Per una storicità della diagnosi Claudia Santoro e Roberto Musiari Un discorso che abbia come obiettivo quello di sottolineare la necessità di contestualizzare l’atto diagnostico e gli strumenti di cui esso si serve, deve partire da considerazioni prima di tutto di ordine etimologico. Il termine diagnosi deriva dal greco antico e significa conoscereattraverso: viene subito da chiedersi quale possa essere l’oggetto di tale conoscenza e attraverso quali filtri o risorse essa possa svilupparsi. Quel che è certo è che le riflessioni contemporanee in campo epistemologico ci restituiscono un’idea generale di conoscenza «sempre meno concepita come verità da scoprire, e sempre più vista come processo costruttivo da interpretare». 1 Pur considerando le notevolissime implicazioni di un approccio ermeneutico nello studio della conoscenza, lo scopo preliminare di questo lavoro fa riferimento piuttosto alla possibilità di individuare tra i due poli di una qualsiasi relazione soggetto-oggetto, l’esistenza di «uno spazio virtuale» 2 nel quale si inseriscano «codici e modelli culturali normativi», 3 e quindi quei «significati oggettivi di riferimento» 4 in grado di plasmare l’incontro con l’Altro: si potrebbe allora affermare, in accordo con John Searle, che «il significato è qualcosa di più che una questione di intenzione, è anche, almeno a volte, una questione di convenzione». 5 Questa sorta di interferenza ad opera del contesto storico e di vita nel modo di intenzionare gli oggetti della relazione, spinge ancora oltre la riflessione del filosofo inglese fino alla possibilità di concepire una vera e propria intenzionalità collettiva per cui le persone non solo frequentemente «si impegnano in un comportamento cooperativo, ma [anche] condividono stati intenzionali come credenze, desideri ed intenzioni», 6 fenomeno in base al quale «l’intenzionalità che esiste in ogni 1 P. BENINI, R. NACLERIO, “Riflessività e ricerca sociale”, in Diagnosi della diagnosi. Ricerca criticointerpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P. Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, p. 10 2 L. PATARNELLO, Introspezioni. Il conflitto e l’angoscia, l’aggressività e la dipendenza, il terrore e la catastrofe, Unipress, Padova, 2002, p. 127 3 loc. cit. 4 loc. cit. 5 J. R. SEARLE, Speech acts, Cambridge University Press, Cambridge, 1969, p. 75 6 Idem, 1995, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006, p. 33 singolo individuo ha la forma [del] noi intendiamo». 7 Nella medesima direzione, ancora più incisive appaiono le affermazioni di Donald Davidson, secondo il quale «la stessa possibilità del pensiero richiede standard di verità e di oggettività condivisi». 8 Si può pensare che tali processi possano essere riferiti sia a stimoli elementari sia a dimensioni percettive più complesse come ben dimostrato, ad esempio, dall’affascinante studio di Stephen Kern, secondo cui, «nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della Prima guerra mondiale, una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo». 9 Gli influssi nel modo di considerare queste fondamentali coordinate sensoriali andrebbero così ascritti da un lato alle «innovazioni tecnologiche comprendenti il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l'automobile e l'aeroplano [che] posero il fondamento materiale per questo nuovo orientamento», 10 dall’altro agli «sviluppi culturali indipendenti quali il romanzo del flusso di coscienza, la psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività [che] plasmarono direttamente la coscienza» 11 per cui «il risultato fu una trasformazione delle dimensioni della vita e del pensiero». 