Le dimissioni di Benedetto XVI tra storia e futuro1 di Luigi Sandri2 Come Celestino V, come Gregorio XII, anche Benedetto XVI ha dunque deciso di dimettersi. Diversissime, ovviamente, le situazioni e le motivazioni dei tre pontefici per rinunciare al trono papale, ma assai simili per un motivo sostanziale: il trovarsi a guidare la Chiesa cattolica romana in periodi particolarmente burrascosi. Dopo ben due anni di contrapposizioni accanite per trovare un successore a Niccolò IV, morto nel 1292, una dozzina di cardinali – questo, allora, il loro modesto numero – riuniti a Perugia il 5 luglio 1294 si accordano, finalmente, per eleggere come papa un monaco abruzzese, Pietro, che vive su un costone del monte Morrone, vicino a Sulmona: all’apprendere la notizia il vegliardo (ha circa ottant’anni: non si sa l’età esatta) rimane incredulo e spaventato; ma infine accetta. Viene consacrato vescovo all’Aquila e il 29 agosto diventa ufficialmente Celestino V. Non andrà mai a Roma, ma, invitato da Carlo II d’Angiò, re di Napoli, si stabilisce in quella città. Tra gli intrighi di corte e le tensioni che incombono sui vertici ecclesiastici, si rende conto di non riuscire a “vivere l’avventura di un povero cristiano” (come scriverà nel Novecento Ignazio Silone): e, dunque, il 13 dicembre successivo, di fronte al Sacro collegio cardinalizio riunito, annunzia: “Io Celestino V, spinto da legittime ragioni, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta”. Il suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, Bonifacio VIII, temendo che la gente – molti infatti ritenevano che Celestino non si fosse dimesso spontaneamente – continui a considerare vero papa il predecessore, lo fa mettere in carcere in un’angusta cella del castello di Fumone (Frosinone), dove morirà due anni dopo, forse assassinato (ma la notizia non è certa). I contrasti, politici ed ecclesiali, che dominano il regno di Bonifacio, e in particolare lo scontro tra lui, che sostiene che “ogni umana creatura deve sottostare al romano pontefice”, e Filippo IV di Francia (il 1 Il testo di questo articolo è tratto, tranne il titolo, da "Trentino" (quotidiano di Trento), 12 febbraio 2013. Luigi Sandri, nato a Tuenno (TN) nel 1939, è uno dei più esperti e autorevoli vaticanisti italiani. È stato corrispondente dell’Ansa a Mosca e Tel Aviv, attualmente collabora con varie testate giornalistiche ed è vaticanista del Ecumenical News International. Tra i suoi scritti più significativi, in particolare per il futuro del papato e della Chiesa cattolica citiamo un suo splendido volume, per certi versi, profetico: Cronache dal futuro. Zeffirino II e il dramma della sua chiesa, Gabrielli Editori, 2008. 2 1 “Bello”) che rifiuta questa tesi, innesca una situazione che infine porterà i papi a stabilirsi ad Avignone, in Francia. Settant’anni durerà questa “cattività”, fino a che nel 1377 il papa del tempo, Gregorio XI, non torna a Roma. Egli muore l’anno dopo: i contrasti tra i cardinali portano a due elezioni contrapposte, Urbano VI e Clemente VII, ciascuno dei quali ritiene l’altro “antipapa”. Alla loro morte, le due “obbedienze” eleggono i rispettivi papi. L’Europa si spacca: alcuni paesi riconoscono il papato romano, altro l’avignonese. Inizia così il Grande Scisma d’Occidente. Per sanare la tremenda situazione, i cardinali delle due parti convocano un Concilio a Pisa, dove nel 1409 eleggono un papa – Alessandro V – nella speranza che gli altri due si dimettano. Questo non avviene, e così si hanno tre papi in contemporanea. Morto Alessandro, nel 1410 viene eletto Giovanni XXIII il quale, spinto dall’imperatore Sigismondo, convoca a Costanza (al confine tra Svizzera e Germania) un Concilio che intima ai tre papi di dimettersi. Il romano, Gregorio XII, accetta, ma pretende di convocare il Concilio… che è già convocato. Deposti Giovanni XXIII (pisano) e Benedetto XIII (avignonese), nel 1417 il Concilio elegge papa il cardinale Oddone Colonna, Martino V. Si chiude così lo scisma che ha lacerato la Cristianità occidentale. Nei sei secoli successivi, nessun altro papa, per quanto difficili fossero i tempi, e per quanto precarie le sue condizioni di salute, si è mai dimesso. La questione fece capolino dopo che, seguendo una raccomandazione del Concilio Vaticano II (1965), Paolo VI invitò fortemente vescovi e parroci a presentare le loro dimissioni a 75 anni; e dopo che papa Montini aveva stabilito che compiuti gli ottant’anni un cardinale perde il diritto di entrare in conclave. Queste norme non toccavano il pontefice e, tuttavia, da più parti ci si chiese: perché mai dovrebbe dimettersi, a 75 anni, il vescovo