Per una storicità della diagnosi
Claudia Santoro e Roberto Musiari
Un discorso che abbia come obiettivo quello di sottolineare la necessità di contestualizzare
l’atto diagnostico e gli strumenti di cui esso si serve, deve partire da considerazioni prima di
tutto di ordine etimologico. Il termine diagnosi deriva dal greco antico e significa conoscereattraverso: viene subito da chiedersi quale possa essere l’oggetto di tale conoscenza e
attraverso quali filtri o risorse essa possa svilupparsi. Quel che è certo è che le riflessioni
contemporanee in campo epistemologico ci restituiscono un’idea generale di conoscenza
«sempre meno concepita come verità da scoprire, e sempre più vista come processo
costruttivo da interpretare». 1 Pur considerando le notevolissime implicazioni di un
approccio ermeneutico nello studio della conoscenza, lo scopo preliminare di questo lavoro
fa riferimento piuttosto alla possibilità di individuare tra i due poli di una qualsiasi relazione
soggetto-oggetto, l’esistenza di «uno spazio virtuale» 2 nel quale si inseriscano «codici e
modelli culturali normativi», 3 e quindi quei «significati oggettivi di riferimento» 4 in grado di
plasmare l’incontro con l’Altro: si potrebbe allora affermare, in accordo con John Searle,
che «il significato è qualcosa di più che una questione di intenzione, è anche, almeno a
volte, una questione di convenzione». 5 Questa sorta di interferenza ad opera del contesto
storico e di vita nel modo di intenzionare gli oggetti della relazione, spinge ancora oltre la
riflessione del filosofo inglese fino alla possibilità di concepire una vera e propria
intenzionalità collettiva per cui le persone non solo frequentemente «si impegnano in un
comportamento cooperativo, ma [anche] condividono stati intenzionali come credenze,
desideri ed intenzioni», 6 fenomeno in base al quale «l’intenzionalità che esiste in ogni
1
P. BENINI, R. NACLERIO, “Riflessività e ricerca sociale”, in Diagnosi della diagnosi. Ricerca criticointerpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P. Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati,
Milano, 2003, p. 10
2
L. PATARNELLO, Introspezioni. Il conflitto e l’angoscia, l’aggressività e la dipendenza, il terrore e la
catastrofe, Unipress, Padova, 2002, p. 127
3
loc. cit.
4
loc. cit.
5
J. R. SEARLE, Speech acts, Cambridge University Press, Cambridge, 1969, p. 75
6
Idem, 1995, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006, p. 33
singolo individuo ha la forma [del] noi intendiamo». 7 Nella medesima direzione, ancora più
incisive appaiono le affermazioni di Donald Davidson, secondo il quale «la stessa
possibilità del pensiero richiede standard di verità e di oggettività condivisi». 8 Si può
pensare che tali processi possano essere riferiti sia a stimoli elementari sia a dimensioni
percettive più complesse come ben dimostrato, ad esempio, dall’affascinante studio di
Stephen Kern, secondo cui, «nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della Prima guerra
mondiale, una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi,
caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo». 9 Gli influssi nel modo di
considerare queste fondamentali coordinate sensoriali andrebbero così ascritti da un lato
alle «innovazioni tecnologiche comprendenti il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il
cinema, la bicicletta, l'automobile e l'aeroplano [che] posero il fondamento materiale per
questo nuovo orientamento», 10 dall’altro agli «sviluppi culturali indipendenti quali il
romanzo del flusso di coscienza, la psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività [che]
plasmarono direttamente la coscienza» 11 per cui «il risultato fu una trasformazione delle
dimensioni della vita e del pensiero». 12 Non si hanno allora validi motivi per dubitare che
anche la percezione del sociale veda come protagonista un «soggetto della sensazione [che]
non è né un pensatore che annota una qualità, né un ambito inerte che sarebbe colpito o
modificato da essa, bensì una potenza che co-nasce a un certo contesto d’esistenza o si
sincronizza con esso», 13 accompagnato nel suo esperire non solo da un parallelo macroprocesso di selezione delle rappresentazioni culturalmente disponibili in cui «le percezioni
del sociale non sono discorsi neutri, [ma] generano strategie e pratiche (sociali, scolastiche,
politiche) che tendono ad imporre un’autorità a spese di altre», 14 ma anche da un processo
in cui le scelte dominanti finiscono col «legittima[re] un progetto riformatore e [col]
giustifica[re] per gli stessi individui scelte e comportamenti». 15 Conseguentemente acquista
validità il punto di vista per cui «le modalità dell’agire e del patire […] devono essere
sempre messe in relazione con i legami di interdipendenza che regolano i rapporti fra gli
individui e che sono modellati, differentemente nelle differenti situazioni, dalle strutture di
7
Ibidem, p. 35
D. DAVIDSON, 2001, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 68
9
S. KERN, 1983, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino,
Bologna, 1995, p. 7
10
loc. cit.