12 Non si hanno allora validi motivi per dubitare che anche la percezione del sociale veda come protagonista un «soggetto della sensazione [che] non è né un pensatore che annota una qualità, né un ambito inerte che sarebbe colpito o modificato da essa, bensì una potenza che co-nasce a un certo contesto d’esistenza o si sincronizza con esso», 13 accompagnato nel suo esperire non solo da un parallelo macroprocesso di selezione delle rappresentazioni culturalmente disponibili in cui «le percezioni del sociale non sono discorsi neutri, [ma] generano strategie e pratiche (sociali, scolastiche, politiche) che tendono ad imporre un’autorità a spese di altre», 14 ma anche da un processo in cui le scelte dominanti finiscono col «legittima[re] un progetto riformatore e [col] giustifica[re] per gli stessi individui scelte e comportamenti». 15 Conseguentemente acquista validità il punto di vista per cui «le modalità dell’agire e del patire […] devono essere sempre messe in relazione con i legami di interdipendenza che regolano i rapporti fra gli individui e che sono modellati, differentemente nelle differenti situazioni, dalle strutture di 7 Ibidem, p. 35 D. DAVIDSON, 2001, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 68 9 S. KERN, 1983, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 7 10 loc. cit. 11 loc. cit. 12 loc. cit. 13 M. MERLEAU-PONTY, 1945, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2005, p. 288 14 R. CHARTIER, 1988, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 13 15 loc. cit. 8 potere», 16 in modo che l’analisi del problema possa così articolarsi ad un duplice livello, ma in un rapporto di reciproca e circolare interdipendenza: lo studio della storia delle idee da un lato, intesa come l’indagine dei grandi sistemi di pensiero, e lo studio della storia della cultura dall’altro, comprendente le visioni del mondo e le mentalità collettive. 17 Non è il caso ora di addentrarci in considerazioni più approfondite relative alla storia sociale della psichiatria, argomento per il quale rimandiamo volentieri ad altre opere, tra cui gli studi foucaultiani o il celebre lavoro di Klaus Dörner: 18 ci basti per ora osservare che così come gli uomini comuni sono profondamente influenzati dai meccanismi di circolazione e distribuzione delle idee, così anche i grandi uomini non sono immuni dallo spirito della propria epoca, ovvero da quella mentalità che secondo Jacques Le Goff rappresenta ciò che un individuo ha in comune con altri uomini del suo tempo. Con tale premessa ci posizioniamo quindi al livello del quotidiano e dell’automatico, di ciò che sfugge ai soggetti individuali della storia perché rivelatore del contenuto impersonale del loro pensiero. 19 Poiché il termine ha «per oggetto [proprio] il collettivo, l’automatico, il ripetitivo», 20 si potrebbe proseguire ulteriormente con il ragionamento in modo da approfondire l’analisi di quel rapporto circolare che coinvolge i produttori di idee o di teorie ed i loro fruitori, poichè se da un lato sarebbero principalmente i primi a fare la storia, dall’altro sarebbero proprio «i grandi scrittori ed i filososofi [a dire] con maggiore coerenza, attraverso le loro opere essenziali, la coscienza del gruppo sociale di cui fanno parte». 21 Il concetto di mentalità, forse un po’ troppo ampio ed ambiguo, sembra riferirsi pari tempo a «ciò che è concepito e sentito, [al] campo dell’intelligenza e dell’affettivo»: 22 tale ampiezza semantica ci conduce ad una parziale sovrapposizione con altre definizioni tra cui quella forse ancor più nebulosa di atmosfera culturale, che sembra racchiudere in sé una molteplicità di elementi propri ad un determinato periodo storico tra cui peculiari simboli, sentimenti, forme o temi. 23 Si tratta ora di vedere se tutte le considerazioni precedenti possano essere applicate in modo pertinente anche al tema dell’atto diagnostico: la risposta si rivela affermativa se si pensa che «i sintomi che permettono [di formulare] una diagnosi dipendono dal modello 16 Ibidem, p. 20 R. DARNTON, 1990, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano, 1994, pp. 225-226 18 Cfr. : K. DÖRNER, 1969, Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, Laterza, Roma-Bari, 1975 19 J. LE GOFF, “Le mentalità: una storia ambigua”, in Fare storia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino, 1981, pp. 239-255 20 CHARTIER, La rappresentazione del sociale…, op. cit., p. 37 21 Ibidem, p. 40 22 Ibidem, p. 36 23 P. BURKE, 2004, La storia culturale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 18 17 culturale di una società», 24 motivo per cui non solo «una delle caratteristiche della diagnosi psichiatrica è la sua estrema flessibilità nell’adattarsi prontamente ad ogni mutamento delle norme sociali», 25 ma anche per cui si assiste a quel processo attraverso il quale in psichiatria «le diagnosi mutano nel tempo, vengano riformulate, ampliate o generate ex novo, [ed] alcune eliminate». 