Update 40

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MOPP
Medical Oncology Progress & Perspectives
a cura di GISCAD
Pubblicazione di informazione
scientifica oncologica
Update 40
Dicembre 2011
EDIZIONI TECNOGRAF S.r.l.
Via Piave, 14 - 20010 Canegrate (MI)
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In copertina Vassily Kandinsky - “L’accord réciproque” 1942
MOPP
Pubblicazione di informazione scientifica oncologica
Update 40
Medical Oncology Progress & Perspectives
a cura del GISCAD
Medical Oncology Progress & Perspectives
Update 40
DIAPO-LETTERINA DI NATALE:
Riflessioni sulla ricerca clinica indipendente
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Ascite Neoplastica
Fausto Meriggi, Alberto Zaniboni
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L’evoluzione degli strumenti informatici
a supporto degli studi clinici
Davide Poli, Elena Copreni
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Metodologia della sperimentazione clinica:
guida alla terminologia
Francesco Perrone, Pasqualina Giordano
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Colon 2011: un anno a due velocità
“the best full paper of this year”
Giordano D. Beretta, Sergio Stinco, Chiara Maria La Spina,
Maria Grazia Sauta, Cristina Ripa, Michela Squadroni
SPAZIO GISCAD
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DIAPO-LETTERINA DI NATALE:
Riflessioni sulla ricerca clinica indipendente
Carissima AIFA, caro Signor Ministro della Salute,
lo scorso anno abbiamo fatto alcune considerazioni sulla ricerca
clinica indipendente. Per questo ci siamo posti alcune domande,
partendo da un presupposto di base:
Volevamo (e vogliamo tutt’oggi) essere (r)assicurati e protetti da
bravi e onesti medici dalle insidie che troviamo sul nostro cammino:
5
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
Ma alcuni dubbi sono rimasti:
Per questo motivo abbiamo fatto le nostre proposte e trovato
alcune soluzioni:
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DIAPO-LETTERINA DI NATALE:
Ci siamo resi conto che in quest’ultimo anno è accaduto troppo poco
anche se qualcuno di noi sta lavorando alacremente e prendendo
posizioni:
E le istituzioni politiche nazionali ed europee che hanno fatto? Poco!
E le Associazioni scientifiche Oncologiche in Italia ed in Europa?
Altrettanto!
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
Per cui, in definitiva, ma sempre speranzosi, diciamo a noi e a voi
In definitiva
…
Cara AIFA, Caro Ministro della Salute:
vista la nostra irriducibile passione per la ricerca
clinica, potresti perfezionare il decreto del
17/12/2004?
Grazie!
Firmato: gli oncologi medici (ma non solo)
Anche perché, insieme ai nostri pazienti, vogliamo continuare a
lavorare e ….. sognare !
Liberamente tratto ed ispirato dall’intervento di
Roberto Labianca “La ricerca clinica indipendente”
SESSIONE SPECIALE AIOM - ESMO - FAVO - FONDAZIONE AIOM
APPROPRIATEZZA PRESCRITTIVA TRA EUROPA E ITALIA
XIII Congresso Nazionale di Oncologia Medica AIOM
Bologna - 6 Novembre 2011
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ASCITE NEOPLASTICA
Ascite Neoplastica
Fausto Meriggi e Alberto Zaniboni
Oncologia Medica, Fondazione Poliambulanza - Brescia
INTRODUZIONE
I tumori maligni rappresentano la seconda causa di ascite (circa il 10% di tutti i casi) dopo la cirrosi
epatica scompensata. Secondo il National Cancer Institute, si definisce ascite maligna (AM) quella
condizione clinica in cui un fluido libero contenente cellule tumorali si raccoglie in cavità addominale.
Questa può essere la risultante di un’invasione peritoneale diretta da parte del tumore oppure essere
legata a fattori causali meccanici indiretti come l’ipertensione portale o la compressione della vena
cava inferiore (1). I tumori che originano dagli organi contenuti nella cavità peritoneale (ovaio,
pancreas, colon-retto, stomaco, fegato e mesotelioma) rappresentano approssimativamente circa
250.000 nuovi casi all’anno negli USA (2). Il coinvolgimento peritoneale è assai comune e può essere
attribuibile sia ad una diffusione loco-regionale del tumore, sia ad una metastatizzazione da parte di
tumori a sede primitiva extraperitoneale (polmone, mammella, origine sconosciuta). Le neoplasie che
si associano più frequentemente ad ascite sono il tumore dell’ovaio (37%), quelli pancreatici e delle
vie biliari (21%), dello stomaco (18%), esofagei (4%), colo-rettali (4%) e della mammella (3%).
L’istotipo più frequente responsabile di una colonizzazione peritoneale e della successiva formazione
di ascite maligna è l’adenocarcinoma. Circa il 50% dei pazienti con AM presenta questo segno come
esordio della loro malattia (1). In generale, la presenza di AM con metastasi peritoneali si rende
clinicamente evidente negli stadi avanzati, impatta negativamente sulla qualità di vita con un rapido
deterioramento della stessa e assume un significato prognostico assai sfavorevole. Da un punto di vista
terapeutico, esistono approcci differenti al trattamento dell’AM. Da un lato, tutta quella serie di
farmaci cosiddetti “sintomatici” come diuretici, corticosteroidi, analgesici e dall’altro, le modalità di
drenaggio del liquido dalla cavità peritoneale come la paracentesi, i cateteri fissi tipo Tenkoff e gli
shunts peritoneo-venosi (3). Rappresentano un’eccezione le neoplasie ovariche che, nonostante un
coinvolgimento peritoneale e la presenza di ascite possono ancora giovarsi di un atteggiamento
chirurgico aggressivo di “debulking” tumorale combinato ad una chemioterapia intraperitoneale
(IP)/sistemica. Tuttavia, per le altre neoplasie non-ginecologiche, la sopravvivenza mediana del
paziente con AM è generalmente inferiore ai 6 mesi (4). Una delle cause principali di fallimento delle
terapie è l’inadeguata distribuzione dei farmaci all’interno della cavità peritoneale (5). Dopo la
somministrazione sistemica, la diffusione del farmaco nel tumore abitualmente implica tre meccanismi
fondamentali di trasporto (all’interno dei vasi, come quelli del circolo generale, attraverso la parete
dei vasi per raggiungere i tessuti circostanti ed infine attraverso l’interstizio all’interno della neoplasia).
Tutti questi processi rappresentano il risultato delle proprietà fisico-chimiche del farmaco e delle
caratteristiche biologiche del tumore. La fuoriuscita dai vasi ed il trasporto nell’interstizio sono ridotte
in caso di pressione interstiziale alta, di ipovascolarizzazione, di densità cellulare tumorale alta e/o di
ampia componente stromale. Questi ostacoli sono ancora più accentuati in caso di tumori voluminosi
o “bulky” (6,7).
La terapia IP rappresenta la logica e valida alternativa quando ci si pone l’obiettivo di raggiungere una
maggior concentrazione di farmaco all’interno delle cellule tumorali situate nella cavità peritoneale.
Diversi studi clinici hanno evidenziato come vi sia un chiaro vantaggio in sopravvivenza associando
una terapia IP ad una chemioterapia sistemica (8-11). La terapia IP prevede l’utilizzo dei medesimi
farmaci somministrati per via endovenosa e nelle medesime formulazioni, tuttavia del tutto
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
recentemente possiamo disporre di un ulteriore opzione farmacologica specifica rappresentata dal
Catumaxomab, un nuovo anticorpo monoclonale trifunzionale bispecifico anti-EpCAM (Epithelial
Cell Adhesion Molecule) e CD3 (linfociti T4) (12-18).
TRATTAMENTO MEDICO DELL’ASCITE MALIGNA
Il trattamento dell’AM dovrebbe essere multidisciplinare e coinvolgere oltre all’oncologo, anche
l’epatologo, il chirurgo, il radiologo interventista ed il palliatore. Uno degli obiettivi principali,
insieme al rapido sollievo dei sintomi conseguenti alla tensione addominale determinata dall’ascite,
è, quando attuabile, il trattamento del tumore primitivo. La paracentesi rimane l’approccio più
utilizzato che fornisce al paziente un miglioramento quasi immediato dei sintomi. Tuttavia, non è
praticamente mai curativa e spesso si assiste al rapido riformarsi del liquido intraperitoneale. Tra i
vari “sintomatici” si ricorre quasi sempre ai diuretici, in genere risparmiatori di potassio
(spironolattone) e/o diuretici dell’ansa (furosemide o bumetanide), in particolare se il quadro di AM
si associa ad ipertensione portale secondaria alle metastasi epatiche (19).
I drenaggi permanenti esterni tipo Tenkoff o Tesio possono rappresentare una valida alternativa
quando si prevedono indispensabili ripetute e frequenti paracentesi, il performance status (PS) è basso
e l’aspettativa di vita è assai limitata. Il vantaggio consiste nella facilità di posizionamento del device
e nella gestione della paracentesi che può essere eseguita anche a domicilio e da personale non
sanitario, a caduta aprendo semplicemente un rubinetto. Gli svantaggi stanno essenzialmente nel
rischio di infezioni secondarie alla manipolazione, nella possibilità di ostruzione e dislocazione del
drenaggio (20). Un’alternativa al drenaggio esterno, in particolare in pazienti con un buon PS ed
un’aspettativa di vita >1 mese è lo shunt peritoneo-venoso (v. giugulare) a decorso sottocutaneo
mediante valvola di Denver (21,22). Un’ampia revisione di casistica condotta su 32 pubblicazioni
per un totale di 520 shunts peritoneo-venosi ha mostrato come oltre il 70% di questi ultimi sia in
grado di ottenere una palliazione efficace dell’AM. La complicazione più frequente è risultata essere
il blocco dello shunt (19). Le controindicazioni che ne limitano l’impiego consistono nella presenza
di ascite emorragica, di un alto contenuto proteico nel liquido ascitico (>4,5 gr/l), nella presenza di
infezioni peritoneali in atto, di ipertensione portale, di insufficienza cardiaca o renale. Pare non
risultare clinicamente rilevante il rischio di disseminazione nel circolo venoso di cellule tumorali
attraverso lo shunt, in particolare in considerazione della assai limitata aspettativa di questi pazienti
(23,24).