11
loc. cit.
12
loc. cit.
13
M. MERLEAU-PONTY, 1945, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2005, p. 288
14
R. CHARTIER, 1988, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Bollati Boringhieri,
Torino, 1989, p. 13
15
loc. cit.
8
potere», 16 in modo che l’analisi del problema possa così articolarsi ad un duplice livello, ma
in un rapporto di reciproca e circolare interdipendenza: lo studio della storia delle idee da un
lato, intesa come l’indagine dei grandi sistemi di pensiero, e lo studio della storia della cultura
dall’altro, comprendente le visioni del mondo e le mentalità collettive. 17 Non è il caso ora di
addentrarci in considerazioni più approfondite relative alla storia sociale della psichiatria,
argomento per il quale rimandiamo volentieri ad altre opere, tra cui gli studi foucaultiani o
il celebre lavoro di Klaus Dörner: 18 ci basti per ora osservare che così come gli uomini comuni
sono profondamente influenzati dai meccanismi di circolazione e distribuzione delle idee,
così anche i grandi uomini non sono immuni dallo spirito della propria epoca, ovvero da
quella mentalità che secondo Jacques Le Goff rappresenta ciò che un individuo ha in
comune con altri uomini del suo tempo. Con tale premessa ci posizioniamo quindi al livello
del quotidiano e dell’automatico, di ciò che sfugge ai soggetti individuali della storia perché
rivelatore del contenuto impersonale del loro pensiero. 19 Poiché il termine ha «per oggetto
[proprio] il collettivo, l’automatico, il ripetitivo», 20 si potrebbe proseguire ulteriormente con
il ragionamento in modo da approfondire l’analisi di quel rapporto circolare che coinvolge i
produttori di idee o di teorie ed i loro fruitori, poichè se da un lato sarebbero
principalmente i primi a fare la storia, dall’altro sarebbero proprio «i grandi scrittori ed i
filososofi [a dire] con maggiore coerenza, attraverso le loro opere essenziali, la coscienza
del gruppo sociale di cui fanno parte». 21 Il concetto di mentalità, forse un po’ troppo ampio
ed ambiguo, sembra riferirsi pari tempo a «ciò che è concepito e sentito, [al] campo
dell’intelligenza e dell’affettivo»: 22 tale ampiezza semantica ci conduce ad una parziale
sovrapposizione con altre definizioni tra cui quella forse ancor più nebulosa di atmosfera
culturale, che sembra racchiudere in sé una molteplicità di elementi propri ad un determinato
periodo storico tra cui peculiari simboli, sentimenti, forme o temi. 23
Si tratta ora di vedere se tutte le considerazioni precedenti possano essere applicate in
modo pertinente anche al tema dell’atto diagnostico: la risposta si rivela affermativa se si
pensa che «i sintomi che permettono [di formulare] una diagnosi dipendono dal modello
16
Ibidem, p. 20
R. DARNTON, 1990, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano, 1994, pp. 225-226
18
