Workshop – “Le tecniche compositive nei gruppi progressive rock

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Workshop – “Le tecniche compositive nei gruppi progressive rock”
con
Chris Cutler (Henry Cow)
Hugh Hopper (Soft Machine)
Toni Paglica (ex Le Orme)
Gianmario Borio: Che cosa significava nei vostri gruppi comporre, scrivere una partitura, lavorare
insieme?
Hugh Hopper: Se devo fare riferimento al periodo dei Soft Machine, i singoli musicisti lavoravano
nel comporre principalmente da soli, cioè preparavano un brano, un pezzo a casa e poi lo
presentavano al resto del gruppo. E quello che succedeva è che, ovviamente, si provava fino ad
arrivare al concerto, poi si suonava durante il concerto e molto spesso i pezzi cambiavano in modo
anche considerevole. A volte l’idea l’originale era un’idea piuttosto semplice e si sviluppava con il
tempo modificandosi, in altri casi avveniva il contrario, cioè avevamo una partitura scritta quasi nei
dettagli e quella rimaneva tale in tutti i nostri concerti.
Poi dipendeva tantissimo dai musicisti, che avevano approcci diversi. Io non aveva studiato musica
e quindi tendenzialmente scrivevo ascoltando me stesso. Adesso ne so qualcosa di più, ma allora
in realtà mi mettevo la chitarra, suonavo, sviluppavo un tema, magari sulla base di qualche
accordo, però la cosa si fermava lì, non scrivevo la musica. Mike Ratledge, il tastierista, invece
aveva una preparazione molto più approfondita, aveva studiato musica classica e contemporanea
e il suo approccio era completamente diverso e, se volete, “più corretto”, il mio era più caotico.
La sezione centrale del brano che avete appena ascoltato (ndr. Facelift) è una parte che io ho
scritto parecchio tempo fa. Semplicemente ero seduto, suonavo il basso e seguivo semplicemente
una melodia che mi piaceva non c’era in realtà nessuna struttura armonica. Era una struttura
modale in mi minore però me no sono reso conto in seguito, suonandola con gli altri che mi
chiedevano: “Che cosa succede qui? Che cosa succede là?” e allora si è cominciata a delineare
questa struttura, però tutto è partito da me che al basso cercavo una melodia che mi piacesse.
Chris Cutler: Con gli Henry Cow la situazione era un po’ più complessa. Sicuramente il metodo
cambiava, come è stato detto per i Soft Machine, a seconda della persona che componeva, quindi
dal singolo membro della band.E probabilmente la cosa più interessante a proposito del gruppo è
che effettivamente avevamo tutti background completamente diversi. La cosa curiosa era che
persone in realtà del tutto incompatibili le une con le altre erano riuscite a mettersi insieme e a
trovare un linguaggio musicale che li teneva uniti. E l’altra cosa da dire forse è che il metodo
compositivo e la composizione sono cambiate tantissimo, a volte radicalmente, nello svilupparsi e
nel trascorrere del tempo all’interno del gruppo.
I quattro compositori principali erano Tim Hodgkinson, Lindsay Cooper, Fred Frith e John Greaves.
Fred Frith aveva si era formato on la musica folk, suonava la chitarra acustica nei pub. E poi ha
iniziato a suonare, come me, in gruppi che suonavano musica degli Shadows e soul. Mentre Tim
Hodgkinson era assolutamente immerso nel jazz e in particolar modo nel free-jazz dell’inizio degli
anni Sessanta, quindi Coleman. John Greaves aveva esperienza come musicista nella banda nella
quale suonava suo padre, quindi nella musica da ballo. Lindsay Cooper aveva studiato alla Julliard
e aveva una formazione musicale assolutamente completa.
Il metodo compositivo che è stato utilizzato per tutta la durata del gruppo è che uno dei musicisti
arrivava con una partitura scritta, un pezzo completo. Però il livello di completezza dipendeva dal
musicista, alcuni arrivavano con la partitura finita, altri invece con la partitura non ancora completa.
Fred, soprattutto all’inizio del gruppo, arrivava con una sorta di scheletro di partitura dove c’erano
dei riff ripetuti e dove c’era una parte per l’assolo, in cui si utilizzavano gli standard compositivi
della musica rock. Però Fred era anche quello che tra di noi era più legato alla scuola di New York,
a Feldman e a Cage. In effetti il primo brano del primo disco che abbiamo lanciato era stato scritto
da lui era composto utilizzando il metodo stocastico facendo riferimento alla scuola di New York.
Fred componeva sempre con uno schema mentale abbastanza preciso ma non sempre udibile nel
pezzo.