26 Non si può negare il peso di «una serie di circostanze storiche, culturali e contestuali che riconoscono legittimazione morale alle persone che praticano [o meno] determinate condotte», 27 oppure il significato assunto dalla follia in quanto «forma generale di trasgressione» 28 rispetto ad un dato insieme di regole nel corso dei secoli, per cui è indispensabile analizzare «i discorsi e le definizioni, intesi non come risultato di un’elaborazione linguistica e teorica, ma come sistemi che esercitano una funzione concreta nella storia delle idee, delle istituzioni e delle persone». 29 Così, ancora una volta, è fondamentale tenere conto del contesto sia per quanto riguarda la narrazione del paziente sia per quanto riguarda i riferimenti teorici ed operativi del terapeuta, in quanto «la mancanza di tale dimensione produce un effetto di universalizzazione della costruzione dei significati nella conversazione legati alla comprensione delle pure intenzioni del parlante, come se queste fossero del tutto avulse dalle circostanze convenzionali, e di conseguenza culturali, dentro le quali si svolge la conversazione». 30 Eppure è possibile constatare come nella formulazione di una diagnosi si tenti di confermare la propria obiettività scientifica proprio attraverso una visione a-storica e a-contestuale, in base ad una duplice illusione di astoricità: la prima riguarda la pretesa di affrancarsi da un sensus communis da parte dell’operatore della salute mentale, la seconda si riferisce alla possibilità di privare il proprio interlocutore di un personale percorso storico, rinunciando così a quello «sguardo diacronico» 31 che rende comprensibile ogni essere vivente, da cui la presunzione che un singolo stato contenga «l’intera verità di tutti gli altri stati possibili e [che] ognuno possa essere usato per predire gli altri qualunque siano le loro rispettive posizioni sull’asse del tempo». 32 Senso e storia si rivelano due elementi inscindibili e l’incontro tra paziente e terapeuta, secondo Salomon Resnik, può essere considerato soprattutto un incontro «tra due mondi 24 M. CAPARARO, “Il discorso medico sulla diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di P. Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, p. 59 25 Ibidem, p. 54 26 Ibidem, p. 53 27 P. BARBETTA, “Il discorso filosofico della diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di P. Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, p. 19 28 M. FOUCAULT, 1972, Storia della follia nell’Età Classica, Rizzoli, Milano, 2004, p. 478 29 BENINI, NACLERIO, “Riflessività…”, op. cit., p. 10 30 BARBETTA, “Il discorso filosofico…”, op. cit., p. 31 31 CAPARARO, “Il discorso medico…”, op. cit., p. 64 32 I. PRIGOGINE, I. STENGERS, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris, 1979, p. 75 di esistenza [o] tra due culture»: 33 a questo punto è forse necessario fare un passo indietro e chiedersi se sia possibile una definizione di un concetto antropologico ancora più vasto di quelli affrontati nelle righe precedenti, ovvero quello di cultura. Una definizione particolarmente datata ma autorevole di cultura, è quella operata dall’antropologo Edward Burnett Tylor, secondo il quale il termine indicherebbe un insieme di pratiche, di manifestazioni dell’intelligenza umana e di abitudini, 34 oltre che un insieme di idee, conoscenze ed esperienze relazionali strettamente connesse al proprio ambiente di appartenenza. 