,12-30 l’unica realtà che conta per Paolo è segnalata
in Fil 1,18b: «Che importa? Purché in ogni modo sia annunciato Cristo, sia
con finzione sia con verità; e in questo gioisco». A prima vista la priorità
dell’annuncio di Cristo, a prescindere dalle intenzioni umane, potrebbe
evocare una strategia machiavellica per cui il fine giustificherebbe i mezzi.
In realtà, la proposizione intende evidenziare che l’annuncio di Cristo, con
la parola e con la vita, sino a comportare uno stato di carcerazione, relativizza le intenzioni umane e punta l’attenzione sul progresso dell’evangelo
(cfr. Fil 1,12). Pertanto non è il fine a giustificare i mezzi, leciti o illeciti,
bensì il fine, che è Cristo, relativizza i mezzi, sino a diventare l’unica ragione del proprio vivere (cfr. Fil 1,20). Di conseguenza quando il fine è
sottovalutato o relativizzato dai mezzi, Cristo non è più annunciato e non
si verifica il progresso del vangelo fra i credenti (cfr. Fil 1,25) e tra quelli
che assistono alla loro testimonianza nel Pretorio (cfr. Fil 1,13) o in qualsiasi contesto civile o forense. Se l’asserzione di Fil 1,18 è posta in parallelo
con quelle mordaci contro gli altri predicatori del vangelo (cfr. Gal 1,5-10;
3,1-5; 5,2-12) si comprende come Paolo ha dovuto imparare a non conferire eccessiva importanza alle intenzioni umane, ma a essere iniziato a tutto
perché soltanto Cristo è colui che lo rafforza (cfr. Fil 4,12-13). Pertanto la
denuncia contro i cattivi operai (del vangelo) in Fil 3,2 non può delegittimare i credenti dalle proprie responsabilità, pena il regresso dello stesso
vangelo nel contesto civile-religioso.
L’unica realtà o, in definitiva, persona che conta è ripresa all’inizio della
seconda sezione di Filippesi (Fil 2,1-4,1a): «Se dunque (c’è) incoraggiamento
in Cristo, se conforto dell’amore, se comunione dello Spirito, se viscere di
misericordia, completate la mia gioia, affinché valutiate allo stesso modo,
avendo lo stesso amore, unanimi, valutando l’unica cosa, nulla per rivalità,
né per vanagloria, ma stimandovi vicendevolmente con umiltà superiori a
se stessi» (Fil 2,1-3). L’esortazione per l’unica realtà è rapportata al verbo
phronein, difficile da tradurre, ma che svolge un ruolo centrale nella Lettera
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ai Filippesi.20 Sulla sua definizione è importante richiamare quanto precisa
Cicerone nel De officiis 1,43, a proposito della phronesis: «… I greci chiamano phronesis e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare
o fuggire». L’unico phronein che Paolo sta additando per i Filippesi non è
semplicemente questione di sentimenti o di pensiero, bensì di valutare con
discernimento ciò che si deve perseguire e quanto, al contrario, bisogna evitare. Risaltano così le virtù dell’amore vicendevole (Fil 2,2), dell’umiltà (Fil
2,3) e dell’obbedienza (Fil 2,12) che riscontrano in Cristo l’esemplarità inimitabile (Fil 2,6-8), ma per questo causale o sorgiva. A una visione ecclesiale
e politica in cui si tende a considerarsi superiori agli altri, curando i propri
interessi, si oppone una che nell’umiltà di Cristo riscontra la ragione ultima
del proprio modo di rapportarsi ai fratelli e alle sorelle della stessa comunità.
Pertanto in questione non è la volontà, né il sentimento, bensì il modo di
valutare e di pensare con discernimento quanto più conta e crea differenza
rispetto alla propria carriera politica o al servizio ecclesiale.
Anche l’ultima sezione della lettera (Fil 3,1b-4,1) è scandita dalla definizione dell’unico criterio: «Fratelli io non ritengo rispetto a me stesso di
aver conquistato; una cosa però (conta): da una parte dimenticando ciò che
sta dietro e dall’altra protendendomi verso ciò che sta davanti, corro verso
la mèta, per il premio della chiamata superiore di Dio in Cristo Gesù» (Fil
3,13-14). Siamo nel contesto della metafora sportivo-agonistica (Fil 3,13-4,1)
che Paolo mutua dall’ambiente atletico delle città imperiali,21 ma che non
è stata approfondita per la sua rilevanza politica. A riguardo è illuminante
quanto Dione di Prusa (seconda parte del I sec. d.C.) scrive nell’Orazione
VIII o Sulla Virtù a proposito di Diogene di Sinope:22
(11) Un tale gli domandò se anche egli fosse venuto per osservare la gara (ton
agona). «No, ma come partecipante (agoniomenos)». Quello si mise a ridere e gli
chiese quali fossero i suoi antagonisti (tous antagonistas). (12) Egli guardandolo
bieco, come era solito, disse: «I più difficili e veramente invincibili e ai quali
nessuno dei greci può guardare in faccia. Non sono però avversari che corrono
Cfr. L’uso di phronein in Fil 1,7; 2,2.5; 3,15.15.19; 4,2.10.10.
V.C. Pfitzner, Paul and the Agon Motif: Traditional Athletic Imagery in the Pauline
Literature (NT. Sup. 16), Brill, Leiden 1967; U. Poplutz, Athlet des Evangeliums. Eine motivgeschichtliche Studie zur Wettkampfmetaphorik bei Paulus (HBS 43), Herder, Freiburg i.B.
2004; M. Brändl, Der Agon bei Paulus. Herkunft und Profil paulinischer Agonmetaphorik
(WUNT 2.222), Mohr Siebeck, Tübingen 2006.
22 Dione di Prusa, The Eighth Discourse: Diogenes or on Virtue, J.W. Cohoon (ed.), Dio
Chrysostom (LCL 257), Harvard University Press, Heinemann, Cambridge (MA) - London
1971, I, 382; Id., Sulla virtù (or. 8), M.C. Ciollaro (tr.), D’Auria, Napoli 1983.
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(diatrechontas), lottano, saltano, combattono con il pugilato, lanciano il giavellotto e il disco, ma quelli che rendono sapienti (tous sophronizontas)». (13) «E
quali sono?», domandò. «Sono le fatiche, rispose, le più pesanti e insuperabili
dagli uomini ben sazi di cibi e gonfiati che passano tutte le loro giornate a mangiare e le loro notti a russare, ma che sono vinte da uomini sottili e magri, i cui
ventri son più sottili di quelli delle vespe. (14) O tu credi che questi grossi ventri
(koilias) servano a qualcosa … Infatti io credo che costoro abbiano meno anima
dei maiali. (15) Invece l’uomo nobile ritiene (hogeitai) che i suoi maggiori antagonisti siano le fatiche e con questi desidera battersi (machesthai) notte e giorno,
non per ottenere un ramo di sedano, come le capre, né un ramo di olivo silvestre
o di pino per ottenere la felicità e la virtù per tutta la vita e non solo quando
fanno la proclamazione (dei vincitori) gli Elei, i Corinzi o l’assemblea dei Tessali.
Egli non teme alcuna delle fatiche, né si augura che tocchino a un altro, (16) ma
tutte di seguito le sfida, lottando con fame e freddo, e assoggettandosi alla sete…
Fame ma anche esilio, disonore, e cose simili non le considera terribili per lui,
ma affatto leggere e spesso l’uomo perfetto (ton teleion) gioca con queste cose,
come i fanciulli con gli astragali e con le palle colorate».
Diverse sono le connessioni tra Fil 3,13-4,1 e l’Orazione VIII di Dione di
Prusa, non ultima quella del genere che caratterizza i due brani: la periautologia o il vanto di sé, cui sono costretti Paolo e Dione da una parte per consolidare la fede dei Filippesi (cfr. Fil 3,1),23 e dall’altra per difendersi dopo
le persecuzioni subite dalle autorità imperiali. Se sostituiamo il rapporto con
la virtù filosofica, evidenziato da Dione di Prusa, con la relazione tra Paolo
e Cristo, propria di Fil 3,14-21, risalta lo stesso modello, con la differenza
fondamentale che il criterio del discernimento per l’unica realtà che conta è
per Paolo la croce di Cristo, da cui scaturisce la previa conquista compiuta
dal Risorto per lui e la sua conformazione quotidiana alla sua morte in vista
della futura partecipazione alla risurrezione dai morti.
I tre orizzonti che abbiamo rilevato sul criterio di quanto crea la differenza impongono un’importante correzione rispetto alla tipologia dell’adiaphoralogia o dell’indifferenza, diffusa nella filosofia ellenistica del I sec. d.C.,
e assunta da Paolo.24 Nel suo caso si dovrebbe parlare non di adiaphoralogia,
Sull’uso e le funzioni della periautologia nell’epistolario paolino cfr. A. Pitta, Paolo e
il giudaismo farisaico, in Id., Paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 56-58. In seguito cfr. F. Bianchini, L’elogio di sé in Cristo. L’utilizzo della
«periautologia» nel contesto di Fil 3,1-4,1 (AnB 164), PIB, Roma 2006; S. Bittasi, Gli esempi
necessari per discernere. Il significato argomentativo della struttura della lettera di Paolo ai
Filippesi (AnB 153), PIB, Roma 2003; A. Pitta, Il «discorso del pazzo» o periautologia immoderata? Analisi retorico-letteraria di 2 Cor 11,1-12,18, in «Bib» 87 (2006), pp. 493-510.
24 Cfr. W. Deming, Paul and Indifferent Things, in J.P. Sampley (ed.), Paul in the GrecoRoman World. A Handbook, Trinity Press International, Harrisburg-London - New York
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bensì di diaphoralogia, poiché è quanto o chi crea la differenza che relativizza il resto sia in senso negativo, sia positivo.25 Non a caso è soltanto colui
che lo rafforza (cfr. Fil 4,13), che gli permette di affrontare le situazioni faste
e nefaste dell’esistenza, diventando ancora una volta esempio per i Filippesi.
Conclusione
L’impatto della Lettera ai Filippesi sulla teologia politica antica e contemporanea è notevole: la croce di Cristo, quale criterio ultimo per qualsiasi
situazione politica, impone ai credenti di discernere il rapporto tra il relativo
e l’assoluto, l’utile dal necessario e il bene dal male. Quando ciò che è relativo rischia di offuscare l’assoluto della croce di Cristo crea uno spartiacque
inevitabile tra amici e nemici nello stesso ambiente politico-religioso, pena
l’estinzione di una minoranza religiosa come per la prima comunità cristiana
di Filippi. In definitiva la situazione politico-religiosa della comunità cristiana di Filippi non è molto diversa da quella che agli inizi del II secolo
Plinio il Giovane cercherà di contrastare in Bitinia, scrivendo all’Imperatore
Traiano:
D’altra parte essi (i cristiani) affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano
consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di
cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio, e di obbligarsi,
con giuramento, non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere furti o
brigantaggi o adulteri, a non mancare alla parola data, né a negare, se invitati, di
restituire un deposito. Compiuti i quali riti, avevano l’abitudine di separarsi e di
riunirsi ancora per prendere il cibo, ordinario peraltro e innocente. Perfino da
questa pratica avevano desistito, dopo il mio decreto, con il quale, secondo i tuoi
ordini, avevo vietato le eterìe.26
Il commento più pertinente sugli sviluppi della teologia politica di Paolo,
incentrata sulla sua theologia crucis, nella costante ricerca di quanto è as-
2003, 384-403; T. Engberg-Pedersen, Stoicism in Philippians, in T. Engberg-Pedersen (ed.),
Paul in his Hellenistic Context, T. & T. Clark, Edinburgh 1994, 262; P.A. Holloway, Consolation in Philippians: Philosophical sources and Rhetorical Strategy (SNTS.SS 112), University
Press, Cambridge (UK) 2001, 104-106; J.L. Jaquette, Discerning what Counts: The Formation
of the Adiaphora Topos in Paul’s Letters (SBL.DS 146), Scholars Press, Atlanta (GA) 1995.
25 A. Pitta, Mimesi delle differenze, 351.
26 Plinio Il Giovane, Epistola 96,7.
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soluto e relativo, si riscontra negli echi riprodotti dalla Lettera ai Filippesi
nell’anonimo scritto A Diogneto, tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C.:
…Ogni terra è la loro patria e ogni patria è per loro terra straniera… La terra è
la loro dimora, ma la abitano da cittadini del cielo… (en ouranoj politeuontai)…
Sono combattuti dai giudei, quali uomini di un’altra razza, e perseguitati dai
greci. Ma quelli che li odiano non sanno dire il motivo della loro avversità.27
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A Diogneto 5,5-17.
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LA PAROLA DELLA CROCE,
ORIGINE E RAGIONE DI GRATUITÀ
E FRATERNITÀ
Giuseppe Marco Salvati*
Introduzione
Se colpisce un prisma di cristallo, un fascio di luce si scompone, manifestando una pluralità e una varietà di colori. Analogamente, quando la Parola
della croce attraversa l’intelligenza e il cuore dei credenti, si sprigionano da
essa tanti raggi limpidi, ognuno dei quali suscita meraviglia e ammirazione.
Le riflessioni che qui saranno proposte vogliono esprimere qualcuno dei
tanti “colori” emergenti dall’accogliere il logos tou staurou (1Cor 1,18). In
particolare, esse porranno in evidenza che la croce può diventare “pietra angolare” rispetto a una costruzione del vivere e del rapportarsi degli uomini
rispettosa della loro dignità e di quella del Dio trino. La croce di Cristo è un
autentico paradigma, ossia modello, riferimento, ispirazione e criterio, nei
confronti dell’esercizio della nostra libertà nella storia. Chi la pone in cima
alla scala dei propri valori, diventa costruttore di una civiltà nuova, capace
di garantire a tutti rispetto e promozione.1 Per quale ragione?
Per comprenderlo, ci si soffermerà su tre dimensioni o aspetti della croce:
essa è evento di libertà, di solidarietà e di kenosi, da cui discendono, da una
parte, una nuova possibile definizione dell’identità dell’uomo, dall’altra, alcune importanti prospettive e sfide per l’impegno dei credenti nella storia.
1. La croce, evento di libertà
La parola che Gesù rivolge ai discepoli di Emmaus: «non bisognava che
il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc
24,26), sembrerebbe conferire all’evento della croce un carattere di ineluttabilità, di necessità; quasi come se essa fosse per Dio l’unica condizione
che porti l’uomo e il mondo alla liberazione. In verità, questa necessità è di
Giuseppe Marco Salvati, Ordinario di Teologia Dogmatica nella Pontificia Università
San Tommaso.
1 Cfr. I. Hernández Delgado, O.SS.T. (ed.), Otro mundo, más humano, es posible. Compasión, Justicia y Espiritualidad, para una globalización alternativa. Actas del VI Congreso Trinitario Internacional, Granada 2006, Publicaciones Secretariado Trinitario, Córdoba 2008.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
carattere subordinato e successivo, rispetto a un progetto libero, che il Dio
trino vuole realizzare a favore delle sue creature. È all’interno di una storia
di libertà vissuta dai Tre che s’inscrive una sorta di necessità conseguente,
quella di una dedizione di sé, che vuole giungere fino alla morte e alla morte
di croce di Gesù di Nazaret. Senza questo riferimento fondamentale, si rischierebbe, da una parte, di falsare il senso corretto dell’evento della croce;
dall’altra, di intendere in modo non preciso l’identità di Dio, fino a immaginarla come quella di un essere sadico e spietato. Si rischierebbe, inoltre,
di presentare il cristianesimo in modo distorto, come la religione che esalta
il dolore e, di conseguenza, come esperienza inaccettabile, da parte di chi
desideri esercitare con equilibrio le proprie capacità e voglia tutelare con
attenzione la propria dignità.
Invece, si deve sempre ricordare che il comunicarsi di Dio alla storia è
un evento di libertà, di gratuità («piacque a Dio nella sua bontà e sapienza
rivelare se stesso»: Dei Verbum 2). È all’interno di questo libero disegno che
s’inscrive l’evento del Calvario; al di fuori di esso, la croce continuerebbe a
configurarsi come una delle più insensate e drammatiche esperienze della
storia e, per questo, sarebbe giustamente da tenere rigorosamente lontana
dalla mente e dal cuore di ogni uomo.2 Il Dio di Israele e dei cristiani non
è un Dio che si compiace del male; non lo vuole, quasi fosse un elemento
indispensabile dell’essere e del vivere. Certo, l’esistenza del male e del negativo costituisce da sempre una delle più difficili sfide poste all’esperienza
dei credenti e uno degli impegni più ardui del pensiero che voglia conciliare
la bontà di Dio con l’esistenza del negativo.3 La croce sta a dimostrare che
Dio non si tiene ai margini dell’esperienza del dolore, ma la fa propria, in
qualche maniera; anzi, nel Figlio, la assume fino alle estreme conseguenze,
con serietà.4
La croce è un evento di libertà anche sotto un ulteriore e importantissimo profilo: quello più strettamente cristologico; Gesù di Nazaret è stato
protagonista di una storia singolare, che lo vede all’opera quale soggetto
capace di autentiche azioni umane (oltre che di azioni possibili solo in virtù
2 Cicerone, Pro Rabirio, 5, 16: «Nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium
Romanorum, sed etiam a cogitatione, oculis, auribus».
3 Su questo complesso tema, cfr., tra l’altro: Rivista «Humanitas» 5 (2008); C. Ciancio,
Del male e di Dio, Morcelliana, Brescia 2006; V. Possenti, Dio e il male, SEI, Torino 1995;
G. Tangorra – D. Pompili (a cura di), Il male e i suoi volti, Edizioni San Lorenzo, Reggio
Emilia 2003.
4 Cfr., ad es., B. Forte, Il vangelo della sofferenza di Dio, in «Camillianum» 21 (2007), pp.
589-604. Con atteggiamento più prudente si è espresso recentemente sul tema G. Canobbio,
Dio può soffrire?, Morcelliana, Brescia 2005.
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del possesso della divinità).5 Nella storia di Gesù, la croce costituisce la naturale conclusione di una vita vissuta costantemente nello sforzo di attuare
il significato più profondo della libertà umana, che consiste nel determinarsi
verso un fine individuato dall’intelligenza, mettendo in atto tutte le scelte,
piccole o grandi, che si rendono necessarie per conseguirlo. Gesù di Nazaret
ha eletto quale fine precipuo del proprio esistere il Padre e il suo progetto,
nulla anteponendo ad esso; in nome di questo fine luminoso e faticoso da
attuare, egli ha posto in essere i gesti concreti testimoniatici dai Vangeli: la
predicazione del Regno, l’insegnamento parabolico, la chiamata dei Dodici,
le polemiche, i dibattiti. Nel nome del Padre, ha affrontato con coerenza e a
testa alta le autorità politiche e quelle religiose, disposto a pagare di persona
il prezzo delle proprie scelte, senza tentennamenti, anche se con tutto il disagio umano che inevitabilmente accompagna l’esercizio della libertà.
Stando al cospetto della croce, una prima domanda si impone: la comunità cristiana si è sempre lasciata contagiare da questa libertà, vissuta dal
Signore Gesù con coerenza che giunge fino alla morte? Non è difficile constatare quanti martiri della libertà siano fioriti in duemila anni di cristianesimo; ma è altrettanto corretto riconoscere che molte volte i credenti si sono
resi responsabili di gravi offese alla libertà. Troppe volte la croce è servita da
scusa e da scure per offuscare la libertà; non sono state poche le occasioni in
cui sulla croce di Cristo sono state inchiodate le persone e le coscienze. In
questo senso, la Parola della croce torna a risuonare come un monito per la
chiesa del terzo millennio, affinché essa si faccia promotrice e garante delle
libertà, se vuole pronunciare un messaggio veramente coerente con la parola
e con la prassi del suo Maestro. La comunità di coloro che vivono la sequela
Christi ama e promuove la libertà: sulle orme del Signore, con Paolo, sappiamo di essere «stati chiamati a libertà» (Gal 5,3).
2. La croce, evento di solidarietà
Oltre che conclusione di una storia di libertà, la croce di Cristo è anche
punto di arrivo di una storia di solidarietà, che il Cristo ha voluto vivere, in
obbedienza al Padre, già prima di esercitare, nel mondo e nel tempo, l’esperienza del vivere umano: «pur essendo di natura divina, non considerò un
tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo
la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma
umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
5 Sulla libertà di Gesù, cfr., ad es.: C. Duquoc, Gesù uomo libero, Queriniana, Brescia
20074.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
croce» (Fil 2, 6-8). La comunità cristiana primitiva ha percepito molto bene
questo aspetto della storia del suo Signore, in particolare degli eventi finali
della sua vita. Non a caso, quando ha cercato di comprendere il senso di ciò
che era accaduto sul Calvario, ha fatto ricorso alla figura del Servo sofferente
(Is 52,13 - 53,1-12), emblema luminoso della solidarietà che si fa carico del
peccato e del dolore dei fratelli. Solo in un orizzonte di solidarietà, come fa
sempre la Scrittura, si può tollerare che il giusto muoia per il peccatore; solo
là dove è in atto la “comunione del pane e del peccato” può trovare spazio e
senso il consumarsi a favore del fratello, anche fino alla morte.
Nel mondo e nel tempo del cosiddetto “quarto uomo”,6 che, pur vivendo
nel villaggio globale, è tutto autoreferenziale e sostanzialmente chiuso nel
proprio io, non sempre si riesce a far apprezzare il senso della solidarietà;
quest’ultima, per i credenti, è una necessità che discende dal fatto che gli
uomini sono profondamente vincolati fra di loro e con tutte le creature del
mondo. La solidarietà comporta l’impegno a farsi carico, l’uno a favore
dell’altro, della costruzione del bene, della lotta contro ciò che mortifica,
della difesa degli ultimi. In questo senso, la croce, oltre che punto di arrivo,
è chiaramente per la comunità ecclesiale punto di partenza di un atteggiamento di comunione solidale e di condivisione, nella consapevolezza che
essa non protegge dal rischio dell’irrisione e del disprezzo, da parte di chi è
preoccupato esclusivamente dei propri privilegi.
Obbediente alla Parola della croce, la Chiesa è chiamata a continuare a
fare scelte di solidarietà, come quasi sempre ha fatto nel corso dei secoli,
anche a costo di scandalizzare i benpensanti e di urtare il perbenismo che si
annida nel cuore di ogni uomo e, talvolta, anche della stessa comunità cristiana. Se viene a mancare il coraggio della solidarietà, verrà inevitabilmente
immessa l’acqua di un verbo borghese ed egoista nel “vino” della Parola
della croce.
Per concludere, è utile notare che questa dimensione di solidarietà non
può prescindere da quella della libertà; una libertà senza solidarietà tende
a diventare egoismo; una solidarietà senza libertà si trasforma ben presto in
un giogo insopportabile. Una libertà solidale e una solidarietà libera garantiscono il realizzarsi di una società più umana e più fraterna.
6 Cfr. G. Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità, Armando, Roma
1996. Viene così definito l’uomo dell’epoca contemporanea, che non pensa più se stesso secondo la prospettiva greca (primo uomo o della razionalità), né a partire dalla visione ebraicocristiana (secondo uomo: immagine di Dio), né secondo la prospettiva moderna (terzo uomo:
affermazione dell’antropocentrismo), bensì quale essere la cui vita è geschehen ohne Geschichte (J. Freund), accadimento puntuale, puro processo, immersione esclusiva nell’hic et
nunc.
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3. La croce, evento di kenosi
Come si è detto, la croce porta la comunità ecclesiale a intraprendere iniziative di libertà e di solidarietà; si potrebbe obiettare che questi due valori
possono essere presenti anche in chi non condivide l’esperienza cristiana ed
è invece mosso da motivazioni di carattere politico e/o ideologico. C’è, però,
un aspetto della croce di Cristo che spicca in tutta la sua originalità e inconfondibilità e che dà all’impegno cristiano una sua indiscutibile originalità.
La croce è anche un evento di kenosi che coinvolge Dio stesso, è un evento
trinitario, in quanto vede in azione il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.7 Il
Padre è colui al quale si deve attribuire l’iniziativa dell’evento della croce; ed
è anche l’appassionato e il misericordioso compagno del Figlio nel dolore;
nello stesso evento viene anche a realizzarsi la giustizia del Padre, che è principio di salvezza e non di condanna, di vita e non di morte.
Il Figlio, invece, è l’abbandonato (Mc 15,34) che sperimenta tutto il dolore possibile, essendosi fatto vittima di espiazione al nostro posto, per vincere con il proprio amore al Padre il non-amore dei peccati degli uomini.
Lo Spirito, infine, sostiene il Figlio (Eb 9,14), trasformando l’impegno di
quest’ultimo in dono che ottiene il perdono e conferisce un valore nuovo e
benefico non soltanto alla croce del Nazareno, ma a tutte le croci e a tutto il
dolore che si verificheranno nel corso del tempo.
Nella croce di Gesù si vede fino a qual punto si spinga l’amore autentico:
esso non è solo esercizio di libertà e di solidarietà, ma dono totale di sé, distacco e dedizione senza limiti; follia e stoltezza apparenti che arrivano fino
al dramma dello “svuotamento” di sé. Parlando dell’evento del Calvario e
riferendosi in modo particolare al grido di abbandono del Nazareno (Mc
15,34), J. Moltmann è arrivato ad affermare che sul Calvario si consuma un
dramma che riguarda Dio in se stesso: nell’ora della croce, dice il teologo di
Tübingen, si spezzano le relazioni trinitarie, perché il Figlio perde la propria figliolanza e il Padre la propria paternità.8 Ciò per indicare con quanta
serietà Dio si lasci coinvolgere in questo evento. Senza giungere a queste
inammissibili affermazioni, è però necessario ammettere, come ha fatto a
suo tempo H.U. von Balthasar, che la croce deve essere pensata quale teo-
7 Su ciò, mi permetto rinviare al mio Teologia trinitaria della croce, LDC, Leumann (TO)
1987, in particolare pp. 107-149.
8 Cfr. Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana,
Queriniana, Brescia 20087.
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dramma che non sfiora, ma coinvolge la Trinità, al fine di sanare ed elevare
coloro che erano perduti.9
Per questa ragione, coloro che contemplano il Calvario quale nuovo Oreb
dove Dio si è rivelato in modo sconvolgente, diventano consapevoli che lo
stile di servizio e di rinnegamento di sé per amore dei fratelli è l’unico che sia
degno del vivere cristiano. La legge del do ut des viene violentemente contestata dalla croce di Cristo. Morendo sulla croce, Gesù di Nazaret conferma
con i fatti la parola pronunciata durante i suoi giorni terreni: «nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
4. La croce, fondamento e sfida
Alla luce della “portata” trinitaria della croce, ma anche della liberà e
della solidarietà che in essa si sono manifestate, è necessario riscrivere non
soltanto la morale, ma prima ancora l’antropologia cristiana: ormai non è più
sufficiente definire l’uomo quale immagine di Dio, come fa la Scrittura, in
diverse occasioni (cfr. Gen 1,26-27; Sap 2,23; 1 Cor 11,7); né basta definirlo
quale eterna premura di Dio, come suggerisce A. Heschel.10 È necessario andare oltre e riconoscere che l’uomo è colui la cui amabile povertà ha spinto
Dio nei meandri oscuri del limite, del soffrire, nelle tenebre e nell’ombra
della morte. La croce sembra suggerire una nuova e scandalosa definizione
dell’uomo: egli è l’eterna passione di Dio, dove il termine “passione” è da
intendersi (come il pati latino) in senso attivo e passivo, ossia come impegno
carico di amore, di affetto, di dedizione a favore dell’uomo; ma anche come
esperienza di un prendere su di sé, subire, solo per amore, tutta la ricchezza
e la povertà dell’amato. Nessuna premessa razionale può condurre a queste
affermazioni; non ci sono rationes necessariae che possano condurre l’intelligenza credente a tali scandalose convinzioni. Solo il logos tou staurou, che
annichilisce le nostre aspettative, può condurci a proclamare questo consolante messaggio: le creature stanno talmente “a cuore” al loro Creatore, da
farlo entrare, per amore, nell’abisso del dolore e della morte.
La lettura trinitaria della croce conferisce nuovo senso all’alta stima
verso l’uomo, che già emerge da tante pagine della Scrittura e del pensiero
teologico. Dopo l’ora del Calvario, non basterà più affermare, con il Sal-
9 Cfr. Mysterium paschale, in J. Feiner – M. Löhrer, Mysterium salutis. Nuovo corso
di dogmatica come storia della salvezza, vol. III/2, Brescia 19732, pp. 171-412; attualmente
il saggio è pubblicato con il titolo Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Queriniana,
Brescia, 20087.
10 Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 20072, p. 12.
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mista, «che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te
ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo
hai coronato» (Sal 8,5-6); né sarà sufficiente affermare, con Leone Magno,
«riconosci, cristiano, la tua dignità».11 Ormai bisogna andare “oltre”, senza
timore, accettando il rischio di un’esaltazione dell’uomo che si spinga fino a
presentare Dio quale Signore innamorato, debole e umile.
Illuminati e confermati dalla luce pasquale, i credenti sono di conseguenza chiamati anzitutto a ripensare con serietà se e quanto la passione per
l’uomo incida nella loro visione della storia, del mondo, della Chiesa, della
società. Inoltre, essi sono chiamati a raccogliere una triplice sfida proveniente dall’evento del Calvario. In quanto evento di libertà, la croce è sfida
permanente a verificare se l’irruzione di Dio nella nostra storia e il nostro
aprirci a Lui nella fede si configurino come esperienza liberante. In quanto
evento di solidarietà, la croce ci chiama a interrogarci costantemente sul livello effettivo di promozione della comunione fraterna che il cristianesimo
ha prodotto e produce in coloro che dicono di viverlo o di ispirarsi ad esso.
In quanto evento di kenosi, la croce è sfida continua a considerare con serietà la nostra capacità, come singoli e come comunità, di spenderci a favore
dell’uomo, soprattutto se povero; ed è anche sfida a verificare se nelle nostre
scelte siamo più autoreferenziali che dediti al servizio: se la Chiesa vuole
essere fedele alla Parola della croce non può che porsi nella storia in atteggiamento di diakonia, di servizio disinteressato, di attenzione ad ogni uomo.
Quella del futuro, o sarà una Chiesa tutta ministeriale, al suo interno e nei
confronti del mondo, o non sarà più.
Conclusione
La comunità cristiana vuole essere in prima fila nella costruzione della
civiltà dell’amore; essa si lascia continuamente sedurre, raggiungere e contagiare dall’amore di un Dio appassionato dell’uomo. La croce impegna la
comunità ecclesiale ad una presenza nella storia che non può fondarsi sulla
reciprocità, ma esclusivamente sulla gratuità. La croce, quale evento trinitario, “allena” al dono; mette in crisi l’egoismo che anima buona parte dei
rapporti fra gli uomini e i popoli. Nello stesso tempo, la croce dei Tre è stimolo a combattere tutte le cause che provocano la sofferenza dell’innocente;
non è “oppio” che fiacca la reazione al male e alle ingiustizie, ma base di una
ferma presa di posizione contro tutto ciò che non favorisce il bene dell’uomo
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e non aiuta gli ultimi a recuperare la dignità perduta.12 Essa è sfida a non
fermarsi a una generica filantropia, ma a volere e coltivare una fraternità che
discende non solo dal nostro essere tutti immagine di Dio e oggetto della sua
premura, ma anche, e soprattutto, della sua passione.
12 Su ciò mi permetto di rinviare al mio Ubi crux, ibi amor Dei et hominis: il soffrire
umano come luogo dell’amore e dell’impegno, in «La Sapienza della Croce» 4 (1991), pp.
219-225.
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Il significato, nella concretezza
della vita cristiana,
del “morire a se stessi”
come frutto della contemplazione
della Passione di Cristo
Antonio Livi*
Introduzione
L’abnegazione o rinuncia a se stessi è una chiara condizione che Cristo
pone a coloro che vogliono “seguirlo”. Nel porre questa fondamentale condizione per la sua sequela, Cristo non ne dissimula l’estrema asprezza, né si
esprime in termini ambigui, tali da consentire di evadere con fughe mentali da questa radicalità e di rifugiarsi nel vago dell’astrattezza (come invece
fanno molti esegeti di oggi che si ostinano a interpretare quelle parole come
una delle tante iperboli consuete nel linguaggio semitico). Anzi, Gesù tiene il
suo discorso strettamente ancorato al concreto: ponendosi come modello ai
suoi discepoli, Gesù fa loro intendere il senso delle sue parole con un esplicito collegamento al mistero della sua Passione. L’abnegazione o rinuncia a
se stessi è dunque qualcosa di estremamente concreto: Cristo chiede ai suoi
discepoli di prendere ciascuno su di sé la propria croce, per poter così somigliare a Lui che ha manifestato al mondo l’amore redentivo di Dio offrendosi
liberamente alla morte in Croce.
Questa radicalità della sequela non va però intesa al modo delle religioni
naturali e delle varie forme di ascesi pagana; non è un impegno morale
sorretto dalla sola volontà umana e dalle forze naturali: è un dono della
grazia divina nell’anima del credente, è il frutto della carità che anima ogni
intenzione e ogni azione di coloro che il Battesimo ha reso figli adottivi
di Dio nel Figlio eterno del Padre, proprio come effetto dell’oblazione di
Cristo sulla Croce. La nostra speranza si basa proprio su questo dono soprannaturale che il cristiano sa, per fede, di avere ricevuto e che non gli sarà
tolto se lui lo saprà custodire: leggiamo infatti che «la speranza non delude,
perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Per questo motivo, l’imitazione
dell’amore oblativo di Gesù non deve essere considerata come una specie
Antonio Livi, emerito di Filosofia della conoscenza nella Pontificia Università Lateranense. Presidente dell’ISCA (International Sensus Communis Association).
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
di ideale irraggiungibile, e nemmeno si può pensare che essa sia riservata
a cristiani “speciali”, particolarmente “spirituali” (come hanno sempre voluto far intendere gli gnostici fin dai primi tempi del cristianesimo), essa
è la vocazione comune a tutti i cristiani, è la normale pienezza della vita
di grazia, è semplicemente il pieno esercizio delle virtù infuse della fede,
dell’amore e della speranza. Il possibile ostacolo all’attuazione di questo
piano divino nella vita di noi credenti non è costituito dalla nostra naturale
debolezza e dalla inevitabile miseria che è propria di ogni creatura umana,
ma la mancanza di fede viva nella verità rivelata da Cristo e annunciata
infallibilmente dalla Chiesa. Ciò che può costituire davvero un ostacolo
insuperabile alla pienezza della vita cristiana (nella quale ascetica e mistica
sono assolutamente “normali”) è dubitare che Gesù abbia parlato in questi
termini o che le sue parole debbano essere prese alla lettera. Insomma,
l’ostacolo è – come dicevo – quella fede incerta che porta a interpretare
come metafore astratte termini come “rinuncia”, “croce” e “morte”, come
se non fossero tremendamente reali nel racconto della Passione del Signore
e come se non fosse reale l’identificazione con Cristo che ci è garantita nel
Battesimo. Questo, così come ogni altro mistero contenuto nella Parola di
Dio, che noi credenti possiamo comprendere con i criteri elementari e assolutamente logici del senso comune (ossia, ciò che tutti i destinatari della Rivelazione possono e debbono intendere), è necessario e sufficiente perché
la Parola di Dio abbia in noi l’efficacia soprannaturale per la quale ci è
stata rivolta dal Verbo incarnato. Se invece questo insegnamento di Cristo,
come tutti gli altri misteri soprannaturali contenuti nella dottrina cristiana,
viene ridotto a schemi di astratto spiritualismo naturalistico (schemi del
tutto illogici, oltre che inadeguati), la “parola della Croce” perde tutta la
sua efficacia divinizzatrice. Se noi cristiani arretriamo di fronte alla richiesta
di Cristo di “morire a noi stessi”, non è per meschinità di spirito ma per
insufficienza di fede: non siamo del tutto convinti che Gesù ce lo abbia
chiesto, oppure non siamo del tutto convinti che Gesù ce ne abbia garantito
davvero la possibilità donandoci il suo Spirito. Per questo io ritengo che
l’ermeneutica teologica – e di conseguenza la catechesi – debbano puntare primariamente a mettere in evidenza ciò che nella dottrina cristiana è
assolutamente vero, cioè indubitabile, nei termini nei quali tutti possono
comprenderlo, lasciando da parte tutto il resto, cioè le diverse ipotesi di
interpretazione, sia popolare che accademica.
Voglio allora indicare in forma sintetica, in tre punti, quali sono – al di là
delle pur legittime teorie esegetiche e dei diversi orientamenti delle scuole di
teologia ascetica e mistica – gli elementi della dottrina di Gesù sulla radicale
abnegazione richiesta a ogni cristiano. Metterò in rilievo soprattutto ciò che
si evince dalla vita e dalla predicazione del Maestro in rapporto alla rinuncia
più difficile per ognuno di noi: la rinuncia a primeggiare, al protagonismo,
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Il significato, nella concretezza della vita cristiana, del “morire a se stessi” come frutto...
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all’apparire, alla ricerca del consenso degli altri; il cristiano, infatti, è veramente unito alla Passione di Cristo solo quando egli è disposto ad accettare
che la sua vita si consumi, per amor di Cristo e dei fratelli, nel sacrifico nascosto e silenzio, disposto in ogni momento a operare (quale che sia il suo
lavoro, civile o ecclesiastico) nel nascondimento, senza gloria umana alcuna,
quando il bene della comunità lo richiede.
1. La speranza del cristiano, fondamento del distacco del cuore dai beni
temporali
La vita del cristiano deve essere improntata alla pratica effettiva delle
virtù teologali: fede, speranza, carità. Senza la fede, non ci sono né vera speranza cristiana né vera carità cristiana; ma praticare la carità secondo la vera
fede e la vera speranza significa in concreto rinunciare a ogni illusorio “paradiso in terra”, all’utopia secolaristica del Paradise now; significa cioè rinunciare a ogni ricompensa umana nel tempo della vita presente, rinunciare a
ogni gloria e persino a ogni riconoscimento da parte del “mondo”, fissando
la propria speranza solo nella vita eterna, dove ci aspetta la ricompensa soprannaturale infallibilmente promessa da Dio a coloro che sono stati come
il «servo buono e fedele» della parabola o hanno potuto dire con san Paolo:
«Ho percorso fino in fondo il cammino della mia vocazione; ho conservato
la fedeltà a Cristo; ora è pronta per me la corona di giustizia che Dio ha riservato a coloro che attendono con amore la sua venuta» (2Tim 4,8). Lo stesso
san Paolo compendia in un’altra pericope, anch’essa tutta in prima persona,
i tratti fondamentali della speranza soprannaturale che porta il cristiano a
subordinare ogni interesse temporale al supremo interesse dell’amore di
Cristo:
Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di
Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le
considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui,
non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla
fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo
perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione
alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio
o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo,
perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo
ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso
verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a
ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,8-14).
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Occorre però rendersi conto che tutto ciò è talmente soprannaturale che
solo la grazia di Cristo, che ogni cristiano riceve nella Chiesa con i sacramenti della fede, lo rende possibile; ma proprio perché è totalmente soprannaturale, tutto ciò è anche alle aspirazioni del nostro cuore ancora troppo
pagano, contrario soprattutto alle tendenze incoercibili della nostra natura
decaduta, sicché nessun eroismo umano ne è minimamente capace (anzi,
l’eroismo umano comporta quasi sempre l’orgoglio e la presunzione, cioè
proprio il contrario della fiducia in Dio solo). Ma chi vive vita teologale –
vita autenticamente contemplativa, fatta di preghiera e di ricerca della volontà di Dio – è capace di una completa abnegazione, fino a “morire a se
stesso”. Lo testimoniano le vite dei santi, che di questo vero eroismo non
solo non si vantavano, ma nemmeno si rendevano conto, tanto erano distaccati da sé e poco preoccupati della propria “immagine” di fronte al mondo.
La loro fede semplice e sincera – ben motivata, perché basata sulla Parola
di Dio presa come assolutamente vera e sine glossa – li portava a pensare,
in perfetta umiltà, che quello che Gesù chiedeva loro essi potevano farlo
perché Gesù stesso lo rendeva possibile; avevano infatti letto quello che,
divinamente ispirato, affermava san Paolo: «Tutto posso in colui che mi dà
la forza» (Fil 4,13).
La lezione di Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi è, in questo senso,
straordinariamente illuminante. Il Papa che ha più volte denunciato, anche
nel recente Anno sacerdotale (2009-2010), il vizio di tanti ecclesiastici che
nello stesso esercizio del ministero sacerdotale sono preda dell’ambizione e
cedono alle lusinghe del carrierismo, sa molto bene che il sacerdote, come
ogni cristiano, vive unito a Cristo in Croce solo se è animato dalla speranza
soprannaturale, solo se aspira ai beni eterni e rinuncia decisamente e coerentemente a ogni bene temporale che sia di ostacolo alla missione di carità
o addirittura comporti l’apostasia dalla fede. Egli cita infatti la Lettera agli
Ebrei dove si legge: «Avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete
accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi» (Eb 10,34). E commenta:
Questa “sostanza”, la normale sicurezza per la vita è stata tolta ai cristiani nel
corso della persecuzione. L’hanno sopportato perché comunque ritenevano
questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla perché avevano
trovato una “base” migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che
nessuno può togliere. […] La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo
fondamento sul quale l’uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale,
l’affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in
grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente
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negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova “sostanza” che ci è
stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte
allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte,
hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce,
a partire dai monaci dell’antichità fino a Francesco d’Assisi e alle persone del
nostro tempo che, nei moderni istituti e movimenti religiosi, per amore di Cristo
hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l’amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell’anima.1
2. La rinuncia alle ambizioni terrene
Questo discorso si può applicare, senza alcuna sostanziale modifica,
anche ai beni temporali che vanno ben oltre il benessere materiale: si tratta
soprattutto dell’onore, della fama, del riconoscimento pubblico delle proprie fatiche e dei propri meriti; ma si tratta anche del potere, ossia la posizione di preminenza rispetto ad altri della propria comunità di vita e di lavoro. La rinuncia a questi beni temporali è ardua quanto e più della rinuncia
ai beni che sono soltanto materiali, e solo la speranza cristiana la rende possibile a noi uomini mentre viviamo su questa terra. La vita contemplativa,
che come dicevo è il nutrimento quotidiano della speranza del cristiano, è
l’ambiente spirituale nel quale la grazia divina fa germogliare nell’anima del
cristiano la speranza; il motivo è che la vita contemplativa è necessariamente
incentrata sull’insegnamento che Gesù ci dà dalla Croce, dove il Figlio di
Dio, Colui che «era passato facendo del bene e risanando tutti coloro che
stavano sotto il potere del diavolo» (At 10,36), muore tradito da uno dei suoi
discepoli, ingiustamente condannato dalle autorità religiose del suo popolo
e dall’autorità civile romana, abbandonato dai tanti del popolo eletto da
Dio che erano stati testimoni dei suoi miracoli e avevano ricevuto innumerevoli benefici materiali e spirituali: muore, dopo essere stato torturato, con la
morte dei malfattori, denudato persino delle vesti, appeso a una croce, che
è il supplizio che la Legge mosaica considera una maledizione, come gli ricordano crudelmente proprio i dottori della Legge che assistono al supplizio
per insultarlo.2
Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 8.
Cfr. Gal 3,13s: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui
stesso maledizione per noi, come sta scritto: “maledetto chi pende dal legno”, perché in
Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello
Spirito mediante la fede».
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
3. La vita contemplativa, ossia la normalità della vita di fede
Ora, la vita contemplativa è resa possibile dalla fede che accoglie il Vangelo di Cristo e Cristo stesso come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) di
ciascun credente. La fede, tramite la vita contemplativa, porta a un rapporto
personale di amore con Cristo, ed è bene ricordare che il rapporto personale
di amore con Cristo deve spingere il cristiano a condividere senza riserve i
misteri della sua vita terrena e di assimilarne i valori salvifici che contengono:
l’incarnazione del Verbo, portatrice di un amore-umiltà che si abbassa fino
ad assumere la nostra condizione di “servi” (cfr. Fil 2,7), cioè di creature dipendenti le une dalle altre e tutte da Dio; la fuga in Egitto, che dà significato
ad un amore perseguitato; la vita nascosta a Nazaret, che rivela un amore
nascosto e obbediente (cfr. Lc 2,52); la vita pubblica del Cristo, che fa sperimentare un amore che è annuncio di salvezza e prova della sua divinità attraverso miracoli (cfr. Mt 5,1-9,34); la passione e la morte del Signore Gesù,
che realizza la redenzione (cfr. Mt 26,1-27,66); la risurrezione e ascensione al
cielo del Signore, che proclama l’istituzione di una vita nuova per coloro che
crederanno (cfr. Mc 16,1-20); l’espansione della Chiesa Corpo del Cristo,
che proietta nel futuro un amore-salvezza di portata universale (cfr. At 1,114,28). Per il cristiano, il suo essere radicato in Cristo per la grazia del Battesimo implica una totale simbiosi con il mistero di Cristo. Nessun aspetto
dell’identità spirituale del cristiano e della sua attività sussiste separato da
Cristo, ma scaturisce dalla realtà profonda del suo «essere in Cristo nuova
creatura» (cfr. 2 Cor 5,17; Gal 6,15).
L’unione mistica con Cristo (che non è privilegio di quei pochi che si
ritengono “spirituali”, ma vocazione di tutti nella Chiesa) comporta l’imitazione di Cristo. Lo ricordava Giovanni Paolo II in un documento magisteriale nel quale si compiaceva per l’efficacia dottrinale del Catechismo della
Chiesa Cattolica, strumento pastorale da lui stesso fatto elaborare e messo a
disposizione di tutta la comunità dei credenti:
Leggendo il Catechismo della Chiesa Cattolica si può cogliere la meravigliosa
unità del mistero di Dio, del suo disegno di salvezza, come pure la centralità di
Gesù Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, mandato dal Padre, fatto uomo nel seno
della Santissima Vergine Maria per opera dello Spirito Santo, per essere il nostro
Salvatore. Morto e risorto, Egli è sempre presente nella sua Chiesa, particolarmente nei sacramenti; Egli è la sorgente della fede, il modello dell’agire cristiano
e il Maestro della nostra preghiera.3
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Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Fidei depositum, III.
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4. Il superamento dell’ambizione e della vanità
Di Gesù, però, il cristiano deve imitare tutto: dalla vita nascosta a Nazaret all’ignominia della Croce. Lo stile con cui va esercitato il ministero
sacerdotale deriva direttamente dalle azioni e dalle parole di Gesù; come
ha insegnato il Concilio Vaticano II, nella vita di Cristo i gesti e le parole
si spiegano mutuamente (cfr. Dei Verbum, 2), sicché è impossibile che un
cristiano capace di contemplazione non si senta impegnato a seguire Cristo
nella via della rinuncia e dell’umiltà, l’unica via lungo la quale si può esercitare un autentico apostolato. La magna charta dell’apostolato, che null’altro
è se non l’unione del cristiano con Cristo, l’Inviato del Padre, si trova in
queste parole di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma
per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Il santo
Vescovo di Ippona lo ricordava ai suoi sacerdoti e a tutti i fedeli con queste
considerazioni:
Per guarire la tua superbia, il Figlio di Dio è sceso; si è fatto umile. Perché inorgoglirti? Per te Dio si è fatto umile. Forse ti vergogneresti a imitare l’umiltà di
un uomo; imita almeno l’umiltà di Dio. Il Figlio di Dio si è fatto umile; è venuto
nell’uomo. A te, viene ordinato di essere umile; non ti viene domandato di diventare una bestia. Lui, Dio, si è fatto uomo. Tu, uomo, riconosci che sei uomo;
tutta la tua umiltà consiste nel conoscerti. Ascolta Dio come ti insegna l’umiltà:
«Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che
mi ha mandato» [Gv 6,38]. Sono venuto, umile, ad insegnare l’umiltà, come
maestro di umiltà. Colui che viene a me, viene incorporato in me; diviene umile.
Chi aderisce a me sarà umile; non fa la mia volontà, ma quella di Dio. Perciò non
sarà respinto [Gv 6,37], come quando era superbo.4
5. La spiritualità sacerdotale
Per i sacerdoti, i quali hanno il compito di partecipare ai tria munera
di Cristo come cooperatori del collegio episcopale, questa identificazione
personale – costantemente richiesta a Cristo stesso come grazia e fedelmente
vissuta nell’esercizio quotidiano del ministero – con l’umiltà di Cristo è particolarmente necessaria, e anche particolarmente difficile. La vita del sacerdote è costantemente minacciata dalla tentazione di confidare nei propri
mezzi umani e nelle risorse naturali che il mondo gli offre; la logica umana
del prestigio sociale (anche ecclesiale), che richiede anche una certa capacità
di “farsi conoscere” (cioè, alla fine, di farsi pubblicità); il desiderio di met-
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Agostino, Discorsi, III, 14.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
tere la propria “firma” nelle imprese personalmente realizzate; l’orrore per
il “passare inosservati”; l’incapacità di accettare l’ingratitudine degli altri e il
misconoscimento dei propri meriti; l’invidia e la gelosia per i successi pubblici dei propri confratelli e per le loro eventuali promozioni: ecco altrettanti
elementi di debolezza morale che concorrono a inoculare nel sacerdote il
virus del “carrierismo”, tante volte deprecato dal papa Benedetto. Quando
questo virus ha attecchito nell’anima, il sacerdote rischia di non essere più
capace di prendere sul serio – al di là della facile retorica in voga presso gli
ecclesiastici – gli insegnamenti di Gesù sull’umiltà, così espliciti e ripetuti
anche in negativo, a proposito dell’ipocrisia dei sacerdoti dell’antica Legge.
Papa Leone Magno, che aveva vissuto con intima sofferenza il passaggio
dalla vita monastica (dove era assicurata la quiete per la contemplazione)
all’impegnativo compito di governo della Chiesa universale, scriveva:
Con quale attitudine il fariseo, che saliva al Tempio per farvi la sua preghiera,
e aveva fortificato la cittadella della sua anima, si disponeva a digiunare due
volte la settimana e pagare le decime di quanto possedeva. Dicendo «O Dio,
ti ringrazio», è ben chiaro che aveva messo in atto tutte le precauzioni immaginabili per premunirsi. Ma lascia una breccia aperta ed esposta al suo nemico
aggiungendo: «Che non sono come questo pubblicano». Così, con la vanità, ha
concesso al suo nemico di poter entrare nella città del suo cuore, che pur tuttavia
egli aveva chiuso con i chiavistelli dei suoi digiuni e delle sue elemosine. Tutte le
altre precauzioni sono dunque inutili, quando rimane in noi qualche apertura attraverso la quale il nemico possa entrare... Questo fariseo aveva vinto la gola con
l’astinenza; aveva superato l’avarizia con la generosità... Ma quanti sforzi in vista
di questa vittoria sono stati annientati da un solo vizio? Dalla breccia di una sola
colpa? Per questo, bisogna non soltanto pensare a praticare il bene, ma anche
vegliare con cura sui nostri pensieri, per tenerli puri nelle nostre opere buone.
Perché se sono fonte di vanità o di superbia nel nostro cuore, combattiamo allora soltanto per vana gloria, e non per la gloria del nostro Creatore.5
La spiritualità del sacerdote consiste allora principalmente nella consapevolezza di dover mettere a frutto, con la “morte a se stesso”, il dono gratuito
che gli rende doverosa e possibile l’imitazione del sacrificio di Cristo, sommo
ed eterno Sacerdote, per la salvezza di “molti” tramite la sua Chiesa. È questo
il dono con il quale lo Spirito Santo, dator munerum, ha reso possibile lungo
la storia l’efficacia soprannaturale del sacerdozio ministeriale, consentendo
al sacerdote quell’intima unione con Cristo e che rivela al mondo la santità
di Dio stesso. Questa comunione con il Signore, che è – ripeto – la normale
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Gregorio Magno, Moralia, cap. 76.
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Il significato, nella concretezza della vita cristiana, del “morire a se stessi” come frutto...
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condizione del cristiano e che nel sacerdote si configura come partecipazione al sacerdozio di Cristo, per poter agire in persona Christi Capitis, fa sì
che egli possa dire con san Paolo: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21), avendo
sempre presente quello che Gesù disse agli Apostoli nel discorso di addio:
«Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se
stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv
15,4). Così nella sua anima c’è in ogni momento la certezza di essere in grado
di percorrere la strada della santità praticando con tutti la carità pastorale,
nella completa dimenticanza di sé.
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I FONDAMENTI STAUROLOGICI
DI UN’ETICA SOCIALE CRISTIANA
Adolfo Lippi*
1. Bibbia e Sociologia: qualche parola fondante
Il capitolo ventesimo di Matteo ci presenta un quadretto pittoresco. Due
dei discepoli più vicini a Gesù, gli apostoli, mandano avanti la loro mamma
per strappare al Maestro una concessione che può essere molto importante
per il loro futuro: «Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e
l’altro alla tua sinistra nel tuo Regno». Sedere alla destra e alla sinistra di un
re o di un personaggio molto importante era un’immagine-simbolo immediatamente comprensibile nelle culture orientali. Significava condividere il
potere di quel re o personaggio. Tanto è vero che gli altri discepoli capiscono
al volo il senso del tentativo fatto dai due fratelli: lo vedono come un tentativo di garantirsi il potere a loro danno, di diventare i primi nel nuovo Regno
che stavano aspettando.
Gesù avrebbe potuto inquietarsi per l’ottusità che gli apostoli manifestano in questi litigi, nonostante i lunghi anni di insegnamento e immediatamente dopo una sua predizione della Passione. Invece instaura con i due fratelli un dialogo il cui senso sarà capito forse soltanto molto tempo dopo, un
dialogo nel quale si ha l’impressione che alle parole che vengono dette, quali
il bere il mio calice, ognuno dia un senso differente. Poi Gesù chiama tutti i
discepoli e fa una lezione che si può considerare fondante per la sociologia e
per l’etica sociale cristiana. Egli contrappone due impostazioni sociologiche:
quella delle genti, dei goyim, e quella del popolo di Dio, soprattutto dei suoi
discepoli. La sociologia dei gentili è fondata sul diritto del più forte al quale
i deboli debbono necessariamente piegarsi. La sociologia di Gesù è fondata
sull’abbassamento per cui chi è più forte si mette a servizio, come è logico
che sia perché la Vita si espanda e come, soprattutto, è logico per il fondamento che Lui stesso, il Figlio di Dio, dà a tale comportamento: il Figlio
dell’Uomo è venuto per servire e non per essere servito, è venuto per dare
la vita (cfr. Mt 20,20-28). È chiaro qui che la sociologia cristiana deve essere
fondata sul servizio incondizionato e gratuito ed anche che il fondamento
definitivo del servizio, come della stessa concezione cristiana dei rapporti
sociali, è la Croce.