Cfr. : K. DÖRNER, 1969, Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, Laterza, Roma-Bari,
1975
19
J. LE GOFF, “Le mentalità: una storia ambigua”, in Fare storia, a cura di J. Le Goff e P. Nora,
Einaudi, Torino, 1981, pp. 239-255
20
CHARTIER, La rappresentazione del sociale…, op. cit., p. 37
21
Ibidem, p. 40
22
Ibidem, p. 36
23
P. BURKE, 2004, La storia culturale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 18
17
culturale di una società», 24 motivo per cui non solo «una delle caratteristiche della diagnosi
psichiatrica è la sua estrema flessibilità nell’adattarsi prontamente ad ogni mutamento delle
norme sociali», 25 ma anche per cui si assiste a quel processo attraverso il quale in psichiatria
«le diagnosi mutano nel tempo, vengano riformulate, ampliate o generate ex novo, [ed]
alcune eliminate». 26 Non si può negare il peso di «una serie di circostanze storiche, culturali
e contestuali che riconoscono legittimazione morale alle persone che praticano [o meno]
determinate condotte», 27 oppure il significato assunto dalla follia in quanto «forma generale
di trasgressione» 28 rispetto ad un dato insieme di regole nel corso dei secoli, per cui è
indispensabile analizzare «i discorsi e le definizioni, intesi non come risultato di
un’elaborazione linguistica e teorica, ma come sistemi che esercitano una funzione concreta
nella storia delle idee, delle istituzioni e delle persone». 29 Così, ancora una volta, è
fondamentale tenere conto del contesto sia per quanto riguarda la narrazione del paziente sia
per quanto riguarda i riferimenti teorici ed operativi del terapeuta, in quanto «la mancanza
di tale dimensione produce un effetto di universalizzazione della costruzione dei significati
nella conversazione legati alla comprensione delle pure intenzioni del parlante, come se
queste fossero del tutto avulse dalle circostanze convenzionali, e di conseguenza culturali,
dentro le quali si svolge la conversazione». 30 Eppure è possibile constatare come nella
formulazione di una diagnosi si tenti di confermare la propria obiettività scientifica proprio
attraverso una visione a-storica e a-contestuale, in base ad una duplice illusione di astoricità: la prima riguarda la pretesa di affrancarsi da un sensus communis da parte
dell’operatore della salute mentale, la seconda si riferisce alla possibilità di privare il proprio
interlocutore di un personale percorso storico, rinunciando così a quello «sguardo
diacronico» 31 che rende comprensibile ogni essere vivente, da cui la presunzione che un
singolo stato contenga «l’intera verità di tutti gli altri stati possibili e [che] ognuno possa
essere usato per predire gli altri qualunque siano le loro rispettive posizioni sull’asse del
tempo». 32
Senso e storia si rivelano due elementi inscindibili e l’incontro tra paziente e terapeuta,
secondo Salomon Resnik, può essere considerato soprattutto un incontro «tra due mondi
