XXIV EDIZIONE OLIMPIADI DELLA FILOSOFIA LA LIBERTÀ. IL

XXIV EDIZIONE
OLIMPIADI DELLA FILOSOFIA
LA LIBERTÀ.
IL PROBLEMA FILOSOFICO.
Progetto Area Eccellenze – Classi IV e V
anno scolastico 2016/2017
Prof.ssa Elisa Vannocchi
XXIV Edizione – Olimpiadi della Filosofia
La Libertà. Il problema filosofico.
I.I.S. Campus “Leonardo da Vinci” – Umbertide
Prof.ssa Elisa Vannocchi
XXIV EDIZIONE
OLIMPIADI DELLA FILOSOFIA
ORGANIZZAZIONE del CORSO
I circa 60 studenti iscritti al corso sono stati divisi in due gruppi, Gruppo A e Gruppo
B, per ragioni organizzative e logistiche; gli alunni appartengono sia alle classi IV che alle
classi V di tutti gi indirizzi dell'Istituto.
Il progetto prevede un monte orario complessivo di dieci ore (lezioni + verifica); il calendario
delle lezioni prevede tre incontri per un totale di sette ore, ed una quarta lezione facoltativa
ipotizzabile come conclusiva e riepilogativa dell'intero corso e percorso affrontato.
A completare il quadro formativo del progetto, inoltre, si aggiunge la possibilità di
frequentare una lezione presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di
Perugia, tenuta da docenti universitari e relativa al tema regionale oggetto del concorso, ―La
Libertà‖.
La prova interna d'Istituto, della durata di tre ore e dante diritto alla certificazione del
credito scolastico, è programmata per venerdì 3 febbraio 2017.
Calendario del Corso
Lezioni Gruppo A
Lunedì 9 gennaio
Mercoledì 18 gennaio
Mercoledì 25 gennaio
14.00 – 16.30 (2,5 h)
14.00 – 16.30 (2,5 h)
14.00 – 16.00 (2 h)
Lezioni Gruppo B
Giovedì 12 gennaio
Lunedì 16 gennaio
Giovedì 26 gennaio
14.00 – 16.30 (2,5 h)
14.00 – 16.30 (2,5 h)
14.00 – 16.30 (2 h)
Lezione in Dipartimento di Filosofia – Università degli Studi di Perugia
Giovedì 19 gennaio
15.00 – 17.00
Lezioni Gruppo A + Gruppo B (riepilogo)
Lunedì 30 gennaio
14.00 – 16.00
Verifica scritta Gruppo A + Gruppo B
venerdì 3 febbraio
14.00 – 17.30
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XXIV Edizione – Olimpiadi della Filosofia
La Libertà. Il problema filosofico.
I.I.S. Campus “Leonardo da Vinci” – Umbertide
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LA LIBERTÀ. IL PROBLEMA FILOSOFICO.
―Libertas [...] non in eo est ut iusto utamur domino, sed ut nullo‖.
―La libertà [...] non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto‖.
Marco Tullio Cicerone, De re publica, Libro II
I – Prefazione. L’etimologia del termine e la questione.
Dal latino libertas, sostantivo affine a libitum – volontà senza coercizione –, entrambi
derivano dal verbo libere – avere il piacere di fare qualcosa di relativo al proprio bene.
Questo termine denota la proprietà peculiare ed esclusiva che ha l‟uomo di essere padrone dei
propri atti, e pertanto responsabile delle proprie azioni (e pensieri).
Proprietà singolarissima, la libertà ha dato luogo ad innumerevoli e complesse questioni nel
corso della storia della filosofia; un viaggio, sintetico e sui modelli esemplari, è quanto questo
percorso intende affrontare.
C‟è anzitutto da giustificare l‟esistenza della libertà: come può essere l‟uomo libero, se
tutto nel mondo è soggetto alle leggi della natura (Determinismo fisico e Meccanicismo) o alla
volontà di Dio (Determinismo teologico)? Ossia, ammesso che Dio con l‟uomo abbia creato il
regno della libertà, concretamente l‟uomo è davvero libero, visto che sulle sue decisioni
pesano tanti condizionamenti politici, ideologici, economici, psicologici? E poi, in che
consiste precisamente la libertà? È una funzione della ragione, della volontà o di entrambe?
Per tutte queste e molte altre questioni che riguardano la libertà umana (il libero arbitrio), la
filosofia ha tentato soluzioni diverse e talvolta contrastanti e contraddittorie, a seconda anche
che ci si collocasse in un parametro morale, in uno politico o finanche in uno giuridico.
Diverse prospettive per approcciarsi ad un unico grande tema, difficilmente accessibile con
una chiave unitaria.
Tuttavia, anche se tra i filosofi regna la discordia, almeno su un punto esiste un consenso
quasi universale: la libertà è il massimo titolo di nobiltà di cui l‟uomo è dotato, e per questo
nell‟ambito sociale costituisce anche il suo diritto primo, sacro ed inviolabile.
Ogni ordinamento giuridico – sia privato che pubblico – deve rispettare la libertà di ogni
persona, consentendone l‟esercizio pubblico nei limiti del bene comune.
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II – “Libertà di” e “libertà da”.
Nel corso della storia si è assistito al contrapporsi di due diversi modelli di libertà:
 da un lato, la libertà come libero arbitrio, ossia come possibilità di decidere
arbitrariamente tra due o più alternative (si tratta di quella che gli Scolastici definivano
potestas ad utrumque); essa è la libertà di indifferenza, tale per cui quando ci si trova a
dover compiere una scelta è, per l‟appunto, indifferente che si scelga A piuttosto che B, nel
senso che non vi è nessun condizionamento che implichi dall‟esterno una differenza e che
ci indirizzi a scegliere una cosa anziché un‟altra.
In quest‟accezione, questo modello può essere concepito come modello della “libertà di”
fare in un modo oppure, indistintamente, libertà di fare in un altro.
 Dall‟altro lato, si trova la libertà come assenza di costrizione, la libertas a coactione degli
Scolastici: non è più l‟indifferenza della scelta, tale per cui si può decidere liberamente di
scegliere o A o B, ma si tratta piuttosto di una libertà in virtù della quale sia che si scelga
A, sia che si scelga B, non si è condizionati da una costrizione, sia essa esterna (qualcuno
che ci obbliga ad agire in un determinato modo) sia essa interna (le proprie passioni e le
proprie convinzioni razionali, politiche, ideologiche). Questo secondo modello implica non
già una “libertà di”, bensì una “libertà da”.
Stando a quanto analizzato finora, questi due tipi di libertà possono apparire non
troppo diversificate, cosicché è opportuno produrre altre distinzioni più incisive.
In prima istanza, si deve riflettere come la “libertà di” è sempre considerata una
libertà positiva, in quanto si tratta di determinare l‟oggetto del (proprio) volere e sono io
stesso a deciderlo; sicché la “libertà di” comporta la libertà di volere ciò che ancora non si
vuole, per cui siamo noi stessi a determinare la nostra volontà: l‟uomo non sceglie perché
vuole, ma vuole perché sceglie. Ne consegue la ben nota visione antropologica dell‟uomo
come artifex, tanto cara alla filosofia umanistica e rinascimentale, nonché alla cultura
moderna tutta, un uomo che “costruisce” il proprio destino e la propria fortuna – homo faber
ipsius fortunae – non perché in balìa di un destino deterministicamente e meccanicisticamente
progettato, ma in quanto frutto della propria personale scelta di vita, di progetto e di esistenza.
In tale visione, necessariamente positiva, l‟uomo è il risultato della propria “libertà di” essere
ciò che vuole, al di là di ogni possibile alternativa.
Sull‟altro versante – quello della “libertà da” – si è al contrario dinanzi ad una libertà
di tipo negativo, giacché ciò che si vuole è sempre già presupposto, cosicché io so già che
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cosa voglio e non sono io a sceglierlo. Dunque, si può dire che nel caso della “libertà di” ciò
che voglio non mi è imposto (e per ciò sono realmente libero), mentre nel caso della “libertà
da” mi è imposto (e perciò non sono libero).
Un‟ulteriore distinzione può essere operata tenendo conto del rapporto che queste due
forme di libertà intrattengono con la contingenza o con la necessità: entrambe le due tipologie
di libertà presuppongono una razionalità dell‟azione (si vuole e si sceglie qualcosa sulla base
di un disegno razionale), ma diverso è il rapporto sussistente tra la razionalità e il contesto in
cui essa si esprime. Nel caso del libero arbitrio (la “libertà di”), il contesto in cui mi trovo ad
operare deve presupporre un certo livello di contingenza, giacché, affinché io possa scegliere
A anziché B, occorre che l‟ordine esterno delle cose sia tale da consentire tanto la
realizzazione di A quanto la realizzazione di B: ciò significa che non deve essere già
predeterminato che si verifichi A anziché B.
Questa condizione di indeterminatezza non è invece richiesta dal modello della “libertà da”, il
che sembrerebbe apparentemente assurdo: come si può, infatti, parlare di libertà e, al
contempo, ammettere che valga un determinismo in forza del quale sia già decretato che si
verifichi A piuttosto che B?
In realtà tale situazione cessa di essere assurda se si ammette che a togliere la libertà non è la
necessità in sé solamente esterna – ovvero quel che agisce sul soggetto essendo ad esso
fisicamente esterna – ma anche quella proveniente dalle forze interne del soggetto (ad
esempio le sue passioni o le sue abitudini e considerate metafisicamente esterne alla
razionalità del soggetto agente); sicché se un soggetto si trova ad esser determinato nell‟agire
dalle proprie passioni, egli è coatto da qualcosa a fare ciò che la sua ragione lo indurrebbe a
non fare: se ne evince che anche ciò che pare di primo acchito essere una forza interna (le
passioni), è in realtà esterna, in quanto opponentesi alla razionalità del soggetto.
Se, invece, questi agisce mosso da un principio di razionalità assoluta, allora agisce seguendo
una necessità che rispecchia l‟ordine necessario del mondo: non è costretto da forze esterne,
ma obbedisce ad un principio necessario dell‟azione, essendo in tal modo libero in quanto la
forza che lo condiziona è identica alla sua stessa soggettività: in altri termini, è egli stesso
quella forza. In questo senso, la libertà risulta conciliabile con la necessità: il caso
paradigmatico di questa concezione è rappresentato da Spinoza e dalla processualità dialettica
del sistema hegeliano, per il quale l‟uomo che segue la necessità imperante nel cosmo realizza
la sua libertà, intesa ovviamente non come facoltà di scegliere A anziché B, bensì come
“libertà da” costrizioni. Tuttavia, sotto questo profilo, il livello della libertà intesa come
negativa e come positiva viene un po‟ corretto e sfumato, giacché la “libertà da” porta ad
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identificarsi con il principio causale dell‟agire e necessario del mondo, e così cessa di essere
vincolante e negativo.
Va da sé, tuttavia, che il problema della libertà è complesso e a tratti irrisolvibile, e
ciò è dovuto precipuamente alla difficoltà e alla pluralità di termini impiegati nell‟affrontarlo,
tali da non afferrare mai del tutto che cosa sia realmente la libertà in sé. Se almeno si sapesse
con certezza che cosa essa sia, si potrebbe per lo meno univocamente capire se l‟uomo ne sia
equipaggiato oppure no. Invece risulta assai arduo, ancor prima di decidere se l‟uomo sia
libero o no, capire che cosa effettivamente sia la libertà, e ulteriori complicazioni sono
introdotte dal fatto che, accanto ai due modelli e alle due interpretazioni proposte, nella storia
del pensiero filosofico se ne sono sviluppati molti altri da essi derivanti.
Vediamone alcuni, considerabili modelli caratterizzanti della libertà come “problema
filosofico”.
1. LA RICERCA DELLE ORIGINI DEL CONCETTO FILOSOFICO DI LIBERTÀ
1.a. Prime deboli impronte nella filosofia greca antica.
Dopo aver intuito quanto possa essere difficile e complessa la problematica in esame,
chiediamoci quando storicamente ci si sia per la prima volta interrogati su di essa.
La cultura greca antica, pur così acuta e ingegnosa, e madre del pensiero filosofico,
non si pose più di tanto ed in maniera approfondita il problema della libertà; prova ne è il fatto
che la lingua greca sia sprovvista di un termine che designi propriamente la “libertà”, tenendo
conto che  (eleutheria) designa esclusivamente la libertà in sede politica (libertà
dalla tirannia, dai Persiani, ecc) ed ha ben poco a che vedere con la possibilità di riconoscere
all‟uomo una responsabilità dell‟azione.
Non è poi un caso che nelle tragedie, che dello spirito greco furono il vertice, il coro, per
spiegare le azioni dei protagonisti, faccia costante riferimento alla anagke), alla
Moira) e alla tuke), tutte forze che condizionano l‟uomo impedendogli di
esercitare qualsiasi forma di libertà.
Anche quando si fa più vivo il senso della responsabilità – e ciò avviene con le scuole
fiorite in età ellenistica – e spiccato diventa l‟interesse etico, la giusta azione dell‟uomo non è
mai sottratta alla forza che regna nell‟universo, ma anzi adeguamento ad essa, intesa come
razionalità positiva (il  Logos antico) – permeante ogni cosa, ivi compreso l‟uomo – a
cui conformarsi o a cui opporre „stupidamente‟ resistenza, come fa il cane che, legato al carro,
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anziché seguirlo sua sponte, gli si oppone, con il risultato che è da esso ugualmente trascinato,
ma con maggiori sofferenze1
Anche in Platone e Aristotele il problema della libertà umana è molto opaco e, per così
dire, solo accennato: data l‟incredibile statura dei due pensatori, ciò non fa altro che
avvalorare la tesi secondo cui la cultura greca era ancora troppo poco matura per interrogarsi
seriamente su tale problematica della libertà. Nella civiltà greca, in effetti, il concetto di
libertà era riservato principalmente alla politica e alla religione; per i greci la libertà doveva
essere connaturata alla potenza e all'autonomia dello Stato piuttosto che agli individui
considerati singolarmente, sottoposti a leggi restrittive della libertà al fine di vivere uno stato
ordinato, in un tutto armonico. Questo spiega perché nelle pagine dei pensatori antichi il
riferimento alla libertà – intesa in termini di diritto e prerogativa individuale – è quasi del
tutto assente.
In Platone (Atene, 428 – 348 a.C.) compare un accenno alla possibilità di scegliere
liberamente, ma è una comparsa cursoria e, per di più, all‟interno di un mito: si tratta del
famoso mito di Er (esposto nel libro decimo della Repubblica), di questo glorioso quanto
esotico guerriero morto e risorto che narra ciò che accade nell‟aldilà. Egli racconta che le
anime, prima di incarnarsi e di riprendere il loro ciclo vitale sulla terra, hanno l‟opportunità di
scegliere il tipo di vita a cui andare incontro e – osserva Platone – la scelta non è assoluta,
poiché chi sceglie per primo non ha più possibilità rispetto a chi sceglie per ultimo con minor
disponibilità di scelta. A contare realmente nello scegliere liberamente è, invece, la Saggezza
(rappresentata, tra le altre cose, come Idea reale nella scena descritta), cosicché il primo a
scegliere – riferisce Er a riguardo di ciò che lui stesso ha visto - dà prova di stoltezza nel voler
reincarnarsi in un tiranno, mentre l‟ultimo – Ulisse stesso – si rivela intelligente nell‟optare
per una vita comune, quieta e senza lodi o accuse. Poi però Platone non tornerà più su queste
idee, qui peraltro accennate in forma mitologica; va da sé che tuttavia ponga le basi di un
accostamento e di una „coppia‟ che troverà ampio sviluppo nella filosofia futura: Libertà e
Saggezza.
Su questa scia, ma lievemente più analitica è la posizione assunta da Aristotele
(Stagira 384 – Calcide 322 a.C.), che, da buon filosofo scientifico ed uomo concreto, cerca di
rinvenire un principio di imputabilità per stabilire che – il paragone è aristotelico – “siamo
padri delle nostre azioni non meno che dei nostri figli‖2.
1
2
Cfr. Stoicismo.
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Libro III.
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Per far ciò, lo Stagirita elabora un‟attenta distinzione tra azioni volontarie (- ekusia)
e azioni involontarie (-akusia): le seconde sono compiute “per costrizione e per
ignoranza”, mentre le prime sono quelle “il cui principio risiede nel soggetto che conosce le
condizioni in cui si svolge l’azione”. In questo senso, la causa,  - aition dell‟agire non è
a me esterno, ma sono io stesso a sceglierlo spontaneamente, in quanto il soggetto ha
conoscenza della situazione: se ne evince che spontaneità e consapevolezza costituiscono il
motore dell‟agire volontario.
Si affaccia, così, per la prima volta sullo scenario greco il principio di imputabilità, che
garantisce la responsabilità dell‟azione, anche se in realtà Aristotele ritiene poi che alla base
di tali azioni (volontarie o involontarie che siano) vi sia sempre una orexis, ossia un
“desiderio”. L‟elemento della libertà è tuttavia meramente funzionale, giacché non posso
scegliere i miei desideri né la mia bulè, la mia volontà, che anzi mi son dati come
ineludibili punti di partenza. Sarò invece libero di scegliere i mezzi per realizzarli, ma non
potrò scegliere se avere o no tal desiderio e tale volontà: lo stesso momento decisionale, che
Aristotele chiama “preferenza”, altro non è se non il preferire certe cose ad altre (ritenendo
queste ultime meno utili ed efficaci rispetto alle prime), ma non si tratta mai in senso stretto di
una “libertà di”, giacché è sempre e comunque soggiogata alla , al desiderio, e alla
alla volontà. In questo senso, è lecito affermare che in Aristotele manchi tanto la
“libertà di” quanto la “libertà da”.
