Workshop – “Le tecniche compositive nei gruppi progressive rock” con Chris Cutler (Henry Cow) Hugh Hopper (Soft Machine) Toni Paglica (ex Le Orme) Gianmario Borio: Che cosa significava nei vostri gruppi comporre, scrivere una partitura, lavorare insieme? Hugh Hopper: Se devo fare riferimento al periodo dei Soft Machine, i singoli musicisti lavoravano nel comporre principalmente da soli, cioè preparavano un brano, un pezzo a casa e poi lo presentavano al resto del gruppo. E quello che succedeva è che, ovviamente, si provava fino ad arrivare al concerto, poi si suonava durante il concerto e molto spesso i pezzi cambiavano in modo anche considerevole. A volte l’idea l’originale era un’idea piuttosto semplice e si sviluppava con il tempo modificandosi, in altri casi avveniva il contrario, cioè avevamo una partitura scritta quasi nei dettagli e quella rimaneva tale in tutti i nostri concerti. Poi dipendeva tantissimo dai musicisti, che avevano approcci diversi. Io non aveva studiato musica e quindi tendenzialmente scrivevo ascoltando me stesso. Adesso ne so qualcosa di più, ma allora in realtà mi mettevo la chitarra, suonavo, sviluppavo un tema, magari sulla base di qualche accordo, però la cosa si fermava lì, non scrivevo la musica. Mike Ratledge, il tastierista, invece aveva una preparazione molto più approfondita, aveva studiato musica classica e contemporanea e il suo approccio era completamente diverso e, se volete, “più corretto”, il mio era più caotico. La sezione centrale del brano che avete appena ascoltato (ndr. Facelift) è una parte che io ho scritto parecchio tempo fa. Semplicemente ero seduto, suonavo il basso e seguivo semplicemente una melodia che mi piaceva non c’era in realtà nessuna struttura armonica. Era una struttura modale in mi minore però me no sono reso conto in seguito, suonandola con gli altri che mi chiedevano: “Che cosa succede qui? Che cosa succede là?” e allora si è cominciata a delineare questa struttura, però tutto è partito da me che al basso cercavo una melodia che mi piacesse. Chris Cutler: Con gli Henry Cow la situazione era un po’ più complessa. Sicuramente il metodo cambiava, come è stato detto per i Soft Machine, a seconda della persona che componeva, quindi dal singolo membro della band.E probabilmente la cosa più interessante a proposito del gruppo è che effettivamente avevamo tutti background completamente diversi. La cosa curiosa era che persone in realtà del tutto incompatibili le une con le altre erano riuscite a mettersi insieme e a trovare un linguaggio musicale che li teneva uniti. E l’altra cosa da dire forse è che il metodo compositivo e la composizione sono cambiate tantissimo, a volte radicalmente, nello svilupparsi e nel trascorrere del tempo all’interno del gruppo. I quattro compositori principali erano Tim Hodgkinson, Lindsay Cooper, Fred Frith e John Greaves. Fred Frith aveva si era formato on la musica folk, suonava la chitarra acustica nei pub. E poi ha iniziato a suonare, come me, in gruppi che suonavano musica degli Shadows e soul. Mentre Tim Hodgkinson era assolutamente immerso nel jazz e in particolar modo nel free-jazz dell’inizio degli anni Sessanta, quindi Coleman. John Greaves aveva esperienza come musicista nella banda nella quale suonava suo padre, quindi nella musica da ballo. Lindsay Cooper aveva studiato alla Julliard e aveva una formazione musicale assolutamente completa. Il metodo compositivo che è stato utilizzato per tutta la durata del gruppo è che uno dei musicisti arrivava con una partitura scritta, un pezzo completo. Però il livello di completezza dipendeva dal musicista, alcuni arrivavano con la partitura finita, altri invece con la partitura non ancora completa. Fred, soprattutto all’inizio del gruppo, arrivava con una sorta di scheletro di partitura dove c’erano dei riff ripetuti e dove c’era una parte per l’assolo, in cui si utilizzavano gli standard compositivi della musica rock. Però Fred era anche quello che tra di noi era più legato alla scuola di New York, a Feldman e a Cage. In effetti il primo brano del primo disco che abbiamo lanciato era stato scritto da lui era composto utilizzando il metodo stocastico facendo riferimento alla scuola di New York. Fred componeva sempre con uno schema mentale abbastanza preciso ma non sempre udibile nel pezzo. Nel nostro secondo album il pezzo scritto completamente da lui, Ruins, si basava sulla serie di Fibonacci. Il pezzo ha una forma a specchio. Si inizia con una melodia abbastanza complessa Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock basata sulla serie di Fibonacci, poi c’è l’assolo di chitarra, di 55 battute su soli due accordi che vengono suddivisi in modi temporalmente diversi all’interno di ogni battuta, poi c’è la parte