24
M. CAPARARO, “Il discorso medico sulla diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di P.
Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, p. 59
25
Ibidem, p. 54
26
Ibidem, p. 53
27
P. BARBETTA, “Il discorso filosofico della diagnosi”, in Le radici culturali della diagnosi, a cura di
P. Barbetta, Meltemi, Roma, 2003, p. 19
28
M. FOUCAULT, 1972, Storia della follia nell’Età Classica, Rizzoli, Milano, 2004, p. 478
29
BENINI, NACLERIO, “Riflessività…”, op. cit., p. 10
30
BARBETTA, “Il discorso filosofico…”, op. cit., p. 31
31
CAPARARO, “Il discorso medico…”, op. cit., p. 64
32
I. PRIGOGINE, I. STENGERS, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris,
1979, p. 75
di esistenza [o] tra due culture»: 33 a questo punto è forse necessario fare un passo indietro e
chiedersi se sia possibile una definizione di un concetto antropologico ancora più vasto di
quelli affrontati nelle righe precedenti, ovvero quello di cultura. Una definizione
particolarmente datata ma autorevole di cultura, è quella operata dall’antropologo Edward
Burnett Tylor, secondo il quale il termine indicherebbe un insieme di pratiche, di
manifestazioni dell’intelligenza umana e di abitudini, 34 oltre che un insieme di idee,
conoscenze ed esperienze relazionali strettamente connesse al proprio ambiente di
appartenenza. 35 Si può osservare come «una definizione simile […], intesa nel suo senso
etnografico più ampio», 36 includa al suo interno sia elementi concernenti aspetti di realtà
materiale, sia elementi che rimandano ad oggetti sociali maggiormente instabili 37 e quindi
metodologicamente più difficili da osservare e da interpretare. Per Tom Main,
circoscrivendo il problema all’interno della prassi terapeutica, il termine cultura sembra
indicare specificamente proprio questo secondo ordine di fenomeni, più vaghi ed incerti,
ma al tempo stesso fondamentali nel determinare la qualità complessiva dell’intervento
psichiatrico, ovvero «i modi in cui […] le persone si rapportano tra loro, come la gente
considera i ruoli degli altri, se con distacco o calore, con ostilità o disponibilità, con rispetto
o disprezzo, interesse o indifferenza». 38 La nostra esistenza, comportando un processo di
partecipazione e condivisione di senso all’interno di uno sfondo culturale comune pur nel
rispetto delle differenze individuali, può essere intesa come «un processo costante di
negoziazione di significato» 39 ed è proprio tale negoziazione a costituire, secondo Glen
Gabbard, l’essenza dell’atto diagnostico e del percorso terapeutico con il paziente grave. 40
Si è dunque partiti dalla classica definizione di cultura operata da Tylor in quanto «insieme
complesso», 41 per approdare in seguito ad un concetto più circoscritto e semiotico, 42 in cui
un sistema culturale si configura piuttosto come una «rete di significati»43 pubblicamente e
33
P. BRIA, “Inconscio e preistoria del corpo nell’opera di Salomon Resnik”, in S. Resnik, Persona e
psicosi. Il linguaggio del corpo, a cura di P. Bria, Einaudi, Torino, 2001, p. XXXVI
34
E. B. TYLOR, 1871, “Lo sviluppo della civiltà”, in Alle origini dell’antropologia, a cura di U. Fabietti,
Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 87-88
35
Idem, 1865, “Sviluppo e declino della cultura”, in Alle origini dell’antropologia, a cura di U. Fabietti,
Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 275-276
36
BURKE, La storia culturale, op. cit., p. 43
37
M. AUGÉ, 1994, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p.
11
38
T. MAIN, 1983, La comunità terapeutica e altri saggi psicoanalitici, a cura di F. Paparo, Il Pensiero
Scientifico, Roma, 1992, pp. 142-143
39
E. WENGER, 1998, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Raffaello Cortina,
Milano, 2006, p. 61
40
G. O. GABBARD, E. P. LESTER, 1995, Violazioni del setting, Raffaello Cortina, Milano, 1999, pp.
55-56
41
C. GEERTZ, 1973, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 10
42
Ibidem, p. 11
43
loc. cit.