Le terapie IP intraoperatoria e postoperatoria vengono utilizzate con l’obiettivo di trattare la malattia
minima e/o microscopica residua (TR) dopo l’intervento chirurgico ed ottenere un impatto positivo
sia sul rischio di recidiva che sulla sopravvivenza. Uno dei trattamenti intraoperatori maggiormente
utilizzati è quello che prevede una chemioterapia IP con ipertermia (HIPEC), dove una soluzione di
farmaci (ad esempio, cisplatino, mitomicina-c, doxorubicina, etoposide) viene portata ad una
temperatura di 41-43°C ed instillata nella cavità peritoneale dove rimane per un periodo variabile dai
30’ alle 2 ore e poi drenata (25-28). L’ipertermia avrebbe il preciso scopo di incrementare
l’assorbimento dei farmaci da parte delle cellule tumorali (29,30). Data la scarsa tollerabilità di tale
trattamento, questo viene eseguito rigorosamente a paziente ancora sotto l’effetto dell’anestesia
generale (31). Un altro approccio piuttosto seguito è quello di somministrare una terapia IP
immediatamente nel post-intervento (EPIC). In questo caso, l’instillazione di farmaci (ad esempio,
mitomicina-c, 5-fluorouracile, cisplatino) nella cavità peritoneale viene ripetuta per diversi giorni
consecutivi ed i farmaci vengono mantenuti in cavità per un tempo variabile dalle 4 alle 24 ore e poi
drenati (32-34). Il vantaggio di HIPEC ed EPIC sarebbe quello di garantire una miglior distribuzione
del farmaco in cavità peritoneale prima della formazione precoce delle sinechie aderenziali postchirurgiche (35). Attualmente, HIPEC ed EPIC trovano indicazione nel trattamento della carcinosi
peritoneale da carcinoma gastrico, colo-rettale e dell’appendice in associazione ad una chirurgia
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ASCITE NEOPLASTICA
citoriduttiva (36-38). Non esistono studi di confronto, ma un’analisi retrospettiva suggerisce
comunque che la HIPEC sarebbe, tra le due metodiche, quella maggiormente efficace (39). Una delle
chemioterapie IP postoperatorie più utilizzate è quella a base di paclitaxel che viene somministrata per
alcune settimane nel carcinoma ovarico sottoposto a chirurgia citoriduttiva (40-42). L’aggiunta della
terapia IP ad una chemioterapia sistemica standard impatta in maniera statisticamente significativa
sia sulla PFS che sulla OS delle pazienti con carcinoma ovarico in stadio III e con TR<1 cm. (8-10,
40,42). Le tossicità sono principalmente correlate alla tipologia della somministrazione, alle
caratteristiche e all’assorbimento sistemico del farmaco o dei farmaci instillati in cavità peritoneale.
Tra le tossicità più tipiche ricordiamo la peritonite chimica e l’ileo paralitico (42-52). Una delle
maggiori limitazioni all’utilizzo della terapia IP è la sua mancanza di efficacia nei tumori voluminosi
o “bulky”. Nel carcinoma ovarico, il TR postoperatorio rappresenta l’indicatore prognostico più
significativo per l’efficacia della terapia IP. La prognosi è nettamente migliore e la sopravvivenza
maggiore per le pazienti con TR <0,5 cm rispetto a quelle con TR>2 cm. (53-58) Da qui, ne deriva
la raccomandazione di somministrare una chemioterapia IP solo alle pazienti con TR<1 cm (10).
Il Catumaxomab è un nuovo anticorpo monoclonale trifunzionale bispecifico in grado di legare
simultaneamente il recettore EpCAM (Epithelial Cell Adhesion Molecule), il recettore CD3 (linfociti
T4) ed i recettori Fcγ tipo I (CD64) e tipo III (CD16) espressi sulle cellule immunitarie accessorie.
La conseguenza del legame simultaneo delle cellule T e delle cellule accessorie è la loro reciproca
stimolazione mediata dalle citochine che, a loro volta, vanno ulteriormente a stimolare la
proliferazione e l’attivazione dei linfociti T contro le cellule tumorali (12-18). Questo agente
rappresenta il primo trattamento causale contro l’AM e ad oggi rimane il solo approvato dalla FDA
e dall’EMEA sulla base dei risultati di uno studio di fase II/III in cui la somministrazione di questo
anticorpo monoclonale in una sequenza di 4 infusioni IP ha fornito degli evidenti vantaggi rispetto
all’approccio tradizionale dell’esclusiva paracentesi. Inoltre, il farmaco ha mostrato un’ottima
tollerabilità ed un profilo di tossicità maneggevole. 258 pazienti con AM sintomatica e recidivante,
resistente alla chemioterapia convenzionale sono stati randomizzati a paracentesi + catumaxomab o
esclusiva paracentesi e poi stratificati per tipologia di tumore (129 ovarico e 129 non ovarico).
Catumaxomab è stato somministrato nei giorni 0, 3, 7 e 10 alle dosi di 10, 20, 50 e 150 g,
rispettivamente. La sopravvivenza mediana libera da paracentesi è stata di 46 giorni nel braccio
sperimentale rispetto agli 11 giorni del braccio di controllo (p<0.0001). Inoltre, il tempo mediano
intercorso tra una paracentesi e l’altra è stato di 77 giorni per il braccio con Catumaxomab contro i
13 giorni per il braccio di controllo (p<0.0001). La OS è stata sovrapponibile nei due bracci, ma ha
mostrato un trend positivo nel braccio con Catumaxomab, raggiungendo la significatività statistica
nel gruppo dei 66 pazienti con carcinoma gastrico (71 versus 44 giorni; p=0.0313). Gli eventi avversi
più frequenti sono stati quelli correlati al rilascio di citochine (piressia in quasi i 2/3 dei pazienti,
grado >3 nel 5,7%) ed il dolore addominale nel 42,7% dei pazienti (grado >3 in circa il 10%) (12).
E’ in dubbio che il Catumaxomab somministrato con intento curativo meriti ulteriori studi, come
quello presentato all’ASCO 2010 in pazienti con carcinoma ovarico in stadio IIb-IV in remissione
completa dopo chemioterapia standard (17).
Infine, una qualche attività nel trattamento dell’AM è stata dimostrata da piccoli studi con gli
interferoni alfa e beta, il TNF-alfa, gli inibitori delle metalloproteinasi, gli analoghi della
somatostatina, i radioisotopi e gli anticorpi anti-VEGF (22,59-72). Nuove frontiere interessanti
sembrano essere rappresentate dalla terapia vaccinica e da quella fotodinamica (73-76)
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
CONCLUSIONI
Nonostante l’alta incidenza, anche in relazione all’incremento progressivo delle mediane di
sopravvivenza che si ottengono oggi dalla “cronicizzazione” della malattia neoplastica, non esistono
ancora in letteratura linee guida “evidence-based” universalmente accettate per la valutazione ed il
trattamento dell’AM. La peculiarità anatomica della cavità peritoneale e la natura dei tumori
intraperitoneali (spesso voluminosi ed ampiamente disseminati), insieme alla difficoltà di raggiungere
concentrazioni terapeutiche di farmaco all’interno del tumore utilizzando la via endovenosa, devono
stimolare la ricerca verso strategie alternative. Molti rimangono i problemi ancora aperti come quello
di individuare dei parametri che permettano di misurare la risposta al trattamento con precisione e le
metodiche più attendibili per farlo, la carenza di dati di farmacocinetica, la durata ed il miglior setting
(curativo e/o palliativo) del trattamento IP, la necessità di studi multicentrici numericamente più
significativi.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
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16
L’EVOLUZIONE DEGLI STRUMENTI INFORMATICI A SUPPORTO DEGLI STUDI CLINICI
L’evoluzione degli strumenti informatici a supporto degli studi clinici
Davide Poli, Elena Copreni
Laboratorio di Clinical Trials, Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”- Milano
Nell’ambito della Ricerca Clinica la comunità scientifica e l’industria farmaceutica si sono orientate
verso tecnologie sempre più innovative per quanto riguarda la raccolta dei dati e il data management
con l’obiettivo di migliorare la qualità del dato e di incrementare l’efficienza e la velocità di
conduzione degli studi clinici.
Fino a qualche tempo fa le schede raccolta dati (CRF – Case Report Form) degli studi clinici erano
per la maggior parte in forma cartacea; le CRF cartacee (pCRF) compilate dai ricercatori di ogni
singolo centro sperimentale venivano inviate ad un centro di coordinamento in cui avveniva la
trascrizione dei dati dal cartaceo in un database elettronico (processo denominato data-entry
“centralizzato”). La Figura 1 descrive in dettaglio il flusso delle informazioni impiegato per la gestione
dei dati in un trial clinico in un sistema denominato CDMS (Clinical Data Management System)
basato su CRF cartacee.
17
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
In questo tipo di approccio le schede raccolta dati cartacee vengono compilate manualmente dallo
sperimentatore principale (o da un membro del suo staff) e inviate via posta al centro di
coordinamento, di solito lo sponsor della sperimentazione o un suo delegato. I dati vengono trasferiti
così nel database dello studio attraverso un processo di data entry che avviene, a seconda della scelta
e della situazione, ad opera di un singolo operatore (singolo data entry) oppure ad opera di due
operatori indipendenti (doppio data entry) con confronto finale dei dati inseriti per evidenziare
eventuali errori di inserimento. I dati così inseriti nel sistema sono poi esportati al fine di garantirne
l’integrità. Attraverso procedure automatiche, implementate con l’utilizzo di programmi generati con
linguaggi di programmazione specifici, è possibile effettuare richieste di invio di schede mancanti e
richieste di riconciliazione di dati inconsistenti e/o incongruenti generando DCF (Data Clarification
Form) o DQF (Data Query Form) specifiche per ognuno di essi. A tali richieste i singoli centri
rispondono inviando a mezzo posta le risoluzioni alle incongruenze o alle inconsistenze rilevate. E’
compito del centro di coordinamento riconciliare tali incongruenze nel database dello studio. Tutto
il processo viene esaminato e valutato dal centro di coordinamento dal momento che il singolo centro
sperimentale non ha accesso diretto al database dei dati poiché tutta la procedura è gestita in modo
centralizzato.
L’idea dell’EDC (Electronic Data Capture) cominciò a svilupparsi negli anni ‘70 sino a divenire una
vera e propria realtà con applicazioni rivolte alla ricerca clinica negli anni ‘90. Al giorno d’oggi, anche
grazie al notevole sviluppo delle reti ed in particolare di Internet, l’EDC è ormai un modo di procedere
apprezzato e alla portata di tutti, anche se l’utilizzo del sistema CDMS basato su pCRF continua ad
essere tuttora in uso.
Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, con la diffusione e lo sviluppo dei personal computer,
si è reso disponibile un sistema remoto di inserimento dati (RDE – Remote Data Entry) nel quale il
data entry viene effettuato presso il centro sperimentale direttamente dal clinico e dai suoi
collaboratori. I dati sono mantenuti in locale sino al trasferimento periodico degli stessi ad un server
centrale presso il quale i dati di tutti i centri sono raccolti in un unico database (usualmente di
proprietà dello sponsor della sperimentazione). Il processo di trasferimento dati avviene in maniera
sistematica.
Dalla fine degli anni ‘90, sono cominciati ad apparire esempi di raccolta dati clinici basati sul web [1].
Gli sperimentatori del centro partecipante allo studio inseriscono direttamente i dati via web in un
database creato ad hoc ed ospitato presso una struttura identificata preventivamente (generalmente
presso lo sponsor dello studio o istituzione da esso delegata). La Figura 2 descrive in dettaglio il flusso
delle informazioni impiegato per la gestione dei dati di uno studio clinico in un sistema CDMS basato
su CRF elettroniche. Questo tipo di sistema prevede, comunque, ancora un ruolo rilevante del centro
di coordinamento dello studio in quanto rimangono di sua competenza sia la gestione della tempistica
delle richieste inserimento dati da parte del singolo centro sperimentale sia la gestione delle richieste
di risoluzione delle inconsistenze e/o incongruenze.
L’intento delle CRF elettroniche è stato quello di passare dal tradizionale approccio cartaceo a quello
elettronico attraverso l’implementazione delle schede raccolta dati elettroniche (eCRF) allo scopo di
migliorare l’efficienza e la fruibilità della raccolta dati e del data management. L’inserimento dei dati
e la risoluzione di eventuali queries in tempi ridotti garantisce una tempistica più veloce ed una
maggiore efficienza nel processo di validazione del dato
18
Fondazione
“SPAZIO” GISCAD
30 Novembre 2011
11
30 OTTOBR
TOSCA
Three Or Six Colon Adjuvant
Centri partecipanti 130
Totale randomizzazioni 2919
COMETS
CO lorectal MEtastatic T wo S equences
Centri partecipanti 24
Totale randomizzazioni 61
ONCOL 1
A randomized phase II study of taxotere, oxaliplatin, capecitabine (TOX)
or epidoxorubicin, oxaliplatin and capecitabine (EOX)
in patients with locally advanced unresectable or metastatic gastric cancer
Centri partecipanti 15
Totale randomizzazioni 15
ITACA-S 2
(Intergruppo Nazionale Adiuvante Gastrico–2)
Confronto tra l’efficacia di un trattamento chemioterapico peri-operatorio e un trattamento
chemioterapico post-operatorio in pazienti con carcinoma gastrico operabile e valutazione del
beneficio di una chemioterapia combinata con radioterapia post-operatoria
Centri GISCAD partecipanti 14
Randomizzazioni 2
LEGA Trial
LowtoxEoxGastricAdvanced
Randomized Phase III Study of low-Taxotere, Oxaliplatin, Capecitabine (low-TOX)
vs Epirubicin, Oxaliplatin and Capecitabine (EOX)
in Patients with Locally Advanced Unresectable or Metastatic Gastric Cancer
In collaborazione con Milano International Oncology (MIO) Nerviano Medical Sciences
Centri partecipanti 36
Chi fosse interessato a partecipare può contattare
Silvia Rota: 0331 490052/[email protected]
SPARCkLING Trial
A Phase II randomized trial comparing a combination of Abraxane and Gemcitabine versus a
combination of Gemcitabine and Capecitabine as first line treatment in advanced pancreatic cancer
In fase di attivazione
Chi fosse interessato a partecipare può contattare
Silvia Rota: 0331 490052/[email protected]
GISCAD-STAGE
Scuola sui Tumori dell’Apparato Gastro-Enterico
STAGEinWEB
Web-cast con Alberto Sobrero
HIGHLIGHTS dall’ASCO Gastrointestinal Cancers Symposium 2012
8 febbraio 2012 h. 13.45-15.30
11° CORSO
Tumore della stomaco e del colon-retto
Chemioterapia orale
Data da definire
Sesto S. Giovanni (MI)
Practice changes in GI cancer after attending ASCO 2012
Date da definire
12° CORSO
Original Ideas for Original Research in GI Tumors
Data da definire
13° CORSO
Tumore del pancreas (esocrino/NET)
Data da definire
Rubrica trasferimenti
Chi va e chi viene
Filippo De Braud
Gianmaria Fiorentini
Marina Garassino
Enzo Veltri
DA
A
MI-IEO
EMPOLI
MI-FBF
GAETA
MI-INT
PESARO
MI-INT
LATINA E GAETA
2011
MOPP e GISCAD
ringraziano:
Chiara Abeni, Enrico Aitini,
Sara Amodeo,
Sandro Barni, Rossana Berardi,
Giordano Domenico Beretta, Karen Borgonovo, Carlo Carnaghi, Stefano Cascinu,
Dario Castiello, Elena Copreni, Lorena Cozzi, Luciano Frontini, Fabio Galli, Marina
Chiara Garassino, Pasqualina Giordano, Francesco Grossi, Roberto Labianca, Chiara
Maria La Spina, Giancarlo Martignoni, Maurizio Meregalli, Fausto Meriggi, Alessia
Nasisi, Gianfranco Pancera, Francesco Perrone, Fausto Petrelli, Marco Pirovano,
Sheila Piva, Davide Poli, Cristina Ripa, Serena Romano, Silvia Rota, Eliana Rulli,
Maria Grazia Sauta, Alberto Sobrero, Michela Squadroni, Sergio Stinco, Donata
Tabiadon, Alberto Zaniboni.
Si potrebbe incominciare così.
Dopo il Prof. Gino Luporini, dopo il Dott. Roberto Labianca, il GISCAD torna ad essere
rappresentato ai massimi livelli dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica con il
Dott. Stefano Cascinu.
E così via, cantando le gesta del prode, che gli hanno valso questa nomina.
No, troppo facile.
A noi piacerebbe leggere questa nomina in altro modo.
Il GISCAD (ma, a voler essere “storici”, ancor prima la FONCAD) rappresenta la
realizzazione di una sorta di filosofia della ricerca che trova la sua sintesi nell’esigenza di
attuare questa ricerca
avendo come centro, come punto di riferimento sempre il paziente.
Come ottenere ciò?
In primo luogo, è necessario porsi domande che richiedano risposte concrete, applicabili
nella pratica quotidiana, con una ricaduta evidente, o se preferite INEVITABILE nella
gestione del malato oncologico, in un equilibrio continuo tra Oncologia Medica ed
Oncologia Sperimentale.
Ma risposte concrete per chi? Certamente per il paziente, fruitore di tutto ciò che
costituisce motivo di miglioramento nelle conoscenze della sua malattia, ma anche per
il medico oncologo di prima linea, che non può permettersi il lusso di chiedersi o di
chiedere cosa è IL MEGLIO, ma deve ricevere con chiarezza e puntualità le informazioni
sul MEGLIO IN QUEL DATO MOMENTO.
La conseguenza ovvia è la necessità di DIVULGARE le conoscenze acquisite in modo
preciso ed immediatamente trasferibile nella pratica quotidiana.
Stefano, come chi l’ha preceduto, è certamente un rappresentante della nostra filosofia
e per questo siamo ben lieti di poter festeggiare la sua nomina anche come frutto di un
lavoro di squadra.
Sì, proprio lavoro di squadra: questa è l’ultima, ma non ultima, caratteristica della filosofia
GISCAD, un gruppo in cui c’è sempre stato un primo ma, per dirla come i nostri padri
latini, PRIMUS INTER PARES.
Niente felicitazioni, caro Stefano, niente auguri; concedici di sentirci, grazie a te, tutti un
po’ presidenti.
L’EVOLUZIONE DEGLI STRUMENTI INFORMATICI A SUPPORTO DEGLI STUDI CLINICI
Tra le peculiarità più rilevanti dell’Electronic Data Capture è possibile annoverare [2, 3]:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Eliminazione del doppio data entry (se previsto)
Riduzione degli errori nel processo di data entry
Riduzione del numero di queries generate
Possibilità di disponibilità immediata del dato
Monitoraggio centrale sulla qualità dei dati e sull’andamento dello studio clinico (eMonitoring)
Risparmio di tempo e impegno/risorse nel data management
Reportistica degli eventi più veloce
Riduzione nello spazio destinato agli archivi cartacei
Riduzione nella tempistica globale di conduzione dello studio
Riduzione dei costi dello studio
Ogni sistema EDC deve essere implementato e regolamentato in accordo a determinate procedure.
Citiamo, ad esempio, quelle riportate dall’FDA (Food and Drug Administration) nel Title 21 Code
of Federal Regulations (21 CFR Part 11) [4].
Questa normativa prevede che l’accesso al sistema venga effettuato tramite login con credenziali
(username e password) personali e confidenziali, che sia definita la differenziazione automatica dei
ruoli (ciascun operatore può accedere solo alle informazioni di sua competenza) e che sia documentata
la tracciabilità di ogni singola operazione effettuata su ogni singolo dato (audit trail), ovvero la
19
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
possibilità di stabilire in forma leggibile chi ha fatto cosa, in quale istante, da quale macchina e
possibilmente per quale motivo.
Inoltre viene richiesto un sistema standardizzato di reportistica, ovvero la possibilità di generare copie
accurate e complete di record leggibili ed in forma elettronica compatibili per un controllo/ispezione,
rivisitazione, e copia da parte di ispettori.
La tipologia di quale sistema EDC scegliere deve essere valutata con attenzione nella fase di
pianificazione dello studio, tenendo conto delle proprie esigenze e delle competenze disponibili. La
scelta potrà orientarsi tra i sistemi presenti sul mercato (come, ad esempio, Oracle Clinical™,
MACRO™, SAS/PheedIt™) oppure su quelli di tipo open-source; tra questi annoveriamo esempi
come OpenClinica ed EpiInfo. Questi ultimi sono appunto detti open-source in quanto i loro
sviluppatori ne permettono, anzi ne favoriscono, il libero studio e l’apporto di modifiche da parte di
altri programmatori indipendenti.
La scelta deve essere guidata da un esame approfondito dei costi e delle esigenze specifiche della
sperimentazione in quanto, ad esempio, i sistemi open-source possono essere più adattabili alle
peculiari richieste di uno studio ma richiedono il supporto di figure professionali con competenze
specifiche [5].