1.b. La filosofia medievale e l’impronta cristiana nel problema della libertà.
Col tramonto della cultura greca e il sorgere di quella cristiana si inverte rotta, in
primis perché il cristianesimo propugna una concezione personale di Dio, tale per cui sussiste
un‟analogia tra Dio e l‟uomo anche sul piano delle facoltà spirituali: Dio non è solo pensiero
(come si credeva in passato), ma è anche – e soprattutto – volontà, e tale dualismo si riverbera
sull‟uomo, che è stato creato a Sua immagine e somiglianza. Sicché l‟uomo, oltre a pensare,
sa anche volere liberamente: la priorità in Dio della volontà sull‟intellettualità costituisce il
„cavallo di battaglia‟ della tradizione cristiana non tomista (Duns Scoto e Guglielmo da
Ockham soprattutto), poiché al Dio come mero pensiero rispecchiante l‟ordine del cosmo (a
cui Egli non può sottrarsi) si sostituisce un Dio onnipotente, tale da poter liberamente fare ciò
che vuole, a tal punto da determinare secondo la Sua volontà le leggi del pensiero (alcuni
filosofi medioevali arriveranno a dire che due più due fa quattro perché Dio ha deciso così,
ma se Egli avesse deciso che facesse cinque, allora due più due farebbe cinque!!).
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Da qui prende le mosse una lunga tradizione volontarista (tipicamente francescana) che fa
dell‟uomo un ente pensante e – soprattutto – capace di scegliere liberamente se fare il bene
oppure il male. Nella cultura greca le azioni erano riflesso di una legge generale
corrispondente ora al , ora alla , ora alla , e ciò si trascina in parte fino ai
cristiani, che molto ereditano dal mondo greco: in particolare, questo „strascico‟ della cultura
antica affiora in seno al cristianesimo nella concezione ch‟esso ha della Provvidenza come
forza imperscrutabile che regge, trascendendolo, il mondo. E accanto a questa ripresa di
modelli greci – seppur largamente modificati – compare anche l‟innovativo elemento del
premio e del castigo, in virtù del quale, a seconda che si siano rispettate o meno le prescrizioni
divine su questa terra, si ricevono punizioni o compensi nella vita ultraterrena. Nell‟ebraismo
si trattava soprattutto di punizioni collettive e terrene (specialmente cataclismi naturali,
alluvioni, terremoti, ecc), mentre nel cristianesimo sono di ordine individuale, cosicché
ciascun individuo finisce per avere la sua propria responsabilità, a cui è legata a filo doppio la
libertà dell‟arbitrio. È questa, al contempo, una “libertà di” e una “libertà da”, con la
conseguente maturazione del diritto a un premio o a un castigo nell‟aldilà.
Di più, il recupero della tradizione greca finì per confondersi con alcune teorie eretiche
che si diffusero in velocemente; prime fra tutte furono quelle dei Manichei, i quali,
concependo il mondo come il teatro dello scontro tra le forse del Bene e del Male, e
intendendo le azioni umane come il manifestarsi di quei due stessi principi, finivano per
spogliare l‟uomo di ogni responsabilità personale. È soprattutto Agostino (Tagaste 354 –
Ippona 430) a brandire la spada della critica contro i Manichei, lui che in gioventù era stato
uno di loro: sia nel De libero arbitrio sia nel De duabus animabus contra Manicheos, egli
insiste su come il male sia da noi accettato per libera scelta.
“Nessuno è costretto a esser schiavo del piacere”,
dice Agostino, ed aggiunge che
“la volontà è un moto dell’anima senza nessuna costrizione esterna
o a non accettare qualche cosa
o a ricercare qualche cosa”.
L‟altro profilo del cristianesimo – accanto a quello della libertà dell‟arbitrio – era
quello dato dal riconoscimento dell‟assoluto dominio della Provvidenza sulla natura e sul
mondo umano (dominio espresso bene dal motto popolare del tempo “non cade foglia senza
che Dio lo voglia”): ora, è evidente che, almeno in apparenza, risulta impossibile una
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convivenza tra la libertà dell‟agire e la forza provvidenziale, in virtù della quale tutto è
decretato dai disegni divini.
Uno dei grandi nodi contro cui si scontra la teologia cristiana sarà appunto quello di ricercare
una conciliazione tra questi due principi, ma raramente si riuscirà in questo intento, poiché il
più delle volte prevarrà il carattere necessitante o quello del libero arbitrio, e l‟egemonia
dell‟uno o dell‟altro dipende anche dall‟esigenza di difendere dogmi cristiani dai pericoli
eretici che via via si manifestano esaltando ora la libertà umana (e negando la Provvidenza) o,
viceversa, celebrando la Provvidenza a scapito della libertà.
Resta che, seppur letta in chiave teologica e religiosa, il pensiero cristiano si è fatto
portavoce di un‟istanza di comprensione del concetto di libertà ben più complessa rispetto a
quella greca: ora l‟uomo è anche soggetto di responsabilità – e non più soltanto di saggezza –
e
capace
di
libera
azione
volontaria,
anche
se
inscritta
in
un
orizzonte
provvidenzialisticamente inteso e sottoposto alla Grazia divina.
Dal mondo medievale, pertanto, desumiamo con gran forza la „coppia‟ Libertà e
Responsabilità.
1.c. Alcuni modelli della filosofia moderna.
c.1. Il modello cartesiano.
Quando la filosofia moderna, che personifichiamo in primo luogo con Renato
Cartesio (Parigi 1596 – Stoccolma 1650), viene a
trattare il problema della libertà, si trova dinanzi ad
un terreno ingombro di molte posizioni religiose e
non,
eredità
dell‟età
della
Riforma
e
della
Controriforma.
L‟ulteriore alternativa che allora si rese possibile
consisteva nello staccarsi dall‟impostazione teologia e
nel considerare finalmente il problema della libertà
esclusivamente in riferimento all‟uomo e alle sue
realizzazioni: ciò significava dare una soluzione
esplicitamente filosofica, ed è appunto questa la
controversa strada imboccata da Cartesio, la quale sarà via via condannata o rinforzata dai
pensatori successivi, che da essa prenderanno le mosse.
Il primo tentativo di Cartesio di fronteggiare la problematica della libertà resta però
ancora saldamente vincolato alla prospettiva teologica, tanto che in Le passioni dell’anima
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(articolo 146), egli asserisce che “dobbiamo renderci conto che tutto è guidato dalla
Provvidenza”; tutto ciò che accade è necessario – dice Cartesio –, ma Dio ha limitato la sua
stessa Provvidenza per lasciare un margine di libertà all‟agire umano, delineando una
concezione che sarà ritenuta autenticamente fallimentare dacché Cartesio si fa foriero di
posizioni diametralmente opposte, di cui lui stesso si rende consapevole.
Cartesio stesso, in effetti, era in certa misura consapevole della debolezza dei suoi argomenti
e, pertanto, nei Princìpi di filosofia, riprende lo stesso problema e ripete la tesi della
conciliabilità fra Provvidenza e libertà, ma dicendo – molto più modestamente – che “di tale
compatibilità siam certi come credenti ma non possiamo renderne conto con la ragione”.
È questo il passaggio che dà il via all‟abbandono del problema teologico del rapporto tra
libertà e Provvidenza all‟ambito della fede: viene così aperta la possibilità di impostare la
problematica della libertà non più in riferimento a Dio (giacché in tale ambito solo la fede può
illuminarci), ma in riferimento all‟uomo, in quell‟ambito cioè in cui la ragione può procedere
con sicurezza.
La soluzione prospettata da Cartesio per il problema della libertà si basa sul cardine della sua
stessa metafisica: quel dualismo in virtù del quale sussistono due sostanze separate ed
autonome: da un lato, la sostanza pensante (res cogitans) e, dall‟altro, la sostanza estesa (res
extensa). L‟unico aspetto comune che lega in certo modo la res extensa e la res cogitans sta
nell‟essere dipendenti e derivate entrambe da Dio.
Questo rigoroso dualismo è il punto di partenza della filosofia di Cartesio: se consideriamo i
corpi, subito ci accorgiamo di come essi siano caratterizzati dall‟inerzia meccanica, dal fatto
che le loro relazioni reciproche sono date sotto forma di rapporti di causalità necessaria tali
per cui tutto è meccanicamente regolato (si noti che ciò vale tanto per la natura fisica esterna
quanto per l‟organismo umano, concepito alla stregua di una macchina assolutamente
assimilabile ad un automa, per cui i muscoli sono come i tiranti, i nervi come i tubi, e così
via). Questo rigoroso materialismo concernente i corpi trova il suo contraltare nel pensiero o,
se riferito agli uomini, nell‟anima, la quale – opposta al corpo – non ha ampiezza, lunghezza e
inerzia, ma, viceversa, è spontanea, vivace ed irriducibile al meccanismo causale necessario,
cosicché il soggetto causa molte cose senza a sua volta essere causato. Asserire che il pensiero
è attività spontanea equivale a dire che esso è libero e incondizionato: ecco perché Cartesio, in
più luoghi della sua opera, sostiene che la libertà non ha bisogno di essere dimostrata, in
quanto la sentiamo immediatamente dentro di noi in tutta la sua evidenza. La capacità di
pensare, il cogitare ed il dubitare, non soltanto sono condizione della stessa esistenza del
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soggetto (cogito, ergo sum) ma diventano anche espressione della sua stessa libertà, ma la
libertà dell‟anima, della ragione, non del corpo.
Di più, in questo modo, Cartesio è padre di due correnti filosofiche antitetiche: grazie alla res
extensa, egli è padre del Materialismo settecentesco, che giungerà all‟apice con la concezione
dell‟uomo-macchina di La Mettrie, e, grazie alla res cogitans, è padre del Razionalismo e
dello Spiritualismo, specialmente di quello francese. Eppure, il dualismo ontologico e
metafisico con cui Cartesio fonda la libertà finisce poi per creargli serie ostilità, giacché
finché consideriamo il rapporto tra le due res, possiamo pensare che esistano due mondi a sé
stanti (quello spirituale e quello materiale) senza interferenze reciproche, ma non appena
rivolgiamo l‟attenzione all‟uomo, tale indipendenza pare difficilmente giustificabile, in
quanto l‟uomo è anima e corpo, sintesi perfetta di quelle realtà che abbiamo detto essere
separate.
Come si spiegherà, ad esempio, il fatto che l‟impressione del freddo generi idee, con un
evidente passaggio dalla materia al pensiero?
O, al contrario, come renderemo ragione del fatto che io voglia agire sul mondo esterno e il
mio atto di volontà si traduca in movimenti corporei?
Ciò vale anche per le passioni (amore, odio, ira, gelosia, ecc), che sono da Cartesio
considerate come movimenti degli “spiriti animali”, cosicché mi adiro perché nel mio corpo si
genera un turbinio di particelle che si scatenano e il corpo muta; ma le passioni sono anche
passioni dell‟anima, cosicché l‟ira – oltre a modificarmi fisiologicamente – mi fa sentire
diversamente nella mia interiorità (ad esempio, avrò volizioni cattive verso qualcuno); sempre
le passioni indicano il passaggio dall‟anima al corpo: se infatti la morale consiste nel
dominare stoicamente le passioni, allora l‟anima deve agire sul corpo tenendolo a freno il più
possibile.
Tutti questi esempi rivelano come nell‟uomo anima e corpo entrino in conflitto tra loro, il che
crea non pochi problemi a Cartesio: come può l‟anima – che è del tutto diversa dal corpo –
agire su di esso? E, nel caso in cui ciò sia possibile, non si crea forse un inquinamento tra la
libertà dell‟anima e la necessità del corpo?
Cartesio cerca di togliersi d‟impiccio asserendo che anima e corpo sono strettamente
congiunti pur restando tra loro indipendenti: per spiegare tale congiunzione, occorre superare
l‟ostacolo rappresentato dal fatto che nel corpo la comunicazione avviene causalmente e
nell‟anima no; per superare tale ostacolo, Cartesio ricorre alla poco convincente soluzione
della ghiandola pineale, ossia di una particolare ghiandola, ubicata nel cervello, che, pur
essendo un organo fisico, è così sensibile e sottile da poter apprezzare sia le sollecitazioni
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materiali del corpo sia quelle incorporee dell‟anima. La ghiandola pineale può cioè esser
mossa sia dagli “spiriti animali”, dalle passioni, che percorrono senza tregua il corpo sia
dall‟impalpabile azione della volontà: tuttavia su come ciò avvenga, Cartesio tace.
Ne deriva, quasi ironicamente, che egli fa del dualismo la struttura portante del suo pensiero
ma poi deve continuamente correggerlo, ipotizzando una costante interazione tra le due
sostanze indipendenti: è questa una debolezza intrinseca del sistema cartesiano, che gli costerà
le critiche più severe. Da un lato, grazie al dualismo, egli può affermare vivamente la libertà
dell‟anima, dall‟altro l‟esigenza di limitare e correggere il dualismo stesso con un modello
„enigmaticamente‟ interattivo riduce e cancella al massimo questa fondazione della libertà.
In sintesi, nonostante la tortuosa argomentazione, il nucleo dottrinale sul tema della
libertà è, comunque, abbastanza definito. La nostra volontà è libera, libera dai
condizionamenti del mondo finito quanto da quelli eventuali da parte di Dio. Le due certezze,
quella della libertà individuale e quella dell'onnipotenza divina, non sono in conflitto perché
entrambe assolute, evidenti, intuitive. E non sono incompatibili; anzi, anche se in modo
inspiegabile, sono ammissibili come reciproche: come l'onnipotenza divina non può esser
limitata dalla libera, spontanea iniziativa dell'uomo, così l'autonomia dell'uomo non è coartata
dai decreti divini.
L'unica differenza consiste nel fatto che l'uomo non può limitare Dio, mentre Dio non vuole
condizionare l'uomo.
L‟uomo non è un essere infinito, ma è creato da Dio e, perciò, si innesta in un contesto in cui
è Dio ad aver stabilito che cosa sia vero e che cosa falso, che cosa giusto e che cosa ingiusto;
ne segue che per l‟uomo la vera libertà non è volere ciò che vuole (“libertà di”), ma volere ciò
che è giusto (“libertà da”), cosicché la libertà di indifferenza (scegliere tra A e B) è la forma
più bassa e più nociva di libertà, poiché consente di scegliere il falso anziché il vero,
l‟ingiusto anziché il giusto: la vera libertà consiste allora nel decidere in conformità all‟ordine
decretato da Dio, e ad illuminarci sull‟ordine del mondo non può essere la volontà – che per
sua natura non opera distinzioni –, ma l’intelletto, che così diventa il vero principio della
libertà, il faro seguendo la cui luce si è liberi; la volontà deve quindi autosubordinarsi ad esso
e decidere di volere ciò che l‟intelletto dice essere bene, giusto, vero.
In questo modo, Cartesio sconfessa la tradizione cristiana dell‟egemonia della volontà
sull‟intelletto e si ricollega direttamente a Tommaso, per il quale è l‟intelletto ad individuare
la ratio boni, il criterio del bene su cui la volontà deve modularsi, tornando peraltro in una
posizione più affine al mondo greco.
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Così, dopo aver definito la volontà come assoluta e indifferente, Cartesio cambia
repentinamente rotta e asserisce che la capacità di scegliere tra A e B è subordinata all‟avere
gli strumenti adeguati (intellettuali) per scegliere B piuttosto che A:
“Poiché essa [la libertà] consiste unicamente in ciò:
che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire);
o piuttosto solamente in questo: che, per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che
l'intelletto ci propone, noi agiamo in modo che non ci sentiamo costretti da nessuna forza
esteriore.
Infatti, affinché io sia libero, non è necessario che sia indifferente a scegliere l'uno o l'altro
dei due contrari; ma piuttosto, quanto più inclino verso l'uno,
sia che conosca evidentemente che il bene e il vero vi si trovano,
sia che Dio disponga così l'interno del mio pensiero,
tanto più liberamente ne faccio la scelta e l'abbraccio.
E, certo, la grazia divina e la conoscenza naturale,
ben lungi dal diminuire la mia libertà l'aumentano piuttosto, e la fortificano.
Di modo che questa indifferenza che io sento, quando non sono portato verso un lato più che
verso un altro dal peso di niuna ragione, è il più basso grado della libertà, e rende manifesto
piuttosto un difetto nella conoscenza, che una perfezione nella volontà;
perché se conoscessi sempre chiaramente ciò che è vero e ciò che è buono,
non sarei mai in difficoltà per deliberare qual giudizio e quale scelta dovrei fare,
e così sarei interamente libero, senza mai essere indifferente”3.
(Meditazioni metafisiche, IV).
Libertà ed Intelletto umano: questa la „coppia‟ cartesiana. La libertà consiste dunque, ad
avviso di Cartesio, nel fatto che, affermando o negando ciò che suggerisce l‟intelletto, non mi
sento guidato e costretto da una forza esterna, e ciò in forza del fatto che l‟intelletto che detta
legge sono io stesso, identificandomi con la mia ragione: ed è questa - come si è visto – la
definizione della “libertà da”, consistente nello scegliere A o B secondo un principio che
sento come mio e come non imposto dall‟esterno; la “libertà di” resta una prerogativa
squisitamente divina.
