ALLEGORIA ED EMBLEMI NELLA POESIA DI GIORGIO CAPRONI Il

ALLEGORIA ED EMBLEMI NELLA POESIA DI GIORGIO CAPRONI
Il centenario della nascita di Giorgio Caproni si è chiuso col 2012 e quindi potrebbe
sembrare tardivo e fuori luogo un omaggio al poeta, ma poiché la sua storia “subacquea”,
come la definisce Mengaldo, è più che mai attuale, proprio perché fu inattuale nel suo
tempo, non sembrerà eccessiva un’ulteriore azione di riscatto nei confronti della sua
poesia, così straordinariamente moderna e così incredibilmente libera da influenze di
scuola. Rileggerla oggi è come leggerla per la prima volta, perché grazie a
quell’apparente marginalità che l’opera caproniana ha avuto nella storia poetica italiana,
si scopre intera la dimensione di assoluta novità del linguaggio e si apprezza fino in
fondo l’ariosità formale della rima, pervasa da vocalizzi, enjambement a cumulo,
paronomasie a cascate, allitterazioni a gruppi, in un continuo crescendo di aperture alari.
Un poeta che è stato definito “decostruttore” si rivela invece finissimo costruttore sia
nell’uso delle figure, che affollano numerose i suoi versi, sia nell’adozione di schemi
metrici convenzionali e tradizionali, quali il sonetto e la stanza, che egli adotta in modo
del tutto anticonvenzionale e antitradizionale. Lo dimostrano i Sonetti che fanno da
intermezzo tra Cronistoria e Il passaggio d’Enea, colmi di pathos e di sinestesie,
organizzati come dei monoblocchi intorno al filo della memoria, che regge e guida
l’ispirazione, dall’incipit fino alla fine, come un lungo sospiro doloroso destinato ad un
“tu” sempre presente nella mente del poeta. Non meno insolite sono le stanze, di
polizianesca ascendenza, che ritornano spesso come involucri preferiti nella lirica di
Caproni, con quella particolarità del sintagma che si ripete nel verso finale di ognuna di
esse. S-i leggano Le stanze della funicolare in cui ritorna l’espressione chiedere l’alt in
ogni ultimo verso e si legga il testo Le biciclette ove il verso ripetuto è quel tempo
ormai diviso. Non è di queste originalità metriche, però, che intendiamo parlare, non è su
questi giochi di rima che vogliamo soffermarci, perché sono anche troppo noti allo scaltro
lettore che pratichi con frequenza la lettura di testi poetici; ciò che ci colpisce e che
vorremmo riportare all’attenzione è il ricorso costante nella poesia di Caproni ad alcune
“figure oggettive” ( preferiamo definirle così, invece che “oggetti”) che sembrano far
parte integrante del mondo poetico dell’autore e caratterizzarne la dinamicità,
l’oscillazione perenne tra il movimento e l’immobilità, il finito e non finito. Tra queste
figure spicca “la bicicletta” che quando appare nei versi, sbucando da un angolo, di una
via livornese o genovese, non è mai soltanto un semplice mezzo di trasporto, né tanto
meno il mezzo di moda dell’epoca a cui apparteneva il poeta, ma è qualcosa di più esteso
di un simbolo, o di una metafora, è forse un’allegoria dell’esistenza, della corsa che
l’uomo fa all’interno e all’esterno del suo io per trovare se stesso, è il segno tangibile
dell’ansia e della fretta del poeta di arrivare in un luogo dell’anima per riappropriarsi dei
suoi ricordi, per ritrovare le persone care, per forzare, con la sua pedalata veloce,
l’inclemenza del tempo che passa e che cancella il passato. Non a caso al termine
“bicicletta” è spesso associato il termine “fretta”. Non mancano altri mezzi di trasporto
nelle poesie di Caproni, quali la funicolare, il treno, l’automobile, ognuno con un
significato, o meglio con una funzione precisa: la funicolare segna il tortuoso percorso,
attraverso tunnel e meandri oscuri fino alle alture del Righi, a Genova e si pone quasi a
specchio della labirintica coscienza umana, nonché a riprova della trasmutazione tra
realtà e mito ( si legga Interludio, ove l’interno di una latteria è l’Erebo e la ragazza che
lava i bicchieri è Proserpina), necessaria al poeta per trasformare i luoghi e la sua