Durante la fase di pianificazione di uno studio clinico è quindi necessario fare una analisi dei costi
legati allo sviluppo e alla implementazione del sistema di gestione dei dati. Se da una parte l’Electronic
Data Capture permette un risparmio di tempo/risorse che si traduce in una riduzione dei costi totali
rispetto all’impiego delle CRF cartacee, dall’altra esige un budget per il mantenimento del sistema al
fine di consentire l’archiviazione e la consultazione dei dati elettronici anche dopo il termine del trial
per i tempi previsti dalla legge.
Sebbene ad una prima impressione potrebbe sembrare che l’EDC comporti costi superiori rispetto
all’uso delle CRF cartacee dovuti allo sviluppo, implementazione e gestione del sistema e al training
del personale dedicato, alcune pubblicazioni suggeriscono che l’EDC determinerebbe comunque un
risparmio di costi nella conduzione globale degli studi clinici, specialmente nel caso di trial
multicentrici di medie-grandi dimensioni [6].
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1.
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20
METODOLOGIA DELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA: GUIDA ALLA TERMINOLOGIA
Metodologia della sperimentazione clinica: guida alla terminologia
Francesco Perrone e Pasqualina Giordano
Unità Sperimentazioni Cliniche, Istituto Nazionale Tumori - Napoli
Ruben K. Ispani, un fellow della Renal-Electrolyte and Hypertension Division, dell’Università della
Pennsylvania, ha pubblicato per Medpage (http://www.medpagetoday.com/Medpage-Guide-toBiostatistics.pdf) una breve guida alla terminologia utile per i clinici che sempre più spesso hanno
bisogno di comprendere nel dettaglio gli elementi della metodologia degli studi clinici ed
epidemiologici.
Su invito dei responsabili editoriali di MOPP, abbiamo volentieri accettato di tradurre il testo di Ispani
in italiano, con piccolissime modifiche volte a ricondurre alcuni esempi al contesto oncologico. Si
tratta, come i lettori potranno apprezzare, di un piccolo vademecum terminologico che riteniamo
possa costituire un utile supporto per la lettura e la scrittura di articoli per riviste scientifiche. In molti
casi, per favorire la lettura e la comprensione degli articoli scientifici originali, abbiamo preservato la
dizione inglese dei termini proposti.
Disegno di Studi Clinici
Come mostrato nella figura 1 vi sono almeno due elementi importanti ai fini della classificazione di
una ricerca clinica. Il primo sta nel definire se è il ricercatore a determinare l’esposizione del paziente
alla variabile di studio (fattore di rischio, trattamento, ecc..). Gli studi nei quali è il ricercatore a
determinare l’esposizione si definiscono sperimentali; al contrario, quelli nei quali l’esposizione è
indipendente dalla volontà del ricercatore vengono definiti studi osservazionali. Il secondo elemento
riguarda l’esistenza o meno di un gruppo di controllo, sia negli studi sperimentali (ove l’assegnazione
del paziente dovrebbe essere eventualmente definita attraverso una procedura di randomizzazione), che
negli studi osservazionali (nei quali esistono diverse strategie di identificazione dei controlli).
21
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
Definizioni
Clinical trial (studio clinico): studio sperimentale in cui l’assegnazione del paziente alla variabile di
studio (per esempio un trattamento, un dispositivo medico, un placebo, un test diagnostico) è
determinata dal ricercatore.
Randomised controlled trial (studio controllato randomizzato): è un particolare tipo di studio clinico
nel quale l’assegnazione ai bracci di studio è decisa mediante una procedura di assegnazione casuale
(randomizzazione).
Cohort study (studio di coorte): è uno studio epidemiologico osservazionale in cui i soggetti con
una esposizione di interesse (ad esempio affetti da una malattia) e i soggetti senza quella esposizione
(non affetti da quella malattia) sono identificati e seguiti nel tempo per misurare la relazione tra
l’esposizione e l’outcome (un esito clinicamente rilevante).
Case–control study (studio caso-controllo): studio osservazionale che, identificando un gruppo di
soggetti affetti da una specifica patologia ed un gruppo di controllo senza malattia, valuta in maniera
retrospettiva se c’è stata oppure no l’esposizione a fattori di rischio. Questo tipo di studio si adatta
particolarmente alle malattie rare.
Cross-sectional study (studio trasversale): studio osservazionale che valuta la presenza o l’assenza di
malattia o se c’è stata oppure no l’esposizione ad un fattore di rischio in un particolare momento.
Poiché l’esposizione e l’esito vengono accertati nello stesso momento, spesso risulta difficile stabilire
se l’esposizione ha preceduto l’esito.
Case report o Case series (Caso clinico o serie di casi clinici): descrizione di un singolo paziente o
di un gruppo di pazienti affetti da una determinata malattia. Può servire a generare ma non a testare
ipotesi di studio perché non consente una adeguata comparazione fra gruppi.
Concetti di Epidemiologia
Bias: qualsiasi errore sistematico nel disegno o nella conduzione di uno studio che provochi una errata
stima dell’effetto prodotto dall’esposizione sul rischio di malattia.
Selection bias (Bias di selezione): errore sistematico causato dalle modalità di selezione dei
partecipanti ad uno studio. Per esempio, in uno studio caso-controllo, l’uso di criteri diversi per
selezionare i casi (i.e. malati, ospedalizzati) ed i controlli (giovani, sani) piuttosto che la presenza di
malattia, può indurre il ricercatore a trarre false conclusioni circa l’esposizione.
Confounding (Confondimento): si verifica quando un ricercatore conclude falsamente che una
particolare esposizione è casualmente correlata alla malattia senza aver operato un aggiustamento per
altri fattori, noti per essere dei fattori di rischio per la malattia e che sono associati all’esposizione.
22
METODOLOGIA DELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA: GUIDA ALLA TERMINOLOGIA
Statistica Descrittiva
Misure di Tendenza Centrale
Mean (media): somma di tutte le osservazioni divisa per il numero di osservazioni.
Median (mediana): è uguale all’osservazione centrale di una distribuzione in cui tutte le osservazioni
sono ordinate dal valore più piccolo a quello più grande; quando le osservazioni sono in numero pari
la mediana corrisponde alla media dei due valori centrali.
Mode (moda): corrisponde al valore che compare più frequentemente fra tutte le osservazioni.
Misure di variabilità
La variabilità descrive la modalità con cui i dati sono dispersi attorno ad un valore specifico (ad
esempio la media). Le misure più comuni di variabilità sono:
Range: è la differenza fra l’osservazione più grande e quella più piccola.
Standard deviation (deviazione standard): misura la variabilità dei dati attorno alla media in un
singolo campione. Una deviazione standard include il 68% dei valori in una popolazione campione,
mentre due deviazioni standard includono il 95% dei valori.
Standard error of the mean (errore standard della media): descrive la quota di variabilità nella
misura della media tra diversi campioni. E’ diversa dalla deviazione standard che misura la variabilità
delle osservazioni individuali in un singolo campione.
Percentile: è la percentuale di distribuzione che cade al di sotto di uno specifico valore. Ad esempio,
un bambino si trova nell’80° percentile di altezza se solo il 20% dei bambini è più alto di lui.
Interquartile range (range interquartile): si riferisce al limite superiore ed inferiore che definiscono
il 50% delle osservazioni. Il limite superiore corrisponde al 75° percentile e quello inferiore al 25°
percentile.
Misure di Frequenza
Incidence (incidenza): il numero di nuovi eventi (i.e. morte per una particolare malattia), verificatisi
durante uno specifico periodo di tempo, in una popolazione a rischio per lo sviluppo di eventi.
Incidence rate (tasso d’incidenza): corrisponde al rapporto fra il numero di nuovi eventi e la somma degli
individui che erano a rischio di avere l’evento per l’unità di tempo considerata (eventi/persone-anno).
Prevalence (prevalenza): il rapporto fra il numero di persone che, nell’ambito di una popolazione,
sono affette da una specifica malattia ed il numero di persone che formano la popolazione in un dato
momento.
23
MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
Misure di Associazione
Il tipo di misura utilizzata per descrivere l’associazione fra esposizione ed esito dipende dal tipo di dati.
Per variabili categoriche, vengono di solito usati il rischio relativo e l’odds ratio per descrivere la
relazione fra esposizione ed esito.
Relative risk (rischio relativo) e studi di coorte: il rischio relativo è definito come il rapporto fra
l’incidenza della malattia nel gruppo degli esposti e l’incidenza di malattia nel gruppo dei non esposti.
Il rischio relativo può essere calcolato attraverso studi di coorte, che ad esempio valutino l’incidenza
di cancro del polmone in una popolazione di fumatori e l’incidenza di cancro del polmone osservata
in una popolazione di non fumatori. In questo caso, l’incidenza di cancri del polmone tra i fumatori
e tra i non fumatori consente di calcolare il rischio relativo e determinare se il fumo di sigaretta
rappresenta un fattore di rischio per il cancro del polmone.
Odds ratio e studi caso-controllo: l’odds ratio è definito come il rapporto fra la probabilità di
esposizione nel gruppo con malattia e la probabilità di esposizione nel gruppo di controllo. Come
descritto sopra, in uno studio caso-controllo i soggetti sono selezionati sulla base dello stato di malattia,
quindi non è possibile calcolare il tasso di sviluppo della malattia data la presenza o assenza di
esposizione. Per cui, l’odds ratio è spesso utilizzato come stima approssimativa del rischio relativo
negli studi caso-controllo. Per esempio, uno studio caso-controllo ha valutato la relazione fra l’uso di
dolcificanti artificiali e l’incidenza di cancro della vescica. Le probabilità di uso di dolcificanti
artificiali tra i casi e tra i controlli sono state utilizzate per calcolare un odds ratio e valutare se l’uso
dei dolcificanti fosse associato allo sviluppo di un tumore vescicale. Nel caso in cui la malattia oggetto
dell’osservazione sia rara, l’odds ratio fornisce una stima attendibile, non soggetta a bias, del rischio
relativo. Tuttavia l’odds ratio di uno studio caso-controllo sviluppato nell’ambito di una coorte ben
definita può approssimare il rischio relativo anche quando si tratti di una malattia non rara.
Absolute risk (rischio assoluto): il rischio relativo e l’odds ratio forniscono una misura di rischio
comparativo. Tuttavia, in qualche caso è auspicabile conoscere il rischio assoluto. Per esempio, un
incremento del 40% nel rischio di una patologia causato dall’esposizione ad un particolare fattore di
rischio non rende l’idea di quanto sia la probabilità che un individuo esposto sviluppi la malattia.