centrale, scritta per viola, fagotto e xilofono. Questa sezione aveva una scansione temporale molto interessate, nella quale sulla stessa scansione una parte del gruppo suonava in5/4, mentre contemporaneamente l’altra suonava in 4/4. C’è poi un’altra sezione, ancora di 55 battute, in cui suona l’organo, poi l’intera struttura viene ripetuta all’inverso. Lo dico per dire che Fred ha sempre composto sulla base di una struttura estremamente guidata e pianificata, c’erano sempre delle idee ben definite: nel secondo pezzo a cui facevo riferimento c’erano delle idee che si basavano sui numeri, nel primo una serie di processi che erano correlati alla sua conoscenza della scuola di New York. Tim Hodginkson invece, il fanatico di jazz, arrivava con partiture assolutamente complete, aveva brani scritti dall’inizio alla fine. Nei brani di Tim sin dall’inizio non ci sono mai stati né assoli, né riff. In realtà, era rarissimo che ci fossero due battute una accanto all’altra con lo stesso metro. Quindi Tim componeva con un approccio melodico, contrappuntistico, con battute molte lunghe, rotte dai cambiamenti metrici. Ed era difficilissimo impararle. Tra l’altro Henry Cow era un gruppo in cui era assolutamente vietato andare sul palco con della musica scritta. E quindi ci toccava impararle. Per esempio il primo pezzo di Tim Hodginkson durava quindici minuti, era tutta musica in contrappunto con una complessità melodica non trascurabile, e l’avevamo imparata perfettamente a memoria perché era tutto scritto. Tim usava sempre ritmi additivi, molto spesso su tre livelli ritmici e melodici diversi che attraversavano la battuta, se qualcuno suonava in 5/4, un altro era sul 7/8, l’altro sul 9/8, bisognava stare molto attenti a dove si entrava per far funzionare la struttura. Lindsay era una via di mezzo tra Tim e Fred, perché anche a lei non piaceva avere due battute uguali una accanto all’altra, però a volte inseriva delle ripetizioni, in alcuni casi anche di un’intera sezione, creando una struttura di forma ABA. Come Fred, anche lei arrivava con qualcosa di scritto, con una partitura molto raramente completa, c’era qualcosa per alcuni musicisti ma non c’era nulla per gli altri, quindi questo lasciava un buon livello di libertà. Tra l’altro, la regola era che il compositore non era mai “proprietario” del brano quando lo presentava al resto del gruppo e si cominciava a lavorarci sopra. Questo significa che durante le prove, quando si cercava di tirare fuori il brano definitivo chiunque poteva dire: “Questa parte non mi piace, togliamola”, oppure “Spostiamo questa parte vicino a quest’altra”, e il compositore iniziale doveva semplicemente accettare questa situazione. In realtà con il trascorrere del tempo le sezioni ripetute e gli assoli scomparvero completamente dal nostro repertorio e quando, durante i concerti, si sentivano gli assoli di chitarra, stavamo suonando brani del nostro repertorio iniziale. L’idea era stata “rubata” ai Soft Machine, anche per noi il concerto doveva rappresentare una macro-struttura, creavamo una scaletta e poi cercavamo di collegare tra loro i brani in modo tale che si potesse evitare di bloccare la musica, quindi si suonava anche per un’ora consecutivamente. Effettivamente per ogni concerto capitava che a qualcuno di noi venisse assegnato il compito di creare alcuni dei collegamento, dei brani-ponte, che magari venivano suonati solo una o due volte perché per il concerto successivo, per rendere nuovamente la cosa interessante, questi brani venivano eliminati e sostituiti con dei brani-ponte nuovi. Per riassumere: la partitura arrivava a volte completa, a volte no, con Tim in genere non si cambiava niente, era tutto fatto e finito con quello che portava lui, con Fred e Lindsay invece qualche modifica in genere la si apportava o si completava la partitura, il lavoro comune era quello di collegare i pezzi con questi brani-ponte e di organizzare tutto per il concerto. Ci sono tre eccezioni di cui vorrei parlare rapidamente. La prima eccezione c’è stata quando dovevamo organizzare un tour in Olanda e Lindsay Cooper era malata, quindi dovevamo cercare di inventarci qualche cosa per coprire la sua assenza, perché non avevamo materiale riempitivo. Anche perché mancavano delle parti se non c’era a disposizione il sassofono o il fagotto. In quell’occasione Tim stava componendo un brano, di cui aveva composto circa due minuti e mezzo. A questo punto abbiamo deciso di andare a trascorrere una settimana in una casa nello Yorkshire e da questi due minuti e mezzo di musica che aveva scritto Tim abbiamo tirato fuori cinquanta minuti di musica. Questo è stato un lavoro collettivo. Abbiamo effetivamente preso quei due minuti e mezzo di Tim e li abbiamo scomposto