Si badi bene, infine, che se per la concezione cartesiana il metodo è una “regula ad
directionem ingenii”, una regola per dirigere l‟ingegno, e se, come dichiara Cartesio stesso:
3
R. CARTESIO, Meditazioni metafisiche, Libro IV.
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“Per metodo intendo delle regole certe e facili
grazie alle quali tutti coloro che le osservano attentamente
non prenderanno mai per vero ciò che è falso
e arriveranno senza nessuno sforzo inutile alla vera conoscenza‖4
allora è evidente che l‟intelletto, l‟ingegno, la res cogitans, garanzia di libertà del soggetto
(pensante), hanno bisogno del metodo. Non a caso:
―Il buon senso è la cosa del mondo meglio distribuita:
ciascuno infatti pensa di esserne cosi ben provvisto che perfino quelli che sono più difficili a
contentarsi in ogni altra cosa, non sogliono desiderarne più di quanto ne posseggono.
A questo proposito non è verisimile che tutti si ingannino;
ciò prova piuttosto che la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso
— ciò che propriamente si dice buon senso o ragione —
è per natura uguale in tutti gli uomini e, quindi, che la diversità delle nostre opinioni
non deriva dal fatto che gli uni sono più ragionevoli degli altri,
ma soltanto dal condurre i nostri pensieri per diverse vie e dal non considerare le stesse cose.
Non basta infatti esser dotati di un buon ingegno;
importa soprattutto applicarlo bene‖5.
Quindi, Libertà sì, congiunta all‟Intelletto umano purché questo sia servito dal Metodo.
Questo il contributo di Cartesio alla nostra analisi... con la sua confessione finale che:
―Non c'è nulla interamente in nostro potere,
se non i nostri pensieri‖.
c.2. Il modello spinoziano.
Il modello compromissorio avanzato da Cartesio è messo alla berlina dal pensiero
immediatamente successivo; in particolare non è accettato il dualismo cartesiano che era stato
il fondamento dell‟intero sistema. Esso è respinto perché sostituito o da un rigoroso monismo
che assorbe la sostanza estesa (res extensa) e quella pensante (res cogitans) in un‟unica
sostanza (è questo il caso di Baruch Spinoza), o si elimina lo spirito riducendo tutto a corpo (è
4
5
R. CARTESIO, Cfr. Introduzione Discorso sul metodo.
Ivi, Parte I.
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il caso di Thomas Hobbes), o si riconduce l‟estensione a epifenomeno dello spirito (come fa
Gottfried Wilhelm von Leibniz).
In tutte le soluzioni, venendo a mancare il dualismo, viene di conseguenza a mancare la
distinzione tra un ambito in cui vige la libertà e uno in cui regna la necessità. Infatti, partendo
tutti dal presupposto che scire est scire per causas – conoscere è andare per cause –, questi
pensatori immediatamente successivi a Cartesio sostengono in ultima istanza il determinismo,
sopprimendo in tal modo la libertà nell‟agire umano. Il crollo del modello dualistico
prospettato da Cartesio che separava libertà e necessità comporta l‟entrata in crisi della libertà
e il trionfo del determinismo, pur secondo modalità diverse da filosofo a filosofo.
Il primo modello che si pone come superamento di quello cartesiano e dei problemi
che esso lasciava irrisolti è quello di Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 – L‟Aia 1677): Tale
sostanza infinita ha infiniti attributi, dei quali noi conosciamo solo il pensiero e l‟estensione,
giacché sono gli unici due di cui partecipiamo. Per Spinoza continua a valere quel
determinismo causale di cui parlava Cartesio, cosicché
il rapporto tra i corpi è dato da una sfilza di connessioni
causali necessarie e immanenti alla sostanza stessa di
Dio, poiché l‟estensione non è che una qualità di Dio
stesso. Per Cartesio, tutt‟altro discorso valeva per il
pensiero, che era una sostanza distinta e opposta
all‟estensione: per Spinoza, invece, il pensiero è
attributo della sostanza infinita, sicché è – alla pari dei
corpi – espressione di un‟unica sostanza.
La formulazione delle idee nel pensiero non è che un
modo diverso di considerare quel processo causale che
vale per i corpi materiali: ne segue che anche le idee
sono relazionate tra loro secondo rigidi rapporti rigorosamente causali, senza quella libertà
spontanea riconosciuta da Cartesio. Qualunque siano i modi con cui la sostanza si manifesta
nei suoi diversi attributi, tale manifestazione avviene sempre secondo quello che Spinoza
definisce un “ordine geometrico”, ovvero causale: il dualismo tra estensione e pensiero è
azzerato, proprio come la possibilità che uno dei due ambiti si sottragga al determinismo.
Di più, Cartesio aveva introdotto anche un secondo tipo di dualismo, quello interno al
pensiero tra intelletto e volontà, ritenendo che i due fossero in certo senso indipendenti,
poiché la volontà si estende ben di più rispetto al pensiero. Ora anche questo dualismo è
decisamente combattuto da Spinoza, il quale dice che esiste un unico attributo del pensiero e
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al suo interno la volontà e l‟intelletto non sono facoltà diverse, bensì sono due modi diversi di
indicare il pensiero e, di conseguenza, le singole volizioni e le singole intellezioni sono la
stessa cosa, ovvero sono gli stessi modi del pensiero: sicché se per Cartesio con l‟intelletto
posso concepire una data azione (ad esempio rubare) e la volontà può dare l‟assenso o negarlo
a tale concezione dell‟intelletto, per Spinoza, al contrario, volontà e intelletto, volizione e
intellezione, sono lo stesso modo del pensiero, manca cioè la distinzione tra volto pratico e
volto teoretico del pensare, cosicché siamo noi a chiamare in due maniere diverse una singola
idea. Ne segue che quando mi rappresento l‟idea del rubare, a tale idea è necessariamente
connessa una qualche volontà, nel senso che quando penso a rubare, sto già sempre e
comunque volendo o non volendo rubare; non esiste – come invece pretendeva Cartesio – un
momento meramente intellettuale in cui penso al rubare e un momento successivo in cui
voglio o non voglio rubare: una siffatta argomentazione muove da una falsa prospettiva,
dovuta al fatto che talvolta abbiamo l‟impressione di pensare al rubare e, dopo, di poter volere
o non volere rubare; in realtà, stiamo – secondo Spinoza – semplicemente oscillando tra il
voler rubare e il non voler rubare, senza che ci sia il momento neutro del pensare al rubare e a
cui dare o no l‟assenso con la volontà.
Da ciò si evince come il fatto che io poi rubi o meno non sia frutto dell‟esercizio della libertà,
ma della sequenza causale in cui mi trovo inserito. Anche sotto questo profilo, non è possibile
individuare alcun dualismo, né è possibile riconoscere una libertà che si sottragga al
determinismo: la volontà è sempre vincolata alla necessità, a tal punto da essere da Spinoza
definita come “causa necessaria” e non come “causa libera”, poiché il fatto che io voglia
rubare piuttosto che non rubare è causalmente necessitato dall‟anello immediatamente
precedente nella catena causale.
Si deve allora concludere che per Spinoza non esiste libertà?
Se per libertà intendiamo che un singolo modo possa svincolarsi dalla catena causale che lo
lega agli altri, allora non esiste alcuna libertà (intesa qui come “libertà di”). Se tuttavia la
intendiamo come “libertà da” costrizioni esterne, allora possiamo a ragion veduta sostenere
che per Spinoza la libertà esiste: essa sarà, in particolare, non una libertà di agire in un modo
anziché in un altro, ma di obbedire alla propria natura, ancorché quest‟ultima sia necessaria.
In questo senso, la libertà non si oppone alla necessità: perfino Dio obbedisce alla propria
natura e proprio per ciò non è determinato da altro; la libertà, così intesa, è dunque opposta
non alla necessità (che è ineliminabile), ma alla coazione, ovvero l‟esser necessitati da altro.
A godere perfettamente della libertà come poc‟anzi delineata sarà solo Dio, mentre ogni altro
ente sarà sempre necessitato e per di più coartato.
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In sintesi, per Spinoza non esiste alcuna libertà per l'uomo:
―Tale è questa libertà umana, che tutti si vantano di possedere,
che in effetti consiste soltanto in questo:
che gli uomini sono coscienti delle loro passioni e appetiti
e invece non conoscono le cause che li determinano‖.
L'uomo, natura naturata, è dunque inserito in un meccanismo deterministico per cui tutto
accade poiché ab aeterno doveva accadere: solo Dio, natura naturante, è libero in quanto
causa sui, causa di se stesso, unica sostanza.
Riprendendo temi stoici e neoplatonici, Spinoza concepisce l'uomo come un “modo” (modo
di essere, un'espressione contingente, una manifestazione finita dell‟infinito) della sostanza
unica e se egli vuole essere libero deve convincersi della sua assoluta limitazione, negare tutto
ciò che lo allontana da questa persuasione, mettere da parte ogni desiderio e passionalità ed
accettare di far parte di quella essenziale identificazione di Deus sive Natura per cui la libertà
dell'uomo non è altro che la capacità di accettare la legge della necessità che domina
l'universo
Non a caso, nelle ultime parti dell‟Ethica more geometrico demonstrata6, Spinoza ci
parla significativamente della schiavitù degli uomini nei confronti delle passioni (De servitute
humana, la schiavitù umana) e, in secondo luogo, della liberazione da esse (De libertate
humana, la libertà umana): ogni singolo modo della sostanza (uomo compreso) è determinato
dalla catena causale nella misura in cui è inteso, appunto, come singolo modo; ma ciascuno
può vedere se stesso non come un momento particolare della catena, bensì sotto il profilo del
tutto, eliminando per tale via la propria separatezza dal tutto stesso: in questo caso, il soggetto
considera se stesso come sub specie aeternitatis, ossia vede con l‟occhio di Dio (e gode della
Sua libertà per partecipazione) e perde la propria individualità schiava: obbedisce cioè alla
propria natura necessaria senza costrizioni esterne, ed in ciò è libero (“libero da”).
La libertà in Spinoza è dunque il frutto della conoscenza intellettuale, di quell‟intelletto che
intuitivamente ci fa vedere le cose sotto l‟aspetto dell‟eternità e non dal nostro limitato punto
di vista.
6
L‟opera è organizzata in cinque parti così intitolate:
I – Dio;
II – La Natura e l‟origine della mente;
III – L‟origine e la natura delle passioni;
IV – La servitù umana, ossia la forza delle passioni;
V – La potenza dell‟intelletto, ossia la libertà umana.
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L‟intelletto ed il suo uso è quanto per Spinoza rende l‟uomo simile e partecipe di Dio, unica
sostanza; questa è l‟unica concezione di libertà ammessa dal filosofo: la libertà che ci viene
dall‟uso dell‟intelletto di Dio, assai differente dall‟intelletto cartesiano che aveva una
dimensione antropologica ed individualistica: l‟uomo spinoziano, se da sé solo, è schiavo
delle sue passioni. Solo il carattere catartico e purificante dell‟intelletto e della filosofia
panteistica può salvare l‟uomo ed ammettere per lui una minima dimensione di libertà.
Spinoza definisce schiavitù umana l‟impotenza dell‟uomo a dominare i suoi affetti, poiché in
tale situazione esistenziale egli non è determinante di se stesso ma “in balìa della fortuna”.
Differente invece è
“l’uomo che agisce secondo ragione ed intelletto perché è libero dalle passioni
[...] dato che la ragione non postula niente contro natura,
ovvero contro la sostanza, ovvero contro Dio”7.
Da queste osservazioni conclusive dell‟opera spinoziana, emerge anche la concezione della
virtù che ci consegna il filosofo: “la virtù consiste nell’agire secondo la propria natura”, che
è espressione della natura divina ed universale.
Ecco perché, conclude:
“L’uomo che è guidato dalla ragione
è più libero nello Stato,
dove vive secondo una dimensione comune,
che in solitudine,
dove obbedisce solo a se stesso, ed ivi è quindi schiavo”.8
Libertà ed Intelletto in quanto espressione della sostanza divina è quindi la „coppia‟
desumibile dal pensiero spinoziano.
7
8
B. SPINOZA, Ethica more geometrico demonstrata, Parte V.
Ivi.
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c.3. Il modello hobbesiano.
L‟altra soluzione di fronte al dualismo lasciato in eredità da Cartesio consiste
nell‟eliminare lo spirito e nel ridurre tutto a materia, consegnando ogni cosa nelle mani della
più
rigida
necessità,
dal
momento
che
nell‟estensione regna la determinazione causale: tale
è la soluzione avanzata da Thomas Hobbes (1588 –
1679), specie in tre scritti: Elementi di legge
naturale e politica (1640), Leviatano (1651) e Della
libertà e della necessità (1646).
Quest‟ultima è un‟opera particolarmente polemica,
in cui Hobbes si contrappone con veemenza alle tesi
di un vescovo che propugnava la libertà dell‟arbitrio.
Secondo Hobbes l‟azione dell‟uomo, infatti, non è
libera ma è sempre necessitata: per capire il perché,
occorre far riferimento alla gnoseologia hobbesiana,
che fa leva su un rigoroso sensismo per cui tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi
secondo un modello necessario simile a quello cartesiano, con però l‟aggiunta che, allorché le
impressioni arrivano alla sede centrale del corpo umano, gli urti prodotti dalle impressioni
esterne provocano una reazione che è da Hobbes detta conatus, sforzo; il che implica la
presenza nell‟organismo umano di una vitalità non meramente meccanica.
Secondo Hobbes, inoltre, esiste (come secondo Spinoza) un‟immediata coincidenza tra
pensiero e volontà, ed egli ammette che noi abbiamo quotidianamente esperienza sensibile
della cosiddetta deliberazione, tale per cui ci si chiede se rubare o meno e poi si delibera di
rubare. La deliberazione – nota Hobbes – non è che un‟alternanza di passioni contrarie,
appetiti e timori (desiderio di rubare e desiderio di non rubare), passioni che si confrontano
nella nostra mente quasi come se fosse in atto una lotta per cui ora sembra prevalere l‟una, ora
l‟altra. Ciò si traduce nell‟impressione di volere e di non volere, e alla fine prevarrà una delle
due: questa sarà quella che noi chiamiamo decisione o volontà.
Dunque, ciò che a noi orgogliosamente pare una nostra iniziativa, è in realtà il meccanico
trionfo di una passione, di un senso, trionfo di fronte al quale siamo interamente passivi:
“la deliberazione non è altro che un’immaginazione alternata […] di appetito e timore. […]
La deliberazione è successione alternata di appetiti contrari
nella quale l’ultimo è quello che chiamiamo decisione‖.9
9
T. HOBBES, Della libertà e della necessità .
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Il processo cade del tutto sotto il giogo della necessità: non solo c‟è rigoroso determinismo
nel processo mentale, ma anche tra volontà ed azione. Tra il mondo psichico delle idee e
quello fisico delle azioni non vi è alcuna frattura, ma vi è continuità causale, cosicché noi non
abbiamo libertà né di agire né di volere, se non illusoriamente. Infatti la volontà è determinata
dalla lotta delle passioni e l‟azione è determinata dalla già determinata volontà.
Perciò Hobbes insiste sul fatto che parlare di volontà libera sia un‟assurdità alla pari di
quando si parla di cerchio quadrato: è ben più che un semplice errore, quale può essere il
sostenere che pioverà perché si son viste le nuvole quando poi in realtà non piove 10 . La
volontà è sempre necessaria, e parlare di una volontà libera è un‟aberrazione: non esiste,
allora, alcuna forma di libertà intesa come “libertà di”; semmai esiste la “libertà da”
costrizioni esterne: sono cioè libero quando non sono in catene, quando mi muovo
liberamente senza che nessuno mi trattenga, anche se la mia volontà di muovermi è
necessitata. Per chiarirsi, Hobbes adduce l‟esempio del fiume: esso è libero di scendere a valle
perché non c‟è nessuna diga che lo ostacoli; ma non è libero di invadere i campi perché è
trattenuto dagli argini che lo limitano: tale è, appunto, la libertà umana, intesa meramente
come libertà da costrizioni.
Ora, queste sue disamine sul concetto di libertà – di fatto individualisticamente
inammissibile – trovano larga espressione anche sul pensiero politico espresso nel‟opera
esemplare Leviatano. Non staremo qui ad esaminare nel dettaglio il modello di Stato
propugnato dal filosofo, per il suo crude realismo soprannominato “scrittore maledetto”, ma è
bene tuttavia compiere ed illustrare taluni riflessi che la sua concezione della libertà
comporta.
Hobbes, testimone della Rivoluzione Civile Inglese, si fa sostenitore del modello politico
assolutistico, e sulla scia di un realismo machiavellico quasi palesemente dichiarato,
manifesta una concezione antropologica squisitamente negativa: l‟uomo è dipinto come un
soggetto di sensazione, più che di razionalità, portato più alle passioni che alla solidale
condivisione, realisticamente egoista e tendente al bene per sé piuttosto che al bene collettivo.
Questo giustifica la necessità di uno Stato super partes, rappresentato da un monarca unico e
solo – sulla scia del Principe machiavvelico – incarnazione di quel tutto necessario e
dominante che è l‟universo deterministico e meccanicistico di cui sopra si è parlato.
Il pactum subiectionis – patto di sudditanza –, anteriore al pactum uninios – patto di unione –
costituisce il momento politico fondante lo Stato hobbessiano, il momento in cui il cittadino
diviene suddito di un re, privandosi di ogni diritto e libertà individuale, e successivamente si
10
Cfr. Introduzione T. HOBBES, Della libertà e della necessità .