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Adolfo Lippi CP, Direttore della rivista «La Sapienza della Croce».
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Se ci rimanesse qualche dubbio su questa impostazione sociologica evangelica, il capitolo venticinquesimo, sempre di Matteo, è lì per dissiparlo.
In una maniera assolutamente inusitata, Gesù si immedesima con i fratelli
più piccoli, enumerando alcuni paradigmi di indigenza ben presenti nella
Bibbia ebraica, soprattutto nei profeti: ero affamato, assetato, nudo, malato,
forestiero, prigioniero… Tra queste categorie è presente anche quella dei
carcerati, che normalmente sono ritenuti responsabili del loro stato, non
sono ritenuti degli innocenti che sono stati soltanto sfortunati, come, magari, i malati. Come vi siete comportati con i fratelli più piccoli, con gli ultimi
della società in cui vivete, vi siete comportati con me: questo è il giudizio
dei singoli, dei gruppi, della stessa umanità (cfr. Mt 25,25-40). Qui la carità
non è una qualunque benevolenza: essa è orientata verso il basso. Se aiutate
coloro da cui sperate avere una ricompensa, che merito ne avete? (cfr. Mt
5,46-48; Lc 6,32-36). La carità è gratuità, la gratuità fonda la morale sociale,
la sociologia.
Rapportare questo insegnamento con la dottrina della kenosi espressa
in Fil 2 non è arbitrario: il fratello più grande che si china sul più piccolo
attua in sé la kenosi del Signore e realizza, non in maniera devozionistica
o fantastica, ma in maniera reale ed etica, la conformazione a Cristo della
quale Paolo parla diverse volte (cfr. ad es. Rom 8,29). Ci si configura a Cristo
quando si rovescia l’atteggiamento di base dell’uomo che tende a elevarsi
sopra gli altri seguendo la catechesi del serpente: sarete come Dio, arbitri del
bene e del male; e si assume quell’atteggiamento che porta ad abbassarsi per
amore. Aimer c’est s’abaisser, diceva con profonda sapienza santa Teresa di
Lisieux, dottore della Chiesa.
C’è un’impressionante coerenza fra tutti gli insegnamenti del Nuovo
Testamento (e, implicitamente, dell’Antico) e fra gli insegnamenti e i fatti,
come rileva il celebre paragrafo 2 della Dei Verbum. Se si cerca quale può
essere il punto matematico in cui tutti gli insegnamenti e i fatti convergono,
dobbiamo dire che esso è la Croce. La Croce è servizio e regno, è gloria e
nascondimento (Deus absconditus revelatus di Lutero), è amore e legge, è
obbedienza e libertà, e la libertà del dono, cioè la possibilità di amare, è
kenosi e ricchezza.
2. I tentativi di andare oltre la correttezza nello scambio nella dottrina
sociale cristiana
Da queste brevissime riflessioni biblico-teologiche risulta chiaro che
l’agire sociale cristiano procede dalla teologia della Croce e da essa riceve la
sua identità che lo differenzia da ogni altra etica sociale. Questa persuasione,
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I fondamenti staurologici di un’etica sociale cristiana
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però, entra in crisi se ci si confronta con il modo di esporre l’etica sociale cristiana, soprattutto nei manuali. A scopo di chiarezza accenno qui alla posizione tradizionale o classica, dove per tradizionale non intendo la posizione
dei Padri della Chiesa o dei grandi pensatori cristiani, ma piuttosto la sistemazione di quel pensiero in manuali e trattati di facile comprensione e uso.
La fondamentale distinzione fra natura e soprannatura, pensata, si potrebbe
dire cartesianamente, con idee chiare e distinte, si estendeva all’etica come
distinzione fra giustizia e carità, fra precetti e consigli, fra leggi obbligatorie
e ideali di vita cristiana. La condivisione dell’etica cristiana con ogni uomo
di buona volontà si collocava ovviamente a livello di natura.1 Da una filosofia
perenne condivisibile da tutti gli uomini e da una theologia naturalis o rationalis o philosophica discendeva deduttivamente un’etica della giustizia e del
diritto, dell’eguaglianza e della correttezza, del dovere e dell’obbedienza alle
leggi e alle autorità costituite. Per il di più della fede, per la rivelazione come
per la carità gratuita, si poteva chiedere ai non cristiani apprezzamento,
forse ammirazione, ma non condivisione.
I tentativi di destrutturare questo schema rigido e comodo, ma non corrispondente al pensiero dei Padri e dei grandi pensatori, che furono fatti da
uomini come Blondel e De Lubac – si ricordino le celebri opere L’action e
Surnaturel – erano considerati pericolosi. Oggi sembra che siano piuttosto
pensatori non cristiani, ma esenti dalla contaminazione illuminista, a riproporre il problema dei rapporti fra religioni e società laica.2
L’impostazione evangelica dell’etica sociale cristiana cominciò col Concilio. Ma già negli anni ’50 si era proposto di porre l’insegnamento evangelico sulla carità a fondamento della morale cristiana in genere, non lasciando
più la trattazione della dottrina della carità come amore gratuito all’ascetica
o alla mistica o facendone, al massimo, un capitolo particolare della morale.3
Il Concilio Vaticano II, pur non offrendo una trattazione specifica sul fondamento della morale, optava chiaramente per ricondurre la morale cristiana al
Cfr., ad es., L. Lorenzetti, La Morale nella storia, EDB, Bologna 2009, p. 702: «Fino a
un tempo abbastanza recente, la dottrina sociale della Chiesa era considerata parte integrante
dell’etica naturale, che elaborava principi e norme morali argomentando ex lege naturali e
rientrava nelle competenze del magistero ecclesiale in quanto competente sulla legge naturale
che, alla luce della rivelazione, trovava maggiore conoscenza, perfezionamento e completamento» (Ristampa di un articolo del 1989).
2 Rimando, per questo, al mio recente editoriale su «La Sapienza della Croce», dal titolo:
Esiste e come si sostiene un’etica sociale laica? (Sap Cr XXV, 2010, pp. 3-8).
3 Cfr. G. Gilleman, Le primat de la charité en théologie morale, Desclée de Brouwer,
Paris 1954, pp. 9-23; L. Lorenzetti, cit., p. 24.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
suo fondamento che è Cristo e alla carità come suo insegnamento primario.4
È diventata dottrina comune, da allora l’idea che tutta la morale cristiana
debba far capo alla carità, come sua forma perfetta, che lo stesso Decalogo,
come detto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, debba essere «interpretato
alla luce di questo duplice ed unico comandamento della carità, pienezza
della Legge».5 Il catechismo trova la conferma più chiara di questa asserzione in Rom 13,9-10, ma poteva appellarsi a molti altri passi e, soprattutto,
al senso generale della Bibbia in genere e del Nuovo Testamento in specie.
Colpisce il fatto che nello stesso schema preparatorio del Concilio in tema
di morale si escludesse la carità come fondamento della morale in quanto
poteva dare adito a verbalismo, sentimentalismo, abbandono dei precetti.6
Sottinteso è che neanche i precetti si sostengano da soli e che tutto sia sostenuto dalla sanzione, cioè che tutto si debba fondare sulla paura dei castighi.
La morale sociale rinuncerebbe così ad appellarsi all’interiorità ed assumerebbe come fondamento il principio del diritto romano della legge e della
sanzione. Tuttavia, le obiezioni contro una morale dell’Amore (ricordiamo
la civiltà dell’Amore della quale parlava Paolo VI) possono avere qualcosa
di valido, se questa non viene presentata bene secondo gli insegnamenti del
Nuovo Testamento preso nel suo insieme. Basta dire che la morale cristiana
è una morale dell’Amore o bisognerebbe precisare che l’Amore implica la
kenosi, il servizio e il sacrificio, come rilevava la piccola Teresa? Nella cultura dominante è diffuso un certo buonismo che viene spesso confuso con
la morale cristiana. Questa, però, non è una morale buonista e meno ancora
una morale permissiva o rigorista. Non ci si può rifugiare in queste evasioni.
Il testo di Mt 20,20-28, fondante per la Sociologia cristiana, parla esplicitamente di kenosi e di servizio, non solo di Amore, che potrebbe effettivamente essere vago, generico, non veramente trasformante.
3. I rapporti sociali all’interno della Comunità dei credenti
La contrapposizione che Mt 20,20-28 stabilisce fra sociologia delle genti,
dei goyim e sociologia dei discepoli non sembra una proposta che questi debbano fare immediatamente al mondo. Sembra piuttosto un insegnamento
teso a regolare i rapporti dei discepoli fra loro. I rapporti debbono essere kenotici, il servizio va dall’alto al basso, è orientato in senso discendente, non è
generico o vago. A questo proposito si potrebbero porre due domande, una
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Cfr. L. Lorenzetti, cit., p. 25.
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2055.
Riferito da L. Lorenzetti, cit., pp. 24-25, senza rimando alla fonte.
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I fondamenti staurologici di un’etica sociale cristiana
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riguardante la società cristiana al suo interno e l’altra la dottrina sociale che
la Chiesa intende offrire a tutta l’umanità per il suo stesso bene.
La prima domanda è: si è coscienti nel mondo cristiano che la sociologia
cristiana è radicalmente differente ed anche opposta a quella non cristiana?
Si è decisi a promuoverla? Oppure ci si contenta di una correttezza negli
scambi, si rinuncia all’etica della gratuità? I rapporti all’interno delle comunità dei credenti, ad esempio in una comunità religiosa o nella comunità
presbiterale di una diocesi, sono veramente fondati sugli insegnamenti del
Vangelo, oppure ci si contenta di rapporti eticamente corretti?
Non mi sentirei di rispondere che dappertutto o prevalentemente ci si
fermi all’etica dello scambio, ma mi sembra che a volte lo si faccia e lo si
teorizzi, magari non avendone piena coscienza. Mi domando se alcune comunità si reggano sull’etica evangelica oppure su grandi abilità diplomatiche
che producono equilibri di peccato, cioè equilibri di persone non guarite
interiormente e quindi ancora fondamentalmente egocentriche, incapaci
di aprirsi veramente all’altro e all’etica del dono gratuito. Riprendendo il
discorso fatto sopra, mi domando se ci si renda sempre conto che l’etica
cristiana è per sua natura kenotica, o la si percepisce invece come vagamente
sentimentale, secondo quel certo buonismo diffuso dalla e nella cultura dominante, di cui parlavo sopra.
4. La proposta che la morale cristiana fa all’etica sociale
La seconda domanda riguarda più propriamente l’etica sociale in quanto
tale: pur avendo pazienza nell’attendere o nel pretendere da tutti un comportamento corrispondente alla concezione sociologica cristiana, si è coscienti che attesa paziente e piena di speranza non significa scendere a compromesso con un’etica sociale non evangelica? Si è coscienti, in particolare,
della nuova domanda o della nuova sfida che l’evolversi e l’ampliarsi del
problema sociale pongono alla Chiesa, pena il rischio di un degrado della
coesistenza o addirittura dell’autodistruzione dell’umanità?
Se si aderisce all’idea che un’etica sociale possa essere condivisa soltanto
sulla base della ragione e della legge naturale, queste domande potrebbero
sembrare pie considerazioni o, al massimo, riflessioni da fare verso l’interno
della Comunità ecclesiale a scopo edificante e verso l’esterno a scopo apologetico, per ottenere una stima sempre più grande per un’etica autenticamente evangelica. Se, però, le confrontiamo con proposte analoghe fatte al
di fuori della Chiesa da pensatori del nostro tempo, ci chiediamo se non
siamo noi ad essere poco coraggiosi nel proporre il punto di vista cristiano
sulla convivenza umana. Propongo qui una riflessione sull’impostazione
dell’etica sociale che si può ricavare dal pensiero di Lévinas e Derrida.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
5. Breve excursus sul pensiero di Lévinas e Derrida
Di Lévinas mi colpì anzitutto quanto lui proponeva a proposito dell’intuizione fondamentale da cui sorge l’atteggiamento etico e l’etica in quanto
tale:
L’intuizione fondamentale della moralità consiste forse nell’avvertire che io non
sono l’eguale di altri, e ciò in senso stretto come segue: mi vedo obbligato nei
confronti di altri e per conseguenza sono infinitamente più esigente con me
stesso che rispetto agli altri. «Più sono giusto e più severamente sarò giudicato»,
dice un testo talmudico. Donde deriva che non esiste coscienza morale che non
sia coscienza di questa posizione originale, che non sia coscienza di elezione. La
reciprocità è una struttura fondata su un’ineguaglianza originaria. Perché l’uguaglianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esigere da sé più di quanto esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte
dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità.7
Quest’impostazione, oltre ad essere storicamente veritiera, giacché i progressi dell’etica sociale non sono venuti da teorie, ma da uomini che si sono
sentiti interpellati personalmente ad andare oltre la mentalità dello scambio,
richiama la persuasione basilare di Lévinas secondo la quale un’impostazione biblica – ed è di essa che si ha bisogno – non può sopraelevarsi su
un’impostazione pagana o semplicemente filosofica. Possiamo trovare qui
un’analogia col rifiuto della fondazione razionale della teologia, propria della
theologia crucis di Lutero.8 Detto in termini cristiani, per Lévinas un’etica
autenticamente umana può sorgere soltanto dal sentirsi scelti e chiamati ad
una responsabilità, non generica, legale o egualitaria, ma personale, gratuita
e insostituibile. È, con ciò, fede in un intervento di Dio in me, vocazione,
missione, obbedienza incondizionata. Sappiamo tutti, poi, dove conduce
questa riflessione di Lévinas: conduce alla filosofia dell’alterità che mi costituisce in quanto io non sono io senza l’altro: l’altro nel Medesimo che apre
all’assolutamente Altro. Conduce all’etica della sostituzione e all’accettare di
essere ostaggio designato per un sacrificio senza riserve. La coscienza della
chiamata personale fonda un’etica ben più efficace di quella che può essere
fondata su un’ontologia generale (fosse pure un’ontoteologia) o anche, in
modo autonomo dalla speculazione teoretica, su un imperativo categorico.
E. Lévinas, Difficile libertà, Jaca Book, Milano, 2004, p. 39.
Rimando per questo al mio articolo riassuntivo del pensiero di Lutero sulla theologia
crucis: A. Lippi, Lutero e la theologia crucis. In Christo Crucifixo est vera theologia, in Sap Cr
X (1995), pp. 339-357.
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È chiaro che ciò che concretamente ha generato nell’umanità una coscienza assai condivisa di dover andare incontro a tutti senza eccezione, è
stata l’iniziativa gratuita di chi ha sentito che valeva la pena consumare la
vita per questo. Basterebbe pensare alle opere di misericordia e di sostegno
dei disgraziati che hanno generato nella società la coscienza di dover provvedere, di non potersi tirare indietro.
Derrida, con le riflessioni sull’ospitalità e l’accoglienza, aggiunge alle
riflessioni di Lévinas una concreta incarnazione nell’attualità della nostra
società multiculturale, con i problemi quotidiani che essa ci pone. L’etica
di Derrida, intorno alla quale sono stati organizzati incontri in vari centri
culturali, è chiamata significativamente etica del dono.9 Già in questa parola
c’è tutto un contenuto che ci interpella in quanto cristiani. Alterità, dono,
sostituzione sono vocaboli che, oltre ad evitare la banalizzazione alla quale
sono andate soggette parole come carità e amore, aggiungono ad esse i concetti di uscita da sé, espropriazione, sacrificio.
Derrida considerava Totalità e Infinito di Lévinas un immenso trattato
sull’ospitalità, una parola che diviene sempre più centrale nel suo pensiero.
L’ospitalità implica un’accoglienza incondizionata, il far sentire l’altro a
casa propria, non preso dentro una proprietà che resta sempre mia e nella
quale io resto padrone. Approfondendo la vicinanza e l’antinomia fra legge
dell’ospitalità per cui l’altro deve essere accolto incondizionatamente senza
domandargli né reciprocità né il suo nome10 e le norme sulle quali si regola di fatto l’ospitalità, Derrida si interroga sul rapporto fra diritto e giustizia. Poiché quest’ultima è sempre al di là del diritto, lo trascende sempre,
«l’ospitalità giusta rompe con l’ospitalità di diritto; non che la condanni o vi
si opponga, può anzi metterla e tenerla in un moto incessante di progresso;
ma è tanto stranamente diversa dall’altra, quanto la giustizia è diversa dal
diritto al quale tuttavia è così vicina».11
Invito a riflettere su quell’espressione di Derrida secondo la quale l’ospitalità giusta può mantenere l’ospitalità di diritto «in un moto incessante di
progresso». La concreta storia dell’ospitalità – dice Derrida – sarà sempre
«una perversione sempre possibile della Legge dell’ospitalità (che può sembrare incondizionata) e delle leggi che la limitano e la condizionano iscri-
9 Cfr., ad es., L’étique du don. Jacques Derrida et la pensée du don, Métailié-Transition,
Paris 1992: G. Coccolini, L’etica come ospitalità in Jacques Derrida, in «Rivista di teologia
morale» 129 (2001), pp. 77-85.
10 Cfr. J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 53.
11 Ivi, 53.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
vendola in un diritto».12 Allargando la riflessione alla giustizia in quanto tale,
Derrida dice che essere giusti, allora, è non essere mai abbastanza giusti e
tuttavia trovarsi nella condizione di sentire che la giustizia preme per non
essere rimandata, urge anche se non è mai presente.13 La politica in quanto
tale – si noti bene, non una politica in quanto aperta alla religiosità istituzionale – è chiamata ad aprirsi all’altro, quasi in un estremo gesto messianico.
Nell’attesa dell’altro uomo, dell’uomo come altro (e nell’altro) che viene, si
dà forse quella porta attraverso cui, soltanto, può entrare il Messia.14
Accenno appena ad un pensatore vivente che ha portato alle estreme conseguenze questo discorso, Jean-Luc Marion, per il quale la filosofia prima è
filosofia della donazione. Egli tiene conto sia della Gegebenheit della fenomenologia husserliana, tutta derivante dalla donazione,15 sia delle ricerche di antropologia culturale di Marcel Mauss, come della riflessione di Jean-Luc Nancy
sull’essere singolare plurale e la comunità e tiene conto soprattutto, ovviamente,
del pensiero di Lévinas e di Derrida, i quali si sono influenzati vicendevolmente. L’uomo si scopre attributario di una donazione che non conosce e della
quale non si può appropriare. Il soggettivismo dominatore e accaparratore del
pensiero occidentale moderno viene rovesciato, soprattutto sulla base, credo,
dei rilievi di Lévinas sulla passività che ci costituisce fondamentalmente. L’attributario «supera la spontaneità dell’Io penso nella ricettività dell’Io sono affetto
dall’effetto dell’evento, e ricevendosi esso stesso come un ente donato si libera
dalla sussistenza di un sostrato, in breve dalla soggettività del soggetto».16
Questi discorsi possono sembrare utopici solo se si rimane pigramente
attaccati alle strutture astratte delle teorie giuridiche e sociologiche. Se si riflette, per esempio, a come si sono sviluppate le leggi dell’assistenza sociale
negli stati più sviluppati, si vede che questo è avvenuto con la maturazione
di una sensibilità condivisa dalla maggioranza delle coscienze.17 Prendiamo il
12 J. Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, Cronopio, Napoli 1997, p.
27.
13 J. Derrida, “Diritto alla giustizia”, in G. Vattimo e J. Derrida (a cura), Diritto, giustizia, interpretazione, Laterza, Bari 1988, p. 20.
14 Cfr. J. Derrida, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 14.
15 Cfr. S. Currò, Il dono e l’altro, in In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion, Las, Roma
2005, p. 80.
16 J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino,
2001, pp. 319-320. Cfr. S. Currò, Il dono e l’altro, cit., cap. IV: In principio la donazione, pp.
73-116.
17 Benedetto XVI, nell’enciclica Deus Caritas est, attribuisce alla presenza del cristianesimo come tale la crescita dell’impegno sociale a favore degli esseri più deboli e ricorda come
la riforma del paganesimo voluta da Giuliano l’Apostata risentiva di questa presenza.
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I fondamenti staurologici di un’etica sociale cristiana
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caso particolare dell’assistenza sanitaria: prima che esistesse la legge, si è andata sviluppando, da secoli, una serie di iniziative volontarie che sono arrivate
a creare strutture il più delle volte piccole, microstrutture, ma a volte anche
grandi e imponenti, fino a che ci si è domandati perché non garantire per
legge un’assistenza offerta a tutti, che è quanto dire assumere collettivamente
in quanto società l’onere dell’assistenza sanitaria. A questo punto il trascurare
la sofferenza di qualcuno è apparso cinismo. È un caso di maturazione della
coscienza sul tema della giustizia. Se ne potrebbero citare molti altri.
6. Religioni positive ed etica sociale: sono due campi da tenere distinti?
Un’altra situazione culturale del nostro tempo, da tenere presente, riguarda la reciproca integrazione fra religioni ed etica sociale, cui ho già accennato. Essa è ben diversa da quella rinascimentale e più ancora illuminista
nella quale il problema era piuttosto quello dell’autonomia della ragione
rispetto a una fede che appariva invasiva. Parto dal riferimento a una ricerca
sociologica di Jürgen Habermas. Muovendo da una domanda di Böckenförde, Habermas si domanda se l’etica sociale non stia ancora beneficiando
inconsciamente di convinzioni condivise sulla base di fedi o tradizioni culturali, mantenute per inerzia, pur illudendo le masse di essere guidate unicamente da un’etica laica e puramente razionale. Che cosa accadrà quando,
per il processo di secolarizzazione e di sradicamento in atto, queste tradizioni
verranno a perdere il loro influsso sociale? Habermas non nasconde di essere personalmente persuaso del valore positivo delle religioni per sostenere
l’etica sociale, nella linea di Hegel.18 Le fonti della normatività e della solidarietà non dovrebbero essere abbandonate a cuor leggero: «È nell’interesse
dello Stato costituzionale trattare con riguardo tutte le fonti culturali da cui
si alimentano la consapevolezza normativa e la solidarietà dei cittadini».19 Su
questa linea egli propone che nella società post-secolare venga modificata
riflessivamente sia la coscienza religiosa che quella laica nei loro rapporti e
in rapporto al bene comune.
Come detto sopra, i nostri manuali ci avevano abituato a categorizzazioni
rigide, con la distinzione fra precetti e consigli evangelici, fra la giustizia
dovuta distinta dalla carità gratuita, l’etica razionale o filosofica distinta
dalla morale rivelata o soprannaturale. Oggi l’ipotesi che la laicità o la pura
razionalità non siano in grado di fondare un’etica sociale non è più così
assurda, vista anche la fuga verso le religioni degli uomini e delle donne del
18 19 Agire_IB.indd 63
Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Bari 2005, XI.
Ibid., pp. 15-16.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
nostro tempo. Al di fuori del mondo cristiano l’interferenza della religione
sull’etica civile è ancora superiore: norme di natura strettamente religiosa
(tipo sharia) sono state accolte nella legislazione civile non soltanto in Iran,
ma anche in Israele.
I richiami a pensatori quali Lévinas e Derrida non rappresentano un
invito seppure implicito a prendere ispirazione da loro, ma piuttosto un
invito a prendere atto che esistono proposte molto coraggiose, nella linea
della Parola rivelata, fatte senza paura al mondo occidentale che si presenta
come secolarizzato e geloso della propria secolarizzazione. Credo che sia
contemporanea all’indagine sociologica di Habermas la presa di coscienza
dei moralisti cattolici dell’identità evangelica e non semplicemente filosofica dell’etica sociale cristiana, e quello che è stato chiamato il passaggio
dell’etica sociale dei cattolici dalla filosofia alla teologia.20 Da parte sua Benedetto XVI afferma con la sua solida lucidità che «lo Stato non è di per sé
fonte di verità né di morale». Conseguentemente lo Stato deve disporsi ad
accogliere da “fuori” di sé il patrimonio di conoscenza e di verità da cui non
può prescindere. Le religioni convergono su un consenso di fondo riguardo
a ciò che è bene e «la fede cristiana ha dato prova di sé come creatrice di
cultura religiosa universale e razionale in sommo grado».21
7. Il pensiero di Benedetto XVI
Questi rilievi mi introducono alle riflessioni conclusive di questo studio,
nelle quali farò riferimento al pensiero di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
La terza domanda, che qui possiamo porci, è la seguente: fino a che punto è
possibile, perseguendo un’etica sociale condivisa con tutti gli uomini, offrire
la nostra riflessione secondo cui un’etica del dono, un’etica che si potrebbe
chiamare kenotica, non soltanto rappresenta qualcosa di meglio di una qualsiasi etica di scambio, ma sembra essere oggi la condizione della sopravvivenza dell’umanità e del cosmo? Un’etica kenotica si oppone a un’etica del
possesso, dell’accaparramento: è pensabile che noi cristiani possiamo proporre all’umanità che un’etica della kenosi, dell’abbassamento accettato per
realizzare il dono, venga a sostituire un’etica del possesso e del riempimento,
dove ci si apre all’altro soltanto nella misura in cui questo può favorire i
propri programmi di accumulazione?
20 21 Cfr. L. Lorenzetti, La Morale nella storia, cit., p. 699.
Cfr. L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, pp.
71-74.
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I fondamenti staurologici di un’etica sociale cristiana
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Leggendo le encicliche di Benedetto XVI mi sembra chiaro che questa
concezione neotestamentaria viene proposta all’umanità come soluzione dei
problemi che la tormentano fino a minacciarne, oggi, la distruzione. Mi pare
che il papa eviti di fare del concetto di dono un’ideologia, come forse potrebbe accadere sulla base delle dottrine accennate sopra. Egli si esprime ripetutamente contro la riduzione a ideologia di intenzionalità per sé valide. Si
può riscontrare questo, ad esempio, nell’affermare che compito dello Stato
è anzitutto il perseguimento della giustizia con la difesa dei diritti di ognuno
e l’equa distribuzione dei beni.22
Egli però non si ferma qui. Già nella sua prima enciclica Deus Caritas
est, riflettendo sul rapporto fra giustizia e carità e assegnando allo stato il
compito di amministrare la giustizia, dichiara che la fede «è una forza purificatrice per la ragione stessa» e spiega a lungo questo principio.23 Al di là
dell’etica naturale c’è l’amore, del quale l’uomo ha un assoluto bisogno, in
quanto non vive di solo pane. «Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone
a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo».24 Lo stato perciò deve necessariamente essere affiancato dalle forze sociali che operano in vista delle necessità
di ogni uomo e soprattutto dalla Chiesa: «Non uno Stato che regoli e domini
tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca
e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono
dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini
bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo».25
L’enciclica sociale Caritas in Veritate si riallaccia a Paolo VI per affermare
che «il Vangelo è elemento fondamentale di sviluppo, perché in esso Cristo,
“rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente
l’uomo all’uomo (GS 22)”».26 Nel numero seguente,27 i due papi convergono nel rilevare la centralità della carità, che, se anche può essere compresa
dall’uomo, non può essere realizzata se non con un dono di Dio.
Non sarebbe difficile proseguire questa ricerca, ma non ne abbiamo lo
spazio. Concludo con un passo di un vecchio libro di Joseph Ratzinger, che
resta sempre fondamentale per il suo pensiero ed anche come conclusione
del discorso che stiamo facendo:
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Cfr., ad es., Deus Caritas est, n. 26.
Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 28.
Ibid.
Ibid.
Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 18.
Ibid., n. 19.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Quando sarò innalzato da terra, trarrò a me tutti gli uomini» (Gv 12,32). Questa
frase intende spiegare la morte di Gesù in croce; e in questo modo, poiché la
croce costituisce il centro della teologia giovannea, essa esprime la direzione
verso cui l’intero vangelo vuole orientare. L’avvenimento della crocifissione vi
appare come un processo di apertura, in cui le disperse monadi umane vengono
riunite nell’abbraccio di Gesù Cristo, nell’immenso spazio delle sue braccia spalancate, per giungere in questa unificazione al loro traguardo, alla mèta finale
dell’umanità. Se però le cose stanno così, allora Cristo, in quanto uomo venturo,
non è l’uomo per sé, bensì essenzialmente l’uomo per gli altri; egli è l’uomo del
futuro proprio in quanto uomo totalmente aperto. L’uomo per sé, che vuole
pensare solo a sé, è allora l’uomo del passato, che dobbiamo lasciarci alle spalle
per andare avanti. In altri termini, ciò significa che il futuro dell’uomo sta nell’essere per… Nell’immagine del fianco squarciato culmina per Giovanni non solo
la scena della croce, ma l’intera vicenda storica di Gesù. Adesso, infatti, dopo il
colpo di lancia che mette fine alla sua vita terrena, la sua esistenza è completamente aperta; egli è interamente “per”, ora egli non è veramente più un singolo,
ma è “Adamo”, dal cui fianco viene formata Eva, vale a dire un’umanità nuova.28
Conclusione
Chiunque segua le migliori ricerche nel campo del pensiero riflesso, della
stessa letteratura e delle arti, riconoscerà facilmente qui una consonanza, che
indica l’attualità del discorso programmatico del papa. L’apertura all’altro,
che si è espressa anzitutto nella croce di Gesù, nelle sue braccia aperte e nel
suo cuore squarciato, senza scendere ad espressioni polemiche, relega in un
passato antistorico certe posizioni di pensiero nelle quali l’uomo appare tutto
ripiegato su se stesso, sui propri veri o presunti diritti, infantilmente piagnucolando perché qualcuno gli contesta il diritto a certe soddisfazioni. È come
quando il cristianesimo apparve chiaramente all’orizzonte della cultura classica: si capiva che la storia camminava nella direzione che esso indicava, nonostante le nostalgie. C’è una responsabilità enorme davanti alla Chiesa, condivisa da tutte le persone che si pongono con serietà il problema delle sorti
dell’umanità e della stessa creazione: portare l’uomo a gioire della carità, a
gioire nell’essere-per, perché c’è più felicità nel dare che nel trattenere (cfr. At
20,35). È una responsabilità che farebbe paura se, per la fede, non sapessimo di
essere sostenuti con la forza dello Spirito da Colui che è all’origine del nostro
essere e da Colui che il Creatore ha mandato per comunicarci questo Dono.
28 Agire_IB.indd 66
J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, p. 230.
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TOMMASO D’AQUINO E LA PROSPETTIVA
DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE
Roberto Di Ceglie*
1. Il cuore del Vangelo e la riflessione filosofica
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi
sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri
in spirito di fratellanza». È il primo articolo della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani proclamata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1948.
Risulta evidente che non solo la fratellanza cui esso si richiama ma anche
l’uguaglianza della dignità e dei diritti non possono non avere come orizzonte
culturale quello aperto dalla diffusione del Vangelo: un unico Principio del
mondo, da cui soltanto può derivare la medesima origine per tutti e quindi la
medesima dignità; un solo Padre, dal quale scaturisce la fratellanza che accomuna tutti gli uomini. Riecheggiano quindi le parole di Agostino: «Il mondo
si è così mutato in questa religione, si sono così convertiti a questo Vangelo
i cuori dei mortali, uomini e donne, piccoli e grandi, dotti e ignoranti, sapienti e stolti, potenti e deboli, nobili e non nobili, di rango elevato e umili,
e la Chiesa tra tutte le genti si è diffusa ed è talmente cresciuta che nessuna
setta né alcun genere di errore sorge contro la fede ed è così ostile alla verità
cristiana da non aspirare ed ambire a gloriarsi del nome di Cristo».1
Lo scenario culturale prospettato dall’Ipponate non pare essere cambiato
di molto, perché il Vangelo ha generato un progresso senza eguali lungo il
cammino della storia. Lo ha mirabilmente insegnato in tempi più recenti il filosofo e storico della filosofia Étienne Gilson. A suo avviso, nell’ambito della
verità fondamentali cercate dalla sapienza filosofica con le proprie domande
di senso, sarebbe stato il cristianesimo a fornire alla filosofia un supporto
insostituibile: «l’insegnamento della rivelazione fu incomparabilmente più
razionale delle conclusioni della ragione». Quest’affermazione del noto pensatore veniva a concludere una disamina storica dell’incontro tra fede cristiana e ricerca filosofica che si può riassumere con queste sue parole: «Un
Dio unico, creatore del cielo e della terra, ordinatore del mondo e della sua
provvidenza, un Dio che aveva fatto l’uomo a sua immagine e gli aveva rive-
* Roberto Di Ceglie, docente di Filosofia della Religione nella Pontificia Università Lateranense.
1 Agostino, De fide rerum quae non videntur, 7, 10.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
lato, col suo fine ultimo, il modo per raggiungerlo: dove, nei pur magnifici
conseguimenti della filosofia greca, si poteva trovare una visione del mondo
così chiara e soddisfacente per l’intelligenza come quella rivelata agli uomini
dalla Sacra Scrittura?».2 Peraltro risulta piuttosto evidente un aspetto che lo
stesso Gilson non ha rimarcato come forse si sarebbe dovuto. Ne fornisce lo
spunto questa sua espressione: «…un Dio che aveva fatto l’uomo a sua immagine e gli aveva rivelato, con il suo fine ultimo, il modo per raggiungerlo».
Il riferimento è chiarissimo: è a un sapere che non solo appaghi la ragione
ma risulti anche protagonista della realizzazione umana, un sapere che cioè
si traduca in un rapporto con una Persona, capace di conoscere e di volere,
e che inoltre rappresenta il Bene, perché è ciò che l’uomo vuole, ciò che
l’uomo desidera raggiungere. In tal senso si comprende perché già Agostino
si era così espresso: «la nostra scienza è Cristo; la nostra sapienza è ancora
lo stesso Cristo».3 L’Ipponate aveva colto che non soltanto risulta appagante
per l’uomo ricevere comunicazione rispetto ai propri fini e alle modalità per
conseguirli; è a lui ancora più caro incontrare qualcuno che, con gratuità e
addirittura con spregio di sé, dunque secondo l’amore più grande, si ponga
accanto a lui e lo aiuti fattivamente a conseguire quegli obiettivi.
È questo il cuore del Vangelo, è questa l’impareggiabile spinta propulsiva che ne deriva per ogni sapienza, ovvero per ogni ricerca relativa alle
domande fondamentali della vita: la felicità dell’uomo, la sua piena realizzazione può darsi solo nella carità. Nessun fascino proviene dall’esibizione del
potere: non si è conquistati né dall’abilità tecnica né dalla creatività artistica
né da un’intelligenza lucida e rigorosa che pure sembri afferrare le massime
altezze dell’umana comprensione. Ciò che tocca il cuore dell’uomo è la carità, che non manca mai di generare il desiderio dell’emulazione: «tutti gli
uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico».4
Il bisogno di riconoscere nel maestro il testimone è non a caso un tratto
distintivo della civiltà costituitasi nel grembo del Vangelo di Cristo. Tommaso d’Aquino, notevole esponente di questa civiltà, lo ha espresso in modo
mirabile. Pur attraverso un rigore argomentativo talmente serrato da apparire talora appagante solo alla nuda logica razionale, egli ha tuttavia evidenziato la dignità somma della carità e dell’impegno esigente che essa implica.
Ha saputo evidenziare che la virtù appartiene alla dimensione puramente
2 É. Gilson, Che cosa è la filosofia cristiana?, trad. it. in R. Di Ceglie, Ragione e
Incarnazione. Indagine filosofica sulla razionalità richiesta dal Vangelo, Lateran University
Press, Città del Vaticano 2006, pp. 315s.
3 Agostino, La Trinità, XIII, 19, 24 (trad. it. di G. Beschin), Città Nuova, Roma
1998.
4 Benedetto XVI, Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 1.
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Tommaso d’Aquino e la prospettiva della civiltà dell’amore
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intellettuale solo in modo relativo, perché in senso assoluto è virtù quella che
«non dà solo la capacità di agire, ma anche quella di usare bene di questa capacità: come la giustizia non soltanto fa sì che un uomo sia di pronta volontà
nel compiere cose giuste, ma anche fa sì che agisca secondo giustizia. […] Se
infatti uno è scienziato o artista, non si dice che è buono in senso assoluto,
ma si dice che è buono soltanto in senso relativo: si dirà, per es., che è un
buon grammatico, o buon artigiano».5 Inoltre, tutte le virtù morali e intellettuali sono superate in dignità da quelle teologali, e tra queste la carità è la
più nobile, poiché meglio delle altre raggiunge Dio.6 La «vera virtù in senso
assoluto è quella che ordina al bene principale dell’uomo»,7 e ordinando gli
atti di tutte le altre virtù al fine ultimo, e dando perciò la forma agli atti di
tutte le altre virtù, si qualifica come «la forma delle altre virtù».8
In una diversa prospettiva filosofica e teologica, aliena da qualsivoglia
tensione (o tentazione) ad avanzare argute ma talora anche speciose distinzioni tra fede e ragione, anche Agostino aveva rilevato il medesimo primato
della carità, aggiungendovi la sottolineatura della sua evidente origine evangelica. Affermando sulla scorta di san Paolo il primato della carità su tutto
(«la carità non cade mai»), egli non aveva potuto fare a meno di chiedersi:
«Ma questo chi l’avrebbe scoperto se non l’avesse mostrato colui che disse:
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate a vicenda” e ancora: “Chi
mi ama sarà amato dal Padre mio?”».9 All’uomo contemporaneo, figlio della
cultura del rispetto dei diritti umani, forse quella appena avanzata può apparire una pretesa più o meno ingiustificata. L’amore e il rispetto della dignità
della persona paiono ad alcuni il frutto di un’evoluzione umana e culturale
che, seppure in qualche modo connessa alla rivelazione cristiana, ha tuttavia
conquistato un’autonoma dignità. Eppure la carità è e rimane altro da certe
sue sentimentalistiche rappresentazioni fornite da molta cultura del nostro
tempo. Essa non comporta solo una dimensione pacificante e superficialmente gioiosa, ma è profondamente esigente, perché la sua espressione più
grande è quella dell’assunzione della croce. E giungere a dare tutto di sé per
il bene dell’altro (anche quando egli è addirittura il “nemico”) è possibile
solo nel rigoroso intreccio che la carità, in quanto virtù, ha con la verità.
È l’intreccio che si evidenzia dinanzi all’esperienza del male, che non a
caso nessuna cultura più o meno sostanziata di laicità o di laicismo sembra
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 56, a. 3, trad. it., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996-1997.
6 Ibid., II-II, q. 23, a. 6.
7 Ibid., II-II, q. 23, a. 7.
8 Ibid., II-II, q. 23, a. 8.
9 Agostino, Annotationes in Iob liber unus, 38.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
in grado di fronteggiare. Solo il gioioso annuncio della vicenda di Cristo
crocifisso e risorto rimane capace di tanto, perché solo il Vangelo continua
a richiamare l’esigenza propria dell’autentica carità, quella di essere esercitata nella certezza che porta sino al sacrificio di sé. Le parole con le quali
Benedetto XVI ha voluto aprire la sua ultima enciclica lo evidenziano alla
perfezione: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con
la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità
intera».10
2. La carità sino alla croce e la sua fecondità civile
Ogni aspetto della vita personale o sociale può essere adeguatamente
preso in considerazione nell’ambito di questa prospettiva cristiana. Una
prospettiva sulla vita e sul suo senso che si sostanzia indubitabilmente di
ottimismo. Non a caso è di “ottimismo cristiano” che un notevole commentatore di san Tommaso ha talora parlato:11 non per alludere al semplice e
perfino puerile tentativo di non considerare la negatività e il dolore, ma per
indicare la convinzione secondo cui l’uomo è provvidenzialmente orientato
al Bene da Colui che è il Bene, e che dunque il male non potrà avere la
parola definitiva. Che una simile convinzione possa contribuire come forse
nessun’altra alla realizzazione non solo della persona ma anche della società
è di quasi immediata comprensione. Combattere il dominio del male sulle
vicende umane e impedire che esso prevalga anche a costo del sacrificio di
sé determina che ogni capacità venga sfruttata a vantaggio della persona
umana o del contesto sociale. Ebbene solo una teoria sul male come quella
che emerge dalla riflessione di Agostino e di Tommaso sembra costituire una
solida base razionale per l’edificazione sociale appena richiamata. Tommaso
spiega che un primo principio da intendere come male risulta improponibile,
perché dovrebbe essere cattivo per essenza e dovrebbe costituire il sommo
male, che invece, «per quanto faccia diminuire il bene, tuttavia non potrà
mai totalmente distruggerlo»; si aggiunga che «il concetto stesso di male si
oppone all’idea di primo principio», cosa che, non compresa, ha portato ad
Benedetto XVI, Caritas in Veritate, cit., n. 1.
Cfr É. Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, trad. it. di P. Sartori Treves, Morcelliana, Brescia 19986, pp. 141-168. A riguardo, sia consentito di rinviare anche a R. Di Ceglie, El optimismo cristiano. La reflexión antropológica de Étienne Gilson, in J.F. Sellés (ed.),
Propuestas antropológicas del siglo XX, vol. II, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona
2007, pp. 127-154.
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ammettere l’esistenza di due principi, l’uno buono e l’altro cattivo, errore
che san Tommaso accomuna ad «altre opinioni stravaganti degli antichi».12
Si tralasci pure di discutere le possibili alternative a questa teoria; certo
è che se Dio è il Principio e il Fine di ogni cosa, e se ogni fibra del nostro
essere dipende da Lui, è impensabile che derivi da Lui il male, ovvero la
mancanza, la privazione di qualcosa. Riferirsi al male come a una sostanza
non è corretto. Il male, propriamente, non è neanche un accidente, poiché
è privazione di un accidente. Secondo un esempio tradizionalmente utilizzato da Plotino a Tommaso e oltre, l’occhio che non vede è effettivamente
qualcosa che manca di un bene che ad esso è dovuto. Già per Aristotele è
chiaro che né il male né il bene sono sostanze: «Il bene e il male indicano
la qualità propria degli esseri viventi e, nell’ambito di questi, soprattutto la
qualità propria di quegli esseri che sono dotati della facoltà di scegliere».13
San Tommaso ha poi chiarito una decisiva distinzione – già presente nella
riflessione agostiniana – tra malum culpae e malum poenae,14 utilissima per
evitare di limitare il male al cattivo uso della libertà, e per considerarlo anche
quale vero e proprio simbolo del dolore e causa di ingiustizia: il malum poenae, solamente subito, dunque patito da chi di esso non ha effettivamente
alcuna responsabilità. Il caso più doloroso è certo rappresentato da quello
dei bambini, soprattutto quando essi risultino vittime della barbarie degli
adulti. Il male è qui inteso come qualcosa di così imponderabile che risulta
molto facile imputarlo a chi è origine di tutto. Esso appartiene al campo
della storia, ovvero all’intreccio delle relazioni umane. Risulta imponderabile perché indipendente dall’agire della singola persona sebbene sia su di
essa che se ne risentono gli effetti. L’ambito storico e sociale è per eccellenza quello nel quale il male di pena si manifesta in tutta la sua dilacerante
negatività. Una negatività che è possibile imputare a Dio solo a patto di
averlo previamente riconosciuto come l’effettivo responsabile di ogni cosa,
il creatore e unico principio del mondo. È il rapporto di creazione tra Dio e
l’uomo che esprime adeguatamente la concezione di una derivazione totale
del mondo da Dio: tutto, anche la materia, viene da lui. Per questo, di tutto
ciò che è, egli è responsabile. Pare dunque che solo nell’ambito della rivelazione ebraico-cristiana abbia senso porre il problema del male chiedendone
conto a Dio. La teoria del male come “privatio boni” nasce solo nell’ambito
della comprensione metafisica creazionistica di Dio come Essere e di tutte le
cose come esseri che partecipano di lui. In tal senso, il male è privazione di
un accidente ma non è annichilamento: anche laddove si fosse stati privati
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Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, cit., I, q. 49, a. 3.
Aristotele, Metafisica, 1020 b 23-25, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 19995.
Cfr. Tommaso d’Aquino, De malo, q. 1, a. 4.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
di qualcosa di enormemente importante, rimarrebbe ancora quel che tecnicamente la tradizione metafisica di matrice aristotelica chiama “sostanza”,
ovvero qualcosa che il dolore patito potrebbe spingere a coinvolgere in una
sorta di vortice distruttivo, nel quale la persona, disperata, potrebbe volere
annullarsi del tutto, aumentando ancora di più il proprio dolore; o potrebbe,
al contrario, spingere a preservare con amore per il desiderio di evitare che
aumenti la potenza distruttiva del male. Il percorso di vita e l’esperienza di
coloro che, pur nel dolore per un male subìto, sono capaci di gesti di carità
e di serena accoglienza della propria condizione, e non cadono nella tentazione di trascinare se stessi e tutto quanto li circonda – dalle amicizie agli
affetti – nel vortice della disperazione e della malevolenza, costituiscono una
testimonianza straordinaria dell’altissimo valore sapienziale della pur talora
vituperata teoria nota come “privatio boni”. La prospettiva del male come
privazione conduce a comprendere che il bene è sempre maggiore, e che se
il male ci ha colpiti, il bene che possiamo ancora perseguire consente di non
farci ulteriormente inghiottire nel baratro della sofferenza e del non senso,
che questa volta verrebbe gravato anche dalla malevolenza per la quale, in
qualche modo, cercheremmo di rifarci del dolore subìto a spese degli altri.
A questo va però aggiunto che il bene da perseguire si potrebbe imporre
sul male subìto solo alla luce dell’ipotesi che già Platone avanzava di una
“divina rivelazione”. Il Bene da perseguire getta una luce sull’agire umano
ma rimane sempre oltre le possibilità di una spiegazione totalizzante. Il male
rimane dunque mistero, perché riguarda la natura stessa dell’uomo e del suo
destino. Nulla si potrà fare dinanzi alle tempeste che agiteranno la navigazione della vita, «a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro
e con minor rischio su una più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione
divina».15 La vicenda biblica di Giobbe rimane in tal senso un esempio di
straordinaria profondità sapienziale: la risposta che vi si cerca non è fornita
dalle vuote discussioni degli amici di Giobbe, che riposano su pregiudizi e
che perciò costituiscono una forma di fastidioso razionalismo; essa giunge
invece da Dio che riporta ogni aspetto della discussione al rapporto creaturale che lega l’uomo a lui, e per il quale, come avrebbe scritto anche Tommaso, «allora soltanto conosciamo Dio veramente, quando lo riteniamo superiore a quanto l’uomo è capace di pensarne».16 E allora soltanto l’uomo,
in quanto creatura di un siffatto Dio, onnipotente e quindi non soddisfacentemente comprensibile da parte della ragione umana, può confidare nell’effettiva possibilità che il male non avrà l’ultima parola.
Platone, Fedone, 85 cd, trad. it. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G.
Reale, Rusconi, Milano 1991.
16 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentes, I, 5.
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Tommaso d’Aquino e la prospettiva della civiltà dell’amore
73
Quanto detto sinora a proposito della quaestio de malo risulta decisivo ai
fini di un’adeguata impostazione dell’agire umano, sia di quello personale
sia di quello sociale. Solo una visione come quella permeata del messaggio
biblico del Dio Creatore (da cui il male come mancanza) e permeata del
Vangelo di Gesù Cristo, che invita a guardare al male e alla sofferenza che
ne deriva come a un’occasione per perseguire il bene con ancora maggior
decisione, solo una prospettiva come questa può incidere sulla realizzazione
della persona umana, la quale risulta così in possesso della forza e del coraggio necessari ad affrontare le inevitabili difficoltà, più o meno gravi, che
ne accompagnano l’esistenza e la partecipazione alla società civile. È questo
l’ottimismo del quale ogni società ha bisogno. Ed è questa la verità sulla
quale si fonda ogni carità che porti ad abbracciare e a preservare ciò che
il male non ha ancora portato via. Dinanzi ai limiti delle varie forme di governo, alla precarietà delle iniziative pubbliche, all’insufficienza delle istituzioni preposte al raggiungimento del bene comune, al male commesso soprattutto da chi ha assunto su di sé responsabilità pubbliche, dinanzi a tutto
questo, l’intima convinzione secondo cui ciò che c’è, in quanto è, è buono
e va amato e preservato, esalta l’esercizio della carità. L’insopprimibile desiderio di bene che emerge con evidenza dall’esperienza di ogni uomo trova
risposta non nell’astratta e impossibile configurazione di una società priva
di mali, ma nella solidale prossimità di cui si risulterà capaci nei confronti
degli altri. A fronte delle inevitabili mancanze, e delle sofferenze più o meno
profonde che ne conseguono, l’amore nella dimensione della croce è una
risposta la cui efficacia risulta impareggiabile. Non si immobilizza nella considerazione del male subìto, sostanziata di recriminazioni e di malevolenze,
ma guarda avanti, verso l’affermazione di quel bene che avverte la responsabilità di dover contribuire ad edificare.
3. Il caso della pena
È questo che sta a significare l’assunzione della carità a principio della
vita civile nella riflessione filosofico-politica di Tommaso d’Aquino. Lo si
evince con ancora maggiore chiarezza dalla considerazione di un aspetto di
non poca rilevanza per la vita della società civile. Si tratta dell’atteggiamento
da assumere nei confronti di chi si è macchiato di un crimine nei confronti
della società. Secondo Tommaso, rientra nella definizione di “pena” che essa
1) sia causa di dolore, 2) sia contraria alla volontà di chi la subisce, 3) sia
inflitta a motivo di una colpa.17 Il castigo inflitto a un colpevole è cosa che,
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Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, cit., I-II, q. 46, a. 6, ad 2.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
nella prospettiva intellettuale, morale e civile appena delineata, quella della
carità, viene considerata del tutto illecita se mira al male del colpevole col
fine di trovarvi qualche soddisfazione: «rallegrarsi del male altrui è proprio
dell’odio, il quale è incompatibile con la carità, che deve estendersi a tutti».
Tommaso prosegue col rilevare che «uno non è scusato per il fatto che desidera del male a una persona colpevole di averne procurato ingiustamente
a lui: come non si è autorizzati a odiare chi ci odia. Infatti uno non può
peccare contro altre persone per il fatto che queste hanno prima peccato
contro di lui; poiché ciò è farsi vincere dal male».18 Oltre a quanto già si è
sostenuto – opposizione all’odio e alla volontà di rivalsa nei confronti del
condannato – risulta evidente pure che l’Aquinate nutre costante interesse
per l’edificazione di tutti, del reo come di coloro che lo condannano. Questi
devono cioè evitare che il male già commesso si ripercuota in qualche modo
su di loro, ossia che si riproduca e prolifichi nei loro cuori. Devono dunque
rifarsi piuttosto al notissimo consiglio paolino opportunamente richiamato
dall’Angelico nel proseguire il passo sopra riportato: «Non lasciarti vincere
dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12,21). Qual è allora il fine
della pena? È tendere a un bene, «al quale si giunge mediante la punizione
dei colpevoli, per es. al loro emendamento, o almeno alla repressione del
male per la pubblica quiete, oppure alla tutela della giustizia e all’onore di
Dio».19 Come dire, in termini più familiari al dibattito moderno, che la pena,
mediante la retribuzione, deve svolgere una funzione riabilitativa o almeno
quella preventivo-difensiva, perché si evitino ulteriori minacce al bene della
società.
La retribuzione costituisce quindi per l’Aquinate il mezzo – e solo il
mezzo – attraverso cui giungere ai beni in questione, e dunque non risulta
affatto in alternativa alle funzioni riabilitativa e preventiva: costituisce invece
lo strumento – pur necessario – per il loro esercizio. Chi si è macchiato di
una qualche colpa deve essere aiutato a riprendersi dal male nel quale è
caduto e deve godere della possibilità di risanare la propria umanità ferita
(funzione riabilitativa); nel contempo devono essere assolutamente salvaguardati da ogni iniquità coloro che senza colpa potrebbero essere colpiti da
chi ha già sbagliato o da chi potrebbe imitarlo (funzione preventiva-difensiva). Il mezzo per giungere a realizzare ciò rimane l’attribuzione della pena,
la quale dovrà essere inflitta in base a considerazioni fondate volta per volta
sull’osservazione e la conoscenza delle condizioni nella quali si opera, purché
sempre si tenga presente che, se il fine è quello del bene da fare non solo alla
società che va difesa ma anche a coloro che l’hanno offesa, è ad esso che ci si
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Ibid., II-II, q. 108, a. 1.
Ibid.
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Tommaso d’Aquino e la prospettiva della civiltà dell’amore
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dovrà riferire nel comminare la pena. Non potrà dunque ammettersi alcuna
negazione del rispetto della dignità della persona come pure di quello che
ad esempio la Costituzione italiana, in conformità a quanto affermato anche
dalla Dichiarazione Universale, chiama “senso di umanità” laddove prevede
che le pene non consistano «in trattamenti contrari al senso di umanità» e
che esse «devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27). In
una prospettiva come quella della civiltà dell’amore delineata da Tommaso
d’Aquino tutto ciò non può che trovare la sua più completa configurazione,
sebbene – anzi forse proprio perché – all’Aquinate non manca affatto quella
dose di realismo – in questo caso etico, politico e civile – che gli consente di
non abbandonarsi a facili esaltazioni di una utopica massimizzazione pubblica della carità cristiana. Lo si coglie perfettamente nel passo sopraccitato
laddove, dichiarando quali debbano essere i fini della pena, egli cita l’emendamento del reo “o almeno” (vel saltem) il mantenimento della “pubblica
quiete”. A Tommaso risulta chiaro che il fine della riabilitazione implica un
non facile percorso di edificazione personale, impossibile da realizzare senza
la libera e convinta adesione di tutti coloro che – a partire dal condannato –
vi risultano coinvolti. Accettare il male subìto da parte di chi è stato colpito
così come cogliere le opportunità di emendazione connesse alla pena da
parte di chi ha colpito implica un processo di ascesi personale tutt’altro che
facile. È l’assunzione su di sé della croce che per il cristianesimo risulta l’indispensabile caratteristica della vera carità. Tommaso esorcizza così quanto
anche più vicino a noi nel tempo Paolo VI, proprio in merito all’edificazione di una “civiltà dell’amore”, chiamava «innocente ma fatua ingenuità»
e «irenismo illusorio». Perché è nella consapevolezza «della sorte destinata
a chi fa dell’amore sociale, della carità, il proprio impegno prioritario»20 che
risulta possibile un autentico e valido contributo all’edificazione della civiltà
dell’amore.