in frammenti minimi, poi abbiamo ripetuto alcune parti di questi, ma c’era una struttura logica abbastanza forte, quindi anche se avevamo pochissimo materiale a disposizione lo abbiamo suddiviso per arrivare a uno sviluppo tematico molto forte. In effetti è molto interessante ascoltare questo brano proprio per questo motivo. Ed è stato uno dei pochissimi casi in cui abbiamo utilizzato dei bordoni per buona parta del brano, che durava parecchio. Il brano era diviso in cinque sezioni. Le sezioni 1, 3 e 5 erano basate sul materiale di Tim e c’era anche una persona che faceva dei brevi assoli, sempre basati sullo stesso materiale. Mentre le sezioni 2 e 4 duravano 8-9 minuti ciascuna e utilizzavano la tecnica del bordone. Le sezioni dispari erano state strumentate per la chitarra elettrica che veniva suonata con un prisma, o con grosse sfere di vetro, oppure un basso che era stato preparato, bloccando le corde con delle mollette. Intanto Tim continuava a tenere la nota di bordone. Nell’altra sezione era come se ci fosse qualcuno che buttasse per terra un grosso vassoio pieno di sfere di metallo, per otto minuti, senza nient’altro, non c’era nessun altro evento nella sezione. La seconda eccezione c’è stata quando si trattava di registrare il secondo disco per la Virgin e non avevamo materiale sufficiente. Tra l’altro Lindsay era appena entrata nel gruppo, quindi non potevamo suonare il materiale preparato precedentemente, in più le avevamo appena tolto due denti del giudizio, quindi faceva fatica a suonare. Il primo disco era stato creato come succedeva con i gruppi più tradizionali, cioè abbiamo semplicemente documentato in studio di registrazione quello che sapevamo suonare insieme, siamo andati in studio e abbiamo registrato quello che suonava insieme normalmente. Lavorando per la prima volta in quell’occasione in uno studio di registrazione ci fu immediatamente chiaro che lo studio di registrazione stesso era uno strumento compositivo ricchissimo.Quindi l’intero secondo lato di quel disco fu costruito collettivamente, sfruttando appieno tutte le possibilità che ci venivano date dallo studio di registrazione. Era stato detto più volte che la tecnologia di registrazione rendeva disponibile per l’utilizzo qualsiasi suono, ma noi ce ne rendevamo conto per la prima volta. Ma una cosa che veniva considerata meno era che nello studio eravamo in grado di registrare delle vere e proprie performance. Quindi dava al musicista la possibilità di comporre usando delle performance. Il che non suona assolutamente radicale oggi, ma era abbastanza insolito all’inizio del 1973. Lavoravamo in modi diversi. In alcuni casi improvvisavamo, ascoltavamo l’improvvisazione e magari editando quello che avevamo appena registrato. Sulla base di quanto lavoro editato in studio scrivevamo una vera e propria composizione, per arrivare a uno struttura organizzata, anche se poi su questa venivano comunque fatte ulteriori improvvisazioni. Per esempio abbiamo lavorato parecchio anche con i loop, rivedendo le cose che avevamo fatto improvvisando. C’è un pezzo in particolare che utilizza un loop di cinquanta secondo. Lo abbiamo fatto muovendoci in cerchio per tutto lo studio, con le aste dei microfoni percosse da delle bottiglie. Poi lo abbiamo abbassato di tre semitoni, perché il loop rallentasse insieme al brano. Una volta creato questo loop aggiungevamo poco alla volta le altre parti. Per arrivare a creare una vera e propria struttura abbiamo ripreso parte di una melodia del lato A del disco, che era già stata scritta, suonandola a velocità dimezzata e aggiungendo delle parti che erano invece state registrate a velocità raddoppiata. In questo modo siamo riusciti a creare questo brano di sei minuti dove c’era quest’incrocio delle diverse fasi, arrivava il loop, che si concludeva molto lentamente, ma prima che terminasse entrava la melodia, che permetteva di arrivare al loop successivo. Questo è il metodo compositivo che funziona grazie all’ascolto. E non prevedeva alcuna discussione, perché non aveva neppure senso dire: “Questo mi sembra interessante”, lo si poteva dire, ma voleva automaticamente dire registrarlo su nastro e vedere come suonava. Con Tim, con Lindsay, e con Fred avevamo delle composizioni piuttosto rigide. E comunque in ogni concerto avevamo sempre circa un 40% di improvvisazione libera, non generica, non idiomatica. Noi ci permettevamo, a differenza di altri, Zappa lo ha fatto per un periodo, di suonare improvvisando sulla base di tanti generi musicali differenti, cosa che non si faceva assolutamente perché era considerata vietata, anche il jazz o il free-jazz era quello e soltanto quello e non si potevano miscelare con nessun altro genere. La scuola europea allora era un po’ come la scuola di Darmastdt, non c’era melodia, non c’era ritmo, non c’era possibilità di giocare più di tanto con le battute. Questo è stato importante per noi perché questi pezzi composti e scritti ci permisero di imparare tutta una serie di tecniche diverse che non avremmo potuto conoscere se non avessimo suonato delle composizioni così rigide. Una volta che conoscevamo bene questi pezzi automaticamente riuscivamo a svilupparli ulteriormente e arrivare all’improvvisazione. Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976 Cremona, 20-22 ottobre 2006 Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock Era vero anche il contrario, quello che emergeva dalle improvvisazioni riusciva ad essere memorizzato e poteva ricomparire nelle composizioni future. Ed è importante vedere come questi due elementi hanno continuato a fondersi uno con l’altro. La terza eccezione, brevemente. Anche in questo si trattava di malati ed eravamo in Scandinavia. In questo caso c’erano due componenti del gruppo malati, e abbiamo deciso ad un certo punto di lanciarci in un programma improvvisato di minimo due ore, assolutamente al buio. Avevamo tre punti fissi. All’inizio avevamo soltanto un tamburo contro il quale si cantava, facendolo vibrare con la voce e sul quale di batteva, e un flautino di legno. Perché questi erano veramente gli strumenti originari, i più primitivi, e quindi abbiamo deciso di iniziare con questi, tamburo e flauto. Trascorso circa il 40% del tempo c’era la parte centrale ed era una parte riguardante un matrimonio, con l’uso delle tubular bells. Verso la fine c’era una sorta di marcia scritta da Fred, piuttosto strana da punto di vista ritmico. E per tutto il brano, tutti noi pensavamo a una sorta di evoluzione, a un qualche tipo di sviluppo. Utilizzavamo anche un’idea che è stata “rubata” da Karlheinz Stockhausen. Tutti avevano dei nastri preregistrati, di due ore. Se non ricordo male Lindsay aveva due ore nastro con registrazioni dall’infanzia alla vecchiaia, quindi suoni di persone dal bambino appena nato fino al vecchio. Tim aveva due ore di nastro con la musica più antica che era riuscito a trovare a quella più contemporanea. Fred aveva il materiale di Henry Cow dalla formazione iniziale del gruppo fino a quel momento. Era materiale che ogni singolo musicista poteva ascoltare quando era in difficoltà, se non aveva nient’altro a cui fare riferimento si rivolgeva al nastro. O, a volte, tramite un pedale, potevano farlo ascoltare al pubblico. Stockhausen aveva elaborato l’idea, ma questo nostro pezzo era proprio un mix strano. Per me questa era una strategia compositiva. Penso che gli Henry Cow e i Soft Machine avessero influenze contemporanee, sicuramente facenti riferimento al XX secolo. Sicuramente, a parte il free-jazz, Janacéck e Bartok erano forse i due punti di riferimento principali per noi, sicuramente udibili all’interno della nostra musica. Anche il metodo della scuola di New York non era necessariamente riconoscibile nei nostri brani, ma era sicuramente qualcosa da cui abbiamo provato a trarre insegnamento. Per quanto riguarda il jazz, sicuramente quello che stava succedendo nella scena nera americana e quello che suonavano gli AMM. E in effetti queste strategie erano molto diverse da quelle utilizzate da molti dei gruppi di cui si è parlato durante questo convegno, che tendevano essere meno appartenenti al proprio tempo e più legate a modelli del XIX secolo. Evasioni Totali Hugh Hopper: Armonicamente è un brano molto semplice, in due occasioni c’è una parte in cui suoniamo un ostinato. E’ vero che nel progressive rock c’erano gruppi che facevamo delle cose estremamente complicate, ma è anche vero che c’erano dei brani in cui per moltissimo tempo si suonavano delle parti molto semplici, come questo. In effetti vi abbiamo dato un ottimo esempio di questo tipo di situazione, perché per un paio di secondi abbiamo suonato qualcosa di più complesso, mentre il resto era tutto molto semplice. Toni Pagliuca: Devo dire che suonare con questi due muscisti è stata per me una cosa importantissima e che mi arricchisce notevolmente. Aldilà di essere bravi musistici sono anche persone amichevoli, mi sono trovato molto bene con loro. Questo pezzo che abbiamo fatto era molto più semplice di quello fatto in precedenza (ndr. Aliante in medley con Facelift), anzitutto questo è in 4/4, altro era in 6/4. Perciò quando si perde l’orizzonte suonando in 6/4 purtroppo non c’è la possibilità di riprendersi subito, come è successo prima. In questi ritmi complicati quando si improvvisa, se non c’è qualcuno che ti riporta sulla strada, è difficile ritrovare il battere. Serena Facci: Tu vieni da un’esperienza differente, primo perché si tratta di un gruppo italiano e come