potenzialmente condivisibili: un insieme di interpretazioni soggettive, insomma, che il clinico
deve a sua volta interpretare in modo che vi sia pari dignità tra interpretante ed
interpretato. Così, come il linguaggio ingenuo del paziente o persino una costruzione delirante
contengono una propria verità connessa ad una microstoria o ad un microcosmo, 44 anche il
linguaggio scientifico deve rinunciare ad una pretesa di universalità costituendo null’altro che
«un passaggio di significati costruiti nel sistema di relazioni della ricerca, verso il sistema di
relazioni rappresentato dalla comunità scientifica e da tutti i possibili fruitori della ricerca
stessa», 45 o ancora più incisivamente «una forma di traduzione da un linguaggio all’altro». 46
Pertanto, la possibilità di pensare ogni incontro tra terapeuta e paziente in quanto evento,
significa riferirsi ad un concetto non solo fenomenologico ma anche storico e culturale, in
quanto il senso della relazione non può che emergere attraverso due soggettività uniche ed
irripetibili, inscrivendosi nell’ordine dell’incrocio tra due storie di vita interiori. 47 Non è certo
nostra intenzione negare l’importanza operativa che assume ciascun atto diagnostico nella
pratica psichiatrica di ogni giorno, ma a questo punto si possono cogliere i limiti di un
discorso che cerca di «trovare il significato del comportamento delle persone leggendolo
attraverso una griglia precostituita», 48 limiti ancor più tangibili se si pensa a quella specifica
opzione che ci permette di mantenere un atteggiamento ricettivo nei confronti del
«contesto in cui emerge [tale comportamento], per comprendere come attori competenti
sviluppino condotte di vita possibili»: 49 così, preoccupandoci del «problema di connettere
l’azione con il significato piuttosto che il comportamento con i suoi determinanti», 50
l’azione stessa acquista il valore di simbolo, cioè «la capacità di esprimere la soggettività
dell’attore», 51 azione inserita quindi in una situazione, cioè «situata in uno scenario culturale,
che risponde agli stati intenzionali, reciprocamente interattivi, di coloro che vi prendono
parte». 52 Anche la disponibilità, raccomandata da Nancy McWilliams, da parte del clinico, a
riesaminare le proprie conclusioni alla luce di nuove informazioni, 53 ci introduce alla
44
Cfr.: C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino, 1976
BENINI, NACLERIO, “Riflessività…”, op. cit., p. 13
46
loc. cit.
47
L. BINSWANGER, 1955, “Funzione di vita e storia della vita interiore”, in L. Binswanger, Per
un’antropologia fenomenologia. Saggi e conferenze psichiatriche, a cura di F. Giacanelli, Feltrinelli,
Milano, 2007, p. 56
48
M. PAKMAN, “Poetica e micropolitica nelle pratiche di salute mentale: i margini invisibili”, in
Diagnosi della diagnosi. Ricerca critico-interpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P.
Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, p. 37
49
Ibidem, pp. 37-38
50
C. GEERTZ, 1977, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 44
51
L. GATTAMORTA, Teorie del simbolo. Studio sulla sociologia fenomenologica, Franco Angeli,
Milano, 2005, p. 34
52
loc. cit.
53
N. MCWILLIAMS, 1994, La diagnosi psicoanalitica. Struttura della personalità e processo clinico,
Astrolabio, Roma, 1999, p. 38
45
possibilità di poter pensare l’incontro terapeuta-paziente in quanto percorso, anzi in quanto
percorso comune: ecco dunque delinearsi sempre più un’apertura in favore della dimensione
della storicità, elemento per altro essenziale e costitutivo del modello psicoanalitico, così
come evidenziato da Michel de Certeau in riferimento proprio a quel meccanismo che
«mette in gioco […] tempo e […] memoria», 54 per cui il passato, e quindi la propria storia,
premono costantemente per riaffiorare in quanto rimosso e riaprire così un discorso altrove
sospeso. Ma ecco emergere parimenti anche la consistenza di quel legame che «unisce
dall’interno [la] psicoanalisi e [il] culturale», 55 per scoprire che «proprio nei fenomeni
culturali è possibile trovare l’antecedente ed il luogo principale del transfert», 56 o meglio
«nella relazione multipolare con il culturale, con la creazione o più precisamente con il