L’attributable risk (rischio attribuibile) o risk difference (differenza di rischio) è una misura di
rischio assoluto. Esso rappresenta la quota di rischio supplementare negli esposti, tenendo conto della
quota di malattia che fa da sfondo (in assenza di esposizione). Il rischio attribuibile è quindi la
differenza fra il tasso d’incidenza nel gruppo degli esposti e quello nel gruppo dei non esposti.
Un indicatore strettamente correlato è il population attributable risk (rischio attribuibile di
popolazione) usato per descrivere il tasso di eccesso di rischio di malattia attribuibile all’esposizione
in una popolazione complessiva, che include esposti e non esposti. Questo indicatore si calcola
moltiplicando il rischio attribuibile per la proporzione di individui esposti nella popolazione oggetto
di studio.
Number needed to treat – NNT (numero necessario da trattare): il numero di pazienti che è
necessario trattare per evitare un evento (ad esempio la morte o la recidiva di malattia) viene spesso
utilizzato per presentare i risultati di studi randomizzati. L’NNT è il reciproco della riduzione assoluta
del rischio. Questo indicatore può essere usato nello studio di varie tipologie di intervento, sia
terapeutiche che preventive. La stima dell’NNT è soggetta ad una considerevole imprecisione e
generalmente è opportuno presentarla con un intervallo di confidenza del 95% così da renderne
possibile una appropriata interpretazione.
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METODOLOGIA DELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA: GUIDA ALLA TERMINOLOGIA
Misure di qualità
Reliability (attendibilità): il concetto di attendibilità o riproducibilità dipende dalla quota di errore
in qualsiasi misurazione (i.e. misurazione della pressione arteriosa o dei livelli di un marcatore sierico).
Una definizione più formale dell’affidabilità è la variabilità tra soggetti divisa per la variabilità
intersoggetto sommata alla misura dell’errore. Così, l’attendibilità è maggiore quando l’errore di misura
è minimo. Ci sono diversi tipi di reliability che includono la riproducibilità inter- ed intra-osservatore
e la riproducibilità di test ripetuti. La percentuale di concordanza e la statistica kappa sono spesso
usate per riportare la riproducibilità. La statistica kappa prende in considerazione la concordanza
dovuta al caso, mentre invece la percentuale di concordanza non lo fa. Generalmente, un kappa
maggiore di 0.75 indica un’eccellente concordanza al di là di fenomeni casuali, un valore di kappa al
di sotto di 0.40 è indice di scarsa concordanza ed un kappa compresa fra 0.40 e 0.75 indica invece una
concordanza intermedia.
Validity (validità): si riferisce a quanto un test misuri realmente ciò che pensiamo stia misurando. Ci
sono diversi tipi di validità che possono essere misurati che includono validità di contenuto (fino a
che punto la misura riflette le dimensioni di un particolare problema), validità di costrutto (fino a che
punto una misura è conforme ad un fenomeno stabilito esternamente), validità di criterio (fino a che
punto la misura correla con il migliore standard o riesce a predire un fenomeno osservabile).
Misure di accuratezza dei test diagnostici
Sensitivity (sensibilità): è definita come la capacità di un test di identificare correttamente i soggetti
malati. E’ il numero di soggetti con un test positivo che hanno la malattia diviso tutti i soggetti che
hanno la malattia. Un test con alta sensibilità ha pochi risultati falsamente negativi.
Specificity (specificità): è definita come la capacità di un test di identificare correttamente i soggetti
non malati. Corrisponde al numero di soggetti che hanno un test negativo e che non hanno malattia
diviso il numero di soggetti che non hanno la malattia. Un test con alta specificità ha pochi risultati
falsi positivi.
Specificità e sensibilità sono particolarmente importanti per i test di screening applicati ad una
popolazione sana. Queste due caratteristiche di un test sono interdipendenti, infatti un incremento
in sensibilità si accompagna ad una riduzione di specificità e viceversa. Questo concetto è ben illustrato
da test continui in cui il cut-off per i risultati positivi può variare. Un esempio è la conta dei leucociti
per la diagnosi di infezione batterica. Se si stabilisce un cut-off alto per ritenere positivo il test (es.
leucociti>25.000/mmc) esso avrà una bassa sensibilità ed un’alta specificità rispetto a quanto
accadrebbe in caso di cut-off più basso (es. leucociti>10.000/mmc).
Predictive values (valori predittivi): sono importanti per valutare l’utilità di un test in ambito clinico,
a livello del singolo paziente. Il valore predittivo positivo è la probabilità di malattia in un paziente
con test positivo. Al contrario, il valore predittivo negativo è la probabilità che il paziente non sia
malato se il risultato del test è negativo.
I valori predittivi dipendono dalla prevalenza della malattia nella popolazione. Un test con una certa
sensibilità e specificità può avere differenti valori predittivi in differenti popolazioni di pazienti. Se il
test è usato in una popolazione con un’alta prevalenza, esso avrà un alto valore predittivo positivo ma
lo stesso test avrà un basso valore predittivo positivo se usato in una popolazione con una bassa
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
prevalenza della malattia. Per esempio, un test per la ricerca di sangue occulto nelle feci ha maggiori
probabilità di essere predittivo di cancro del colon in una popolazione di persone anziane piuttosto che
in una popolazione di ventenni.
Likelihood ratios (rapporti di verosimiglianza): calcolare il rapporto di verosimiglianza è un altro
metodo per valutare l’accuratezza di un test in ambito clinico ed offre il vantaggio di essere
indipendente dalla prevalenza della malattia. Il rapporto di verosimiglianza indica quanto il risultato
di un test diagnostico aumenta o riduce la probabilità di avere una malattia rispetto alla probabilità
di averla prima di effettuare il test stesso. Ogni test diagnostico è caratterizzato da due rapporti di
verosimiglianza: un rapporto di verosimiglianza positivo indica la probabilità di malattia in caso di
test positivo, un rapporto di verosimiglianza negativo indica la probabilità di malattia in caso di
risultato negativo.
Termini utilizzati nel processo di inferenza
L’inferenza statistica è il processo che consente di riferire a una intera popolazione di malati i risultati
di un esperimento condotto solo in una piccola parte di essa (tipicamente il campione di pazienti
entrati nella sperimentazione clinica).
Confidence intervals (intervalli di confidenza): i risultati ottenuti in qualsiasi campione di studio
sono solo una stima del valore vero nell’intera popolazione. Il valore vero può, in realtà, essere
maggiore o minore di quanto osservato nel campione. Un intervallo di confidenza descrive un range
di valori entro il quale c’è un’alta probabilità (95% per convenzione) che si trovi il valore vero della
popolazione. L’intervallo di confidenza prende in considerazione il numero di osservazioni e la
deviazione standard nella popolazione campione. L’intervallo di confidenza si restringe al crescere del
numero di osservazioni o al diminuire della deviazione standard.
Errori. Ci possono essere due tipi di errori nel test d’ipotesi:
Type I error (errore di I tipo - alpha): è la probabilità di concludere erroneamente che esiste una
differenza statisticamente significativa quando, in realtà, tale differenza non esiste. Questo tipo di
errore è chiamato anche alpha. In fase di analisi, l’errore di I tipo viene riportato come valore di P.
Una P<0.05 significa che c’è una possibilità minore del 5% che la differenza sia dovuta al caso.
Type II error (errore di II tipo - beta): è la probabilità di concludere erroneamente che non c’è
nessuna differenza statisticamente significativa quando, in realtà, tale differenza esiste.
Power (potenza): è la misura della capacità di uno studio di rilevare una differenza vera. Essa si misura
come 1 - beta. Ogni ricercatore dovrebbe sempre calcolare la potenza prima di effettuare uno studio
per determinare il numero di osservazioni necessarie per rilevare il grado di differenza desiderata.
Idealmente questa differenza dovrebbe corrispondere alla più piccola differenza considerata
clinicamente rilevante. Comunque, più piccola è la differenza, più grande è il numero di osservazioni
necessarie. Per esempio, servono meno pazienti per osservare una riduzione del 50% in mortalità
prodotta da una nuova terapia che per una riduzione del 5%.
Metodi di Regressione Multipla
Nella ricerca medica, spesso si vuole studiare l’effetto indipendente che fattori di rischio multipli
hanno su un outcome. Per esempio, potremmo voler conoscere l’effetto indipendente di età, sesso e
abitudine al fumo sul rischio di avere una neoplasia del polmone. Inoltre, potremmo voler sapere se
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METODOLOGIA DELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA: GUIDA ALLA TERMINOLOGIA
il fumo incrementa il rischio allo stesso modo sia negli uomini che nelle donne. I metodi di regressione
multivariata ci consentono di rispondere a questo tipo di domande, valutando contemporaneamente
variabili multiple. Il tipo di modello di regressione usato dipende dal tipo di dati valutati.
Multiple linear regression (regressione lineare multipla): viene usata per dati espressi da una
variabile continua. Per esempio, si può stimare l’effetto che la dieta ha sul peso dopo un aggiustamento
per i fattori di confondimento, come ad esempio lo stato di fumatore.
Logistic regression (regressione logistica): viene usata quando l’outcome è rappresentato da una
variabile binaria (ad esempio: guarigione o non guarigione). La regressione logistica può essere usata
per stimare l’effetto di un’esposizione (es. un trattamento) su un outcome binario dopo l’aggiustamento
per i fattori di confondimento. La regressione logistica può anche essere usata per trovare fattori che
discriminano due gruppi o per trovare indicatori prognostici per un outcome binario. Questo metodo
può essere applicato anche a studi di caso controllo.
Analisi di sopravvivenza
In un analisi di sopravvivenza, di solito si è interessati a parametri quali ad esempio l’intervallo di
tempo fra l’inizio del trattamento e la morte. Nella popolazione studiata solo alcuni soggetti
manifesteranno l’evento d’interesse (i.e. morte), altri avranno eventi diversi oppure non ne avranno.
La durata del follow-up varia fra i soggetti ed è importante tener conto delle differenze nei tempi di
follow-up. L’analisi di Kaplan-Meier ed un metodo di regressione, l’analisi secondo il modello di rischio
proporzionale di Cox, consentono di analizzare la sopravvivenza tenendo in considerazione la
variabilità inter-soggetto in termini di eventi e di durata di follow-up.