tu mi hai detto, gli inglesi sono stati i primi a fare progressive ma gli italiani sono stati i primi ad ascoltarlo, e penso che questa cosa dovrai spiegarcela, e secondo perché provieni da un tipo di progressive rock che era leggermente, più melodico, come ci spiegherai. Un’altra cosa che volevo segnalare era un’altra frase che mi avevi detto e sulla quale vorrei che spendessi due parole in più. Non so se avete notato che Pagliuca ha portato il suo organo Hammond originale che ha fatto restaurare da qualche anno e il Lesile, anche quello d’epoca, quindi stiamo suonando con strumenti originali, filologicamente. Per questo dobbiamo ringraziare veramente Toni che li ha portati. Lui mi ha detto: “Porto l’Hammond, nonostante la fatica di portarselo dietro, perché il progressive forse non sarebbe stato veramente progressive se non ci fosse stato l’organo Hammond”. Abbiamo parlato della timbrica all’interno del progressive, di cui è caratteristico questo sound, quest’impronta che dava l’Hammond, siccome sei un tastierista vorrei che ce ne parlassi. Toni Pagliuca: L’organo Hammond è caratteristico di buona parte della musica progressiva, anche se, per esempio, il tastierista dei Soft Machine usava il Fender abbondamente trattato, così trattato che sembrava un organo Hammond distorto. Io mi sono tanto ispirato al suono dei Soft Machine perché mi piaceva questo suono molto aggressivo, perché l’organo Hammond è sempre stato usato nella sua timbrica caratteristica, però a me piaceva alternare la dolcezza dell’Hammond all’aggressività che aveva lo strumento concorrente, la chitarra, strumento principe prima dell’avvento del progressive. Una teoria che ho io è quella che segna una data storica con l’isola di Wight, dove ho avuto la fortuna di andare ad assistere per una settimana di full-immersion con il meglio della musica di allora. Ho assistito all’ultimo concerto di Jimi Hendrix, che dopo una settimana sarebbe morto a Londra, dal furgone perché stavo male, mi ero ammalato e faceva molto freddo. Mi hanno portato in infermeria, erano tutti quanti “andati”. Io sono stato fortunato nella mia esperienza, soprattutto con la droga, non l’ho mia incontrata e questo mi ha preservato dal pericolo di cadere da quelle cose da qui non ci si risolleva più. Ho fatto anch’io le mie esperienze ma all’isola di Wight non sapevo ancora che si drogassero. Io mi ero portato il vino, il Cabernet, un vino veneto. E gli inglesi mi fecero anche pagare la dogana, perché ne avevo nel camion una cassetta. Io ero andato soprattutto per la prima esibizione di Emerson, Lake and Palmer, grazie a un batterista inglese, David Becker, che ha anche suonato con me nelle Orme. Lui è andato a Londra e mi ha portato l’LP dei Nice. Io sono impazzito, perché quando ho sentito il Concerto Brandeburghese suonato da Emerson ho capito che la musica stava cambiando velocemente, che ci si stava allontanando dal beat e dal rock di Elvis o dei Beatles, si stava andando molto verso il classico. Verso Bach, verso Sibelius, verso tutti i grandi compositori. Questo mi ha incoraggiato perché ho sempre amato la musica classica, però non avevo una conoscenza del classico perché non ha avuto la fortuna di andare al Conservatorio. Negli anni Sessanta iscriversi al Conservatorio era come entrare all’Università, era molto difficile entrare. Mio papà era un operaio, al posto del pianoforte mi comprò la fisarmonica. Io ci rimasi male però poi l’ho imparata a suonare e tutt’ora lo ringrazio perché quando c’è qualche festa mi porto la fisarmonica. A Wight io ho percepito che Emerson si è presentato con il Moog Modular e Jimi Hendrix sentiva, secondo me, che stava finendo un’epoca, quella d’oro della chitarra, perché da quel momento le tastiere hanno preso il sopravvento. C’è stato un cambiamento enorme, difatti quasi tutti I gruppi progressive, che avevano il tastierista in primo piano hanno fatto la loro strada, come i Genesis, I Van Der Graaf Generator e tanti altri. C’è stato un cambiamento dovuto anche alla sonorità e alla tecnica che propone questo strumento, vicino al pianoforte, completo, su cui era molto più facile comporre rispetto alla chitarra. C’è stato questo breve periodo che è finito presto, purtroppo. Spero che questi giovani interessati al progressive resistano, perché in questo momento la musica e la cultura in Italia stanno attraversando un periodo duro, ma può darsi che passi presto. Secondo me siamo sulla buona strada. Uno spettatore (a Hugh Hopper): Parlando di David Allen, cosa ne pensi della musica che ha fatto successivamente con i Gong? David era un’amico quando ero giovane, anche se era il “cattivo” della situazione. E’ lui che mi ha insegnato a creare dei loop, a capire come utilizzarli e come creare