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unisce agli altri per dar logo alla dimensione collettiva dello Stato. Soltanto uno Stato così
assolutisticamente inteso può porre limite e controllo alla natura egoistica e bruta dell‟uomo,
che altrimenti rimarrebbe al livello di uno stato di natura in cui ciascuno è lupo per l‟altro
uomo (homo homini lupus) generando una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra
omnes).
La negazione della libertà individuale è così conditio sine qua non non soltanto si possa avere
uno Stato (dimensione politica del pensiero hobbessiano) ma diventa pure essa stessa
condizione per l‟esistenza dell‟uomo in sé: fuori da uno Stato così inteso, l‟unico possibile,
l‟uomo non vivrebbe.
Così, come nasce lo stato politico per questa stessa utilità, la sopravvivenza dell‟uomo, così
per questa stessa utilità – detta convenzione – l‟uomo decide di privarsi della libertà.
Libertà e Convenzione (frutto del deterrminismo da un lato e dell‟assolutismo dall‟altro) è la
„coppia‟ consegnataci da Thomas Hobbes.
c.4. Il modello kantiano.
Si è analizzato, da un lato, il modello dualistico prospettato da Cartesio, che garantisce
alla sostanza pensante la libertà, e, dall‟altro, il modello negante il dualismo stesso e, perciò,
rinunciante alla contrapposizione tra una res libera ed una necessaria, il tutto a svantaggio
della libertà, che viene inequivocabilmente a trovarsi
schiacciata dall‟imperare del determinismo più rigoroso.
Ma
la
soluzione
dualistica,
tramontata
immediatamente dopo la formulazione datane da
Cartesio, ritorna periodicamente nella storia della
filosofia successiva al Settecento, e il primo caso
significativo in cui la ritroviamo sostenuta con energia –
in difesa della libertà – è costituito da Emmanuel Kant
(Könisberg 1724 – 1804): il suo è però un dualismo
diverso da quello cartesiano, giacché provvede ad
eliminare le difficoltà contro cui il filosofo francese
s‟era scontrato; questi aveva parlato di due sostanze
opposte ma appartenenti ad un medesimo livello di realtà, tant‟è che nell‟uomo finivano per
interferire – sotto forma di anima e di corpo –, implicando una seria difficoltà nello spiegare
come due sostanze così eterogenee possano compenetrarsi in maniera tale che l‟anima si
„intrufoli‟ enigmaticamente nel corpo a dirigerlo secondo libertà.
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Il dualismo kantiano, invece, è molto più raffinato, in quanto non implica il sussistere di due
sostanze opposte ed interagenti nella stessa realtà, ma comporta piuttosto l‟esistenza di due
diversi livelli di realtà, uno sovrastante l‟altro: così, da un lato troviamo la realtà sensibile,
fenomenica, cui appartengono il corpo e tutte le sue determinazioni, e dall‟altro una realtà
intelligibile non data dai sensi ma a cui si può pervenire tramite un‟esperienza extra-sensibile:
il mondo noumenico. Così inteso, l‟uomo finisce per essere non una combinazione di due
sostanze (quale invece era secondo Cartesio), ma come un‟entità appartenente a due diversi
ordini di realtà e a due diversi mondi, sicché si tratterà di spiegare l‟interazione tra questi due
ambiti, ossia si dovrà render conto di come le azioni originate dalla realtà intelligibile possano
trovare una loro precisa corrispondenza in quella sensibile.
Prima di entrare in medias res, occorre tuttavia chiarire come questo dualismo
consenta a Kant di recuperare due posizioni diverse, riconoscendo, per un verso, un regno (il
mondo fenomenico) in cui vige la causalità meccanica e, per un altro verso, un regno (quello
intelligibile e noumenico) in cui impera invece una causazione non necessaria; pertanto il
dualismo kantiano, nel cercare un terreno per la libertà, assolve la stessa funzione di quello
cartesiano, ma senza incappare in quelle banali contraddizioni in cui il francese era scivolato.
Con questa sua soluzione, Kant, compiendo tale operazione di difesa della libertà nel mondo
noumenico, è rigoroso nell‟escludere ogni forma di libertà in quello fenomenico.
In opposizione con i post-cartesiani, infatti, Kant afferma chiaramente che tanto il
determinismo esterno (del mondo fisico) quanto quello interno (del mondo psicologico) sono
entrambi espressione del determinismo fenomenico, con l‟unica differenza che, per quel che
concerne l‟esteriorità n dato nello spazio, mentre per la mia interiorità, è dato nel tempo. In
entrambi i casi, tuttavia, è e resta parimenti fenomeno, ossia un qualcosa di dato sensibilmente
e, per ciò stesso, solo in termini di causalità necessaria, cosicché quando pensiamo alla nostra
vita interiore fenomenica dobbiamo pensare ad un mondo determinato necessariamente non di
meno di quello fisico.
Allora, la conclusione a cui Kant perviene è che o riesco ad uscire dal fenomenico (sia esterno
sia interno) e giungo ad attingere un livello di realtà extra-fenomenico oppure non c‟è scampo
e non vi è alcuna forma di libertà. Si tratta dunque di esaminare se vi sia la possibilità di un
livello di realtà che si sottragga alla fenomenicità, distinguendo il fenomeno dalla cosa in sé e
riconoscendo nel primo la necessità, nella seconda la libertà: se non potessimo operare tale
distinzione, “l’uomo sarebbe una marionetta […], costretto e caricato dal sommo maestro di
tutte le arti”11.
11
E. KANT, Critica della ragion pratica.
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L‟uomo, così inteso, sarebbe un automa, magari anche un automa illudentesi di essere libero,
poiché non in grado di scorgere la causazione operata dal burattinaio (Dio), le sue volizioni
sarebbero determinate da altre sue volizioni, e queste da altre ancora, ma all‟inizio qualcuno
deve aver messo in moto l‟automa, che così viene a dipendere dall‟azione esterna di un
artefice. Se tempo e spazio esprimessero la realtà ultima della cosa in sé (e non fossero solo
forme a priori della sensibilità), non vi sarebbe libertà alcuna e vigerebbe lo spinozismo, tale
per cui tutto cadrebbe sotto il dominio della fredda necessità.
Il rimprovero mosso da Kant al post-cartesianesimo non è tanto di aver rinunciato al
dualismo, quanto piuttosto di essere stato incoerente, poiché, rinunciando al dualismo, si è poi
impossibilitati ad ammettere la libertà a livello fenomenico. Il passo verso il noumeno non
può esser compiuto con quegli strumenti conoscitivi che si servono delle forme a priori della
sensibilità (spazio e tempo) e dell‟intelletto (le dodici categorie), poiché conoscere qualcosa
significa „fenomenizzarla‟, ovvero riconnetterla ad una rete di connessioni causali neganti la
libertà.
Per giungere al noumeno, si dovrà allora percorrere una strada alternativa, extra-gnoseologica,
la strada dell‟esperienza morale e pratica: ciò che Kant stesso chiama il primato della ragion
pratica.
Il problema, in effetti, è risolto nella Critica della ragion pratica, ma è già lumeggiato
nella Critica della ragion pura, seppur qui non sia minimamente risolto: discutendo sulle
modalità conoscitive, Kant ammette la possibilità della libertà, ma risulta una possibilità non
verificabile in un‟opera inerente di carattere gnoseologico quale è la Critica della ragion
pura, seppur non escludibile, aprendo in tal modo uno spiraglio al di là del determinismo
fenomenico.
La Critica della ragion pura si affaccia al problema della libertà, della libertà come possibilità
problematica che non può essere né esclusa né affermata; ma è la Critica della ragion pratica
che risolve tale problema, e lo fa in sede pratica, senza risvolti teoretici: è solo con l‟ingresso
nel campo morale della Critica della ragion pratica e della Fondazione della metafisica dei
costumi che il problema trova una sua debita risoluzione.
Si badi bene, tuttavia, che nelle due opere il problema è posto in maniera terminologicamente
diversa:
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 nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant si chiede se sia possibile una
volontà buona di per sé, tale per cui la sua bontà non sia funzionale ad un
determinato obiettivo, ma sia intrinseca alla volontà stessa.
 Invece, nella Critica della ragion pratica – che, tentando di seguire le orme della
Critica della ragion pura, si configura come un‟opera più tecnica – Kant si domanda
se la ragion pura possa essere pratica, ossia se, accanto alle mansioni conoscitive e
teoretiche esercitate a priori, essa possa anche determinare la norma dell‟agire
umano. Ciò equivale a chiedersi se essa possa determinare una regola pratica
d‟azione che sia universale, cioè per tutti valida.
Quale sia questo elemento di universalità, lo troviamo nella formulazione dell‟imperativo
categorico, così recitante:
“Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere,
al tempo stesso, che diventi una legge universale”12.
Ora, questa soluzione del problema morale comporta che la volontà intrinsecamente
buona (ovvero la ragion pura immediatamente pratica), oltre ad esprimere l‟universalità,
esprima un principio di autonomia, giacché, per essere universale, la volontà non può essere
determinata da passioni o da interessi estranei alla ragione, in quanto questi sono
necessariamente particolari. L‟unico elemento che possa determinare immediatamente la
volontà stessa, senza farla precipitare nella particolarità, è la ragione stessa nella sua
universalità, cosicché la volontà sarà universale nella misura in cui è determinata dalla
ragione. Tra questa e il mio io intercorre un rapporto di identità, nel senso che io sono la mia
ragione e, nella misura in cui la volontà è da essa determinata, sono io ad autodeterminarmi,
senza che vi sia un principio esterno che mi guidi; se invece la volontà è determinata da
passioni o da interessi particolari generati dalla sensibilità, allora tutto cambia, poiché la
sensibilità è manifestazione della natura interna, che è un qualcosa che non esprime l‟essenza
dell‟umanità (come invece è la ragione), giacché anche gli animali ne sono equipaggiati. La
sensibilità è allora un qualcosa di altro rispetto a noi, sicché, quand‟anche obbediamo alle
passioni nostre, stiamo in realtà obbedendo a qualcosa che non siamo noi.
Pertanto se agisco in modo tale che solo la ragione determini la mia volontà, il mio agire sarà
autonomo, mentre se la volontà è determinata dalla sensibilità, allora la mia azione sarà
eteronoma. A tal proposito, Kant scrive che
12
E. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi.
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“L’autonomia della volontà è quel carattere della volontà
per cui essa è legge a se stessa,
indipendentemente dai caratteri”.13
L‟autonomia diviene così la più alta espressione di libertà, in quanto rappresenta entrambi gli
elementi componenti della libertà: da un lato, la libertà negativa (“libertà dalla” natura, dalla
sensibilità, dalle passioni e dai “moventi eteronomi”); dall‟altro, la libertà positiva come
autodeterminazione, per cui non mi limito a rifiutare l‟impulso sensibile, bensì lo rimpiazzo
con le prescrizioni della ragione, che detta una legge coincidente con me stesso, senza
determinazioni esterne e la libertà diviene ―quel carattere per cui si può agire senza
dipendenze da enti esterni”, diviene “libertà di”.
Ne deriva che autonomia (o libertà) e morale sono indisgiungibilmente connesse,
giacché non può esserci moralità senza libertà, e viceversa. L‟uomo kantiano è sì sottoposto
all‟obbedienza degli imperativi categorici, che fungono da regole della sua azione pratica, ma
questi nel contempo sono espressione di una legge morale universale (e perciò stesso
noumenica) che egli coglie grazie alla sua ragione (prima pura e poi pratica); tale legge
morale giustifica a sua volta (senza dover essere giustificata essa stessa) la libertà, in quanto
questa è condizione essenziale per l‟esercizio della moralità.
In una nota della Critica della ragion pratica, Kant distingue tra due piani: da un lato, la
libertà è la ratio essendi della moralità (ovvero la condizione per la sua esistenza), dall‟altro la
moralità è la ratio cognoscendi della libertà (ossia la condizione per conoscerla).
L‟adesione alla volontà universale è sia ciò che rende l‟uomo autonomo, ovvero libero, che
conforme alla moralità, ovvero ad una Legge Morale Universale espressione elevata ed
assoluta del mondo noumenico. Nel mondo fenomenico, in quanto mondo sensibile, non vi
può essere libertà, ma nel mondo noumenico, se ne ha invece la più alta espressione. Eppure,
tutto dipende dalla ragione dell‟uomo: quanto più essa è elevata, quanto più essa è ratio
conoscendi e ratio agendi, tanto più l‟uomo è autonomo e quindi libero.
Questo è quanto lo stesso Kant aveva affermato nel rispondere al quesito Che cos’è
l’Illuminismo? assunto successivamente a manifesto del movimento settecentesco:
―L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità,
il quale è da imputare a lui stesso.
Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto, senza la guida di un altro.
Imputabile a se stessi è questa minorità
13
Ivi.
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se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza,
ma dalla mancanza di decisione
e nel coraggio di servirsi de proprio intelletto senza esser guidati da un altro.
Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza –
è dunque il motto dell’Illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini,
dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione,
tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita
e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori.
[...] Quindi solo pochi sono riusciti, con l’educazione del proprio spirito,
a districarsi dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro‖14.
Kant ci consegna così la „coppia‟ Libertà ed Autonomia, dettata da una Ragione
conforme alla realtà noumenica, Libertà ed Autodeterminazione razionale. Quella scelta
autonoma che determinata dalla ragion pura, e realizzata dalla ragion pratica, è chiamata
„libera scelta‟.
Sintesi: Con Kant cambia completamente la prospettiva della concezione della libertà che non
appartiene più al mondo dei fenomeni sensibili ma a quello che fonda l'esperienza, al mondo
metafisico del noumeno.
Nel mondo empirico e sensibile della realtà fenomenica non esiste la libertà poiché ogni atto è
naturalisticamente condizionato e determinato; tuttavia l'uomo nel suo comportamento morale
si sente responsabile delle sue azioni: quindi se da un lato la scelta morale implica la
necessità, l'impossibilità di sfuggire all‟imperativo categorico che ha valore normativo, in
quanto fatto di ragione, dall'altro devo tuttavia postulare l'esistenza della libertà.
I due termini, apparentemente inconciliabili, di libertà e necessità possono invece coesistere
nel concetto di autonomia: nel senso che l'uomo obbedisce ad una legge che egli stesso
liberamente si è dato, in quanto espressione di una volontà universale che lui stesso manifesta.
14
E. KANT, Che cos’è l’Illuminismo?
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Padre del razionalismo illuministico, Kant dà così il via ad un filone filosofico e
culturale che porta alla massima esaltazione la ragione dell‟uomo: essa diventa lume della
conoscenza, con Kant lume dell’azione, ed espressione della libertà naturale che i modelli
deterministici, meccanicistici o pure assolutistici avevano voluto negare all‟uomo. Ora la
libertà ha la sua incarnazione nella Dea Ragione, e
diventa emblema di una società che tende a
denunciare ogni sopruso che ne voglia limitare
espressione, dinamismo e manifestazione.
La Storia ne è testimone, la Cultura ne è
testimonianza.
La libertà diventa concetto popolare, ed acquista
connotazioni sempre più politiche, ideologiche e
sociologiche... mentre il pensiero filosofico si fa
carico del compito di denunciarne la privazione e di
tutelarne la natura giuridica.
(E. Delacroix, La Libertà che guida il popolo – Parigi, 1830)
Per gli illuministi, la libertà è lo stato naturale dell'umanità, distrutto dalla civiltà oppressiva e
dalla sua evoluzione-involuzione, e come denuncia Jean Jacques Rousseau, “l’uomo è nato
libero, ma ovunque è in catene”15.
L‟Ottocento non a caso sarà il secolo dei movimenti indipendentisti; esaltando una
profonda dimensione sentimentalista e nazionalistica, la cultura romantica porrà al centro
della propria analisi la libertà come valore dell‟esistenza, non aggiunto ma da riconquistare, e
l‟età del Positivismo porrà al centro della propria riflessione un uomo che torna protagonista
della sua esistenza e del suo agere contro ogni determinismo e causalità necessaria.
Vediamone ora in successione i modelli relativi.
2. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI LIBERTÀ.
2.a. Libertà e filosofia dell’Ottocento.
L‟evoluzione nella storia della filosofia ed il suo avviarsi nel XIX secolo, delineano
un‟altra maniera di affrontare la problematica della libertà. Essa consiste nel fare riferimento
ad una realtà assoluta in cui vi è, sì, necessità, ma in cui – proprio perché si tratta della realtà
assoluta – questa necessità viene a coincidere spinozianamente con la libertà: con la
conseguenza che l‟uomo, per essere libero, deve partecipare dell‟Assoluto e della libertà che
15
JEAN JACQUES ROUSSEAU, Il Contratto sociale.
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gli è propria. È questa la soluzione prospettata dall‟Idealismo tedesco a cavallo tra Settecento
e Ottocento, ma che torna ancora in pieno Novecento (basti ricordare il cosiddetto
Neoidealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile). Con modalità diverse e con differente
sensibilità, i tre protagonisti dell‟idealismo tedesco – Fichte, Schelling e Hegel – confinano la
libertà dell‟uomo (libertà individuale) nella libertà dell‟Assoluto (libertà universale), facendo
enigmaticamente coincidere la necessità e la libertà, e scomparire quel dualismo che aveva
accompagnato i secoli precedenti.