35 Si può osservare come «una definizione simile […], intesa nel suo senso etnografico più ampio», 36 includa al suo interno sia elementi concernenti aspetti di realtà materiale, sia elementi che rimandano ad oggetti sociali maggiormente instabili 37 e quindi metodologicamente più difficili da osservare e da interpretare. Per Tom Main, circoscrivendo il problema all’interno della prassi terapeutica, il termine cultura sembra indicare specificamente proprio questo secondo ordine di fenomeni, più vaghi ed incerti, ma al tempo stesso fondamentali nel determinare la qualità complessiva dell’intervento psichiatrico, ovvero «i modi in cui […] le persone si rapportano tra loro, come la gente considera i ruoli degli altri, se con distacco o calore, con ostilità o disponibilità, con rispetto o disprezzo, interesse o indifferenza». 38 La nostra esistenza, comportando un processo di partecipazione e condivisione di senso all’interno di uno sfondo culturale comune pur nel rispetto delle differenze individuali, può essere intesa come «un processo costante di negoziazione di significato» 39 ed è proprio tale negoziazione a costituire, secondo Glen Gabbard, l’essenza dell’atto diagnostico e del percorso terapeutico con il paziente grave. 40 Si è dunque partiti dalla classica definizione di cultura operata da Tylor in quanto «insieme complesso», 41 per approdare in seguito ad un concetto più circoscritto e semiotico, 42 in cui un sistema culturale si configura piuttosto come una «rete di significati»43 pubblicamente e 33 P. BRIA, “Inconscio e preistoria del corpo nell’opera di Salomon Resnik”, in S. Resnik, Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo, a cura di P. Bria, Einaudi, Torino, 2001, p. XXXVI 34 E. B. TYLOR, 1871, “Lo sviluppo della civiltà”, in Alle origini dell’antropologia, a cura di U. Fabietti, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 87-88 35 Idem, 1865, “Sviluppo e declino della cultura”, in Alle origini dell’antropologia, a cura di U. Fabietti, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 275-276 36 BURKE, La storia culturale, op. cit., p. 43 37 M. AUGÉ, 1994, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 11 38 T. MAIN, 1983, La comunità terapeutica e altri saggi psicoanalitici, a cura di F. Paparo, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1992, pp. 142-143 39 E. WENGER, 1998, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina, Milano, 2006, p. 61 40 G. O. GABBARD, E. P. LESTER, 1995, Violazioni del setting, Raffaello Cortina, Milano, 1999, pp. 55-56 41 C. GEERTZ, 1973, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 10 42 Ibidem, p. 11 43 loc. cit. potenzialmente condivisibili: un insieme di interpretazioni soggettive, insomma, che il clinico deve a sua volta interpretare in modo che vi sia pari dignità tra interpretante ed interpretato. Così, come il linguaggio ingenuo del paziente o persino una costruzione delirante contengono una propria verità connessa ad una microstoria o ad un microcosmo, 44 anche il linguaggio scientifico deve rinunciare ad una pretesa di universalità costituendo null’altro che «un passaggio di significati costruiti nel sistema di relazioni della ricerca, verso il sistema di relazioni rappresentato dalla comunità scientifica e da tutti i possibili fruitori della ricerca stessa», 45 o ancora più incisivamente «una forma di traduzione da un linguaggio all’altro». 46 Pertanto, la possibilità di pensare ogni incontro tra terapeuta e paziente in quanto evento, significa riferirsi ad un concetto non solo fenomenologico ma anche storico e culturale, in quanto il senso della relazione non può che emergere attraverso due soggettività uniche ed irripetibili, inscrivendosi nell’ordine dell’incrocio tra due storie di vita interiori. 