il suono in quel modo. Mi ha anche introdotto a tutta una serie di sostanze illegali. Tutto questo, combinato, ha dato vita alle mie prime composizioni musicali. David è una persona estremamente creativa, è anche un po’ matto, Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976 Cremona, 20-22 ottobre 2006 Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock ma d’altra parte chi non lo è. Effettivamente mi piace l’idea che suoni ancora, ha fatto diverse versioni di quello che aveva fatto con i Gong. L’ultima volta che l’ho visto era a Londra e aveva questa parete di amplificatori e di strumenti musicali di ogni genere con gli Acid Mothers Gong. C’erano cinque chitarristi giapponesi completamente matti, poi c’erano David, Josh, Jimmy Spun, che suona con David da parecchio tempo. Mi ricordo che un amico di David ha descritto quel concerto come il Pollock della musica progressive. E lo era. Adesso penso abbia 67 anni, sta suonando ancora oggi. E’ sempre stata una persona fuori dalla righe, esagerata, non gli è mai piaciuto vivere tranquillo e ancora adesso penso sia su questa strada, è stupefacente. Uno spettatore: Io non avevo una vera e propria domanda, volevo rivolgermi a Toni. Con poche parole e nel suo breve racconto di poco fa ha fatto veramente rivivere un’epoca. In più ha espresso un concetto importante nei riguardi un festival un po’ snobbato dalla critica, sia di quegli anni sia attuale, nei confronti di questo festival spartiacque dell’isola di Wight. Mi sembra che in quell’occasione suonasse anche un certo tastierista che prende il nome di Keith Jarrett, e che prese tutta un’altra strada. Mario Garuti (a Hugh Hopper): Vorrei sapere fino a che punto all’epoca si facevano delle sperimentazioni perché si credeva in questo oppure era un riflesso condizionato da un certo tipo di cultura che c’era in quell’epoca, oppure tutte due le cose. Penso a Seventh dei Soft Machine, che mi sembra più orecchiabile rispetto a Third, Fourth o Fifth. Come se in qualche modo avessero virato la linea sperimentale verso una musica più orecchiabile. Hugh Hopper: In realtà non volevamo proprio fare parte di quello che era l’ambiente circostante, proprio per questo tutti avevamo il chitarrista e i Soft Machine avevano deciso di non avere un chitarrista. Forse non era una scelta così deliberata, però l’idea era quella di fare quello che gli altri non facevano, di fare qualcosa di diverso. Uno spettatore: Quando noi guardiamo a un periodo della musica, non è che tutto sia sempre uguale, come oggi per la musica elettronica, non è che tutta la musica elettronica sia interessante, ci sono cose più o meno interessanti. Secondo me ci sono delle cose nel rock progressivo che non sono affatto progressive e vorrei capire cosa ne pensavo questi musicisti. Abbiamo capito che c’è una galassia che gira intorno al rock progressivo. Ad esempio non so se quello che io e altri abbiamo definito “pop sinfonico”, secondo me ha dei problemi nell’essere incluso dello stesso ambito progressivo delle composizioni di Henry Cow, Soft Machine o di certe sperimentazioni italiane molto interessanti di quegli anni. Ho qualche problema in questo senso, senza voler creare confini che non esistono, però mi interessa cercare di capire cosa nel rock progressivo c’è di progressivo e cosa di regressivo. Hugh Hopper: La risposta è sì, ha ragione. In realtà quando suonavamo non lo chiamavano progressive rock, ne ha parlato ieri Gianmario, “progressive” è un’etichetta che è stata assegnata in seguito, probabilmente da un giornalista, al genere. Sono cose che succedono, sempre. Io per esempio io sono nato a Canterbury, nel Kent, e sono una dei pochissimi musicisti che potrebbe veramente essere considerato vicino alla “scuola di Canterbury”, ma anche lui (ndr. Chris Cutler) era considerato tale”, ma probabilmente a Canterbury lui non c’è neanche mai stato. E’ una semplificazione come tante altre, perché serviva a creare delle etichette, come la “Canterbury Music” e in effetti ha aiutato anche noi, perché il nostro disco finiva in questa sezione e la gente andava a cercarlo proprio lì. E’ una semplificazione, però è una cosa che succede abbastanza spesso nella vita, ci piace avere delle etichette abbastanza semplici per riconoscere le cose. Chris Cutler: Io ho una visione un po’ più eretica, perché il progressive rock è stato influenzato, come dicevo prima, dalla musica contemporanea e dalle arti visive, questo era in contrapposizione con l’altra parte dei gruppi, che si ispiravano più alla musica della fine del XIX secolo. Sono stati proprio questi che hanno fatto riferimento ai compositori russi della fine del XIX secolo ad essere chiamati progressive rock per primi. Secondo me, proprio perché arrivavano alla