In particolare, le loro osservazioni muovono da una pesante quanto pungente critica al
sistema kantiano, ed in particolar modo alla sua netta separazione tra un Io-fenomenico, che
in quanto soggetto alle pulsioni naturali e alla sensibilità (il mondo degli impulsi corporei,
naturali, psicologici, empirici) ci rende eteronomi, ed un Io-noumenico, coincidente con la
stessa ragione e l‟individualità metafisica più autentica e perciò stesso quanto ci rende
autonomi; per il modello kantiano, come si è analizzato, condizione della moralità e della
libertà è l‟eliminazione dell‟impulso naturale: si deve cioè eliminare la „parte animale‟
presente in noi per poter così diventare meri esseri razionali ed accedere alla piena libertà.
Al contrario, gli Idealisti prima ed i Romantici poi affermano con forza che libertà non è –
come era per Kant – un fare come se la sensibilità non ci fosse: essa è, invece, dominare una
sensibilità ineliminabile in quanto costitutiva dell‟uomo. Questa nuova via al sentimento,
come espressione della dimensione interiore e non mero quanto banale sentimentalismo, è la
via percorsa dai pensatori del primo Ottocento, che pur nelle proprie peculiarità riaffermano
un tratto della libertà più emotivo e meno razionalistico, ponendosi così in netta opposizione
con i grandi della modernità, Cartesio e Kant.
Vediamo, velocemente, in che senso.
a.1. Il modello hegeliano
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda
1770 – Berlino 1830) fonda il suo sistema filosofico
sull‟assioma che alla base del reale vi sia un essere
assoluto, uno Spirito Assoluto, infinito, perfetto e
razionale, di cui tutto il finito ed il determinato (il
mondo, la natura, l‟uomo stesso) sono espressione e
manifestazione. Questa coincidenza fondante ogni
passaggio del suo pensiero è espressa attraverso il
celebre motto:
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―Ciò che è razionale è reale;
e ciò che è reale è razionale”16
vale a dire che tutto ciò che esiste (il reale) è razionale in quanto espressione e manifestazione
finita dell‟Assoluto che è Ragione, non illuministicamente intesa ma in quanto ordine
perfetto, intelligente ed armonico. Su questa coincidenza tra Soggetto (Assoluto) ed oggetto
(il mondo finito), anche se quest‟ultimo è una determinazione contingente – dacché l‟Assoluto
è radicato nell‟individualità dell‟oggetto che è il soggetto del mondo reale –, si ravvede una
possibile teoria della libertà.
Il reale, difatti, si manifesta in maniera finita e contiene nell‟in-sé che lo rappresenta
l‟Assoluto; eppure non ha la perfezione e la completezza di quest‟ultimo. Attraverso un gioco
di parole, pertanto, potremmo definire il reale determinato – in quanto dato hic et nunc – ma
nel contempo indeterminato nel senso di „non compiuto‟, poiché costantemente tendente alla
perfezione e al completamento che è l‟Assoluto stesso. Quest‟idea di un mondo in constante
divenire, quasi a riecheggiare un antico panta rei, è espressa da Hegel in chiave metodologica
attraverso il riferimento, costante e continuo, all‟esistenza di una processualità dialettica cui
il tutto reale è sottoposto. La sua articolazione nei tre momenti di tesi – antitesi – sintesi dà al
tutto un aspetto dinamico ma nel contempo necessitante, da cui nulla è esentato: l‟Assoluto è
perfezione, pertanto è anche libertà, e il reale in quanto sua manifestazione finita, è partecipe
della libertà dell‟Assoluto ma non ancora completamente in possesso di essa. Nella
processualità dialettica, metaforicamente in questa sede assunta come immagine dell‟esistenza
che si dà e diviene, vi è la conquista della libertà individuale. L‟uomo è quasi illuso di essere
libero nella sua singolare individualità, come se la libertà fosse una sua prerogativa ed un suo
dato ontologico, e conquistarla in un cammino di ascesa verso l‟Assoluto che altro non è che
il cammino dell‟esistenza stessa dell‟individuo, assunto sempre come manifestazione finita
dell‟infinito che è l‟Assoluto. Sicché vi sarà un primo momento negativo di mortificazione
dell‟individuale ed un secondo momento positivo in cui l‟individuo ritrova la propria libertà
nell‟essere inserito nel tutto.
Esempio sublime di questa iniziale mortificazione – presa d‟atto della non libertà contingente
– e della successiva conquista della vera libertà, si ha nella cosiddetta dialettica servopadrone, tratteggiata nella Fenomenologia dello Spirito.
16
G. F. W. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio
(1821).
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Questo celebre passaggio è utilizzato dal filosofo come immagine chiave dell‟autocoscienza
del soggetto, ovvero il momento in cui il soggetto prende piena coscienza di sé e della propria
situazione esistenziale ed ontologica e pure di libertà. Come il servo ha bisogno del padrone
per avere salva la vita ed i propri interessi materiali (sussistenza, felicità, viveri) mettendosi al
servizio di altri (il proprio lavoro), così il padrone ha bisogno del servo per esercitare il
proprio status sociale ed economico. Ma chi è il vero libero?
In apparenza, la relazione dialettica così profonda tra i due sembra un legame tra due
esistenze in cui l‟una è vitale all‟altra; e di fatto è così. Ma laddove uno dei due decidesse di
„sganciarsi‟ dall‟altro, il soggetto veramente autonomo non sarebbe il padrone, bensì il servo
che ha in sé gli strumenti per operare ed essere indipendente, ovvero libero: l‟arte del lavoro.
Ecco perché – al di là degli usi che nella storia poi ne sono stati fatti17 – la celebre espressione
hegeliana de
―Il lavoro rende liberi‖18
assume un carattere fondamentale all‟interno dell‟economia generale del nostro percorso.
In effetti, questo “rovesciamento” di ruoli e di funzioni, per il cui il vero servo diviene il
padrone che non avendo in sé il possesso dell‟arte del lavoro ha un bisogno vitale che il servo
sia al suo servizio, fa sì che il lavoro divenga formazione e liberazione in costante movimento.
In tal senso, possiamo altresì affermare che nel sistema hegeliano tutto è lavoro: il processo
dialettico è lavoro, la formazione dello spirito del reale è lavoro, il mondo è lavoro... e proprio
nel senso di liberazione.
In effetti, lo stesso processo di costituzione dello Spirito come Totalità è lavoro:
―lo Spirito non esiste mai e in nessun luogo
se non dopo il compimento del suo lavoro‖.
Lo Spirito, quindi, non va inteso „solo come sostanza‟, „ma anche come soggetto reale‟, e il
soggetto non è da pensare come dato, ma come attivo realizzatore di quel processo in cui
perviene alla piena consapevolezza di sé mediante l‟assimilazione di ciò che si presenta come
altro e contrapposto. Lo Spirito prende progressivamente, dialetticamente, coscienza di sé
17
Arbeit macht frei ('Il lavoro rende liberi') era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento
nazisti durante la seconda guerra mondiale. La scritta assunse nel tempo un forte significato simbolico,
sintetizzando in modo beffardo le menzogne dei campi di concentramento, nati inizialmente come campi di
lavoro ma divenuti campi di concentramento, nei quali i lavori forzati, la condizione disumana di privazione dei
prigionieri e sovente il destino finale di morte, contrastavano in maniera netta e voluta con il significato opposto
del motto stesso.
18
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito.
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nella coscienza dell‟uomo, e successivamente intercorre nella lotta con l‟altro perché questo
suo status superiore gli sia riconosciuto... ed è di nuovo un lavoro!
Ad un‟analisi ancora più approfondita, Hegel sembra come affermare che il lavoro è ciò che
consente all‟uomo, e alla società tutta, di istruirsi, crescere, formarsi, come a dire che la vera
libertà sia proprio la cultura, e ciò che si è realmente: lo smascheramento dei falsi ruoli che la
società ha imposto è quanto il messaggio hegeliano ci vuole comunicare. Il lavoro stesso è
culturalmente strutturante, ed è dunque „formazione‟: l‟uomo si appaga sempre più mediante i
propri prodotti (lavorati). Il lavoro produce così cultura (Bildung), sia teorica che pratica,
formazione, educazione, universalizzazione... insomma, produce libertà. L‟incivilimento, ciò
che Rousseau ha tanto criticato nel suo Contratto sociale definendo lo stato politico una
„involuzione‟ rispetto allo stato di natura dell‟uomo, non è decadenza e corruzione, bensì
liberazione ed umanizzazione.
Questo riconoscimento di ciò e di chi si è realmente, al di là di ogni apparenza sociale,
è la condizione preliminare per essere liberi, poiché ciò non è ancora essere liberi totalmente;
per essere veramente tali, occorre partecipare a quell‟istituzione che concretamente nel mondo
dello Spirito esprime la realtà del tutto: tale istituzione è lo Stato, espressione più elevata
dell‟Assoluto nell‟ambito delle istituzioni.
Esso non è che lo Spirito assoluto manifestantesi nell‟esteriorità delle istituzioni, cosicché se
l‟individuo partecipa dello Stato non come mero „borghese‟ – individuo che vuol sfruttare lo
Stato per realizzare i propri interessi –, ma come „cittadino‟ – momento costitutivo dello Stato
–, allora egli realizza la sua appartenenza al tutto ed è un momento della totalità. In questo
caso, la volontà dell‟individuo diventa volontà dello Stato, e viceversa, cosicché l‟individuo
stesso realizza la propria libertà identificandosi nella legge dello Stato, inteso da Hegel come
il tutto che perfeziona l‟individualità inserendola in una rete complessiva.
In tal caso sarà per Hegel possibile parlare di “libertà sostanziale”, distinta dalla “libertà
formale”, che è quella che assegna all‟individuo un certo ambito di giurisdizione contrapposto
a tutti gli altri individui, è quella che oggi chiamiamo “libertà civile”; la libertà sostanziale,
dal canto suo, è quella non già dell‟individuo, bensì dello Stato come personificazione
istituzionale dell‟Assoluto, e, nella misura in cui partecipa dello Stato, l‟individuo partecipa
anche di tale libertà politica, consistente nel co-gestire la cosa pubblica: non è più una libertà
settoriale a porzioni, ma è una libertà sola da tutti partecipata.
Per Hegel lo Stato moderno così inteso ha il merito di conciliare le due libertà, a differenza
dello Stato antico – in primo luogo la polis greca – che privilegiava quella sostanziale,
sacrificando quella formale; nello Stato moderno, la libertà formale è invece assegnata e
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tutelata dallo Stato stesso. Resta però il fatto che la libertà di cui parla Hegel è una libertà di
tipo politico/giuridico e non morale: questo perché, secondo Hegel, la libertà
giuridico/politica è quella suprema, ricomprendente in sé qualsiasi altra libertà, giacché il
momento dell‟eticità è superiore a quello della moralità interiore di marca kantiana, la quale è
espressione di un puro dover essere, una mera idealità superata dall‟eticità concreta: per
essere veramente libero, devo incarnare la mia libertà nell‟istituzione dello Stato, riconosciuta
da me stesso e dagli altri la mia reale individualità (autocoscienza). La „coppia‟ che possiamo
così desumere dal pensiero hegeliano è Libertà e Stato, poiché fuori da esso, inteso come
espressione massima dell‟Assoluto, non è ammissibile alcuna libertà.
Nello Stato la libertà giunge al suo supremo diritto ed esso ha potestà sugli individui: solo al
suo interno giunge alla compiutezza etica e alla piena libertà dell‟individuo, poiché:
―nello Stato vige il sistema del diritto
che è il regno della libertà realizzata‖19.
Nella costituzione razionale dello Stato, ossia nella libertà pubblica, si realizza la garanzia
della libertà stessa ed “è data in sé l’unificazione della libertà e della necessità; è la libertà
sostanziale”.
La libertà particolare dei singoli individui, intesa come distinta e contrapposta a quella dello
stato, la libertà formale, è e resta un‟astrazione.
a.2. Maestri del sospetto – Introduzione.
Paul Ricoeur (Francia 1913 – 2005), ermeneuta e filosofo contemporaneo francese,
conia l‟espressione “scuola del sospetto” in riferimento ai tre grandi filosofi di fine Ottocento:
Marx, Nietzsche e Freud, per questo denominati Maestri del sospetto.
La portata titanica del loro pensiero, nonché le ripercussioni sulla successiva filosofia
contemporanea, ne hanno fatto dei „pensatori spartiacque‟ tra le correnti ancora legate ai
grandi sistemi della modernità e quelle, invece, innovative e riflesso più adeguato della
società contemporanea. Resta che Ricoeur avrebbe potuto semplicemente identificarli come
„nuovi filosofi‟ e „filosofi nuovi‟, ma in realtà il livello di indagine che rispettivamente
ciascun filosofo mette in atto è una decisa rottura con il passato, tanto da generare una vera e
propria crisi – dal greco krisis, separazione, rottura – su quelle certezze dogmatiche,
teoretiche e culturali in genere su cui ci si era fondati fino ad allora.
19
G. F. W. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto.
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Questi pensatori generano, così, uno stato per l‟appunto di „sospetto‟, in cui quasi
cartesianamente tutto è in dubbio e nulla è più ammissibile con la certezza passata; scopo
della loro riflessione è così smascherare la verità della realtà, andandone in profondità,
introducendo nuove categorie di comprensione e nuovi paradigmi filosofici.
La loro portata va dunque assunta come rivoluzionaria per il pensiero. Essi sono i primi a
sospettare che al di là della realtà apparente, quella convenzionalmente assunta come vera, vi
sia qualcosa altro di diverso e di più “reale” della realtà stessa da esplicitare ed indagare, in
maniera nuova e con occhi nuovi, per meglio capire i meccanismi regolanti la realtà visibile.
E per esprimere questo „cambiamento di rotta‟ compiuto dalla filosofia nel passaggio tra
Ottocento e Novecento credo sia significativa l‟espressione utilizzata da Marx:
―I filosofi finora hanno solo interpretato il mondo;
ora si tratta di cambiarlo.‖20
che rimanda già da sé ad un chiaro inno ad una potenza tutta nuova che acquista l‟uomo di
questo tempo.
In particolare, la „rottura‟ avviene secondo questi tre differenti ambiti, tre modi nuovi di
comprendere la dimensione sociale, quella religiosa e, non da ultimo, quella antropologica:

Ambito storico-economico-sociale:
Secondo Marx, la realtà non è la manifestazione – come ad esempio nel modello
hegeliano – di un‟entità assoluta e trascendente, ma la dimensione della realtà tutta è
una dimensione materialistica (e non ideale ed astratta) e nello specifico è sostanza e
struttura economica. La sua concezione della libertà, vedremo quindi essere collegata
a tale prospettiva.
Per il filosofo, il mondo che vediamo e in cui siamo immersi presenta molti altri
rapporti, ma sono tutti sovrastrutturali, ovvero secondari rispetto ad una realtà
superiore in virtù della quale possono essere spiegati: tale realtà è appunto l‟economia.

Ambito religioso-culturale:
Similmente, per Nietzsche, il mondo in cui viviamo è impregnato di una grande
“menzogna millenaria” che è il Cristianesimo e la religione in genere, con i suoi
dogmi e la sua morale; il suo sistema filosofico giunge ad affermare con un grande
grido per la società contemporanea che in realtà “Dio è morto”, segno di un ritorno al
reale antropologico più autentico, ad una società “umana, troppo umana” in cui sia
l‟uomo a farsi da sé e per sé, e non in vista di una trascendenza che non è né
20
K. MARX, Tesi su Feuerbach.
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contemplabile né ammissibile. L‟uomo è così interpretato in termini di “volontà di
potenza”, massima espressione della libertà, e con una natura principalmente arazionale e vitalistica che si deve accettare e cui si dive dire sì.

Ambito antropologico:
Questa natura dell‟uomo, già anticipata da Nietzsche, diventa oggetto fondamentale di
indagine nella psicoanalisi di Freud; essa fa ben emergere come le azioni che
abitualmente compiamo non siano spiegabili se non riconducendole a pulsioni
nascoste e rimosse dalla coscienza, modificando radicalmente la comprensione che si
è avuta dell‟uomo fino a quel momento, di impronta cartesiana ed illuministica e
pertanto dell‟uomo come soggetto razionale. Ora l‟uomo è principalmente un soggetto
volitivo e di passioni inconsce ed irrazionali, cui dipende necessariamente
l‟interpretazione della libertà consegnataci dal filosofo.
Vediamo ora nel dettaglio i tre differenti modelli.
a.3. Maestri del sospetto - Il modello marxista.
La posizione filosofica di Karl Marx (Treviri 1818 – Londra 1883) è più
comunemente nota come Materialismo storico e sociale e Filosofia della prassi.
Per il filosofo, infatti, ogni indagine sulla realtà deve partire dalla realtà stessa e coglierne le
relazioni vere e fondanti. Alla teoretica e all‟astrazione dei suoi predecessori, Marx sostituisce
l‟osservazione – quasi scientifica – della realtà e la scoperta dei reali rapporti dialettici che la
caratterizzano; afferma così che
―Lo studio del mondo reale
deve prender in considerazione la realtà effettiva,
empirica e materiale
dell’uomo e del mondo in cui egli vive‖21.
Il pensiero marxista, così, si delinea a tratti come
un‟antropologia, in altri casi come una sociologia,
fino a divenire una vera e propria riflessione politica.
Dare quindi una connotazione univoca ad un sistema
filosofico così complesso risulta impresa del tutto
21
K. MARX, Manoscritti economici-filosofici (1844).
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audace; in questa sede, tuttavia, cercheremo di soffermare la nostra attenzione su un percorso
che cammini lungo l‟ingente opera letteraria marxista al fine di delinearne una sua „teoria
della libertà‟ tutt‟altro che semplice.