Paolo VI, Discorso del 21 gennaio 1976, cit. in R. Pizzorni, Giustizie e carità, Edizioni
Studio Domenicano, Bologna 1995, p. 632s.
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La croce di Cristo rivelazione piena
della dignità della persona
Vincenzo Battaglia*
Introduzione
La trattazione sulla croce di Cristo considerata in quanto rivelazione
piena della dignità della persona viene inscritta sullo sfondo dottrinale offerto dalle encicliche di Benedetto XVI, a partire dalla più recente: Caritas
in Veritate, da cui ha preso ispirazione e motivo il seminario interdisciplinare
sul tema: L’agire sociale alla luce della teologia della croce, promosso dalla
Cattedra Gloria Crucis.
Nella lettera enciclica Caritas in Veritate si legge che ogni autentica vocazione allo sviluppo umano integrale va riferita a Gesù Cristo: «Il Vangelo è
elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo”.
[…] Proprio perché Dio pronuncia il più grande “sì” all’uomo, l’uomo non
può fare a meno di aprirsi alla vocazione divina per realizzare il proprio
sviluppo. La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di
tutto l’uomo e di ogni uomo, non è vero sviluppo».1 Proseguendo il proprio
ragionamento, in cui riprende le prospettive aperte dalla lettera enciclica
di Paolo VI Populorum Progressio, Benedetto XVI enuncia il principio trascendente che sta alla base di ogni programma finalizzato a promuovere uno
sviluppo umano integrale: «Infine, la visione dello sviluppo come vocazione
comporta la centralità in esso della carità».2 La carità postula la costruzione
di una società veramente fraterna, ma questo obiettivo non può essere giustificato e realizzato con il ricorso alla sola ragione. In verità, la fraternità
«ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per
primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna».
La regola della carità richiede un impegno a tutto campo contro ogni forma
di ingiustizia, senza frapporre indugi: «questa urgenza è dettata anche dalla
carità nella verità».3
Vincenzo Battaglia, OFM, docente di Teologia Dogmatica nella Pontificia Università
Antonianum.
1 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 18.
2 Ibid., n. 19.
3 Ibid., n. 20.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Seguendo l’articolato insegnamento dell’enciclica, intendo mettere in
evidenza anche il richiamo a un altro valore troppo trascurato nella società
contemporanea: la relazione, per cui i popoli costituiscono una sola famiglia.
«Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine»: sono le parole con cui inizia il capitolo quinto, che ha come tema
la collaborazione della famiglia umana.4 «Lo sviluppo dei popoli dipende
soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in
vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente
l’uno accanto all’altro. […] La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico,
più matura anche la propria identità personale». Per questa ragione, l’unità
della famiglia umana, rettamente compresa in analogia con la comunità familiare e con la comunità ecclesiale, «non annulla in sé le persone, i popoli e
le culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro, maggiormente uniti
nelle loro legittime diversità».5
Alcuni interrogativi sul progresso umano erano stati già posti da Benedetto XVI con l’enciclica Spe salvi. Qui afferma con chiarezza che al progresso tecnico deve corrispondere un progresso nella formazione etica e
spirituale dell’uomo; in caso contrario, sarebbe solo una grave minaccia per
l’uomo e per il mondo.6 In ultima analisi, «l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza».7 Allo stesso modo, si deve prendere atto
che «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante
l’amore».8 Mediante l’amore che viene da Dio, rivelato e attuato da Gesù
Cristo, il quale fa sperimentare l’intrinseca interdipendenza tra amore e vita,
la vita vera ed eterna. «La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione
con Colui che è la sorgente della vita». Ma il rapporto con Dio mediato in
forma assoluta da Gesù Cristo genera e fa maturare una fruizione della salvezza aperta alla comunione con gli altri; è una salvezza che non dà adito a
una speranza individualistica, priva di respiro universale. «L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere “per tutti”, ne fa il nostro
modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con
Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme».9
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Ibid., n. 53.
Ibid.
Benedetto XVI, Spe salvi, n. 22.
Ibid., n. 23.
Ibid., n. 26.
Ibid., n. 28.
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La croce di Cristo rivelazione piena della dignità della persona
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A partire da quanto è stato riassunto sin qui, la riflessione approda necessariamente sul terreno della prima enciclica: Deus Caritas est, dove si ha modo
di verificare il fondamento trinitario e cristologico del discorso e della prassi
relativi all’amore per Dio e per il prossimo, che sono inseparabili, un unico
comandamento.10 Per quanto ci interessa particolarmente in questa sede, va
sottolineato il carattere «sociale» inerente alla mistica dell’Eucaristia:
L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si
dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in
unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. […] Amore per
Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae
tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome
dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare
il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento
cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù
sull’amore.11
Un insegnamento che la Chiesa deve tradurre continuamente in opere
di carità attiva e incisiva, armonizzate con la promozione della giustizia sociale: è questo l’argomento trattato nella seconda parte del documento, che
si chiude con una densa riflessione sul rapporto tra fede, speranza e carità.
La speranza, che si articola nelle virtù della pazienza e dell’umiltà, comporta
il pieno affidamento a Dio, soprattutto di fronte ad ogni momentaneo fallimento e insuccesso. A sua volta, la fede alimenta e sostiene la speranza che
il mondo è nelle mani di Dio e che Lui realizzerà la vittoria definitiva sul
male, sul peccato e sulla morte annunciata dal Libro dell’Apocalisse. Infine,
«la fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto
di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo
l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di
vivere e di agire».12
1. Traiettorie di ricerca
1. Il nodo cruciale, il punto nevralgico dell’argomentazione prospettata
dal titolo del presente contributo è determinato dal tentativo di mostrare la
connessione logica e teologica tra la croce di Cristo e la dignità della persona.
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Cfr. Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 18.
Ibid., n. 14.
Ibid., n. 39.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Più in dettaglio, si tratta di comprendere per quale ragione e in che senso
il mistero della croce di Cristo rivela la dignità della persona e la rivela in
misura piena, quindi compiuta, definitiva e insuperabile. L’efficacia rivelatrice attribuita al mistero della croce, allora, comporta intrinsecamente un
carattere assoluto, escatologico. L’affermazione è assiomatica, in quanto si
tratta della croce di Cristo, di Cristo Crocifisso «potenza di Dio e sapienza di
Dio» (1Cor 1,24). In sostanza, è la singolarità della persona di Gesù Cristo a
fondare e garantire il valore assoluto ed escatologico inerente alla funzione
rivelatrice del mistero della croce in ordine al mistero dell’essere umano.
Parlare della singolarità di Gesù Cristo significa riprendere e valorizzare
come si conviene una lezione, messa a tema soprattutto dalla cristologia contemporanea, che conduce a riconoscere – come ha insegnato per esempio
Giovanni Moioli – «l’assolutezza, la normatività e quindi l’universalità di
diritto di questo individuo storico concreto che è Gesù. La “singolarità” è
un predicato della storicità di Gesù».13 L’assolutezza che qualifica la storicità
di Gesù dice e contiene il dato che Egli è la Verità definitiva, insuperabile,
su Dio e sull’uomo. Il fondamento ultimo di questa affermazione sta nella
realtà dell’evento dell’Incarnazione culminato nella Pasqua-Parusia. Per cui
il «darsi storicamente della Trascendenza nella storia» assume il volto e la
vicenda di Gesù di Nazaret connotati ontologicamente dal suo rapporto filiale con Dio/Abbà nello Spirito e dalla sua auto-donazione (pro-esistenza)
salvifica all’umanità nello Spirito. Ma l’essere la Verità definitiva su Dio e
sull’uomo significa, al contempo, che Gesù Cristo – in ragione della sua
identità trinitaria di Figlio Unigenito del Padre Unto di Spirito Santo – è
anche in se stesso la Salvezza definitiva, la causa costitutiva e la pienezza
della salvezza da parte di Dio a favore del mondo e dell’umanità. L’efficacia
salvifica, quindi, appartiene di diritto alla stessa persona di Gesù Cristo: per
questa ragione la sua mediazione salvifica può essere annunciata come normativa e valida per ogni uomo e per tutti gli uomini.
Ritengo di dover affermare [...] che proprio e solo l’evento reale dell’incarnazione che fonda la singolarità di Gesù Cristo e che nel suo compimento pasquale
realizza la “pienezza” del tempo salvifico, la irrepetibilità ed unicità degli atti
salvatori, è anche la ragione stessa della sua universalità: in Gesù Cristo, l’eterno
Figlio incarnato nella storia, Crocifisso e Risorto si realizza la riconciliazione cosmica, il senso di tutto il creato (Ef 2,14-18). È per questo che Gesù, il Cristo,
non è uno dei tanti profeti o dei tanti avvenimenti rivelativi della storia: in lui la
«rivelazione di Dio» possiede un carattere escatologico, definitivo, perché in Lui
Cfr. A. Cozzi, L’esigenza di pensare la “singolarità di Gesù”. Tracce di ricezione per
apprezzare l’attualità di una lezione, «La Scuola Cattolica» 137 (2009), pp. 633-655 (648-649).
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La croce di Cristo rivelazione piena della dignità della persona
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si compie quella «singolare unità (reale) tra il tempo e l’eterno», tra il «divino e
l’umano» che è fondata nella «persona unica eterna del Figlio».14
Secondo le traiettorie dottrinali sin qui tracciate, si deve aggiungere e
precisare che la mediazione salvifica di Gesù Cristo – letta, logicamente,
anche in chiave pneumatologica – va compresa secondo quella traiettoria
globale, insegnata in via fondativa dalla cristologia neotestamentaria, che
procede dall’escatologia alla protologia e viceversa. Il Libro dell’Apocalisse
esprime questo principio interpretativo in forma lapidaria, quando attribuisce al Cristo queste parole: «Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il
Principio e la Fine» (Ap 22,13; cfr. 1,8; 21,6).15
2. Una trattazione sistematica del tema oggetto del presente contributo
richiede di essere impostata alla luce e nel contesto più generale del rapporto tra la cristologia e l’antropologia, e, derivatamente, tra la cristologia e
la soteriologia. Tale rapporto, come si desume dalla letteratura specializzata,
è pensato ormai secondo il principio regolatore della visione “cristica” della
persona umana e della sua predestinazione in Cristo.16
14 M. Bordoni, Singolarità e universalità di Gesù Cristo nella riflessione teologica contemporanea, L’unico e i molti, a cura di P. Coda, PUL-Mursia, Roma 1997, pp. 67-108 (94). Cfr.
N. Ciola, “Disagi” contemporanei di fronte al paradosso cristiano dell’Incarnazione, «PATH»
2 (2003), pp. 443-471.
15 Per ulteriori approfondimenti nel contesto del dibattito teologico contemporaneo
cfr. V. Battaglia, Gesù Cristo luce del mondo. Manuale di cristologia, Pontificia Università
Antonianum, Roma 2008; M. Bordoni, Christus omnium Redemptor. Saggi di cristologia,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010; N. Ciola, La cristologia sistematica: tra
irrinunciabili acquisizioni e odierna navigazione, «Lateranum» 75 (2009), pp. 19-46; A. Cozzi,
Conoscere Gesù Cristo nella fede. Una cristologia, Cittadella Editrice, Assisi 2007; V. Croce,
Gesù il Figlio e il mistero della croce. Cristologia e Soteriologia, LDC, Leumann (To) 2010; M.
Gronchi, Trattato su Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, Queriniana, Brescia 2008; D. Hercsik, Il Signore Gesù. Saggio di cristologia e soteriologia, EDB, Bologna 2010.
16 Rinvio ad alcuni studi sistematici: V. Battaglia, Gesù Cristo luce del mondo, pp. 321355; F.G. Brambilla, Antropologia teologica, Queriniana, Brescia 2005; G. Gozzelino, Il mistero dell’uomo in Cristo. Saggio di protologia, LDC, Leumann (To) 1991; G. Iammarrone,
Gesù Cùristo volto del Padre e modello dell’uomo. L’apporto della visione francescana, Edizioni
Messaggero, Padova 2004; L.F. Ladaria, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato
1995, p. 309ss. ; L.F. Ladaria, Jesucristo, salvación de todos, San Pablo-Comillas, Madrid
2007; L.F. Ladaria, L’uomo in Cristo alla luce della Trinità, in «Lateranum» 75 (2009), pp.
147-169; C. Laudazi, Di fronte al mistero dell’uomo. Temi fondamentali di antropologia teologica, Edizioni OCD, Roma 2007. Cfr. anche il documento della Commissione Teologica Internazionale pubblicato nel 2004: Comunione e servizio: la persona umana creata a immagine
di Dio (per l’edizione italiana: Commissione Teologica Internazionale, Documenti. 19692004, ESD, Bologna 2006, pp. 767-813).
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
La predestinazione degli uomini in Cristo richiede di pensare la
“destinazione”dell’umanità a Cristo. […] Accogliere la predestinazione vuol
dire lasciarsi introdurre dallo Spirito nel cammino di Gesù e solo così si vedrà
dispiegare la sua forza salvifica: l’incorporazione che porta alla beatitudine. La
tesi della predestinazione compresa alla luce della Scrittura – operando così una
correzione radicale della tradizione agostiniana – è insieme il fondamento e l’oggetto della speranza cristiana!17
Si trovano qui la premessa e il fondamento dell’incorporazione a Cristo e
della conformità a Lui operate dallo Spirito Santo, che costituiscono la sola
finalità e la pienezza escatologica del disegno salvifico di Dio Uno e Trino.
La salvezza, scrive Ladaria,
consiste nella conformazione secondo Cristo, nel riprodurre la sua immagine,
nel realizzare, in ultima analisi, l’ideale umano che trova in Cristo risorto il suo
paradigma. Pertanto, la salvezza dell’uomo e il cristocentrismo nel disegno di
Dio non si possono considerare come due cose opposte; al contrario, vengono
a coincidere.18
Sulla base e alla luce dell’impostazione dell’antropologia cristiana in
chiave cristocentrica, faccio presente sin d’ora che la dignità cui intendo
riferirmi direttamente è quella della persona che «vive» in, con e per mezzo
di Cristo, che fa esperienza della vita da figli di Dio mediata dall’unione
con Cristo e guidata dallo Spirito Santo. L’ambito della trattazione, quindi,
è volutamente circoscritto e delimitato. Non affronterò un ragionamento
di ordine generale, a carattere fondamentale, sul complesso rapporto tra il
mistero della croce e l’antropologia. A tale riguardo, peraltro, si deve riconoscere che qualsiasi saggio inerente la teologia della croce prende in esame il
discorso antropologico, per il fatto che nel mistero della croce di Cristo si ha
la risposta definitiva di Dio, in termini salvifici, alle domande più radicali che
la persona umana pone a se stessa e a Dio soprattutto quando sperimenta il
peccato, il male fisico e morale, la sofferenza – quest’ultima spesso smisurata
e scandalosa – che travagliano tanto la creazione, quanto la storia individuale
17 F.G. Brambilla, Antropologia teologica, p. 208 e 212. «Lo Spirito fa partecipare tutta
la creazione – uomo, chiesa, mondo – alla vicenda filiale di Gesù, nel duplice senso di una
con-figurazione filiale e di una tra-sformazione spirituale» (467).
18 L.F. Ladaria, Antropologia teologica, p. 47.
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e universale.19 Do spazio ad alcune voci della teologia contemporanea, diverse tra loro per impostazione e per competenza disciplinare.
3. Un sondaggio retrospettivo e prospettico
1. Nelle pagine introduttive e programmatiche del suo ben noto studio
sul Dio crocifisso, il teologo evangelico Moltmann scriveva:
La conoscenza di Dio nel Crocifisso prende veramente sul serio gli interessi che
caratterizzano la situazione dell’uomo, il quale in realtà è un non-uomo, perché
costretto all’autogiustificazione, alla possente auto elevazione ed illusoria auto
divinizzazione. “Per cui il Gesù Crocifisso è l’immagine del Dio invisibile”. La
teologia della croce, nel suo soggetto come fin nel proprio metodo e prassi, non
potrà essere altro che teoria polemica, dialettica, antitetica e critica. […] Lo
scorgiamo chiaramente in quella tradizione teologica che va sotto il nome di
teologia della croce. In questo senso, la teologia della croce ha in Paolo il suo
fondatore.20
L’Apostolo, polemizzando in 1Cor 1,18-25 con i giudei e i greci, intende
toccare la sfera degli interessi del non-uomo,
il quale – sia esso giudeo o greco – non può acconsentire a che Dio sia Dio, ma
deve rendere se stesso un dio, infelice e superbo, signore di sé, del prossimo e del
mondo. A questo livello la Parola della croce libera i non-uomini dagli interessi
letali di divinizzazione e li apre all’esistenza umana e vitale che si conduce nella
fede.21
2. Tra i saggi più notevoli prodotti in ambito cattolico, merita ancora di
essere menzionato quello dei due professori gesuiti Flick ed Alszeghy.22
Entra qui in tema specialmente la questione della teodicea: rinvio alle considerazioni
contenute nel saggio di M. Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione, Queriniana, Brescia 2009, pp. 310-330. Per una riflessione in chiave di teologia della
croce si veda: Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?, a cura di F. Taccone, Edizioni OCD,
Roma Morena 2006; La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso, a cura di F. Taccone,
Edizioni OCD, Roma Morena 2008; V. Battaglia, «Il Crocifisso», Patì sotto Ponzio Pilato…,
a cura di F. Bosin – C. Dotolo, EDB, Bologna 2007, pp. 63-101.
20 J. Moltmann, Il Dio Crocifisso, Queriniana, Brescia 1973, p. 89. La frase riportata tra
le virgolette è di K. Barth.
21 Ibid., pp. 89-90.
22 M. Flick - Z. Alszeghy, Il mistero della croce, Queriniana, Brescia 1978.
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La parte sistematica comincia, dopo un capitolo introduttivo, con il capitolo nono, dedicato al rapporto tra la croce e l’antropologia incentrata sul
dato dell’immagine di Dio. Il tema dell’immagine è una pista «che designa
la traiettoria di uno sviluppo, attraverso cui l’uomo, nonostante la deformazione del peccato, è destinato a diventare conforme all’unica autentica immagine del Padre, a Cristo risorto (cfr. Rom 8,29; Ef 1,3-14)».23 Nel capitolo
successivo i due autori, approfondendo il discorso sulla vocazione umana,
spiegano come quest’ultima «riunisce in sé questi due aspetti apparentemente contraddicentisi, in realtà correlativi: l’amicizia con Dio, e la necessità
di portare la croce».24 Dopo aver ulteriormente esteso il percorso sistematico
prendendo in esame prima il rapporto tra il peccatore e la croce, poi l’evento
cruciale della croce di Cristo, gli autori arrivano a delineare i tratti specifici
inerenti all’esistenza e all’esperienza del discepolo e della chiesa in ordine
alla partecipazione alla croce del Signore Risorto. Va notato che il capitolo
riguardante il Cristo Crocifisso si conclude con alcune puntualizzazioni programmatiche, con cui si spiegano le ultime conseguenze della relazione inscindibile tra l’esperienza della conversione e la croce. Infatti,
se tutta la nostra salvezza è una partecipazione all’esperienza filiale di Cristo, non
si vede come potremmo giungere a questa conversione per noi crocifiggente, se
Cristo stesso non avesse «inaugurata per noi», la sua perfetta adesione al Padre,
attraverso la crocifissione della sua carne (cfr. Eb 10,20).
Il concetto essenziale di questo capitolo è dunque che Cristo crocifisso ci salva,
non per la prestazione esterna, non producendo in noi uno stato o un comportamento diverso dal suo, ma comunicandoci proprio la sua esperienza di amore
crocifisso.25
3. Franco Giulio Brambilla espone il contenuto della visione “cristica”
dell’uomo – impostato secondo il principio architettonico del cristocentrismo trinitario –, affermando che «l’uomo in Cristo trova la sua figura
“archetipa” nella duplice dedizione di Gesù al Padre e agli uomini. La dedizione di Gesù, che è il sigillo della sua missione, è attraversata dall’inizio
alla fine dallo Spirito».26 In base a questa premessa, l’autore illustra prima di
tutto il dato della libertà di Gesù pienamente relativa al Padre. In particolare, spiega che la dedizione filiale al Padre assume la forma dell’obbedienza:
23 24 25 26 Agire_IB.indd 84
Ibid., p. 248.
Ibid., p. 277.
Ibid., p. 355.
F.G. Brambilla, Antropologia teologica, pp. 147-155 (147).
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l’una e l’altra vanno considerate in un nesso inscindibile, tanto da poter riconoscere nella forma servi la forma della dedizione scelta e attuata da Gesù,
in piena libertà, secondo Dio. «Anzi, alla fine la dedizione ha la forma della
consegna di Gesù al Padre, anche quando gli uomini la/lo rifiutano. Essa si
suggella nel farsi “obbediente fino alla morte, alla morte però di croce” (Fil
2,8)…».27 L’evento della croce, quindi, contiene e rivela l’assoluta dedizione
al Padre «di Gesù e secondo Gesù»: sotto questo profilo, esso rivela che
Gesù è il Figlio di Dio proprio così, proprio perché ha obbedito fino al dono
totale di sé avvenuto con la morte di croce. Inoltre, «l’essere-così di Gesù
è l’opera dello Spirito che fa della dedizione/obbedienza/fede di Gesù la
forma perfetta della libertà credente».28
Questa specifica esistenza filiale di Gesù – questa forma storica in cui
si manifesta la fides Jesu – «porta a compimento tutte le forme del libero
affidarsi dell’uomo». Ne segue che in noi la fides Jesu «attua “nella storia”
il nostro diventare figli-come-lui, cioè la libera conformità alla volontà del
Padre, per opera del medesimo Spirito».29 Fermo restando che «la libertà
filiale di Gesù è genetica rispetto al nostro diventare figli», si può apprezzare nel modo dovuto la verità che la fede teologale si sviluppa nel credente
come dono e opera dello Spirito, il quale lo configura a Cristo. Secondo tale
prospettiva – fa notare l’autore – il discorso sulla libertà del credente nel
lasciarsi conformare come figlio nel Figlio dallo Spirito esclude che questa
libertà possa essere vista come un dato presupposto, quasi una condizione
neutra pre-esistente. Inoltre, si comprende bene anche la drammaticità del
peccato, che viene inteso «come rifiuto del volto paterno di Dio, mediato
nella figura filiale della libertà di Gesù», quella libertà espressa da due precisi atteggiamenti: la condizione di servo e l’aver imparato l’obbedienza dalle
cose patite (cfr. Eb 5,8). Arrivato a questo punto, il ragionamento di Brambilla conduce a riconoscere come si conviene il valore esemplare e normativo che il criterio staurologico riveste nella costruzione dell’antropologia
cristiana, anche per quanto attiene all’aspetto soteriologico. Scrive:
Il rifiuto degli uomini innalza il patibolo della croce. La forma filiale assume la
figura del servo sofferente, l’agnello che porta il peccato del mondo, prendendo
il volto del Crocifisso. Il Crocifisso è l’essere filiale che porta e conforma dal di
dentro il rifiuto degli uomini ad essere «figli di Abramo» secondo Gesù, cioè a
diventare figli del Padre nella fede. […] Sulla croce Egli porta anche il rifiuto
ostinato di chi vuole accedere a Dio, nella forma di una paternità sequestrata
27 28 29 Agire_IB.indd 85
Ibid., p. 151.
Ibid., p. 152.
Ibid., pp. 152-153.
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da una religiosità troppo sicura di sé […]. Rimanendo fedele sino alla fine al
suo essere filiale, cioè alla sua consegna al volto dell’Abbà (lasciandolo essere
nell’obbedienza), Gesù porta e tras-forma dal di dentro tutte le figure della disobbedienza, compresa la forma radicale di chi vuole essere come Dio […] e non
vuole lasciarsi con-formare dall’essere filiale.30
4. Lo sviluppo del dibattito teologico contemporaneo ha portato ad allargare l’orizzonte delle questioni e delle sfide da affrontare. A tale proposito,
il dialogo con le altre religioni ha assunto una centralità e un rilievo tali
da aver coinvolto, inevitabilmente, anche la teologia della croce. In particolare, la fede sull’unicità e sull’universalità della mediazione salvifica di Gesù
Cristo porta ad interrogarsi sulla risposta che il cristianesimo deve dare alle
domande riguardanti la sofferenza umana, confrontandosi con le risposte
date dalle altre religioni, specialmente quelle monoteiste. Necessariamente
– come è stato già rilevato – il discorso sul mistero di Dio fatto alla luce del
Crocifisso Risorto ha precisi contenuti e risvolti antropologici, soprattutto in
ragione della certezza che, nel Crocifisso Risorto, Dio manifesta la sua compassione salvifica verso ogni essere umano piagato dal dolore.31 Un ragionamento serio e rigoroso sulla compassione implica anche il confronto con la
teologia politica e le sue provocazioni. In questo senso, segnalo la lezione di
Johann Baptist Metz, il quale ha dato alla compassione lo statuto di “nuova”
categoria della teologia politica, mostrando chiaramente che la compassione
va intesa sia come memoria passionis (ricordarsi del dolore altrui: l’autore
invita a impostare il ragionamento “dopo Auschwitz”), sia come partecipazione pienamente solidale al dolore degli altri.32 Il progetto di una nuova teologia politica in quanto teologia fondamentale richiede, secondo Metz, «di
rendere l’autorità dei sofferenti criterio ineludibile di ogni dialogo religioso
e culturale, e di ogni “politica del riconoscimento”». Tale teologia
Ibid., p. 154.
Si veda, per esempio: P. Coda – M. Crociata (edd.), Il crocifisso e le religioni. Compassione di Dio e sofferenza dell’uomo nelle religioni monoteiste, Città Nuova - Facoltà Teologica
di Sicilia, Roma 2002.
32 Cfr. J.B. Metz, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista,
Queriniana, Brescia 2009. Rinvio alla presentazione contenuta nel contributo di F. Bosin,
“Ricordandosi della sua misericordia”. Ri-dire Maria alla luce di una teologia politica della compassione, in La categoria teologica della compassione. Presenza e incidenza nella riflessione su
Maria di Nazaret, a cura di E.M. Toniolo, Marianum, Roma 2007, pp. 109-144. Nello stesso
volume è inserito anche l’intervento di C. Dotolo, Ambiguità e forza della categoria di “compassio” in teologia e mariologia, pp. 25-45.
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vuole valorizzare, anche nelle società pluraliste, la duratura pretesa del discorso
biblico su Dio – per esempio nello spirito di un monoteismo sensibile al dolore
e di una cristologia sensibile alla teodicea – e porre a confronto l’ambito pubblico, guidato dalla dimenticanza, con la potenza umanizzante della memoria
passionis.33
5. Un altro campo di indagine che non perderà mai la propria drammatica
attualità è quello relativo all’esperienza del martirio. Quest’ultima insegna
che la «croce» gloriosa di Cristo comunica all’identità cristiana un’impronta
tanto originale quanto paradossale.34 Il martirio è il compimento supremo
della sequela del Crocifisso Risorto, in quanto – stando, per esempio, alla
lucida lezione di Hans Urs von Balthasar – il discepolo si lascia afferrare
talmente dall’agape divina rivelata dal Crocifisso, da diventare capace di attuare quella testimonianza radicale di amore per Cristo e in comunione con
Lui, che arriva fino al dono della vita. Tale disponibilità a dare la vita va
intesa «come risposta all’amore trinitario rivelato nella croce; come qualificazione ultima dell’amore cristiano; ed infine come attestazione della verità
della rivelazione e quindi come segno di credibilità della rivelazione stessa».35
4. Conformità e partecipazione all’amore di Cristo Crocifisso
1. La vita da figli di Dio in Cristo Gesù, condotta secondo lo Spirito e guidata dallo Spirito, genera una molteplicità di desideri, o – meglio ancora – un
unico desiderio dalle molte sfaccettature: entrare nella sfera dell’affettività
di Gesù, lasciarsi conquistare dal suo amore e affascinare dalla sua bellezza,
assecondarne l’azione pedagogica e salvifica, condividerne i sentimenti e lo
stile di vita, diventare conformi a lui, il Signore Crocifisso e Risorto.
Un testo che fa da guida è senza dubbio l’inno della Lettera ai Filippesi,
specialmente la prima parte (Fil 2,6-8), con l’esortazione che lo introduce:
«abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Sulla scorta di
quanto viene proclamato nella prima parte dell’inno – e in base a quanto
emerge dalle narrazioni evangeliche che culminano nel mistero pasquale – i
sentimenti sperimentati e messi in atto da Gesù hanno il loro centro e il loro
vertice nel «mistero della croce», che è l’evento con il quale egli ha portato a
Ibid., p. 230.
Cfr. S. Zamboni, Chiamati a seguire l’Agnello. Il martirio compimento della vita morale,
EDB, Bologna 2007.
35 Cfr. P. Martinelli, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Jaca Book, Milano 1996, pp. 397- 415 (410).
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compimento la sua missione. Nell’«ora» della passione, infatti, ha realizzato
in maniera perfettamente efficace la «carità» con cui ha vissuto il suo rapporto di donazione verso Dio/Abbà, e verso l’umanità, nella potenza dello
Spirito Santo (cfr. Gv 13,1).
L’affettività, la sensibilità, i sentimenti e lo stile di vita del Signore Gesù
sono ormai definitivamente trasfigurati dalla gloria e dalla potenza dello Spirito che hanno caratterizzato l’evento della risurrezione e dell’esaltazione
alla destra del Padre. Pertanto, i cristiani possono farne esperienza nella misura in cui diventano sempre di più il Corpo «crismato» del Signore Gesù
– il Corpo che è la Chiesa, ricolma del suo Spirito36 – immergendosi gradualmente nel suo mistero personale, specialmente attraverso la liturgia con al
centro l’Eucaristia, la contemplazione della sua storia narrata dai Vangeli,
la preghiera, l’apostolato e le opere di carità.37 «Ma con la sua vita, nelle
sue parole e nelle sue azioni, Cristo non ci rivela solo il volto del Padre, ma
anche il nostro», afferma Schönborn. E sulla base di quanto si legge in GS
22, prosegue:
Perciò egli è il modello, l’ideale che dobbiamo seguire. La sua nascita nel presepe ci insegna l’umiltà, i suoi trent’anni a Nazaret ci insegnano l’impegno e la
costanza, i tre anni della sua predicazione lo zelo per il regno di Dio, i tre giorni
della sua passione l’obbedienza. Perciò la vita della Chiesa comporta sempre
anche la concreta sequela di Cristo. La Chiesa ha bisogno dei santi, in cui Cristo
diventa visibile. Nella imitatio Christi prendiamo parte alla sua vita. «Vi ho dato
un esempio infatti perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).38
2. Negli scritti neotestamentari il linguaggio della conformità al Signore
Crocifisso e Risorto è utilizzato esclusivamente dall’apostolo Paolo, a motivo – credo – della sua singolare esperienza di unione salvifica e vitale con
Cristo, al quale era tutto dedito e per il quale era pronto a dare anche la vita.
«Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per
me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,20-21). Questo
testo va riletto alla luce dell’insegnamento sulla partecipazione al mistero
pasquale che l’Apostolo espone nel capitolo terzo della lettera, dopo aver
descritto il dramma di Cristo Gesù nell’inno di Fil 2,6-11. La frase più inci-
36 Cfr. C. Militello, La Chiesa «il corpo crismato». Trattato di ecclesiologia, EDB, Bologna 2003.
37 Per l’approfondimento di questa e delle tematiche esposte nelle pagine seguenti rinvio
a un mio libro di prossima pubblicazione presso le Edizioni Dehoniane di Bologna: Sentimenti e bellezza del Signore Gesù. Cristologia e contemplazione 3.
38 C. Schönborn, Dio inviò suo Figlio, Jaca Book, Milano 2002, p. 179.
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siva, allora, è la seguente: «…perché io possa conoscere lui, la potenza della
sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla
sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,1011). Il verbo composto symmorphizein, annota Fabris, è stato coniato direttamente da Paolo ed esprime la continuità di un processo – la partecipazione
alla morte di Cristo nei suoi effetti salvifici – che lo condurrà a condividere la gloria della risurrezione, precisamente nel senso che il Signore Gesù
«trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso»
(Fil 3,21).39 Sarà questo il compimento definitivo della sua azione salvifica
in quanto Capo e Signore del suo Corpo che è la Chiesa. In altre parole,
egli renderà il nostro corpo mortale – la nostra realtà/identità di creature –
perfettamente adatto e unibile al suo corpo glorioso, pienamente partecipe
della sua gloria. Si compirà allora il disegno salvifico di Dio, descritto magistralmente nell’inno della Lettera agli Efesini (1,3-14), che comporta per i
cristiani il dono di essere a lode della gloria di Dio, per opera di Gesù Cristo
e insieme a Lui (cfr. 1,12.14), quali figli adottivi scelti in Cristo dal Padre
«prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte
a lui nella carità» (Ef 1,4) e confermati, a tal fine, con il dono dello Spirito
Santo, «il quale è caparra della nostra eredità» (1,14).
Così, attraverso il linguaggio del «corpo», della «carne mortale», Paolo
spiega fino a che punto la sua persona è messa completamente a disposizione
del Signore Gesù. Inserito nella concretezza di una storia terrena, l’Apostolo
deve misurarsi con le prove, le fatiche e le sofferenze derivanti dall’attività
missionaria, che – oltre a fargli toccare con mano la propria fragilità e debolezza – lo mettono continuamente di fronte alla vocazione suprema del
«martirio», all’eventualità, tutt’altro che remota, di dover subire anche la
morte a causa di Cristo.40 «Siamo colpiti, ma non uccisi, portando sempre e
dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si
manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti
nella nostra carne mortale» (2Cor 4,9-11). Nella persona e mediante la storia
di Paolo, il Signore, vincitore del peccato e della morte, rende visibile l’efficacia della sua azione salvifica e la potenza del suo Vangelo. Egli opera in e
per mezzo dell’Apostolo, il quale è ormai completamente a sua disposizione,
totalmente consapevole che è proprio nella sua debolezza che si manifestano
39 Cfr. il commento dettagliato di R. Fabris, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, EDB,
Bologna 2001, pp. 183-233.
40 Cfr. M. Susini, Il martirio cristiano esperienza di incontro con Cristo. Testimonianze dei
primi tre secoli, EDB, Bologna 2002, pp. 36-45; Zamboni, Chiamati a seguire l’Agnello, pp.
121-145.
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la potenza e la vita del Signore (cfr. 2Cor 4,7-18; 12,7-10). Paolo, allora,
affronta tutto con quell’atteggiamento interiore, infuso dallo Spirito, che si
identifica con l’offerta di sé in sacrificio gradito a Dio (cfr. Rm 12,1). La
dedizione di Paolo al Vangelo e al bene della Chiesa trova perciò sostegno
e alimento nella partecipazione alla passione di Cristo. Nello stesso tempo,
così facendo, egli è proteso a portare a termine il proprio itinerario, che
riproduce quello di Cristo. «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto
per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia
carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).41
3. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi
perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35).
L’esistenza del discepolo è connotata da un procedere senza sosta nella sequela, da un «cammino» che è metafora di un coinvolgimento graduale nella
relazione vitale con Gesù e che comporta due decisioni.
La prima concerne la rinuncia a se stessi, da intendere alla luce di quanto
Gesù aveva detto poco prima annunciando la propria passione (cfr. Mc
8,31-33): mettere da parte ogni progetto personale per accettare come unico
progetto e scopo della propria vita la persona di Gesù e il suo vangelo. Ma
ad una condizione ben precisa: accettarne il carattere «scandaloso» e «paradossale» designato in maniera inequivocabile dal mistero della croce, evocato sia nell’annuncio fatto da Gesù: dover molto soffrire, essere riprovato,
venire ucciso (cfr. Mc 8,31), sia nell’esortazione a prendere la propria croce
indirizzata ai discepoli (cfr. Mc 8,34).
La seconda decisione è specificata così dalla metafora del prendere la
«propria» croce. L’aggettivo possessivo dice quanto sia necessario disporsi
ad un rapporto personale con Cristo Crocifisso vissuto accogliendo ogni
giorno nella propria interiorità – intelligenza, memoria e volontà – la sua
presenza che, mentre si impone progressivamente, fa uscire da una visione
egocentrica della propria vita. Gesù, infatti, insegna ad avere una nuova mentalità, capace di assimilare il capovolgimento completo dei valori, descritto
icasticamente dalla contrapposizione tra il salvare e il perdere la propria vita.
Il guadagnare la propria vita coincide in fin dei conti con la «grazia» di
poter amare nel senso pieno della parola. Amare donandosi, amare accettando Gesù senza porre condizioni, accogliendolo così come si rivela e per
quello che realmente è: il Figlio di Dio incarnato. In fin dei conti, rinnegare
se stessi, prendere la propria croce, perdere la propria vita significa mettersi
al servizio di Gesù, al servizio del vangelo, al servizio di ogni persona umana,
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Cfr. J-N. Aletti, Lettera ai Colossesi, EDB, Bologna 1994, pp. 121-123.
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mossi dalla fede e per amore. Infatti, «in Cristo Gesù non è la circoncisione
che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo
della carità» (Gal 5,6). Le opere della carità verso il prossimo sono ben descritte da Gesù con le due parabole del buon samaritano (Lc 10,29-37) e del
giudizio finale (Mt 25,31-46), che, tra l’altro, evidenziano l’ampiezza universale della regola da lui dettata per entrare nella vita eterna (cfr. Lc 10,25-29
e Mt 25,46).42 Mi sembra significativo, al riguardo, un brano tratto da un
discorso tenuto da Paolo VI durante la sua visita apostolica a Bogotà, avvenuta nel 1968. Parlando a centinaia di migliaia di campesinos, diceva loro che
sono un sacramento del Signore, come un riflesso rappresentativo, ma non
nascosto, della sua faccia umana e divina. Subito dopo aggiungeva:
E tutta la tradizione della Chiesa riconosce nei poveri il sacramento di Cristo,
non certo identico alla realtà dell’Eucaristia, ma in corrispondenza analogica e
mistica con essa. Del resto Gesù stesso ce lo ha detto in una solenne pagina del
suo Vangelo, dove Egli proclama che ogni uomo che soffre, ogni affamato, ogni
infermo, ogni disgraziato, ogni bisognoso di compassione e di aiuto, è Lui, come
se Lui stesso fosse quell’infelice, secondo la misteriosa e potente sociologia evangelica (cfr. Matth. 25,35ss.), secondo l’umanesimo di Cristo.43
«Secondo l’umanesimo di Cristo». Lui è «il principio e il modello
dell’umanità rinnovata, permeata di amore fraterno, di sincerità e di spirito di pace, alla quale tutti aspirano».44 Sta qui il fondamento permanente
dell’impegno a servizio di un vero umanesimo integrale. «La maggiore forza
a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la
carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l’una e l’altra come dono
permanente di Dio».45
4. La sequela di Cristo e la conformità a Lui toccano il culmine nella
vocazione al martirio. Il martirio, quale «prova suprema di carità»,46 quale
«grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio» (Benedetto
XVI), «si fonda sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore,
42 Per ulteriori spunti di riflessione cfr. G. Calabrese, Il buon samaritano: Cristo, morto
e risorto. Riflessioni a partire dai nn. 28-30 della Salvifici doloris, in Patì sotto Ponzio Pilato,
cit., pp. 213-251.
43 Insegnamenti di Paolo VI. VI. 1968, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano
1969, p. 377.
44 AG 8: EV 1/1107.
45 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 78.
46 Lumen Gentium, n. 42.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita (cfr. Gv 1,10)». Il
cristiano chiamato al martirio – Benedetto XVI ne sottolinea chiaramente la
dimensione vocazionale! – riceve la forza che gli è necessaria «dalla profonda
e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non
sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e
ad una chiamata di Dio, sono un dono della sua grazia, che rendono capaci
di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo».47
Inoltre, sulla scorta dell’insegnamento tramandato dalla storia dei martiri
e dalla letteratura martiriale, risulta che il carisma del martirio ha una particolare, intensa impronta eucaristica. L’eucaristia è il cibo del martire e il
martire vive il dono della propria vita come offerta di sé motivata dall’amore
per il suo Signore e accompagnata dal rendimento di grazie per tutti i benefici da Lui ricevuti.48 Sant’Agostino, dopo aver citato 1Gv 3,16: «In questo
abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi,
quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», insegna che i martiri
si sono comportati proprio secondo questa norma. Per non celebrare invano
la loro memoria e non accostarsi invano alla mensa del Signore, è necessario
prepararsi a ricambiare il dono ricevuto. Infatti «essi hanno dato ai loro fratelli la medesima testimonianza di amore che essi stessi avevano ricevuto alla
mensa del Signore». In verità, versando il proprio sangue per la remissione
dei peccati, Gesù ci ha offerto «non un esempio da imitare, ma un dono di
cui essergli grati. Ogniqualvolta i martiri versano il loro sangue per i fratelli,
ricambiano il dono da essi ricevuto alla mensa del Signore».49
Conclusione
Resa partecipe dallo Spirito Santo della santità del Signore Gesù, la
Chiesa ne condivide anche la bellezza, rivelazione luminosissima della Bellezza del Padre, «fonte di ogni santità» (II preghiera eucaristica). Quale Sposa
e Corpo di Cristo, riceve in dono la bellezza che adorna lo Sposo: ne è rive-
47 I brani sono desunti da una catechesi tenuta da Benedetto XVI a Castel Gandolfo, il
mercoledì 11 agosto 2010 (cfr. «Avvenire», 12 agosto 2010, p. 5).
48 Cfr. Susini, Il martirio cristiano, pp. 129-148. L’autrice ha mostrato la valenza vocazionale del martirio sia in quest’opera, sia in altre due successive: I martiri di Tibhirine. «Il dono
che prende il corpo», EDB, Bologna 2005; «Io vivo rischiando per te». Christophe Lebreton
trappista, martire del XX secolo, EDB, Bologna 2008.
49 In Io. Evang. Tr. 84, 1-2 (Opere di Sant’Agostino. XXIV. Commento al vangelo e alla
prima epistola di San Giovanni, Città Nuova, Roma 1968, pp. 1258-1263[1261]).
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La croce di Cristo rivelazione piena della dignità della persona
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stita, la contempla, ne gode e la irradia.50 Ciò avviene specialmente tramite la
liturgia, l’evangelizzazione, le opere di carità, la testimonianza e il magistero
dei santi, tra cui occupano un posto di rilievo i martiri. Il discorso sulla conformità al Signore Gesù deve essere declinato anche dal versante della via
pulchritudinis, per non perderne di vista una dimensione essenziale. Infatti,
la partecipazione al mistero pasquale di Cristo comporta, grazie soprattutto
ai sacramenti, la partecipazione alla sua santità e gloria, alla sua Bellezza.
Tale partecipazione sarà compiuta e imperitura quando, con la risurrezione
dei morti, il nostro corpo corruttibile e mortale si sarà vestito di incorruttibilità e di immortalità (cfr. 1Cor 15,51-58).
I santi e, in modo speciale, i martiri, sono l’icona visibile della Bellezza
diffusa dal Signore Gesù, Luce del mondo. Lo sono per opera dello Spirito
Santo: Egli, l’Artista di Dio, è l’artefice di ogni santità/bellezza creata. Egli
incide nella fisionomia della Chiesa e dei cristiani i tratti inerenti alla Bellezza/Santità del Signore Gesù, i tratti della Bellezza dell’Amato Crocifisso.
Il vertice, l’archetipo della bellezza si manifesta nel volto del figlio dell’uomo
crocifisso sulla Croce dei dolori, rivelazione dell’amore infinito di Dio che, nella
sua misericordia per le proprie creature, ripristina la bellezza perduta con la
colpa originale. «La bellezza salverà il mondo», perché tale bellezza è Cristo,
la sola bellezza che sfida il male e trionfa sulla morte. Per amore, il «più bello
dei figli dell’uomo» (Sal 44,3) si è fatto «uomo dei dolori», «senza apparenza né
bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2), e in tal modo ha reso all’uomo, ad
ogni uomo, pienamente la sua bellezza, la sua dignità e la sua vera grandezza. In
Cristo, e solo in Lui, la nostra via Crucis si trasforma, nella sua, in via lucis e in
Via pulchritudinis.51
Il discepolo che decide di stare «presso la croce di Gesù» (cfr. Gv 19,25),
impara – sotto la guida dello Spirito Santo e alla scuola della vergine Maria
– a contemplare e, quindi, ad accogliere l’Amore irradiante dal corpo martoriato, dal costato trafitto di Gesù. Impara a vedere l’Amore che riveste
l’Amato pur avendolo portato a privarsi di tutto, anche della vita, per rendere
ricchi gli uomini mediante la sua povertà (2Cor 8,9). Impara a riconoscere i
tratti della Bellezza che l’Amore ha impresso sul suo Signore Crocifisso e che
Cfr. V. Battaglia, Il Signore Gesù Sposo della Chiesa. Cristologia e contemplazione. 2,
EDB, Bologna 2001.
51 Il brano appartiene alla Conclusione dell’Instrumentum laboris prodotto dal Pontificio
Consiglio della Cultura, pubblicato in La via della bellezza. Cammino di evangelizzazione e
dialogo, a cura di G. Mura, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006, pp. 29-64
(63).
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lo ha condotto ad assumere la condizione del Servo sofferente, del Giusto
perseguitato, del Messia povero e crocifisso. Così, diventando sempre più
esperto nella sapienza della croce, non cercherà per sé altro vanto e altra
gloria se non quelli che derivano dall’adesione amorosa alla croce del suo
Signore (cfr. Gal 6,14.17).
Giorno dopo giorno, sperimenta la compassione amorosa, solidale e salvifica che il Signore Gesù esercita nei suoi confronti, come nei confronti
della Chiesa e di tutta l’umanità. Grazie a questa esperienza, diventa capace
di compatire: compatisce con Cristo Crocifisso e, in comunione con Lui,
grazie allo Spirito Santo, si impegna nella compassione operosa verso tutti
i crocifissi della storia, verso i fratelli e le sorelle piagati dal male e dalla
sofferenza.52 Al contempo, la sua preghiera sarà pervasa e suggellata sempre
di più dall’Amen e dal Grazie che scaturiscono incessantemente dal cuore
della Chiesa, la quale «avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del
mondo e le consolazioni di Dio, annunciando la croce e la morte del Signore
fino a che egli venga (cfr. 1Cor 11,26)».53
La compassione verso i sofferenti è segno e misura del più autentico senso di umanità,
è apportatrice della vera speranza cristiana: «Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché
ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza
è penetrata dalla luce dell’amore» (Spe salvi, n. 38).
53 LG 8: EV 1/307.
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LINEE PEDAGOGICHE PER ESSERE TESTIMONI
DELLA CROCE ATTRAVERSO L’INCULTURAZIONE:
P. MATTEO RICCI
Grazia Maria Costa*
Premessa
Sono molte le linee pedagogiche che si possono leggere nella vita e nella
comunicazione scritta che ci ha lasciato padre Matteo Ricci (Macerata, 6 ottobre 1552 – Pechino, 11 maggio 1610), di cui proprio quest’anno ricorrono
i 400 anni della sua morte in Cina.
Sono linee pedagogiche che sembrano basarsi sulla sua testimonianza,
che egli ha vissuto cercando in ogni modo di entrare nell’ottica e nell’esperienza della grande Nazione Cinese, dove era stato mandato.
Oggi si parlerebbe di empatia o di com-passione fraterna, seguendo la
fenomenologia di Edith Stein, e di atteggiamento transculturale.
La persona – come lo è stato per padre Matteo Ricci – risulta capace di
andare momentaneamente oltre i suoi schemi culturali per aprirsi all’altro e
poi ritornare ai suoi per farne la dovuta sintesi.
Si parla di interpatia, la capacità cioè di entrare nel pensare e sentire
dell’altro, non per condividerlo a livello emotivo, ma per conoscerlo profondamente.
Scorrendo sia le numerose lettere, sia alcune opere, scritte appunto dal
padre Matteo Ricci o dai suoi commentatori e studiosi, si presentano qui 12
linee pedagogiche, che emergono dalla sua testimonianza:
1) La capacità di “portare” i distacchi e le malinconie, alla luce della graduale trasformazione di sé (cap. I).
2) L’integrazione degli insuccessi, quali momenti di Croce, verso la resurrezione (cap. II).
3) Il sapere reagire alle circostanze, elaborando uno sguardo positivo e
fiducioso verso se stessi e verso gli altri (cap. III).
4) Il riflettere, lo studiare, sviluppando il proprio pensiero, anche a servizio degli altri (cap. IV).
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Grazia Maria Costa, Preside Istituto Edi.S.I. di Genova.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
5) Cogliere la luce e il buio interno ed esterno a sé come locus theologicus,
proprio perché il mondo è luogo della presenza di Dio (cap. V).
6) Rapportarsi con il limite dell’essere creatura tra creature, sviluppando
capacità di perdono e una pedagogia del positivo (cap. VI).
7) Realizzare un proprio controllo degli impulsi, per equilibrare razionalità ed affettività (cap. VII).
8) Coscientizzare i propri desideri e le proprie energie (cap. VIII).
9) Procedere verso i propri cambiamenti interiori, che aiutano a trasmettere quasi inconsapevolmente il buon esempio (cap. IX).
10) “Portare” la malattia e il martirio quotidiano (cap. X).
11) Andare verso una castità “inculturata” (cap. XI).
12) Percorrere la strada dall’amicizia verso i fratelli all’amicizia verso il
Signore del Cielo (cap. XII).
Certamente queste 12 linee pedagogiche sono solo una piccola parte di
ciò che il padre Matteo Ricci ci ha trasmesso.
La lettura poi di tali linee ha un indirizzo di sintesi tra l’antropologia e
la spiritualità, sintesi caratteristica della riflessione che si cerca di realizzare
nell’Istituto Edith Stein Edi.S.I.
Si resta comunque aperti ad altre linee, che ciascuno potrà trovare, integrando questa riflessione.
Mi mossi adesso a disporre e a raccogliere in ordine le cose più notabili di quelle
che sino dal principio avevo notato in questo vastissimo regno della Cina.
Posciachè la maggior parte o passorno per le mie mani o seppi molto esattamente; accioché, se alla Divina Maestà piacesse di sì piccolo seme farne nascere
e ricogliere qualche buona messe nella sua santa Chiesa Cattolica, e sapessero i
devoti fedeli che veniranno di poi, di dove hanno da comenzare a dare a Dio le
debite gratie e narrare le sue alte meraviglie fatte in questi ultimi secoli a lontanissimi popoli.1
M. Ricci, Della entrata della Compagnia di Gesù e Cristianità nella Cina, vol. I, cap. I,
Edizioni Quodlibet, Macerata 2000, p. 5.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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Anche per “narrare le Sue alte meraviglie”, si continua ora percorrendo
le 12 linee pedagogiche.
1. “Portare” i distacchi e le malinconie verso l’incarnazione e la Croce
Sappia V.R. che se qualche merito ho qui, in questi luoghi, e so che è ben poco,
non è perché faccio qualcosa, giacchè non faccio alcunché, ma perché soffro
nello star lontano da quelli ai quali vorrei stare vicino, e parlando in nomine
veterem sarei disposto a sopportare per dieci volte le scomodità che si trovano
nel viaggio, pur di stare un solo giorno con V.R. e gli altri miei vecchi amici. Sed
bonum et non hic esse, anche perché io non meritai né merito tanto bene, così lo
prendo come penitenza per i miei peccati.
Non pensi V.R. che mi manchino amici, perché dovunque mi fanno tutti molti
onori, e per quanto giovane, posseggo già l’indole degli anziani e sempre lodo il
tempo passato. Ben vedo che tutto ciò è una mia imperfezione, ma chi per una
volta si arrende veramente a Dio Nostro Signore, abbandona ogni preoccupazione nelle sue mani.2
Non mi causa tanta tristezza, così la voglio chiamare, il star lontano di miei parenti secundum carnem, se bene io son molto carnale, quanto il starlo da V.R. che
amo più che mio padre. Di qui potrà giudicare V.R. quanto grata mi fu la sua
lettera. Non so che imaginatione mi viene alle volte e non so come mi causa una
certa sorte di melanconia che mi par che è buona, e havrei scrupolo di non haverla, pensando che i miei padri e fratelli, ch’io tanto ami et amo, di cotesto collegio dove io nacqui e mi allevai, si scordino di me, tenendo io tutti tanto freschi
nella memoria; tanto che per mia miseria una delle buone orationi, e con molte
lagrime, che io faccio è ricordarmi di V.R. e degli altri padri e fratelli del collegio.
E se bene sto molto contento di questa seconda vocatione e la riconosco per
grandissimo beneficio che Dio mi fece dipoi di chiamarmi alla Compagnia, con
tutto ciò parmi grande cosa vivere in coteste parti tra nostri padri [e] fratelli. Né
voglio che V.R. pensi che quei di qua, e superiori e altri, non mi tengano e non
mi mostrino tanto [amore] come quei di Roma; perché glie dirò una cosa, che
par che nostro Signore mi vol pagare in questa vita una particolar affettione e
cura che stando in Roma haveva a quei di diversa natione, facendomi ben voluto
da tutti in tutte le parti dove sin hora sono stato: ma questo confesso che è tutto
per mia imperfettione.3
2 M. Ricci, Lettera al P. Gian Pietro Maffei sj, Lisbona, Goa, 1 dicembre 1581, in M. Ricci,
Lettere, Edizioni Quodlibet, Macerata, 2001, p. 40.