Nel nostro secondo album il pezzo scritto completamente da lui, Ruins, si basava sulla serie di
Fibonacci. Il pezzo ha una forma a specchio. Si inizia con una melodia abbastanza complessa
Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock
basata sulla serie di Fibonacci, poi c’è l’assolo di chitarra, di 55 battute su soli due accordi che
vengono suddivisi in modi temporalmente diversi all’interno di ogni battuta, poi c’è la parte
centrale, scritta per viola, fagotto e xilofono. Questa sezione aveva una scansione temporale molto
interessate, nella quale sulla stessa scansione una parte del gruppo suonava in5/4, mentre
contemporaneamente l’altra suonava in 4/4. C’è poi un’altra sezione, ancora di 55 battute, in cui
suona l’organo, poi l’intera struttura viene ripetuta all’inverso. Lo dico per dire che Fred ha sempre
composto sulla base di una struttura estremamente guidata e pianificata, c’erano sempre delle
idee ben definite: nel secondo pezzo a cui facevo riferimento c’erano delle idee che si basavano
sui numeri, nel primo una serie di processi che erano correlati alla sua conoscenza della scuola di
New York.
Tim Hodginkson invece, il fanatico di jazz, arrivava con partiture assolutamente complete, aveva
brani scritti dall’inizio alla fine. Nei brani di Tim sin dall’inizio non ci sono mai stati né assoli, né riff.
In realtà, era rarissimo che ci fossero due battute una accanto all’altra con lo stesso metro. Quindi
Tim componeva con un approccio melodico, contrappuntistico, con battute molte lunghe, rotte dai
cambiamenti metrici. Ed era difficilissimo impararle.
Tra l’altro Henry Cow era un gruppo in cui era assolutamente vietato andare sul palco con della
musica scritta. E quindi ci toccava impararle. Per esempio il primo pezzo di Tim Hodginkson
durava quindici minuti, era tutta musica in contrappunto con una complessità melodica non
trascurabile, e l’avevamo imparata perfettamente a memoria perché era tutto scritto. Tim usava
sempre ritmi additivi, molto spesso su tre livelli ritmici e melodici diversi che attraversavano la
battuta, se qualcuno suonava in 5/4, un altro era sul 7/8, l’altro sul 9/8, bisognava stare molto
attenti a dove si entrava per far funzionare la struttura.
Lindsay era una via di mezzo tra Tim e Fred, perché anche a lei non piaceva avere due battute
uguali una accanto all’altra, però a volte inseriva delle ripetizioni, in alcuni casi anche di un’intera
sezione, creando una struttura di forma ABA. Come Fred, anche lei arrivava con qualcosa di
scritto, con una partitura molto raramente completa, c’era qualcosa per alcuni musicisti ma non
c’era nulla per gli altri, quindi questo lasciava un buon livello di libertà.
Tra l’altro, la regola era che il compositore non era mai “proprietario” del brano quando lo
presentava al resto del gruppo e si cominciava a lavorarci sopra. Questo significa che durante le
prove, quando si cercava di tirare fuori il brano definitivo chiunque poteva dire: “Questa parte non
mi piace, togliamola”, oppure “Spostiamo questa parte vicino a quest’altra”, e il compositore iniziale
doveva semplicemente accettare questa situazione.
In realtà con il trascorrere del tempo le sezioni ripetute e gli assoli scomparvero completamente dal
nostro repertorio e quando, durante i concerti, si sentivano gli assoli di chitarra, stavamo suonando
brani del nostro repertorio iniziale. L’idea era stata “rubata” ai Soft Machine, anche per noi il
concerto doveva rappresentare una macro-struttura, creavamo una scaletta e poi cercavamo di
collegare tra loro i brani in modo tale che si potesse evitare di bloccare la musica, quindi si
suonava anche per un’ora consecutivamente. Effettivamente per ogni concerto capitava che a
qualcuno di noi venisse assegnato il compito di creare alcuni dei collegamento, dei brani-ponte,
che magari venivano suonati solo una o due volte perché per il concerto successivo, per rendere
nuovamente la cosa interessante, questi brani venivano eliminati e sostituiti con dei brani-ponte
nuovi.
Per riassumere: la partitura arrivava a volte completa, a volte no, con Tim in genere non si
cambiava niente, era tutto fatto e finito con quello che portava lui, con Fred e Lindsay invece
qualche modifica in genere la si apportava o si completava la partitura, il lavoro comune era quello
di collegare i pezzi con questi brani-ponte e di organizzare tutto per il concerto.
Ci sono tre eccezioni di cui vorrei parlare rapidamente.
La prima eccezione c’è stata quando dovevamo organizzare un tour in Olanda e Lindsay Cooper
era malata, quindi dovevamo cercare di inventarci qualche cosa per coprire la sua assenza,
perché non avevamo materiale riempitivo. Anche perché mancavano delle parti se non c’era a
disposizione il sassofono o il fagotto. In quell’occasione Tim stava componendo un brano, di cui
aveva composto circa due minuti e mezzo. A questo punto abbiamo deciso di andare a trascorrere
una settimana in una casa nello Yorkshire e da questi due minuti e mezzo di musica che aveva
scritto Tim abbiamo tirato fuori cinquanta minuti di musica. Questo è stato un lavoro collettivo.