Marx, da buon esponente della cosiddetta Sinistra hegeliana, avvia la sua riflessione
dall‟adesione al sistema hegeliano in cui, per l‟appunto, la storia, la società tutta, il reale
intero, è una processualità dialettica di rapporti interconnessi tra loro ma, a differenza del
tedesco idealista, non ammette un‟entità assoluta e trascendente di cui la realtà è
manifestazione, ma la realtà è manifestazione di se stessa, è materia in sé e per sé sussistente.
La storia, lo Stato, il mondo, l‟uomo stesso non sono manifestazioni finite di un Assoluto, ma
determinazioni autonome e materialisticamente intese di se stesse. Questo quanto si può
riassumere con la concezione del Materialismo storico e sociale.
In tale ottica, la società, vera ed unica protagonista della storia, è composta da:

una struttura: base, fondamento della società, composta dalle forze produttive (uomini,
mezzi e strumenti, conoscenze tecniche) e dai rapporti di produzione (ovvero le
dinamiche dialettiche che collegano le forze produttive tra loro). In altre parole, la
struttura è la base economica della società, quell‟unico motore determinato e reale, ed
economico appunto, che per Marx muove la tutta società e la storia intera.

una sovrastruttura: ovvero tutto ciò che si edifica sulla struttura; in altre parole la
politica, le ideologie, la morale, la religione, la filosofia...
Partendo da questa duplice articolazione e dal rapporto dialettico tra le due parti, la storia è un
prodotto sociale, empirico ed oggettivo dell‟uomo, il risultato delle sue reali relazioni ed
azioni: in tal senso, il Materialismo storico e sociale va inteso come una Filosofia della
prassi, dal verbo greco praxo, fare, agire – , secondo un‟ottica squisitamente
antropocentrica in cui l‟uomo è il protagonista assoluto dello spazio e del tempo attraverso il
suo fare, ovvero – sulla sia hegeliana – il suo lavoro.
Ma mentre Hegel ci aveva proposto, attraverso l‟immagine della dialettica servo-padrone,
un‟interpretazione ideale ed astratta di tale rapporto, al fine di denunciarne l‟esistenza ed i
falsi status sociali che ne derivavano, Marx ambisce – da buon materialista ed uomo concreto
e della prassi – che tale rovesciamento di ruoli ed il relativo riconoscimento possa avvenire
effettivamente, nella storia e nella società del suo tempo, quella capitalistica di fine Ottocento.
Il servo (hegeliano) diventa così il proletario (marxista), ed il padrone (hegeliano) diventa il
capitalista (marxista).
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La società di Marx vuole la realizzazione effettiva di questo rovesciamento di ruoli e del
riconoscimento della vera libertà di chi nella società in realtà è sottomesso; ecco così che il
discorso marxista si fa discorso politico, inneggiando alla lotta di classe che è una vera e
propria lotta politica per la libertà (reale ed effettiva) del proletariato, contro ogni sopruso
della società borghese e capitalista, contro ogni mancato riconoscimento del lavoro del
proletario, del suo compenso economico e della sua opera sociale, nella consapevolezza che
l‟economia, e null‟altro, sia il vero senso della storia e della società.
La tesi centrale della filosofia marxista diventa così la consapevolezza concreta che
senza il lavoro ed il lavoratore non può esserci società e storia. Ma mentre il lavoro in Hegel
era formazione, educazione, cultura e liberazione22, in Marx il lavoro è economia e prodotto
materiale ed il lavoratore è il vero protagonista della società cui va riconosciuta a priori libertà
morale, giuridica e politica; laddove ciò non avvenga
―è legittima, nonché lecita
ogni forma di ribellione, di lotta sociale e di rivoluzione
che sia in grado di abolire ogni potere dell’uomo sull’uomo
[...]e di eliminare ogni condizione di privazione di libertà‖23.
La conquista e/o la riconquista della libertà individuale, e nel contempo della classe sociale
proletaria, diventa ciò che giustifica la dittatura del proletariato incarnata dal modello
politico comunista.
Ne deriva che la concezione della Libertà in Marx, ovunque sottesa in tutti i suoi scritti,
diventa un tutt‟uno con i concetti di uguaglianza e solidarietà, che nell‟ideologia del pensatore
trovano espressione nella società comunista.
Ecco una prima coppia in Marx: Libertà ed Uguaglianza.
Partendo proprio dagli scritti di Marx, benché egli non faccia mai un‟analisi diretta e
squisitamente concentrata sul tema della libertà, si può scoprire che in realtà, secondo Marx,
libertà ed eguaglianza non sono due principi distinti a cui occorre assegnare un peso maggiore
all'uno e un peso minore all'altro; libertà ed eguaglianza anzi, si completano assieme, se non
esiste l'uno non esiste l'altro, si integrano e si perfezionano solo se non sono disgiunti.
Di più, le osservazioni compiute fin qui ci fanno ben intuire che l'idea di libertà si lega da
sempre a quella dimensione che è lo Stato e soprattutto alla „forma‟ di Stato. All'analisi critica
marxiana soggiace una forma di Stato che oggi è praticamente scomparsa: lo „Stato liberale
22
23
Cfr. Paragrafo a.1. pag. 28 del presente lavoro.
K. MARX, Manifesto del partito comunista.
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classico‟, un modello in cui dallo Stato e dai suoi apparati era esclusa la maggioranza della
popolazione, le classi subalterne non avevano la possibilità di esprimere una qualsiasi forma
di voto o preferenza politica poiché il sistema elettorale era basato sul censo. Tutto lo Stato
era insomma sbilanciato decisamente verso le classi proprietarie, ovvero le classi che
materialmente gestivano ed amministravano l'apparato statale.
Da qui la denuncia di Marx ed il suo inno alla rivoluzione sociale che rovesciasse l‟assetto
politico e burocratico dello Stato, e consentisse il passaggio da una libertà liberale – di pochi,
dei capitalisti, dei proprietari – ad una libertà democratica, ovvero di tutti, dei proletari: una
libertà che fosse intesa come partecipazione, ovvero libertà di partecipare alla gestione dello
Stato, all'attività legislativa, all'informazione, alla divulgazione del pensiero, libertà di
associarsi in partiti, sindacati ecc. In una parola: democrazia.
Questo è quanto nel dettaglio, e nel modello di Stato da lui propugnato, Marx chiama libertà
socialista, da intendere come evoluzione della libertà democratica.
Il concetto di “libertà socialista” così come idealizzata da Marx, parte in effetti dalla libertà
democratica, ma ne evidenzia alcuni aspetti e ne migliora altri. La libertà democratica infatti,
se non accompagnata da un'uguaglianza sostanziale fra gli individui, dall'eguaglianza
economica, culturale e materiale, rischia di ratificare comportamenti e risultati poco
democratici: ovvero che individui dotati di maggior disponibilità economica, avvantaggiati
materialmente e culturalmente rispetto ad altri individui, possano interferire su chi è più
svantaggiato e dunque influire le libere decisioni democratiche.
Il socialismo per Marx diviene l'azione tesa a promuovere l'uguaglianza materiale, economica
e culturale tra gli individui; quest'uguaglianza è condizione necessaria per sviluppare
l'uguaglianza democratica, ovvero per impedire che alcuni abbiano una possibilità di influire
sulle decisioni democratiche molto maggiore di quella di altri.
Il socialismo è dunque necessario per una libertà democratica effettiva, mentre il capitalismo
è inaccettabile perché limita in modo troppo radicale la democrazia, intesa come eguale
sovranità dei cittadini. Da qui la sua conclusione che
―Solo nella comunità e nella società socialista,
diventa allora possibile la libertà personale‖24.
E che:
―La reale sfera della libertà comincia solo laddove
termina il lavoro comandato dalla necessità
e dalla finalità esterna‖25 .
24
K. MARX, L’Ideologia tedesca.
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La libertà socialista non richiede solo uguali diritti e non si accontenta neppure di uguali
poteri (sarebbe allora libertà democratica): il punto che più la caratterizza è che essa esige,
con la libertà e l'uguaglianza, anche la fraternità e la solidarietà.
―La libertà deve essere intesa come potere sulle circostanze,
controllo sulle condizioni della propria vita
che si accresce in quanto non si dipende più dagli esiti casuali
di rapporti che sono possono svolgersi anche nella forma
della competizione, della concorrenza o del conflitto,
ma in quanto si gode, per così dire, di una assicurazione gratuita di tipo solidaristico. [...]
La libertà socialista racchiude in sé certamente alcune libertà liberali e tutte le libertà
democratiche;
ciò che lo caratterizza però è il fatto che in essa l'accento non cade solo sull'uguaglianza di
diritti e sull'eguale sovranità,
ma altrettanto fortemente sul punto della solidarietà sociale‖26.
La „coppia‟ marxista diventa allora un gioco di „coppie‟: Libertà non è soltanto
Uguaglianza, ma è anche Partecipazione (politica), è anche Solidarietà (umana).
a.4. Maestri del sospetto - Il modello nietzscheano.
Data la complessità della sua filosofia, riflesso geniale della sua presunta folli,
veniamo subito al puto nodale: Friedrich Wilhelm
Nietzsche (Röcken 1844 – Weimar 1900) è
saldamente convinto che l‟uomo sia libero solo
illusoriamente, in quanto determinato da una forza
che non è nelle sue mani e che non è di tipo
razionale, ma ha radice vitalistica.
Tale elemento vitalistico che sta alla base della
nostra determinazione non può in alcun modo essere
negato, ma deve anzi essere affermato e accettato,
dicendo “sì” alla vita in tutte le sue forme.
Anche Freud seguirà questa corrente, negando la
25
26
K. MARX, Il Capitale.
K. MARX, La questione ebraica.
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libertà dell‟individuo e riconoscendolo determinato da una forza oscura (le pulsioni): tali
forze possono essere, se non negate, controllate esplicitandole; sicché la psicoanalisi,
portandole all‟evidenza, le trasforma in elementi conosciuti e controllabili. In questo senso,
nel tentativo di conoscere le oscure radici della volontà umana, Freud rivela una certa
tendenza illuministica: è qui in bilico tra la “scuola del sospetto” e il Positivismo, corrente del
secondo Ottocento che esalta la scienza e la tecnica e nega il metafisico.
Dal canto suo, Nietzsche arriva a fissare chiaramente la propria posizione intorno al problema
della libertà con Umano, troppo umano, Genealogia della morale e con l‟opera sua più
celebre, il Così parlò Zarathustra, dove propone l‟idea della libertà della vita e
dell‟accettazione della volontà di potenza.
Nella sua prima opera di rilievo – L’origine della tragedia. (Ovvero dello spirito della
musica) –, egli opera (in veste di filologo) la celebre distinzione tra spirito apollineo e spirito
dionisiaco: da questa distinzione muove tutto il „sistema‟ filosofico di Nietzsche e muovono
pure le nostre analisi in tema di libertà. Vediamo in che senso.
Stando alle analisi compiute da Nietzsche, nel genere letterario della tragedia – dal greco
canto del capro, il canto esercitato dai seguaci del dio Dioniso e ed animale sacrificato in suo
onore – di fondono in maniera mirabile

l‟elemento dionisiaco, ovvero la pulsione vitale, le passioni, l‟impeto della natura,
espresse nel contenuto della tragedia (Dioniso è il dio delle feste, del sesso, del
piacere, il Bacco romano per intenderci),

con l‟elemento apollineo, ovvero la razionalità pura, la compostezza, la forma
equilibrata, espressa nella forma letteraria della tragedia.
La tragedia antica nelle sue fasi vede l‟alternarsi di questi due elementi: dove domina l‟uno e
dove l‟altro, cambiano le espressioni letterarie. Ma questo dualismo non è proprio soltanto
della tragedia greca, bensì della cultura tutta e soprattutto, dell‟uomo che così risulta
composto da due spirito, uno passionale, vitalistico e del piacere (il dionisiaco) ed uno
razionale, composto e del dovere (l‟apollineo).
Nietzsche denuncia che con la tragedia classica, quella coeva dell‟Atene di Socrate,
rappresentato nella letteratura ed assunto simbolicamente a padre della filosofia, muore lo
spirito dionisiaco a favore di una preminenza assoluta dell‟apollineo, come a dire che la
filosofia ha portato nella civiltà un uso eccessivo della razionalità da uccidere gli impulsi più
costitutivi dell‟uomo.
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Ecco allora il progetto nietzscheano. Come “Socrate ha ucciso Dioniso”27, così ora il filosofo
intende uccidere ed annullate Socrate, il pensiero esclusivamente ed eccessivamente
razionale, quel pensiero che annienta gli impulsi vitali e passionali (Freud dirà inconsci) che
più caratterizzano l‟uomo nella sua profondità. Socrate pose al centro della filosofia non già la
natura, bensì l‟uomo, inteso come essere razionale responsabile delle proprie azioni, non più
imputabili all‟imperscrutabile volere del fato; e con lui al dionisismo subentra l‟apollineo e la
ragione, in cui l‟armonia e la sobria ed equilibrata compostezza scalzano l‟orgiastica volontà
di vivere del mondo e dell‟uomo.
Nietzsche, così, auspica ad eliminare tutto ciò che imprigiona l‟uomo e ne nega la libertà di
espressione. Tutta la sua filosofia può essere letta come „un inno alla libertà‟ individuale,
intesa come reincarnazione dello spirito dionisiaco e delle sue connotazioni vitalistiche.
Questa stessa componente apollinea sarà poi trasmessa al mondo cristiano e, a sua volta, di
ogni altra religione: e Nietzsche denuncia che il razionalismo puro ed il dogmatismo morale e
religioso hanno finito per bloccare e confinare l‟uomo in quella che in realtà è soltanto
l‟illusione della sua libertà.
A tal proposito, così si esprime Nietzsche:
“la storia dei sentimenti umani è la storia di un errore:
l’errore della responsabilità,
che riposa sull’errore della libertà”28.
La vera libertà starà allora nel liberarsi dall‟illusione della libertà, da qui codici razionali e
morali che , a detta di Nietzsche, governano la nostra vita e nel contempo imprigionano la
nostra essenza più profonda e caratteristica che spesso è a-razionale e con una propria morale.
Il testo che meglio esprime questo programma ambizioso è Così parlò Zarathustra, il
cui protagonista (Zarathustra appunto) è il profeta che annuncia una nuova verità,
indispensabile per liberarsi da quell‟insieme di false credenze che paralizzano la potenza e la
natura umana da millenni, dette per questo ―menzogne millenarie‖.
La prima credenza da smascherare è la credenza in Dio, cioè in una realtà sovraterrena
condizionante quella terrena e l‟agire umano, che la storia testimonia essere stato funzionale a
Dio e a lui sottomesso per dogma e credenza).
27
28
F. W. NIETZSCHE, La nascita della tragedia.
F. W. NIETZSCHE, Umano troppo umano.
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Nietzsche allora descrive l‟annuncio compiuto da un folle (altra personificazione di se stesso
non poteva assumere!!) della morte di Dio; il senso di tale annuncio è che ora che Dio è morto
devono vivere molti dei, ovvero nuovi valori che promuovano la vita, anziché mortificarla.
Leggiamo con attenzione il passo, uno dei più celebri dell‟intera storia occidentale.
Aforisma 125. L’uomo folle.
Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al
mercato e si mise a gridare incessantemente: ―Cerco Dio! Cerco Dio!‖.
E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò
grandi risa.
―È forse perduto?‖ disse uno.
―Si è perduto come un bambino?‖ fece un altro.
―Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?‖ – gridavano e
ridevano in una gran confusione.
Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: ―Dove se n’è andato Dio?
– gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino
all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai
facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è
che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro,
di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse
vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto
più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne
la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque
nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!
Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più
possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi
detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri,
quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di
questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?
Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in
virtú di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad
oggi!‖.
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A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori:
anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò
in frantumi e si spense.
―Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è
ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie
degli uomini.
Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono
tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.
Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son
loro che l’hanno compiuta!‖.
Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse
chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo.
Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in
questo modo: ―Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?‖29.
Dunque, la liberazione dalla credenza in Dio è la prima condizione per la nascita
dell‟Oltreuomo, di un uomo che va oltre l‟uomo del passato, ne supera la dimensione
ontologica e culturale, e diviene un uomo non più imprigionato in false credenze tale da
prender coscienza delle proprie possibilità, dopo aver operato una totale trasvalutazione di
tutti i valori morali ed aver detto “sì” alla vita terrena.
Per Nietzsche sbarazzarsi di Dio equivale a sgombrare il campo dalla trascendenza (tanto
cristiana quanto platonica), tant‟è che la negazione di Dio si traduce automaticamente in
negazione della spiritualità concepita come un qualcosa di opposto e superiore al corpo (in
questo Nietzsche ha uno stampo marxista).
L‟Oltreuomo deve poi liberarsi del senso del dovere, di quella morale razionalistica imposta
da Socrate (e con lui dalla filosofia occidentale) e ribadita dal Cristianesimo in chiave
dogmatica. Questa evoluzione, che altro non è che una nascita di un uomo nuovo che non ha
vincoli nella realizzazione di sé e della propria libertà, trova espressione in una celebre pagina
del Così parlò Zarathustra, meglio nota come Le tre metamorfosi.
―Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito:
come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo.
Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la
29
F. W. NIETZSCHE, La gaia scienza – aforisma 125.
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venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare.
Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e
vuol essere ben caricato.
Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? così chiede lo spirito paziente, affinché io la
prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza.
Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria
follia per deridere la propria saggezza?
Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle
cime dei monti per tentare il tentatore?
Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire
la fame dell’anima?
Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare
amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi?
Oppure è: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità, senza respingere rane
fredde o caldi rospi?
Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fare
paura?
Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il
cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo
deserto.
Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa
leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto.
Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il
grande drago vuol egli combattere per la vittoria.
Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? ―Tu devi‖ si
chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice ―io voglio‖.
―Tu devi‖ gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni
squama splende a lettere d’oro ―tu devi!‖.
Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: ―tutti i
valori delle cose – risplendono su di me‖.
―Tutti i valori sono già stati creati, e io sono – ogni valore creato. In verità non ha da essere
più alcun ―io voglio!‖‖. Così parla il drago.
Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a
tutto rinuncia ed è piena di venerazione?
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Creare valori nuovi – di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una
nuova creazione – di questo è capace la potenza del leone.
Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il
leone.
Prendersi il diritto per valori nuovi – questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito
paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda.
Un tempo egli amava come la cosa più sacra il ―tu devi‖: ora è costretto a trovare illusione e
arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina
occorre il leone.
Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare?
Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo?
Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un
primo moto, un sacro dire di sì.
Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sí: ora lo spirito vuole la
sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il
cammello, e infine il leone fanciullo. –
Così parlò Zarathustra.
Allora egli soggiornava nella città che è chiamata: ―Vacca pezzata‖‖30
Il cammello è simbolicamente assunto come metafora dell‟uomo tollerante e paziente di
fronte alle avversità (il deserto), come colui che per devozione (riferimento all‟uomo di fede)
si piega (peso della gobba) al dovere e all‟obbedienza.
Il leone (animale simbolo della forza) indica quello slancio vitale necessario per liberarsi
dall‟illusione imposta dalla ragione e dalla morale; in tal senso il leone è metafora della
volontà di ciascun individuo di uscire da uno stato di „sudditanza‟ nella visione nietzscheana
imposta dal tempo e dalla cultura. Esprime così la transizione necessaria per il passaggio dal
vecchio uomo ad un uomo che vi va oltre, l‟Oltreuomo – che diverrà concetto filosofico
chiave dell‟antropologia contemporanea.
Infine, il fanciullo e la sua venuta – in beffarda allegoria con il fanciullo della tradizione
cristiana – indica il „germe dell‟Oltreuomo‟, di colui che, liberatosi dalle falsità del passato,
ha ora occhi nuovi quanto ingenui e puri per vedere il mondo ed imporsi con il proprio “io
voglio”.
30
F. W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra.
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Qui segue il passaggio conclusivo del pensiero nietzscheano: dopo aver detto che occorre
negare la tradizione dei valori e della trascendenza, il filosofo tedesco asserisce che
l‟Oltreuomo deve affermare la propria volontà in maniera assoluta e incondizionata,
sostituendo il mondo trasmessoci dalla tradizione con un mondo nuovo, dove i vecchi valori
siano trasmutati in nuovi; un mondo in cui la realtà sia “volontà di potenza”.
“Tutti gli scopi, le mete e i significati
sono solo modi d’espressione […] della volontà di potenza”.
Per Nietzsche tutto è manifestazione di un‟unica volontà, che però non è noumenica o
metafisica, ma anzi percorre e cammina nella realtà.
Essere liberi significa allora volere, e nello specifico significa volere ciò che la vita vuole,
dicendole di sì in ogni suo aspetto (e l‟eccellenza dell‟individuo consiste appunto nel saper
dire di sì alla vita con maggiore forza), anche di fronte alla prospettiva dell‟eterno ritorno
dell’eguale che è il passaggio ultimo e capitale con cui si realizza l‟evoluzione ad Oltreuomo.
In tal modo il nuovo uomo nietzscheano non teme il destino, il futuro ma ne prova amore –
―amor fati‖ – poiché esso è il risultato della sua volontà, della sua potenza e soltanto di se
stesso, senza dipendere da prescrizioni o codici precisi e determinati. Per l‟appunto, in La
gaia scienza, Nietzsche asserisce che chi si abbandona a questa condizione è un‟anima che si
lascia andare in un oceano infinito, senza coordinate costrittive e limitanti, e ci ammonisce
“guai se ti coglie la nostalgia della terra!”31,
dove la nostalgia della terra è la nostalgia di una prospettiva che abbia coordinate e punti di
riferimento fissi, cioè parametri gnoseologici e morali dati ed oggettivi. L‟unica vera libertà è
allora essere in mare aperto, senza terre e punti fermi a cui far riferimento durante la
navigazione. Libertà in Nietzsche fa così coppia con Volontà, una volontà propria ed
individuale.
―In base a che cosa si misura la libertà, negli individui e nei popoli?
[...]Primo principio: occorre aver bisogno di essere forti altrimenti non lo si diverrà mai.
[...] Ora vi dirò la libertà esattamente nel senso in cui io intendo la parola libertà:
come qualcosa che si ha e non si ha,
come qualcosa che si vuole,
come qualcosa che si conquista.
L’uomo libero è guerriero.‖32.
31
F. W. NIETZSCHE, La gaia scienza.
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Quest‟immagine, bellissima, dell‟uomo come guerriero che si arma per liberarsi dalle
illusioni, e fare della sua volontà una realizzazione, è il messaggio della „filosofia della
libertà‟ di Nietzsche, e sottende un‟ulteriore consapevolezza che ha il filosofo: ovvero, che ci
sono libertà forti e libertà deboli. Le prime sono di chi combatterà la guerra al razionalismo e
al dogmatismo che cercano costantemente di circoscrivere il dovere e la responsabilità
dell‟uomo, le seconde sono proprie di coloro che sono destinati a vivere proiettati nella
vecchia concezione che per Nietzsche altro non è quella della libertà illusoria.
Egli è consapevole, da uomo del suo tempo, che come il folle al mercato “viene troppo
presto” portando un annuncio cui l‟umanità non è ancora pronta e preparata, così anche
Nietzsche stesso sa che di veri guerrieri ancora ce ne sono pochi.
Profetica è la sua impostazione, profetico il suo messaggio... che solo sospetto poteva
generare.
a.5. Maestri del sospetto - Il modello freudiano
Sigmund Freud (Repubblica Ceca 1856 –
Regno Unito 1939) è assunto a padre della
Psicoanalisi, ovvero di quella particolare scienza
(umana) interpretata come una psicologia del
profondo e dell’abisso umano. Scopo di questa
scienza è interpretare i sintomi e gli stati psicologici
alla ricerca delle cause scatenanti che spesso celano
un trauma, un disagio, un bisogno, un conflitto
interiore..
Freud giungerà ad affermare ne Il disagio della
civiltà che i „normali‟ sono soltanto presunti, e che
la vera normalità consiste in realtà nell‟essere patologicamente segnati dai nostri contenuti
psichici e più profondi.
Partendo dall‟osservazione del comportamento e degli stati emotivi dell‟uomo, Freud giunge
a formulare un vero e proprio metodo che gli consenta di
―osservare,
comprendere
e penetrare l’uomo‖
32
F. W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli Idoli.
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e
le
sue
psichiche
manifestazioni
e
fisiche,
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emotive,
servendosi
in
particolar modo del cosiddetto colloquio
clinico tra medico e paziente.
I differenti momenti del metodo, che in
questa sede non tratteremo, conducono
Freud a formulare la celebre metafora
dell’iceberg con cui egli rappresenta la
psiche umana ed i suoi luoghi (detti
topiche, dal greco topos – luogo),
che con scopo funzionale e descrittivo ci delineano la composizione dell‟abisso umano ed i
differenti compiti delle relative sezioni.
La psiche è composta da funzioni e figure differenti, lette secondo un ordine
discendente (dall‟alto verso il basso) dacché ci dirigiamo „scavando‟ nelle profondità
dell‟uomo:
 il Conscio, che Freud chiama anche IO – è la parte consapevole e razionale di noi stessi,
quella organizzata ed equilibrata; ciò che potremmo far corrispondere allo spirito apollineo
di Nietzsche in quanto è ciò che risponde al principio del dovere;
 il Preconscio (in alcune versioni detto anche Subconscio), che Freud chiama anche
SUPER-IO – è corrispondente ad una sorta di coscienza morale che media e trattiene gli
impulsi provenienti dalle nostre profondità; se fallisce in questa sua opera di
„contenimento‟, allora l‟azione del Conscio ne risulta compromessa;
 l‟Inconscio, che Freud chiama anche ES, pronome tedesco alla terza persona singolare;
questo è il polo pulsionale della psiche, l‟area in cui vivono e persistono desideri, bisogni,
traumi, dolori repressi, ciò che Nietzsche chiamerebbe spirito dionisiaco in quanto è ciò
che risponde al principio del piacere. Se con la sua spinta emotiva, particolarmente forte e
prepotente durante il sogno di cui è linguaggio ed espressione, fallisce il contenimento del
SuperIo, allora l‟Inconscio riaffiora provocando stati depressivi e nevrotici.
I nostri scatti di ira, i nostri attacchi nevrotici, i nostri stessi sogni e lapsus sono tutti
linguaggi dell‟Inconscio.
Quest‟articolazione della psiche è rappresentata dall‟iceberg e ci conduce dritti al tema della
libertà in Freud.
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Con un certo sgomento dei suoi contemporanei – ed un po‟ anche di noi oggi – l‟iceberg
testimonia che la parte più importante per dimensioni ed estensione non è il Conscio/IO, che
emerge dall‟acqua che già di per sé rappresenta il mondo, ma è proprio l‟Inconscio/Es, questa
„altra persona‟ che vive nelle nostre profondità psichiche e che ciascuno di noi ha.
È l‟Es, questo lui inquietante interno a noi, al proprio Io cosciente, la parte che più ci
rappresenta e che costituisce la vera ed autentica nostra storia. Questa la rivoluzione, il
sospetto, gettato da Freud: noi non siamo il nostro Conscio, la nostra razionalità, ma siamo il
nostro Inconscio, le nostre pulsioni (tra le altre cose, principalmente sessuali). Sulle orme
tracciate da Nietzsche, Freud recupera la dimensione pulsionale ed istintiva dell‟essere umano
e la rende scientificamente esperibile ed indagabile.
Ma quali ripercussioni al tema della libertà?
Se si ammette come vera l‟articolazione psichica proposta da Freud, l‟uomo – e quale uomo?
– ha libertà? E semmai che tipo di libertà?
Se ammettiamo come soggetto che si rappresenta più evidentemente il nostro Conscio/Io,
soltanto in apparenza questo è dotato di libertà. Freud stesso dichiara che “la libertà di scelta è
un‟illusione” poiché l‟azione, la scelta dipende del Conscio/Io dipende dal fallimento o meno
e dalla forza del SuperIo e dell‟Es.
Non è un caso che sia dichiarato che
―L’Io non è padrone in casa propria.
L’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa, la psiche.
Questi ospiti stranieri sembrano addirittura più potenti dei pensieri sottomessi all’Io
e tengono testa ai mezzi di cui dispone la volontà.
[...]
L’Io è un servo di tre padroni, perché deve, nello stesso tempo,
mettere d’accordo il mondo esterno, il SuperIo e l’Es‖33.
Il Conscio, quindi, dipende dall‟azione delle altre parti della psiche, l‟una che trattiene e
media, l‟altra che spinge costantemente per riaffiorare; perfino la sua libertà che esercita nel
mondo non è tale ma è un‟illusione perché vincolata alle leggi, alla morale, al dovere e non
può essere in alcun modo intesa in termini di libertà assoluta.
Freud ci spiega che nella vita di tutti i giorni, anche se non ce ne rendiamo conto, operiamo
continuamente delle scelte più o meno importanti; tali scelte sono condizionate dalla parte
inconscia dentro l‟Io, dall‟Es, una componente della struttura della personalità di cui non
33
S. FREUD, L’Io e l’Es.
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abbiamo consapevolezza e definizione rigorosa. Anche se noi scegliamo un‟azione e la
vogliamo con tutte le nostre forze, tuttavia l‟Inconscio entra nei nostri progetti e desideri fino
a renderne impossibile la realizzazione, oppure li realizza in modo diverso da come avremmo
voluto. Ecco il divario tra l‟essere e il voler essere. Importanti sono così le conseguenze sul
piano pratico, perché di fatto nella realizzazione di sé ci si scontra sempre con limiti e blocchi
che noi stessi poniamo alla realizzazione delle nostre scelte. Quindi la libertà di scelta è
un‟illusione, secondo Freud che non elabora queste considerazioni sulla base di una teoria, ma
le svela attraverso le piccole cose, quei fatti che riempiono la quotidianità, come i gesti
mancati, gli automatismi comportamentali, i lapsus, le amnesie.. L‟Inconscio si intromette,
infatti, per impedire di compiere gesti o azioni che potrebbero portare nuovamente ad azioni
dolorose, conducendoci ad azioni che sostituiscono quelle programmate.
Dal canto suo, però, nemmeno l‟Inconscio/Es vive in una condizione ontologica di libertà: il
suo stato d‟essere, in realtà, è quello di esser confinato negli abissi, pur costituendo quel quid,
quell‟identità più autentica di ciascuno.
La negazione della libertà da parte di Freud appare, così, categorica ed assoluta. Egli afferma
non soltanto che decisioni che sembrano del tutto autonome in realtà sono, alla luce di
un‟indagine psicoanalitica, la risultante meccanica e necessaria di impulsi inconsci; tutto è in
balìa del più rigoroso determinismo causale dell‟intera vita psichica.
Conscia o Inconscia, in Freud la Libertà è così in „coppia‟ con l‟Illusione.
2.b. Libertà e filosofia del Novecento. L’Esistenzialismo.
Il Novecento filosofico conosce tante espressioni filosofiche, alcune nuove, altre
affermatesi come rielaborazione dei vecchi sistemi. Senza farne una disamina che da sé sola
occuperebbe una sezione non di poco conto, ci limitiamo in questa sede ad illustrare il tema
della libertà in ordine a quello che unanimemente può essere definito il movimento più
significativo del Novecento filosofico: l‟Esistenzialismo.
Sorto tra il periodo delle due guerre mondiali, sotto la spinta della necessità di tornare
a riflettere sul senso dell’esistenza, che diviene per ciò stesso anche il senso dell’uomo, sono i
temi della morte, della finitudine umana, della scelta esistenziale, della precarietà del tempo e
dell‟esistenza stessa a guidare i tanti pensatori che possono essere annoverati quali
esistenzialisti.
Divenuto poi anche corrente letteraria, oltreché esclusivamente filosofica, l‟Esistenzialismo
assunse presto il carattere di „una moda‟, una tendenza, uno stile di vita e di pensiero,
fortemente segnato dall‟ombra dei conflitti mondiali. L'improvvisa tragedia divampata con lo
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scoppio delle guerre mondiali, infatti, travolse tanto la positivistica fiducia in una scienza
capace di produrre progresso, quanto l'utilitaristica convinzione del costante miglioramento
dell'agire umano e la spiritualistica certezza della coscienza come incrollabile sede di verità
inconfutabili e irrefrangibili.
Eppure, se c'è un elemento comune a tutte le molteplici manifestazioni a cui l'Esistenzialismo
dette vita, quello è l'insistenza sulla finitudine dell'uomo e della sua esistenza, di cui ora si
cerca un senso nuovo, per non dire il senso.
Questo comporta un ritorno all‟unicità dell‟individuo che i sistemi universalizzanti e tanta
parte di oggettivismo avevano eclissato: ora l‟esistenza è sempre l‟esistenza di quel soggetto,
impronta del suo sé, poiché per gli esistenzialisti, l'uomo non è mai un mero oggetto fra i
tanti, “una notte in cui tutte le vacche sono nere‖34, ma un unicum di senso e di significato
che il tempo deve riconoscere e il soggetto tutelare.
Così facendo, egli è sempre soggetto radicato in una realtà da lui inseparabile, con la quale
viene a creare una fitta rete di rapporti intenzionali costituenti la sua situazione esistenziale, in
cui egli si trova irrimediabilmente calato e a cui non può sottrarsi: alla maniera di Martin
Heiddegger (Germania, 1889 – 1976), grande teoreta del movimento, l‟uomo è sempre un
―essere nel mondo e tra gli altri‖. Ciò comporta, naturalmente, che l'uomo sia
costituzionalmente finito, giacché la sua esistenza è sempre e comunque definita in un hic et
nunc della realtà.
Ben si capisce, allora, perché l'autore a cui fanno costante riferimento gli esistenzialisti
novecenteschi sia Søren Kierkegaard (Copenaghen 1813 – 1855), il quale – benché un
secolo prima – aveva posto nel cuore della propria riflessione le nozioni di Singolo, di
soggettività, di possibilità, di progettualità, di angoscia e di esistenza, in netta opposizione alla
categoria hegeliana della processualità dialettica e del relativo universalismo che annullava il
valore (ontologico ed esistenziale) del particolare, guadagnandosi dalla critica il titolo di
„padre‟ del movimento.
L'esistenza non può mai essere ridotta ad un mero essere oggettivo, ma, piuttosto, deve essere
qualificata come un ex-sistere, ovvero come un tirarsi fuori da, uno stare fuori da sé; in
questo senso, l'esistente non è mai interamente racchiuso in se stesso, ma sporge sempre in
avanti, affacciato sul proprio futuro, in qualcosa che è avanti a sé di cui è artefice: proprio in
questo risiede la categoria della progettualità, tanto cara agli esistenzialisti.
Ed in questa categoria, come prerogativa del soggetto singolo ed esistente, consiste la
concezione della libertà; anzi la libertà di scelta diviene ciò che dà senso all‟esistenza.