3 M. Ricci, Lettera al P. Ludovico Maselli sj, Roma, Cochin, 29 novembre 1580, in M.
Ricci, Lettere, cit., p. 19.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
«Ci siamo fatti cinesi»: Ricci è chiamato Li Madou, lo Xitai.
Era una tranquilla serata di novembre, nella residenza dei missionari regnava il
silenzio e i religiosi si erano ritirati nelle loro stanze. Ricci, seduto al tavolo, leggeva un testo cinese. Era soddisfatto perché ormai riconosceva e scriveva facilmente i caratteri e riusciva a dialogare con i locali e a confessare i convertiti senza
interprete. Avrebbe voluto esercitarsi ancora nella scrittura con il pennello, ma
era troppo stanco. Era ormai il 1585, e a poco più di due anni dal suo arrivo
a Zhaoquing con Ruggieri egli si sentiva assalire dalla nostalgia pensando che
non sarebbe più ritornato in Europa: per lui il lavoro missionario era una scelta
definitiva e irrevocabile.
Per trovare conforto alla sensazione di solitudine, tornò con la memoria agli anni
felici trascorsi al Collegio Romano e iniziò a scrivere una lettera al confratello
Giulio Fuligatti, compagno di studi a Roma, certo che il dialogo con gli amici
lontani lo avrebbe aiutato a superare il momento di malinconia.
Mentre componeva le frasi sul foglio si rendeva conto che gli riusciva sempre
più difficile usare la sua lingua madre e si scusò con l’amico del proprio stile
poco forbito, dove parole italiane venivano mescolate a espressioni portoghesi
e spagnole, con l’aggiunta, ogni tanto, di un modo di dire tradotto dal cinese,
come quando chiamava il riso, base dell’alimentazione popolare, con l’espressione «grande riso», alla maniera locale.
Ricci si accorgeva che il suo sforzo di adattarsi ai costumi cinesi stava lentamente
cancellando in lui non soltanto la capacità di parlare un italiano corretto, ma
anche l’aspetto tipico di occidentale. «[Mi sono] fatto un cina» scriveva al confratello, chiarendo più oltre: «Già saprà che nel vestito, nelle cerimonie e tutto
l’esteriore ci siamo fatti cinesi». La trasformazione era anche stata accelerata
dal passo decisivo che Ricci aveva compiuto insieme a Ruggieri: adottare un
nome onorifico cinese. Fino a quel momento i locali avevano chiamato lui e il
compagno con una trascrizione fonetica dei loro nomi cristiani. Siccome il suono
della lettera R era sconosciuto in Cina, il cognome Ricci diventava «Li» mentre
Matteo si trasformava in «Madou», e tutti, anteponendo il cognome al nome
secondo l’uno cinese, chiamavano il gesuita «Li Madou», appellativo con cui egli
è ancora oggi ricordato in Cina e in Giappone.4
Troppo spesso, poi, la posta andava persa nei frequenti naufragi, così i missionari, per aumentare le probabilità di far arrivare i loro scritti a destinazione, ne
redigevano almeno due copie, affidando la prima alle caracche portoghesi che
lasciavano Macao e facevano tappa in India, seguendo la «via dell’Ovest», e la
seconda ai galeoni spagnoli con cui, partendo da Manila, si raggiungeva il Messico per poi, attraversato via terra l’istmo di Tehuantepec, proseguire con altro
naviglio verso l’Europa, seguendo la «via dell’Est».
4 M. Fontana, M. Ricci. Un Gesuita alla corte dei Ming, Oscar Mondadori 2005, pp.
72-73.
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Mentre le lettere compivano il lungo viaggio, gli eventi e gli stati d’animo si
modificavano e ogni immediatezza andava perduta. Nei casi più tristi, gli scritti
raggiungevano persone ormai scomparse. «E molte volte ricordandomi quante
lettere assai lunghe ho scritto ai morti di costà, mi toglie la forza e l’animo di
scrivere» confessava Ricci a De Fabii il 12 novembre 1594, mentre lo pregava di
continuare a rispondergli, nonostante la precarietà del mezzo di comunicazione,
perché ricevere posta era «una grande consolazione».5
Un giorno ricevette, tra le altre, una lettera di Girolamo Costa che gli comunicava la notizia della morte di entrambi i genitori; pochi giorni dopo, il 13 ottobre 1596, Ricci cercò conforto scrivendo al fratello canonico Antonio Maria,
di cui non aveva notizie da tempo. Il gesuita, che aveva appena compiuto 44
anni, pregava il fratello di dargli informazioni dettagliate su tutti gli altri membri
della famiglia, e di sé diceva malinconicamente: «Le nuove di me son l’esser già
vecchio, ben occupato in questa Cina, dove sono molti anni che sto e penso di
finirvi la vita».
La notizia della morte del padre era in realtà infondata, perché Giovanni Battista
Ricci era sicuramente ancora in vita nel 1596, ma il gesuita lo avrebbe creduto
morto a lungo e la rettifica dell’errore lo avrebbe raggiunto soltanto alcuni anni
più tardi, quando il padre era ormai effettivamente deceduto.
I ritardi nell’avere notizie dei cari lontani e l’incertezza che caratterizzava i viaggi
per mare della corrispondenza erano uno dei crucci che affliggevano i missionari. Da alcuni anni, inoltre, ai consueti rischi di naufragio si era aggiunto il
pericolo degli assalti dei corsari inglesi e soprattutto olandesi.6
Certamente vivere i distacchi comporta cambiamenti e trasformazioni
nella persona, dopo la immediata e profonda sofferenza che il distacco comporta.
C’è una certa differenza tra cambiamento e trasformazione: il cambiamento comporta qualcosa di violento, mentre la trasformazione avviene
molto più dolcemente. Se pensiamo di dover cambiare e modificare continuamente noi stessi, rispecchiamo in fondo la convinzione che così come
siamo non va bene, che dobbiamo fare di noi un’altra persona.7
A ogni cosa è permesso di esistere, ma tutto vuole essere trasformato. Trasformare significa che l’autenticità irrompe nell’inautentico, che risplende l’immagine
che Dio si è formato di ciascuno.
In particolare nella vecchiaia avvertiamo che non possiamo più cambiare molto,
che non riusciremo a raggiungere certi ideali. Questa sarebbe la trasformazione del
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Ibid., p. 106.
Ibid., p. 148.
Cfr. A. Grün, Il coraggio di trasformarsi, Edizioni San Paolo 1995.
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sentiero spirituale per eccellenza. Allora ciascuno offre al Signore tutto quanto è in
sé, anche ciò che è povero e storpio, debole e ferito, ciò che è rimasto sul ciglio della
strada (cfr. Lc 14,23), affinché Dio possa trasformarlo. Giorno per giorno si offre a
Dio la propria povera vita, confinando che egli la trasformi a poco a poco nella sua
gloria. Ma solo quello che offriamo a Dio può essere trasformato: abbandono ogni
preoccupazione nelle sue mani, dice padre Matteo Ricci nella prima citazione di
questo capitolo.
Ogni essere umano è un essere in crescita; si evolve, cresce, cambia, supera dei traguardi, acquista un’identità e si apre agli altri… La vita si modifica in base all’ambiente e all’accoglienza o alla non accoglienza ricevuta. Si
adatta. Il corpo si sviluppa, la vita scorre se trova l’amore; oppure si irrigidisce, si contrae, quando si trova di fronte a qualche ostacolo; si protegge di
fronte alla paura e alla sofferenza. I sistemi di difesa si organizzano, il corpo
si costruisce e si modifica creando dei blocchi nei confronti della vita, oppure la vita si spinge avanti con una sorta di violenza.8
Certamente:
– Si cresce dentro una relazione di fiducia – intimità – gratuità.
– Si cresce dentro la propria storia e nel tempo.
– Si cresce passando dalla volontà di conversione all’accettazione della
propria povertà.
– Si cresce anche per gli altri.
Alla luce delle leggi della crescita, ecco ora alcuni criteri per leggere e
interpretare la crescita, per verificare se il cammino va verso una crescita
vera di sé:
– lo sviluppo di una buona capacità di adattamento, che non è adeguarsi
perché non si può far altro o per far vedere che non ci sono più problemi;
– lo sviluppo del principio di realtà: passando dal principio del piacere
alla ricerca dei valori, che si esprime nella capacità di dare il senso adeguato
alle cose e di scegliere di conseguenza, senza lasciarsi trasportare dall’emotività;
– lo sviluppo di una certa capacità di flessibilità, superando una certa impulsività, la rabbia e l’aggressività;
– lo sviluppo di un controllo positivo dei comportamenti e delle reazioni,
senza passare da uno stato di animo ad un altro in modo improvviso;
– la capacità di uscire dalla passività e da atteggiamenti rinunciatari, come
se la causa fosse sempre esterna, degli altri;
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Cfr. J. Vanier, Ogni uomo è una storia sacra, Edizioni EDB 1995.
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– il non aver paura dei cambiamenti, non temere e non lasciarsi bloccare
dalle conseguenze che queste potrebbero avere e accettare di rinunciare a
qualcosa per cambiare, superando il sentire;
– la capacità di accogliersi e di accettare i fatti esterni (compreso il non
arrivo delle lettere per padre Matteo Ricci, oggi diremmo delle mail…), accettando anche di confrontarsi e migliorare nel rapporto interpersonale;
– il prendere sempre più consapevolezza di sé e il liberarsi dal passato,
cioè liberarsi dalla fatica di voler cambiare il passato;
– imparare ad avere fiducia nelle proprie potenzialità, essere disposti anche
a correre qualche rischio e ad acquisire una buona stima di sé che rende capace di ricevere e dare amore, cura e responsabilità;
– “portare” i momenti di “malinconia”, tipici della crescita personale,
come tappa di Croce nella propria vita e cammino, talvolta prolungato,
verso la Resurrezione quotidiana o finale.
2. L’integrazione degli insuccessi: dalla Croce alla futura resurrezione
L’anno scorso lessi a Goa, contro il parere di tutti, una lezione di greco, perché
il p. provinciale mi diede modo di fare ciò: in meno di tre mesi raccolsi circa una
dozzina di persone in grado di capire una lezione e iniziai la prima filippica; ma
una malattia mandò a monte la cosa, e così fallì anche il greco che non fu più
attivato.
Mi mandarono a Cochin dove lessi per quattro o cinque mesi, dopo fui ordinato
e mandato un’altra volta a Goa per finire il corso di teologia: non saprei se per
finire la grammatica o per finire la vita, giacché quella terra è molto travagliata.9
Modello di dialogo e di rispetto per le altrui credenze, padre Matteo Ricci fece
dell’amicizia lo stile del suo apostolato durante i ventotto anni di permanenza
in Cina.
L’amicizia che egli offriva era ricambiata dalle popolazioni locali grazie proprio
al clima di rispetto e di stima che egli cercava di coltivare, preoccupandosi di
conoscere sempre meglio le tradizioni della Cina di quel tempo.
Nonostante le difficoltà e le incomprensioni che incontrò, P. Ricci volle mantenersi fedele, sino alla morte, a questo stile di evangelizzazione, attuando, si
potrebbe dire, una metodologia scientifica e una strategia pastorale basate, da
una parte, sul rispetto delle sane usanze del luogo, che i neofiti cinesi non dovevano abbandonare quando abbracciavano la fede cristiana, e, dall’altra, sulla
consapevolezza che la Rivelazione poteva ancor più valorizzarle e completarle.
M. Ricci, Lettera al P. Gian Pietro Maffei sj, Coimbra – Cochin, 30 novembre 1580, in
M. Ricci, Lettere, cit., p. 25.
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E fu proprio a partire da queste convinzioni che egli, come già avevano fatto i
Padri della Chiesa nell’incontro del Vangelo con la cultura greco-romana, impostò il suo lungimirante lavoro di inculturazione del Cristianesimo in Cina,
ricercando un’intesa costante con i dotti di quel Paese.10
In questi passi padre Matteo Ricci esprime anche alcuni suoi insuccessi,
che rispecchiano la situazione dei molti insuccessi a cui spesso va incontro
chi sceglie la vita consacrata.
Infatti chi percorre il cammino della vita consacrata deve passare attraverso gli abissi della propria anima, attraverso l’oscurità e l’abbandono, la
solitudine e l’angoscia.
I Padri della Chiesa paragonano la nostra vita alla navigazione: viaggiamo
attraverso onde piccole e grandi. Capiteremo in mezzo a una tempesta. Ma
non siamo da soli nella nostra barca. C’è Gesù che se ne sta a poppa e dorme.
Dobbiamo solo svegliarlo. Quando egli si leva in mezzo a noi, domina la
tempesta e dentro de noi e intorno a noi si fa grande bonaccia (Mc 4,35-41).
Per un certo tempo nell’età giovanile si è capaci di sopportare le proprie
perdite e di viverle perfino con forza d’animo e con perseveranza perché si
vivono come perdite che potrebbero portare più vicino a Dio.
Ma andando avanti con l’età si scopre che quello che ha sorretto per
molti anni (preghiera, devozione, sacramenti, vita di Comunità, una chiara
consapevolezza dell’amore di Dio che guida) ha allentato la sua presa. Idee
a lungo serbate, discipline a lungo praticate e abitudini di celebrare la vita
a lungo mantenute non riescono più a riscaldare il cuore, e la persona non
comprende più il perché e come fosse così motivata.
Si ricorda il tempo in cui il Signore era così reale per la propria persona
da non esservi alcun dubbio circa la sua presenza nella propria vita. Egli
era l’amico più intimo, il consigliere, la guida. Egli dava conforto, coraggio,
fiducia in lui e in se stessi. Si poteva sentirlo, gustarlo, toccarlo.
Ma nel tempo della malattia o della terza età invalidante? La persona non
riesce a pensare più a Dio a lungo, non desidera più passare molte ore alla
Sua presenza, non ha più quella speciale sensazione su di Lui.
Che cosa fare allora di fronte alle proprie perdite? Si nascondono? Si devono vivere come se non fossero reali? Si deve convincere se stessi e gli altri
che le proprie perdite sono minime rispetto a quanto si è acquisito?
10 A. Paolucci – G. Morello, Benedetto XVI, dal Vaticano 6 maggio 2009, al Venerato
Fratello Claudio Giuliodori, Vescovo di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia, in Ai
crinali della storia. Padre Matteo Ricci (1552-1610) fra Roma e Pechino, a cura di A. Paolucci
– G. Morello, Edizioni Umberto Allemandi, 2009.
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Solitamente si fa tutto questo, ma c’è un’altra possibilità, ed è la possibilità di piangere le proprie perdite.
Non si può dire o fingere che non ci siano, ma si possono versare lacrime su di loro e permettersi di affliggersi profondamente. Affliggersi significa permettere alle proprie perdite di lacerare i sentimenti di sicurezza
e protezione, e di condurre alla dolorosa verità della propria prostrazione.
È l’andare più consapevolmente verso il «Signore pietà». Il dolore fa così
sperimentare l’abisso della propria vita in cui nulla c’è di sistemato, chiaro,
ovvio e tutto è in costante movimento e cambiamento.
Attraverso il pianto per le proprie perdite la persona giunge a conoscere
la vita come un dono.
E mentre si sente il dolore per le proprie perdite, il cuore afflitto apre il
proprio occhio interiore ad un mondo in cui le perdite sono sofferte molto al
di là del proprio piccolo mondo, della casa dove ci si trova, della Comunità
in cui si è inseriti. È il mondo dei carcerati, dei rifugiati, dei malati senza speranza, dei bambini che muoiono di fame, degli innumerevoli esseri umani
che vivono in costante paura. Allora il dolore del proprio cuore affranto
collega la persona al pianto e all’afflizione di un’umanità sofferente.
Allora il proprio pianto diventa dono e si riesce ad ascoltare la benedizione nascosta nella sofferenza: «Beati gli afflitti perché saranno consolati».
Unitamente a questo c’è un’apparente perdita di fede, la perdita della convinzione che la propria vita abbia significato.
Non si tratta di problematiche solo della malattia o dell’età anziana invalidante, ma di periodi che tutti possono passare.
3. Le reazioni positive, che permettono il cadere e il rialzarsi
Molto Rev.do in Cristo Padre,
Tra un mese, lascerò Macao via terra fino alla vicina metropoli marittima di
Kanton, capoluogo della provincia di Kuangtung, dove si svolgerà la Fiera di
Primavera, con europei mercanti tra i quali passerò inosservato.11
In ogni cultura occorre «assimilare l’essenza del Messaggio Evangelico,
trasfonderlo senza la minima alterazione di tutta la sua verità fondamentale,
11 Macao, 13 febbraio 1583. P. Matteo Ricci scrive al Superiore Generale di Roma, informandolo che i colonizzatori spagnoli delle Isole Filippine vorrebbero armare mercenari giapponesi contro la Cina, in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, Alfabetica Edizioni,
2010, p. 115.
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nel linguaggio comprensibile a questi uomini e, quindi, annunziarlo in quel
medesimo linguaggio».12
Questo necessario processo di inculturazione della fede cristiana passa
attraverso la consumazione di una nuova mediazione culturale che si compie
in due momenti strettamente complementari ed ambedue essenziali.
Il primo momento consiste nello sforzo da parte della Chiesa, attraverso
gli evangelizzatori e i missionari, di rendere comprensibile e vivo il messaggio rivelato agli uomini di una data cultura, traducendolo efficacemente
nelle forme e nel linguaggio di essa.
Senza questa mediazione culturale, la parola di Dio resterebbe umanamente incomprensibile e lontana.
Tuttavia non basta lo sforzo degli evangelizzatori: affinché il processo
possa ritenersi compiuto, occorre che la Parola di Dio, fedelmente e comprensibilmente trasmessa, sia compresa ed accolta, si sviluppi, in un secondo
momento, all’interno della cultura in cui essa è stata mediata, in modo da
produrre la crescita ed il rinnovamento di quella stessa cultura, aprendola ad
un umanesimo plenario ed alla trascendenza.
È importante chiarire subito che quest’opera di mediazione culturale o
di inculturazione non va intesa come un accomodamento del Vangelo alle
diverse esigenze di mentalità e di costume dell’una o dell’altra cultura, quasi
che la possibilità di annunciare una verità dipenda dalla compatibilità o
meno di esse con l’una o l’altra cultura; ciò porterebbe ad inaridire il Vangelo, a sterilizzarne l’annuncio per limitarlo soltanto ad alcune sue parti più
comprensibili ai soggetti appartenenti ad una determinata cultura.
Neppure si deve confondere l’inculturazione con il tentativo di mettere
insieme più elementi tra loro eterogenei, alcuni presi dalla fede cristiana ed
altri presi da differenti credenze religiose: ciò porterebbe ad un sincretismo
che non ha nulla a che vedere con l’autentica evangelizzazione.
Né infine la mediazione culturale va pensata come la ricerca di una minima verità comune, per potersi poi accontentare definitivamente di questa,
rinunciando all’annuncio integrale di tutta la verità: si tratta invece correttamente di un processo aperto, che partendo da un minimo condiviso da tutti,
faccia evolvere la conoscenza della verità verso la sua interezza totale.
Il vero senso della inculturazione, perciò, sta nel riconoscere che, ai fini
della evangelizzazione, s’impone, da un lato, un confronto aperto e leale tra
fede cristiana e culture, dall’altro l’impegno costante di esprimere ex novo
la fede cristiana nelle diverse culture, una volta che siano state fecondate
ed arricchite dal Vangelo. Sono i due aspetti che anche Giovanni Paolo II
sottolinea nella enciclica Redemptor hominis:
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Paolo VI, Evangeli Nuntiandi. Esortazione apostolica, n. 63.
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Si esige – egli scrive – che noi ci accostiamo a tutte le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Dobbiamo a loro avvicinarci con stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli,
contrassegnava l’atteggiamento missionario.
Con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che trovasi dentro ciascun
uomo, stima per tutto ciò che egli stesso, nell’intimo dl suo animo, ha potuto
elaborare riguardo ai problemi esistenziali più profondi e più importanti.13
In secondo luogo – facendo riferimento all’enciclica – non bisogna mai
dimenticare che «la missione non è mai distruzione, piuttosto una riassunzione di valori». Pertanto, occorre sapersi porre in atteggiamento di attenta
e rispettosa riflessione, preoccupandosi di non soffocare mai alcun germoglio bensì di sviluppare potenzialità sedimentatesi nel corso di tradizioni
secolari.14
L’evangelizzazione va intesa come prudente, tempestiva, operosa seminagione, non invece come sradicamento di ciò che, essendo autenticamente
umano, ha un valore positivo intrinseco.15
Prima di lui ben 25 volte i gesuiti avevano tentato di penetrare l’universoCina senza riuscire nella delicatissima impresa di costruire un ponte di cui
ancora oggi resta viva la memoria.
Mons. Giuliodori parla con passione del grande missionario «uomo di
straordinario ingegno, arguzia, apertura mentale e rispetto per l’altro, dotato
di una personalità poliedrica, capace di tarare nel modo migliore i suoi interventi, di ritirarsi quando c’era bisogno di fare un passo indietro, di essere
deciso quando bisognava superare le resistenze».16
Una delle caratteristiche della strategia missionaria di Matteo Ricci è la propagazione indiretta della fede usando la scienza e la tecnologia europea per attirare
l’attenzione dei cinesi acculturati, convincendoli così dell’alto livello della civiltà
occidentale.
Ricci regalò un orologio europeo all’imperatore, introdusse dipinti che impressionavano i cinesi per l’uso della prospettiva, tradusse i trattati matematici di
Euclide con le note del famoso matematico gesuita Cristoforo Clavio (1538-
Giovanni-Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, n. 12.
Cfr. Zhang Yue, ambasciatore in Italia della Repubblica Popolare Cinese, 23 aprile
1980, in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 124-125.
15 Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 1979.
16 M. Fagiolo D’Attilia, Il Gesuita che conquistò il Regno del Drago, nella rivista «Popoli
e Missione», marzo 2010, p. 17.
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1612) e fece stampare una grande mappa del globo che integrava i risultati delle
ultime esplorazioni nel mondo. Attraverso tale attività, Ricci strinse relazioni
amichevoli, che a volte sfociarono nella conversione di alcuni membri dell’élite:
ad esempio, Xu Guangqi (1562-1633), battezzato come Paolo nel 1603, e Li
Zhizao (1565-1630), battezzato come Leo nel 1610, erano i più famosi al tempo
di Ricci.17
La mediazione culturale, la seminagione, il desiderio di costruire ponti,
la stima verso ogni persona e oggetto (orologi, mappe, ecc.): tutto questo fa
pensare alla linea pedagogica, posseduta sicuramente da padre Matteo Ricci,
dell’avere e del coltivare uno sguardo positivo su di sé e sugli altri.
Noi siamo innanzi tutto il nostro positivo. Questo è un principio basilare
per una buona salute interna. Occorre credere in se stessi, nel valore che si è,
nelle presenze buone che sono in ciascuno di noi e smettere di condannarsi
e sentirsi condannati.
Le aree positive della nostra personalità sono il luogo del nostro esistere
più interessante e gioioso. Una giusta autostima o autoconsiderazione è la
colonna vertebrale di ogni persona. Conoscere il positivo che si è e si ha
porta a scuotersi, tentare, prefiggersi obiettivi…
La vita interiore non è un crescendo costante e lineare, ma un processo
costellato di alti e bassi, un cammino nel quale si fanno passi avanti e passi
indietro, si vive oggi lo slancio dell’amore e domani la sua stanchezza. E noi
confiniamo col male e col nulla, li costeggiamo, costantemente sospesi, in un
precario equilibrio tra le voci del bene e quelle del male.18
La fiducia in se stessi e nelle proprie capacità (stima di sé per quello che
si è e non per quello che si fa) si acquisisce attraverso una valorizzazione
delle proprie potenzialità, di cui è necessario prendere consapevolezza per
liberarle. Questo cammino sembra essere stato percorso da padre Matteo
Ricci, il quale valorizzò le sue doti umane di astronomo, matematico, ecc., e
specialmente la sua capacità di reagire alle difficoltà.
Se in ogni persona sono presenti lati più oscuri o immaturi, è anche vero
che allo stesso modo sono presenti punti forti del carattere e della personalità che rendono la persona reattiva, capace di realizzarsi e di realizzare, di
andare incontro agli altri e di donarsi. Creatività, generosità, duttilità, virtù
umane e doni spirituali possono dispiegarsi nella graduale acquisizione o
riappropriazione della consapevolezza di essere degni di fiducia, di essere
oggetto di amore, di essere positivi, perché la positività non si identifica col
Articolo di P. N. Standaert sj, Matteo Ricci e la cultura cinese, nella rivista «La Civiltà
Cattolica», 20 febbraio 2010, p. 322.
18 Cfr. G. Colombero, Cammino di guarigione interiore, Edizioni Paoline.
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non essere fragili, avere una storia perfetta e non avere alcuna dipendenza
affettiva.
È dalla capacità di percepirsi con realismo, con sana autostima, che è possibile fare il passaggio verso l’altro. Da un amore egocentrico ad un amore
oblativo. Da una focalizzazione difensiva su se stessi, per salvare la propria
immagine ad una accettazione di sé libera e serena che fa sì che i lati nascosti
del carattere e della personalità possano esprimersi.
Il pensiero positivo non è, come un’interpretazione semplicistica potrebbe
suggerire, un invito all’ottimismo forzato ignorando i dolori e le frustrazioni
che ognuno ha incontrato nella propria esperienza. Il pensiero positivo è
il pensiero posto in essere. È riconoscere il potere di scelta che ciascuno
ha a disposizione ogni volta che interpreta la propria realtà. I pensieri che
si sceglie di concepire danno origine alle esperienze che si vivono. Se, per
esempio, si pensa di non essere capaci di fare qualcosa, quest’idea diventa
vera soggettivamente e le proprie azioni tenderanno a confermare questa
convinzione. Pensare positivo significa accettare l’idea che ogni problema,
incidente o malattia non siano avvenimenti casuali. Essi racchiudono in sé
un messaggio per la propria evoluzione. Una volta colto il senso, non si ha
più bisogno di ripetere quell’esperienza.
La maggior parte di persone crede di poter essere felice nel momento in
cui si verificheranno determinate condizioni nella propria vita: una nuova
scoperta vocazionale, un servizio migliore… e se invece fossero la felicità
e la gioia di essere vivi a creare il terreno ideale per far nascere relazioni
costruttive, amicizie sincere, nuove scoperte vocazionali, e quant’altro si
desidera?
4. Tra le reazioni positive, la riflessione e lo studio come servizio alla
propria e altrui ragione, verso l’inculturazione
Lo studio, l’approfondimento e la riflessione furono doti molto sviluppate da padre Matteo Ricci, e su questo percorso possiamo seguirlo.
Leggere, ha a che fare anche con il silenzio e l’ascolto, perché leggendo un
libro, ognuno si crea un suo mondo, ognuno s’immagina le facce dei personaggi, gli ambienti, in un modo diverso; con la fantasia ognuna crea in qualche
modo un suo romanzo. Spesso mi capita d’incontrare lettori che inseriscono
personaggi o scene che in realtà nei miei libri non ci sono. C’è proprio una
mescolanza unica d’inconscio, memoria e ricordi. Il silenzio è fondamentale
per l’essere umano.
Credo che nella voluta assenza di silenzio nel mondo contemporaneo ci sia anche
un progetto perverso: senza silenzio non c’è ascolto; senza ascolto non si può ca-
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pire dove andare. Direi di prendere ogni giorno un momento per sé di silenzio e
di ascolto. Lo dovremo proporre ai nostri ragazzi nelle scuole.19
Padre mio,
Vi farà piacere ora se Vi dico che i miei Superiori romani hanno deciso che il mio
parlare ed il mio scrivere in lingua italiana merita di essere perfezionato, per cui
mi hanno mandato per un anno nel nostro Liceo della Firenze di Dante…
Dall’anno prossimo per un quadriennio al Collegio romano dovrò intensamente
seguire le lezioni della Retorica e della Filosofia nonché successivamente della
Sacra Eloquenza, vere e proprie arti oratorie che richiedono una solida preparazione in lingua e letteratura italiana, ed anche latina ma pure greca, se ne siamo
capaci cultori.
Intanto il Professor Martino De’ Fornari ci fa leggere in italiano anche il trattato
“Retorica” di Aristotele, nella traduzione dell’umanista nostro conterraneo civitanovese Annibal Caro, pubblicata postuma da tre anni a Venezia.
Lo studio poi delle materie scientifiche, cioè geografia, cartografia, cosmologia,
matematica, e geometria, già mi fanno sentire un novello Archimede o un Euclide.20
Nella Capitale, mi piange il cuore per averci lasciato i grandi miei docenti Maselli, De Fabi ed in specie il caro matematico padre Clavius, che mi ha voluto
donare un astrolabio portatile che di giorno in viaggio sugli Oceani, man mano
che ci avvicineremo nell’emisfero boreale e poi ci allontaneremo nell’emisfero
australe rispetto all’equatore, utilizzerò secondo le istruzioni del Prof. Clavius,
per calcolare le variazioni nella linea dell’orizzonte, con ciò confermandosi sperimentalmente la sfericità del globo terracqueo.
Padre Clavius mi ha fatto portare meco anche il sestante o sfera armillare, con
cui m’ha detto di puntare, nelle notti di sereno lunare, la stella del polo boreale
individuabile con la cala mitica bussola vetero-caldea, dipoi collocando idealmente sulle sfere rispetto alla stella, tutte le dodici costellazioni zodiacali delle
sfera celeste.21
Intervista rilasciata da Susanna Tamaro a Stefano Readaelli, pubblicata sul quindicinale «Città Nuova» n. 9 anno 2006, in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p.
51.
20 Ottobre 1572. Il ventenne Matteo Ricci viene trasferito per un solo anno a Firenze ove
perfeziona sintassi e pronunzia di lingua italiana, prima di studiare logica, filosofia, retorica,
matematica, astronomia, cartografia e scienze naturali. Rientra nel Collegio Romano ad ottobre 1573 e vi rimane fino al maggio 1577. Lettera di Matteo Ricci ai genitori, in A. Agnetti,
L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 85.
21 Autunno 1577. Matteo Ricci, Francesco Pasio e Michele Ruggeri sopraggiunto
dall’Italia, rimandano l’imbarco alla primavera e nell’Università di Coimbra studiano lingua
portuguesa. Pasio e Ruggeri studiano anche Teologia, perciò a marzo del 1578 sono con19 Agire_IB.indd 108
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L’altra questione che reputo dovervi segnalare, è che il ns. Padre Provinciale di
qui in India, nei Corsi di Studio della Filosofia e della Teologia, non ammette
alla frequenza nessuno studente nativo dell’India che vorrebbe farsi sacerdote,
per cui nel presente abbiamo seminaristi autoctoni ignoranti, che in futuro resteranno impreparati, a meno che non avvengano improbabili miracoli, ma sarà
bene non sperare tutto dalla Provvidenza.
Io temo che i nativi, bistrattati dagli europei colonizzatori, se malauguratamente
dovessero percepire come loro avversari anche noi sacerdoti, dato che non consentiamo loro neppure di istruirsi, finiranno per odiare indistintamente tutti noi
occidentali, e così avremo pregiudicato la loro disponibilità alla conversione
prima, ed alla perseveranza poi, nella nostra santa fede.22
Vero umanista, dotato di cultura filosofica, teologica ed artistica e, al tempo
stesso, provvisto di un notevole corredo di cognizioni matematiche, astronomiche, geografiche e di applicazioni tecniche tra le più avanzate dell’epoca, P.
Ricci riuscì ad acquisire, attraverso un lungo impegno di studio tenace, umile e
rispettoso, la cultura classica cinese in un modo così vasto e profondo da fare di
lui un vero e proprio “ponte” fra le due civiltà europea e cinese.23
Apprese la lingua cinese, non solo per poterla parlare, ma soprattutto
per poter ascoltare l’universo cinese. Questo è forse l’aspetto più originale e
innovativo; si pose in ascolto di una cultura millenaria, acquisendo tutti gli
strumenti per poterlo fare. Dopo essere entrato in Cina come religioso occidentale, si rese conto che occorreva passare dall’essere rispettato per ciò che
era, al rispettare, all’accogliere la cultura e il popolo presso cui si trovava.
Egli non voleva solo farsi ascoltare, ma farsi accogliere. Capacità di adattamento e attenzione per la cultura e per le persone costituiscono la base
della sua azione.
Si lasciò istruire dalla cultura cinese entrandovi in profondità, comprendendo che il confucianesimo era la via più feconda, il suolo più propizio,
per far germogliare i semi del Vangelo, entrando in relazione con il popolo
sacrati Sacerdoti prima dell’imbarco per le Indie Orientali. Lettera di Matteo Ricci ai genitori,
in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 93.
22 25 novembre 1581. Il novello Sacerdote Padre Matteo Ricci, da Goa, scrive al Superiore Generale dei Gesuiti consigliandogli: 1) che le Missioni ed i Collegi di Goa e Cochin
colonie portoghesi ora sotto la corona della Spagna, non siano dirette sempre e solo da Confratelli Iberici convertiti dall’ebraismo, onde evitare collusioni, 2) che agli studi superiori di
filosofia e teologia nei Collegi di Goa e Cochin vengano ammessi anche Seminaristi nativi
della stessa India, onde avere una Gerarchia Ecclesiastica ben istruita e autoctona, in A.
Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 106.
23 Giovanni Paolo II nel 2° Convegno Internazionale Ricuciano, PUG 1982, in A.
Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 138.
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cinese perché, da questa relazione amicale, potesse germogliare il seme
dell’annuncio.
Scrisse p. Pedro Arrupe,24 Superiore generale della Compagnia, nel 1978:
inculturazione significa incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una
concreta area culturale, in modo tale che questa esperienza non solo riesca a
esprimersi con gli elementi propri della cultura in questione (il che sarebbe soltanto un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo
e unificante, che trasforma e ricrea quella cultura dando origine a una “nuova
creazione”.
Per lasciarci trasformare dall’inculturazione non bastano le idee e gli studi. È
necessario lo shock di un’esperienza personale profonda.
Per coloro che sono chiamati a vivere in un’altra cultura, sarà il fatto di integrarsi
in un Paese nuovo, in una nuova lingua, in una nuova vita. Per coloro che restano nel proprio Paese, si tratterà di sperimentare i nuovi modi del mondo contemporaneo che cambia: non la pura conoscenza teorica delle nuove mentalità,
ma l’assimilazione esperienziale del modo di vivere dei gruppi coi quali si deve
lavorare, che possono essere gli emarginati, gli zingari, gli abitanti delle periferie,
gli intellettuali, gli studenti, gli artisti, ecc.25
Il piano delle scienze umane e delle scienze della natura ha costituito il luogo di
incontro con la cultura cinese e il luogo di annuncio. Ma questo non avvenne mai
in modo funzionale o tattico, seducendo un popolo per annunziare il Vangelo.
Il mondo era, ed è, il luogo della presenza di Dio. Le scienze umane, le scienze
della natura e la tecnica sono vie attraverso le quali è possibile comprendere
l’azione di Dio nel mondo e nella storia.
Lo studio delle arti e delle scienze è già teologia, perché è contemplazione e
presa di consapevolezza della presenza di Dio.
Ciò, del resto, è la caratteristica dello stile missionario dei gesuiti: aiutare gli
uomini a cercare e trovare Dio in tutte le cose. Ricci fece arrivare il messaggio
cristiano al cuore della cultura cinese, mostrando l’universalità di tale messaggio:
esso non è prerogativa di nessuna cultura, tanto meno di quella occidentale.
«[La Chiesa],26 inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo, non
24 P. Arrupe, Lettera sull’inculturazione, 14 maggio 1978, in Inculturazione, problemi, orientamenti, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, Roma 1979.
25 Articolo di P. A. Nicolás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, nella rivista
«Aggiornamenti Sociali», marzo 2010, pp. 172-173.
26 Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, 1965, n. 58.
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è legata in modo esclusivo e indissolubile a nessuna razza o nazione, a nessun
particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente».27
Ogni persona ha le proprie capacità intellettuali, talvolta solo sul versante
pratico, talvolta sul versante razionale.
Le capacità intellettuali sono indispensabili alla persona per realizzare il
proprio lavoro. Le gambe ci portano verso una certa direzione, ma verso
dove lo dobbiamo stabilire noi. Abbandonata a se stessa, la mente reagisce
con una iperattività confusa, senza obiettivi e quindi senza risultati; ciò significa un enorme spreco di energie, con risultati inadeguati.
Per concentrazione si intende la capacità di realizzare con tutti i mezzi
nella propria intelligenza un determinato lavoro, in un periodo di tempo
anche determinato. È utile essere concentrati: chi ha un buon rendimento
impiega la mente in modo specifico, e può osservare tutti gli aspetti pertinenti ad un determinato tema. Il pensiero è “ampio” quando considera tutto
ciò che può essere inerente al caso: esigenze/effetti del passato, presente, futuro. Così, la persona concentrata può usare il pensiero “ampio”, prendere
in considerazione il maggior numero di aspetti: fa bene le mille cose di tutti
i giorni. La persona distratta, invece, corre il rischio di un incidente, dimentica di chiudere le porte o spegnere il gas.
La capacità di concentrazione determina il proprio rendimento. Perché
può succedere questo? Perché, specialmente durante le difficoltà, ci sono
in atto processi di pensiero paralleli, che assorbono con prepotenza parte
del potenziale. Questo si dà soprattutto nella persona nevrotica, carica di
problematiche; nel depresso si realizza una iperattività inconscia (anche se
apparentemente sembra essere “tranquillo” e “fermo”), tale che non è in
condizioni di pensare al presente.
Chi ha problemi non riesce a non pensare ad essi mentre lavora. Ciò può
essere possibile grazie ad un grande sforzo e per poco tempo, giacché la capacità di concentrazione può essere imparata e quindi forzata.
Ma finito lo sforzo diretto, realizzato il lavoro, l’inconscio fino adesso silenziato esplode energicamente. L’auto-osservazione ci può indicare quale
problematica ha interrotto e quante volte ha pure interrotto il processo di
pensiero regolare e concentrato. Possiamo ottenere un’indicazione precisa
ed intervenire direttamente sul contenuto di quella problematica. Questo
è il cammino per tornare ad ottenere la capacità di concentrazione perduta.
Siamo anche coscienti che il livello e la capacità di concentrazione variano pure in rapporto a fattori fisiologici, come lo stato di fatica, l’equilibrio
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Articolo di P. A. Nicolás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, cit., p. 175.
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ormonale, l’efficienza del sistema nervoso centrale; e a fattori psicologici relazionati con gli interessi culturali personali, l’equilibrio emozionale, la situazione attuale in cui si trova inserita la persona, ecc. In sintesi: il grado di
concentrazione è quel segno che ci indica il volume di problematiche non
ancora risolte.
5. Nella luce e nel buio: accettare il mistero del Signore del cielo
Molte furono nella vita di padre Matteo Ricci le alternanze tra luci e
ombre.
Il letterato occidentale dice: Le persone non sono in grado di comprendere completamente la natura anche del più piccolo insetto al mondo, come la formica.
Tanto meno semplice, quindi, deve essere comprendere completamente il Signore del Cielo, supremamente grande e degno di lode. Se fosse semplice per
l’uomo comprenderlo non sarebbe il Signore del Cielo.
Tanto tempo fa, c’era un re che voleva comprendere la verità riguardo al Signore
del Cielo e a tal fine interrogò il suo saggio ministro. Questi disse: «Mi conceda
tre giorni per meditare sulla sua domanda». Allo scadere del terzo giorno il re
pose di nuovo la domanda, e il ministro replicò: «Mi deve concedere altri sei
giorni», il ministro ne chiese altri dodici. Il re si adirò e disse: «Ti stai prendendo gioco di me?», il ministro rispose: «Come potrebbe il suo ministro osare
prendersi gioco di lei; è semplicemente che la verità sul Signore del Cielo è inesaustibile, e dopo ogni giorno in cui mi sono dedicato totalmente a profonde
considerazioni su di Lui, la verità su di Lui è apparsa ancora più sottile. È come
fissare il sole: più si guarda, più confusa diviene la visione. È per questa ragione
che trovo difficoltà a darle una risposta».28
La cultura, ovvero la scienze, le lettere, le arti, come la musica sono un locus theologicus. Ciò significa che il mondo era, ed è, il luogo della presenza di Dio. Le
scienze umane, le scienze della natura e la tecnica sono le vie attraverso le quali è
possibile comprendere l’azione di Dio nel mondo e nella storia. Lo studio delle
arti e delle scienze è già teologia, perché è contemplazione e presa di consapevolezza della presenza di Dio.29
28 M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, nn. 52-53, Urbaniana
University Press 2006, p. 90.
29 Articolo di V. Prisciandaro, Matteo Ricci 400 anni dopo, nella rivista «Jesus», marzo
2010, p. 56.
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I credenti cinesi cristiani, leggendo il Vangelo con i “loro” occhi, comunicano a
noi quello che con i “nostri” non potremmo intuire.30
La ricerca continua del Signore del Cielo sembra essere stata una costante nella vita di padre Matteo Ricci. Il tutto, nella fragilità delle situazioni
esterne. Proprio la fragilità è oggetto di parte della riflessione che il Convegno Ecclesiale di Verona ha offerto a tutta la Chiesa italiana.31
Un terzo ambito della testimonianza è costituito dalle forme e dalle condizioni di esistenza in cui emerge la fragilità umana. La società tecnologica
non la elimina; talvolta la mette ancor più alla prova, soprattutto tende a
emarginarla o al più a risolverla come un problema cui applicare una tecnica
appropriata. In tal modo viene nascosta la profondità di significato della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza sia
il valore e la dignità. La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua
verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la
sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso,
al cammino della vita.
Solo una cultura che sa dar conto ti tutti gli aspetti dell’esistenza è una
cultura davvero a misura d’uomo. Insegnando e praticando l’accoglienza del
nascituro e del bambino, la cura del malato, il soccorso al povero, l’ospitalità dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, la visita al carcerato,
l’assistenza all’incurabile, la protezione dell’anziano, la Chiesa è davvero
«maestra d’umanità».
Ma l’accoglienza della fragilità non riguarda solo le situazioni estreme.
Occorre far crescere uno stile di vita verso il proprio essere creatura e nei
rapporti con ogni creatura: la propria esistenza è fragile e in ogni relazione
umana si viene in contatto con altra fragilità, così come ogni ambiente umano
o naturale è frutto di un fragile equilibrio.
Ogni difficoltà – nella vita consacrata, nell’evangelizzazione, nella Comunità, ecc. – è fondamentalmente un momento, più o meno prolungato nel
tempo, di ricerca del Volto di Dio, e questa è la vera conversione del cuore.
Continuare a ricercare il Volto di Dio è uno degli scopi essenziali nella vita
della persona consacrata, e il S. Padre Benedetto XVI sottolinea proprio tale
ricerca.
Ibid., p. 59.
Cfr. n. 15C del Documento Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Traccia
di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16-20 ottobre 2006, CEI,
Edizioni Paoline.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Cercare Cristo deve essere l’incessante anelito dei credenti, dei giovani e degli
adulti, dei fedeli e dei loro pastori. Va incoraggiata questa ricerca, va sostenuta
e guidata.
La fede non è semplicemente l’adesione ad un complesso in sé completo di
dogmi, che spegnerebbe la sete di Dio presente nell’animo umano. Al contrario,
essa proietta l’uomo, in cammino nel tempo, verso un Dio sempre nuovo nella
sua infinitezza.
Il cristiano è perciò contemporaneamente uno che cerca e uno che trova. È proprio questo che rende la Chiesa giovane, aperta al futuro, ricca di speranza per
l’intera umanità. Sant’Agostino, del quale oggi facciamo memoria, ha stupende
riflessioni sull’invito del Salmo 104 «Quaerite faciem eius semper – Cercate
sempre il suo volto». Egli fa notare che quell’invito non vale soltanto per questa
vita; vale anche per l’eternità.
La scoperta del «volto di Dio» non si esaurisce mai. Più entriamo nello
splendore dell’amore divino, più bello è andare avanti nella ricerca, così
che «amore crescente inquisitio crescat inventi – nella misura in cui cresce
l’amore, cresce la ricerca di Colui che è stato trovato» (Enarr. in Ps. 104,3:
CCL 40, 1537). È questa l’esperienza a cui anche noi aspiriamo dal profondo del cuore. Ce l’ottenga l’intercessione del grande Vescovo d’Ippona;
ce l’ottenga il materno aiuto di Maria, Stella dell’Evangelizzazione.32
Uno dei cammini spirituali senz’altro più laboriosi è quello della notte
oscura e deserto con dubbi esistenziali e di fede, con assenza e lontananza
(percepita) di Dio, con aridità umana e spirituale, con ”disperazione”. Tutto
questo ha lo scopo di fare convertire la persona, conducendola:
a) all’essenziale;
b) ad iniziare la semplificazione della vita che porta alla morte;
c) ad entrare nella dinamica morte/resurrezione;
d) a sperimentare l’essere creatura che vive solo nella relazione col Padre.33
Si riporta, a questo proposito, un passo del Card. Hume, monaco benedettino, quale sua testimonianza aperta.
La mia vita spirituale è un vagare al buio, nell’oscurità più che un riposare e un
rilassarmi nel paese delle meraviglie.
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Benedetto XVI, Angelus del 28 agosto 2005.
Cfr. Edith Stein, Scientia Crucis, Edizioni OCD, Roma.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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Molto spesso persone che vivono una buona vita, mettendocela tutta per pregare
bene e servire Dio, possono attraversare e di fatto attraversano periodi molto
bui. Si sentono perduti. La nebbia attorno a loro sembra diventare sempre più
spessa. Non riescono a vedere più nulla chiaramente. Sono in uno stato di agitazione o completamente vuoti. Non hanno più pace interiore. Hanno bisogno
che qualcuno venga a dare loro una mano. La luce si è spenta nella loro mente.
Non sentono più nessun calore nel loro cuore. Forse passano velocemente da un
libro spirituale ad un altro senza trovare la soluzione, oppure sono alla ricerca di
un direttore spirituale, ma invano.
Ma si può reagire anche in altro modo: una pecora che si è allontanata dal resto
del gregge finisce impigliata nei rovi. E più lotta per liberarsi, più rimane prigioniera.
Durante questa lotta un gran nebbione cala nella zona e nasconde agli occhi
della pecora il terreno circostante. È sola, persa e infelice. Ha esaurito le sue
forze tentando di liberarsi. Poi, in mezzo alla nebbia, sente la voce del pastore.
Non lo vede, ma sa che sta venendo a cercarla. Il pastore si avvicina, districa la
pecora dai rovi e così la libera. In verità c’è di più: il pastore riporta sulle sue
spalle la pecora là dove non c’è né nebbia né freddo, ma solo luce e calore.
Molti di noi, convinti di fare del proprio meglio per pregare e rispondere alla volontà di Dio, vengono a trovarsi nelle situazioni del genere. Succedono, io credo,
affinché riconosciamo di avere bisogno dell’aiuto di qualcuno.
Dobbiamo imparare la pazienza. Dobbiamo aspettare. Forse dobbiamo attendere molto tempo impigliati nei nostri problemi, incapaci di vedere dove dobbiamo andare.
Quando Nostro Signore si definì Buon Pastore e poi ci raccontò la storia della
pecora smarrita, abbiamo imparato qualcosa che non è solo molto utile, ma
anche profondamente importante.
Spesso mi sento come questa pecora smarrita in mezzo alla nebbia, ma sono
contento di restarvi aspettando che il Buon Pastore venga a trovarmi. Egli è
contento che io sia paziente e confidi nella sua venuta.
Potrei leggere molti libri cercando una via di uscita ai miei problemi, potrei
cercare sagge ed esperte guide spirituali e non trovare soluzioni. È anche vero
che Dio potrebbe parlarci attraverso un libro o una persona. Ma talvolta Dio ci
fa aspettare, soli e confusi.
È un processo purificatore che ci porta ad abbandonarci nelle mani di Dio.
«Nelle Tue mani Signore, raccomando il mio spirito». Queste parole sono come
dei suoni amici quando siamo disperatamente tristi. «Signore, ti supplico, continua a cercarmi! Ho bisogno che Tu mi trovi».34
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Card. B. Hume, Un Cardinale che cammina al buio, Cittadella Editrice, p. 98.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Questo concetto viene ampiamente espresso dal S. Padre Benedetto
XVI:35
(39) Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente
nella virtù della pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all’apparente insuccesso, ed in quella dell’umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida
di Lui anche nell’oscurità. La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per
noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore!
In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura
speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità
Egli vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine l’Apocalisse
mostra in modo radioso. La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è
la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci
dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di
praticarlo perché creati ad immagine di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far
entrare la luce di Dio nel mondo.
6. Il rapporto con il limite, personale e culturale
Certamente padre Matteo Ricci ha colto tanti limiti nella sua quotidianità
e nella società in cui era immerso.
Stare con il limite richiama il proprio essere creatura e specialmente fa
ancora più aggrappare alla forza positiva del Creatore.
Comunque, qui a Goa, cambiato il monarca non cambiano certo i problemi e gli scandali, dato che i colonizzatori portoghesi possono pur appellare pomposamente Goa la loro “Roma d’Oriente”, ma reputo che più
si addicerebbe denominarla la “Sodoma e Gomorra” di tutto l’emisfero di
Levante.
Absit injuria verbis, ma con quali altri vocaboli potrebbe definirsi una
metropoli civilizzata, nella quale assistiamo notte giorno a nefandezze indegne di esseri umani che solo si comportino secondo natura!?! A tal proposito, sto leggendo in questi giorni le lettere del n. pioniere Francesco Xaver,
perciò mi limito a trascriverVi quei suoi convincimenti datati trant’anni or
sono, che comunque nel corso degli anni si sono evidentemente modificati
in peggio. Vi leggo:
35 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, Libreria Editrice Vaticana, 2005,
n. 39.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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I colonizzatori europei viventi qui a Goa non si fanno scrupoli nell’acquistare al mercato in piazza degli schiavi giovanissimi: ragazzi e ragazze in
pubertà che poi si allevano in casa costringendoli a nefandezze abominevoli,
e se quei poveretti non si assoggettano ai loro capricci sessuali, li minacciano
di mutilarli e denunciarli falsamente al tribunale dell’inquisitore Bartolomeo
de Fonseca, del quale alcuni testimoni ancora viventi, mi dicono che, a consuntivo del secondo anno 1573 di sua presenza qui a Goa, gongolasse per
aver fatto scavare fosse cimiteriali che poi avrebbe riempito gettandovi le
ossa di apostati ed eretici prima torturati e poi arsi vivi. 36
E poiché è carattere comune della natura umana preferire nella stima
e nell’amore le proprie usanze, e in modo particolare le proprie tradizioni
nazionali, a quelle altrui, non c’è nulla che generi maggiormente l’odio o il
risentimento che il far mutare le consuetudini patrie, soprattutto quelle a cui
si è abituati da tempo immemorabile, e particolarmente se al loro posto uno
voglia sostituire, importandole, le tradizioni del suo Paese. Non fate dunque
mai paragoni tra gli usi locali e gli usi europei; cercate piuttosto con tutto il
vostro impegno di abituarvi ad essi.
Ammirate e lodate tutto ciò che merita lode; se qualcosa non lo merita,
non dovrete certo esaltarla clamorosamente come fanno gli adulatori, ma
avrete la prudenza di non giudicarla o almeno di non condannarla sconsideratamente e senza motivo.
Quanto ai costumi che sono manifestamente cattivi, sarà bene rimuoverli
con l’atteggiamento e col silenzio più che con le parole, cogliendo beninteso
l’occasione di sradicarli pian piano e quasi insensibilmente, una volta che gli
animi siano disposti ad abbracciare la verità.37
Sento profondo rammarico per questi errori e limiti del passato, e mi dispiace
che essi abbiano ingenerato in non pochi l’impressione di una mancanza di rispetto e di stima della Chiesa cattolica per il popolo cinese, inducendoli a pensare che essa fosse mossa da sentimenti di ostilità nei confronti della Cina. Per
25 luglio 1580. Matteo Ricci, nel Collegio di Cochin a sud di Goa, guarisce dalla malaria e viene consacrato Sacerdote dall’Arcivescovo portoghese; studia molto la teologia dogmatica e sacramentaria, insegna pure latino e greco ai collegiali figli dei colonizzatori europei.
Lettera di Matteo Ricci al Gesuita suo ex professore Giampietro Maffei, pubblicista e docente
all’Università di Coimbra, in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 101-102.
37 Articolo di P. A. Nicolás sj, Matteo Ricci: l’amicizia come stile missionario, cfr. Istruzione per i Vicari Apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina (1659), da M. Marcocchi, Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. L’istruzione di Propaganda Fide ai
Vicari Apostolici dell’Asia Orientale (1659), Jaca Book, Milano 1981, nella rivista «Aggiornamenti Sociali», marzo 2010, p. 174.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
tutto questo chiedo perdono e comprensione a quanti si siano sentiti, in qualche
modo, feriti da tali forme di azione dei cristiani.38
I percorsi indicati da padre Matteo Ricci sembrano aiutare a sviluppare
in sé la capacità di guardare se stessi e l’altro con sguardo buono e specialmente con sguardo di perdono.
La capacità di avere uno sguardo buono porta a una pedagogia del positivo, come continua ricerca di un pensiero costruttivo, nell’azione, nei rapporti di gruppo, interpersonali e sociali.
Anselm Grun, Monaco Benedettino, che nei suoi libri tenta una valida
sintesi tra l’approccio spirituale e quello umano, parla di “ferite” che ci procuriamo nel cammino in mezzo agli altri. La vita ci procurerà sempre delle
ferite, che lo vogliamo o no. La sofferenza è parte essenziale della nostra vita.
Il problema è quale rapporto abbiamo con la sofferenza che ci colpisce
dall’esterno, se la rendiamo più acuta facendoci del male o se invece fasciamo accuratamente le ferite che la vita ci apporta e siamo pronti a guarire
quelle degli altri.
La tesi di san Giovanni Crisostomo è che nessuno ci può ferire profondamente se non ci facciamo del male da soli. Non dice che la vita non ci
ferisce. Dice piuttosto che le ferite non possono recarci danno, se noi non ci
facciamo del male da soli. Tutto dipende dal rapporto che noi abbiamo con
le ferite che riceviamo.