toponomastica urbana, in “non luoghi” e in una forma irreale, che si confonde con
l’onirico e va a confluire nel mito. La stessa cosa potremmo dire del treno e
dell’automobile, il primo indispensabile ad un Caproni eterno viaggiatore “cerimonioso”
e la seconda, elemento costitutivo concreto della società contemporanea, elemento che
sfreccia accanto al passaggio di Enea, un Enea caracollante tra un passato che crolla
(Anchise sulle spalle) e un futuro incerto e dubbioso (Ascanio portato per mano). La
bicicletta è il mezzo preferito, caro e presente nell’immaginario del poeta, perché gli
ricorda la madre Annina, che attraversava Livorno con una bicicletta azzurra, stretta nella
sua camicetta bianca e con la gonna al vento; la bicicletta è il mezzo più leggero e più
rapido per chi si vuole muovere tra gli ingorghi impossibili del traffico cittadino, così
simili ai grovigli della psiche umana; infine la bicicletta è il mezzo della gioventù, è il
lieve trasporto di piume che il cuore un tempo disse giovinezza, è l’arpa del mattino per il
suono delicato che emette, infine è il sale che corresse la mente, espressioni tutte
contenute nella lirica Le biciclette (in Passaggio d’Enea) in cui la bicicletta non è una
semplice immagine, non è un oggetto-ricordo, è piuttosto il segno di una stagione
trascorsa, di “una storia di giorni” che non torneranno, perché ormai il poeta è “diviso” da
quel tempo, non a caso la sofferenza per questa divisione sarà rinnovata in ogni finale di
stanza, per tutto il componimento. Esaminando questa complessa figura oggettiva della
bicicletta si nota che essa ha un suono, definito “delicato”, ha un movimento, “melodico”,
impresso dal pedale, è saldamente inserita nel contesto della giovinezza, di cui fu “lieve
trasporto”, è proiettata in una fuga dalla storia, verso un’altra storia, migliore, distante
dal recente disastro della guerra, le cui macerie il poeta porta dentro di sé (la poesia è del
1944). Che altro è questa bicicletta se non l’anima stessa di Caproni, protesa in una corsa
verso il passato, nel tentativo di ritrovarlo e in una spinta verso il futuro ignoto che lo
attende? Si legga la terza stanza:
E ahi rinnovate biciclette all’alba!
Ahi fughe con le ali! Ahi la nutrita
spinta di giovinezza nella calda
promessa, che sull’erba illimpidita
da un sole ancora tenero ricopre
nuovamente la terra!...Fu così,
dolce amico remoto, unico cuore
vicino al mio disastro, che colpì
questa città lo sterminato errore
di cui tenti una storia? Io non so come,
o Libero, in quest’alba veda il sole
frantumarsi per sempre – io non so come
nel brivido che mi percorre il viso
inondato di lacrime, già fu
fulminato il mio giorno, né ora più
v’è soccorso a quel tempo ormai diviso.
A Libero Bigiaretti, a cui la poesia è dedicata, il poeta confida il suo sgomento di fronte
allo “sterminato errore” della storia, che contrasta con la generosa spinta della
giovinezza, che portò lui e molti altri a combattere e a credere, quella spinta così ben
rappresentata dalle biciclette con le ali, in fuga all’alba. L’alba: altro elemento
preferenziale del giorno caproniano, incipit di slanci senza fine, di promesse calde della
giovinezza. E c’è in questa lirica un personaggio femminile, una Alcina, di memoria
ariostesca, un po’ maga malvagia, un po’ amante infelice, china pericolosa dove i freni
della bicicletta si rompono ( fu anche Alcina / la scoperta improvvisa d’una spinta /
perpetua nell’errore – fu la china / dove il freno si rompe), una Alcina che viene distrutta
come tutti gli amori giovanili che la guerra distrusse, la guerra che ha disegnato, al tempo
del poeta, una nuova geografia del mondo ( se l’alba / tarda a portare col gelo la prima /
corsa di biciclette, ecco la scialba / geografia del mondo che sgomenta / mentre Alcina è
distrutta – mentre monta / nel petto la paura, e il cuore avventa / le sue fughe impossibili).