Abbiamo effetivamente preso quei due minuti e mezzo di Tim e li abbiamo scomposto in frammenti
minimi, poi abbiamo ripetuto alcune parti di questi, ma c’era una struttura logica abbastanza forte,
quindi anche se avevamo pochissimo materiale a disposizione lo abbiamo suddiviso per arrivare a
uno sviluppo tematico molto forte. In effetti è molto interessante ascoltare questo brano proprio per
questo motivo. Ed è stato uno dei pochissimi casi in cui abbiamo utilizzato dei bordoni per buona
parta del brano, che durava parecchio.
Il brano era diviso in cinque sezioni. Le sezioni 1, 3 e 5 erano basate sul materiale di Tim e c’era
anche una persona che faceva dei brevi assoli, sempre basati sullo stesso materiale. Mentre le
sezioni 2 e 4 duravano 8-9 minuti ciascuna e utilizzavano la tecnica del bordone. Le sezioni dispari
erano state strumentate per la chitarra elettrica che veniva suonata con un prisma, o con grosse
sfere di vetro, oppure un basso che era stato preparato, bloccando le corde con delle mollette.
Intanto Tim continuava a tenere la nota di bordone. Nell’altra sezione era come se ci fosse
qualcuno che buttasse per terra un grosso vassoio pieno di sfere di metallo, per otto minuti, senza
nient’altro, non c’era nessun altro evento nella sezione.
La seconda eccezione c’è stata quando si trattava di registrare il secondo disco per la Virgin e non
avevamo materiale sufficiente. Tra l’altro Lindsay era appena entrata nel gruppo, quindi non
potevamo suonare il materiale preparato precedentemente, in più le avevamo appena tolto due
denti del giudizio, quindi faceva fatica a suonare. Il primo disco era stato creato come succedeva
con i gruppi più tradizionali, cioè abbiamo semplicemente documentato in studio di registrazione
quello che sapevamo suonare insieme, siamo andati in studio e abbiamo registrato quello che
suonava insieme normalmente. Lavorando per la prima volta in quell’occasione in uno studio di
registrazione ci fu immediatamente chiaro che lo studio di registrazione stesso era uno strumento
compositivo ricchissimo.Quindi l’intero secondo lato di quel disco fu costruito collettivamente,
sfruttando appieno tutte le possibilità che ci venivano date dallo studio di registrazione.
Era stato detto più volte che la tecnologia di registrazione rendeva disponibile per l’utilizzo
qualsiasi suono, ma noi ce ne rendevamo conto per la prima volta. Ma una cosa che veniva
considerata meno era che nello studio eravamo in grado di registrare delle vere e proprie
performance. Quindi dava al musicista la possibilità di comporre usando delle performance. Il che
non suona assolutamente radicale oggi, ma era abbastanza insolito all’inizio del 1973.
Lavoravamo in modi diversi. In alcuni casi improvvisavamo, ascoltavamo l’improvvisazione e
magari editando quello che avevamo appena registrato. Sulla base di quanto lavoro editato in
studio scrivevamo una vera e propria composizione, per arrivare a uno struttura organizzata,
anche se poi su questa venivano comunque fatte ulteriori improvvisazioni.
Per esempio abbiamo lavorato parecchio anche con i loop, rivedendo le cose che avevamo fatto
improvvisando. C’è un pezzo in particolare che utilizza un loop di cinquanta secondo. Lo abbiamo
fatto muovendoci in cerchio per tutto lo studio, con le aste dei microfoni percosse da delle bottiglie.
Poi lo abbiamo abbassato di tre semitoni, perché il loop rallentasse insieme al brano. Una volta
creato questo loop aggiungevamo poco alla volta le altre parti. Per arrivare a creare una vera e
propria struttura abbiamo ripreso parte di una melodia del lato A del disco, che era già stata scritta,
suonandola a velocità dimezzata e aggiungendo delle parti che erano invece state registrate a
velocità raddoppiata. In questo modo siamo riusciti a creare questo brano di sei minuti dove c’era
quest’incrocio delle diverse fasi, arrivava il loop, che si concludeva molto lentamente, ma prima
che terminasse entrava la melodia, che permetteva di arrivare al loop successivo. Questo è il
metodo compositivo che funziona grazie all’ascolto. E non prevedeva alcuna discussione, perché
non aveva neppure senso dire: “Questo mi sembra interessante”, lo si poteva dire, ma voleva
automaticamente dire registrarlo su nastro e vedere come suonava.
Con Tim, con Lindsay, e con Fred avevamo delle composizioni piuttosto rigide. E comunque in
ogni concerto avevamo sempre circa un 40% di improvvisazione libera, non generica, non
idiomatica. Noi ci permettevamo, a differenza di altri, Zappa lo ha fatto per un periodo, di suonare
improvvisando sulla base di tanti generi musicali differenti, cosa che non si faceva assolutamente
perché era considerata vietata, anche il jazz o il free-jazz era quello e soltanto quello e non si
potevano miscelare con nessun altro genere. La scuola europea allora era un po’ come la scuola
di Darmastdt, non c’era melodia, non c’era ritmo, non c’era possibilità di giocare più di tanto con le
battute. Questo è stato importante per noi perché questi pezzi composti e scritti ci permisero di
imparare tutta una serie di tecniche diverse che non avremmo potuto conoscere se non avessimo
suonato delle composizioni così rigide. Una volta che conoscevamo bene questi pezzi
automaticamente riuscivamo a svilupparli ulteriormente e arrivare all’improvvisazione.
Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976
Cremona, 20-22 ottobre 2006
Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock
Era vero anche il contrario, quello che emergeva dalle improvvisazioni riusciva ad essere
memorizzato e poteva ricomparire nelle composizioni future. Ed è importante vedere come questi
due elementi hanno continuato a fondersi uno con l’altro.
La terza eccezione, brevemente. Anche in questo si trattava di malati ed eravamo in Scandinavia.
In questo caso c’erano due componenti del gruppo malati, e abbiamo deciso ad un certo punto di
lanciarci in un programma improvvisato di minimo due ore, assolutamente al buio. Avevamo tre
punti fissi. All’inizio avevamo soltanto un tamburo contro il quale si cantava, facendolo vibrare con
la voce e sul quale di batteva, e un flautino di legno. Perché questi erano veramente gli strumenti
originari, i più primitivi, e quindi abbiamo deciso di iniziare con questi, tamburo e flauto. Trascorso
circa il 40% del tempo c’era la parte centrale ed era una parte riguardante un matrimonio, con l’uso
delle tubular bells. Verso la fine c’era una sorta di marcia scritta da Fred, piuttosto strana da punto
di vista ritmico. E per tutto il brano, tutti noi pensavamo a una sorta di evoluzione, a un qualche
tipo di sviluppo.
Utilizzavamo anche un’idea che è stata “rubata” da Karlheinz Stockhausen. Tutti avevano dei
nastri preregistrati, di due ore. Se non ricordo male Lindsay aveva due ore nastro con registrazioni
dall’infanzia alla vecchiaia, quindi suoni di persone dal bambino appena nato fino al vecchio. Tim
aveva due ore di nastro con la musica più antica che era riuscito a trovare a quella più
contemporanea. Fred aveva il materiale di Henry Cow dalla formazione iniziale del gruppo fino a
quel momento. Era materiale che ogni singolo musicista poteva ascoltare quando era in difficoltà,
se non aveva nient’altro a cui fare riferimento si rivolgeva al nastro. O, a volte, tramite un pedale,
potevano farlo ascoltare al pubblico. Stockhausen aveva elaborato l’idea, ma questo nostro pezzo
era proprio un mix strano. Per me questa era una strategia compositiva.
Penso che gli Henry Cow e i Soft Machine avessero influenze contemporanee, sicuramente facenti
riferimento al XX secolo. Sicuramente, a parte il free-jazz, Janacéck e Bartok erano forse i due
punti di riferimento principali per noi, sicuramente udibili all’interno della nostra musica. Anche il
metodo della scuola di New York non era necessariamente riconoscibile nei nostri brani, ma era
sicuramente qualcosa da cui abbiamo provato a trarre insegnamento. Per quanto riguarda il jazz,
sicuramente quello che stava succedendo nella scena nera americana e quello che suonavano gli
AMM. E in effetti queste strategie erano molto diverse da quelle utilizzate da molti dei gruppi di cui
si è parlato durante questo convegno, che tendevano essere meno appartenenti al proprio tempo e
più legate a modelli del XIX secolo.
Evasioni Totali
Hugh Hopper: Armonicamente è un brano molto semplice, in due occasioni c’è una parte in cui
suoniamo un ostinato. E’ vero che nel progressive rock c’erano gruppi che facevamo delle cose
estremamente complicate, ma è anche vero che c’erano dei brani in cui per moltissimo tempo si
suonavano delle parti molto semplici, come questo. In effetti vi abbiamo dato un ottimo esempio di
questo tipo di situazione, perché per un paio di secondi abbiamo suonato qualcosa di più
complesso, mentre il resto era tutto molto semplice.
Toni Pagliuca: Devo dire che suonare con questi due muscisti è stata per me una cosa
importantissima e che mi arricchisce notevolmente. Aldilà di essere bravi musistici sono anche
persone amichevoli, mi sono trovato molto bene con loro. Questo pezzo che abbiamo fatto era
molto più semplice di quello fatto in precedenza (ndr. Aliante in medley con Facelift), anzitutto
questo è in 4/4, altro era in 6/4. Perciò quando si perde l’orizzonte suonando in 6/4 purtroppo non
c’è la possibilità di riprendersi subito, come è successo prima. In questi ritmi complicati quando si
improvvisa, se non c’è qualcuno che ti riporta sulla strada, è difficile ritrovare il battere.