messaggio culturale». 57
A conclusione di questo scritto e a titolo di esemplificazione, verranno ora riportate
alcune acute osservazioni contenute in due lavori piuttosto recenti ad opera rispettivamente
di Silvia Gatti e di Giovanni Stanghellini. Nel primo studio l’autrice affronta il problema
della diagnosi di ADHD nei bambini in età scolare mettendo subito in evidenza come le
percentuali d’incidenza del disturbo siano estremamente variabili da un Paese all’altro. 58
Inoltre, l’enfasi con cui si considera il ruolo dei farmaci nel trattamento del disturbo,
rappresenta per l’autrice un’occasione ulteriore per lasciare «inconsiderato il contesto
relazionale e ambientale, che in ogni caso non viene messo in discussione come ipotetica
concausa»: 59 in base a tali presupposti «l’errore di comportamento è letto come tale perché
il bambino si comporta secondo le regole autonome della propria struttura, in un sistema
con il quale tale struttura non è sincronizzata». 60 Un altro esempio di come l’uomo (anche
in campo professionale) finisca con l’ordinare la realtà in base alla cultura, alle ideologie e ai
ruoli del gruppo sociale cui appartiene, ci è fornito da Stanghellini, il quale sviluppa
un’analisi critica del criterio B (disfunzione sociale ed occupazionale) proposto dal Manuale
statistico e diagnostico delle malattie mentali, principio necessario per fare diagnosi di
schizofrenia; secondo l’autore, seguendo tale prescrizione, si rischierebbe di affidarsi ad «un
approccio meramente funzionalista che si limita a valutare i risultati di comportamenti
54
M. DE CERTEAU, 1987, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino,
2006, p. 78
55
A. LUCHETTI, Una malattia dell’autoritratto: la melanconia, “Rivista di Psicoanalisi”, XLVII
(2001), 4, p. 749
56
J. LAPLANCHE, “Del transfert: la sua provocazione da parte dell’analista”, in Il primato dell’altro in
psicoanalisi, a cura di A. Luchetti, Biblioteca by ASPPI, Bari-Roma, 2000, p. 530
57
loc. cit.
58
S. GATTI, “La costruzione sociale della diagnosi del Disturbo dell’attenzione e iperattività”, in
Diagnosi della diagnosi. Ricerca critico-interpretativa e categorie diagnostiche, a cura di P. Barbetta, P.
Benini, R. Naclerio, Guerini e Associati, Milano, 2003, p. 123
59
Ibidem, p. 125
60
Ibidem, p. 139
disfunzionali […] e non le loro motivazioni». 61 Tale attenzione per il problema dell’efficienza
in un mondo sempre più dominato dall’ideale razionale-produttivo, appare «intrisa di
giudizi di valore» 62 di matrice culturale e sempre più lontana dalla riflessione circa i
significati soggettivi, superficialità, quest’ultima, segnalata anche da Jerome Wakefield per
quanto riguarda la diagnosi di DDM. 63
Per finire, una rinnovata consapevolezza circa la parzialità delle nostre osservazioni
cliniche, deve farci riflettere sul fatto che «sono le nostre teorie a decidere che cosa
possiamo osservare», 64 e che di conseguenza «ogni elaborazione teorica è una espressione
riflessa dell’oggetto preso in considerazione o dello spazio guardato». 65 Ciascun terapeuta
allora, anch’egli figlio del proprio tempo e affascinato dai miti che ciascuna epoca storica è
in grado di promuovere, non può che ricorrere ad un’etica della diagnosi psichiatrica per cui
essa, secondo le belle parole di Lodovico Patarnello, «non pensa di affidarsi alle
nomenclature ed alle recenti nosografie, [e non] cerca la neutralità nei superiori valori del
dover essere, ma ribadisce il primato della soggettività, anzi, propriamente, della natura
intersoggettiva della diagnosi». 66
61
G. STANGHELLINI, Psicopatologia del senso comune, Raffaello Cortina, Milano, 2006, p. 90
loc. cit.
63
J. C. WAKEFIELD, 1998, “Significato e melanconia: perché il DSM-IV non può ignorare (del tutto) il
sistema intenzionale del paziente”, in Dare un senso alla diagnosi, a cura J. W. Barron, Raffaello Cortina,
Milano, 2005, p. 59
64
BURKE, La storia culturale, op. cit., p. 100
65
S. RESNIK, La visibilità dell’inconscio, Teda, Castrovillari, 1994, p. 33
66
PATARNELLO, Introspezioni…, op. cit., pp. 39-40
62
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