La bicicletta nell’evolversi della lirica diviene gradualmente da segno lieto della
giovinezza, segno tetro dell’orrore della guerra, mezzo di trasporto in un mondo senza
più pietà ( dal giornale / umido ancora di guazza esce il grido / ch’è scoppiata la guerra –
che scompare / dal mondo, la pietà, ultimo asilo / agli affanni dei deboli).
Le biciclette in tempo di guerra divengono “bicicli funesti”, che ronzano durante la notte,
mentre l’uomo si rintana perché il nemico non lo desti di soprassalto . La fretta non è più
quella della giovinezza di spiccare il volo verso l’avvenire promesso, ma è la fretta di
fuggire dalla devastazione e dalla morte, mentre la storia sta travolgendo tutto e chi
preme il tallone sul pedale non ha più cuore. Se in questo testo la bicicletta mette in
evidenza tutta la sua portata di figura oggettiva, altamente allegorica, c’è un’altra
bicicletta formidabile come allegoria ed è quella della madre Annina, quell’Annina che
dischiusa la camicetta / volava in bicicletta, sulla strada di Lucca, correndo con i suoi
freschi pensieri.
Nella breve lirica intitolata Scandalo ( in Il seme del piangere) si legge:
Per una bicicletta azzurra,
Livorno come sussurra!
Come s’unisce al brusio
dei raggi il mormorio!
Annina sbucata all’angolo
ha alimentato lo scandalo.
Ma quando mai s’era vista
in giro una ciclista?
Niente di più festoso e musicale ci potrebbe essere rispetto a questo schizzo della madre
in bicicletta, un rapido scherzo giocato sul colore e sul suono, l’azzurro, il brusio, il
sussurrare di Livorno, in una successione di velocissime note che si materializzano in
quel participio “sbucata”, offrendo un’apertura immediata dell’immagine unitamente alla
sorpresa di vedere apparire una ciclista, una donna che quindi suscita scandalo.
L’anticonvenzionalità di Caproni sta anche nel saper ridere della convenzionalità dei suoi
concittadini.
L’allegoria e l’emblema della bicicletta fa l’apparizione in molte liriche, ma raggiunge il
suo massimo potenziale in Ultima preghiera ( in Il seme del piangere):
Anima mia fa in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
( ti prego sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare
La bicicletta non è più solo della madre ma è divenuta il mezzo dell’anima, il motore, la
spinta dell’anima, l’unico elemento che consente al poeta di dispiegare la sua fretta e
correre verso il ricordo. E’ stupefacente come in questi versi l’elemento concreto si fondi
e si trasfiguri nell’elemento astratto; l’immagine reale del ricordo si muta in slancio
espressivo, traducendo pienamente la tensione del desiderio e l’ansia di ritrovare la madre
perduta. Qui vengono eliminati tutti i confini tra il reale e l’irreale, tra il sogno e il vero,
perché la poesia compie in un punto il prodigio dell’evocazione dal nulla della morte. La
tenerezza verso la madre si muta in tenerezza verso la propria anima, rinnovando i fasti
della tradizione lirica classica, il poeta parla alla propria anima, oggettivandola, come in
un’altra persona e dandole una serie di suggerimenti ( si pensi al Petrarca che parla a se
stesso o si rivolge alla canzone): “non ti fermare, non parlare, non smettere di pedalare”.
Nella miscellanea di sensazioni visive e olfattive, che attraversa tutta la lirica, spicca la
“figuretta” di Annina; il poeta l’aspetta e intanto spia i portoni, respirando l’odore del
pesce, mentre l’ora è quella preferita da lui e dalla madre, l’alba, quando la città si
risveglia. La successione dei verbi ritma la dinamicità dell’azione: “arriverai, vedrai,
guarda, esce, aspetta, odora, volta”, alternati in un ciclo perfetto.
La rima baciata e poi alternata velocizza il ritmo, pur in modo anomalo, calcando
l’accento sui verbi, tutti rigorosamente terminanti in “are”, in una serie di
raccomandazioni che il poeta dà alla sua anima, perché non confonda Annina con qualche
altra ragazza.
