Generale Introduzione p. 2 Capitolo 1 La politica estera del fascismo

Indice Generale
Introduzione
p. 2
Capitolo 1 La politica estera del fascismo
p. 8
Capitolo 2 Il Medio Oriente tra le due guerre
2.1 L'accordo Sykes-Picot e la dichiarazione Balfour
p. 35
2.2 La fine dell'Impero Ottomano
p. 42
2.3 L'Egitto
p. 45
Capitolo 3 La politica italiana nel mondo musulmano
p. 47
3.1 Aspetti culturali: l'Istituto per l'Oriente, l'orientalismo e la propaganda p. 58
3.2 Radio Bari
p. 71
3.3 Altri mezzi di propaganda
p. 80
3.4 Una nuova fase dei rapporti con il mondo arabo-musulmano
p. 82
Capitolo 4 Il caso delle Yemen
p. 114
Conclusioni
p. 153
Bibliografia
p. 160
Ringraziamenti
p. 168
1
Introduzione
Dopo la prima guerra mondiale, per motivi più o meno giustificabili, l'Italia ed li
Medio Oriente si trovarono accomunati dalla delusione per lo svolgimento del
Congresso di Versailles e per la sistemazione geopolitica del mondo post bellico.
In Italia il mito della “vittoria mutilata” favorì la nascita e lo sviluppo di quel
revisionismo che sarà alla base di molte delle scelte di politica estera del
fascismo e che troverà nel Medio Oriente e nell'Africa Orientale i luoghi deputati
a fornire, con modalità diverse, le risposte alle richieste di Mussolini.
Allo stesso modo il mondo arabo-musulmano aveva più di un motivo per ritenersi
poco soddisfatto della sistemazione post bellica: “in quasi tutti i paesi islamici la
celebre dichiarazione in 14 punti del presidente americano Wilson dell'8 gennaio
1918 fu interpretata come una conferma del diritto all'indipendenza. In seguito
alla convocazione delle conferenze di pace di Versailles e Parigi, giunsero in
Francia numerose delegazioni provenienti dalle più diverse regioni islamiche per
strappare la promessa di indipendenza. […] Le delegazioni islamiche dovettero
riconoscere che il diritto all'autodeterminazione nazionale, celebrato dalle
potenze vincitrici, valeva soltanto per il mondo europeo. In linea con tale
interpretazione, la Società delle Nazioni, che era stata creata di recente,
cominciò ben presto a intervenire in veste di mandatario nei territori mediorientali
dell'Impero ottomano, conquistati dagli alleati nel corso della guerra.” 1 I mandati
avevano frustrato le speranze di indipendenza e scelte come quella del “focolare
nazionale” ebraico in Palestina, imposta dalla dichiarazione Balfour del 1917,
avevano causato nuovi motivi di scontento che, di fatto, non trovano a tutt'oggi
una soluzione definitiva.
La nuova situazione politica, venutasi a creare con la mancanza del filtro
dell'Impero Ottomano tra Europa e Medio Oriente, lasciava spazio a tentativi di
penetrazione dell'influenza italiana, specialmente in quei paesi che vivevano una
indipendenza di fatto: Yemen ed Arabia Saudita. Questi paesi, geograficamente
prospiciente alla colonia italiana dell'Eritrea, rappresentavano in un certo senso
un approdo naturale per la politica fascista, tanto che anche i governi precedenti
avevano mostrato interesse per la sponda orientale del Mar Rosso. E proprio il
controllo di questo mare, così importante per le comunicazioni verso l'estremo
oriente, potrebbe essere uno dei motivi che spinse l'Italia a cercare una
1
R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 59-60
2
affermazione della propria presenza, profittando della posizione vantaggiosa
acquisita con il controllo dell'Eritrea. Lo Yemen e, più tardi, l'Arabia Saudita
divennero oggetto dell'interesse del governo di Roma, anche perché la loro
particolare situazione politica permetteva una libertà di azione maggiore rispetto
a quella che si poteva avere nei paesi sotto mandato, controllati da Francia ed
Inghilterra.
Secondo molti storici, la politica italiana nel mondo islamico fu sempre svolta in
funzione anti-inglese, non in prospettiva di uno scontro diretto, ma con lo scopo
di ottenere concessioni e relazioni sempre migliori con il governo di Londra.