fine del XX secolo, erano più regressivi che progressivi. Il cambiamento, per quella mia generazione, è avvenuto dopo la seconda metà degli anni Sessanta in Inghilterra, per motivi abbastanza chiari. Perché era la generazione che era cresciuta ascoltando pop alla radio o comprando i dischi, e questa era la generazione dei nuovi ricchi, dopo la Seconda guerra mondiale. La maggior parte di noi non aveva alcuna formazione musicale, però volevamo fare parte di una band. In realtà avevamo iniziato a suonare semplicemente ritrovandoci insieme a casa di qualcuno, suonando degli strumenti, in genere cercando di seguire e di copiare un disco. Tra l’altro suonavamo anche degli strumenti “proibiti”, che non erano veramente considerati strumenti musicali perché erano elettrici. Una forma di musica fino ad allora ignorata, in un certo senso. Non c’erano accademie, non c’erano regole, non c’era nessuno che ci potesse dire come andavano fatte le cose. Per esempio in Inghilterra c’è stato il fenomeno dello “skiffle”, che è veramente un fenomeno che partiva dalla base. Si poteva suonare lo “skiffle” senza nessuno strumento particolarmente costoso. Poi sono arrivate le chitarra e i bassi elettrici. Ad esempio, prima di diventare famosi, gli Shadows erano un gruppo skiffle. Come ha detto Franco (ndr. Fabbri) nella sua relazione, dal punto di vista musicale quello che è successo è che qui c’è stato davvero un processoeducativo, formativo con l’uso della chitarra. Perché c’era la linea di basso, la chitarra che suonava sulla base di quella linea, poi entravano gli altri strumenti, e infine la batteria che teneva il ritmo. La chitarra rappresentava uno strumento completamente nuovo proprio perché era elettrica, si potevano produrre suoni diversi da quelli ascoltati fino a quel momento semplicemente avvicindandosi all’amplificatore o suonando a distanze diverse dal ponticello. C’era poi anche la naura fisica del suono ad essere importante. In effetti in Inghilterra è possibile seguire in senso temporale il passaggio dallo skiffle ai gruppi dove la chitarra era lo strumento principale, per poi arrivare al rhythm’n’blues che veniva dall’America, dove i musicisti che avevano imparato le basi venivano in contatto con il blues, che era molto più rude e grezzo. Per rispondere anche alla domanda precedente: effettivamente tutte le volte che si sentiva un suono nuovo immediatamente si voleva sapere come quel suono era stato prodotto, tutte le volte che si vedeva un musicista nuovo fare qualcosa di particolamenrte ben fatto si diceva: “Vai a sentirlo, via a vederlo”, perché si voleva capire in che modo suonasse quella persona. Ad un certo punto i musicisti hanno cominciato a diventare più competenti e hanno iniziato a copiare quello che si faceva nel rhythm’n’blues. Siccome non c’era nessuno che ci dicesse come fare le cose, siccome noi eravamo molto ambiziosi e siccome non appartenevamo a nessuna comunità musicale particolare se non quella che si riuniva intorno al giradischi, eravamo voraci, ascoltavamo qualsiasi cosa si riuscisse a recuperare. Raggiunto un certo livello tecnico ascoltare del jazz, di musica classica o qualche registrazione etnica, diventava interessante perché potevamo dire: “Questo è interessante, potremmo provare a utilizzarlo perché siamo in grado di farlo da un punto di vista tecnico”, allora questi generi sono entrati nel vocabolario della pop music. C’è stata una sorta di progressione, siamo passati dal copiare gruppi che ci piacevano ad aggiungere nuovi suoni perché tecnicamente eravamo migliorati e riuscivamo a creare qualcosa di nuovo sulla base di quello che ascoltavamo. Questo è diventato un valore positivo perché si poteva innovare, introdurre qualcosa di nuovo. Sotto quest’aspetto eravamo serissimi riguardo alla sperimentazione e all’innovazione, perché in quel modo eri vicino all’ambiente circostante, riuscivi ad essere al passo con i tempi sola facendo qualcosa di nuovo e mai sentito prima. Se guardiamo a Frank Zappa negli Stati Uniti, vediamo che lui ha raccolto tutti gli stili musicali, senza fare alcuna distinzione tra di loro. In Inghilterra, perlomeno nella comunità in cui mi trovavo io, questo era molto importante perché questo ci dava licenza di fare la stessa cosa anche da noi. La cosa interessante è che proprio in quel momento gruppi completamente diversi come Pink Floyd, Soft Machine, Arthur Brown, Incredibile String Band, FairPort Convention, pur facendo musica molto diversa, facevano tutti qualcosa di nuovo. Secondo me il punto di cambiamento è stato quando sono arrivati i musicisti che facevano riferimento alla fine del XIX secolo, sono entrati con forza, volevano dimostrare qualcosa, ma da quello che era contemporaneo hanno spostato l’attenzione