Le ragazze sono sempre presenti nella poesia di Caproni, specialmente nella sua
produzione giovanile; le descrive forti e spavalde, ne sente l’odore, la fragranza, le
guarda come testimonianza di vita. E in questo contesto la loro vitalità si contrappone alla
vita perduta di Annina, perciò l’anima non può e non vuole distrarsi, dal che il monito
successivo:
Mia anima, non aspettare
no, il loro apparire.
faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Tutte le scelte lessicali di questo passo ( aspettare, apparire, fallire, sfuggita) vanno nel
senso di un’Euridice che appare e scompare, tra la vita e la morte, pallido fantasma
inseguito in un’alba, in cui il poeta tenta di realizzare il suo piano di recupero, di
restituzione alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
( giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisternone.
E’ un Orfeo moderno, l’anima, a cui il poeta raccomanda alcune regole per sottrarre alla
morte il suo adorato fantasma (ti dovrà apparire/ prima di giorno), prima che faccia
giorno pieno, nell’alba che vela le cose e che potrebbe anche confondere la vista. Perciò
il poeta e l’anima spiano da quale portone lei uscirà e soccorre la toponomastica
livornese, con tanto di nomi precisi di strade, nel consueto connubio tra realtà e sogno.
Si mette a fuoco la figura di Annina, con dati identificativi sicuri, lo scialletto, la gonna
verde, il gesto di stringere per sicurezza il borsellino e si delinea così la personalità di
Annina, sicura, determinata, ma anche semplice e umile nel suo atteggiarsi. Questa volta
non è lei in bicicletta, ma l’anima del poeta che la vede attraversare e la riconosce, senza
sbagliarsi.
La sequenza è naturale, realtà e allegoria si fondono, nella figura dell’uomo che butta la
sigaretta e si accosta a lei, come un innamorato in attesa, mentre il pianto si fa di piombo
in fondo al cuore e la sofferenza della perdita ripudia il conforto del ricordo. Si sta
preparando il “rovesciamento parentale” che si realizzerà negli ultimi versi.
Dille che ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi va pure in congedo.
L’intensa commozione che suscitano queste due strofe si misura non solo dal tenero
equivoco del figlio divenuto fidanzato, in un rovesciamento di ruoli, tipico nell’universo
affettivo di Caproni, ma dai gesti scrupolosamente studiati, per essere delicati e amorosi:
il messaggio mormorato, anzi sospirato, all’orecchio, il braccio che circonda la vita, il
parlare piano, per pudore, per evitare di vederla arrossire, fino alla rivelazione del
mittente, il fidanzato figlio. Siamo in presenza della logica binaria del poeta, ricorrente in
tutte le sue opere: la madre è anche fidanzata, il padre è anche figlio ( in una lirica
dedicata al padre), l’inseguitore è inseguito ( Il franco cacciatore), l’assassinato è
l’assassino, l’essere è il niente, Dio è quando non è.
La corsa è terminata, la bicicletta ha compiuto il suo tragitto, l’anima è giunta a
destinazione e non resta che congedarla, come nella canzone petrarchesca il poeta
congedava la poesia inviandola all’amata. “Congedo” è parola cara al vocabolario
caproniano, secondo la migliore tradizione dei canzonieri italiani.
Ma c’è altro in questo repertorio linguistico di Caproni, che va oltre il segno e il senso
delle parole usate, oltre l’allegoria di figure quali la bicicletta ed è la capacità di far
diventare il banale, originale, l’ovvio, inconsueto, il patetico poco onorevole, rima
onorata e dignitosa. Ce lo conferma l’Iscrizione che fa da chiusa a Il seme del piangere,
in cui Caproni dichiara Per lei torni in onore /la rima in cuore e amore, una rima in stile
sabiano, potremmo dire, avvalorata dall’autenticità del sentimento.
Noi crediamo che la bicicletta di Caproni continui ancora a correre, in cerca del
traguardo, ma col desiderio di non arrivare mai a tagliarlo in modo definitivo, tanta fu
l’aspirazione del nostro viaggiatore cerimonioso, di donarsi interamente alla poesia e
affidarsi interamente ad essa, sua religione, sua unica fede, sua valigia inseparabile, sua
ineguagliabile bicicletta, su cui imprimere la propria melodica pedalata immortale.
ANNA MARIA VANALESTI