“Sino alla decisione di Mussolini di entrare in guerra la politica araba dell'Italia fu
direttamente dipendente dall'andamento dei rapporti italo-inglesi, dai tentativi di
Mussolini di addivenire al tanto sospirato “accordo generale” con Londra e,
quindi, dalla necessità di non assumere impegni troppo rigidi e compromettenti
con i nazionalisti arabi. […] sino al maggio 1940 la simpatia dell'Italia per i
“musulmani del mondo intero” e i maneggi con gli arabi non costituirono che un
deterrente generico, una prospettiva strumentale coltivata in varie forme per
premere, creandole difficoltà, su Londra, ma da sacrificare sull'altare dell'accordo
generale.”2
Di avviso simile il parere di Lucia Rostagno: “quella che è stata definita la “non
politica” dell'Italia fascista nei confronti del mondo arabo si limitò a mantenere
aperti i collegamenti con i gruppi e i movimenti nazionalisti attivi nell'area,
essenzialmente in una prospettiva di disturbo nei confronti dell'Inghilterra e della
Francia”.3 Più avanti si precisa però che “l'assenza di una strategia ben definita
nei confronti del mondo arabo si risolse nell'adozione, di volta in volta e caso per
caso, degli interventi ritenuti più idonei alla politica di “prestigio” dell'Italia. La
“non politica” fu dunque, a mio avviso, la difesa pura e semplice degli interessi
imperialistici italiani, che potevano anche, incidentalmente, coincidere con gli
interessi di altri paesi.”4
Opinione simile esprime Luigi Goglia: “il governo fascista, anche quando avrà
l'opportunità, tramite aiuti in denaro e in armi, di recare un duro colpo al Regno
Unito in Palestina continuando ad aiutare la rivolta araba non lo farà se avrà
2
3
4
R. De Felice, Arabi e Medio Oriente nella strategia politica di guerra di Mussolini (1940-1943), in “Storia Contemporanea”,
Vol. VI, 1986, p. 1257
L. Rostagno, Terrasanta o Palestina? La diplomazia italiana e il nazionalismo palestinese (1861-1939), Studi Orientali
XIV, Roma 1996, p. 111
Ivi, pp. 111-112
3
delle aspettative immediate dalla Gran Bretagna o se avrà firmato con essa un
accordo. E questo è un esempio di come la politica palestinese in primo luogo,
ma tutta la politica araba del fascismo abbia avuto un carattere meramente
strumentale per altri fini. Ci sembra tuttavia che in quest'azione verso gli arabi
del governo fascista ci sia una differenza di atteggiamento tra Mussolini e la
diplomazia italiana o almeno i diplomatici coinvolti. Mussolini negli anni Trenta (e
Ciano con lui) è essenzialmente opportunista e strumentalizzatore, i diplomatici
italiani invece sembrano pensare i contatti, le intese con gli arabi, le sovvenzioni
a questi accordate, la propaganda verso il mondo arabo ed islamico e la stessa
politica indigena in Libia come parti, come momenti di un'unica e coerente
politica araba dell'Italia, avente un suo carattere positivo di presenza e di
espansione dell'influenza politica e non soltanto come mezzo di pressione sulla
Gran Bretagna tramite azioni di disturbo di più o meno grande entità.” 5
Limitatamente al periodo che va dal 1923 al 1928 e soltanto riguardo lo Yemen, il
Carocci sostiene che “il governo di Roma aveva guardato con interesse allo
Yemen, considerato come una testa di ponte per penetrare nella parte
meridionale della penisola arabica, prospiciente, al di là del Mar Rosso, la
colonia Eritrea. Quest'opera di penetrazione aveva un carattere sostanzialmente
ostile alla Gran Bretagna, interessata a restare la sola potenza dominatrice della
penisola arabica per il suo carattere strategico di via delle Indie.” 6
Secondo lo stesso autore atteggiamento diverso invece sarebbe stato quello
assunto in Egitto: “Palazzo Chigi riteneva che, << sia nell'interesse delle nostre
colonie confinanti, sia nei riguardi dei nostri interessi generali islamici, un
rinnovato rafforzamento eventuale del nazionalismo egiziano verrebbe a
costituire un danno ed un pericolo >>, e mirava a una intima collaborazione con
l'Inghilterra contro il movimento nazionalista, per ottenere in compenso dalla
“Grande Protettrice” un consolidamento delle posizioni italiane in Egitto. Questa