Se ci facciamo delle opinioni sbagliate sulle ferite, ci facciamo del male da
soli. Queste idee che ci danneggiano possono essere per esempio: «Le ferite
non dovrebbero proprio esistere». «E se proprio veniamo feriti, queste dovrebbero guarire al più presto così che noi non le avvertiamo più». «Le ferite
mi sono di ostacolo nella vita». «Fin tanto che sono ferito, posso occuparmi
solo di me stesso».
Giovanni Crisostomo non vuole minimizzare la sofferenza che può colpirci nella vita. Egli vuole soltanto invitarci ad avere un rapporto costruttivo
con la sofferenza, a trasformare le nostre ferite in fonti di speranza.
Noi abbiamo un rapporto creativo con le nostre ferite quando ci riconciliamo con esse, quando mettiamo in conto che ci accompagneranno per
tutta la vita. Se accettiamo le nostre ferite, esse non ci paralizzeranno più.
Non ci lamenteremo di essere feriti né di vedere l’altro ferito. Piuttosto la
ferita non ci impedirà di alzarci se qualcuno ci chiama, se qualcuno ha bi-
38 Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la 75a Giornata Missionaria Mondiale:
Misericordias Domini in aeternum cantabo, 24 ottobre 2001 (Sal 89 [88], «Con intima gioia
abbiamo celebrato il Grande Giubileo della salvezza, tempo di grazia per tutta la Chiesa», in
A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.
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sogno del nostro aiuto. La ferita ci renderà più sensibili verso le persone che
ci stanno attorno.
Se noi trattiamo le nostre ferite con sollecitudine e cautela, saremo anche
capaci di fasciare e guarire le ferite del nostro prossimo. Non piangeremo
uno sulla spalla dell’altro per quanto è brutta la vita.
Il Card. Martini ci dice:
Ho l’impressione che talora noi ci priviamo della forza che ci deriva dall’entrare nelle sofferenze di Cristo proprio perché di fronte ad esse tratteniamo il
fiato, chiudiamo gli occhi, andiamo avanti lo stesso, senza guardarle in faccia in
particolare nella preghiera, nel colloquio con Cristo. Così facendo non le interiorizziamo, e le prove, come le ferite, rimangono corpi estranei, non vengono
integrate nel nostro cammino e non possono perciò essere trasformate in consolazione.39
Ecco quindi come la gradualità porti ciascuno ad accettare le proprie
tribolazioni e le proprie spine, andando verso modalità proprie di superare
le sofferenze.
Da persone ferite saremo invece capaci di alzarci se c’è bisogno di noi. Ci
alzeremo per la vita e per gli altri. Saremo nel nostro cuore medici e curatori
d’anime, pure feriti, e smetteremo di farci del male e troveremo nella fede
una strada per rendere feconde le nostre ferite. Continueremo a portarle con
noi, ma come un tesoro prezioso che ci pone in contatto con il nostro vero
essere, con la nostra natura divina.40
7. Pedagogia del controllo degli impulsi, verso una testimonianza
credibile
Forse inconsapevolmente, padre Matteo Ricci ha molto sviluppato, sia
nella sua vita quotidiana che nelle sue espressioni teoriche, il valore della
ragione, che conduce le persone ad essere consapevoli di sé e della propria
istintualità non razionale.
Per realizzare questa linea, egli parla di «autocontrollo» e indica alcuni
percorsi.
Il letterato occidentale dice: «Quando giunsi in Cina, udii qualcuno affermare
che l’anima umana cessa di esistere esattamente come quella degli uccelli e degli
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C.M. Martini, Paolo nel vivo del ministero, Ancora, Milano 1990, p. 18.
Cfr. A. Grün, Non farti del male, Queriniana.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
animali. Tutte le religioni più note nei vari paesi del mondo sono a conoscenza
del fatto che l’anima umana è immortale e che differisce da quella degli uccelli e
degli animali. Le chiedo, signore, di ascoltarmi con umiltà mentre spiego questa
dottrina».41
In questo modo esistono tre tipi di anime. Quella inferiore è chiamata il principio vitale – l’anima vegetativa. Questo tipo di anima sostiene la vegetazione
nella sua crescita, e quando la vegetazione si secca, anche l’anima viene distrutta.
La seconda classe di anime è definita sensitiva. È posseduta dagli uccelli e dagli
animali. Permette agli uccelli e agli animali di nascere, di crescere ed evolversi, e
determina il fatto che le loro orecchie e i loro occhi siano in grado di sentire e vedere, che le loro bocche e i loro nasi sappiano gustare e odorare, e che i loro arti
e corpi siano coscienti delle cose, sebbene non siano in grado di inferire la verità.
Quando queste creature muoiono, anche la loro anima si distrugge. La suprema
tra le anime è detta intellettiva, Questa è l’anima dell’uomo, che include l’anima
vegetativa e sensitiva. Consente alle persone di giungere a maturità; determina il
fatto che le persone siano coscienti di ciò che le circonda, e permette all’uomo di
fare inferenze sulla natura delle cose e di distinguere tra un principio e un altro.42
Il letterato occidentale afferma: «Le attività dell’anima intellettiva non dipendono dal corpo. Ciò che è dipende dal corpo è controllato da esso e non può
scegliere tra bene e male. Quando un uccello, o un animale, vede qualcosa di
commestibile, va avanti e lo mangia, essendo incapace di auto controllarsi. Come
potrebbero simili creature iniziare a distinguere il giusto dall’ingiusto? Se ad
un uomo, al contrario, si dice che sarebbe sbagliato per lui cibarsi di una data
cosa, egli sceglierà di non mangiarla. Il cibo posto di fronte a lui potrebbe essere
delizioso, ma lui, di nuovo, rifiuterebbe di assaggiarlo. Una persona che viaggia
all’estero, ma che si strugge dal desiderio di casa e pensa costantemente a ritornare in patria, può essere un altro esempio. Ora, come si può sostenere che le
funzioni di un’anima intellettiva dipendano dal corpo?».43
Il letterato cinese afferma: «Non c’è dubbio che lo spirito sia incapace di ospitare elementi configgenti che lo possano distruggere dall’intero; ciononostante,
come possiamo sapere che l’anima umana sia uno spirito e che l’anima degli
uccelli e degli animali no?».44
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M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, n. 132, cit., p. 130.
Ibid., n. 133, pp. 130-131.
Ibid., n. 137, p. 132.
Ibid., n. 139, p. 133.
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Il letterato occidentale afferma: «Ce ne sono ampie prove. Numerose ragioni
possono essere addotte a dimostrazione della verità di ciò; ragioni che, una volta
comprese, dissiperanno ogni dubbio.
In primis, le anime corporee non possono essere padrone dei propri corpi, ma
solo loro servitori, fino a morire con essi. Così, gli uccelli e gli animali seguono
sempre i propri desideri e vanno dovunque le loro sensazioni li conducano, incapaci di esercitare alcun autocontrollo.
Solo l’anima dell’uomo è in grado di essere padrona del proprio corpo, determinandone l’agire o il fermarsi, in accordo con le proprie intenzioni. Così,
quando decide per una determinata dirittura di azione, il corpo immediatamente
risponde con forza. Gli uomini possono avere desideri individuali, ma è impossibile per loro sfidare gli ordini della ragione universale. Così l’anima umana
veramente mantiene l’autorità sopra tutto il corpo, perviene allo spirito, ed è
decisamente distinta dall’anima degli animali.
In secondo luogo, una creatura vivente ha solo una mente, ma l’uomo ne ha due
allo stesso tempo. Una mente animale e una umana. Così, possiede anche due
nature: una natura confacente al corpo e una natura spirituale. Le emozioni contrastanti devono derivare dalle due nature che si contrappongono.
Quando un uomo si confronta con qualcosa, può reagire in due maniere apparentemente opposte allo stesso momento. Un uomo traviato dal vino e dalle
donne sarà inebetito e desideroso di continuare in ciò, ma, nel contempo, sarà
conscio dell’assenza di principi nella natura delle sue azioni. Il seguitare significa
essere “guidato dalla mente animale”, e, in ciò, l’uomo non è differente dagli uccelli e dagli animali. Il seguire la razionalità significa essere “giudicati dalla mente
umana”, e, in ciò, l’uomo è simile agli angeli. Ogni volta che l’uomo si dedica
con unicità d’intenti ad una cosa, due disposizioni incompatibili non possono
esistere insieme. È come gli occhi, che non possono vedere e non vedere allo
stesso tempo, e le orecchie, che non possono udire e non udire un determinato
suono al contempo. Così due opposte sensazioni devono derivare da un conflitto
di menti, e due menti in contrasto devono derivare da due nature configgenti.
Se assaggiamo l’acqua di due fiumi e avvertiamo che l’una è salata e l’altra senza
sapore, abbiamo prove sufficienti per asserire che non derivino dalla stessa sorgente, anche se non abbiamo mai visto il luogo da cui si sono originate.45
Ma la condotta dell’uomo è abbastanza differente. Le sue azioni sono esterne,
ma la mente razionale è dentro di lui. Non solo l’uomo è consapevole del fatto
che le sue azioni siano giuste o sbagliate, corrette o meno, ma è anche in grado di
permettere loro di giungere alla rivolta o di arrestarsi. Sebbene possieda desideri
propri alla mente degli animali, se può usare la sua facoltà razionale per esercitare un controllo su di essi, la sua mente animale non sarà in grado di disobbedire ai comandi del padrone della sua mente.
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Ibid., nn. 140-141-142, pp. 133-134.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Conseguentemente, se decido di seguire ciò che è giusto e razionale, sono un
uomo superiore nella mia condotta morale e otterrò la protezione ed il sostengo
del Signore del Cielo. Se, invece, sono dissoluto, e decido di obbedire alla mia
mente animale, sono un uomo inferiore che trasgredisce la legge e sarò abbandonato dal Signore del Cielo».46
Sembra chiaro, nelle parole di padre Matteo Ricci, che occorre un percorso: il controllo e l’elaborazione dei propri impulsi (= il cammino dalla
mente animale alla razionalità, con il sostegno del Signore del Cielo).
Tale percorso può svolgersi secondo questi passaggi che riguardano il
nostro rapporto con le emozioni.
Riuscire a vivere in maniera matura le proprie emozioni significa imparare a dare loro un nome e a esprimerle, ma con il giusto controllo.
Questo comporta la capacità di postporre il raggiungimento di ciò verso
cui l’emozione tenderebbe immediatamente a portarci. Per questo è necessario imparare a vivere l’attesa, che diventa un tempo importante. Durante
l’attesa, infatti, si ha anche la possibilità di integrare l’emozione, che è un
aspetto parziale della nostra umanità, con altre componenti, soprattutto con
la ragione.
Diventa importante, allora, per favorire la conoscenza di sé e la consapevolezza delle proprie emozioni, riuscire a parlarne con qualcuno di cui ci si
fida e dal quale non ci si senta giudicati; riuscendo a esprimere realmente se
stessi in piena libertà.
Questa è l’occasione per interrogarsi sul perché di ciò che proviamo e chiederci se è bene esprimerlo e in che modo. Per esempio, il saper rimandare
l’esplosione immediata della nostra rabbia, può essere l’occasione per capire
veramente che cosa ci ha dato fastidio, per vederne l’origine e per capire se
è veramente il caso di rispondere aggressivamente, oppure se ci sono dei
modi più adeguati e soprattutto più efficaci per far comprendere all’altro le
proprie ragioni.
Allora è importante riconoscere che la rinuncia alla gratificazione immediata di una propria emozione non è solo una nostra privazione, ma che il
controllo delle nostre emozioni aiuta anche noi stessi, perché porta al bene
complessivo della persona.
Emozioni e ragione non sono quindi tra di loro necessariamente conflittuali, ma possono arrivare a integrarsi in modo tale da riuscire a gestire con
equilibrio il rapporto con se stessi e con gli altri.
Tutti i sentimenti sia positivi che negativi, verso se stessi e verso gli altri,
come la simpatia, l’antipatia, il lasciarsi andare, il desiderio di affetto, la
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Ibid., n. 333, p. 218.
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paura, la tristezza, la rabbia, l’insicurezza, ecc., devono trovare una via di
espressione che sia in armonia con i valori evangelici.
In questa prospettiva si propone uno schema per il controllo e l’espressione dei sentimenti e delle emozioni, che comporta 4 passi.
1) Anzitutto occorre riconoscere le proprie emozioni, esserne consapevole, esaminare con onestà le proprie reazioni emotive, mettendo il nome
giusto sull’emozione provata (es. simpatia, antipatia, rabbia, ecc.).
2) Occorre poi accettare le proprie emozioni e non negarle. Ad esempio
può essere difficile ammettere di avere paura, di sentirsi insicuri anche nell’attività apostolica, o di provare rabbia. Ci sembra di perdere la faccia o la stima
di noi stessi. Ma se accettiamo onestamente anche queste emozioni, saremo
più capaci di trattarle nel modo opportuno. In se stessa un’emozione non è né
buona né cattiva; ciò che può essere buona o cattiva è l’azione che ne deriva.
3) Il terzo passo è riflettere sulle proprie emozioni, chiedendosi: “Come
mai ho sentito così?”.
I motivi possono essere trovati a due livelli. Uno che fa riferimento alle
situazioni esterne; l’altro che è invece in rapporto con la nostra personalità
più profonda.
Evagrio il Pontico descrive bene questa tappa (riferita qui alle tentazioni):
Ma poiché nel momento della tentazione la mente è offuscata e non può vedere
con precisione ciò che accade, dopo che il demonio si è allontanato, siediti da
solo e ricorda le cose che ti sono capitate, da dove ha cominciato e dove è andato
a finire e in quale luogo tu sia stato portato dallo spirito dell’ira o della fornicazione o della tristezza e come tutto è successo; impara con saggezza tutto quanto
e affidalo alla memoria, in modo da poterlo confutare quando si presenta; segnati anche il luogo dove lui si nasconde per non seguirlo più. Se vuoi farlo
infuriare, confutalo subito, appena si presenta e mostragli il primo luogo in cui è
andato e poi il secondo e il terzo: andrà su tutte le furie, perché non sopporta la
vergogna… Alla vittoria sul demonio errabondo segue una profonda sonnolenza
e un’apatia accompagnata da grande pesantezza delle palpebre, innumerevoli
sbadigli e le spalle appesantite e intorpidite, ma queste cose saranno dissipate
dallo Spirito Santo, con intensa preghiera.47
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Evagrio, Diversi Pensieri, 9.
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4) L’ultimo passo è che bisogna decidere come esprimere l’emozione. Ci
sono tre possibilità:
– non esprimerla, tenerla dentro;
– l’espressione senza controllo = colpi di testa, esplosioni;
– l’espressione con controllo, ponendo l’emozione sotto il controllo della
ragione e dei valori evangelici. Questa è la forma ideale per esprimere le
emozioni.
Può essere utile applicare questi quattro passi durante i momenti di riflessione personale.
8. Il mondo dei desideri
I desideri di cui il Signore del Cielo ha dotato l’uomo sono, in effetti, volti
ad una vita incommensurabile e ad una gioia illimitata.
Come, dunque, possono le piccole gioie della sua vita soddisfare sempre
la mente dell’uomo? Una zanzara non potrà mai essere un pasto adeguato
per un drago, o un elefante; un piccolo granello di cibo non può riempire
un granaio.
Un saggio occidentale48 dei tempi antichi comprese questa verità e,
quindi, guardando verso il Cielo sospirò e disse: «Signore supremo e Padre
di tutti gli uomini, tu hai creato noi uomini per te stesso, e solo tu puoi soddisfare le nostre menti. Quando l’uomo non si rivolge a te, la sua mente non
può trovare pace ed essere soddisfatta».49
Con la citazione di sant’Agostino, padre Matteo Ricci sembra volere indicare una linea pedagogica che conduce a educare anche il proprio mondo
dei desideri.
Un modo che la persona ha per crescere è quello di esplorare il proprio
mondo dei desideri.
Si intende per desiderio la capacità di concentrare – canalizzare le proprie energie verso qualcosa di importante in sé e centrale per la propria vita.
Il mondo immaginativo, il mondo dei desideri cresce via via che la persona è convinta di essere una realtà interiore dotata di un significato profondo che trascende la propria vita personale.50
Cfr. Agostino, Le Confessioni.
M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., n. 159, pp.
140-141.
50 Cfr. J. Hillman, Fuochi blu, in Sulla pratica immaginale, cap. III, p. 107.
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Nell’universo dell’uomo esiste la dinamica del desiderio che implica e
anima gli atti della persona quali il conoscere, il volere, l’amare.
L’atto del desiderare anima il processo volitivo e deliberativo della persona e denota una sana strutturazione psichica.
Vi è un desiderio più superficiale, che potremmo chiamare:
DESIDERIO-VOGLIA può essere “buono” o “cattivo”
Che nasconde, a volte “traveste”
DESIDERIO-PROFONDO
che è SEMPRE buono perché
viene da Dio-Creatore buono
Questo desiderio profondo che potremmo definire, sinteticamente
DESIDERIO DI VALERE
DESIDERIO DI AMORE
È il luogo dell’INCONTRO CON DIO
Dio risponde al desiderio profondo:
Tu sei prezioso ai miei occhi,
sei degno di stima…
e io ti amo (Is 43)
La persona sperimentando il fascino della realtà è attratta da essa e mediante il desiderio è portata a conseguirla; il desiderio in questo caso funge
da motivo trainante.
Nell’atto del desiderare avviene un coinvolgimento di tutto il soggetto;
ciò comprende la possibilità di mettere in gioco le sue diverse facoltà ed
energie.
Desiderare è fondamentale per capire il processo delle motivazioni che
stanno all’inizio delle azioni dell’uomo e ne accompagnano il compimento.
Vi è uno spessore diverso del desiderio:
– il desiderio che tende al possesso e alla fruizione di un bene consiste nel
cercare di possedere un bene materiale che serve a soddisfare il bisogno
della persona;
– il desiderio che è diretto alla ricerca di un bene astratto tende a ricercare
un bene ideale che non è ancora del tutto realizzato;
– il desiderio verso qualcosa di già accaduto comporta la capacità di ricercare un bene che si vede già realizzato in sé o in altri.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
La persona nel suo desiderare ha una gerarchia secondo cui qualcosa è
importante per lei.
C’è anche da notare che le azioni dell’uomo possono essere motivate
oltre che da risposte intenzionali, anche da cause biologiche e fisiologiche
non intenzionali quali possono essere uno stato di stanchezza, di agitazione
o quant’altro.
Rivedendo la propria vita, è importante che la persona possa percepire
se sta andando verso una possibile caduta del mondo dei desideri. Cioè si
riduce la capacità di concentrare – canalizzare le proprie energie verso qualcosa di importante in sé e centrale per la propria vita (= desiderio). Ciò può
accadere specialmente nell’età intermedia.
Tale caduta del mondo dei desideri si può manifestare nei seguenti
modi:
– paura della trascendenza che si avvicina (la trascendenza che si avvicina
può essere un Dio a cui la persona va “senza entusiasmi”);
– tensione al ripiegamento su di sé (es. isolarsi; masturbarsi; ecc.);
– si possono restringere gli obiettivi della propria vita (c’è meno tensione
verso il futuro, che è incerto, e più conservazione dell’esistente);
– si può ridurre la capacità di rinuncia, essendo già molte le rinunce a cui,
per esempio per riduzione dell’attività fisica, si è esposti. Inoltre non si riesce
a rinunciare a pretendere ciò che si desidera, lo si vuole subito, e ciò viene
percepito come una pretesa;
– rischio di accontentarsi di obiettivi di poco conto (es. un’amicizia finalizzata solo al riempire la solitudine) e al di sotto della propria capacità di
guardare in alto;
– i desideri rispondono al bisogno di autoconservazione e di omeostasi (=
conservare l’esistente, senza introdurre novità);
– se si indebolisce il desiderio, si indebolisce il pensiero e diventa concentrato su di sé (es. il ripiegamento su relazioni note) con paura del mondo,
della società, del futuro (es. paura della malattia);
– la capacità progettuale diventa mirata all’autopreservarsi da nuove fatiche. Ci si concentra per salvare l’esistente.
Padre Matteo Ricci mette poi a fuoco alcuni aspetti, nell’ambito del
mondo dei desideri, che rendono “egoistici” ed autocentranti i nostri desideri. Egli esprime ciò con esempi della sua cultura e presentando la modalità
del digiuno.
Ecco di seguito le sue indicazioni.
Un tempo, qualcuno portò, come tributo ad uno dei nostri paesi in Occidente,
due cani da caccia, entrambi con un ottimo pedigree. Il re ne diede uno alla
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famiglia di un nobile ministro e l’altro lo affidò alla cure di una famiglia di contadini fuori città.
Quando i due cani giunsero alla maturità, il re uscì a cavallo a cacciare e liberò i
due cani nel campo, per saggiarne il valore.
Il cane allevato nella famiglia di contadini era magro e asciutto, e ogni volta che
sentiva l’odore di un animale lo inseguiva, catturando innumerevoli prede.
Sebbene il cane di caccia, allevato nella famiglia nobile, fosse grasso e pulito
e straordinariamente bello a vedersi, era abituato a mangiare carne a sazietà e
a vivere negli agi. Era incapace di correre velocemente, cosicché quando vedeva la preda, la ignorava. Avendo notato un osso marcio al lato della strada,
andò a sgranocchiarlo, e non appena ebbe finito, si rifiutò di muoversi. Coloro
che prendevano parte alla caccia sapevano che i due cani erano nati della stessa
madre, e se ne meravigliavano.51
Il re disse: «Non c’è nulla di cui sorprendersi. Non solo gli animali sono così, ma
anche gli uomini. Dipende tutto da come sono allevati. Se sono educati in modo
da indulgere ai piaceri ed essere troppo ben nutriti, non sono in grado di progredire nella bontà. Se, d’altro canto, sono educati in modo tale da essere abituati
al lavoro e alla frugalità, sicuramente non falliranno nell’essere all’altezza delle
tue aspettative su di loro». Così, si può dire, qualunque uomo che sia cresciuto
abituato alle ghiottonerie e ad abbondanti quantità di cibo avrà poco tempo
per il decoro e la rettitudine e sarà preoccupato solo di dedicarsi al mangiare e
al bere. Una persona che sia abituata a perseguire profondamente il decoro e la
rettitudine, d’altro canto, non indulgerà al cibo, al bere e ai piaceri quando ci si
imbatterà, ma rifletterà su come perseguire la verità e la rettitudine. Questa è una
vera ragione per digiunare.52
Sono passato attraverso un gran numero di paesi al mondo e so che ci sono tipi
differenti e vari di digiuno.
Ci sono alcuni che, senza badare ai diversi tipi di cibo disponibili, non mangiano
nulla durante il giorno, e mangiano qualsiasi cosa vogliono quando giunge la
notte. Questo è chiamato digiuno per un periodo.
Quindi ci sono quelli che non pongono limiti di tempo al mangiare, ma si attengono ad una dieta vegetariana, con la quale si nutrono quando vogliono. Questo
si definisce digiuno basato su tipi di cibo.
Altri non si preoccupano dei tipi di cibo o di quando mangiare, ma si limitano
ad un pasto al giorno. Questo è chiamato digiuno di un pasto.
Altri ancora controllano il numero dei pasti che fanno, il tempo in cui mangiano
e il tipo di cibo, mangiando solo a mezzogiorno e rifiutando di mangiare la carne
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M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., n. 314, p. 208.
Ibid., n. 315, pp. 208-209.
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di animali a sangue caldo, sebbene si autorizzino a mangiare frutti di mare e cose
del genere. Questo è detto digiuno pubblico.
Alcuni proibiscono di mangiare cibo cucinato e trascorrono la loro vita come
eremiti in caverne nella profondità delle montagne, facendo affidamento solo su
erba e radici per rimanere in vita. Al giorno d’oggi, in Europa, ci sono molti di
questi reclusi in montagna. Questo genere di digiuno è definitivo privato.53
Ma lo scopo complessivo di tutti questi diversi tipi di digiuno è la mortificazione
di se stessi. Il tipo di digiuno scelto è determinato dal tipo di persona e al tipo di
corpo da mortificare. I ricchi e i nobili mangiano costantemente buon cibo. Se il
quantitativo di ciò che mangiano e bevono ogni giorno è ridotto, anche questo
può essere definitivo digiuno. Sebbene le persone comuni siano abituate a mangiare cibo misero e di scarsa qualità, non si può per questo dire che digiuno tutto
il tempo. Se ciò potesse essere definitivo digiuno, allora i mendicanti potrebbero
essere considerati in digiuno perenne. Inoltre, bisogna considerare la salute e
la forza di un corpo. Chi è malato e ha un corpo debole deve nutrirsi costantemente per rafforzarsi. Chi lavora e fatica duramente spende la sua energia fisica
e non può sostenere un lungo periodo di astinenza dal cibo. Quindi, la legge
della religione universale del Signore del Cielo dice che le persone al di sopra dei
sessant’anni, e i giovani sotto i venti, malati, le madri che allattano i loro piccoli,
e il lavoratori devono essere posti al di fuori delle regole del digiuno.54
Il fatto è che le regole che proibiscono di mangiare e bere contano molto poco e
sono dettagli ininfluenti del digiuno. Se ci si interroga sul significato del digiuno,
si trova che esso è connesso con la repressione dei desideri egoistici dell’uomo;
quindi bisogna lottare per questo con completa onestà e con tutte le proprie
forze. Digiunare, ma nel contempo abbandonare i precetti che regolano la pratica della venerazione, è come prediligere una pietra grezza a un bel pezzo di
giada, un atto di ignoranza.55
Il letterato cinese dice: «Lei ha spiegato molto bene il vero significato del digiuno. Quando comunemente parliamo di un uomo che digiuna, vogliamo indicare sia un uomo che digiuna a causa della povertà e che usa questo metodo per
sopravvivere, sia chi usa il digiuno per ottenere una buona reputazione per se
stesso, ingannando segretamente le persone. Un tale individuo digiuna in pubblico, ma, quando è da solo, indulge nel bere, nelle donne e nell’ira profonda;
acquisisce ricchezze, andando contro l’etica, e denigra i saggi e i buoni. Ahimè!
Se non riesce a sfuggire agli occhi degli uomini, come può sperare di ingannare
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Ibid., n. 316, p. 209.
Ibid., n. 317, pp. 209-210.
Ibid., n. 318, p. 210.
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il Sovrano dall’Alto? È una fortuna che io sia stato in grado di ascoltare il suo
eccelso insegnamento. Mi piacerebbe continuare ad apprendere da lei».56
9. Il buon esempio, quale base della testimonianza
Si può sottolineare qui la linea pedagogica della trasmissione del “buon
esempio”.
Quello che hora speriamo è di alcun modo avere entrata al re e, avendo la sua
gratia, avere anco libera licentia di predicare, la quale, se si avesse, vi prometto
che in breve milioni di anime si convertirebbono, per quel che veggo quando
disputo con essi loro delle cose delle leggi, e li confuto le sue sette, e confirmo la
nostra legge, che molti ho visto piangere di allegrezza e darmi molte gratie per
insegnarli sì alta verità.
Ma per adesso non vogliamo forzarli a far cristiani e ci contentiamo porre i fondamenti per un’opera grande, quando Sua Divina Maestà ci apra il cammino. In
questa città sono molti predicatori della sua legge, ma per quanto loro non predicano l’altra vita, gli animi della maggior parte del popolo non stan contenti, se
bene dicono molte cose buone. Questi quasi tutti sono miei amici, e dicono che
la nostra legge è buona, e cominciorno ad amarmi per assai piccolo principio.
Chè, stando io un puoco fiacco per le molte visite, che dalla mattina alla sera mi
venivano, mi volse uno di loro persuadere che dicessi ai servitori che mi scusassero, con dire che non stavo in casa. E dicendo che noi altri né per tutto il mondo
diciamo una bugia, ristorno e meravigliati et edificati; et adesso si è sparsa una
fama nella città che non diciam bugia, che par un miracolo in questa gentilità,
come di risuscitar morti, e allegreime molto di questa fama, perché il fondamento della nostra fede è credere ai predicatori di essa, ai quali crederanno più
facilmente se si persuadono che non dicono bugia.57
La Parola di Dio non è un aerolito piombato dal cielo, uno scrigno di
teoremi teologici preconfezionati, una fredda pietra preziosa da custodire,
bensì un seme che è cresciuto nella terra della sarx, ossia della “carne”, della
storia e della cultura umana.58
Ibid., n. 319, p. 210.
M. Ricci, Lettera al P. Giulio Fuligatti da Nanchang, 12 ottobre 1596, in Lettere (15801609), Edizioni Quodlibet, Macerata 2001.
58 S. E. Mons. G. Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Matteo Ricci e
l’inculturazione, in Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci (1552-1610) fra Roma e Pechino,
a cura di A. Paolucci e G. Morello, Edizioni Umberto Allemandi, 2009, p. 27.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Giovanni Paolo II, il 13 settembre 1982, al IV anno del suo pontificato,
inviava al vescovo Mons. T. Carboni una lettera, in preparazione al Congresso di Studi Ricciani che si tenne poi in ottobre per commemorare il IV
Centenario dell’ingresso di padre Matteo Ricci in Cina.
In essa affermava: «Le intuizioni di padre Matteo Ricci59 non furono
sempre valutate, in seguito, nel loro giusto significato. Di esse dobbiamo
dire, con l’immagine del Vangelo, che sono state un seme soggetto sì alla
morte sotto terra, ma solo per svilupparsi in albero rigoglioso carico di
frutti».60
Dal messaggio apostolico, con intima gioia, leggiamo:61
A distanza di quattrocento anni dall’arrivo di Matteo Ricci a Pechino, non possiamo non domandarci qual è il messaggio che egli può offrire sia alla grande
Nazione cinese, sia alla Chiesa cattolica alla quale si sentì sempre profondamente
legato e dalle quali fu ed è sinceramente apprezzato ed amato. Sin dai primi
contatti con i cinesi, il Padre Ricci impostò tutta la sua metodologia scientifica
ed apostolica su due pilastri, ai quali rimase fedele fino alla morte, nonostante
molteplici difficoltà ed incomprensioni, interne ed esterne: primo, i neofiti cinesi, abbracciando il cristianesimo, in nessun modo avrebbero dovuto venire
meno alla lealtà verso il loro Paese; secondo, la rivelazione cristiana sul mistero
di Dio non distruggeva affatto, anzi valorizzava e completava quanto di bello e di
buono, di giusto e di santo, l’antica tradizione cinese aveva intuito e trasmesso.
Ed è su questa intuizione che padre Ricci, analogamente a quanto secoli prima
avevano fatto i Padri della Chiesa nello incontro tra il messaggio del Vangelo di
Gesù Cristo e la cultura greco-romana, impostò tutto il suo paziente e lungimirante lavoro di inculturazione della fede in Cina, cercando costantemente un
comune terreno d’intesa con i dotti di quel grande Paese.
Padre Matteo Ricci si fece talmente cinese coi cinesi da diventare un vero sinologo, nel più profondo significato culturale e spirituale del termine, poiché nella
sua persona seppe realizzare una straordinaria armonia interiore tra il sacerdote
e lo studioso, tra il cattolico e l’orientalista, tra l’italiano ed il cinese.62
«L’Osservatore Romano», 27 ottobre 1982.
Macerata, 5 gennaio 2001. S.E. il Vescovo Luigi Conti conclude le Celebrazioni del
Giubileo ed inaugura la Sede del Centro Missionario Diocesano “P. M. Ricci”, in A. Agnetti,
L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 184.
61 Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la 75a Giornata Missionaria Mondiale,
24 ottobre 2001: Misericordias Domini in aeternum cantabo (Sal 89 [88], «Con intima gioia
abbiamo celebrato il Grande Giubileo della salvezza, tempo di grazia per tutta la Chiesa», in
A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.
62 A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., p. 186.
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La coerenza nel seguire il messaggio evangelico porta padre Matteo Ricci
a testimoniare anzitutto con l’esempio della sua vita. Il primo esempio, oltre
quello citato, è stato proprio quello del “cambiare nome”, assumendo il
nome cinese di Li Mandou, con tutto ciò che comporta.
A questo proposito, ecco la parola a Valerio Albisetti,63 che in un suo
libro sviluppa positivamente il cammino del “cambiare nome”. Ciò, ovviamente in modo simbolico, pure nell’essenzialità del concetto.
Mi piacerebbe che si potesse, a un certo punto della propria esistenza, cambiare
nome. Come i monaci, come nelle antiche tribù. Mi piace pensare che il nome
corrisponde all’essenza della persona in quel periodo. Cambiare nome significa
allora assumere una nuova, più adeguata identità.
Per fare ciò occorre un mutamento interiore, un cambiamento profondo del
cuore, tenendo conto della propria unicità e irripetibilità, della propria originalità. Smascherare la parti false, ambigue, nevrotiche di noi. Riunire le parti
spezzate. Andare oltre le ferite ricevute. Uscire dagli schemi mentali creati per
difesa, per paura, per orgoglio. Allargare la mente. Pulire il cuore. Riprendere la
propria dignità di creature a immagine di Dio. Solo vivendo, affrontando con dignità ciò che ci capita, come viaggiatori, troveremo senso, godimento, pienezza.
Vivremo così la realtà come dono.
«Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse:
“Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia
alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto”. Subito Abram si
prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: “Eccomi. La mia alleanza è con
te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abràm ma
ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò”»
(Gn 17,1-5).
Dunque anche nella Bibbia spesso i personaggi cambiano nome. Addirittura per
volere di Dio. Siccome fin dall’antichità il nome corrisponde all’essenza della
persona che lo porta, cambiare nome significa prendere un nome più consono,
più adeguato alla nuova identità. Un nome che solo chi lo riceve conosce: «Chi
ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: al vincitore darò la manna
nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap 2,17).
Dunque il cambiamento di nome, il cambiamento di mentalità, di personalità,
è un percorso, un cammino, un processo lento e progressivo, graduale, che non
63 V. Albisetti, Una vita a tutto tondo. Come costruire il proprio percorso, Edizioni Pao-
line.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
consiste solo in atti formali, ma soprattutto in un cambiamento profondo, interiore.
Questo tipo di conversione non è una privazione o una fuga, un ritirarsi dal
mondo, ma, al contrario, un accogliere e offrire tutte le potenzialità di persona
rinnovata, divenuta più responsabile, più matura.
Il mondo, dunque, a questo punto, diviene fonte di significato e luogo teologico.
E questa esperienza di personalità matura e consapevole aumenta il grado di
conoscenza e di autocoscienza, al punto di vivere tutto come dono, come luogo
continuo di mistero, di miracolo.
10. Il silenzio nella malattia e nel martirio quotidiano
Sono note le condizioni molto disagiate e rischiose per la sopravvivenza
con cui si effettuavano i viaggi dall’Europa all’Asia e altri continenti.
Padre Matteo Ricci quasi tace sui suoi rischi di malattia e di morte. È una
realtà che egli vive nel silenzio, come forse la vivevano i cinesi di allora.
Confratelli miei,
finalmente siamo giunti qui a Goa tutti e quattordici sani e salvi, anche se abbiamo dovuto viaggiare divisi su tre galeoni diversi; ringraziamo Iddio ricordandoci che, dopo appena un mese di navigazione, abbiamo scampato quel pericolo
al largo delle Isole Canarie, dove sicuramente ricordate che incrociammo quei
due vascelli corsari battenti bandiera francese.
Di poi attraccammo ad un’isola prospiciente Capoverde per il rifornimento
d’acqua dolce, ma appena ritratte le ancore ed issate le vele sia quadre che latine
sui quattro alberi, fummo sbattuti dal vento sfavorevole verso la Magellanica
australe; solo dopo settimane i tre galeoni riguadagnarono la rotta verso l’Africa
meridionale, che doppiammo giù al Capo di Buona Speranza, anche se i nostri
galeoni vi arrivarono in giorni diversi senza più esserci rivisti all’orizzonte da
quel mese di luglio scorso.
Iniziammo l’estate in pieno Oceano Indiano, dopo aver navigato sottocosta al
Madagascar, perdemmo di vista il galeone Bon Jèsus, che poi abbiamo ritrovato
qui a Goa, mentre noi degli altri due galoni Sao Luis e Sao Gregorio, per tutto
il mese di agosto abbiamo sostato nel porto del Mozambico per fare il pieno di
acqua potabile, carni affumicate e verdure fresche.
In quel mese di riposo africano, ci siamo ritemprati abbastanza, recuperando
molti sali minerali grazie a quella buona frutta esotica, che in Europa voi sicuramente non avevate mai visto e tanto meno assaggiato.
Però qualcuno di voi non si è ripreso ancora completamente, specie tu, giovane
marchigiano Matteo Ricci, iscritto alla ecclesiastica provincia romana. Pertanto,
Matteo, potrai riprenderti meglio nella tropicale città salubre di Cochin, che raggiungerai al riparo dal sole percorrendo una strada costiera in carrozza medicale
coperta trainata da due cavalli: laggiù, tra vegetazione balsamica, sarai ospitato
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nel nostro Collegio Studentesco, dove potrai studiare le materie della Teologia in
preparazione al Sacerdozio.64
Un proverbio attribuito al mitico Laotzì, caposcuola del taoismo, trimillenaria filosofia popolare cinese, recita: “Quando il baco da seta teme per il
proprio mondo che finisce, c’è un altro mondo che esulta per la nascita della
farfalla”.65
Ricci voleva che la casa fosse sempre aperta: «Se bene la fatica è grande» scriveva
«procurano i vostri di fare a tutti buona accoglienza per guadagnare la benevolentia di tutti, oltre il parlare sempre con loro delle cose della nostra Fede».
Sapeva che i contatti con i mandarini più importanti servivano a fare progredire
la missione e a garantire protezione ai confratelli che vivevano nelle altre città.
Era infatti convinto che se i magistrati di passaggio avessero potuto constatare
quanto Li Madou era stimato a corte, avrebbero avuto più rispetto per i gesuiti
residenti nelle altre provincie.
Ricci riceveva quotidianamente fino a venti libretti per le visite, che arrivavano a
cento in occasione delle festività, e ogni due o tre giorni usciva a piedi o a cavallo
per restituire gli inviti, come voleva l’etichetta. Un simile zelo aveva il suo prezzo
e il gesuita sentiva venir meno le forze.
L’incarico di superiore della missione cinese era ormai per lui troppo oneroso
ed egli si augurava, senza ottimismo, che Valignano glielo volesse «togliere
dalle spalle». Confessava la sua stanchezza a Girolamo Costa il 10 maggio 1605:
«Quanto più avanti va quest’opra tanto più caricano i negocii sopra di me… solo
lo rispondere alle visite di huomini gravi che continuamente vengono a vederci
et a sapere delle nostre cose, sarebbe sufficiente occupazione per un huomo assai
più habile che io». Dello stesso tenore erano le parole indirizzate a Fabio de
Fabii: «A me povero, posto già vicino ai Tartari, assi lontano non solo dai nostri
europei et amici, ma anco da compagni che stanno nella Cina, non mi resta che
scrivere… ma non pensi che per questo stia disoccupato, perché mai in mia vita
mi vidi sì povero di tempo, tanto che alle volte per ricomandarmi a Dio mendico
il tempo, in tempo che ne ho maggior bisogno».66
64 13 settembre 1578. Dopo avere circumnavigato l’Africa con il Procuratore per l’India
Martin Da Silva ed altri dodici Gesuiti, Matteo sbarca in India, a Goa, la “Roma d’Oriente”,
Lettera di P. Martin Da Silva, in A. Agnetti, L’italus Ricci senz’armi alle Indie, cit., pp. 97-98.
65 I miei 30 anni di studi ricciani, a cura del prof. Alessandro Agnetti, delegato onorario
del Presidente della Giunta Regione Marche nell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con
l’Oriente, Università degli Studi di Macerata, in Alessandro Agnetti, L’italus Ricci senz’armi
alle Indie, cit., p. 146.
66 M. Fontana, Matteo Ricci. Un Gesuita alla corte dei Ming, Oscar Mondadori 2005, p.
251.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
La piccola flotta salpa da Lisbona sospinta da un buon vento, che la conduce
rapidamente verso l’aperto. La prima esperienza di mare grosso e le paurose
oscillazioni della nave disturbano i viaggiatori, per qualche giorno in preda a
nausea e vomito. Pochissimi sono quelli che riescono a mangiare. Forti correnti
da nord sospingono i galeoni verso le coste atlantiche del Marocco. Si fatica a
tenere la rotta e si procede a vele ridotte.
D’un tratto, sulla São Luis s’imbrogliano le corde: non si manovra più sull’albero di mezzana che porta vele latine e il nostromo dà ordine di ammainare. La
nave rallenta e procede sospinta dalla corrente. Le altre due imbarcazioni scompaiono all’orizzonte; una galera armata riamane di scorta. Al quarto giorno di
navigazione, secondo Ruggeri, si avvista la fortezza portoghese dalle grandi foreste, che per l’abbondanza di legno venne chiamata Madeira. Ricci annota nel
suo mappamondo cinese del 1602, divergendo da Ruggeri riguardo al tempo
impiegato: «L’isola di Madeira è a una distanza di quindici giorni di viaggio dal
Portogallo. La vegetazione è lussureggiante e il terreno fertile e bello». Ricci
aggiunge, a proposito dell’isola e delle vicende che seguirono alla sua conquista,
la seguente notizia, non priva di fondamento storico: «L’incendio che vi misero
i portoghesi, quando vennero qui, prese fine dopo otto anni. Adesso vi hanno
piantato le vite e producono un vino eccellente». Il fuoco al quale Ricci allude
era stato appiccato ad alcune zone della foresta, per ricavarne terreni utili alla
coltivazione; sembra tuttavia che quei primi coloni non fossero stati capaci di
spegnerlo, a causa della fitta vegetazione e dell’alto strato di materiale combustibile accumulatosi nei secoli. Qualche giorno dopo – stando a Ruggeri il 29
marzo, sabato santo –, mentre la São Luis dirige sulle Isole Fortunate, che oggi
chiamiamo Canarie, appare all’orizzonte la sagoma snella d’un vascello corsaro
che porta insegne francesi. Il grido d’allarme che ognuno aveva temuto di udire
sin dalla partenza fende l’aria sui ponti e agghiaccia gli animi. Quello era il
luogo preferito dai corsari per tendere agguati, specialmente alle navi che tornavano cariche dall’Oriente. I soldati prendono posizione alla artiglierie e sui
ponti. Il capitano Da Silva mette al riparo, per quanto è possibile, i viaggiatori.
I religiosi aiutano il cappellano di bordo a organizzare la preghiera. La galera di
scorta rallenta e si dispone davanti al galeone. La nave corsara si porta appena
fuori dal tiro d’artiglieria delle navi portoghesi. Si arresta. Nel silenzio attonito
degli uomini si attende l’ordine dell’attacco. D’improvviso i corsari virano a
ponente e veloci si allontanano all’orizzonte. Grida di gioia e preghiera di ringraziamento si levano dalla nave. Viene anche celebrata una “messa secca”,
così detta perché priva della consacrazione del pane e del vino, non consentita
sulle navi che facevano rotta verso Oriente: segno aggiuntivo della straordinaria
condizione di precarietà vissuta a bordo di quelle incerte scommesse sul mare
e sul vento.
Oltrepassando le Canarie si profila verso sud la piccola Isola del Ferro, della
quale, nel mappamondo di Ricci, si legge: «Quest’isola non ha sorgenti. Però ha
un grande albero le cui foglie non cadono mai. Esso, a ogni tramonto, si ricopre
di una nuvola, che si dilegua quando sorge il sole. Alle radici di quest’albero gli
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indigeni hanno scavato una fossa, la quale, quando viene la nuvola, si riempie
d’acqua, e di questa si servono gli uomini e gli animali domestici».
Il diciassette aprile, spinto dagli alisei, il galeone São Luis giunge all’equatore.
Ricci, benché emozionato, lavora con i suoi strumenti di rilevazione. Scriverà più
tardi nel mappamondo cinese: «Quando venni per mare dal Grande Occidente
nel Regno di Mezzo, arrivato alla linea equinoziale, vidi io stesso che il polo nord
e il polo sud erano tutti e due sull’orizzonte, senza la minima differenza di alto
basso».
Poco dopo viene incrociata una nave portoghese proveniente dal Brasile. Le due
imbarcazioni si accostano e scambiano viveri e acqua; Ruggeri ne approfitta per
inviare una lettera al superiore generale.
Il dodici maggio si avvista la costa brasiliana, all’altezza dello Stato odierno del
Espiritu Santo. Sette giorni dopo, varcato il Tropico di Capricorno, si notano in
mare squali e balene, così descritti da Ruggeri: «Avvistammo nel mare alcune
balene così grosse da sembrare galere e altri grandi pesci chiamati “tiberoni”,
molto avidi di carne umana. Per questa ragione seguono le navi, avendo la bocca
larga come una finestra. I nostri marinai ne presero alcuni con buone archibugiate, facendo il mare vermiglio. Vidi cavare dalle fauci di uno di essi tre pesci
interi di trenta libbre ciascuno, inghiottiti da poco».
Con ideogrammi cinesi posti all’altezza del golfo di Guinea, Ricci trascrive nel
mappamondo un singolare fenomeno di caccia marina osservato durante il
viaggio: «Questo mare ha una specie di pesci capaci di volare, ma no di saltare
in alto. Rasentando la superficie delle acque, essi possono percorrere fino a più
di trecentocinquanta metri; ma sono soggetti a divenir preda di un altro genere
di pesci, detti “albacori”. Questi corrono nell’acqua con velocità superiore a
quella dei pesci volanti e sono abili nell’osservarne l’ombra; perciò i pesci volanti li temono. Postisi in agguato da lontano, dopo avere osservato la direzione
dell’ombra, gli albacori arrivano prima, aprono la bocca e ingoiano i pesci volanti. Gli indigeni che sono sulle spiagge si servono, come di amo, di una fettuccia bianca, che lasciano galleggiare sulla superficie dell’acqua, fino a quando
il pesce volante non vada a morderla. Cento volte su cento esso viene preso.
Fritto, ha eccellente sapore».
La nave, spinta da buon vento, ai primi di giugno oltrepassa il Capo di “buona
speranza”, allora detto “delle tempeste” o, come si legge nel mappamondo ricciano, “Capo tormentoso”. Ci si arresta all’altezza di Capo Agulhas o “degli
aghi”, così denominato perché, nel doppiarlo, l’ago magnetico delle bussole si
sposta verso nord-est. Qui marinai e alcuni viaggiatori si dedicano alla pesca, per
fornire di cibo fresco tutta la nave.
L’equipaggio è sollevato per aver compiuto la parte più difficile del percorso; i
viaggiatori vanno con l’animo alla sosta in terra ferma che li attende tra qualche
settimana nell’isola di Mozambico. Nei tre mesi di navigazione, evento straordinario, non ci sono state perdite umane: un paio di volte alcuni uomini erano
caduti in mare, ma la prontezza del nostromo nell’ammainare le vele aveva permesso di ripescarli.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Ricci aveva compiuto molte osservazioni intorno alle coste e alle nuove costellazioni dell’emisfero sud, riportandole sulle carte. Il suo carattere positivo e affabile gli aveva permesso di stringere buoni rapporti con tutti e alcune amicizie tra
i nobili e i mercanti diretti a Goa. Aveva conquistato in particolare la fiducia e la
simpatia del timoniere, con il quale collaborava e si confrontava nella rivelazione
della rotta e delle distanze.
Il bravo marinaio portoghese, che ignorava tutto della scuola del Clavio, manifestava allegramente, con generose pacche sulle spalle di Ricci, la propria meraviglia per il giovane gesuita che sapeva usare così bene, forse meglio di lui, sestante
e astrolabio, riportando sulla carta con meticolosa precisione distanze e tracciati.
Nel primo pomeriggio del ventinove giugno, al largo delle coste del Natal, un
forte vento da sud-est comincia a sollevare le onde. Il cielo si copre rapidamente
di nubi fosche e pesanti; il nostromo fa ridurre le vele e il capitano annuncia l’arrivo di una tempesta imminente. Verso terra frequenti e lunghe saette illuminano
il cielo divenuto quasi buio. I viaggiatori si pongono al riparo mentre i marinai
sui ponti e sugli alberi si espongono ai primi scrosci di pioggia. Le vele vengono
ammainate. Molti passeggeri non sopportano lo spaventoso rullio della nave e
sono assaliti da vertigini e vomito. Nella cappella di bordo si intona il rosario.
Dai ponti e dalle curve fiancante giunge il rumore di colpi secchi e radi, che
presto divengono crepitio cupo e continuo. Per alcuni lunghissimi minuti marinai e passeggeri si sentono perduti in quell’unico gorgo di mare e di cielo. La
grandine dirada, ma la tempesta d’acqua che cade dal cielo continua a spazzare
i ponti. Onde sempre più alte si abbattono sulla poppa e squassano i fianchi. Il
buio si fa completo; il vento ha spento anche le fiaccole poste ai quattro punti
della nave e quella che illumina la bussola. Il sibilo del vento e il frastuono delle
onde coprono le grida disperate di marinai e passeggeri. Il timoniere è solo nella
tempesta. Sotto coperta, nel lezzo nauseabondo degli escrementi umani rovesciati sul pavimento, i missionari confessano i passeggeri.
Ruggeri racconta che durante quella notte, mentre era occupato con gli altri
padri nel ministero della penitenza, alcuni marinai e altre persone degne di fede
avevano visto apparire il patrono dei marinai san Pietro Gonçalves e una corona
di luci che aveva le sembianze della Vergine sopra l’albero di poppa, sul mezzano e sul trinchetto. Si trattava, più verosimilmente, dei “fuochi di Sant’Elmo”,
un fenomeno atmosferico dovuto all’elettricità accumulata nell’aria durante i
temporali, che si manifesta sotto forma di fiammelle azzurre alle estremità degli
alberi e delle funi penzolanti. Verso l’alba, gettate in mare alcune reliquie e degli
Agnus Dei – blocchetti di cera con impressa l’immagine di un agnello, simbolo
del Salvatore –, la tempesta comincia a placarsi, la forza del vento a diminuire, le
onde ad appianarsi. Per tutto il giorno la nave continua a risalire verso nord con
vele ridotte. Infine, scampato il pericolo, le bianche vele quadrate dell’albero di
maestra e di trinchetto, che portano il segno della croce, tornano a tendersi al
vento. Nel suo mappamondo Ricci annoterà a proposito di quel tratto di mare,
memore dello spavento vissuto: «Qui vi sono tempeste in tutte le stagioni. Vi
sono alligatori grossi come grandi navi». E in passaggio della sua principale opera
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teologica in lingua cinese, intitolata Vera spiegazione del Signore del Cielo, paragona gli uomini del suo secolo a «coloro i quali vedono la propria nave andare
distrutta in un naufragio, e si trovano nell’immenso oceano tra l’infuriare delle
onde. Spinti ora sotto, ora sopra l’acqua, vengono sballotto lati sott’acqua e poi
rilanciati in alto, in mezzo ai marosi, dall’infuriare del vento. Ciascuno pensa a se
stesso, alla propria situazione, e nessuno ha la mente alla salvezza dei compagni:
si aggrappano a qualunque cosa capiti sotto mano: tavole, vele, cime, rottami,
insomma a tutto ciò che riescono ad afferrare, e vi si aggrappano spasmodicamente, lasciandolo soltanto al momento della morte».
L’undici luglio la São Luis giunge all’altezza dell’isola di San Lorenzo che oggi
chiamiamo Madagascar; i passeggeri non possono tuttavia avvistarne le coste.
Quattro giorni dopo, varcato di nuovo il Tropico del Capricorno, entrano nel
canale di Mozambico e al tramonto del ventidue luglio il galeone si avvicina
all’imboccatura del porto. Una piccola imbarcazione lo precede per guidarlo
tra gli scogli dei bassi fondali; malgrado le attenzioni, per cinque volte la nave
sobbalza sul fondo, senza tuttavia squarciarsi o capovolgersi, secondo alcune
testimonianze; aprendosi sul fondo e imbarcando acqua, secondo altre. Dopo
quattro mesi di navigazione continua, l’equipaggio può comunque gettare l’àncora per provvedere ai rifornimenti e alle riparazioni. Posta a circa tre chilometri della terraferma, alla quale oggi è unita da un ponte, l’isola di Mozambico
era stata conquistata dal Portogallo quando Vasco de Gama vi era sbarcato nel
1498, viaggiando verso l’India. Era subito apparsa luogo ideale per una base
fortificata. Nel 1522 era stata costruita, nel capo nord, di fronte all’oceano, la
chiesa di Nossa Senhora do Baluarte, il più antico edificio europeo in Africa
Australe. Qualche decennio più tardi, trasportando dal Portogallo i materiali
di costruzione, era stata avviata in prossimità della chiesa la fortezza non era
ancora terminata. Verso il centro dell’isola, lunga tre chilometri e mezzo e larga
seicento metri, vi erano alcuni edifici che servivano alla guarnigione di soldati e
all’accoglienza dei naviganti in sosta; un grande ospedale; magazzini nei quali
venivano stipate le merci provenienti dall’Europa, dall’India e dal Giappone;
casupole e capanne nelle quali si era iniziato a raccogliere gli schiavi negri da
deportare in Oriente. Il resto dell’isola era arido, privo d’acqua e incapace di
fornire qualunque genere di cibo. Bloccatovi per due anni dalla malattia e dalla
povertà, infine aiutato dalla generosità di alcuni amici, fra i quali lo storico Diogo
de Couto, Luis de Camões aveva potuto lasciare quell’isola per Lisbona appena
nove anni prima.