su quello che era regressivo e ancorato al passato. Questi sono i gruppi che hanno dato origine al termine progressivo, perché progressive rock è stata un’etichetta usata per la prima Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976 Cremona, 20-22 ottobre 2006 Workshop: Le procedure compositive nei gruppi progressive rock volta per quei gruppi e non di quelli contemporanei. E’ un termine complesso, credo che abbia bisogno di un po’ di consenso prima di poterne discutere, di poter chiarire di che cosa si tratta. Luca Marconi: Sarei molto interessato a sentire la vostra esperienza rispetto alle due date di questo convegno, 1966 e 1976. Anche per voi c’è un periodo che si apre nasce nel 1966 e si chiude nel 1976, segnando un importante punto di passaggio? Hugh Hopper: Per me sono degli spartiacque, perché il 1966 segna l’album Revolver dei Beatles e la diffusione della musica psichedelica. Devo dire che ho sentito una descrizione calzante da parte di Cinzia Lennon, l’ex-moglie di John, che presentando un suo libro alla radio ha detto ua frase che mi è piaciuta molto: “Fino agli anni Sessanta era tutto in bianco e nero, poi siamo arrivati negli anni Settanta e il mondo è apparso a colori.” Il 1976b ha visto l’attenzione della stampa musicale concentrarsi sul movimento punk. Io all’inizio avevo pensato che fosse una costruzione artificiosa della stampa, però poi mi sono reso conto che era un fenomeno reale. Questo naturalmente non ci ha impedito di continuare a fare musica come volevamo, però si è avvertito un cambiamento piuttosto netto nello spirito e nella musica in Gran Bretagna, forse per questo c’è stato poi anche l’avvento del tatcherismo. Chris Cutler: Sono d’accordo in generale con quello che ha detto Hugh, ed effettivamente nel 1966 c’era questa sensazione generalizzata di ottimismo. Si aveva l’impressione che le generazioni dei giovani riuscissero a creare la propria musica, organizzare i propri concerti, allontanandosi dal dominio delle case discografiche. Purtroppo quando giunse il 1976 iniziò anche un periodo di pessimismo e cinismo che ancora non siamo riusciti a scansare. E dopo la breve parentesi del punk il controllo è tornato totalmente nelle mani delle case discografiche. E tutte quelle sperimentazioni piene di speranza erano state relegate sullo sfondo, mentre negli anni Sessanta riuscivano a campeggiare in primo piano. Toni Pagliuca: Nel 1976 mi trovavo a Londra con le Orme. Stavamo incidendo Verità Nascoste e avvertivamo la crisi profonda della musica inglese e americana. Io avevo avvertito che il periodo d’oro era esautoro. Infatti negli anni Ottanta e Novanta sono sorti pochi gruppi, ne cito due, i Nirvana soprattutto, di breve vita, i Police e gli U2, se vogliamo metterli dentro, ma sono diversi per la loro collocazione. Avevo avvertito che la musica doveva purificarsi, non essere più schiava dello strumento elettronico, perché l’elettronica aveva preso il sopravvento sulla concretezza, sul contenuto della musica. Io nel ’78 ho proposto ai miei colleghi di vendere tutti gli strumenti elettronici. Difatti io regalai l’organo a un sacerdote della mia chiesa, che poi me l’ha anche portato indietro perché mi ha detto che non gli piaceva. Ho venduto tutto, anche il Mini Moog e ho comprato un pianoforte a coda, un clavicembalo e un harmonium. Gli altri due colleghi hanno appeso al chiodo la chitarra elettrica e il basso, mettendosi a studiare violino e violoncello. Il batterista ha cominciato a studiare vibrafono, marimba e tutte le percussioni. Era un sogno bellissimo che ci aveva portato a intraprendere una strada che ci dava grandi soddisfazioni a livello artistico, anche se non ci permetteva di sostenerci economicamente. Uno spettatore: volevo accennare agli Yes e ai King Krimson come gruppi fondamentali per l’innovazione nella musica progressiva, visto che non sono ancora stati menzionati. Volevo chiedere cos’è che ha portato al decadimento musicale e culturale in tutte le forme d’arte di questi ultimi decenni. Hugh Hopper: La possiamo considerare una progressione naturale che consegue dall’abbandono degli strumenti acustici e dall’aggiunta progressiva della tecnologia. Chiaramente la rivoluzione del momento è rappresentata dall’informatica e da Internet, che ha estremizzato la tendenza dilagante a non andare ai concerti e a non comprare i CD, a non produrre più la propria musica. Sta diventando più che altro una questione di esperienza personale, magari si potrà avere il proprio mp3 e lo si potrà far ascoltare all’amico, ma è un’esperienza ben diversa da quella che si aveva andando tutti insieme ai concerti o facendo la propria musica. Composizione e sperimentazione nel rock britannico, 1966-1976 Cremona, 20-22 ottobre 2006