Kaplan-Meier analysis (analisi di Kaplan-Meier o metodo del prodotto-limite): misura il rapporto
fra soggetti che sopravvivono (o quelli senza un evento) ed il numero totale di soggetti a rischio per
l’evento. Ogni volta che un soggetto ha un evento, il rapporto è ricalcolato. Questi rapporti spesso
sono usati per generare una curva che descrive graficamente la probabilità di sopravvivenza. Negli
studi che prevedono un braccio sperimentale ed uno di controllo, si possono generare due curve di
Kaplan-Meier. Se le curve sono molto vicine o se si incrociano, è improbabile che ci sia una differenza
statisticamente significativa.
Cox proportional hazard model (modello di rischio proporzionale): è simile al modello di regressione
logistica descritto sopra con l’aggiunta del vantaggio di tener conto del tempo al quale un evento
accade. Con tale modello, si tiene anche conto della variabilità di follow-up che esiste fra i soggetti.
Come gli altri metodi di regressione descritti sopra, il modello di Cox può essere usato per studiare
l’effetto di un’esposizione sull’esito dopo l’aggiustamento per fattori di confondimento, o per
identificare indicatori prognostici di sopravvivenza per una determinata malattia. L’hazard ratio (HR)
prodotto da questa analisi può essere interpretato alla stregua di un rischio relativo. Per esempio, un
HR di 5 significa che il gruppo degli esposti ha un rischio di 5 volte superiore nel tempo di avere un
evento rispetto al gruppo dei non esposti.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
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COLON 2011: UN ANNO A DUE VELOCITÀ - “THE BEST FULL PAPER OF THIS YEAR”
Colon 2011: un anno a due velocità
“the best full paper of this year”
Giordano D. Beretta, Sergio Stinco, Chiara Maria La Spina, Maria Grazia
Sauta, Cristina Ripa, Michela Squadroni
Oncologia Medica Humanitas Gavazzeni - Bergamo
Nel corso di quest’ultimo anno i dati di novità sul carcinoma del colon-retto sono stati molto limitati
almeno fino alla fine del primo semestre. Dopo l’ASCO si ipotizzava infatti una situazione priva di
prospettive di innovazione con i dati ormai consolidati sul ruolo di bevacizumab, cetuximab e
panitumumab, sul ruolo della mutazione di K-RAS nel predire la non risposta ai monoclonali anti-EGFR
e sui controversi dati relativi al ruolo predittivo di B-RAF con la certezza di un suo significato prognostico
negativo.
Nel secondo semestre sono invece emerse alcune importanti novità, in primo luogo grazie allo studio
Velour, che ha evidenziato il ruolo di Aflibercet in II linea, anche in pazienti pretrattati con bevacizumab
ed ha evidenziato la possibilità di ottenere nuovamente un vantaggio in sopravvivenza, ma anche con i
promettenti dati presentati a Stoccolma sulla perifosina e su TAS-102 ed alla press release che annuncia
il raggiungimento dell’end-point sopravvivenza con l’impiego di regorafenib in terapia di salvataggio. Il
prossimo futuro si presenta quindi come un periodo di grande vivacità nell’ambito del trattamento di questo
big-killer presagendo una ulteriore complessità dell’algoritmo terapeutico.
Dal momento che la scelta editoriale di MOPP è stata però quella di valutare i lavori pubblicati in esteso,
non tratteremo di queste possibili innovazioni e ripercorreremo, commentandole, alcune delle certezze
precedentemente acquisite.
Non è stato facile definire quali fossero i migliori lavori del 2011, sia perché la mole di pubblicazioni rende
facile la possibilità di non individuare qualche segnalazione particolarmente ben riportata, sia per la diffusa
conoscenza dei dati che andremo ad analizzare, dato questo che può rendere poco attraente la lettura di
questo report. Proprio per questo motivo il termine “Best of 2011” potrebbe apparire esagerato rispetto ai
lavori da noi scelti per la valutazione.
Analizzeremo in primo luogo quanto pubblicato sul tema della TERAPIA ADIUVANTE. È a tutti voi
noto come il trattamento adiuvante con fluoropirimidine abbia migliorato la sopravvivenza dei pazienti in
stadio III mentre nel secondo stadio il beneficio, che verosimilmente è equivalente in termini relativi, non
è mai stato dimostrato essere statisticamente significativo, ad eccezione dello studio Quasar e dei dati delle
meta-analisi. È altresì noto come l’aggiunta di oxaliplatino sia in grado di migliorare ulteriormente il
beneficio nei pazienti in stadio III, sia in termini di DFS (MOSAIC, NSABP-C07) che di sopravvivenza
(MOSAIC).
Nell’ aprile del 2011 è apparsa la pubblicazione in esteso dello studio randomizzato N016968 (XELOXA)
già presentato all’ECCO 2009, all’ASCO-GI 2010, all’ASCO 2010 ed all’ESMO 2010. Come quindi già
a tutti noto i risultati di questo studio randomizzato confermano un vantaggio della terapia di combinazione
capecitabina-Oxaliplatino (XELOX) rispetto alla terapia con fluorouracile bolo (Mayo Clinic o Roswell
Park regimen).
Lo studio (Haller e coll. JCO 29: 1464-1471) ha reclutato 1886 pazienti in stadio III da 226 centri in poco
meno di 18 mesi (944 XELOX, 942 FUFA). Obiettivo primario era la DFS con ipotesi di una superiorità
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
del regime di combinazione del 6% a 3 anni. Erano attesi 682 eventi per una potenza dell’80% ma l’analisi
è stata effettuata dopo 648 eventi (potenza 78%) dato il riscontro di un tasso di ricadute inferiore all’atteso.
Il trattamento è stato completato nel 69% dei pazienti nello gruppo XELOX e nell’ 85% dei pazienti del
gruppo FUFA con una intensità di dose però sovrapponibile nei due gruppi. XELOX è risultato superiore
in termini di DFS a 3 anni (70.9 vs 66.5), con una riduzione del rischio relativo del 20% (HR 0.80, p.0045),
raggiungendo l’obiettivo della significatività statistica dell’end point primario (anche se la differenza del
6% postulata nel disegno non è stata raggiunta). Analogo beneficio (68.4 vs 62.3 e 66.1 vs 59.8) si è
evidenziato a 4 e 5 anni. L’analisi delle curve dei pazienti che hanno richiesto riduzione di dose rispetto a
quelli che hanno completato il trattamento come pianificato non evidenzia nessuna differenza suggerendo
che l’efficacia di XELOX non è inficiata dalla riduzione di dose. La sopravvivenza a 5 anni è risultata 77.6%
vs 74.2% a favore del braccio XELOX. Tale differenza non è statisticamente significativa (HR. 87, p. 1486)
analogamente a quanto osservato a 5 anni anche negli studi MOSAIC e NSABP.
La tossicità di grado III-IV è risultata superiore nel braccio XELOX (55 vs 47 p<.05). Il 78% dei pazienti
nel braccio XELOX ha sperimentato neurotossicità, di grado 3-4 nell’11% dei casi, e tale tossicità è
proseguita dopo il termine del trattamento nel 68% dei pazienti in cui si era evidenziata. La neutropenia,
la neutropenia febbrile e la stomatite sono invece risultate superiori nel braccio FUFA (rispettivamente 9%
vs 16%, <1% vs 4%, <1% vs 9%).
In conclusione, lo studio evidenzia una superiorità del trattamento combinato con solo un lieve
peggioramento della tossicità. Gli HR sia per DFS che per OS sono sovrapponibili a quanto evidenziato
negli studi MOSAIC e NSABP-C07 confermando l’ipotesi che il beneficio dell’aggiunta di Oxaliplatino
nello stadio III sia indipendente dalla modalità di somministrazione della fluoropirimidina. Lo XELOX è
quindi da considerarsi uno dei possibili standard nel trattamento adiuvante del carcinoma del colon in
stadio III.
Nel mese di gennaio 2011 era invece stato pubblicato il dato dello studio NSABP-C08 (Allegra e coll,
JCO 29:11-16), che valutava l’impiego di bevacizumab nel trattamento adiuvante nello stadio
II-III. Come è noto il risultato dello studio è stato negativo, negando il benefico dell’impiego di un
anti-VEGF negli stadi iniziali di malattia. Lo studio ha analizzato 2710 pazienti arruolati in 25 mesi
e randomizzati ad un trattamento con 12 cicli FOLFOX6 vs lo stesso schema + Bevacizumab 5 mg/Kg
per un anno. Circa l’1% dei pazienti è stato escluso dall’analisi in entrambi i bracci per mancanza di
dati di follow up mentre il 2,7% dei pazienti (1,6 nello standard e 1,1 nello sperimentale) pur non
essendo eleggibile è stato valutato in ITT. Oltre il 70% dei pazienti (73% nel controllo e 77% nel
braccio sperimentale) ha ricevuto almeno 10 dei 12 cicli di CT previsti e la mediana di durata della
somministrazione di bevacizumab è risultata di 11.5 mesi. L’aggiunta di bevacizumab non ha
comportato beneficio in DFS (77.4% vs 75.5% in stadio III, HR 0.89, p .15, 87.4 vs 84.7, HR 0.82 p
.35 in stadio II). In nessun sottogruppo analizzato è stato evidenziato un possibile beneficio. È stato
comunque evidenziato un minor numero di eventi nel periodo in cui è proseguita la somministrazione
di bevacizumab nel braccio sperimentale (HR 0.61), che ha comunque mostrato una maggior incidenza
di recidiva dopo la sospensione del farmaco (HR 1.22). Viene però riportata una differenza nella
tempistica del follow up, con un ritardo di circa 1.28 mesi (p<.05) nel braccio sperimentale e,
considerato quanto la tempistica degli esami possa impattare sul riconoscimento di una recidiva,
questo rappresenta un limite oggettivo dello studio.
Lo studio non riporta alcun dato di sopravvivenza e sarà quindi importante seguirne nel tempo i
probabili aggiornamenti. Gli autori concludono che l’aggiunta di bevecizumab al trattamento con
FOLFOX non comporta alcun beneficio. Tale dato è del resto confermato dai risultati dello studio
AVANT i cui dati non sono ancora stati pubblicati in esteso.
Se aggiungiamo a ciò la negatività dello studio N0147, che ha mostrato una non efficacia dell’impiego
di Cetuximab, con addirittura un possibile effetto detrimentale in alcuni sottogruppi, appare quindi
confermato che l’associazione di fluoropirimidine ed oxaliplatino rimane il trattamento standard
degli stadi III.