Mentre la São Luis ripara i danni, carica nuove scorte di viveri, acqua e merci
destinate all’India e alle altre regioni d’Oriente, giunge in porto la São Gregorio,
persa di vista poco dopo la partenza. Grande è la gioia dei gesuiti nel riabbracciarsi. Ricci, in particolare, è ben lieto di ritrovare il suo padre Da Silva e gli
amici Pasio e Acquaviva. Purtroppo, nessuna notizia della Bom Jesùs, vista l’ultima volta dai viaggiatori della São Gregorio tre mesi prima nei pressi dell’equatore. L’ultima e importante incombenza dell’equipaggio, prima della partenza
da Mozambico, era il carico degli schiavi: circa quattrocento sulla São Gregorio
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
e forse cinquecento sulla São Luis. Venivano raccolti sull’isola della terraferma
e poi venduti nelle colonie dell’India, Malacca, Macao e Giappone. Una tratta
equivalente a quella che dall’Africa riforniva di schiavi negri le colonie d’America. Secondo una stampa dell’epoca, gli schiavi venivano accattastati orizzontalmente nei magazzini della nave, incrociati in modo che le spalle dell’uno stessero
tra le gambe divaricate dell’altro, salvaguardando in tal modo la sola necessità
del respiro. Tutte le altre esigenze vitali venivano ignorate, considerando quegli
esseri non più che animali. Eppure, quando erano in fin di vita – nel mese di
navigazione da Mozambico a Goa ne morirono diciotto sulla São Gregorio – i
gesuiti impartivano loro il battesimo e si sforzavano di convertire anche gli altri,
prima che morissero. Segno evidente e imbarazzante che gli schiavi venivano comunque considerati esseri umani dotati di anima immortale. Un modo ambiguo
per riscattarne la libertà, almeno nella vita eterna.
Terminando il triste carico degli schiavi, la São Luis è pronta a riprendere il mare
il sedici di agosto, costeggiando l’Africa verso nord-est e avvicinandosi alle rotte
battute da secoli dalla potenza musulmana. Risale le coste della Somalia senza
eventi di rilievo; la notte dell’otto settembre, in direzione del golfo di Aden, appare ai naviganti lo spettacolo insolito di una bianca luminosità emanante dalla
superficie dell’acqua, così descritta da Ruggeri: «Di notte l’acqua del mare era
tutta bianca come latte. Dicono che ciò avviene a causa dell’acqua dello stretto
del mar Rosso, che sbocca in quella parte. Ma non si sa la vera causa di questo
biancore».
Sabato tredici settembre, col favore dei monsoni e seguita dalla São Gregorio,
la São Luis giunge nel porto di Goa. Gioiosa sorpresa attende i viaggiatori delle
due navi, che non avevano potuto difendersi da tristi presagi, nello scorgere
alla’ancora la Bom Jesùs, giunta tre giorni prima al termine di un viaggio avventuroso e tormentato.67
«Non hai bisogno né di ferro per essere martire, né di ir longe per essere
pellegrino; dovunque ti ritrovi con i tuoi sudori di sangue dai chiaro testimonio della nostra santa fede».68
Le sofferenze affrontate sia durante i viaggi che durante la vita quotidiana, sono state sicuramente per padre Matteo Ricci – come possono essere
per ciascuno – il momento di rivedere e aiutare anche gli altri a rivedere i
contenuti della propria fede in modo essenziale, profondo. È la riappropriazione della fede riscelta in modo adulto.69
67 F. Mignini, Matteo Ricci. Il chiosco delle fenici, Edizioni Il Lavoro, Ancona 2009, pp.
53-58.
M. Ricci, Lettera al P. Giulio Fuligatti da Nanchang, 12 ottobre 1596, in Lettere (15801609), Edizioni Quodlibet, Macerata 2001.
69 J. Powell, Abbracciare la vita, Edizioni Gribaudi.
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Anche le parole del S. Padre Benedetto XVI ci aiutano ad approfondire
il rapporto con la sofferenza che è inevitabile, essendo il nostro percorso di
creature e di Croce/resurrezione.
Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Essa deriva, da
una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso
della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile.
Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire,
per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono tutti doveri sia della giustizia che dell’amore
che rientrano nelle esigenze fondamentali dell’esistenza cristiana e di ogni vita
veramente umana.
Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare grandi progressi; la sofferenza
degli innocenti e anche le sofferenze psichiche sono piuttosto aumentate nel
corso degli ultimi decenni. Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza,
ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché
nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo
vediamo – è continuamente fonte di sofferenza.
Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella
storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che
perciò questo potere che «toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29) è presente
nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la
speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non
ancora di compimento; speranza che ci dà il coraggio di metterci dalla parte del
bene anche là dove la cosa sembra senza speranza, nella consapevolezza che,
stando allo svolgimento della storia così come appare all’esterno, il potere della
colpa rimane anche nel futuro una presenza terribile.70
Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo,
ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso
mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.71
Si tratta allora di verificare il proprio livello di pazienza di fronte alla sofferenza.
La pazienza nella sofferenza può essere percepita nella persona sia come
virtù, sia come fortezza e perseveranza.
Certamente l’acquisire e lo sperimentare pazienza può esporre inizialmente a una propria impotenza.
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Benedetto XVI, Spe salvi, n. 36.
Ibid., n. 37.
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Esercitarsi, aspettare, seguire delle tappe, tornare indietro per riprendere
il passo della vita materiale e spirituale, perdonare se stessi e gli altri (= alcuni aspetti della pazienza) sono momenti sperimentali che possono esporre
alla propria impotenza.
È una tentazione dell’uomo invocare l’onnipotenza di Dio nei confronti
della propria impotenza e pensare che mediante la preghiera e una vita
buona si possa essere liberati dalla propria impotenza.
Uno dei paradossi cristiani è che ogni persona deve riconciliarsi con la
propria impotenza.
Dio si è lasciato scacciare dal mondo sulla croce, sperimentando l’impotenza. Se Dio, nell’incarnazione e nella morte del suo Figlio, si rivela impotente, questo è un invito a riconciliarsi con la propria impotenza. L’impotenza può allora diventare il luogo dell’esperienza di Dio: proprio là dove
non si può più fare nulla, dove si è raggiunto il limite, dove c’è il fallimento,
Dio può aprire a sé. Là non rimane altro che porgere le mani vuote a Dio e
rimettersi a lui.
Nell’impotenza che la persona “sulla Croce” sperimenta di giorno in
giorno traspare già l’impotenza della morte. Così l’impotenza sperimentata
invita a credere nella forza di Dio, nella forza della resurrezione, nella quale
la potenza di Dio si rivelerà vincitrice anche nella persona stessa.
L’attesa che l’impotenza sperimentata diventi manifestazione della potenza di Dio richiede il lungo percorso della pazienza. Quindi, trattandosi
di un lungo e arduo percorso, si collega la pazienza alla fortezza e alla perseveranza.
11. Verso la castità, premessa “inculturata” della vita consacrata
Una linea pedagogica difficile da trasmettere in una cultura tradizionale
è non tanto la vita consacrata (più comprensibile quale vita dedicata al Signore del Cielo = Dio), quanto un elemento importante per la vita consacrata, quale è la castità e l’impegno in essa per tutta la vita.
Il letterato cinese dice: «Cosa c’è dietro l’idea di una castità che duri per tutta la
vita e di una regola che proibisca il matrimonio? Dovrebbe essere difficile astenersi completamente da ciò che è naturale per le creature viventi. L’amore per la
vita è il fondamento della natura del Sovrano dall’Alto. Posso eliminare ciò che
mi è stato tramandato dai miei antenati per centinaia e migliaia di generazioni?».
Il letterato occidentale dice: «È naturalmente difficile per un uomo essere casto,
e quindi il Signore del Cielo non ha promulgato, nei Suoi comandamenti, che
tutti gli uomini debbano seguire questa regola. Ha semplicemente istruito gli
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uomini perché scelgano da sé cosa fare. Chi vuole rimanere casto può farlo.
Sebbene ciò sia difficile, può essere usato per sondare la virtù di un uomo. La
difficoltà giace nell’austerità della natura della retta condotta».72
Segue il letterato occidentale: «Quando un uomo serve il suo sovrano, deve praticare un fermo auto diniego; non dovrebbe, quindi, uno uomo che si pone al
servizio del Sovrano dall’Alto ridurre le sue passioni?
Chi si dedica alla salvezza del mondo prova una grande pietà per la situazione del
mondo odierno ed ha, quindi, fatto della castità e del celibato delle regole nella
mia umile Società. Limitando le nascite di bambini, accresciamo rapidamente
la Via, e abbiamo come unico scopo la salvezza e l’aiuto degli uomini caduti in
quest’epoca. Non è forse una finalità ancora di maggior interesse pubblico?
Inoltre, gli uomini e le donne sono ugualmente responsabili della trasmissione
della vita umana. Ci sono, in quest’epoca, alcune donne caste i cui uomini, a cui
erano fidanzate, sono morti prima del matrimonio. Per mantenere il proprio
onore, tali donne si sono astenute da un secondo fidanzamento. I confuciani
lodano queste azioni e gli imperatori danno encomi pubblici.
Una castità del genere, che ha come risultato il rifiuto di trasmettere la vita a
generazioni successive, è solamente dovuta al desiderio di mantenersi fedeli allo
sposo; e il rimanere a casa ed astenersi da ulteriori nozze ha come risultato un
tributo pubblico dato a quella persona. Ma non è ingiusto che noi, pochi amici,
siamo biasimati quando, a causa del nostro lavoro per il Sovrano dall’Alto, e in
modo da poter adeguatamente viaggiare per il mondo, per trasformare tutti gli
uomini, non abbiamo tempo per occuparci del matrimonio?».
Il letterato cinese dice: «Come può il matrimonio danneggiare chi voglia diffondere la Via e sollecitare le persone a condurre una buona vita?».
Il letterato occidentale dice: «Non è dannoso. È semplicemente che rimanere
da soli e celibi permette una maggiore tranquillità per perfezionarsi, e rende più
semplice estenderla agli altri. Mi lasci spiegare la convenienza del celibato sotto
vari aspetti, in modo che sia in grado di vedere se questa pratica dei membri
della mia umile società sia ben fondata o meno».73
Il letterato occidentale continua: «In primo luogo, il matrimonio serve per la procreazione di bambini e la costituzione di una famiglia. Se si mettono al mondo
dei bambini bisogna prendersi cura di loro con amore e attenzione, e accumulare ricchezze per provvedere al loro sostentamento. Un padre non può astenersi
dal pensare agli affari e al commercio. Poiché al giorno d’oggi ci sono molti padri
M. Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”. Tian zhu shi yi, cit., nn. 526-527-528,
pp. 288-289.
73 Ibid., nn. 532-534-535-536-537-538, pp. 290-291.
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e molti figli, il numero delle persone impegnate ad acquisire ricchezze è anche
considerevole. Col crescere del numero delle persone che cercano di acquisire
ricchezze, diviene sempre più difficile, per ciascun uomo, ottenere ciò che vuole.
Se permettessi a me stesso di coinvolgermi in affari secolari, non sarei in grado
di staccarmi dalle cose mondane e sarei destinato a considerarmi fortunato se
riuscissi solamente a rimanere in vita. Come potrei portare avanti la mia ambizione di incoraggiare le persone a vivere secondo una giusta condotta? La
cosa più importante, nel perfezionare la virtù, è disprezzare le ricchezze e i beni
materiale. Come potrei persuadere gli altri a non preoccuparsi delle ricchezze
e dei beni materiali se io stesso prestassi seria attenzione e avessi una passione
smodata per tali cose?74
In secondo luogo, la natura della moralità è assai profonda e misteriosa, ma
la mente degli uomini procede inevitabilmente nell’oscurità. Inoltre, la rapidità della comprensione umana è costantemente rallentata dalla passione. Se
un uomo diviene schiavo delle passioni, è come se una piccola luce fosse stata
nascosta in un paralume di pelle spessa, ed egli risulta immerso in un’oscurità
ancora maggiore.
Come, dunque, sarà in grado di raggiungere il più sublime livello di moralità?
Una persona che ha deciso di essere casta è come colui che ha pulito l’occhio
della sua mente da tutta la polvere e che ha, quindi aumentato l’intensità della
luce e può per questo comprendere le più sottili verità della moralità.75
In terzo luogo, le persone di questo mondo sono state grandemente deviate dalla
cupidigia e dalla lussuria. L’uomo che decide fermamente di salvare il mondo
con umanità deve considerare la liberazione degli uomini da queste due grandi
tentazioni come il più urgente dei suoi obbiettivi. Un medico professionista utilizza antidoti per curare le persone dalle loro malattie; così, una medicina fredda
è fornita a chi soffre di febbre, ed una medicina calda a chi è affetto da disturbi
freddi; solo così la malattia può essere curata. Poiché noi proviamo disgusto
per il danno causato dalla ricchezza, abbiamo scelto la povertà; e poiché temiamo le ferite causate dalla lussuria, abbiamo deciso di rimanere da soli. Solo
disciplinando noi stessi in questo modo possiamo divenire pienamente consapevoli delle ingiustizie della ricchezza e della natura dei desideri malvagi. Così, i
membri della mia umile Società sacrificano la loro ricchezza ingiusta; lasciano la
casa per una vita monastica, in modo da poter coltivare la Via, e rinunciano alla
gioia di una legittima sessualità per persuadere le persone a non lasciarsi tentare
da passioni improprie.76
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Ibid., n. 539, p. 292.
Ibid., n. 540, p. 292.
Ibid., n. 541, pp. 292-293.
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In quarto luogo, una persona può possedere il talento e l’abilità del più straordinario tra gli uomini, ma se la sua mente non è disciplinata e manca di unicità
di intenti, allora tutto quello che farà sarà privo di perfezione. L’obiettivo della
conquista di sé è più difficile della conquista del mondo. Dai tempi antichi fino
ad oggi, la storia ha tramandato i nomi molti sono stati vincitori su se stessi.
Chiunque abbia l’ambizione di promuovere la Via in ogni luogo deve non solo
ottenere il controllo su di sé, ma deve anche cercare di adottare misure difensive per porre un freno ai desideri egoistici di tutti gli uomini. La grandezza di
una tale attività è oltre ogni misura. Anche con una totale unicità di intenti non
è sicuro se si sarà in grado di giungere alla perfezione o meno, ma quanto più
difficile sarà se la mente è occupata anche da oltre cose? Vuole che io serva una
giovane donna attraente e metta al mondo figli?77
In quinto luogo, un esperto nell’allevamento dei cavalli che si imbatta in buoni
esemplari, come dei pezzati o dei sauri, che possono viaggiare per migliaia di li
in un giorno, li addestrerà con ogni cura, in modo che possano essere preparati
per la prima linea di una battaglia. Temendo che possano immergersi in attività
sessuali, li allontana dal branco e li priva di ogni contatto col sesso opposto.
Anche la sacra religione del Signore del Cielo cerca uomini di valore che siano
in grado di viaggiare fino ai più remoti angoli della terra per spiegare i principi
della Via, difendendoli dalla calunnie, pacificando le opposte opinioni, sradicando insegnamenti eterodossi, il tutto per preservare la tradizione ortodossa
della Santa Chiesa. Vuole indebolire la loro risolutezza con i piaceri della sessualità? E vuole astenersi dal sostenerli nei loro eroici tentativi di eliminare i
cattivi costumi che derivano dalle passioni? Così, i letterati occidentali sono più
preoccupati del meritarsi la Via che dal provvedersi di una progenie.
Il contadino che raccoglie diecimila misure di grano fornisce una buona immagine di quello che voglio dire. Non userà mai tutto il grano per seminarlo
e piantarlo nei suoi campi. Sarà costretto a selezionarne una parte da presentare al sovrano come tributo; un’altra porzione la userà come semenza, in modo
da mietere un raccolto per l’anno successivo. Perché tutti i milioni di uomini e
donne nel mondo devono essere utilizzati per trasmettere la vita alle generazioni
successive, e nessuna deve essere riservata per altri scopi?78
In sesto luogo, qualunque cosa sia comune agli uomini e agli animali non dovrebbe essere considerata di valore troppo alto. Gli uomini lavorano per ottenere il cibo; cercano il cibo per soddisfare la fame; soddisfano la fame per
nutrire le loro energia vitale; nutrono la loro energia vitale per resistere ai danni,
e resistono ai danni per preservare le loro vite.
77 78 Agire_IB.indd 143
Ibid., n. 542, p. 293.
Ibid., n. 543, p. 294.
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Tutte queste cose pertengono alla natura inferiore dell’uomo, e c’è, sotto questo
rispetto, ben poca differenza tra l’uomo e gli animali. Quando si giunge al perseguire la rettitudine, troviamo che la si persegue per analizzare le proprie motivazioni; si analizzano le proprie motivazioni per perfezionare se stessi; si perfeziona
se stessi per estendere la propria umanità; si estende la propria umanità per
ripagare il Signore del Cielo dei suoi favori. Queste sono faccende importanti
nell’esistenza umana, che permettono all’uomo di armonizzarsi con la volontà
del Signore del Cielo.79
In settimo luogo. Perché devo confinarmi invano in un luogo? Un medico benevolo non si confina in un posto, ma si muove di luogo in luogo per salvare i
malati. Solo così si può dire di lui che elargisce ampiamente la sua abilità.
Un uomo sposato è legato ad un posto e i suoi compiti naturali non si estendono
al di là del dare ordini in famiglia o, tutt’al più, governare un Stato.80
In ottavo luogo, se due cose crescono in maniera simile, le loro nature tendono
ad approssimarsi sempre di più. Gli angeli sono privi di desideri sessuali, e la
natura di una persona casta si approssima a quella degli angeli perché, sebbene il
suo corpo sia qui sulla terra, è simile a quelli che vivono in Cielo.
Gli uomini che hanno un corpo fisico e che, ciononostante, imitano la realtà
metafisica degli angeli, non possono essere considerati alla stregua di uomini
volgari e letterati mediocri. Qualsiasi cosa questi puri studiosi della Via chiedano
al Signore del Cielo in preghiera – sia che la richiesta riguardi la siccità, il comportamento anormale di spiriti malvagi, o il soccorso per gli effetti del fuoco o di
un’inondazione – il Signore del Cielo, probabilmente, acconsentirà ad ascoltarli;
se così non fosse, come si potrebbe sostenere che l’Onore dall’Alto ami siffatte
persone?
Ma, sebbene abbia utilizzato questi argomenti proprio per spiegare il perché i
membri della mia Società non si sposino, non li ho esposti per oppormi al matrimonio; prendere moglie è una cosa giusta e proprio da fare, e non può certo
essere considerata come il contravvenire ai comandamenti del Signore del Cielo;
né si può dire che tutti coloro che rimangono da soli abbiano un aspetto simile
agli angeli. Se una persona si astiene dall’attività sessuale e non si sposa, ma, allo
stesso tempo, non pone attenzione alle virtù di cui è dotato, non si sta astenendo
in vano?
In Cina c’è chi rifiuta un corretto comportamento sessuale e frequenta case di
mal’affare; chi mette da parte qualsiasi rapporto sessuale con le donne e si diverte con giovani fanciulli. Gli uomini superiori, in Occidente, non parlano di
questi individui impuri per paura di contaminare la propria bocca. Anche gli
animali conoscono solo rapporti sessuali tra maschi e femmine e sono incapaci
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Ibid., n. 544, pp. 294-295.
Ibid., n. 546, p. 295.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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di comportarsi così contro natura. Se a un uomo manca il senso di vergogna,
a che livelli di azioni perverse arriverà! I membri della mia umile Società sono
come il contadino che preserva i suoi semi e non li disperde nel suo campo. Se
lei continua a sostenere che ciò non sia giusto, quanto più ingiusto sarà gettarli
senza cura in un fosso?».81
Il letterato cinese dice: «È molto pertinente che un uomo non si debba sposare
per il bene dello studio della Via. Quando l’Imperatore Yao si dedicò all’obbiettivo di controllare le inondazioni, in un’epoca di disordine, iniziò un giro di
ispezione in tutte le nove regioni, e fu assente da casa per otto anni! Passò davanti alla porta della sua casa per tre volte senza entrarvi. Ma questi sono tempi
di pace, dunque, che pericolo c’è per le persone che hanno una loro casa?».
Il letterato occidentale dice: «Ahimè! Lei sbaglia nel dire che viviamo in tempo
di pace. Gli uomini saggi credono che i disastri dei giorni odierni siano maggiori dei disastri naturali dei tempi dell’Imperatore Yao! Il genere umano è sia
cieco che sordo. Non è forse la perdita della vista la ferita maggiore? La sfortuna
dei tempi andati derivava dall’esterno; le persone avevano facilità di vederla, ed
erano in grado di prendere precauzioni rapidamente in modo che fosse danneggiata solo la loro proprietà e la loro pelle. Le calamità attuali, invece, emergono
repentine dall’interno dell’uomo. Quando gli uomini saggi se ne rendono conto,
trovano difficile evitarle; quanto più sarà vero per gli uomini? Così, non c’è nulla
di più serio del danno causato da queste calamità. Più spaventose che le tempeste e i mostri, non colpiscono le persone esteriormente, ma invadono il loro
essere interiore».82
Sulla linea di quanto padre Matteo Ricci dice sulla castità, si può cogliere
non solo la dimensione dell’“armonizzare con il Signore del Cielo” attraverso la castità, ma anche la dimensione del “bene comune”, a cui porta la
castità stessa.
Si inserisce così il concetto di “bene comune”, concetto tanto presente
nella Lettera enciclica Caritas in Veritate del 29 giugno 2009,83 a cui tutti
siamo invitati a riflettere, specialmente nell’oggi, che rischia di condurci ad
un certo individualismo, pure nelle nostre scelte di vita consacrata.
Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune.
Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il
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Ibid., nn. 548-549-550, pp. 296-297.
Ibid., nn. 563-564, pp. 302-303.
Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate, n. 7.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e
gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale.84
Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della
comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene.
Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità.
Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi,
dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende
forma di pólis, di città.
Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene
comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a
questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis.
È questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non
meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo
direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis.
Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico.
Come ogni impegno per la giustizia, esso s’inscrive in quella testimonianza della
carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno.
L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia
della famiglia umana.
In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non
possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della
comunità dei popoli e delle Nazioni,85 così da dare forma di unità e di pace alla
città dell’uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della
città senza barriere di Dio.86
84 Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et Spes, 26.
85 Cfr. Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963): «AAS» 55
(1963), pp. 268-270.
86 Benedetto Xvi, Lettera enciclica Caritas in Veritate, n. 7.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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12. L’amicizia universale, essere fratelli nella diversità e nell’unico Signore
del Cielo
Padre Matteo Ricci scrisse molto sul tema dell’amicizia, che egli visse
secondo la modalità della realtà cinese.
Il fine dell’amicizia è la soddisfazione dei bisogni e il mutuo aiuto (spirituale e
materiale), ossia la costruzione della società (3,53).
Infatti il singolo uomo non può compiere da solo ogni cosa: il precetto dell’amicizia, inteso come vincolo naturale e divino, salvaguarda la stessa esistenza del
genere umano (16,65). È vera e utile soltanto l’amicizia che produce buoni effetti
(23); nessuna impresa umana, benché negativa, può essere compiuta senza il
soccorso di amicizie (45,51,56). Uomini di grande virtù o ebbero amici che li
aiutarono o grandi nemici che li costrinsero a difendersi, sviluppando così la
loro forza (6); perciò si può dire che l’amicizia sia più utile al mondo che la stessa
ricchezza (37). Uno stato può sussistere anche senza tesoro, ma non potrebbe
sussistere senza amici (77,93); sicché si può concludere che l’amicizia è per il
mondo ciò che il sole è per il cielo e gli occhi sono per il corpo (79).
L’amico che non produce in noi nessun bene, specialmente morale, è un “ladro
di tempo” (69) e dove non vi è reciproca corrispondenza, non v’è amicizia (73).
La forza con la quale gli amici si fanno del bene è minore di quella con la quale
i nemici si odiano: ciò dimostra che il mondo è più incline al male che al bene
(12).87
Il fondamento della vera amicizia è la virtù. Per virtù si deve intendere l’obbedienza alla ragione e l’amore per la giustizia. La nobiltà dell’amicizia dipende
dall’esclusivo fondamento di essa sulla virtù; ma sono pochi quelli che vi riescono (30).
Per poter stringere amicizia con altri, è necessario essere prima amici di se stessi
(86); ma questo è possibile soltanto seguendo ragione e giustizia.
Se il piacere prevale sulla virtù, l’amicizia è poca duratura (32): soltanto la solida
virtù è garanzia di una durevole amicizia (90,62,63) e di gioia autentica (54).
Le esigenze della giustizia devono prevalere su quelle della stessa amicizia,
quando entrino in conflitto con questa (31,96,52). Il numero degli amici è anche
sintomo della virtù di un uomo (61) e l’amico saggio è fonte perenne di stimolo
al compimento del bene (68); al contrario, chi fa amicizia con i cattivi finirà per
macchiarsi anche lui (67).
La forza della virtù è tale da imporsi anche da sola, senza gesti o parole, in chi
abbia animo ben disposto: questa dottrina dell’amicizia tra uomini virtuosi è
indispensabile per la crescita della virtù e della socialità umana (70). Se la virtù
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M. Ricci, Dell’amicizia, Edizioni Quodlibet, Macerata 2005, p. 21.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
è il fondamento dell’amicizia, il suo accrescimento ne è il risultato più autentico
e proprio.88
L’amicizia è una delle cinque relazioni sociali naturali. Tre di queste si compiono
nell’ambito della famiglia e riguardano i rapporti tra padre e figlio, marito e moglie, fratello maggiore e fratello minore; una si istituisce nell’ambito sociale ed
è la relazione tra sovrano e sudditi; infine vi è l’amicizia, che riguarda i rapporti
tra gli uomini come tali, considerati non estranei ma amici potenziali. Alcuni
autori ammettono espressamente che, senza l’amicizia, le altre quattro relazioni
sarebbero destinate a scomparire.
A questo riguardo, nella prefazione al Trattato sull’amicizia di Martino Martini,
Zhang Anmao osserva: «Solo l’amicizia può completare il sistema delle relazioni
tra signore e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie e tra fratello maggiore
e quello minore. Con essa le quattro relazioni sociali diventano perfette; senza di
essa le quattro relazioni sociali restano incomplete. Perciò le cinque relazioni sociali hanno l’amicizia come le stelle hanno la latitudine e la longitudine o la materia grezza ha il colore o il disegno. Grazie ad essa la fama si acquista, le imprese
si compiono. Non è dunque molto importante ciò che ad essa si riferisce?».89
Xitai,90 dopo aver fatto un difficile viaggio di 80.000 li91 verso Oriente, è venuto
in Cina per farsi degli amici. Quanto più profonda è la conoscenza che egli ha
della dottrina dell’amicizia, tanto più sente il bisogno di cercare [amici] e tanto
più tenace è nel conservarli.92
L’amicizia non consiste soltanto in una mutua allegra intesa superficiale e in un
reciproco dare e ricevere.
Un mutuo confrontarsi, un mutuo aiutarsi, un mutuo correggersi, un mutuo
perfezionarsi, la cui base è armonia di differenze individuali e il cui ultimo fine
è di non separarsi mai.93
L’amicizia e l’inimicizia sono come la musica e il frastuono, che si distinguono a
seconda che ci sia o non ci sia armonia; infatti l’essenza dell’amicizia è l’armonia.
Con la concordia le cose piccole crescono, con la discordia le cose grandi crollano.
Ibid., p. 22.
Ibid., p. 25.
90 “Xitai” vuole dire: Maestro del grande Occidente.
91 “Li” è una misura di distanza, con valore variabile nel corso dei secoli, corrispondente
circa a 500 metri.
92 M. Ricci, Dell’amicizia,cit., p. 53.
93 Ibid., p. 55.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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La musica conduce alla concordia, mentre il frastuono conduce alla discordia.
L’accordo degli amici è come la musica; il disaccordo dei nemici è come il frastuono.94
Il singolo uomo non può compiere ogni cosa; perciò il Signore del Cielo ha
comandato agli uomini l’amicizia, affinché si prestassero reciproco aiuto. Se si
togliesse dal mondo questo precetto, il genere umano sicuramente si disperderebbe.95
L’amico è la ricchezza del povero, la forza del debole, la medicina del malato.96
Se non puoi essere amico di te stesso, come potrai essere amico degli altri?97
La virtù duratura è ottimo alimento per un’eterna amicizia. Tutto, senza eccezione, alla lunga diventa noioso per gli uomini; solo la virtù, quanto più dura,
tanto più commuove i sentimenti degli uomini. Se la virtù è amabile perfino nel
nemico, quanto lo sarà nell’amico?98
Il re Alessandro, sperando di contrarre amicizia anche con un saggio di nome
Focione, gli mandò prima qualcuno, offrendo molte decine di migliaia di monete d’oro. Ma Focione, adiratosi, gli disse: «Facendomi questo regalo, il re chi
crede che io sia?». Il messo rispose: «Il re sa che voi, letterato, siete uomo incorruttibile. Questa non è che un’offerta». E l’altro: «Allora lasciatemi essere
incorruttibile!». E non volle accettare nulla. Lo storico conclude dicendo: «Il re
voleva comprare l’amicizia del letterato, ma il letterato non la vendette».
Quando il re Alessandro non era ancora salito sul trono, non aveva un erario
nazionale e distribuiva generosamente agli altri tutte le ricchezze che acquisiva.
Il re di un Paese nemico, molto ricco e che non si occupava che di rimpinguare
il suo tesoro, beffandosi di lui gli disse: «Dov’è il tesoro di Vostra Maestà?». Egli
rispose: «Nel cuore degli amici!».99
Megapito, famoso letterato dell’antichità, tagliò una grande melagrana. Qualcuno gli domandò: «Di che cosa vorreste avere, voi letterato, tanti quanti sono
questi chicchi?». Egli rispose: «Di amici fedeli».100
Ibid., n. 10, p. 67.
Ibid., n. 16, p. 69.
96 Ibid., n. 76, p. 89.
97 Ibid., n. 86, p. 91.
98 Ibid., n. 90, p. 91.
99 Ibid., nn. 92-93, p. 93.
100 Ibid., n. 100, p. 97.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Amico et inimico è como harmonia e contenzione a ciarlare: ambe due le cose
differiscono per la concordia o disconcordantia. Perciò la concordia è la principal cosa che tiene l’amicitia. Con la concordia le cose piccole crescono, con la
discordia le grandi si disfanno.
L’armonia è fatta per fare consonantia; il cicalare si chiama dove non è consonantia di voci. Gli amici, quando sono concordi, sono simili alla armonia; gli
inimici non concordano e per questo sono simili al tumulto.101
Il gesuita maceratese, oltre a scrivere sull’amicizia, visse intensamente le
relazioni sociali e le curò con assiduità e con grande impegno, secondo i
rigoroso rituale cinese, fino a mettere in gioco la sua stessa salute. Scrive
ancora al fratello: «Di tutte le parti ho molti amici, tanto che non mi lasciano
vivere, e tutto il giorno sto nelle sale rispondendo a vari quesiti».
Il rituale prevedeva che, dopo avere ricevuto una visita, con tanto di
scambio di doni, nel giro di qualche giorno la si ricambiasse recandosi nella
casa del visitatore.
Spesso nelle sue lettere ricorda l’importanza di queste relazioni, anche se
comportavano una notevole fatica dal punto di vista fisico.102
Dal punto di vista pedagogico, l’amicizia come esperienza di vita è una
conquista e il risultato di un processo evolutivo. Il bambino cerca nell’amicizia
un compagno di gioco; il preadolescente uno specchio con cui conoscersi e
confrontarsi; l’adolescente cerca una persona con cui condividere e dialogare; l’adulto un buon compagno di viaggio nella vita.
Certamente, come con altri termini sottolinea anche padre Matteo Ricci,
è necessario differenziare l’amicizia dall’amore. Per amore si intende un legame che unisce due esseri in una relazione profonda, che coinvolge non
soltanto i sentimenti ma anche il corpo. L’amore ha come componente fondamentale un legame fisico, le cui manifestazioni sono diverse dalle manifestazioni dell’amicizia. Certamente anche l’amicizia ha bisogno di gesti per
manifestarsi in maniera umana, ma questo non significa che possiamo giustificare qualsiasi manifestazione affettiva profonda.
Il primo aspetto che caratterizza l’amicizia è il sentimento di parità che
coinvolge gli amici tra loro. Nella vera amicizia non ci sono “gerarchie”
Ibid., n. 11, p. 111.
S. E. Mons. C. Giuliodori, Vescovo di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia
e Presidente della Commissione Episcopale per la Cultura e per le Comunicazioni Sociali, Da
Macerata a Pechino per servire il Signore del Cielo, in Ai crinali della storia. Padre Matteo Ricci
(1552 – 1610) fra Roma e Pechino, cit., p. 30.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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come invece ne esistono nell’ambito delle relazioni familiari. La famiglia,
infatti, ha una struttura gerarchica che deriva dal fatto che i genitori per
esercitare il loro ruolo devono essere adulti e più preparati alla vita di quanto
non lo siano i figli e che la loro funzione di genitori è gerarchizzata fintanto
che i figli hanno bisogno del loro aiuto. Nelle amicizie non c’è vera e propria
gerarchia, poiché non esiste una funzione “specifica” tale da richiedere la distinzione tra chi “dona” e chi “riceve”, ma i vari soggetti sono contemporaneamente “donanti e riceventi” ed è difficile stabilire quali siano i compiti di
ciascuno. Se ci fosse qualche forma di gerarchia questa avrebbe un carattere
prevalentemente “funzionale” non di “dominanza/sottomissione” e può
mutare con il mutare dei ruoli richiesti dalla situazione in atto. L’amicizia è
paritaria tanto che quando un genitore vuole farsi apprezzare per le sue capacità di apertura verso i figli non ha altra espressione che questa: “io e i miei
figli siamo amici”, indicando così di aver abolito le distanze gerarchiche.
Altra caratteristica dell’amicizia è il disinteresse. In realtà, nessuna relazione umana è totalmente disinteressata: ogni legame affettivo è di per sé
interessato, poiché provoca soddisfazione ad entrambe le persone amiche e
stabilisce uno scambio di “beni”, di sentimenti e di comportamenti orientati
verso un fine.
Nell’amicizia con il termine “disinteressato” si intende, allora, un atteggiamento “non egocentrico”. Parlare di disinteresse nell’amicizia vuol dire
indicare il superamento degli interessi narcisistici e il raggiungimento di una
considerazione affettiva, profonda, del valore dell’altro, ponendolo sullo
stesso livello di importanza di se stessi.
A che serve l’amicizia anche nella vita consacrata? C’è chi dice che non
è necessario avere amici; altri si accontentano di amicizie superficiali, transitorie e non sentono il bisogno di approfondire i legami al di fuori di quelli
familiari; altri, invece, sentono profondamente il bisogno di avere degli
amici. L’amicizia ha avuto sempre un gran peso nelle relazioni interpersonali e da sempre appare come una “costante” del comportamento umano.
Essa permette di esprimere e di potenziare il bisogno di parità che è molto
forte in ognuno di noi, e che difficilmente possiamo realizzare nelle strutture
familiari, Comunitarie, sociali, professionali, religiose, culturali e ricreative,
per il fatto che l’umanità è afflitta dal persistente confronto, dal bisogno di
prestigio, dalla subordinazione, dallo sfruttamento e dall’autoritarismo.
L’esperienza dell’amicizia soddisfa pienamente il bisogno di parità e apre
ognuno di noi ad una maggior comprensione reciproca, ad una possibilità
di collaborazione priva di competizioni. Questa esperienza di parità non si
può configurare nei suoi risultati concreti, in quanto si tratta di una realtà puramente psicologica, interiore, profonda, difficilmente esprimibile e
misurabile. Tuttavia sappiamo quanta importanza abbia per la vita di una
persona l’avere sperimentato in forma autentica e duratura il sentimento di
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
parità con i propri simili. Forse non occorre avere molti amici dal momento
che l’amicizia è un’esperienza più qualificativa che quantitativa.103
Attraverso questa linea nell’amicizia si giunge alla com-passione fraterna.
Ci si potrebbe chiedere se la com-passione sia umanamente possibile, se
non vada in senso contrario rispetto alla nostra esistenza basata sulla competizione. La com-passione, in senso pieno, è una dote di Dio.
Per interpretare bene l’atteggiamento di com-passione (usando il termine
tratto dalla fenomenologia – cfr. Edith Stein – e poi ripreso dalla scuola
psicologica di Rogers, in cui si parla di “empatia”), si può dire che l’atteggiamento di “com-passione” non è né la simpatia e neppure una sorta di amore
generico: è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, rimanendo se stessi.
È così la capacità di vivere quello che l’altro sta vivendo, senza però identificarsi con lui, perché altrimenti, se ci si identifica totalmente con l’altro, si
perde il valore di aiuto e di sostegno.
Questa “com-passione” rende particolarmente attenti a quello che l’altro
vive, sente, alle sue vibrazioni interiori. Fa quasi sorgere un “terzo orecchio”, cioè quello che permette di ascoltare quello che l’altro non dice.
Spesso quello che l’altro non dice è più importante di quello che dice.
E allora un atteggiamento di “com-passione”, di reale condivisione, permette di entrare nella vita dell’altro prima ancora che questi abbia parlato;
ed egli l’avverte subito.
La capacità di com-passione è strettamente legata alla maturità affettiva
perché è libertà dalle proprie esigenze e dai propri bisogni e quindi permette
di aprirsi e di accogliere la persona e la sua realtà intima senza perturbazioni.
Mettersi nell’ottica dell’altro non significa confondersi con l’altro perdendosi nel suo modo di percepire ma significa comprendere la sua soggettività ed essergli accanto nel suo modo di percepire che può essere diverso
dal nostro. È comprendere ed accogliere il mondo interiore dell’altro senza
rinunciare al proprio, nella consapevolezza della diversità.
In fondo questo è entrare nell’ottica dei valori, non solo dal punto di
vista intellettuale, ma esistenziale e cogliere l’esistenza dell’altro come unica
e irripetibile davanti a Dio e agli uomini.
L’atteggiamento comprensivo accetta e ama la persona come diversa da
sé e, oltre che dalla libertà, è animato dalla sincerità e dalla fiducia che, trasmesse, aiutano le persone a crescere nella fiducia in se stesse e nelle proprie
possibilità.
Cfr. G. Brondino – M. Marasca, La vita affettiva nei Consacrati, Edizioni Esperienze,
Fossano.
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Linee pedagogiche per essere testimoni della Croce attraverso l’inculturazione: P. Matteo Ricci
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Concludendo, con interesse e consapevolezza, il percorso delle 12 linee
pedagogiche qui indicate, si augura a ciascuno non solo di viverle e trovare
ulteriori percorsi validi, ma anche di cercare, come ha fatto padre Matteo
Ricci, i desideri che su ciascuno di noi ha il Signore del Cielo, per realizzarli
pienamente.
Ciò, nella necessaria dinamica di Croce e di resurrezione.
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L’AZIONE SOCIO-PEDAGOGICA
DEL Santo CURATO D’ARS
ALLA LUCE DELLA CROCE
Paola Barenco*
Premessa
Può essere la vita di un buon cristiano altra cosa che quella di un uomo attaccato
alla croce con Gesù Cristo? Se qualcuno vi dicesse: «Vorrei volentieri diventar
ricco, cosa devo fare?», gli rispondereste: «Bisogna lavorare». Ebbene!, per andare in cielo, bisogna soffrire. Non bisogna mai guardare da dove vengono le
croci: vengono da Dio. È sempre Dio che ci dà questo mezzo per provargli il
nostro amore. Nella via della croce, soltanto il primo passo costa. La paura delle
croci è la nostra grande croce. Ci sono due modi di soffrire: soffrire amando e
soffrire senza amare. I santi soffrivano tutti con pazienza, gioia e perseveranza,
perché amavano. Noi soffriamo con rabbia, dispetto e noia, perché non amiamo.
Se amassimo Dio, saremmo felici di poter soffrire per amore di Colui che ha accettato di soffrire per noi. Voi dite che è duro? No, è dolce, è consolante, è soave:
è la felicità… Soltanto, bisogna amare quando si soffre, e soffrire amando. Colui
che va incontro alla croce, cammina in senso inverso alle croci: egli le incontra
forse, ma è contento di incontrarle: le ama, le porta con coraggio. Lo uniscono
a Nostro Signore. Lo purificano. Lo distaccano da questo mondo. Tolgono gli
ostacoli dal suo cuore e lo aiutano ad attraversare la vita come un ponte aiuta a
passare l’acqua… La croce è la lampada che illumina il cielo e la terra. Bisogna
chiedere l’amore per le croci: allora diventano dolci. Ne ho fatto l’esperienza:
durante quattro o cinque anni sono stato calunniato, contraddetto molto, scompigliato assai. Oh, ne avevo delle croci… ne avevo quasi più di quello che ne
potevo portare! Mi son messo a chiedere l’amore per le croci… allora sono stato
felice. Lo dico sul serio: non c’è felicità che là… La croce! La croce! Fa perdere
la pace? È lei che dà la pace al mondo; è lei che deve portarla nel nostro cuore.
Tutte le nostre miserie provengono dal fatto che non l’amiamo. È la paura delle
croci che aumenta le croci. Una croce portata semplicemente e senza questi ritorni dell’amor proprio che esagerano i dolori, non è più una croce, una sofferenza. La croce è un dono che il buon Dio fa ai suoi amici. Ciò che fa sì che non
amiamo Dio è che non siamo arrivati a quel grado in cui tutto quello che costa
ci fa piacere…1
Paola Barenco, PORA, pedagogista.
G.M. Vianney, Importunate il buon Dio. Pensieri e discorsi del Curato d’Ars, Città
Nuova, 2009, pp. 63-66.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
L’azione socio-pedagogica del santo Curato d’Ars alla luce della Croce
occorre vederla nel contesto del suo essere e sentirsi profondamente sacerdote e, quindi, strumento nelle mani di Gesù, Buon Pastore. Certamente le
sue grandi opere, se da un lato hanno un riscontro nel cambiamento della sua
Parrocchia e in iniziative assistenziali significative, esse hanno un riscontro
ancora maggiore nel lavoro e nel servizio a contatto col cuore e le coscienze
soprattutto dei penitenti.
Un aspetto interessante che delinea in parte il santo Curato fu la tenacia
nel suo impegno, nell’inizio senza vederne i frutti ed in seguito nel lavoro estenuante fino ai limiti della resistenza fisica. Quindi all’inizio vediamo la grande
capacità di solitudine anche nel sostenere le incomprensioni e i fallimenti.
E del resto questa è una caratteristica di chi è chiamato a dedicarsi al servizio del prossimo alla luce dei valori evangelici e soprattutto in una dimensione nascosta che è quella della formazione delle coscienze e del ministero
della consolazione e del perdono.
Lui stesso sapeva e aveva fatto l’esperienza di cosa significhi essere perdonato.
La persona che non vive questa esperienza non è capace di perdonare ed
è rigida nel rapporto col “male” dell’altro, non è capace di compassione, è
più propensa al giudicare.
Vediamo, quindi, alcuni aspetti del servizio del santo Curato d’Ars che
possiamo cogliere anche dalla prospettiva più pedagogica.
1. Il Curato d’Ars e la stima di sé a partire dalla consapevolezza
della propria chiamata
Non cercate di piacere a tutti, non cercate di piacere ad alcuni.
Cercate di piacere a Dio!
(San Giovanni Maria Vianney)
In questo anno sacerdotale siamo venuti a contatto in modo particolare
con questa figura sacerdotale del santo Curato d’Ars conoscendone maggiormente la storia e il messaggio.
Abbiamo incontrato anche le sue vicende umane e tutta la fatica nello
svolgimento del suo ministero in cui credeva profondamente. Normalmente,
in un linguaggio psico-pedagogico affermiamo che non è efficace identificarci totalmente col proprio ruolo, che, nel corso del tempo può cambiare e
quindi destabilizzare la persona nella percezione di sé e, quindi, anche nella
sicurezza di sé.
Il ruolo quindi è importante nel definire la persona, ma non essenziale.
È importante in quanto il ruolo può contribuire a valorizzare le potenzialità
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L’azione socio-pedagogica del santo Curato d’Ars alla luce della Croce
157
della persona, è una modalità in cui la persona creativamente tira fuori i suoi
doni e nel contempo può anche diventare frustrante per qualcuno sentirsi
definito troppo dal ruolo e dal servizio da svolgere, quasi che la propria persona possa essere chiusa lì.
Per il santo Curato d’Ars non è proprio così. Per lui il ruolo e la missione
si identificano perché in Cristo identità e missione coincidono, come ricorda
il Santo Padre Benedetto XVI nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale.
La vicenda di san Giovanni Maria Vianney ci dimostra quanto, in alcune situazioni, il ruolo sia essenziale, e, in un certo senso, costituisca l’identità stessa
della persona che trova forza nei valori che sono insiti nel ruolo. Cari fratelli nel
Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi
il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù,
Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è
espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in
atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera
analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta
certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente
dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria
fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella
soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui
affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: «Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa
prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva
cercarlo quando si aveva bisogno di lui», si legge nella prima biografia.2
Il santo Curato d’Ars credeva profondamente nella propria missione
come una chiamata dall’alto a cui non poteva sfuggire e in cui si appoggiava
quanto maggiormente sentiva la propria inadeguatezza e incapacità nel sostenere ciò che il suo ministero gli proponeva.
Quante volte ha sentito la tentazione della fuga, che poi in qualche momento ha anche tentato, senza riuscirvi!
La consapevolezza dell’essere chiamato per quelle persone lo portava a
“stare” e a svolgere quanto era chiamato nella profonda consapevolezza di
essere a servizio.
Benedetto XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale in occasione del 150°
anniversario del “Dies natalis” di Giovanni Maria Vianney.
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E, in fondo, anche posizioni talvolta forti da lui prese nei confronti
dell’agire morale in alcune manifestazioni sociali dei parrocchiani, non era
altro che l’espressione del grande amore e della fedeltà a quella che sapeva
essere la sua chiamata: portare a salvezza i suoi parrocchiani.
Egli credeva profondamente nella forza del suo sacerdozio, in una fede
profonda nella trasformazione che esso operava in lui. Certamente i valori
erano talmente incarnati ed interiorizzati che veramente diventavano forza e
motivazioni che attraevano e spingevano tutte le sue azioni.
Quindi, quella che in situazioni di immaturità umana potremmo definire come “onnipotenza”, ossia la percezione di sé come capace di salvare il
mondo e gli altri, nel santo Curato era invece la profonda convinzione della
propria incapacità e la consapevolezza della propria chiamata a spingerlo ad
affrontare, a vivere in pieno il proprio ministero nella sua complessità.
La storia ci dice che egli era, praticamente, trascinato dal suo ministero
tanto da avere un “orologio” umanamente impossibile da seguire tanto era
un susseguirsi di momenti di preghiera e di apostolato, soprattutto del Confessionale, lasciando pochissimo alle esigenze primarie della sua persona,
come il cibo e il sonno.
Ecco, quindi la stima di sé del santo Curato: credere profondamente
nella propria vocazione e nel mandato ricevuto da Dio di essere e fare il sacerdote per gli altri, di essere un servo che doveva mettersi completamente a
disposizione dei fratelli e delle chiamate quotidiane che riceveva, soprattutto
nel dare il perdono di Dio ai fratelli.3
3 A. Ballestrero, Il ministero totalizza la nostra vita, in Il cuore del curato d’Ars. Linee di
spiritualità sacerdotale, Elledici, pp. 20-22.
La ministerialità del prete è quindi proprio per sua natura non relegabile alle cose esterne,
ma attraverso di esse deve arrivare a mutare, a trasformare, a trasfigurare la vita del prete
quella del popolo di Dio. Credo che possiamo ispirarci ancora una volta al santo che ci siamo
proposti a modello per questi giorni, il Curato d’Ars. Era un prete, ha faticato mezza vita per
diventarlo, con una tenacia, una fedeltà e una crocifiggente esperienza della sua pochezza,
della sua insufficienza, della sua miseria e della sua poca dovizia di mezzi umani. Era un
prete, era stato folgorato da Cristo, si era abbandonato a lui, aveva capito che lui lo voleva
ministro a servizio e ci si era buttato dentro. Fatto prete, per il Curato d’Ars vivere era esercitare il ministero. La sua stessa povertà umana lo spingeva a questo: non aveva altro da fare
che essere prete. Noi, a volte, crediamo di avere diritto ai nostri hobbies e in questi mettiamo
non solo il tempo, ma la mente e lo spirito, alle volte il cuore. Ma a totalizzare questa identità
– «Io sono sempre e solo un prete, sono sempre e solo un ministro e il ministero è ciò che
mi identifica» – facciamo fatica. Il Curato d’Ars no, l’ha preso sul serio il ministero e avremo
modo di considerare questo prendere sul serio il ministero soprattutto sotto un punto di vista
che per me è il più significativo e prezioso: il ministero è diventato davvero il cammino della
sua santità. Non abbiamo programmi di vita del Curato d’Ars, ma la decisione di abbandonarsi alle esigenze pastorali era il suo programma, era la sua logica estremamente semplice
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Da qui emerge anche l’autentica umiltà che viene, appunto, dalla considerazione dei propri limiti ed anche delle risorse che si hanno. Lui, nella sua
povertà era capace di riconoscere i doni di Dio pur nella coscienza, talvolta
esagerata, della propria incapacità.
Se, in una misura solamente umana, la percezione della propria incapacità può schiacciare e portare all’angoscia ed alla disperazione così come ad
uno stato depressivo, l’interiorizzazione dei valori e l’unione con Dio può
essere veramente riconosciuta come la forza dell’apostolato e della propria
consistenza personale.
L’umiltà è come una bilancia: più ci si abbassa da una parte, più ci si innalza
dall’altra.
Una persona orgogliosa crede che tutto ciò che fa sia fatto bene; vuole dominare
su tutti quelli che hanno a che fare con lei; ha sempre ragione; crede sempre che
le sue opinioni siano migliori di quelle degli altri… Non è così!… Se si domanda
ad una persona umile ed istruita di esprimere il suo parere, questa lo dice con
semplicità, dopodiché lascia parlare gli altri. Sia che abbiano ragione, sia che
abbiano torto, non dice più nulla.
San Luigi Gonzaga, quand’era scolaro, non cercava mai di scusarsi se gli veniva
rivolto qualche rimprovero; diceva ciò che pensava e non si preoccupava più
di quello che pensavano gli altri. Se aveva torto, aveva torto; se aveva ragione,
diceva a se stesso: «Altre volte, però, ho avuto proprio torto».4
ed estremamente unificante, ma anche implacabile. Non esistevano altre ragioni per vivere,
non esistevano altri criteri per scegliere che cosa fare, non esistevano altre ispirazioni per fare
progetti e programmi: era alla mercè del ministero nell’atteggiamento non di chi è padrone,
ma di chi è servo. Questa dimensione totalizzante prendeva il suo tempo e i suoi interessi, era
un atteggiamento inesorabile, implacabile. Pensiamo alle dimensioni del suo confessare. Un
uomo che sta in confessionale dalle quindici alle diciassette ore al giorno. Roba da impazzire.
Non diceva mai di no, quando c’era da esercitare il ministero sacerdotale si sentiva impegnato. Io credo che il modo in cui il santo prete ha inteso il ministero lasciandosi divorare da
esso, ha un qualche cosa non solo di straordinario per l’eroismo della virtù che suppone, ma
forse anche qualcosa di intemperante. Quella del Curato d’Ars era una psicologia esposta ad
estremismi opposti e ad insicurezze risorgenti, ma l’identificazione nel ministero era la sua
forza, la sua sicurezza. Non aveva da scegliere, era scelto. Non aveva da prendere decisioni,
il suo ministero le decisioni gliele presentava ed erano le sue responsabilità pastorali, quelle
consuete, quelle che di solito rendono noiosa la vita del prete: sempre messa, sempre vespri,
sempre sacramenti, sempre catechismo e così via. E poi, tutte le emergenze che, con il progredire della sua vita, sono diventate davvero preoccupanti per lui e intorno a lui. Ebbene, io
credo che sia necessario che ci riflettiamo su.
4 Cfr. http://www.fidesvita.org/index.php/alcune-omelie-del-curato-dars.
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Nella vita e nell’esperienza del santo Curato umiltà, obbedienza e servizio vanno di pari passo.
In lui il servizio era spinto da un profondo senso di realtà e, quindi, dal
sentirsi chiamato da Dio nella realtà.
Nella vita cristiana l’obbedienza è strettamente legata con la dimensione
affettiva. Nell’obbedienza, affetto, volontà, libertà, emozione, convergono
nella scelta prioritaria del valore.
In questo contesto è necessaria un’affettività libera, capace di riconoscere
e gestire i propri bisogni di possesso e di ripiegamento su di sé, capace,
quindi, di scegliere il valore al di là dei condizionamenti che si possono avvertire tanto dall’esterno come dall’interno.
L’obbedienza matura è obbedienza gratuita, che porta la persona a farsi
obbediente per il “bene” del valore in se stesso, per amore del valore e
non per il timore delle conseguenze che possono derivare da una disobbedienza.
Non è così facile questo discernimento così come occorre accettare che
le motivazioni che portano all’obbedienza siano, di fatto, un po’ mescolate,
in cui motivazioni autentiche ed inautentiche si trovano a convivere. Questa
accettazione, naturalmente, non può essere passiva, quanto, piuttosto animata da un continuo lavoro di discernimento affinché le motivazioni possano essere sempre più libere e autentiche.
L’obbedienza per amore del valore, certamente, è un’obbedienza più
forte perché è radicata sui valori alti, che rimangono. Anche se, in fondo,
nella tradizione dei Padri, è riconosciuto un certo valore, relativo, all’obbedienza condizionata dal timore, essa viene intesa non come punto di arrivo ma come una tappa, un passaggio verso una obbedienza che è mossa
dall’amore.
2. Compatire la propria e l’altrui debolezza
San Giovanni Maria Vianney era profondamente convinto della propria
debolezza e della propria fragilità. Era consapevole della grande fatica che
aveva fatto per diventare sacerdote e dei suoi limiti, anche intellettuali. Era
anche convinto che il Signore lo aveva scelto nella sua debolezza e nei propri
limiti personali, per essere strumento nelle sue mani.
Per questo vissuto così interiorizzato e consapevole aveva grande coscienza dell’Amore di Dio nei suoi confronti e quindi sapeva cosa significasse misericordia e compassione.
è interessante sottolineare come diverso fosse il suo atteggiamento nei
confronti dei diversi penitenti: oggi la chiameremmo pedagogia personalizzata, formazione individualizzata.
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Era capace di distinguere chi non ce la faceva da chi era indolente, da
chi credeva che mai sarebbe riuscito a cambiare, da chi pensava che tanto
sarebbe ricaduto.
Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi
veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono
di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina
misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto
al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute,
il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza:
«Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che
si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!». A
chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso
le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento
fosse “abominevole”: «Piango perché voi non piangete», diceva. «Se almeno il
Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!». Faceva nascere il pentimento nel
cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di
Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi,
invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale,
spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: «Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio,
tutto per piacere a Dio... Com’è bello!». E insegnava loro a pregare: «Mio Dio,
fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami».5
L’autentica misericordia e compassione nasce dalla consapevolezza di
aver ricevuto il dono della misericordia.
La maturità umana e nella fede si sviluppa nella coscienza del “non tutto
dovuto”, ma nella consapevolezza dell’aver ricevuto. In questo contesto
l’aver ricevuto e l’aver bisogno sono vissuti dalla persona non tanto come
una diminuzione della propria dignità, quanto piuttosto come il riconoscere
di essere destinatari dell’amore e della misericordia di Dio.
La dimensione dello stupore appartiene, quindi alla persona matura che,
superato lo stupore bambino, attraverso le tappe naturali dell’egocentrismo,
acquisisce un nuovo stupore che esprime una semplicità e umiltà conquistati
attraverso un lavoro su di sé e su un continuo auto-trascendersi per aprirsi a
Dio e al mondo dei valori soprannaturali.
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Benedetto XVI, Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale, cit.
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La nostra debolezza
La tentazione ci è necessaria per farci capire che non siamo niente da noi stessi.
Sant’Agostino ci dice che dobbiamo ringraziare il buon Dio tanto dei peccati dai
quali ci ha preservati, quanto di quelli che ha avuto la bontà di perdonarci. Se
abbiamo la disgrazia di cadere tanto spesso nei tranelli del demonio, è perché
contiamo troppo sulle nostre risoluzioni e le nostre promesse, e non abbastanza
sul buon Dio. È proprio così. Quando niente ci affligge, quando tutto va secondo i nostri desideri, osiamo credere che niente ci potrà far crollare. Dimentichiamo il nostro nulla e la nostra povera debolezza. Diamo le più belle assicurazioni che siamo pronti a morire piuttosto che lasciarci vincere. Ne vediamo
un bell’esempio in san Pietro, che diceva al buon Dio: «Anche se tutti gli altri
ti rinnegassero, quanto a me, non lo farò mai». Ahimè! Il buon Dio, per fargli
vedere quanto l’uomo lasciato a se stesso vale poca cosa, non si servì di re, ma
della sola voce di una serva, che sembrava per di più parlargli in modo assai
indifferente. Prima, era pronto a morire per lui e adesso assicura che non lo
conosce, che non sa di chi gli si vuole parlare. Per dare loro una prova maggiore
che non lo conosce, fa il giuramento. Dio mio, di cosa non siamo capaci, lasciati
a noi stessi! Ci sono di quelli che, a sentirli, sembrano portare invidia ai santi che
hanno fatto grandi penitenza. Credono di poterne fare altrettanto. Leggendo la
vita di qualche martire, saremmo pronti, diciamo noi, a soffrire tutto ciò per il
buon Dio. Tale momento è presto passato, diciamo, per un’eternità di ricompensa. Ma ciò che fa il buon Dio per insegnarci un po’ a conoscerci, o meglio,
che siamo niente, eccolo: permette al demonio di avvicinarsi un po’ di più a noi.
Sentite quel cristiano che, prima, portava invidia ai solitari che vivono soltanto di
radici e di erbe, che prendeva la grande risoluzione di trattare così duramente il
suo corpo… Ahimè! Un piccolo mal di testa, una puntura di spillo ed eccolo che
si lamenta, grande com’è. Si tormenta. Grida. Prima, avrebbe voluto fare tutte
le penitenze degli anacoreti, ed un niente lo dispera. Osservate quell’altro, che
sembra voler dare volentieri tutta la sua vita per il buon Dio, che tutti i tormenti
non riescono a fermare: una piccola maldicenza, una calunnia, anche un viso
un po’ freddo, una piccola ingiustizia che gli viene fatta, un favore pagato con
l’ingratitudine, fa nascere immediatamente nella sua anima sentimenti di odio, di
vendetta, di avversione, spesso al punto di non voler più vedere il suo prossimo,
o per lo meno in modo freddo, con un’aria che ben mostra ciò che succede nel
suo cuore; e quante volte, svegliandosi, ciò costituisce il suo primo pensiero,
che arriva al punto di impedirgli di dormire. Ahimè, quanto siamo poca cosa e
quanto dobbiamo contar poco su tutte le nostre belle risoluzioni!6
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G.M. Vianney, Importunate il buon Dio, cit., pp.121-122.
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3. Cura pastorale della parrocchia
Una liberazione integrale da se stessi sgombera dagli ostacoli e produce
una relativizzazione dei beni materiali per poter stabilire un rapporto adeguato con le cose. Il santo Curato d’Ars era “consistente” perché si sentiva
radicato in Dio.
Il bisogno di sicurezza si colloca tra le necessità psicologiche fondamentali. La persona deve trovare la sua sicurezza interiore nella conoscenza e
nella stima della propria dignità ed attingere da questa fonte anche la sua
dipendenza e libertà d’azione. L’avere sembrerebbe, a prima vista, la migliore fonte di sicurezza. Si scopre, invece, che il ricco ha terrore di perdere
i propri beni. Il possesso di questo tipo trova la sua radice o nella sete di
superiorità o nell’angoscia di fronte all’avvenire sentito come una minaccia.
Crea sentimenti di sfiducia e di lontananza dal prossimo, dal Creatore stesso
e dalla sua Provvidenza…
Allo stesso modo è importante vivere una autonomia dal proprio lavoro
col quale si trasforma la creazione: ogni attività eccessiva genera una schiavitù… Se la persona diventa schiava del denaro o della produzione, non si
sente mai soddisfatta e tale sete la conduce all’identificazione con ciò che
adora. Di qui il bisogno di relativizzarli come se non li possedesse, di usarli
come se non si usassero.
Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua
condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso
o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue
opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai
suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate.
Perciò egli «era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso». Spiegava: «Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente». Quando
si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento:
«Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri». Così, alla fine della vita, poté
affermare con assoluta serenità: «Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!».7
Le cose non devono fermarsi a noi e per noi, ma adempiere la loro funzione di servizio.
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Benedetto XVI, cit.
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Vediamo ora quali possibili rischi da considerare e quali passaggi di maturazione umana sono efficaci per l’acquisizione di un autentico spirito di
povertà.
3.1. Nel santo Curato la povertà e la privazione delle cose diventano dono
Sull’esempio di Cristo che «da ricco si fece povero per farci ricchi della sua
povertà» (2Cor 8,9), la persona che autenticamente vive la povertà mano
mano diventa capace di donare e donarsi. La persona che percorre questo
itinerario di maturazione diventa capace di prendere coscienza della sua dignità e di promuoverla in ogni creatura umana. Per questo le energie del
Santo Curato si prodigano anche nelle opere di carità verso i poveri. Ed
anche la dimensione del tempo dato con amore (anche quando umanamente
lo si potrebbe percepire come “strappato”).
Il “dovere” che oggettivamente era schiacciante e che in lui, anche per
quel senso di incapacità e di inadeguatezza che gli apparteneva, aveva dimensioni anche più schiaccianti, assumeva, alla luce della missione, le caratteristiche di un amore donato e che diventava sempre di più dimenticanza di
sé e operatività per gli altri.
Dare dignità, del resto, genera capacità di autostima, cioè la possibilità di
dare a se stessi una valutazione realistica, sostanzialmente positiva e stabile
(una stima basata sull’avere e sul successo, normalmente svaluta ed induce
senso di colpa ed inferiorità).
Si diventa capaci di stimare l’altro e di fare in modo che la dignità
dell’altro sia promossa anche dando qualcosa di proprio. Il dare non viene
vissuto come una privazione, ma come una espressione di libertà, di amore
oblativo gratuito, di promozione dell’altro.
3.2. In san Giovanni Maria Vianney la povertà diventa condivisione
Anche la condivisione e, quindi, la capacità di partecipare i propri doni
e risorse fa parte di un percorso di povertà. All’opposto del “trattenere”,
il condividere significa percepire che il dare e mettere in comune non è
una perdita ma una maggiore possibilità di arricchirsi nel nome della comunione fraterna. Significa anche stimarsi come capaci di dare e sentirsi
destinatari di qualcosa di ricevuto che va anche comunicato, come scrive
San Paolo:
Vi faccio poi presente, fratelli, il vangelo che vi abbiamo annunciato e che voi
avete ricevuto 2e nel quale state saldi, e per mezzo del quale siete venuti alla sal1
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vezza, se vi attenete a quella parola con la quale ve l’abbiamo annunciato, a meno
che abbiate creduto invano. 3Infatti vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io
ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4che fu sepolto e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture… (1Cor 1,1-8).
In fondo anche il servizio e l’apostolato rientrano in quella dimensione di
povertà e speranza di trasmettere quello che a propria volta si riconosce come
donato a se stessi. Quindi presuppone la capacità di riconoscere quanto si
è ricevuto e i doni che possono fruttificare così come le risorse e potenzialità di cui ognuno, nella propria peculiarità, possiede. Chiaramente questo
aspetto ne mette in luce anche un altro: il trasmettere non significa possedere perfettamente ciò che si dona, ma accettare anche il limite di quanto si
dà…e di questo il santo Curato d’Ars ne aveva una grande consapevolezza.
Questo senso di realtà e di missione così come di operatività portano
san Giovanni Maria ad un discernimento sulla distribuzione del tempo in
modo che vi fosse un equilibrio tra l’apostolato e la preghiera, in quel senso
profondo del limite e del non poter arrivare a tutti e sostenendone, quindi,
la frustrazione.
Se la perfezione è il presupposto del dare allora significa che il servizio
non rientra nel quadro della libertà e della povertà, che è anche accettazione
del limite, ma di una immagine di sé ancora da rafforzare e quindi in una
spinta narcisistica.
In questa direzione va anche la parabola dei talenti (Mt 25,14-30). In
fondo la paura di trafficare è la paura di perdere una sicurezza… Nel contesto dell’accettazione del limite e della propria indigenza creaturale rientra
anche il maturare la capacità di saper chiedere, pur nella consapevolezza di
quanto si può avere e dare. Maturare significa anche trovare il giusto equilibrio tra consapevolezza di avere, dare e domandare aiuto.
Nella pratica della povertà è necessario verificare l’equilibrio tra autonomia e dipendenza, tra il fare da sé e chiedere aiuto, tra il sapere e essere
consapevoli che si può ancora imparare ed apprendere.
Ed è proprio in questa direzione che il santo Curato chiese un sacerdote
coadiutore.
3.3. La formazione delle coscienze
Il santo Curato d’Ars si dedicò moltissimo alla formazione delle coscienze nella sua Parrocchia. Aveva una profondissima consapevolezza di
cosa significasse il “bene” e la Grazia e cosa fosse l’infedeltà a Dio. Lui stesso
era l’immagine del formatore esemplare, che, prima di tutto era capace di
lavorare su se stesso e mettersi in discussione.
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Pur nella consapevolezza dei suoi limiti era risoluto nel portare avanti
quanto ritenesse il “bene” delle anime, anche nel rischio di risultare “impopolare”.
Del resto, l’autentico formatore porta in sé proprio queste caratteristiche
di esemplarità, di coscienza dei propri limiti, di chiarezza negli obiettivi da
raggiungere, dei tempi e della gradualità, in un clima di accettazione e di
misericordia.
3.4. Capacità di ascolto
Il santo Curato d’Ars passava fino a 16 ore nel confessionale. Questo
significava, oltre ad una capacità di sostenere tale fatica anche fisica, la capacità di stare ad ascoltare veramente il cuore dei penitenti che venivano anche
da lontano per avvicinarlo. Ascoltare non solo con l’udito ma con tutta la
persona, affinché questa potesse ricevere quelle parole di perdono donate
da Dio richiedeva la partecipazione di tutta la sua persona e la chiamata a
portare in sé il peso di quanto ascoltava.
Ascoltare veramente significa:
a. Apertura di fronte alla persona con le sue immaturità, i suoi peccati, le
sue fragilità e possibilità di cambiamenti.
b. Flessibilità nell’affrontare cammini diversi dal proprio, nell’adattamento
ai tempi della persona, nella capacità di proporre gli ideali alti e gradualmente acquisibili.
c. Capacità di accogliere la diversità senza scandalizzarsi, aprendo così la
possibilità di un reale cammino di conversione. Accogliere la diversità
significa, prima di tutto accoglierla in se stessi, nella capacità propria di
cambiare e di adattarsi. Essere capaci di accettare la diversità significa
mettersi nella dimensione dell’ascolto autentico senza precomprensioni
e senza pregiudizi, lasciando l’altro libero di esprimersi. Nella rigidità
coesiste anche la repressione che impedisce all’altro di esprimersi. Ma se
non si esprime e si chiude il sacerdote non ha la possibilità di conoscere
e quindi di accompagnare.
d. Acutezza e intelligenza nel cogliere la presenza di motivazioni più profonde inespresse. Questo significa essere attenti alle proprie dinamiche
formative ed alla propria capacità di gestire l’imprevisto così come nel
gestire dinamiche relazionali meno programmate. Nel momento in cui il
formatore, l’educatore, il sacerdote si lascia provocare dalla realtà, non vi
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va dietro passivamente, riflette sui fatti concreti, sulle persone, non si lascia coinvolgere in dinamiche affettive non libere, è abbastanza libero nel
percepire se stesso e l’immagine di sé anche di fronte agli altri e all’Istituzione, può guardare anche alla dinamica formativa ed alle persone stesse
con maggiore serenità, senza la necessità di coprire avvenimenti, persone,
di salvare la situazione.
e. Fiducia in se stesso e nella possibilità altrui di cambiare e di rivedersi. La
fiducia che il formatore ha in se stesso è fondamentale.
f. Accettazione di sé e visione realistica di sé. Chi si occupa di accompagnamento si rende conto che, prendersi cura di qualcuno coinvolge tutta la
propria persona e la propria responsabilità. Occorre preparazione ed un
serio lavoro su se stessi, affinché l’essere accanto all’altro sia estremamente
rispettoso del cammino della persona e del piano di Dio su di lei.
E, del resto il santo Curato d’Ars verificava continuamente se stesso.
Ma per compiere un lavoro su di sé è necessario entrare nella propria
interiorità, affinché l’accompagnamento dell’altro avvenga alla luce della
gratuità, della libertà da sé, dai propri schemi culturali, esistenziali, spirituali, affinché il servizio che si compie non sia una proiezione delle nostre
aspettative sull’altro e su se stessi.
g. Capacità di ridimensionamento personale, di cambiamento, di accettazione
del proprio cammino passato, delle proprie tappe, delle proprie “crisi” e
fughe.
Per tre volte aveva tentato di fuggire dalla sua parrocchia, ritenendosi indegno
della missione di parroco e pensando di essere più un impedimento alla Bontà
di Dio che uno strumento del suo Amore. L’ultima volta fu meno di sei anni
prima della morte. Fu ripreso nel mezzo della notte dai suoi parrocchiani che
avevano fatto suonare le campane a martello. Ritornò allora alla sua chiesa e
riprese a confessare, fin dall’una del mattino. Dirà il giorno dopo: «sono stato
un bambino».8
Ecco, allora, che entrare nella propria interiorità significa esplorare alcuni ambiti che influiscono in maniera significativa nel porsi dinanzi a se
stessi e all’altro. È attraverso un approfondimento di quello che siamo che
è possibile arrivare ad una maturità di relazione che non significa assenza di
problematiche e di conflitti e non significa neanche guarigione da tutte le
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immaturità. La maturità, infatti, trova un fondamento importante nel saper
conoscere e gestire le proprie fragilità orientandole ad un progetto di esistenza in favore di sé e dell’altro.
h. Attenzione al proprio io ideale, attenzione alla tentazione di voler riprodurre delle persone “a propria immagine e somiglianza”.
Ogni persona possiede dei propri tempi e proprie modalità di acquisizione dei valori cristiani. È efficace mettersi in ascolto dei ritmi personali
e delle inclinazioni spirituali della persona per sostenere una crescita che è
rispettosa dell’altro. La formazione non si riduce a riprodurre delle persone
secondo un modello, quanto piuttosto ad aiutare che il modello sia interiorizzato e fatto proprio.
Altrimenti possiamo indurre nelle persone la compiacenza, l’equivoco
che lo stimiamo o diamo affetto se fa, dice e agisce secondo le sue proiezioni
su di noi, cioè su quello che crede sia quello che desideriamo da lui.
Il Curato d’Ars era estremamente paziente e misericordioso, soprattutto
nella seconda parte della sua vita.
In questa direzione è importante anche credere in una possibilità di
accogliere una evoluzione delle persone accettando i tempi di cambiamento e di conversione, come ha fatto il Curato d’Ars. È efficace proporre ideali grandi in una gradualità di comprensione e di acquisizione
in una pazienza che aiuta a non saltare passaggi importanti. Un cammino
apparentemente rapido potrebbe gratificare o illudere. Nella fiducia di
una capacità delle persone di fare dei percorsi, è anche utile realisticamente considerare le tappe. Se vengono frettolosamente saltati dei passaggi, anche nel cammino spirituale, si rischia di costruire un edificio con
delle fondamenta fragili, che non si sono radicate perché non ne hanno
avuto il tempo.
i. Motivazioni umane e spirituali forti. Valori interiorizzati e radicati nella
persona. Accettazione degli sbagli e degli errori.
Il formatore, nel nostro caso san Giovanni Maria che, pur nella difficoltà
e nella fatica, ha accettato se stesso con serenità, in una serenità acquistata
anche nel tormento, che vive i propri valori vocazionali radicati nella propria
vita, sa accogliere il cammino altrui staccato dall’immagine di sé, ossia come
successo o fallimento personale. Questa dimensione è essenziale in quanto
è radicata nello svolgimento del proprio ruolo autenticamente come un servizio a Dio e ai fratelli, in quella libertà di cuore che permette di chiedere,
di proporre, di sostenere con grande pazienza e compassione, distaccati dai
risultati e mirati al bene della persona.
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In questa direzione si colloca anche una serena accettazione dei propri
inevitabili sbagli che, in questo contesto di libertà, generalmente possono
essere rimediabili e non inducono la persona del formatore ad un ripiegamento su di sé, quanto piuttosto a cercare possibili rimedi al proprio errore.
4. Semplicità nel comunicare
Caratteristica della comunicazione del santo Curato d’Ars era la semplicità. Le sue catechesi erano estremamente semplici e traevano sempre spunto
dalla realtà delle persone a cui egli si rivolgeva. Del resto la semplicità nella
comunicazione è un presupposto di base per una comunicazione efficace. La
chiarezza interiore anche di concetti complessi e l’interiorizzazione rendono
possibili una esposizione e spiegazione semplice, adeguate a chi ascolta in
modo che tutti possano accedere alla comunicazione.
Questo significa che chi comunica è staccato dalla propria immagine di
“comunicatore entusiasmante” ed è maggiormente proteso verso chi ascolta,
più che verso se stesso.
Le catechesi del santo Curato potevano essere seguite e comprese da tutti
per la semplicità delle espressione pur nella profondità dei contenuti.
Il buon comunicatore dona anche messaggi profondi semplicemente
anche senza sminuire la profondità del messaggio.
4.1. L’opera più bella dell’uomo è quella di pregare e amare
Fate bene attenzione, miei figliuoli: il tesoro del cristiano non è sulla terra, ma
in cielo. Il nostro pensiero perciò deve volgersi dov’è il nostro tesoro. Questo
è il bel compito dell’uomo: pregare ed amare. Se voi pregate ed amate, ecco,
questa è la felicità dell’uomo sulla terra. La preghiera nient’altro è che l’unione
con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, è preso da una certa
soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a
lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi
di cera fusi insieme, che nessuno può più separare. Come è bella questa unione
di Dio con la sua piccola creatura! È una felicità questa che non si può comprendere. Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però, nella sua bontà, ci ha
permesso di parlare con lui. La nostra preghiera è incenso a lui quanto mai gradito. Figliuoli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende
capace di amare Dio. La preghiera ci fa pregustare il cielo, come qualcosa che
discende a noi dal paradiso. Non ci lascia mai senza dolcezza. Infatti è miele che
stilla nell’anima e fa che tutto sia dolce. Nella preghiera ben fatta i dolori si sciolgono come neve al sole. Anche questo ci dà la preghiera: che il tempo scorra con
tanta velocità e tanta felicità dell’uomo che non si avverte più la sua lunghezza.
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Ascoltate: quando ero parroco di Bresse, dovendo per un certo tempo sostituire
i miei confratelli, quasi tutti malati, mi trovavo spesso a percorrere lunghi tratti
di strada; allora pregavo il buon Dio, e il tempo, siatene certi, non mi pareva
mai lungo. Ci sono alcune persone che si sprofondano completamente nella preghiera come un pesce nell’onda, perché sono tutte dedite al buon Dio. Non
c’è divisione alcuna nel loro cuore. O quanto amo queste anime generose! San
Francesco d’Assisi e santa Coletta vedevano nostro Signore e parlavano con lui a
quel modo che noi ci parliamo gli uni agli altri. Noi invece quante volte veniamo
in chiesa senza sapere cosa dobbiamo fare o domandare! Tuttavia, ogni qual
volta ci rechiamo da qualcuno, sappiamo bene perché ci andiamo. Anzi vi sono
alcuni che sembrano dire così al buon Dio: «Ho soltanto due parole da dirti,
così mi sbrigherò presto e me ne andrò via da te». Io penso sempre che, quando
veniamo ad adorare il Signore, otterremmo tutto quello che domandiamo, se
pregassimo con fede proprio viva e con cuore totalmente puro.9
Cfr. G.M. Vianney, «Catechismo», Catéchisme sur la prière, A. Monnin, Esprit du Curé
d’Ars, Parigi 1899, pp. 87-89.
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5. Lo “stare” col male e la lotta col male10 e il pagare per gli altri
Nel vivere la povertà alla maniera del Cristo rientra non solo l’abbassamento ma anche il prendere su di sé. E talvolta, nell’avvicinare le situazione
di grande fragilità ed anche di male, l’educatore capisce di più la chiamata a
“portare” e condividere la sorte di Gesù che si è fatto peccato, in cui l’abbassamento possiamo immaginarlo come un essere schiacciato dal male perché
lo ha preso tutto sulle sue spalle.
Senza cadere nel bisogno di onnipotenza e, quindi, nella percezione reale
del proprio limite, chi è chiamato ad accompagnare altri è pure chiamato a
Cfr. G.M. Vianney, Rimanete saldi, in Importunate il buon Dio, cit., pp. 72-74.
È nella lotta che proviamo a Dio il nostro amore, e nell’accettazione dei dolori che ci
manda.
C’era una volta una grande santa (credo che sia santa Teresa) che si lamentava con Nostro
Signore dopo la tentazione, e gli diceva: «Dove dunque sei stato, Gesù mio amatissimo, dove
sei stato durante questa terribile tempesta?». Nostro Signore le rispose: «Ero al centro del tuo
cuore, e gioivo nel vederti lottare».
Se siete tentati di superbia, offrite la tentazione per ottenere l’umiltà; (se siete tentati) da
pensieri disonesti (offrite la tentazione) per ottenere la purezza; se è contro il vostro prossimo,
(per ottenere) la carità. Offrite anche la tentazione per chiedere la conversione dei peccatori:
ciò indispettisce il demonio e lo mette in fuga, poiché la tentazione si rivolge contro di lui.
Come il buon soldato non ha paura del combattimento, così il buon cristiano non deve aver
paura della tentazione. Tutti i soldati sono bravi in caserma: è sul campo di battaglia che si
fa la differenza tra i coraggiosi e i codardi. Ecco come egli (il demonio) si comporta di solito
con i peccatori che ritornano a Dio. Li lascia gustare le dolcezze dei primi momenti della
loro conversione, perché sa bene che non ci guadagnerebbe niente: sono troppo fervorosi.
Aspetta qualche mese finché il loro ardore sia passato: poi comincia col far trascurare loro la
preghiera, i sacramenti, li attacca con diverse tentazioni. Poi, vengono le grandi lotte: è allora
soprattutto che bisogna chiedere la grazia di non lasciarsi abbattere. Tre cose sono assolutamente necessarie contro la tentazione: la preghiera per illuminarci, i sacramenti per fortificarci e la vigilanza per preservarci. Il demonio viene soltanto quando perdiamo la presenza
di Dio, perché sa bene che altrimenti non ci guadagnerebbe niente. Non bisogna ascoltare il
demonio che cerca sempre, dopo che ci ha fatto fare il male, di gettarci nella disperazione. Le
prove mostrano chiaramente quanto un’opera sia gradita a Dio. Si dice qualche volta: «Dio
castiga coloro che ama». Non è vero. Le prove, per coloro che Dio ama, non sono castighi,
sono grazie. Le condanne del mondo sono benedizioni di Dio. Soltanto le croci ci daranno
sicurezza nel giorno del giudizio. Quando verrà quel giorno, come saremo felici dei nostri
dolori, fieri delle nostre umiliazioni e ricchi dei nostri sacrifici. Oh, quanto è sapiente e vero
cristiano colui che sa sopportare gli inconvenienti della sua posizione con calma e rassegnazione! È questa la via della santità e della felicità, e il nostro titolo di gloria nei cieli, perché
quaggiù, tutti gli uomini dal sovrano al pastore, dalla gloria del comando all’abnegazione
della dipendenza che è tanto gloriosa dinanzi a Dio, tutti gli uomini soffrono in mille modi
differenti, i ricchi come i poveri, i sapienti come gli ignoranti, i sani come gli ammalati, in una
parola, tutti.
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sostenere questo peso e condividere la profonda povertà del Cristo che si è
“coinvolto” nella vicenda umana con tutto quanto vi è dentro.
Qui l’educatore a sua volta sperimenta la propria povertà nell’aiutare e
anche lo stupore nel vedere il cammino altrui, laddove si poteva aver provato
fatica ed anche incapacità, e ha bisogno di appoggiarsi su Dio, perché in sé
non trova la forza sufficiente. E non si sente però sminuito nel chiedere aiuto
a Dio ma ne sperimenta ancora la fiducia, pur nel limite sperimentato.11
Il santo Curato d’Ars prendeva su di sé il male affinché l’altra persona,
il penitente, potesse sperimentare la forza della misericordia del Signore,
pagava lui stesso in prima persona anche con penitenze fisiche significative.
Questo nasceva dal profondo senso di responsabilità dell’altro ma anche
dalla profonda assimilazione a Cristo e alla sua Croce.
5.1. La dimenticanza di sé
Molti sono i cristiani, figli miei, che non sanno assolutamente perché sono al
mondo…
«Mio Dio, perché mi hai messo al mondo?». «Per salvarti». «E perché vuoi salvarmi?». «Perché ti amo».
Com’è bello conoscere, amare e servire Dio! Non abbiamo nient’altro da fare in
questa vita. Tutto ciò che facciamo al di fuori di questo, è tempo perso. Bisogna
agire soltanto per Dio, mettere le nostre opere nelle sue mani… Svegliandosi
11 Cfr. A. Ballestrero, Il cuore del curato d’Ars. Linee di spiritualità sacerdotale, Elledici,
pp. 43-44.
Al principio c’era anche la drammaticità con cui legava il peccato all’inferno. Ciò lo rendeva duro, amaro, ma comunque l’indifferenza di fronte al peccato di coloro che il Signore
gli aveva affidato non ha mai sfiorato il suo spirito. La sofferenza per il peccato vorrei dire
che era, in fondo, la matrice di questa ministerialità che poi si esprimeva con l’assiduità al
sacramento del perdono. Alla fine della sua vita era totalmente identificato con il confessionale, addirittura con la materialità dell’abitacolo in cui era imprigionato di giorno e di notte.
Poco prima di morire confessò due persone intemperanti e scriteriate che non si arrestarono
neppure davanti a un moribondo. Lui non disse di no, lui doveva confessare. Vivere non era
importante, confessare era essenziale. E più il mondo dilatava il peccato, più lui dilatava gli
spazi di un ministero che era diventato presso qualche confratello un po’ scettico, motivo di
apprezzamenti più o meno rispettosi. Ma lui doveva perdonare. Perdonando viveva, perdonando si consumava, certo, ma di una consumazione che era preludio alla pace. E un aspetto
di questa partecipazione alla redenzione del peccato era la facilità con cui si imponeva una
soddisfazione vicaria: la penitenza dei peccati degli altri la faceva lui e questo, tra l’altro lo
pacificava di certi scrupoli. Peccati così grossi e penitenza così piccole le faceva conciliare attraverso la sua penitenza. Questo patire per il peccatore, questo esitare per il peccato, questo
partecipare alla passione e alla morte del Signore come prezzo di ogni peccato perdonato era
per lui un criterio di vita.
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al mattino bisogna dire: «Oggi voglio lavorare per te, mio Dio! Accetterò tutto
quello che vorrai inviarmi in quanto tuo dono. Offro me stesso in sacrificio. Tuttavia, mio Dio, io non posso nulla senza di te: aiutami!».12
6. Assimilazione in tutto a Cristo Buon Pastore che dà la vita: il dono di
sé alla luce della Croce
In questo itinerario di libertà, Egli diventa, così, veramente “povero” nel
senso biblico, cioè persona che non si appoggia su se stessa, ma sul Signore,
in opposizione al ricco, che è colui che si appoggia su se stesso, sulle sue
possibilità materiali, sull’astuzia o sui suoi meriti di fronte a Dio.
La sicurezza umana viene perfezionata dalla grazia e dalla fiducia nella
Provvidenza. E anche l’umile accettazione della propria indigenza creaturale
porta a scoprire con serenità che Dio è la sicurezza.
Le diverse crisi, preoccupazioni, affanni per le vicende quotidiane, superate convenientemente hanno la funzione di far scoprire finalmente e con
gioia che «il Padre sa quello di cui avete bisogno…». Da qui nasce anche la
dimensione dell’abbandono e dello stupore. E nel grido di Gesù: «Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), vi è tutta la fiducia che
il Padre non lo ha abbandonato, la profonda consapevolezza di essere nelle
mani del Padre.
Il santo Curato d’Ars, nell’epilogo di una vita vissuta all’insegna dell’autentica povertà, nelle luci e nelle ombre, nel successo e nel fallimento, nella
gioia della comunione come nella solitudine, può consegnare totalmente a
Dio la propria vita nell’ultimo atto, dove la morte non è un evento subito ma
un atto supremo e gratuito della propria libertà di darsi senza riserve a Dio.13
Preghiera del santo Curato d’Ars.
Cfr. A. Ballestrero, Il cuore del curato d’Ars, cit., pp. 51-52.
Questo mi pare che sia illuminato splendidamente nella vita del santo Curato d’Ars. La
penitenza di quest’uomo era legata al suo ministero: la fatica sovrumana della sua dedizione
ministeriale, l’inesorabile fedeltà al confessionale che lo demoliva fisicamente. In lui davvero
le proporzioni del ministero erano diventate immolazione, fino alla consumazione. Il suo
tempo era divorato, le sue energie fisiche erano ridotte al lumicino, la sua libertà era scomparsa e la sua dedizione era senza limiti. Il suo vivere era un vero martirio e a questo vivere
così crocifisso aggiungeva poi anche quella porzione di croce che pur non essendo legata direttamente all’esercizio del ministero, gli veniva suggerita dalle esperienze ministeriali. Il peccatore che faceva fatica a convertirsi bisognava convertirlo e allora, mano ai flagelli. Doveva
conservare le energie, doveva essere libero e perciò saltava i pasti. Il suo digiuno è diventato
emblematico, come la sua famosa pentola di patate lessate una volta la settimana, che è ancora
là appesa alla catena sopra il focolare. E ne mangiava due, non tre; alla fine avevano un po’
la muffa ma lui diceva che erano ancora buone! E la fatica che coloro che gli volevano bene
hanno sostenuto perché indulgesse qualche volta a cambiare regime alimentare è davvero
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Egli è “a servizio” fino ala fine, fino all’ultimo respiro, in quella fedeltà
alla vocazione ricevuta, perché, sull’esempio di Cristo «nessuno vada perduto di coloro che mi hai dato» (Gv 17).
La maniera di essere molto bravi, di essere persino santi sulla terra, consiste nel
ricevere tutto come proveniente immediatamente dalla mano di Dio. Sbagliano
coloro che vedono dei nemici e dei cattivi negli altri cristiani, loro fratelli. Gesù
Cristo non fece così, il giorno della sua passione…
La croce è il libro più sapiente che si possa leggere. Coloro che non conoscono
questo libro sono ignoranti, anche se conoscono tutti gli altri libri. I veri sapienti
sono soltanto coloro che lo amano, lo consultano, l’approfondiscono… Quanto
più si è alla sua scuola, tanto più si vuole rimanervi. Il tempo vi passa senza noia.
Si sa tutto quello che si vuole sapere, e non si è mai sazi di ciò che vi si gusta.14
documentata dalla storia. Il rigore di quest’uomo nei riguardi del cibo era inesorabile, come
lo era nei riguardi del sonno. Gli avevano messo un materasso e un giorno si sono accorti
che quel materasso chissà che fine aveva fatto. Sotto uno straccio di coperta aveva messo uno
strato di tralci di vite. Un letto sul quale poi finiva con il non starci, perché diceva che stava
meglio in chiesa davanti al Santissimo Sacramento. Il rigore con cui quest’uomo faceva una
vita penitente e si configurava al suo Maestro in croce, deve dirci qualche cosa. Non diceva
mai basta alle fatiche del ministero, specialmente durante i rigidi inverni di Ars, quando era
divorato continuamente dalla febbre, ma in confessionale la febbre lo lasciava in pace – diceva lui!
14 G.M. Vianney, Importunate il buon Dio, cit., pp. 76-78.
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Aspetti formativi nell’agire sociale,
un “mandato” dalla Croce
Paolo M. Orlandini*
Premessa
Il tema di questo intervento è dato dal suo titolo “Aspetti formativi
nell’agire sociale, un mandato dalla Croce”. La formulazione del titolo indica
come assertivo il fatto che dalla croce si riceva un mandato nell’agire sociale
e nel formare all’agire sociale. La croce forma all’agire sociale, potremmo
dire, è affermato dal titolo stesso dell’intervento. Nel proseguo dunque si
cercheranno di cogliere aspetti formativi che la croce offre per l’agire sociale
e nell’agire sociale, dopo aver accertato il “mandato” che giunge dalla croce
stessa.
1. Un mandato dalla Croce
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre,
Maria di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e
accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:
«Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo:
«Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con se.
(Gv 19, 25-27).
L’icona biblica giovannea sopra riportata della Madre di Gesù ai piedi
della croce del Figlio, permette di cogliere facilmente come dalla croce il
discepolo riceva un mandato, così come la madre riceve un mandato. Si
tratta di un brano breve, solo tre versetti, unico in Giovanni, senza paralleli
nei Sinottici. L’evangelista presenta lo stare di Gesù sulla croce e lo stare
presso la croce di sua madre Maria, del discepolo che Gesù amava, di alcune
altre donne. Si tratta dunque di una scena di gruppo. Alla descrizione della
situazione (Gv 19,25) fa seguito un brevissimo dialogo a tre (Gv 19,26-27a)
fra Gesù, la madre e il discepolo. In questo dialogo Gesù pronuncia parole
indicative che al tempo stesso sono performative. Esse infatti realizzano nei
due interlocutori ciò che dicono. Indicano una realtà di fatto per i due inPaolo M. Orlandini, OSM, dottore in Lettere e in Scienze e Tecniche di Psicologia
della Comunicazione.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
terlocutori di Gesù; una realtà nuova, che prima non era. Maria di Nazaret
è la madre del discepolo. Il discepolo è figlio di Maria di Nazaret. Con le
stesse parole Gesù chiede poi un impegno alla madre e al discepolo. Essi
sono invitati ad agire di conseguenza a ciò che d’ora in poi sono, alla loro
nuova realtà.
È vero che il lettore, spettatore di questa scena sente soltanto le concise
parole che Gesù rivolge alla madre e al discepolo amato. Non sono riportate parole di risposta dei due interlocutori. Ma a ben guardare non sembra
che le parole pronunciate da Gesù richiedano una riposta con altre parole.
Piuttosto sembra che egli chieda accettazione di quanto da lui affermato a
tutti i presenti. Egli chiede un agire consequenziale. Si può affermare che il
silenzio è il tempo della riflessione, constatazione, comprensione e accettazione di quello che vengono ad essere da quel momento i due interlocutori
e consequenzialmente le altre donne presenti e in seguito tutti i discepoli
di Gesù. In qualche modo il silenzio di tutti i presenti è la risposta affermativa, personale e comunitaria, alla richiesta di impegno che consegue all’aver
compreso la nuova propria realtà. La successiva frase dell’evangelista (Gv
19,27b), infatti, è la narrazione di quanto la madre e il discepolo faranno
in seguito. Essi hanno capito quanto è stato loro detto su se stessi e vivono
e agiscono di conseguenza. Ma alla scena sono presenti anche altre donne.
Esse non sono chiamate in causa da Gesù e neppure intervengono spontaneamente. Eppure sono presenti. L’indicazione della loro presenza da parte
dell’evangelista non sembra superflua. Esse sono infatti le due testimoni di
quanto è avvenuto ai piedi della croce. Quanto è avvenuto ha così valore
sociale. Non è solo un fatto personale della madre e del discepolo. Si tratta
di qualcosa che ha conseguenze su altri e che riguarda anche gli altri nel
loro essere discepoli di Gesù, a partire dalle stesse due testimoni. Dunque
il silenzio delle due donne ha valore testimoniale per quanto accade ai piedi
della croce, ma ha anche valore per esse stesse in quanto discepole ed infine
per tutti i discepoli che verranno. D’allora in poi la Madre di Gesù è madre
del discepolo amato, madre di ogni discepolo, madre della comunità dei
discepoli. Così potrà essere chiamata «Madre della Chiesa, cioè di tutto il
popolo cristiano».1
1 Paolo VI, Discorso per la chiusura del terzo periodo del ss. Concilio, Città del Vaticano
21 novembre 1964, in Concilio Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni. Testo ufficiale
e traduzione italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, nn. 22-48 (particolarmente n. 30), pp. 1256-1269.
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Aspetti formativi nell’agire sociale, un “mandato” dalla Croce
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Numerosi e qualificati studiosi hanno individuato e approfondito i significati di cui il breve brano giovanneo è indubbiamente ricco.2 Questa
icona biblica condensa in sé il dono che Gesù fa di sé, nel suo abbassarsi ad
assumere la condizione umana per intero fino alla morte di croce; la misericordia divina che si fa carne fino alla morte redentrice di Gesù, che agnello
immolato toglie i peccati del mondo con il suo sacrificio; lo stare presso la
sua croce di Maria e il suo com-patire con il Figlio; lo stare del discepolo e
delle altre donne e il loro com-patire con Maria e con Gesù; il nuovo essere
di Maria per il discepolo; il nuovo essere del discepolo per Maria; il nuovo
essere di tutti i discepoli nei confronti di Gesù, nei confronti di Maria, ed
infine in rapporto agli altri discepoli e all’intera umanità.
Nel contesto del nostro discorso possiamo dire che dalla croce vengono
al discepolo indicazioni formative dell’agire sociale (sia all’interno della comunità ecclesiale che dell’intera umanità), ma che queste sono precedute
dalla comprensione e dall’accoglienza di quello che Gesù è e di quello che
ciascun discepolo è in se stesso. È nel Gesù che si fa servo e si dona, fino
ad offrire se stesso sulla croce, che trova fondamento l’impegno a servire e
a partecipare alle vicende dell’altro, fino a farle divenire proprie. È nel riconoscerci fratelli di lui che trova fondamento la fraternità umana che supera
quella genetica e quella etnica. È nel seguire le orme di lui che trova fondamento l’esigenza dell’impegno di ciascuno per il bene dell’altro compreso
come bene proprio, come bene comune.
Le parole Gesù pronunciate nel contesto dell’ultima cena come narrata
dall’evangelista Giovanni, dopo la lavanda dei piedi: «Se dunque io, il Signore e il Maestro ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli
uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come
io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15), permettono di inserire l’agire sociale nel
genere del servizio fraterno, costitutivo del discepolo di Cristo, nei confronti
degli altri discepoli e dell’intero genere umano compreso con gli occhi dello
stesso Gesù Cristo.
Ai piedi della croce infatti trova piena evidenza che il discepolato di chi
ascolta le parole del Crocifisso, riconoscendole come la Parola definitiva di
2 Cfr. in particolare A. Serra, Bibbia, in Nuovo Dizionario di Mariologia, S. De Fiores,
S. Meo (edd.), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985, pp. 284-292; Id., Testimonianze
mariane in Luca e Giovanni, in Storia della mariologia. 1 dal modello biblico al modello letterario, E. Dal Covolo – A. Serra (edd.), Città Nuova – Marianum, Roma 2009, pp. 120-131;
Id, Maria, in Temi teologici della Bibbia, R. Penna, G. Perego, G. Ravasi (edd.), San Paolo,
Cinisello Balsamo 2010, pp. 802-811; A. Valentini, Maria secondo le Scritture. Figlia di Sion
e Madre del Signore, EDB, Bologna 2007, pp. 303-324; D.G. Candido, Madre dei discepoli,
in Mariologia, S. De Fiores, V. Ferrari Schiefer, S. Perrella (edd.), San Paolo, Cinisello
Balsamo 2009, pp. 765-773 e l’ampia bibliografia di riferimento in essi indicata.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Dio per l’uomo, non è un fatto privato del singolo. Esso coinvolge il singolo
in un complesso di rapporti interpersonali così profondi ed imprescindibili
che permettono di affermare che il discepolato è sì una scelta personale del
singolo, ma una scelta che colloca il singolo in una comunità di fratelli, la
quale comunità di fratelli ha a sua volta per costituzione e per missione far
divenire propri fratelli tutti gli esseri umani.
Gesù stesso aveva insegnato a farsi prossimo e a prendersi cura di
chiunque, come aveva fatto «un Samaritano» (cfr. Mt 10,29-37), e dopo
la sua resurrezione avrebbe inviato ad evangelizzare «ogni creatura» (Mc
16,15) e a fare «discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19).
San Paolo focalizza efficacemente questa realtà di legami con l’immagine del corpo. Egli dice: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte
membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così
anche Cristo. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò
che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie
membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte
le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra
gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per
la sua parte» (1Cor 12,12.24b-27).
È dalla familiarità che si stabilisce ai piedi della croce fra Gesù, la madre
e il discepolo che può svilupparsi il concetto paolino dell’unità di coloro che
credono in Cristo. Questa realtà unitaria fra tutte le membra del corpo, così
efficacemente illustrata da san Paolo, necessita di un interesse reciproco fra
i discepoli-fratelli, fra i vari membri del corpo, per il bene generale e per il
bene specifico dei singoli (nella gioia e nel dolore, malati e non). Tale necessità, il “prendersi cura” gli uni degli altri, è l’origine dell’onore e della gioia
per ciascuno. Sembra potersi dire che non c’è possibilità di gioia e di onore
per il singolo se egli la ricercasse per se stesso escludendo gli altri o a scapito
degli altri.
Tornando all’icona del crocifisso, dunque, con la madre e il discepolo ai
piedi della croce è possibile affermare che essa non solo manifesta come la
passione di Cristo è di per sé com-passione di Cristo per l’uomo, ma anche
che il Cristo accoglie una forma di com-passione dell’uomo nei suoi confronti e da essa chiede all’uomo un impegno a prendersi cura dell’altro in
una comunità.
Lo stare presso il crocifisso della madre e del discepolo esprime già una
forma di comunità e di agire comunitario. Il rapporto fra la madre e il discepolo per l’identità nuova costituita in loro da Gesù diviene di per sé un
rapporto familiare nel senso dato da Gesù alla sua famiglia («Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre», Mc 3,35) e dunque
comunitario. Per di più l’accettazione di questa nuova identità ha come conseguenza un agire («l’accolse con sé», Gv 19,27).
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Aspetti formativi nell’agire sociale, un “mandato” dalla Croce
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Non è improprio affermare che quell’agire ha una dimensione sociale.
Prima di tutto esso ha una dimensione sociale nell’agire-servire all’interno della
società familiare di coloro che sono già discepoli di Gesù e poi per quel mandato ad agire-servire per quella società familiare da costituire con ogni creatura.
Nell’agire sociale del discepolo è dunque possibile cogliere un’espressione di quell’amore solidale con cui il discepolo di Cristo serve come ha
servito il Maestro e così anche nell’agire sociale si manifesta l’universalità
della salvezza in Cristo.
2. Aspetti formativi dal mandato della Croce
Gli aspetti formativi che si presentano qui, sono delineati a partire
dall’icona biblica giovannea che si è presentata (Gv 19,25-27).
2.1. Riconoscersi chiamati ad essere
Nelle parole pronunciate da Gesù sulla croce è indicata una vocazione
per la madre e per il discepolo. Il Crocifisso chiama ad essere e dona una
identità, che la persona deve poi accettare.
Aiutare a scoprire il proprio nome, la propria identità davanti a Dio è di
per sé compito formativo. Evidenti ne sono le ripercussioni sociali. Questo
tipo di aiuto ha chiara valenza sociale.
Crisi di identità personale, non accettazione della propria identità, paure
a compiere attività fisiche e intellettuali, obiettivi perseguiti anche se fuori
della propria portata, ecc. sono segni di una qualche difficoltà nella comprensione e nella accettazione della propria chiamata.
2.2. Riconoscersi in relazione e nella relazione
La vocazione a cui il discepolo e la madre sono chiamati dal Crocifisso
è di per sé relazionale. Il nome loro dato indica di per sé relazione (di figliolanza e di maternità). Inoltre si può notare che vocazione ed identità
divengono immediatamente chiari ed evidenti proprio nella relazione che
i personaggi stanno vivendo. Non viene detto loro solo di essere madre e
figlio, ma anche di chi (Gesù usa l’aggettivo possessivo per entrambi). Infine
si può notare che è un terzo, un Altro a manifestarlo e che altri (le altre due
donne) ne testimoniano la veridicità.
Aiutare a scoprirsi ed accettarsi non autosufficienti e per ciò stesso non
meno completi è compito formativo. Lo è pure far scoprire il senso dell’ap-
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partenenza a una famiglia/comunità/gruppo sociale. La testimonianza e la
presenza dell’altro può aiutare a chiarirsi meglio su se stessi e sulla imprescindibilità della dimensione sociale dell’uomo.
Mancanza di relazioni, non chiarezza del proprio ruolo in una comunità specifica e reale, possono creare confusione e incertezza nella persona.
Possono far atrofizzare le capacità di una persona e di conseguenza far perdere anche al gruppo la possibilità di usufruirne. Si possono poi ricordare i
casi (patologici) che arrivano alla perdita di contatto con la realtà esterna e
dunque le conseguenti ripercussioni, sia nel proprio vissuto sociale che nella
società/gruppo di appartenenza.
2.3. Riconoscersi inviati
L’identità che la madre e il discepolo assumono ai piedi della croce non
è circoscritta a quell’ora. Essa implica di per sé un futuro e un impegno futuro. Accogliendo la propria vocazione si diventa degli inviati-testimoni. È
possibile affermare che dalla croce viene l’indicazione formativa ad andare e
a testimoniare. È fatto sociale quello di testimoniare. Ha conseguenze sociali
la testimonianza.
È benefica e feconda la testimonianza. Si diffonde nei gruppi e permette
ad essi di svilupparsi e crescere. La diffusione del Vangelo è costellata dalla
testimonianza-martirio di molti discepoli di Gesù.
La testimonianza di vita è richiesta (a volte in modo fin troppo unilaterale)
a chi professa e propone ideali di vita. Al contrario la falsa testimonianza
può creare divisioni interne alla persona, interne al gruppo e fra un gruppo
e l’altro. La mancanza di testimonianza può creare poi malintesi e infondati
convincimenti con conseguenze sulla vita del singolo e delle comunità.
2.4. Stare presso
Il testo dell’icona sopra presentata inizia con un verbo: stare. Al verbo fa
seguito l’indicazione di luogo per indicare il dove dello stare. Queste parole
non sembrano dare solo indicazioni descrittive della scena rappresentata. In
esse è possibile cogliere una modalità di essere dei personaggi. La madre,
il discepolo, le altre donne stanno presso la croce. Non sono lontani. Non
sono fuggiti via. Sono presenti e vicini.
L’aspetto formativo che se ne può trarre, è quello dell’educare a stare, a
stare presso. Il caso specifico è quello di stare presso la croce e dunque di
stare presso il dolore, la vergogna, la pena che la croce porta con sé. Molte
altre possono essere le forme di sofferenza e di difficoltà a cui stare vicino.
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La paura del pericolo può tenere lontani. Può chiudere alla relazione.
Può far costruire con la mente e il proprio sentire idee poco realistiche o del
tutto irrealistiche sugli altri e su di sé. Lo stare permette di conoscere. Lo
stare presso costruisce comunità, gruppo, ecc.
2.5. Portare e trovare conforto
La madre, il discepolo, le altre donne stanno presso un condannato a
morte a cui è già stata inflitta la pena ed è oramai in agonia. Il loro stare
potrebbe essere letto come un gesto di affetto nei confronti del condannato
e come un’attesa della sua morte. Le parole di Gesù aprono ad un futuro di
vita.
È chiaro che lo stare preso la croce non è solo uno stare vicino, ma anche
uno stare per. È uno stare con una finalità. La vicinanza può trasmettere
conforto e sollievo, dall’una e dall’altra parte. Da una parte lo star vicini a
chi soffre può recare conforto al sofferente; dall’altra chi si reca vicino al
sofferente può trarre da lui conforto per se stesso in quel momento e per la
propria vita. Ma qui, nell’episodio della croce, c’è qualcosa di più. Il conforto diventa fecondità. La vicinanza apre alla vita.
Le parole di Gesù aprono alla vita, danno vita a tutti i presenti. Gli aspetti
formativi che si possono cogliere qui sono quelli di imparare ad accogliere
il dolore dell’altro; di imparare a portare conforto e sollievo; di imparare a
ricevere conforto e sollievo. L’implicanza a livello sociale, evidente nell’icona
di riferimento, parte forse dal rapporto interpersonale del singolo con il bisognoso per scoprirsi poi coinvolti entrambi in un rapporto più ampio.
Non sentirsi soli aiuta ad affrontare le difficoltà. Permette così di cercare
soluzioni condivise e di incamminarsi verso esiti positivi comunitari. Pericoloso è invece ritenere di poter affrontare tutto da soli. Così pure limitarsi a
sfruttare la presenza dell’altro ad esclusivo proprio beneficio provoca danni
sociali.
Accettare la possibilità del conforto è un po’ mettersi nella mani dell’altro.
È in qualche modo accettare di non poter bastare a se stessi, in qualche
modo di dipendere dall’altro, senza per questo sentirsi meno se stesso. È
nel suo aspetto più profondo sentirsi parte di un tutto (sociale/comunitario/
ecc.), come lo sono le membra di un unico corpo.
L’accettazione di questa realtà corporativa può risultare più facile a chi
si sente bisognoso e meno facile a chi si sente sano e portatore di conforto;
a chi insomma vede nell’altro quello che è mancante, che è bisognoso di
qualcosa e invece sente se stesso a posto; a chi non riesce a riconoscere la necessità dell’altro. Può ancora risultare difficile a chi fa difficoltà a chiedere.
Portare e ricevere conforto risulta così una forma di solidarietà sociale.
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Può infine trovare riferimento in questo aspetto dell’icona presentata la
formazione alla preghiera comune (affidarsi insieme, ecc.) e alla preghiera
per gli altri (gruppo, comunità, società, ecc.).
3. Croce ed Eucaristia un unico mandato, la stessa formazione
Sposto ora l’attenzione dall’icona fin qui presa come riferimento con l’intento di ricordare il legame fra la Croce e l’Eucaristia. Questo permetterà
di evidenziare un aspetto formativo, cristiano e costitutivamente cristiano,
in qualche modo già indicato dall’icona summenzionata, ma, ritengo, bisognoso di una più esplicita specificazione.
La Costituzione sulla Liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II ci ricorda come «nell’ultima Cena, la notte in cui veniva tradito,
il nostro Salvatore istituì il Sacrificio Eucaristico del suo Corpo e del suo
Sangue, con il quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio
della Croce, e per affidare così alla Chiesa, sua amata Sposa, il memoriale
della sua Morte e Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo
di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, “l’anima è ricolma di
grazia, ci è donato il pegno della gloria”».3
Il Catechismo della Chiesa Cattolica dedica un’ampia sezione al tema del
«memoriale del sacrificio di Cristo e del suo corpo, la Chiesa».4 Fra l’altro
in questa sezione viene ricordato come «L’Eucaristia è anche il sacrificio della
Chiesa. La Chiesa, che è il corpo di Cristo, partecipa all’offerta del suo Capo.
Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua intercessione presso il Padre a favore di tutti gli uomini».5
Dalla lettura di questi passi è possibile afferrare che dalla Croce-Eucaristia viene al credente un’evidenza, quella di essere partecipe dell’offerta
del Capo del corpo, e un mandato sociale, quello di intercedere per tutta
l’umanità.
Nell’icona summenzionata è possibile leggere la partecipazione del discepolo all’offerta del maestro Gesù nello stare del discepolo e della madre
presso la croce. Così pure nella stessa icona è possibile leggere la costituzione di una nuova famiglia fondata sul discepolato e non più sul sangue e
3 Concilio Vaticano II, Cost. sulla Sacra Liturgia. Sacrosanctum Concilium, in Concilio
Vaticano II. Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni. Testo ufficiale e traduzione italiana, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, n. 47, pp. 45-47.
4 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997
(1999 ed. Italiana), nn. 1362-1372, pp. 731-737.
5 Ibid., n. 1367, p. 733.
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dunque su un nuovo tipo di legame di sangue, dato ora dal sacrificio della
croce e non più dalla biologia. E ancora è possibile leggere nella stessa icona
il mandato sociale ad allargare i confini della nuova famiglia di discepoli ad
ogni creatura e a tutti i popoli.
Dunque si possono riprendere qui gli stessi aspetti educativi già indicati
dopo la lettura di detta icona.