34
F. W. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito.
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Kierkegaard, infatti, rivendica la singolarità dell'esistenza, tale per cui ogni scelta implica
automaticamente l'esclusione di altre possibili scelte, proprio come, giunti ad un bivio, si
imbocca una strada tralasciando l'altra. In quest'accezione, l'esistenza si configura non già
come un et-et (come la logica hegeliana della processualità dialettica), bensì come un aut-aut
(come recita il titolo di un celebre scritto kierkegaardiano, Ente-Eller). La mia esistenza di
soggetto non è mai qualcosa di ritagliabile e scientificamente definibile: è, piuttosto, un flusso
inoggettivabile frutto delle mie scelte sempre effettuate tra più alternative, e tra più possibilità.
Dunque, presso gli esistenzialisti il problema della libertà non può che essere centrale:
essendo l'uomo sostanzialmente finito e radicato nella sua „situazionalità‟ che si identifica con
la sua stessa esistenza, che cosa può egli esser libero di fare?
È ammissibile una libertà?
E, in caso di risposta affermativa, di che tipo di libertà si tratta?
Gli esistenzialisti sostengono che, al pari della questione dell'esistenza, nemmeno quella
inerente la libertà può essere oggettivata: non ha dunque senso disquisire astrattamente e
oggettivamente di libertà, ma alla maniera di Karl Theodor Jaspers (Germania, 1883 –
1969) conviene asserire che
“là dove io sono,
in quel senso originario che non si può oggettivare,
là è anche il regno della libertà”.
Ben si capisce allora che, per poter parlare di libertà, occorre addentrarsi nel regno della
soggettività, lasciandomi alle spalle quello in cui ad imperare è l'oggettività, poiché la libertà
appartiene all'esistenza, è sempre libertà di un soggetto esistente, e non già all'essere
oggettivato. Non ha pertanto alcun senso domandarsi se oggettivamente esista o meno la
libertà, poiché la libertà dipende in tutto e per tutto dall'ambito esistenziale e soggettivo, e si
evince facilmente come la sua esistenza o inesistenza sia strettamente connessa al modo in cui
si intende l'esistenza stessa, con soluzioni prospettate molteplici e mai riconducibili a schemi
fissi.
Esistenza è quindi, da Kierkegaard in avanti, possibilità e progettualità; in esse si manifesta la
libertà come essenza ontologica – soggettiva e non oggettivabile – dell‟esistenza stessa.
Tre le grandi possibilità e scelte secondo Kierkegaard:
51
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
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la vita estetica (quella condotta dal Don Giovanni di Mozart), consistente nel non
preoccuparsi del futuro e nel vivere l'attimo ed il piacere come se non vi fosse un
futuro;

la vita etica, quella dell'uomo sposato che ogni giorno riconferma la propria scelta;

infine quella religiosa, scelta da quell'Abramo che si rivela disposto a sacrificare il
figlio Isacco in nome di Dio, compiendo un atto inteso come delitto dalla società: egli
è il “cavaliere della fede” che, nell'ascoltare Dio, si isola dalla società e conduce
un'esistenza solitaria.
Spetta dunque al soggetto l'individuazione delle diverse possibilità su cui costruire
progettualmente la propria esistenza in maniera vincente, anche se poi di fatto per quasi tutti
gli esistenzialisti ciò viene a configurarsi come un progetto fallimentare e destinato – per
usare le parole di Jaspers – al “naufragio” e allo “scacco”.
La possibilità si rivela allora come una non-possibilità, e campione di questa veduta è
Heidegger, ad avviso del quale l'esito ultimo a cui approda il fallimento dell'uomo è
l'esistenza inautentica, caratterizzata dal vivere in maniera omologata e conformata alla
massa, prestando ascolto al Si impersonale, per cui non c'è più un “io faccio, io dico, io sono”,
ma un inautentico “Si fa, Si dice, Si è”, tale per cui l'originarietà muore e l'uomo viene ad
essere determinato nei propri comportamenti da modelli impersonali e conformistici; in questa
maniera, egli cessa di esistere autenticamente e, da mero soggetto, diventa una cosa fra le
cose, incapace di scegliere progettualmente la propria vita e di cavalcare l'onda della
possibilità. Per questo tipo di uomo ogni forma di libertà è azzerata. Invece, l'unica via per
poter vivere autenticamente è per Heidegger data dall'anticipazione della morte nello stato
ontologico dell‟essere per la morte, concepita come la nostra più autentica possibilità, in
quanto capace di generare quell'angoscia a cui già Kierkegaard aveva dato grande importanza:
nell‟angoscia viviamo in maniera autentica ed esperiamo quella libertà azzeratasi con
l‟anonimia.
In sintesi, che pur la si prenda nelle sue differenti forme, per gli esistenzialisti la
Libertà va in „coppia‟ con l‟Esistenza e ne è di essa l‟espressione; non può essere scissa
dall‟esistenza, in quanto questa è sempre il risultato della scelta individuale e soggettiva (se è
heiddeggerianamente autentica) del Singolo, in una visione generalmente ottimistica e che
recupera la dimensione costruttiva dell‟uomo (homo faber) ed annulla quella della libertà
come illusione o finzione. La possibilità implicata dall‟esistenza stessa genera la necessità di
decidere liberamente la costruzione del proprio essere; l‟esistenza è libertà, perché è scelta.
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E se invece questo legame Libertà-Esistenza avesse una chiave di lettura negativa,
quali riflessioni potremmo condurre?
La risposta a Jean Paul Sartre.
b.1. Il modello sartriano.
Semplice quanto a chiarezza e decisione è la posizione di Jean Paul Sarte (Parigi,
1905 – 1980). Nel romanzo filosofico La nausea, egli fa leva sul carattere dell‟assurdità
dell'esistenza in quanto tale, un'assurdità che, non appena venga avvertita, genera
immediatamente un insopprimibile senso di
nausea:
“[...] eravamo un mucchio di esistenti impacciati,
imbarazzati da noi stessi,
non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli
uni né gli altri,
ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto
si sentiva di troppo in rapporto agli altri.
Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi
stabilire tra quegli alberi,
quelle cancellate, quei ciottoli.
Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda,
di confrontare la loro altezza con quella dei platani:
ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava,
traboccava.
Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il
mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà;
non avevano più mordente sulle cose.
Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra.
Di troppo la Velleda…
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri – anch'io ero di troppo.
Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo,
ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura – ho paura che
questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda).
Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo.
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Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante,
in fondo a quel giardino sorridente.
E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa,
infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io
ero di troppo per l'eternità‖35.
Negli anni fra le due guerre mondiali, la figura di Jean Paul Sartre divenne l‟emblema
dell‟intellettuale, attivo e partecipe a tutte le più importanti controversie politiche e sociali del
suo tempo, esponendosi in prima persona, in piena autonomia critica da qualsiasi modello
autoritario, tanto da rifiutare addirittura il Premio Nobel per la letteratura nel 1964 rifiutandosi
– come scrisse – ―di trasformarmi in un’istituzione e di conformar,i alla società del tempo‖36.
Testimonianza di questo impegno civile è la sua ampia produzione letteraria e filosofica.
Emblematico il titolo della prima grande opera filosofica di Jean Paul Sartre, uscita nel 1943:
L'essere e il nulla. È in quest‟opera che risiede la „teoria della libertà‟ del pensatore francese.
Alla base della sua analisi, infatti, vi è la consapevolezza che l‟esistenza sia una possibilità di
scelta e in quanto tale una libertà – in questo Sartre è affine ai suoi contemporanei – ma lo
scacco deriva che la possibilità che ha l‟uomo in sé non è soltanto qualificante e positiva,
bensì soprattutto è negativa e nullificante: da qui il tema dell‟assurdo dell‟esistenza e della
libertà come „castigo‟ che pesa sull‟esistenza dell‟uomo.
In effetti, il modello antropologico sartriano identifica l‟uomo sia come essere – ovvero come
un soggetto esistente – che come nulla, ed è quest‟ultimo concetto a destare il maggiore
interesse della critica.
Affermare nel contempo che l‟uomo è sia essere che nulla, in effetti, significa affermarne una
duplice natura, in cui l‟idea del nulla rimanda a quella che lui stesso chiama ―potenza
nullificatrice‖ intendendo con quest‟ultima la possibilità (potenza) che ha l‟uomo di
assegnare significati, interpretare pensieri ed azioni, giudicare gli altri ma in chiave
nullificante e negativa. Data la visione realistica che Sartre ha dell‟uomo, portato per sua
natura alla difesa del proprio sé piuttosto che ad una dimensione autenticamente relazionale –
basti pensare che ha amato per la sua vita intera la compagna Simone de Beavour ma non l‟ha
35
J. P. SARTRE, La nausea.
J. P. SARTRE, Lettera all’Accademia svedese (settembre 1964) dove dichiara: “Signor Segretario, le assicuro
subito la mia profonda stima per l’accademia svedese e per il premio con cui ha onorato tanti scrittori. Tuttavia,
per alcune ragioni del tutto personali e per altre che sono più oggettive, non desidero comparire nella lista dei
possibili candidati e non posso né voglio né nel 1964 né dopo accettare questa onorificenza”.
Nel 1964 Sartre aveva pubblicato alcuni dei suoi libri più importanti (La nausea (prima edizione nel 1938), Il
muro, L’età della ragione) ma soprattutto era diventato per molti, soprattutto giovani, un simbolo della ribellione
e dell‟anticonformismo del Dopoguerra.
36
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mai sposata nel timore della sofferenza per un‟eventuale delusione e di un legame ancora più
profondo, nella sua convinzione che ―l’inferno sono gli altri‖37 –, egli è convinto che, poiché
l‟uomo ne ha la possibilità, è più portato ad annullare l‟altro piuttosto che a valorizzarlo; solo
in tal modo è possibile affermare con maggiore forza il proprio essere. Come a dire che ho
bisogno di „demolire‟ l‟altro per „costruire‟ con più forza me stesso: questo il forte quanto
crudo realismo antropologico sartriano!
In sostanza: se l‟uomo può, e può giacché l‟esistenza è una continua possibilità, egli annulla,
nega e può negare la realtà e l‟altro alla luce dei suoi personali significati. In tale ottica, ad
esempio, il giudizio di un soggetto X su un soggetto Y comunicato ed espresso ad un soggetto
Z, può annullare il soggetto Y agli occhi del soggetto Z. Questo è il senso del concetto di
essere come “potenza nullificatrice‖: questa libertà che ha l‟uomo come prerogativa e tratto
distintivo della sua esistenza cade nell‟assurdo, nel paradosso e nel negativo e diviene una
condanna. La libertà che ha l‟uomo di esistere, di relazionarsi con l‟altro, di attribuirgli
continui significati, non è letta dal parigino come potenza positiva, ma anzi come
caratteristica temibile di un uomo che fa della sua libertà un potere negativo; in altre parole,
data la natura più propria dell‟uomo, essere liberi è un peso da sopportare.
Ecco perché ci consegna la sua grande verità:
―L’uomo è condannato ad essere libero:
condannato perché non si è creato da se stesso,
e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo,
è responsabile di tutto ciò che fa‖.38
L‟uomo è così per sua „condanna‟ un essere libero, un soggetto che ha in sé la possibilità
nullificante del mondo; come tale, tutto ciò che accade è frutto dell‟umana libertà e
dell‟umana responsabilità, tanto che
―nulla è inumano, tutto è umano‖39.
In questo risiede da un lato il forte e rigoroso ateismo del filosofo, che sulla scia di un
nietzscheano mondo „umano, troppo umano‟ non ammette alcun determinismo teologico
nell‟universo ma che tutto sia il frutto dell‟azione esclusivamente umana; dall‟altro assegna
grande responsabilità all‟agire umano denunciando – il senso della denuncia, politica e
culturale in primis, è il senso del suo stesso pensiero – guerra, morte, terrore, rivoluzioni..
37
J. P. SARTRE, A porte chiuse.
J. P. SARTRE, L’esistenzialismo è un umanesimo.
39
Ivi.
38
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temi tipici della società contemporanea coeva al Nostro. Ecco perché il suo anticonformismo,
ecco perché il rifiuto del Premio Nobel.
Ecco quindi la conclusione, ed il contributo di Sartre: l‟uomo è libero perché è capace di
scelta,
―Non può esserci libertà senza scelta.
[...] Ogni persona è una scelta assoluta di sé‖40
e perché non è definito ma è „definiente‟, ma la sua capacità di definire il mondo e di
assegnargli significati è una capacità ed una possibilità principalmente nullificante. Da qui, il
senso di angoscia e di dolore che pervade l‟esistenza dell‟uomo sartriano, in cui Libertà fa
„coppia‟ con Condanna; l‟esistenza, allora, non è nient‟altro che un assurdo caratterizzata
dall‟esperienza emotiva della nausea, dove l‟uomo “si sente di troppo” rispetto al mondo e
agli altri.
La nausea è il sentimento che invade l‟uomo quando egli scopre l‟assurdità del reale e della
sua stessa condizione di esistenza libera.
ΩΩΩΩΩΩΩΩ
40
J. P. SARTRE, L’essere e il nulla.
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Conclusioni (e riflessioni)
Che allora la Libertà sia libertà di (agire, pensare, fare..), o sia libertà da (passioni,
pulsioni, costrizioni, poteri);
che la libertà sia connessa alla nostra Saggezza (Platone, Aristotele) e che dipenda
dall‟esercizio intelligente (Kant) e metodico (Cartesio) della nostra Ragione, o sia l‟immagine
di un Intelligenza Divina (Spinoza) o di un soggetto a sé materialisticamente determinato e
vincolato alla Convenzione sociale (Hobbes);
che la Libertà sia legata ad un senso di Responsabilità teologicamente intesa (Agostino);
che la Libertà sia legata allo Stato (Hegel), o all‟Uguaglianza e alla Partecipazione politica
(Marx), o finanche sia espressione di una Volontà dionisiaca (Nietzsche) o di un‟Illusione, per
via della forza di un Inconscio pulsionale (Freud);
che la Libertà sia condizione fondamentale dell‟Esistenza (Kierkegaard, Heiddegger), fino a
diventarne una Condanna ed un Assurdo (Sartre)...
... resta che non c‟è Uomo senza Libertà, manifesta, esercitata o negata che sia, e che
realmente la libertà è il massimo titolo di nobiltà di cui l‟uomo è dotato.
E voi, vi sentite liberi?
Liberi di, o liberi da?
Liberi in senso assoluto,
o illusoriamente liberi...
o perfino condannati all‟assurdità della libertà?
Riflettete.
―Io combatto la tua idea,
che è diversa dalla mia,
ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita
perché tu, la tua idea,
possa esprimerla liberamente!‖
Voltaire
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BIBLIOGRAFIA
ARISTOTELE, Etica Nicomachea.
R. CARTESIO, Meditazioni metafisiche.
R. CARTESIO, Cfr. Introduzione Discorso sul metodo.
S. FREUD, Il disagio della civiltà.
S. FREUD, L’Io e l’Es.
G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito.
G. F. W. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto.
T. HOBBES, Della libertà e della necessità .
E. KANT, Critica della ragion pratica.
E. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi.
E. KANT, Che cos’è l’Illuminismo?
K. MARX, Tesi su Feuerbach.
K. MARX, Manoscritti economici-filosofici .
K. MARX, Manifesto del partito comunista.
K. MARX, L’Ideologia tedesca.
K. MARX, Il Capitale.
K. MARX, La questione ebraica.
F. W. NIETZSCHE, La nascita della tragedia.
F. W. NIETZSCHE, Umano troppo umano.
F. W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra.
F. W. NIETZSCHE, La gaia scienza.
F. W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli Idoli.
J. J. ROUSSEAU, Il Contratto sociale.
J. P. SARTRE, A porte chiuse.
J. P. SARTRE, La nausea.
J. P. SARTRE, Lettera all’Accademia svedese.
J. P. SARTRE, La nausea.
J. P. SARTRE, L’Esistenzialismo è un umanesimo.
B. SPINOZA, Ethica more geometrico demonstrata.
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INDICE
Organizzazione del Corso
pag. 1
I – Prefazione. L‟etimologia del termine e la questione.
pag. 2
II – ―Libertà di‖ e ―libertà da‖.
pag. 3
1. LA RICERCA DELLE ORIGINI DEL CONCETTO FILOSOFICO DI LIBERTÀ
pag. 5
1.a. Prime deboli impronte nella filosofia greca antica.
pag. 5
1.b. La filosofia medievale e l‟impronta cristiana nel problema della libertà.
pag. 7
1.c. Alcuni modelli della filosofia moderna.
pag. 9
c.1. Il modello cartesiano.
pag. 9
c.2. Il modello spinoziano.
pag. 14
c.3. Il modello hobbesiano.
pag. 18
c.4. Il modello kantiano.
pag. 21
2. L‟EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI LIBERTÀ
2.a. Libertà e filosofia dell‟Ottocento.
pag. 27
pag. 27
a.1. Il modello hegeliano.
pag. 28
a.2. Maestri del sospetto – Introduzione.
pag. 32
a.3. Maestri del sospetto – Il modello marxista.
pag. 34
a.4. Maestri del sospetto – Il modello nietzscheano.
pag. 38
a.5. Maestri del sospetto – Il modello freudiano.
pag. 46
2.b. Libertà e filosofia del Novecento. L‟Esistenzialismo.
b.1. Il modello sartriano.
pag. 49
pag. 53
CONCLUSIONI (e riflessioni)
pag. 57
BIBLIOGRAFIA
pag. 58
INDICE
pag. 59
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