Serena Facci: Tu vieni da un’esperienza differente, primo perché si tratta di un gruppo italiano e
come tu mi hai detto, gli inglesi sono stati i primi a fare progressive ma gli italiani sono stati i primi
ad ascoltarlo, e penso che questa cosa dovrai spiegarcela, e secondo perché provieni da un tipo di
progressive rock che era leggermente, più melodico, come ci spiegherai. Un’altra cosa che volevo
segnalare era un’altra frase che mi avevi detto e sulla quale vorrei che spendessi due parole in più.
Non so se avete notato che Pagliuca ha portato il suo organo Hammond originale che ha fatto
restaurare da qualche anno e il Lesile, anche quello d’epoca, quindi stiamo suonando con
strumenti originali, filologicamente. Per questo dobbiamo ringraziare veramente Toni che li ha
portati. Lui mi ha detto: “Porto l’Hammond, nonostante la fatica di portarselo dietro, perché il
progressive forse non sarebbe stato veramente progressive se non ci fosse stato l’organo
Hammond”. Abbiamo parlato della timbrica all’interno del progressive, di cui è caratteristico questo
sound, quest’impronta che dava l’Hammond, siccome sei un tastierista vorrei che ce ne parlassi.
Toni Pagliuca: L’organo Hammond è caratteristico di buona parte della musica progressiva,
anche se, per esempio, il tastierista dei Soft Machine usava il Fender abbondamente trattato, così
trattato che sembrava un organo Hammond distorto. Io mi sono tanto ispirato al suono dei Soft
Machine perché mi piaceva questo suono molto aggressivo, perché l’organo Hammond è sempre
stato usato nella sua timbrica caratteristica, però a me piaceva alternare la dolcezza
dell’Hammond all’aggressività che aveva lo strumento concorrente, la chitarra, strumento principe
prima dell’avvento del progressive.
Una teoria che ho io è quella che segna una data storica con l’isola di Wight, dove ho avuto la
fortuna di andare ad assistere per una settimana di full-immersion con il meglio della musica di
allora. Ho assistito all’ultimo concerto di Jimi Hendrix, che dopo una settimana sarebbe morto a
Londra, dal furgone perché stavo male, mi ero ammalato e faceva molto freddo. Mi hanno portato
in infermeria, erano tutti quanti “andati”. Io sono stato fortunato nella mia esperienza, soprattutto
con la droga, non l’ho mia incontrata e questo mi ha preservato dal pericolo di cadere da quelle
cose da qui non ci si risolleva più. Ho fatto anch’io le mie esperienze ma all’isola di Wight non
sapevo ancora che si drogassero. Io mi ero portato il vino, il Cabernet, un vino veneto. E gli inglesi
mi fecero anche pagare la dogana, perché ne avevo nel camion una cassetta.
Io ero andato soprattutto per la prima esibizione di Emerson, Lake and Palmer, grazie a un
batterista inglese, David Becker, che ha anche suonato con me nelle Orme. Lui è andato a Londra
e mi ha portato l’LP dei Nice. Io sono impazzito, perché quando ho sentito il Concerto
Brandeburghese suonato da Emerson ho capito che la musica stava cambiando velocemente, che
ci si stava allontanando dal beat e dal rock di Elvis o dei Beatles, si stava andando molto verso il
classico. Verso Bach, verso Sibelius, verso tutti i grandi compositori.
Questo mi ha incoraggiato perché ho sempre amato la musica classica, però non avevo una
conoscenza del classico perché non ha avuto la fortuna di andare al Conservatorio. Negli anni
Sessanta iscriversi al Conservatorio era come entrare all’Università, era molto difficile entrare. Mio
papà era un operaio, al posto del pianoforte mi comprò la fisarmonica. Io ci rimasi male però poi
l’ho imparata a suonare e tutt’ora lo ringrazio perché quando c’è qualche festa mi porto la
fisarmonica.
A Wight io ho percepito che Emerson si è presentato con il Moog Modular e Jimi Hendrix sentiva,
secondo me, che stava finendo un’epoca, quella d’oro della chitarra, perché da quel momento le
tastiere hanno preso il sopravvento. C’è stato un cambiamento enorme, difatti quasi tutti I gruppi
progressive, che avevano il tastierista in primo piano hanno fatto la loro strada, come i Genesis, I
Van Der Graaf Generator e tanti altri. C’è stato un cambiamento dovuto anche alla sonorità e alla
tecnica che propone questo strumento, vicino al pianoforte, completo, su cui era molto più facile
comporre rispetto alla chitarra. C’è stato questo breve periodo che è finito presto, purtroppo. Spero
che questi giovani interessati al progressive resistano, perché in questo momento la musica e la
cultura in Italia stanno attraversando un periodo duro, ma può darsi che passi presto. Secondo me
siamo sulla buona strada.
Uno spettatore (a Hugh Hopper): Parlando di David Allen, cosa ne pensi della musica che ha fatto
successivamente con i Gong?