47 Non è certo nostra intenzione negare l’importanza operativa che assume ciascun atto diagnostico nella pratica psichiatrica di ogni giorno, ma a questo punto si possono cogliere i limiti di un discorso che cerca di «trovare il significato del comportamento delle persone leggendolo attraverso una griglia precostituita», 48 limiti ancor più tangibili se si pensa a quella specifica opzione che ci permette di mantenere un atteggiamento ricettivo nei confronti del «contesto in cui emerge [tale comportamento], per comprendere come attori competenti sviluppino condotte di vita possibili»: 49 così, preoccupandoci del «problema di connettere l’azione con il significato piuttosto che il comportamento con i suoi determinanti», 50 l’azione stessa acquista il valore di simbolo, cioè «la capacità di esprimere la soggettività dell’attore», 51 azione inserita quindi in una situazione, cioè «situata in uno scenario culturale, che risponde agli stati intenzionali, reciprocamente interattivi, di coloro che vi prendono parte». 52 Anche la disponibilità, raccomandata da Nancy McWilliams, da parte del clinico, a riesaminare le proprie conclusioni alla luce di nuove informazioni, 53 ci introduce alla 44 Cfr.: C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino, 1976 BENINI, NACLERIO, “Riflessività…”, op. cit., p. 13 46 loc. cit. 47 L. BINSWANGER, 1955, “Funzione di vita e storia della vita interiore”, in L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologia. Saggi e conferenze psichiatriche, a cura di F. Giacanelli, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 56 48 M. PAKMAN, “Poetica e micropolitica nelle pratiche di salute mentale: i margini invisibili”, in Diagnosi della diagnosi. Ricerca critico-interpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P. Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, p. 37 49 Ibidem, pp. 37-38 50 C. GEERTZ, 1977, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 44 51 L. GATTAMORTA, Teorie del simbolo. Studio sulla sociologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 34 52 loc. cit. 53 N. MCWILLIAMS, 1994, La diagnosi psicoanalitica. Struttura della personalità e processo clinico, Astrolabio, Roma, 1999, p. 38 45 possibilità di poter pensare l’incontro terapeuta-paziente in quanto percorso, anzi in quanto percorso comune: ecco dunque delinearsi sempre più un’apertura in favore della dimensione della storicità, elemento per altro essenziale e costitutivo del modello psicoanalitico, così come evidenziato da Michel de Certeau in riferimento proprio a quel meccanismo che «mette in gioco […] tempo e […] memoria», 54 per cui il passato, e quindi la propria storia, premono costantemente per riaffiorare in quanto rimosso e riaprire così un discorso altrove sospeso. Ma ecco emergere parimenti anche la consistenza di quel legame che «unisce dall’interno [la] psicoanalisi e [il] culturale», 55 per scoprire che «proprio nei fenomeni culturali è possibile trovare l’antecedente ed il luogo principale del transfert», 56 o meglio «nella relazione multipolare con il culturale, con la creazione o più precisamente con il messaggio culturale». 57 A conclusione di questo scritto e a titolo di esemplificazione, verranno ora riportate alcune acute osservazioni contenute in due lavori piuttosto recenti ad opera rispettivamente di Silvia Gatti e di Giovanni Stanghellini. Nel primo studio l’autrice affronta il problema della diagnosi di ADHD nei bambini in età scolare mettendo subito in evidenza come le percentuali d’incidenza del disturbo siano estremamente variabili da un Paese all’altro. 58 Inoltre, l’enfasi con cui si considera il ruolo dei farmaci nel trattamento del disturbo, rappresenta per l’autrice un’occasione ulteriore per lasciare «inconsiderato il contesto relazionale e ambientale, che in ogni caso non viene messo in discussione come ipotetica concausa»: 59 in base a tali presupposti «l’errore di comportamento è letto come tale perché il bambino si comporta secondo le regole autonome della propria struttura, in un sistema con il quale tale struttura non è sincronizzata». 