Resta forse da evidenziare maggiormente uno degli effetti del legame
Croce-Eucaristia. Si tratta di ricordare la permanente presenza reale del Signore Gesù Cristo nell’Eucaristia e del culto ad essa dovuto ed insegnato
dalla Chiesa. Paolo VI ha avuto modo di riaffermare questo culto, di raccomandarlo ai credenti e di invitare a formare i discepoli di Gesù a questo
culto. Nello stesso tempo egli ha avuto modo di sottolineare il valore sociale
di tale culto. Nel contesto del presente discorso sarà allora possibile cogliere
un nuovo aspetto formativo che viene all’agire sociale dalla croce, quello
dell’educazione al culto dell’Eucaristia e conseguentemente all’adorazione
eucaristica.
Nel brano qui di seguito riportato, da un’omelia di Paolo VI, sono evidenti il concetto del legame fra Croce ed Eucaristia, quello della presenza
reale di Cristo nelle specie eucaristiche, di seguito una riflessione sull’educazione ed infine è affermato il valore sociale del riconoscimento della presenza
reale di Cristo per lo sviluppo e il conseguimento della pace nel mondo.
Dio è con noi! Perché Cristo è con noi! Perché i segni sacrosanti dell’Eucaristia
non sono soltanto simboli e figure di Cristo, o modi indicativi d’una sua affezione, o di una sua azione nei riguardi dei commensali alla sua cena, ma contengono Lui, Cristo, vivo e vero, lo indicano presente quale Egli è vivente nella
gloria eterna, ma qui rappresentato nell’atto del suo sacrificio, a dimostrare che
il Sacramento eucaristico rispecchia in modo incruento l’immolazione cruenta di
Cristo sulla croce, e rende partecipi del beneficio della redenzione chi del Corpo
e del Sangue di Cristo, rivestito di quei segni di pane e di vino, degnamente si
nutre. Così è. Così è. […] Cristo realmente presente nel sacramento eucaristico.
Diciamo questo per godere con voi, figli fedeli, che dell’Eucaristia fate vostro
spirituale alimento, e per confortare la vostra pietà a quel culto autentico, nutrito
di Vangelo e di dottrina teologica, al quale la recente Costituzione conciliare
sulla sacra Liturgia, ci esorta e ci appiana la via. Diciamo questo anche per dissipare alcune incertezze sorte in questi ultimi anni dal tentativo di dare interpretazioni elusive alla dottrina tradizionale e autorevole della Chiesa in oggetto di
tanta importanza. Diciamo poi questo per invitare voi tutti, uomini del nostro
secolo, a fissare la vostra attenzione su questo antico e sempre nuovo messaggio,
che la Chiesa tuttora ripete: Cristo, vivo, e celato nel segno sacramentale che
a noi lo offre, è realmente presente. Non è parola vana, non è suggestione superstiziosa, o fantasia mistica; è la verità, non meno reale, sebbene collocata su
piano diverso, di quelle che noi tutti, educati dalla cultura moderna, andiamo
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esplorando, conquistando e affermando circa le cose che ci circondano, e che,
conosciute, danno il senso delle verità sicure, positive, e, per di più, utili; le verità
scientifiche. […]
L’educazione mentale del nostro tempo abitua il pensiero a certezze concrete e
non superiori alla sua capacità conoscitiva; l’arte del dubbio poi e della critica
negativa, la comodità mentale dell’agnosticismo e dello scetticismo, la facilità
alla negazione, sia speculativa che pratica nei confronti della religione, e forse
una segreta pigrizia, che in fondo agli animi di tanti uomini, un giorno non privi
di retta informazione religiosa e di qualche felice esperienza di chi sia Cristo e
di ciò che valga la sua parola, paralizza ad un dato momento un atto di onesta e
coraggiosa riflessione, tutte queste forme caratteristiche della mentalità e della
cultura moderna arrestano talora l’uomo profano davanti all’annuncio che qui
ripetiamo: Cristo è con noi; e rimettono sulle sue labbra i commenti negativi
degli uditori del grande discorso eucaristico di Cristo a Cafarnao: «Questo discorso è duro; chi mai lo può ascoltare?» (Io 6,60). […]
Notate: è offerta libera a uomini liberi, e, a bene riflettere, liberatrice; l’ha
detto il Signore: la verità, la sua verità vi farà liberi (Io 8,32); è offerta gratuita
e disinteressata, come quella che da un Amore infinito attinge il suo principio
ed il suo fine; è offerta che non umilia la mente dell’uomo, sì bene la solleva
a superiori visioni; è offerta che non disturba l’esercizio suo proprio del pensiero umano, né intralcia nella sua naturale e onesta fatica il lavoro, né arresta
l’attività temporale nelle sue civili conquiste, mentre piuttosto rischiara e conforta l’uomo che riempie la giornata della vita presente di opere degne; è offerta – chi non lo sa? – che non rallenta lo sviluppo sociale, non aliena l’uomo
dalle sue legittime aspirazioni vitali, ma reca con sé l’eterno e lieto messaggio
evangelico, di conforto e di speranza per ogni umano dolore, e di stimolo altresì per ogni doverosa giustizia; è offerta, a cui è connessa davanti a Dio la
responsabilità circa il destino della vita individuale (ricordate: Chi crederà…
sarà salvo; Mc 16,16); e davanti alla storia le sorti della pace nel mondo; offerta
grave e grande, perciò. Accolta, sì, impegna la vita a programma sinceramente
e tendenzialmente magnanimo, ma sempre cristianamente semplice, buono e
pio: la fede è la vita, la fede è salvezza.6
Pochi mesi dopo aver pronunciato l’omelia di cui si sono or ora riportati
alcuni passaggi, lo stesso Paolo VI proseguì la riflessione sull’Eucaristia con
6 Paolo VI, Vivo atto di fede nell’Eucaristia…, Omelia XVII Congresso eucaristico Nazionale d’Italia, Pisa 10 giugno 1965, in Insegnamenti di Paolo VI.III.1965, Tipografia Poliglotta Vaticana, pp. 336-343 (cfr. inoltre www.vatican.va: Paolo VI, Omelie, 1965).
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l’enciclica Mysterium fidei.7 Anche in questa occasione il pontefice ha modo
di riaffermare il valore sociale del culto eucaristico e insieme la necessità di
educare ad esso.
Nei numeri qui di seguito riportati (65-71),8 tratti dalla sezione “Esortazione a promuovere il culto Eucaristico”, Paolo VI citando sant’Agostino
ripropone l’immagine del corpo e dunque delle mutue relazioni, influenze,
responsabilità fra i vari membri che compongono il corpo stesso (66); esorta
chi ha responsabilità (alla lettera i fratelli nell’episcopato, ma non è improprio intendere tale esortazione rivolta a ciascuno ed in particolare a chi ha
responsabilità educative e formative) a formare al culto eucaristico (65);
presenta la dottrina della Chiesa per cui l’Eucaristia è vero centro della vita
cristiana personale e comunitaria (67-69); e quindi ha modo di svilupparne
le seguenti conseguenze: il culto eucaristico muove a sviluppare l’amore sociale (70) e l’unità della Chiesa (71).
65. Vi preghiamo dunque,Venerabili Fratelli, affinché questa fede, che non tende
ad altro che a custodire una perfetta fedeltà alla parola di Cristo e degli Apostoli,
rigettando nettamente ogni opinione erronea e perniciosa, voi custodiate pura e
integra nel popolo affidato alla vostra cura e vigilanza,e promoviate, senza risparmiare parole e fatica, il culto Eucaristico, a cui devono convergere finalmente
tutte le altre forme di pietà.
66. I fedeli, sotto il vostro impulso, conoscano sempre più e sperimentino quanto
dice sant’Agostino: «Chi vuol vivere ha dove e donde vivere: si accosti, creda,
s’incorpori per essere vivificato. Non rinunzi alla coesione dei membri, non sia
un membro putrido degno d’essere tagliato, non un membro distorto da vergognarsi: sia un membro bello, idoneo, sano, aderisca al corpo, viva di Dio a Dio;
ora lavori sulla terra per poter poi regnare nel cielo».
67. Ogni giorno, come è desiderabile, i fedeli in gran numero partecipino attivamente al sacrificio della Messa, nutrendosi con cuore puro e santo della sacra
Comunione, e rendano grazie a Cristo Signore per sì gran dono. Si ricordino
delle parole del Nostro Predecessore san Pio X: «Il desiderio di Gesù Cristo
e della Chiesa che tutti i Fedeli si accostino quotidianamente alla sacra mensa,
consiste soprattutto in questo: che i fedeli, uniti a Dio in virtù del sacramento,
ne attingano forza per dominare la libidine, per purificarsi dalle lievi colpe quo-
7 Paolo VI, Mysterium fidei. Lettera enciclica sulla dottrina e il culto della SS. Eucaristia, Città del Vaticano 3 settembre 1965, in Paolo VI Tutti i principali documenti. LatinoItaliano, Libreria Editrice Vaticana 2002, pp. 252-255 (cfr. inoltre www.vatican.va: Paolo VI,
Encicliche, 1965).
8 Ibid., pp. 252-255.
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tidiane e per evitare i peccati gravi, ai quali è soggetta l’umana fragilità». (67)
Durante il giorno i fedeli non omettano di fare la visita al SS. Sacramento, che
dev’essere custodito in luogo distintissimo, col massimo onore nelle chiese, secondo le leggi liturgiche, perché la visita è prova di gratitudine, segno d’amore e
debito di riconoscenza a Cristo Signore là presente.
68. Ognuno comprende che la divina Eucaristia conferisce al popolo cristiano
incomparabile dignità. Giacché non solo durante la offerta del Sacrificio e l’attuazione del Sacramento, ma anche dopo, mentre la Eucaristia è conservata nelle
chiese e negli oratori, Cristo è veramente l’Emmanuel, cioè il «Dio con noi».
Poiché giorno e notte è in mezzo a noi, abita con noi pieno di grazia e verità:
(68) restaura i costumi, alimenta le virtù, consola gli afflitti, fortifica i deboli, e
sollecita alla sua imitazione tutti quelli che si accostano a lui, affinché col suo
esempio imparino ad essere miti e umili di cuore, e a cercare non le cose proprie,
ma quelle di Dio. Chiunque perciò si rivolge all’augusto Sacramento Eucaristico
con particolare devozione e si sforza di amare con slancio e generosità Cristo che
ci ama infinitamente, sperimenta e comprende a fondo, non senza godimento
dell’animo e frutto, quanto sia preziosa la vita nascosta con Cristo in Dio; (69)
e quanto valga stare a colloquio con Cristo, di cui non c’è niente più efficace a
percorrere le vie della santità.
69. Vi è inoltre ben noto, Venerabili Fratelli, che l’Eucaristia è conservata nei
templi e negli oratori come il centro spirituale della comunità religiosa e parrocchiale, anzi della Chiesa universale e di tutta l’umanità, perché essa sotto il velo
delle sacre specie contiene Cristo Capo invisibile della Chiesa, Redentore del
mondo, centro di tutti i cuori, per cui sono tutte le cose e noi per lui. (70)
70. Ne consegue che il culto Eucaristico muove fortemente l’animo a coltivare
l’amore «sociale», (71) col quale si antepone al bene privato il bene comune; facciamo nostra la causa della comunità, della parrocchia, della Chiesa universale;
ed estendiamo la carità a tutto il mondo, perché dappertutto sappiamo che ci
sono membra di Cristo.
71. Giacché dunque, Venerabili Fratelli, il sacramento Eucaristico è segno e
causa dell’unità del Corpo Mistico e in quelli, che con maggior fervore lo venerano, eccita un attivo spirito «ecclesiale», non cessate di persuadere i vostri
fedeli che, accostandosi al Mistero Eucaristico, imparino a far propria la causa
della Chiesa, a pregare Dio senza intermissione, a offrire se stessi a Dio in grato
sacrificio per la pace e l’unità della Chiesa; affinché tutti i figli della Chiesa siano
una cosa sola e abbiano lo stesso sentimento, né ci siano tra di loro scismi, ma
siano perfetti nello stesso sentimento e nello stesso pensiero, come vuole l’Apostolo; (72) e tutti quelli che non sono ancora uniti con perfetta comunione con
la Chiesa Cattolica, in quanto sono da essa separati, ma si gloriano del nome
cristiano, quanto prima con l’aiuto della divina grazia arrivino a godere insieme
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con noi di quella unità di fede e di comunione, che Cristo volle fosse il distintivo
dei suoi discepoli.9
A conclusione della lettura di questi testi è possibile affermare che dalla
Croce e dall’Eucaristia, viene un unico mandato, la stessa formazione.
Inoltre è possibile cogliere quale aspetto formativo nell’agire sociale quello
del culto eucaristico. Esso è meno evidente di altri, in cui è maggiormente
palese l’agire sociale, ma non meno fondamentale, anzi potremmo dire,
dal punto di vista cristiano, fondativo e propulsivo. Esso da fondamento e
muove all’agire sociale.
4. Appendice. L’agire sociale nella pastorale di un parroco: sant’Antonio
Maria Pucci, o.s.m.
In questo contesto ritengo opportuno presentare la figura di un santo
religioso e presbitero, sant’Antonio Maria Pucci, dell’Ordine dei Servi di
Maria. Egli seppe fare del suo agire pastorale un agire sociale. Dal suo agire
pastorale è possibile trarre aspetti formativi nell’agire sociale.
Antonio Maria Pucci nacque a Poggiòle (Pistoia), nel 1819. All’età di
18 anni entrò a far parte dell’Ordine dei Servi di santa Maria. Ordinato
presbitero nel 1843, fu inviato a Viareggio nella parrocchia di Sant’Andrea
apostolo di cui fu nominato parroco dopo tre anni. In essa esercitò il suo
ministero fino alla morte avvenuta nel 1892. I suoi parrocchiani lo chiamarono affettuosamente “il Curatino”. Fu canonizzato nel 1962 da Giovanni
XXIII.10
È possibile parlare di questo santo a partire dall’icona biblica giovannea
(Gv 19,25-27) della Madre di Gesù ai piedi della croce del Figlio, che ha
fatto da guida alla presente riflessione.
Il culto all’Addolorata,11 la Madre di Gesù presso la croce del Figlio, è
grandemente diffuso nel secolo in cui vive il Pucci. L’Ordine a cui egli appartiene nel 1792 la scelse come “patrona principale”. È facile comprendere
come per il Pucci sia “familiare” rivolgersi a lei. Egli, si può dire, la prese
Ibid., Esortazione a promuovere il culto eucaristico, pp. 252-255.
Per la biografia del Pucci cfr. Paolo Orlandini, Notizia biografica, in Sant’Antonio
Maria Pucci, I.M. Calabuig (ed.), Edizioni Marianum, Roma 2004, pp. 39-78 e l’ampia informazione bibliografica contenuta nel volume.
11 Cfr. su questo tema S. Maggiani, Addolorata, in Nuovo Dizionario di Mariologia, cit.,
pp. 3-16; M.M. Muraro, M.M. Pedico, Addolorata, in Mariologia, cit., pp. 6-16.
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come propria madre. La indicò come madre anche ai suoi parrocchiani
sempre, dal suo primo discorso come parroco, fino all’ultimo suo respiro.
In un’omelia il Pucci presenta l’Addolorata in questo modo: «Sul Calvario il
moribondo Gesù ci raccomandò a Maria sua Madre nella persona del diletto
Giovanni, e a lei ci lasciò come figli; ed ella ci accettò in suoi figli, e come tali ci
ama, ci guarda, ci difende. E come tali da noi ne allontana quanto ci può recar
nocumento; mitiga le nostre pene e stilla ne’cuori amareggiati il dolce balsamo
delle celesti consolazioni… Temiamo noi forse esser rigettati da lei? Ah, non
temiamo fratelli, perché in Maria niente vi è di austero, ma tutto spira in essa
grazia e amore! In essa tutto è dolcezza, pietà e misericordia».12
«Tutta la nostra fiducia è riposta in Dio e nella protezione della Madonna Addolorata». Queste parole di Antonio Maria Pucci, ripetute in molte occasioni a
frati e parrocchiani, esprimono in sintesi la spiritualità di quest’uomo. La figura
dell’Addolorata fu sua immagine conduttrice e volle che lo divenisse per tutti i
frati e il popolo a lui affidati. Come testimoniò il Servo di Maria p. Ducceschi
«la devozione alla Madonna, specialmente Addolorata, fu una cosa tutta speciale
nella vita del Padre Pucci... fino all’ultima malattia, nel delirio della febbre, ripeteva: Vi raccomando la Madonna Addolorata».13
Da questo legame familiare con l’Addolorata vissuto dal Pucci e insegnato a vivere a quanti gli erano affidati scaturiscono le sue numerose azioni
sociali.
Si può dire che egli stette con l’Addolorata presso le croci dei suoi parrocchiani e di molti altri bisognosi della città e dei dintorni.
Viveva in una città di mare. L’andar per mare era una delle principali
attività della gente del posto. I pericoli del mare erano all’ordine del giorno.
Egli seppe star vicino a chi andava per mare e a chi restava a casa ad spettare. Nella preghiera seppe trovare un elemento di coesione sociale, sentito
fortemente dalla sua gente. Fra i suoi contemporanei c’è chi ricorda che
«quando il mare era in burrasca egli faceva scoprire il simulacro della Madonna Addolorata e suonare le campane per radunare il popolo a pregare».
Il legame con l’Addolorata era talmente sentito che fra quella gente di mare
che a bordo delle navi tutti avevano l’immagine dell’Addolorata.14
Gli anni del parrocato del Pucci sono gli stessi in cui si scopre in Europa l’utilità delle cure elioterapiche. Egli seppe cogliere la validità di una
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P. Orlandini, Notizia biografica, cit., pp. 69-70.
Ibid., p. 69.
Ibid., pp. 70-71.
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cosa nuova e con il medico fiorentino Giuseppe Barellai dette vita alle colonie marine per la cura dei bambini scrofolosi. Prima della costruzione e
dell’apertura dell’apposito Ospizio nel 1867 il Pucci fece ospitare i bambini
nella casa delle suore che si erano costituite in comunità sotto la sua guida
spirituale nella sua parrocchia. Le suore arrivarono ad accoglierne fino a 245
l’anno.15
Un altro modo di cogliere la validità di iniziative che non partivano da lui
e di lasciarvisi coinvolgere fu quello di iscriversi all’Arciconfraternita della
Misericordia, sorta a Viareggio una ventina d’anni prima del suo arrivo, allo
scopo di assistere malati, moribondi e defunti non solo con la medicina, ma
anche con la religione. Anche lì egli si fece samaritano del suo prossimo. In
questo modo egli sosteneva un’associazione laicale di ispirazione cristiana
(costituitasi per la prima volta a Firenze nel secolo XIII) con la sua partecipazione e indirettamente con il suo esempio indicava ai suoi concittadini la
validità di tale iniziativa.
Molte altre furono le intuizioni pastorali a chiara valenza sociale di questo
parroco. Creò numerose Associazioni parrocchiali per le diverse fasce di età
e a seconda delle necessità materiali e spirituali: per l’assistenza spirituale
e materiale dei bambini (Compagnia di san Luigi Gonzaga); per la gioventù
maschile (Pia unione dei figli di san Giuseppe); per le madri cristiani (Congregazione delle Madri cristiane); per l’istruzione cristiana dei parrocchiani
(Congregazione della dottrina cristiana); per la apertura alla dimensione
missionaria (Opera della propagazione della fede); per incrementare l’adorazione eucaristica e la pratica dei sacramenti (Compagnia del Santissimo Sacramento); per l’assistenza dei poveri (Conferenza di san Vincenzo de’ Paoli).16
In tutte queste opere è intuibile un intrinseco valore sociale, ma anche
una formazione all’impegno sociale. Le parole rivolte ai componenti di
una di queste associazioni lo manifestano maggiormente e mostrano anche
quanto il Pucci stesso si sentisse coinvolto in questo agire sociale.
Egli si rivolse loro così:
Mi siete compagni nella mistica vigna del Signore, dal momento che vi affaticate
non solo per il bene di questa parrocchia, ma anche per quello della nostra città.
Voi siete i veri angeli della carità, che recandovi ogni settimana al domicilio dei
poveri, cercate di sollevarne le miserie materiali e insieme anche quelle morali...
Oh, quante povere famiglie vi ringraziano e vi benedicono, o figli eletti di san
Vincenzo, e quante preghiere innalzeranno al divino Maestro, che era il padre
dei poveri, l’aiuto degli orfani e il protettore di quelli che piangono. La vostra
15 16 Agire_IB.indd 189
Ibid., pp. 66-67.
Ibid., pp. 61-64.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
nobile missione, o miei cari... è quella che più si avvicina al colle delle Beatitudini, là dove Cristo disse: «beati i poveri... beati quelli che piangono».17
L’impegno del Pucci per alleviare le difficoltà materiali sia di quanti si
rivolgessero a lui direttamente, sia di quanti egli ne venisse in qualche modo
a conoscenza è abbondantemente testimoniato.
Nel suo parlare e nel suo operare sono evidenti il desiderio e la consapevolezza di poter e dover essere di aiuto e sostegno a chi si trova nel bisogno.
Inoltre gli è chiaro che la sua opera pastorale non può essere disgiunta da
un’opera sociale, e lo ricorda ai suoi collaboratori nelle opere di carità con
queste parole: «È ben difficile parlare di religione e di virtù cristiana, con la
speranza che le parole siano efficaci, a chi ha fame ed a chi vive troppo assillato dalle preoccupazioni per il pane quotidiano, incerto e scarseggiante».18
L’agire del Pucci in questa direzione è confermato dalle testimonianze
raccolte nel processo di canonizzazione, nelle quali si può leggere: «Confortava i poveri, gli afflitti, e gli infermi e, per la sua fiducia in Dio, benché
povero, faceva molte elemosine, poiché le persone facoltose avevano tanta
fiducia in lui che gli davano a larga mano, sicuri che i danari andavano ai
poveri, ed erano tante le elemosine e così sconfinata la sua carità, che i denari
sembrava che gli si moltiplicassero nelle mani, e così gli altri mezzi... quando
non aveva che dar loro, bastava che aprisse bocca e otteneva per loro dai
ricchi quello che voleva»; «Aveva un amore speciale per i poveri, e più di
tutto per quelli vergognosi: li aiutava con elemosine di benefattori che lui
solo conosceva, ma questi dovevano esser molti o molto generosi, giacché
egli non rimandava mai a vuoto nessun povero».19
Numerosi episodi di questo “amore speciale” per i poveri e sofferenti
sono stati testimoniati.
Un terziario Servo di Maria, il falegname Raffaele Ramacciotti, ha verificato di
persona come il Pucci giungesse davvero anche a togliersi di dosso il suo per
darlo ai poveri, infatti «un giorno trovato un povero che, mostrandogli i calzoni
tutti laceri, gli chiese due lire per comprarseli nuovi, egli, non avendo denari da
dargli, lo fece aspettare in strada, e, recatosi in convento, si tolse i calzoni nuovi
che aveva indosso, fatti da pochi giorni e, messosi quelli vecchi che aveva in disparte, portò quelli nuovi al detto povero».
17 18 19 Agire_IB.indd 190
Ibid., pp. 63-64.
Ibid., p. 53.
Ibid., pp. 53-54.
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Aspetti formativi nell’agire sociale, un “mandato” dalla Croce
191
Il Servo di Maria p. Domenico Manfredi ha testimoniato di come «una signora
di Torino avendo veduto la tonaca di lui logora rattoppata, gli lasciò i denari per
farsene una nuova. Ma egli preferì dare i denari ai poveri della parrocchia. Ritornata la signora dopo alcuni giorni, e vedendolo vestito con la medesima tonaca,
si meravigliò e alle sue richieste ebbe la pietosa confessione di aver distribuito
ai poveri i denari ricevuti. Allora essa preferì recarsi dal sarto e pagare da sé una
tonaca nuova».
La signora Giulia Ghieselli Giorgetti, figlia di un sacrestano della chiesa di
sant’Andrea era a conoscenza di come il Pucci «aiutava i poveri in tutto quello
che poteva, e anzi bisognava che in convento lo tenessero quasi d’occhio, perché
se la sera avanzava del pane, la mattina non c’era più». La stessa signora Ghieselli
Giorgetti ha testimoniato che «qualche volta per non far conoscere troppo, dava
segretamente, gettando dalla finestra all’insaputa degli altri, volendo che non si
sapesse il bene che faceva; ... s’industriava di occultare quanto più poteva le sue
elemosine, e quando andava dagli ammalati, era solito mettere le elemosine sotto
il loro guanciale, senza dire nulla al malato; poi, andando via, diceva che l’ammalato aveva bisogno di essere cambiato o cose simili, tanto perché trovassero
il denaro».20
Lo stare presso la croce di malati e moribondi fu per il Pucci un impegno
quotidiano, con una modalità assidua e paterna e molti l’hanno potuta constatare di persona. Anche qui le testimonianze sono concordanti.
Il Servo di Maria p. Eugenio Poletti sapeva che «tutte le sere visitava i malati, i
quali lo ricevevano molto volentieri». Similmente il canonico di Lucca don Ludovico Rossi testimonia che «per i malati correva di giorno e di notte, anche col
pericolo della sua salute». Il farmacista Ulisse Michetti afferma che «non conosceva né cibo, né sonno, li assisteva lungamente senza stancarsi mai... pregando o
da solo o insieme con essi». Il commerciante Pietro Larini ricorda come «i malati
stessi cercavano lui, perché ci avevano una speciale fiducia».
Anche il parrocchiano Antonio Del Pistoia, priore della Compagnia dell’Addolorata, volle testimoniare che «era sempre pronto a tutte le ore, lasciava il
desinare a mezzo, stava lungamente presso di loro, qualunque malattia avessero.
Specialmente in tempo del colera del 1854-55, ricordo che non solo era pronto
ed assiduo ad assistere spiritualmente i colerosi, ma si recava nelle case anche la
sera dalle dieci alle undici a cercare del granturco e altra roba per le famiglie bisognose; insomma in quel tempo lì fece una vita che non l’ha fatta mai nessuno.
E oltre il resto cercava anche danaro allo stesso scopo».21
20 21 Agire_IB.indd 191
Ibid., pp. 54-55.
Ibid., pp. 57-58.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Un particolare momento in cui il Pucci si fa vicino a chi è nel bisogno è
infatti, come detto poc’anzi nell’ultima testimonianza riportata, quello della
diffusione del colera negli anni 1854-1856.
Viareggio fu colpita da una violenta epidemia di colera fra il 1854 e il 1856. Tutta
la comunità dei Servi di Maria si prodigò nell’assistenza dei colerosi, con l’aiuto
del priore provinciale, p. Domenico Guidi, di altri due frati giunti da Firenze col
dott. Tito Nespoli. Del Curatino le testimonianze affermano ancora che passava
infaticabilmente da una casa all’altra. Non si concedeva un attimo di riposo.
Di notte dormiva vestito sopra una branda che aveva fatto mettere in archivio
parrocchiale, la stanza più vicina alla porta d’ingresso del convento, per esser
pronto ad ogni chiamata. In questo modo «operò portenti di carità, con manifesto pericolo di rimanere vittima del micidiale contagio, confortando a ben morire i colpiti, servendoli ancora come infermiere e profondendo dovunque parole
d’incoraggiamento e quanto capitavagli fra mano per soccorrere i bisognosi». A
chi gli faceva notare in quel periodo che si strapazzava troppo, rispondeva «Non
è necessario aver vita lunga, ma necessario approfittare dell’ora che Dio ci dà,
per fare il proprio dovere».22
Si tratta di un operato dall’indubbio valore sociale che egli compie in
prima persona, ma anche coinvolgendo altri, in diversi modi: alcuni inviati
ad aiutare, altri accolti o chiamati ad essere benefattori tramite le sue attività.
L’aspetto formativo che immediatamente emerge da questo operato è
quello dell’educare l’uomo ad essere compartecipe del bisogno dell’altro e
a prodigarsi per quanto possibile per il bisognoso. Ma questo operato è gravido anche di una ulteriore conseguenza positiva. Questo operato migliora
le condizioni di tanti singoli e dunque di un popolo (parrocchiale, cittadino,
ecc.) e permette di comprendere come nel bene comunitario trovi piena
attuazione e sviluppo il bene personale. È un aspetto formativo di non secondaria importanza quello di educare a sentirsi parte di un tutto in cui la
solidarietà e il conforto possono esprimersi e diffondersi.
La presente riflessione ha preso avvio dall’icona biblica della madre ai
piedi della croce del figlio con il discepolo e le altre donne (Gv 19,25-27).
Dopo aver riletto alcune pagine della vita di questo religioso, parroco a Viareggio per quasi cinquant’anni, si può affermare che sant’Antonio Maria
Pucci l’ha meditata profondamente, ne ha tratto nutrimento per la propria
formazione e l’ha indicata a modello ai suoi parrocchiani. Anche l’arte l’ha
sottolineato. Infatti la raffigurazione iconografica più tipica e diffusa di
22 Agire_IB.indd 192
Ibid., p. 58.
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Aspetti formativi nell’agire sociale, un “mandato” dalla Croce
193
sant’Antonio Maria Pucci è proprio quella in cui il religioso indica al popolo
il simulacro dell’Addolorata.
La fecondità dell’agire sociale del “Curatino” proseguì anche dopo la
sua morte. Anch’essa divenne formativa per il popolo che lo aveva conosciuto ed anche per chi vi incappò per lavoro, come il corrispondente del
“Corriere toscano” che scrisse in quell’occasione: «una folla immensa si
contendeva la fortuna di penetrare nella stanza... e tutti uomini e donne,
vecchi, fanciulli, si accostavano al cadavere per baciarne il volto, le mani, i
piedi, con tale espressione di affetto e di dolore profondo, che mi toccava
l’anima».23
La validità sociale dell’agire del Pucci come discepolo di Cristo crocifisso
e della sua Madre Addolorata, ai piedi della croce, fu riconosciuto anche dai
non credenti.
Il comune di Viareggio era retto nel 1892 da una amministrazione che in base
ai più recenti studi può essere definita «a composizione numericamente maggioritaria liberal radicale, con una minoranza numerica costituita da liberal moderati e da apertamente cattolici». Non mancò questa giunta di riconoscere le
doti umane del parroco di sant’Andrea, perché, come fu scritto nel manifesto
fatto affiggere in città, «l’ingratitudine non è pianta che alligni nel nostro suolo»,
invitando tutti i cittadini «ad accompagnare la Salma del benemerito Estinto
all’estrema dimora, ne sia questo l’ultimo tributo del nostro dolore e del nostro
affetto a chi dobbiamo una riconoscenza imperitura».
Il sindaco, Edoardo Alessandro Tomei, un capitano marittimo, ripetutamente
sindaco di Viareggio dal 1890 al 1915, nella riunione della Giunta, tenutasi il
13 gennaio riferì della morte del Pucci facendo presente «che, prescindendo
dal carattere di sacerdote cattolico, il P. Pucci, come uomo, fu benemerito del
Paese inquantoché la di lui vita fu un apostolato continuo ed infaticabile di umanità e beneficenza; che egli meritò lodi ed encomi quando ancora giovane negli
anni 1854-1855 e 1856, con zelo esemplare si prestava alla cura dei colpiti dal
morbo colerico, ch’egli fu sempre presente laddove era un dolore da lenire, una
vertenza ed un giudizio da comporre, esempio sempre di vera virtù. Che Egli,
mai occupandosi di politica, ne lasciò il compito a chi doveva, esempio ancora
del come il Clero dovrebbe comportarsi nel civile consesso. Che Egli riscosse la
generale stima e benevolenza».
Le deliberazioni di quel giorno della Giunta viareggina furono la nomina
all’unanimità a «cittadino benemerito» del Pucci, la chiusura di scuole e negozi
in segno di lutto cittadino, la partecipazione di tutto il consiglio al trasporto
funebre «col gonfalone e la musica cittadina», la concessione della sepoltura
23 Agire_IB.indd 193
Ibid., p. 73.
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194
L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
distinta, «la prima tomba d’onore», nella chiesina del cimitero comunale: «distinzione speciale accordata all’uomo veramente benemerito del paese».24
Le parole dei responsabili dell’amministrazione cittadina dimostrano la
validità sociale dell’agire del Pucci. Dalle stesse parole si può dedurre che
durante l’arco degli anni della sua pastorale-agire sociale fu lasciato fare, fu
in qualche modo se non sostenuto almeno non impedito di agire da parte dei
responsabili della cosa pubblica. Inoltre si può leggere in quelle parole il nucleo della fecondità dell’agire sociale di questo parroco anche nei confronti
di coloro che non credono. Il suo vivere come discepolo di Cristo crocifisso
e come figlio della sua Madre Addolorata, risulta così nel suo insieme ricco
di elementi formativo nell’agire sociale.
24 Agire_IB.indd 194
Ibid., pp. 74-75.
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L’ECONOMIA DI COMUNIONE ISPIRATA
DA CHIARA LUBICH E
L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FRATERNITÀ
Alberto Frassineti*
Introduzione
Il progetto “Economia di Comunione nella libertà” (EdC) si inserisce in
quel filone di esperienze che ricercano soluzioni capaci di coniugare le esigenze di mercato con quelle solidaristiche, superando così quella concezione
tradizionale di economia, che ha come primo e solo obbiettivo il profitto
e proponendo un modello economico basato sulla persona in rapporto di
reciprocità con gli altri.
Ogni concezione dell’agire economico è certamente il frutto di una cultura specifica e di una precisa visione del mondo. Quindi per comprendere
l’economia di comunione occorre innanzitutto tenere presente l’esperienza
spirituale e di vita da cui è stata originata, un’esperienza che ha al suo centro
il carisma dell’unità e come protagonista una donna del nostro tempo,
Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari.
Fra le intuizioni fondamentali e più feconde di Chiara Lubich vi è stata
la consapevolezza che il carisma dell’unità è necessario per realizzare quella
«spiritualità di comunione» che sempre più si presenta come il modus vivendi della Chiesa nel terzo millennio, come ha sottolineato lo stesso Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte:
comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della
Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù
ci dona (cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi «un cuore solo e un’anima sola» (At
4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come
«sacramento», ossia «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità
di tutto il genere umano».1
Alberto Frassineti, docente all’Università degli Studi di Milano Bicocca, alla Business
School del Sole 24 Ore, all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), all’Università di
Bologna.
1 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte (6 gennaio 2001),
n. 42.
*
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Tipico del Movimento dei Focolari è la cosiddetta «cultura del dare», che
sin dall’inizio si è concretizzata in una comunione dei beni fra tutti i membri
ed in opere sociali anche consistenti.
Essa si fonda sulla concezione che l’uomo trova la sua realizzazione soprattutto nel rapporto con gli altri, rapporto che ha il suo momento più
significativo nell’atto di donare. È aperta alla solidarietà e alla condivisione,
accantona la logica dello spreco e dell’accumulo, promuove non tanto la
lotta per prevalere, ma l’impegno per crescere insieme, per attuare un uso
moderato dei beni, ha come caratteristiche la gratuità e il rispetto della dignità dell’altro. Da questo stile è nato il progetto di Economia di Comunione.
Le origini del progetto
Sentiamo direttamente dalle parole di Chiara Lubich le origini del progetto:
Durante un mio incontro con la comunità del posto, nel maggio 1991, l’Economia di Comunione è emersa a San Paolo nel Brasile, dal cuore di un Paese
dove si soffre in maniera drammatica del contrasto sociale fra pochi ricchissimi e
milioni di poverissimi. La povertà aveva fatto la sua comparsa anche fra qualche
migliaio dei 250.000 aderenti al Movimento e, ciò che già si faceva con la comunione dei beni fra i singoli, non bastava più.2
Mi era sembrato, allora, che Dio chiamasse il nostro Movimento a qualcosa di
più e di nuovo. Pur non essendo esperta in problemi economici, ho pensato che
si potevano far nascere fra i nostri aderenti delle aziende, in modo da impegnare
le capacità e le risorse di tutti per produrre insieme ricchezza a favore di chi si
trovava in necessità. La loro gestione doveva essere affidata a persone competenti, in grado di farle funzionare efficacemente e ricavarne degli utili. Questi
dovevano essere liberamente messi in comune.3
Di questi utili
– parte sarebbero serviti per incrementare l’azienda;
2 C. Lubich, Relazione al Consiglio d’Europa, 31 maggio 1999, in C. Lubich, L’economia
di comunione, Città Nuova, 2001
3 C. Lubich, Lectio della Laurea H. C. all’Università Cattolica di Piacenza, 29 gennaio
1999, in C. Lubich, L’economia di comunione, cit.
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L’economia di comunione ispirata da Chiara Lubich e l’imprescindibilità della fraternità
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– parte per aiutare coloro che sono nel bisogno, dando la possibilità di vivere in
modo un po’ dignitoso, in attesa di un lavoro, o offrendo loro un posto di lavoro
nelle stesse aziende;
– infine, parte per sviluppare le strutture per la formazione di uomini e donne
motivati nella loro vita dalla «cultura del dare», «uomini nuovi», perché senza
uomini nuovi non si fa una società nuova.4
Tale idea è stata accolta con entusiasmo non solo in Brasile e nell’America
Latina, ma anche in Europa e in altre parti del mondo. Molte aziende sono
nate, e altre già esistenti hanno aderito al progetto, modificando il proprio
stile di gestione aziendale.
Oggi le aziende EdC sono 761, di cui 194 operano nella produzione, 161
nel commercio e 327 nei servizi. In maggioranza si tratta di piccole aziende,
ma 10 di esse hanno più di 100 dipendenti e 15 più di 50.
Caratteristiche dell’impresa EdC
L’impresa di economia di comunione, come ci ricorda Benedetto XVI
nella Caritas in Veritate, «non esclude il profitto, ma lo considera strumento
per realizzare finalità umane e sociali».5
Dall’EdC emerge la proposta di un’attività economica a più dimensioni,
dove il mercato deve dar spazio al suo interno anche al dono e alla redistribuzione. Il condividere gli utili è un aspetto fondamentale del progetto, ma
non è l’unico. Il processo redistributivo non agisce solo nel momento della
distribuzione degli utili, ma operare in economia nella dimensione della
«comunione» richiede che lo sviluppo, obiettivo dell’attività economica,
non può più essere misurato solo con i parametri della crescita economica.
L’uomo non può essere considerato solo nelle sue dimensioni di consumatore o produttore, ma anche come centro di relazioni che ne influenzano
il grado di felicità. Ciò significa che gli utili aziendali vanno ottenuti ponendo al centro dell’attenzione le esigenze e le aspirazioni della persona e le
istanze del bene comune. Concretamente, per fare alcuni esempi, significa
offrire prodotti e servizi di qualità al giusto prezzo, trattare con giustizia i
lavoratori, pagare le imposte, non inquinare, mantenere buoni rapporti con
fornitori, clienti e concorrenti, cooperare con altre realtà aziendali e sociali
presenti nel territorio, con uno sguardo anche ai problemi internazionali.
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Ibid., p. 3.
Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate (29 giugno 2009), n. 46.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Per tale ragione queste imprese le potremmo definire socialmente responsabili per motivazioni intrinseche, perché i suoi imprenditori hanno
interiorizzato valori etici che esprimono nell’attività quotidiana. È questo
il bene più grande che l’Economia di Comunione genera per la società
intera.
3.1. I Poli imprenditoriali
Torniamo per un momento alla storia dell’ispirazione di Chiara Lubich.
Anni prima, contemplando dall’alto il santuario mariano e le costruzioni
del grande complesso benedettino di Einsiedeln in Svizzera, Chiara aveva
sognato che anche le cittadelle del Movimento (oggi oltre 30 nel mondo
sparse nei 5 continenti) sapessero un giorno esprimere nella loro vita civile
ed economica il carisma che le aveva originate.
Con l’EdC quel sogno diventava possibile: nella cittadella del Brasile fin
dal 1991 è nato nelle sue immediate vicinanze il primo polo imprenditoriale:
Il Polo Spartaco. Sono seguiti e sono già attivi il Polo Argentino e quello
Italiano. Altri 5 poli sono in fase di realizzazione nel mondo: Brasile (Recife),
Portogallo, Croazia, Francia, Belgio.
I “Poli imprenditoriali” rendono visibile la realtà dell’EdC e possiamo dire che
in essi si giocano diverse sfide:
– della singola azienda aderente al progetto EdC che viene a insediarsi al polo e
si pone in rapporto con esso e la cittadella;
– delle aziende costituenti il Polo tra di loro, perché il polo è un laboratorio
permanente al cui interno si sperimenta ogni giorno concretamente l’economia
di comunione: sia nella vita all’interno delle aziende, che nella vita delle aziende
tra loro; questa vita diventa poi sale e lievito per tutte le aziende EdC sparse sul
territorio, per tutti quelli che vi lavorano, per tutti i fornitori e i clienti e i visitatori che passano, per gli altri poli nel mondo;
– del rapporto tra il Polo con il territorio circostante e le varie realtà dell’economia civile e delle istituzioni (comune, provincia, regione, nazione).
4. Il mondo accademico
Questa progetto negli anni ha attirato l’attenzione del mondo accademico, di economisti, sociologi, filosofi e studiosi di altre discipline che trovano in questa nuova esperienza e nelle idee e categorie ad essa sottostanti,
motivi di profondo interesse.
In particolare, nella categoria della «comunione» alcuni intravedono una
nuova chiave di lettura dei rapporti sociali, che potrebbe contribuire ad
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L’economia di comunione ispirata da Chiara Lubich e l’imprescindibilità della fraternità
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andare oltre l’impostazione individualistica che prevale oggi nella scienza
economica. A questo proposito sono più di 250, ad esempio, le tesi di laurea
riguardanti il tema dell’Economia di Comunione nelle più diverse discipline.
Numerosi anche i congressi accademici e le pubblicazioni scientifiche.
Nel gennaio 1999 Chiara Lubich ha ricevuto la laurea honoris causa in
Economia dall’Università Cattolica di Piacenza.
5. L’imprescindibilità della fraternità
Fin qui una breve rassegna sulla storia e sui contenuti dell’economia di
comunione.
Quando Chiara Lubich parlava degli indigenti, così li descriveva:
Non mancano di tutto, ma di qualcosa. Hanno bisogno, ad esempio, di togliersi
dall’animo l’assillo che li opprime notte e giorno. Hanno necessità d’essere certi
che loro e i loro figli avranno da mangiare; che la loro casa, a volte una baracca,
un giorno cambierà volto; che i bambini potranno continuare a studiare; che
quella malattia, la cui cura costosa si rimanda sempre, potrà finalmente essere
guarita; che si potrà trovare un posto di lavoro per il padre. Sì, sono questi i
nostri fratelli nel bisogno, che non di rado aiutano anche loro, in qualche modo,
gli altri. Sono un “tipo” di Gesù ben preciso, che merita il nostro amore e che
ci ripeterà un giorno: «Avevo fame, ero nudo, ero senza casa o con la casa rovinata… e voi…». Sappiamo cosa ci dirà.6
Allora se vogliamo comprendere meglio perché davanti ai poveri delle
favelas, davanti alla miseria e all’iniquità della redistribuzione Chiara Lubich non ha detto “facciamo sorgere un centro studi, o studiamo una nuova
economia, o sollecitiamo la politica” ma ha risposto lanciando l’economia di
comunione, dobbiamo andare al cuore del carisma e spingerci fino al 1949,
quando, a conclusione di una profonda esperienza di Dio scrive:
Ho un solo sposo sulla Terra: Gesù crocifisso e abbandonato.
Non ho altro Dio fuori di Lui.
In Lui è tutto il paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’umanità.
Perciò il Suo è mio e null’altro.
E suo è il dolore universale e quindi mio.
Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita.
C. Lubich, Convegno internazionale di Economia di Comunione, Castel Gandolfo
(RM), 5 aprile 2001, Quattro aspetti dell’Economia di Comunione da sottolineare.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
(...) Così prosciugherò l’acqua della tribolazione in molti cuori vicini e, per la
comunione con lo Sposo mio onnipotente, lontani (…).7
La scelta di vita di Chiara Lubich: ho un solo sposo sulla terra Gesù
abbandonato, davanti gli indigenti delle favelas, veri crocefissi viventi del
nostro tempo, si declina: dobbiamo far sorgere delle imprese o trasformare
quelle che esistono per aiutare questi poveri e mettere gli utili in comune.
Quel grido di dolore, di miseria, di abbandono del povero, del misero è
il grido di Gesù-Dio-umanità sulla croce e noi non possiamo lasciarlo cadere
per motivazioni economiche e imprenditoriali anche giuste e sante, pena il
nostro non essere di Cristo e con Cristo. Ma ancora di più: quel grido dell’indigente arriva dritto al cuore di Dio anche attraverso il nostro cuore, che è
telegrafo e cassa di risonanza verso Dio e verso tutti gli uomini.
Gli indigenti in questa prospettiva non sono a valle dell’impresa e
dell’economia, se resta qualcosa per loro, ma l’economia di comunione porta
i poveri e i loro bisogni a progetto dell’impresa: fare impresa per aiutare gli
indigenti è il movente per cui le imprese di EdC nascono o si trasformano.
Gli indigenti, perché fratelli, sono un partner imprescindibile del progetto, dove donano i loro bisogni. Ci ammonisce il papa: «I poveri non sono
da considerarsi un “fardello” [91], bensì una risorsa anche dal punto di vista
strettamente economico».8
Chiara Lubich non immagina un nuovo modo di fare filantropia, e non
si ferma nemmeno alla solidarietà: declina la fraternità che discende direttamente da quel Dio in croce che muore per dare a tutti la stessa dignità
di fratelli, per farci tutti fratelli. Da questa sorgente scaturisce la fraternità
universale che apre e chiude il cerchio dell’impresa.
Il tema della comunione è dunque centrale in tutta l’EdC, che non è un
progetto dove ricchi imprenditori danno le briciole della loro tavola ai “poveri”, ma fratelli che aiutano fratelli, mostrando un brano di umanità dove
si vive, anche in economia, la fraternità, cercando di mettere in pratica tutti
gli aspetti della reciprocità.
Come ci ricorda Luigino Bruni nel Dizionario di Economia Civile:
La tradizione della scienza economica non conosce le categoria della fraternità.
Conosce alcuni concetti con essa confinanti, come solidarietà, mutualità, filantropia o altruismo; parole che assomigliano ma che non sono la fraternità. (…)
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C. Lubich, Scritti Spirituali, vol. 1. L’attrattiva del tempo moderno, Città Nuova, p. 45.
Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas In Veritate (29 giugno 2009), cit., n. 35.
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L’economia di comunione ispirata da Chiara Lubich e l’imprescindibilità della fraternità
201
Si possono aiutare i poveri con la filantropia o con il welfare state (ed è quanto
l’attuale cultura fa), (…) si può essere solidali senza essere prossimi, restando immuni. La fraternità e è sempre un’esperienza di prossimità, di “contaminazione”.9
La fraternità obbliga ad un nuovo atteggiamento che supera la solidarietà
e diventa condivisione, portando dentro la sfera del privato, del mio privato,
l’altro con le sue conseguenze positive ma anche con il dramma del dolore,
e questo invade e pervade la vita. Così la fraternità apre drammaticamente
alla dinamica delle relazione, e quindi alla benedizione e alla ferita che può
venirmi dall’altro.10
In definitiva la fraternità apre le porte al contagio con l’altro e al fatto di
rischiare di morire per l’altro, come fa Gesù sulla croce.
Nessun comunitarismo, né socialismo, né capitalismo illuminato: semplicemente il tentativo di riportare la fraternità nella sfera pubblica e del
mercato. La libertà e l’uguaglianza resteranno sempre incomplete, anzi creeranno barriere in nome della civiltà e della ragionevolezza se non metteremo
in gioco al loro pari anche la fraternità. E la fraternità non è patrimonio di
classi sociali o di livelli di benessere.
Una giovane brasiliana, che attraverso l’Economia di Comunione aveva
ricevuto l’aiuto per poter prendere tutto l’anno l’autobus per andare a
scuola, avendo per alcuni giorni evitato di spendere i soldi dell’autobus, ha
voluto restituire i pochi spiccioli risparmiati perché si aiutassero altri.
Ancora un’altra esperienza:
Vivo in India. Sono una lavandaia con quattro figli: mi sono ammalata e non
potevo più fare lavori pesanti. Con quanto ho ricevuto ho improvvisato un negozietto sotto casa mia in uno slum. Con il frigorifero posso fare il ghiaccio e i
ghiaccioli per guadagnare il necessario per vivere e grazie a questo posso anche
condividere quanto ricavo. Tante volte infatti divido a metà il riso per darlo ai
vicini che non hanno da mangiare.11
Per quello che riguarda l’aiuto agli indigenti, nel 2009 con un terzo degli
utili raccolti, uniti ad altro denaro proveniente dalla comunione dei beni tra
i membri del Movimento dei Focolari, sono state aiutate circa 3000 famiglie
nel mondo, e le somme sono state utilizzate per necessità primarie come
L. Bruni – S. Zamagni (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, 2009, p. 439.
Cfr. L. Bruni, La ferita dell’altro, Il Margine, 2007.
11 Notiziario “Economia di Comunione – una cultura nuova”, www.edc-online.org.
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
il sostentamento alimentare, la scolarizzazione di base, l’assistenza medica,
l’abitazione.12
6. Gli uomini nuovi mossi dalla gratuità
Un altro terzo degli utili viene destinato alla formazione di uomini nuovi.
Dice Chiara Lubich nel 2001:
gli «uomini nuovi» che non possono mancare nel gestire l’Economia di Comunione, «uomini nuovi» che sono uomini rinnovati dalla Sapienza del Vangelo.13
E così li descrive:
certi laici di oggi hanno qualcosa di particolare. Essi non si accontentano di
realizzarsi con un lavoro, con una carriera, o con la semplice vita di famiglia.
Non basta più; non sono sazi, non si sentono se stessi, se non si dedicano anche
esplicitamente all’umanità. Per cui quel decidere di impegnarsi nell’Economia
di Comunione, anziché esser loro di peso, è di gioia, per aver trovato il modo
di realizzarsi pienamente. Ed è un fatto che commuove: potrebbero mettersi in
tasca quegli utili guadagnati, comprare la pelliccia alla signora, nuovi doni ai
bambini, la macchina al figlio... Ma non lo fanno, vivono per un grande Ideale
e sono coerenti. E si santificano non nonostante la politica, l’economia ecc., ma
proprio nella vita politica, in quella economica ecc.14
Gli uomini nuovi che si impegnano nel progetto stanno a mostrare, come
dice Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, che «nei rapporti mercantili il
principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità
possono e devono trovare posto entro la normale attività economica».15
Per noi imprenditori, per noi lavoratori nelle imprese di economia di
comunione si tratta di vivere questa logica del dono e della gratuità non solo
verso gli indigenti o verso l’esterno dell’impresa, ma anche e prima di tutto
internamente all’impresa, nei rapporti tra soci, tra lavoratori, nella tensione
a quella comunione tra le persone che poi si vuole realizzare su scala planetaria.
12 13 14 15 Agire_IB.indd 202
Rapporto sulla destinazione degli utili anno 2009, www.edc-online.org.
Ibid., 7.
Ibid.
Cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in Veritate (29 giugno 2009), n. 36.
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L’economia di comunione ispirata da Chiara Lubich e l’imprescindibilità della fraternità
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L’economia di comunione è allora prima di tutto un’economia di speranza, perché parte dall’uomo, vive con l’uomo e crede nell’uomo (con tutta
la sua carica anche di dramma e di ambivalenza), perché scommette sulla
fraternità universale da realizzare oggi, qui, ora, nei limiti del possibile, e da
far crescere in futuro in un progetto che non è solo economico o imprenditoriale, ma civile e politico, perché tale è ogni atto dell’uomo.
La via, ancora una volta, la traccia Benedetto XVI nella Caritas in Veritate
quando afferma che: «lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno,
se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità
come espressione di fraternità».16
E ancora quando ci indica che:
Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della
preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci
viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire
con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo
implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di
fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza
e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26), così da rendere «divina»
e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra.17
L’augurio è aiutare a far emergere una comunità di persone che, illuminate dall’esperienza cristiana, sappiano testimoniare che ci si fa santi non nonostante la politica o nonostante l’economia, ma proprio grazie alla politica,
all’economia vissute da testimoni di Cristo.
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Ibid., n. 34.
Ibid., n. 79.
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INDICE
Fernando Taccone
PRESENTAZIONE....................................................................................................5
Mario Toso
DALLA CROCE DI CRISTO,
UN NUOVO PENSIERO E
UNA NUOVA STAGIONE POLITICA.................................................................13
Antonio Pitta
Theologia crucis
e cittadinanza politica
Nella Lettera ai Filippesi...........................................................................25
Giuseppe Marco Salvati
LA PAROLA DELLA CROCE, ORIGINE
E RAGIONE DI GRATUITÀ E FRATERNITÀ....................................................37
Antonio Livi
Il significato, nella concretezza
della vita cristiana,
del “morire a se stessi”
come frutto della contemplazione
della Passione di Cristo............................................................................45
Adolfo Lippi
I FONDAMENTI STAUROLOGICI
DI UN’ETICA SOCIALE CRISTIANA.................................................................55
Roberto Di Ceglie
TOMMASO D’AQUINO E LA PROSPETTIVA
DELLA CIVILTÀ DELL’AMORE..........................................................................67
Vincenzo Battaglia
La croce di Cristo rivelazione
piena della dignità della persona...................................................77
Grazia Maria Costa
LINEE PEDAGOGICHE PER ESSERE TESTIMONI
DELLA CROCE ATTRAVERSO L’INCULTURAZIONE:
P. MATTEO RICCI..................................................................................................95
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L’agire sociale alla luce della teologia della Croce
Paola Barenco
L’AZIONE SOCIO-PEDAGOGICA
DEL S. CURATO D’ARS ALLA LUCE DELLA CROCE..................................155
Paolo M. Orlandini
Aspetti formativi nell’agire sociale,
un “mandato” dalla Croce....................................................................175
Alberto Frassineti
L’ECONOMIA DI COMUNIONE
ISPIRATA DA CHIARA LUBICH
E L’IMPRESCINDIBILITÀ DELLA FRATERNITÀ..........................................195
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