David era un’amico quando ero giovane, anche se era il “cattivo” della situazione. E’ lui che mi ha
insegnato a creare dei loop, a capire come utilizzarli e come creare il suono in quel modo. Mi ha
anche introdotto a tutta una serie di sostanze illegali. Tutto questo, combinato, ha dato vita alle mie
prime composizioni musicali. David è una persona estremamente creativa, è anche un po’ matto,
Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976
Cremona, 20-22 ottobre 2006
Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock
ma d’altra parte chi non lo è. Effettivamente mi piace l’idea che suoni ancora, ha fatto diverse
versioni di quello che aveva fatto con i Gong.
L’ultima volta che l’ho visto era a Londra e aveva questa parete di amplificatori e di strumenti
musicali di ogni genere con gli Acid Mothers Gong. C’erano cinque chitarristi giapponesi
completamente matti, poi c’erano David, Josh, Jimmy Spun, che suona con David da parecchio
tempo. Mi ricordo che un amico di David ha descritto quel concerto come il Pollock della musica
progressive. E lo era. Adesso penso abbia 67 anni, sta suonando ancora oggi. E’ sempre stata
una persona fuori dalla righe, esagerata, non gli è mai piaciuto vivere tranquillo e ancora adesso
penso sia su questa strada, è stupefacente.
Uno spettatore: Io non avevo una vera e propria domanda, volevo rivolgermi a Toni. Con poche
parole e nel suo breve racconto di poco fa ha fatto veramente rivivere un’epoca. In più ha espresso
un concetto importante nei riguardi un festival un po’ snobbato dalla critica, sia di quegli anni sia
attuale, nei confronti di questo festival spartiacque dell’isola di Wight. Mi sembra che in
quell’occasione suonasse anche un certo tastierista che prende il nome di Keith Jarrett, e che
prese tutta un’altra strada.
Mario Garuti (a Hugh Hopper): Vorrei sapere fino a che punto all’epoca si facevano delle
sperimentazioni perché si credeva in questo oppure era un riflesso condizionato da un certo tipo di
cultura che c’era in quell’epoca, oppure tutte due le cose. Penso a Seventh dei Soft Machine, che
mi sembra più orecchiabile rispetto a Third, Fourth o Fifth. Come se in qualche modo avessero
virato la linea sperimentale verso una musica più orecchiabile.
Hugh Hopper: In realtà non volevamo proprio fare parte di quello che era l’ambiente circostante,
proprio per questo tutti avevamo il chitarrista e i Soft Machine avevano deciso di non avere un
chitarrista. Forse non era una scelta così deliberata, però l’idea era quella di fare quello che gli altri
non facevano, di fare qualcosa di diverso.
Uno spettatore: Quando noi guardiamo a un periodo della musica, non è che tutto sia sempre
uguale, come oggi per la musica elettronica, non è che tutta la musica elettronica sia interessante,
ci sono cose più o meno interessanti. Secondo me ci sono delle cose nel rock progressivo che non
sono affatto progressive e vorrei capire cosa ne pensavo questi musicisti. Abbiamo capito che c’è
una galassia che gira intorno al rock progressivo. Ad esempio non so se quello che io e altri
abbiamo definito “pop sinfonico”, secondo me ha dei problemi nell’essere incluso dello stesso
ambito progressivo delle composizioni di Henry Cow, Soft Machine o di certe sperimentazioni
italiane molto interessanti di quegli anni. Ho qualche problema in questo senso, senza voler
creare confini che non esistono, però mi interessa cercare di capire cosa nel rock progressivo c’è
di progressivo e cosa di regressivo.
Hugh Hopper: La risposta è sì, ha ragione. In realtà quando suonavamo non lo chiamavano
progressive rock, ne ha parlato ieri Gianmario, “progressive” è un’etichetta che è stata assegnata
in seguito, probabilmente da un giornalista, al genere. Sono cose che succedono, sempre. Io per
esempio io sono nato a Canterbury, nel Kent, e sono una dei pochissimi musicisti che potrebbe
veramente essere considerato vicino alla “scuola di Canterbury”, ma anche lui (ndr. Chris Cutler)
era considerato tale”, ma probabilmente a Canterbury lui non c’è neanche mai stato. E’ una
semplificazione come tante altre, perché serviva a creare delle etichette, come la “Canterbury
Music” e in effetti ha aiutato anche noi, perché il nostro disco finiva in questa sezione e la gente
andava a cercarlo proprio lì. E’ una semplificazione, però è una cosa che succede abbastanza
spesso nella vita, ci piace avere delle etichette abbastanza semplici per riconoscere le cose.
Chris Cutler: Io ho una visione un po’ più eretica, perché il progressive rock è stato influenzato,
come dicevo prima, dalla musica contemporanea e dalle arti visive, questo era in contrapposizione
con l’altra parte dei gruppi, che si ispiravano più alla musica della fine del XIX secolo. Sono stati
proprio questi che hanno fatto riferimento ai compositori russi della fine del XIX secolo ad essere
chiamati progressive rock per primi. Secondo me, proprio perché arrivavano alla fine del XX
secolo, erano più regressivi che progressivi.