60 Un altro esempio di come l’uomo (anche in campo professionale) finisca con l’ordinare la realtà in base alla cultura, alle ideologie e ai ruoli del gruppo sociale cui appartiene, ci è fornito da Stanghellini, il quale sviluppa un’analisi critica del criterio B (disfunzione sociale ed occupazionale) proposto dal Manuale statistico e diagnostico delle malattie mentali, principio necessario per fare diagnosi di schizofrenia; secondo l’autore, seguendo tale prescrizione, si rischierebbe di affidarsi ad «un approccio meramente funzionalista che si limita a valutare i risultati di comportamenti 54 M. DE CERTEAU, 1987, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 78 55 A. LUCHETTI, Una malattia dell’autoritratto: la melanconia, “Rivista di Psicoanalisi”, XLVII (2001), 4, p. 749 56 J. LAPLANCHE, “Del transfert: la sua provocazione da parte dell’analista”, in Il primato dell’altro in psicoanalisi, a cura di A. Luchetti, Biblioteca by ASPPI, Bari-Roma, 2000, p. 530 57 loc. cit. 58 S. GATTI, “La costruzione sociale della diagnosi del Disturbo dell’attenzione e iperattività”, in Diagnosi della diagnosi. Ricerca critico-interpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P. Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, p. 123 59 Ibidem, p. 125 60 Ibidem, p. 139 disfunzionali […] e non le loro motivazioni». 61 Tale attenzione per il problema dell’efficienza in un mondo sempre più dominato dall’ideale razionale-produttivo, appare «intrisa di giudizi di valore» 62 di matrice culturale e sempre più lontana dalla riflessione circa i significati soggettivi, superficialità, quest’ultima, segnalata anche da Jerome Wakefield per quanto riguarda la diagnosi di DDM. 63 Per finire, una rinnovata consapevolezza circa la parzialità delle nostre osservazioni cliniche, deve farci riflettere sul fatto che «sono le nostre teorie a decidere che cosa possiamo osservare», 64 e che di conseguenza «ogni elaborazione teorica è una espressione riflessa dell’oggetto preso in considerazione o dello spazio guardato». 65 Ciascun terapeuta allora, anch’egli figlio del proprio tempo e affascinato dai miti che ciascuna epoca storica è in grado di promuovere, non può che ricorrere ad un’etica della diagnosi psichiatrica per cui essa, secondo le belle parole di Lodovico Patarnello, «non pensa di affidarsi alle nomenclature ed alle recenti nosografie, [e non] cerca la neutralità nei superiori valori del dover essere, ma ribadisce il primato della soggettività, anzi, propriamente, della natura intersoggettiva della diagnosi». 66 61 G. STANGHELLINI, Psicopatologia del senso comune, Raffaello Cortina, Milano, 2006, p. 90 loc. cit. 63 J. C. WAKEFIELD, 1998, “Significato e melanconia: perché il DSM-IV non può ignorare (del tutto) il sistema intenzionale del paziente”, in Dare un senso alla diagnosi, a cura J. W. Barron, Raffaello Cortina, Milano, 2005, p. 59 64 BURKE, La storia culturale, op. cit., p. 100 65 S. RESNIK, La visibilità dell’inconscio, Teda, Castrovillari, 1994, p. 33 66 PATARNELLO, Introspezioni…, op. cit., pp. 39-40 62 Bibliografia AUGÉ M., 1994, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 BARBETTA P., “Il discorso filosofico della diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di P. Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, pp. 18-49 BENINI P., NACLERIO R., “Riflessività e ricerca sociale”, in Diagnosi della diagnosi. Ricerca critico-interpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P. Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, pp. 7-18 BINSWANGER L., 1955, “Funzione di vita e storia della vita interiore”, in L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologia. Saggi e conferenze psichiatriche, a cura di F. Giacanelli, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 39-64 BRIA P., “Inconscio e preistoria del corpo nell’opera di Salomon Resnik”, in S. Resnik, Persona e psicosi. Il linguaggio del corpo, a cura di P. Bria, Einaudi, Torino, 2001, pp. XXVXXXVIII BURKE P., 2004, La storia culturale, Il Mulino, Bologna, 2006 CAPARARO M., “Il discorso medico sulla diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di P. Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, pp. 50-76 CHARTIER R., 1988, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 1989 DARNTON R., 1990, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano, 1994 DAVIDSON D., 2001, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina, Milano, 2003 DE CERTEAU M., 1987, Storia e psicoanalisi. 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