di una diocesi (poniamo New York, Milano o Trento), e non anche, a quell’età, il vescovo di Roma? E, ancora: se a 80 anni un cardinale è ormai troppo anziano per decidere lucidamente chi eleggere papa, come è possibile che qualcuno rimanga sul trono di Pietro avendo superato, e di molto, quell’età? A queste obiezioni Giovanni Paolo II rispondeva: “Cristo non si è dimesso dalla croce, e dunque il papa non si può dimettere”. Una scelta che lasciava irrisolto un grave problema: come poteva un papa anziano e malato controllare in modo adeguato la Curia romana, e troncare inevitabili manovre di palazzo? Questo sfondo storico – qui riassunto per flash – va tenuto presente per valutare il gesto clamoroso con cui ieri Benedetto XVI, nato il 16 aprile 1927, ha reso nota la sua rinuncia al papato (precisando bene “quando” si attuerà). Le motivazioni con cui egli ha informato i cardinali convocati da lui, formalmente, per un concistoro per l’annuncio di prossime canonizzazioni, assomigliano molto, ci pare, a quelle con cui otto secoli fa si dimise Celestino V. Pur nell’incolmabile diversità dei tempi, il problema era, ed è: come porre la Chiesa romana, a livello istituzionale, nella condizione migliore per rispondere ai problemi incombenti, e per annunciare credibilmente l’Evangelo? Il pontefice regnante ha risposto, per parte sua: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di 2 amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di vescovo di Roma, successore di san Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di san Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il conclave per l’elezione del nuovo sommo pontefice”. Non è questo il momento per fare un bilancio del pontificato che si interrompe in modo così anomalo (ma, sia permesso il ricordarlo, su queste pagine l’ipotesi delle dimissioni era già stata messa in conto); nei prossimi giorni molti, e diversificati, saranno i commenti in merito. Il nodo di fondo è “come” Benedetto XVI abbia attuato il Concilio Vaticano II. A noi sembra – se è lecito sintetizzare un discorso complesso – che il papa tedesco abbia dato una interpretazione restrittiva di quella grande Assemblea e di quello straordinario evento; per certi aspetti egli sembra essere stato come bloccato dal persistente pensiero di arrivare ad una riconciliazione con i lefebvriani (i seguaci del vescovo tradizionalista Marcel Lefebvre, “nemico” del Vaticano II). È compito naturalmente di un papa cercare di sanare gli scismi; e, tuttavia, quando per riportare a Roma i lefebvriani (che però non sono tornati!) si manomette la riforma liturgica voluta dal Concilio, si apre una strada che rischia di portare ad un precipizio. E, ancora, la chiusura, sempre ferreamente ribadita da Ratzinger, ad un dibattito vero su molte questioni aperte nella Cattolicità (le conseguenze dell’affermato, in teoria, rispetto per la laicità dello Stato; la piena uguaglianza di uomini e donne nei ministeri; lo status del presbìtero; l’attuazione della collegialità episcopale e dell’affermazione conciliare della Chiesa come “popolo di Dio che cammina nella storia”; l’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia; il pluralismo teologico; la povertà nella Chiesa…) ha lastricato di macigni la strada di una attuazione dinamica del Vaticano II. Riguardo poi al futuro personale di “padre Ratzinger” colpisce il fatto che egli abbia deciso di risiedere – dopo un provvisorio trasloco nella villa pontificia di Castelgandolfo – in un antico monastero di clausura all’interno della Città del Vaticano, e non in qualche abazia della natia Baviera. Una presenza che inevitabilmente peserà sul successore che potrebbe trovarsi in imbarazzo a fare scelte notevolmente differenti, su specifici problemi, da quelle prese in merito da Benedetto XVI. D’altronde, le dimissioni di Ratzinger – una decisione coraggiosa, gravida di conseguenze, per la quale il suo regno sarà ricordato nei secoli futuri – sono una “novità” che vede tutti novizi, all’interno della Chiesa romana come nel mondo laico, perché nessuno dei viventi ha mai dovuto affrontare direttamente, o commentare, questa situazione: un papa e un ex papa in contemporanea! Questa “novità” peserà in modo particolare sul Collegio cardinalizio che, in marzo, dovrà eleggere il Successore. Potrebbe mai, il prossimo conclave, scegliere un prelato critico rispetto al pontificato appena concluso? E, d’altronde, la scelta di una candidatura in piena continuità con Benedetto XVI, potrebbe rispondere alle sfide che attendono la Chiesa romana? Il dilemma è aspro, e ineludibile: un Benedetto XVII o un Giovanni XXIV? 3