Il cambiamento, per quella mia generazione, è avvenuto dopo la seconda metà degli anni
Sessanta in Inghilterra, per motivi abbastanza chiari. Perché era la generazione che era cresciuta
ascoltando pop alla radio o comprando i dischi, e questa era la generazione dei nuovi ricchi, dopo
la Seconda guerra mondiale. La maggior parte di noi non aveva alcuna formazione musicale, però
volevamo fare parte di una band. In realtà avevamo iniziato a suonare semplicemente ritrovandoci
insieme a casa di qualcuno, suonando degli strumenti, in genere cercando di seguire e di copiare
un disco.
Tra l’altro suonavamo anche degli strumenti “proibiti”, che non erano veramente considerati
strumenti musicali perché erano elettrici. Una forma di musica fino ad allora ignorata, in un certo
senso. Non c’erano accademie, non c’erano regole, non c’era nessuno che ci potesse dire come
andavano fatte le cose. Per esempio in Inghilterra c’è stato il fenomeno dello “skiffle”, che è
veramente un fenomeno che partiva dalla base.
Si poteva suonare lo “skiffle” senza nessuno strumento particolarmente costoso. Poi sono arrivate
le chitarra e i bassi elettrici. Ad esempio, prima di diventare famosi, gli Shadows erano un gruppo
skiffle. Come ha detto Franco (ndr. Fabbri) nella sua relazione, dal punto di vista musicale quello
che è successo è che qui c’è stato davvero un processoeducativo, formativo con l’uso della
chitarra. Perché c’era la linea di basso, la chitarra che suonava sulla base di quella linea, poi
entravano gli altri strumenti, e infine la batteria che teneva il ritmo. La chitarra rappresentava uno
strumento completamente nuovo proprio perché era elettrica, si potevano produrre suoni diversi da
quelli ascoltati fino a quel momento semplicemente avvicindandosi all’amplificatore o suonando a
distanze diverse dal ponticello. C’era poi anche la naura fisica del suono ad essere importante. In
effetti in Inghilterra è possibile seguire in senso temporale il passaggio dallo skiffle ai gruppi dove
la chitarra era lo strumento principale, per poi arrivare al rhythm’n’blues che veniva dall’America,
dove i musicisti che avevano imparato le basi venivano in contatto con il blues, che era molto più
rude e grezzo.
Per rispondere anche alla domanda precedente: effettivamente tutte le volte che si sentiva un
suono nuovo immediatamente si voleva sapere come quel suono era stato prodotto, tutte le volte
che si vedeva un musicista nuovo fare qualcosa di particolamenrte ben fatto si diceva: “Vai a
sentirlo, via a vederlo”, perché si voleva capire in che modo suonasse quella persona. Ad un certo
punto i musicisti hanno cominciato a diventare più competenti e hanno iniziato a copiare quello che
si faceva nel rhythm’n’blues.
Siccome non c’era nessuno che ci dicesse come fare le cose, siccome noi eravamo molto
ambiziosi e siccome non appartenevamo a nessuna comunità musicale particolare se non quella
che si riuniva intorno al giradischi, eravamo voraci, ascoltavamo qualsiasi cosa si riuscisse a
recuperare. Raggiunto un certo livello tecnico ascoltare del jazz, di musica classica o qualche
registrazione etnica, diventava interessante perché potevamo dire: “Questo è interessante,
potremmo provare a utilizzarlo perché siamo in grado di farlo da un punto di vista tecnico”, allora
questi generi sono entrati nel vocabolario della pop music. C’è stata una sorta di progressione,
siamo passati dal copiare gruppi che ci piacevano ad aggiungere nuovi suoni perché tecnicamente
eravamo migliorati e riuscivamo a creare qualcosa di nuovo sulla base di quello che ascoltavamo.
Questo è diventato un valore positivo perché si poteva innovare, introdurre qualcosa di nuovo.
Sotto quest’aspetto eravamo serissimi riguardo alla sperimentazione e all’innovazione, perché in
quel modo eri vicino all’ambiente circostante, riuscivi ad essere al passo con i tempi sola facendo
qualcosa di nuovo e mai sentito prima. Se guardiamo a Frank Zappa negli Stati Uniti, vediamo che
lui ha raccolto tutti gli stili musicali, senza fare alcuna distinzione tra di loro. In Inghilterra,
perlomeno nella comunità in cui mi trovavo io, questo era molto importante perché questo ci dava
licenza di fare la stessa cosa anche da noi.