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COLON 2011: UN ANNO A DUE VELOCITÀ - “THE BEST FULL PAPER OF THIS YEAR”
A questo proposito appare interessante il lavoro pubblicato nell’agosto 2011 dal gruppo del Dana Faber
(Abrams e coll JCO 29:3255-3262) che ha analizzato 2560 pazienti in stadio II-III che hanno ricevuto
chemioterapia adiuvante tra gennaio 2004 ed aprile 2010, evidenziando come l’impiego dell’associazione
fluoropirimidine-oxaliplatino sia incrementato nel corso degli anni e rappresenti già dal 2007 il trattamento
impiegato nel 90% degli stadi III e nel 79% degli stadi II in USA. L’impiego dell’associazione appare
superiore nei pazienti trattati nei centri accademici rispetto alla pratica privata e nei centri del Midwestern
rispetto al Northeast. L’impiego di oxaliplatino è, come prevedibile, inversamente proporzionale all’avanzare
dell’età ed al decadimento del PS. Il trattamento viene interrotto dopo meno di 3 mesi nel 29.5% sia degli
stadi III che dei II e la mediana di trattamento risulta di 5 mesi (ah, quanto è attuale TOSCA!!!!).
Nell’11.5% dei casi, al di fuori di studi clinici, il trattamento adiuvante ha compreso l’impiego di
bevacizumab e tale percentuale è scesa al 2,8% solo nel 2010 (i dati dell’NSABP sopra riportati erano stati
presentati all’ASCO 2009). Si evidenzia quindi una “corsa in avanti” dei colleghi statunitensi nell’impiego
off-label di trattamenti innovativi che non trova poi riscontro nei dati di letteratura (si pensi per esempio
anche all’uso indiscriminato di FOLFOX/beva nella malattia avanzata che è di fatto diventato lo standard
USA ancor prima dei dati, per la verità poco convincenti, dello studio NO16966).
Una delle maggiori problematiche del trattamento adiuvante è il ruolo nel II stadio. Un interessante lavoro
(O’Connor e coll JCO 29:2281-3388) analizza i dati del registro SEER (Surveillance, Epidemiology and
End Results) relativi a tutti i pazienti affetti da carcinoma del colon in stadio II-III, di età superiore a 66
anni, registrati in Medicare tra il 1992 ed il 2005. Sono stati inseriti nello studio retrospettivo 43032
pazienti stratificati in 3 gruppi di analisi: stadio II a basso rischio (6234), stadio II con fattori di rischio
(18613) e stadio III (18185). Il 19% dei pazienti in stadio II a buona prognosi sono stati trattati con CT
adiuvante, il 21% nel gruppo dei II stadi ad alto rischio ed il 57% dei pazienti in stadio III, con una mediana
di 5,4 mesi di trattamento. La sopravvivenza a 5 aa non è risultata differente nei pazienti in stadio II tra
trattati e non trattati (56.7 vs 56.1 per alto rischio e 70.00 vs 69.5 per basso rischio) mentre è stato
confermato il beneficio negli stadi III ( 48.9 vs 35.2).
Il limite di questo studio è che la maggior parte dei pazienti, in considerazione del periodo di osservazione,
non è stata trattata con Oxaliplatino e che non sono disponibili dati biologici che appaiono allo stato
dell’arte importanti per valutare un possibile effetto detrimentale delle fluoropirimidine.
Altra problematica relativa al trattamento adiuvante riguarda il periodo di inizio del trattamento. La
maggior parte degli studi randomizzati stabilisce un intervallo di 4-8 settimane dall’intervento per iniziare
il trattamento post-operatorio. A volte però, nella pratica clinica, alcuni fattori relativi al PS e/o a
complicanze post-intervento possono comportare un inizio tardivo. Il quesito è quindi: un trattamento
adiuvante intrapresa oltre 8 settimane conserva un significato clinico? I dati di alcuni studi randomizzati,
quali lo studio X-Act ed il Quasar evidenziano come anche dopo 11 settimane il trattamento evidenzi un
beneficio. In una recente meta-analisi (Biagi e coll JAMA 305:2335-2342) viene evidenziato, sulla base
dei dati di 10 studi coinvolgenti 15410 pazienti, come la sopravvivenza a 5 anni si riduca del 6% ogni 4
settimane di ritardo nell’inizio del trattamento adiuvante, equiparando di fatto la sopravvivenza dei non
trattati quando il ritardo sia di 4-5 mesi.
Per ottenere il massimo del risultato è quindi importante il giusto schema ma anche la giusta tempistica.
Veniamo adesso ad esaminare il TRATTAMENTO DELLA MALATTIA AVANZATA. Come già
detto è stato un anno inizialmente povero di novità. I dati del panitumumab in prima linea sono infatti stati
pubblicati nel corso dello scorso anno, i dati accennati all’inizio dei nuovi farmaci sono ancora lontani
dalla pubblicazione (ma Alibercet potrebbe smentirci).
Abbiamo quindi deciso di selezionare, tra la miriade di lavori pubblicati, i due lavori relativi allo studio
COIN. Il primo dei due (Maughan e coll. Lancet 377:2103-2114) considera l’associazione di cetuximab
ad una polichemioterapia a base di fluoropirimidine ed oxaliplatino. 2445 pazienti sono stati randomizzati
in uno studio a tre braccia (A: fluoropirimidine + oxaliplatino, B: stessa combinazione + cetuximab, C.
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
terapia intemittente). I centri dovevano anticipatamente decidere se veniva impiegato fluorouracile
infusionale o Capecitabina. Lo studio analizza il confronto tra il braccio A ed il braccio B per un totale di
1630 pazienti. In 1316 di questi pazienti era anche stato analizzato lo stato di K-RAS con il riscontro di
565 mutati (43%). 102 pazienti (8%) erano portatori di mutazione B-RAF e 50 (4%) di mutazione NRAS.
L’end point primario dello studio era la sopravvivenza globale nei pazienti K-RAS WT. Il 19% dei pazienti
nel gruppo B ha iniziato la terapia ad un dosaggio ridotto di capecitabina. Non è stata evidenziata alcuna
differenza in sopravvivenza (A: 17.9 mesi, B: 17.0 mesi) nei pazienti K-RAS WT. Anche nei pazienti KRAS mutati la sopravvivenza è risultata equivalente (14.8 vs 13.6 p=.80). La sopravvivenza è risultata
inferiore nei gruppi che presentavano mutazione in uno qualunque dei geni analizzati con OS di 20.1 mesi
nei non mutati, 14.4 nei mutati K-Ras, 13.8 nei mutati N-RAS e 8.8 nei mutati B-RAF. Tali dati sembrano
confermare il ruolo prognostico di queste mutazioni senza un reale ruolo predittivo della risposta a
Cetuximab. Questo dato è discordante, per quanto riguarda K-RAS, rispetto all’analisi dello studio Crystal
(pubblicato anche di questo un aggiornamento nel 2011 ma ci siamo rifiutati di ripresentare lo studio più
raccontato della storia della medicina di cui sono già state pubblicate più analisi che di tutti gli altri messi
insieme) che evidenzia un vantaggio nei soggetti K-RAS mutati con l’impiego di cetuximab sia in OS che
in PFS ma concorda con lo stesso per il ruolo solo prognostico di B-RAF, risultato invece predittivo in
pazienti in più avanzate linee di terapia. Il PFS è risultato anch’esso sovrapponibile nei pazienti WT (8.6
in entrambi i gruppi HR 0.96). Nei pazienti mutati l’HR per PFS è stato di 1.05 e, nelle sole mutazioni 13D
lo HR risulta di 1.11 smentendo la recente segnalazione che quest’ultima mutazione possa in qualche modo
essere associata con la possibilità di rispondere a cetuximab. Anche in questo caso è stato evidenziato il
ruolo prognostico di B-RAF (PFS 5.6 vs 9.0 dei pazienti privi di qualunque mutazione).
Per quanto riguarda le risposte obiettive si è evidenziata una maggiore percentuale di risposte (64% vs 57%
p=.049) nel gruppo K-RAS WT trattato con cetuximab. Non è stato però evidenziato alcun vantaggio in
termini di tasso di resezione epatiche (A= 13%, B= 15%).
Interessante appare invece l’analisi per sottogruppi che sembra evidenziare una differenza di efficacia di
cetuximab quando associato con schemi contenenti fluorouracile infusionale, dove si vede un vantaggio
nel gruppo trattato con l’anti-EGFR, rispetto agli schemi con capecitabina dove tale vantaggio è assente.
Questo potrebbe parzialmente spiegare la differenza di risultati rispetto allo studio PRIME, dove
l’associazione FOLFOX panitumumab mostra un evidente vantaggio e la negatività dello studio NORDIC
dove il fluorouracile veniva somministrato in bolo, lasciando ipotizzare che il cetuximab abbia una differente
sinergia, quando associato ad oxaliplatino, con il fluorouracile infusionale rispetto ad altre vie di
somministrazione o che l’eccesso di tossicità cutanea che si verifica con capecitabina o di tossicità
gastroenterologica e midollare che si verifica con il fluoro bolo, possa costringere a modifiche di dosi che
comportano una minore efficacia del trattamento di combinazione. L’ipotesi però di una interazione tra le
diverse fluoropirimidine e i monoclonali anti-EGFR meriterebbe una conferma in studi dedicati, al di là
della equivalenza FOLFOX/XELOX riportata, sempre nel 2011, nell’aggiornamento dell’analisi dello studio
NO16966.
La seconda parte dello studio COIN (Adams e coll Lancet-Oncology 12: 642-653) riguarda invece il
trattamento intermittente. Anche in questo caso i pazienti analizzati sono 1630, randomizzati a trattamento
continuativo fino a progressione o a sospensione dello stesso dopo 12 settimane con ripresa al momento
della progressione. Obiettivo dello studio era la sopravvivenza globale che è risultata di 15. 8 mesi nel
braccio continuativo e 14.4 mesi nel braccio intermittente (HR 1.084). Lo studio è quindi da considerarsi
concluso a favore del braccio continuativo anche se il risultato dello studio non è in grado di dimostrare
una superiorità del trattamento continuativo ma solo di evidenziare una differenza mediana di circa 1.4 mesi
a favore del braccio continuativo, superiore a quanto definito nell’iniziale disegno statistico (per capirci,
se lo studio fosse stato analizzato solo sulla base di una p come avvenuto nel precedentemente citato studio
XELOXA e non sulla base di quanto dichiarato a priori, si sarebbe potuto concludere la non inferiorità del
trattamento intermittente). La sopravvivenza mediana libera da fallimento (PFS per il braccio continuativo,
PD durante il trattamento o entro 8 settimane dalla sospensione per il braccio intermittente) della strategia
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COLON 2011: UN ANNO A DUE VELOCITÀ - “THE BEST FULL PAPER OF THIS YEAR”
è risultata di 8.4 vs 7.4 a favore del braccio continuativo. Nell’analisi di sottogruppo appare molto
interessante la segnalazione che i pazienti con piastrine superiori a 400.000 hanno un effetto detrimentale
dal trattamento intermittente che appare essere statisticamente significativo, segnalando quindi un possibile
fattore predittivo dell’efficacia della strategia. Nei pazienti con valori normali di piastrine il trattamento
intermittente ed il continuativo si equivalgono. Tale effetto non raggiunge inoltre mai la significatività
statistica in nessun altro sottogruppo eccetto che per i pazienti con sole metastasi epatiche (dove un
trattamento intermittente può in effetti ridurre la probabilità di una conversione chirurgica). La mediana
di tempo passata in vacanza da terapia è risultata di 2,3 mesi, superiore all’1.4 mesi di beneficio in
sopravvivenza e con un miglioramento della qualità della vita ed una riduzione degli accessi ospedalieri. Se
si escludono quindi i pazienti con piastrinosi l’opzione del trattamento intermittente deve essere
adeguatamente discussa con i pazienti.