La cosa interessante è che proprio in quel momento gruppi completamente diversi come Pink
Floyd, Soft Machine, Arthur Brown, Incredibile String Band, FairPort Convention, pur facendo
musica molto diversa, facevano tutti qualcosa di nuovo. Secondo me il punto di cambiamento è
stato quando sono arrivati i musicisti che facevano riferimento alla fine del XIX secolo, sono entrati
con forza, volevano dimostrare qualcosa, ma da quello che era contemporaneo hanno spostato
l’attenzione su quello che era regressivo e ancorato al passato. Questi sono i gruppi che hanno
dato origine al termine progressivo, perché progressive rock è stata un’etichetta usata per la prima
Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976
Cremona, 20-22 ottobre 2006
Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock
volta per quei gruppi e non di quelli contemporanei. E’ un termine complesso, credo che abbia
bisogno di un po’ di consenso prima di poterne discutere, di poter chiarire di che cosa si tratta.
Luca Marconi: Sarei molto interessato a sentire la vostra esperienza rispetto alle due date di
questo convegno, 1966 e 1976. Anche per voi c’è un periodo che si apre nasce nel 1966 e si
chiude nel 1976, segnando un importante punto di passaggio?
Hugh Hopper: Per me sono degli spartiacque, perché il 1966 segna l’album Revolver dei Beatles
e la diffusione della musica psichedelica. Devo dire che ho sentito una descrizione calzante da
parte di Cinzia Lennon, l’ex-moglie di John, che presentando un suo libro alla radio ha detto ua
frase che mi è piaciuta molto: “Fino agli anni Sessanta era tutto in bianco e nero, poi siamo arrivati
negli anni Settanta e il mondo è apparso a colori.”
Il 1976b ha visto l’attenzione della stampa musicale concentrarsi sul movimento punk. Io all’inizio
avevo pensato che fosse una costruzione artificiosa della stampa, però poi mi sono reso conto che
era un fenomeno reale. Questo naturalmente non ci ha impedito di continuare a fare musica come
volevamo, però si è avvertito un cambiamento piuttosto netto nello spirito e nella musica in Gran
Bretagna, forse per questo c’è stato poi anche l’avvento del tatcherismo.
Chris Cutler: Sono d’accordo in generale con quello che ha detto Hugh, ed effettivamente nel
1966 c’era questa sensazione generalizzata di ottimismo. Si aveva l’impressione che le
generazioni dei giovani riuscissero a creare la propria musica, organizzare i propri concerti,
allontanandosi dal dominio delle case discografiche. Purtroppo quando giunse il 1976 iniziò anche
un periodo di pessimismo e cinismo che ancora non siamo riusciti a scansare. E dopo la breve
parentesi del punk il controllo è tornato totalmente nelle mani delle case discografiche. E tutte
quelle sperimentazioni piene di speranza erano state relegate sullo sfondo, mentre negli anni
Sessanta riuscivano a campeggiare in primo piano.
Toni Pagliuca: Nel 1976 mi trovavo a Londra con le Orme. Stavamo incidendo Verità Nascoste e
avvertivamo la crisi profonda della musica inglese e americana. Io avevo avvertito che il periodo
d’oro era esautoro. Infatti negli anni Ottanta e Novanta sono sorti pochi gruppi, ne cito due, i
Nirvana soprattutto, di breve vita, i Police e gli U2, se vogliamo metterli dentro, ma sono diversi per
la loro collocazione. Avevo avvertito che la musica doveva purificarsi, non essere più schiava dello
strumento elettronico, perché l’elettronica aveva preso il sopravvento sulla concretezza, sul
contenuto della musica.
Io nel ’78 ho proposto ai miei colleghi di vendere tutti gli strumenti elettronici. Difatti io regalai
l’organo a un sacerdote della mia chiesa, che poi me l’ha anche portato indietro perché mi ha detto
che non gli piaceva. Ho venduto tutto, anche il Mini Moog e ho comprato un pianoforte a coda, un
clavicembalo e un harmonium. Gli altri due colleghi hanno appeso al chiodo la chitarra elettrica e il
basso, mettendosi a studiare violino e violoncello. Il batterista ha cominciato a studiare vibrafono,
marimba e tutte le percussioni. Era un sogno bellissimo che ci aveva portato a intraprendere una
strada che ci dava grandi soddisfazioni a livello artistico, anche se non ci permetteva di sostenerci
economicamente.
Uno spettatore: volevo accennare agli Yes e ai King Krimson come gruppi fondamentali per
l’innovazione nella musica progressiva, visto che non sono ancora stati menzionati. Volevo
chiedere cos’è che ha portato al decadimento musicale e culturale in tutte le forme d’arte di questi
ultimi decenni.
Hugh Hopper: La possiamo considerare una progressione naturale che consegue dall’abbandono
degli strumenti acustici e dall’aggiunta progressiva della tecnologia. Chiaramente la rivoluzione del
momento è rappresentata dall’informatica e da Internet, che ha estremizzato la tendenza dilagante
a non andare ai concerti e a non comprare i CD, a non produrre più la propria musica. Sta
diventando più che altro una questione di esperienza personale, magari si potrà avere il proprio
mp3 e lo si potrà far ascoltare all’amico, ma è un’esperienza ben diversa da quella che si aveva
andando tutti insieme ai concerti o facendo la propria musica.
Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976
Cremona, 20-22 ottobre 2006
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