Il tema del trattamento intermittente è stato valutato anche dal nostro “studio pragmatico” (Labianca e
coll Ann Oncol 22:1236-1242). In questo studio sono stati randomizzati 337 pazienti ad un trattamento
con FOLFIRI continuativo vs un trattamento alternante (due mesi si, due mesi no). Tale disegno dello
studio non ha eguali in letteratura, dove i bracci intermittenti prevedono pressochè sempre la sospensione
fino a progressione (in alcuni casi oltre la progressione - leggasi OPTIMOX2). L’end point dello studio è
stata la sopravvivenza (analogamente a COIN e contrariamente ad OPTIMOX) anche perché questo
rappresenta l’unico end point non surrogato e quindi il migliore per valutare non l’efficacia di un
trattamento (dove RR o PFS la fanno da padrone) bensì di una strategia. La sopravvivenza globale è risultata
di 17 mesi per il braccio continuativo vs 18 mesi per il braccio intermittente (HR 0.88) con una p altamente
significativa (.0008) per non inferiorità e con una sopravvivenza a due anni del 30% nel braccio
continuativo e del 34% nel braccio intermittente. Il tempo mediano libero da terapia è risultato di 3.5
mesi. I dati del nostro studio sono quindi concordi con quanto riportato nello studio OPTIMOX1 (dove
però il trattamento prevedeva la sola sospensione dell’Oxaliplatino) e discordanti da quanto rilevato invece
nell’OPTIMOX 2 (per chi non ricordasse i BIAS di quest’ultimo studio segnalo la nostra lettera su JCO
del giugno 2010). Per quanto riguarda la limitata sopravvivenza, questa risulta perfettamente in linea con
i dati pre-biologici (e con quelli inglesi anche dell’epoca dei biologici, vedi COIN), con la sola eccezione
dei dati dei francesi che risultano sempre migliori, anche nello spread. A nostro parere un trattamento
intermittente può quindi essere considerato nell’ambito di una corretta strategia terapeutica in pazienti
con malattia non aggressiva e non destinati a terapia di conversione.
Proprio nell’ottica dei pazienti in cui occorre stabilire l’aggressività del trattamento ci sembra importante
segnalare lo studio FOCUS 2 (Seymour e coll Lancet 377:1749-1759). In questo studio
459 pazienti, con età media di 74 anni (range-59-78), sono stati randomizzati a ricevere fluorouracile oppure
capecitabina +/- Oxaliplatino. Il 43% dei pazienti aveva più di 74 anni ed il 13% più di 80 anni. Questo
studio rappresenta quindi realmente la valutazione di un trattamento in pazienti anziani, rispettando quella
che è la mediana di età nella pratica clinica. Il protocollo prevedeva di iniziare il trattamento all’80% della
dose standard prevista per questa tipologia di farmaci. In caso di tossicità di grado 2 il trattamento veniva
dilazionato di una settimana e, in caso di ritardo di due settimane la dose veniva ulteriormente ridotta del
20%. In caso di assenza di significativa tossicità il trattamento poteva essere incrementato al 100% della
dose dopo 6 settimane. I 4 bracci dello studio sono stati analizzati sia per quanto concerne il tipo di
fluoropirimidina che l’aggiunta di oxaliplatino. La percentuale di incremento della dose è stata superiore
nel gruppo dei pazienti trattati con monoterapia rispetto a quelli trattati con la combinazione. Il 14% dei
pazienti ha mantenuto il dosaggio massimo per 12 settimane, il 33% ha mantenuto la dose di partenza
dell’80% per 12 settimane mentre il 49% ha richiesto successive riduzione della dose o sospensione del
trattamento. La mediana di PFS è risultata di 5.8 mesi nei gruppi trattati con oxaliplatino,
indipendentemente dal tipo di fluoropirimidina impiegata, di 5.2 mesi nel braccio trattato con capecitabina
e di 3.8 mesi nel braccio trattato con Fluorouracile infusionale (5FU vs Cape HR 0.95). Il confronto tra i
bracci trattati con monoterapia e quelli con terapia di combinazione mostra un beneficio non
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MOPP Medical Oncology Progress & Perspectives - Update 40
statisticamente significativo con l’aggiunta di oxaliplatino (HR 0.84). Le risposte sono risultate superiori
nei gruppi trattati con Oxaliplatino (38& Oxa-5FU, 32% Oxa-cape) rispetto ai gruppi con sola
Fluroropirimidina (11% 5FU, 14% Cape). La sopravvivenza è risultata sovrapponibile in tutti i gruppi
(10.1 5Fu, 10.7 Oxa-5FU, 11 cape, 12.4 Oxa-Cape, HR 0.99). L’uso dell’oxaliplatino non ha incrementato
in modo significativo la tossicità pur con un maggior numero di episodi di diarrea, nausea, vomito,
neutropenia e, ovviamente, neurotossicità. Lo studio analizza inoltre un nuovo end point chiamato OTU
(overall treatment utility) composto da fattori oggettivi e soggettivi (sopravvivenza, tossicità, opinione del
paziente) di valutazione del beneficio, l’analisi dei risultati del quale evidenzia un benefico statisticamente
significativo con l’aggiunta di oxaliplatino. Dalla lettura dell’articolo l’OTU appare però scarsamente
definito, e quindi di difficile riproducibilità. Le conclusioni degli autori sono che l’aggiunta di Oxaliplatino
è comunque in grado di migliorare il RR e di avere un impatto, anche se non statisticamente significativo
sul PFS, senza impatto sulla sopravvivenza ma con inequivocabile evidenza di beneficio all’analisi dell’OTU,
mentre l’analisi dello stesso end point non evidenzia benefici nell’uso della capecitabina rispetto al 5FU,
suggerendo la utilità di un trattamento combinato fluoro pirimidine (qualsiasi)/oxaliplatino anche in
pazienti di età avanzata.
L’ultimo lavoro che abbiamo deciso di analizzare è frutto di uno studio italiano sul carcinoma del retto
(Aschele e coll JCO 29:2773-2780). 647 pazienti con carcinoma del retto operabile sono stati
randomizzati ad un trattamento preoperatorio con fluororuracile + RT vs lo stesso trattamento con
l’aggiunta di Oxaliplatino una volta alla settimana per 6 somministrazioni. L’end point primario dello studio
è la sopravvivenza ed il report attuale si limita ad analizzare i dati di risposta. Lo studio è, da questo punto
di vista, negativo. Stesso tasso di resezioni addominoperineali (20 vs 18%), stessa percentuale di pCR (16%
in entrambi i bracci), stesso grado di positività linfonodale (26 vs 29%), stessa percentuale di infiltrazione
della muscolare propria (46 vs 44%) e di positività dei margini circonferenziali (7 vs 4 p=.239). Perché allora
segnalare uno studio negativo in un report sui migliori lavori? Innanzitutto perché non è uno studio negativo
non essendo ancora possibile valutare l’end point primario. Se si considera poi che il tasso di metastasi
intraaddominali riscontrato all’intervento è statisticamente inferiore nel braccio trattato con oxaliplatino
(2.9 vs 0.5% p= .014) si può ipotizzare che l’aggiunta di oxaliplatino, pur da non eseguire in associazione
alla RT per un mancato beneficio locale ed un incremento di tossicità, possa in realtà avere un ruolo nella
strategia terapeutica del carcinoma del retto in fase iniziale, in cui i dati di letteratura riportano una inutilità
dei trattamenti locali tradizionali sul controllo a distanza. In secondo luogo perché, attraverso uno studio
di grosse dimensioni (uno dei più numerosi in letteratura su questa patologia) ha bloccato una corsa in
avanti che stava trasformando in standard un trattamento di associazione tra Oxaliplatino/fluoropirimidine
e radioterapia. I dati di questo studio, combinati a quelli dello studio francese ACCORD, stabiliscono di
fatto che lo standard attuale di chemio-radioterapia pre-operatoria resta la sola fluoropirimidina. In ultimo
luogo perché è uno studio italiano di grosse dimensioni in una patologia che necessita un approccio
multidisciplinare e la sua pianificazione, conduzione, valutazione ha richiesto uno sforzo di integrazione tra
diverse componenti cliniche, che ha consentito di realizzare non solo uno studio di queste dimensioni ma
addirittura un gruppo multicentrico e multidisciplinare, che è tuttora attivo e che sta valutando diversi
possibili approcci congiunti non solo nella patologia rettale. In sostanza il gruppo STAR è riuscito nello
sforzo, spesso fallito in Italia, di far convergere l’intervento di più attori in uno studio clinico senza gelosie
personali, campanilismi ed altri elementi che spesso frenano la ricerca italiana. Come sempre fanno i
francesi (si pensi ad OPTIMOX ma anche a FOLFIRINOX) la coesione produce numeri e risultati
importanti, mentre da noi (si pensi a FOLFOXIRI o a PEF-G) i risultati di un singolo vengono subito
bollati come poco convincenti ed irripetibili al di fuori della sede di produzione e pertanto non valutati in
studi di grosse dimensioni. Se l’esempio di STAR-01 servirà a cambiare il modo di fare ricerca clinica in
Italia questo studio sarà stato più importante di tanti altri, magari più altisonanti, di cui è ricca la letteratura.
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COLON 2011: UN ANNO A DUE VELOCITÀ - “THE BEST FULL PAPER OF THIS YEAR”
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Finito di stampare: Dicembre 2011
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