politica fu particolarmente evidente alla fine del 1926 e nel corso della prima
metà del 1927, quando Mussolini volle rendere ancora più intime le relazioni
generali italo-britanniche, con spiccato carattere antisovietico e, nello stesso
tempo, impartiva la direttiva di preparare un'offensiva decisiva in Cirenaica
contro le forze senussite. […] Il ministro al Cairo Paternò, pur condividendo
5
6
L. Goglia, Il Mufti e Mussolini: alcuni documenti italiani sui rapporti tra nazionalismo palestinese e fascismo negli anni
trenta, in “Storia Contemporanea”, Vol. VI, 1986, p. 1209
G. Carocci, La politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969, p. 222
4
pienamente la sostanza di queste direttive anglofile, avrebbe preferito un
atteggiamento un po' meno remissivo nei confronti della stessa Inghilterra, di cui
sottolineava le mire esclusiviste. In particolare, egli avrebbe desiderato che
Roma, nei suoi rapporti con Londra, impostasse contemporaneamente il
problema della penetrazione in Egitto e il problema della penetrazione nello
Yemen, servendosi di quest'ultimo come di eventuale elemento di pressione e di
scambio a favore del primo.”7
Uno degli obiettivi del presente lavoro è capire quanto ci sia di vero in queste
affermazioni e se si possa eventualmente parlare di una politica autonoma di
Roma, che puntasse ad ottenere dei successi che andassero al di là della
semplice merce di scambio con la Gran Bretagna. Tenteremo anche di stabilire
se i presunti obiettivi anti-inglesi possano rappresentare il filo conduttore di tutta
la politica araba o se ci siano delle differenze sostanziali a seconda delle diverse
regioni mediorientali. Ad esempio, il controllo del Mar Rosso, fondamentale per
le comunicazioni imperiali inglesi, era un obiettivo soltanto strategico, di
pressione sul governo britannico oppure le motivazioni economico commerciali
italiane avevano qualche ragion d'essere?
Aveva ragione l'ambasciatore Ronald Graham quando, nel corso delle
conversazioni del 1927 a Roma, convocate per trovare un accordo tra Italia e
Gran Bretagna sulla politica da seguire nella penisola araba, esclamò: “ma voi ci
state creando fra l'Eritrea e lo Yemen un nuovo canale di Suez!” 8? Nello sviluppo
della politica italiana nella penisola arabica bisognerà anche tentare di stabilire
quanto contassero gli stimoli provenienti dai paesi interessati, ovvero quali e
quante iniziative prese da Roma derivarono dagli input forniti da Yemen e Arabia
Saudita, che potevano avere degli interessi nell'ottenere la collaborazione
dell'Italia.
Attraverso l'esame della politica e della propaganda italiana nel mondo arabomusulmano cercheremo di capire meglio quali furono i reali obiettivi. A questo
proposito un aiuto potrebbe venire dall'esame della parabola degli studi islamici
in Italia: dopo il risveglio verificatosi nella seconda metà del XIX secolo,
culminato con la nomina di Michele Amari9 a ministro della pubblica istruzione nel
governo Farina nel 1862, emerse la figura di Ignazio Guidi, portatore di una
7
8
9
Ivi, pp. 219-220
R. Quartararo, L'Italia e lo Yemen. Uno studio sulla politica di espansione italiana nel Mar Rosso (1923-1937), in “Storia
Contemporanea”, Vol. VI, 1986, p. 828
Autore della Storia dei Musulmani in Sicilia
5
nuova tradizione scientifica, la cui vicenda si lega a doppio filo con l'inizio del
colonialismo italiano.10 Nel 1885 venne incaricato di tenere la cattedra di storia e
lingue dell'Abissinia, istituita in seguito all'occupazione di Massaua.
Alla sua scuola si formarono, direttamente o indirettamente, tutti gli studiosi che
caratterizzeranno l'epoca fascista: Giuseppe Gabrieli, Giorgio Levi della Vida
(uno degli undici professori universitari che non accettarono il giuramento
fascista), Carlo Conti Rossini, Enrico Cerulli, Leone Caetani e Carlo Alfonso
Nallino.11 Gli studi islamici raggiunsero l'apice proprio durante il ventennio
fascista, grazie soprattutto alla costituzione dell'Istituto per l'Oriente di Roma, che
svolse una importante opera finalizzata alla conoscenza del mondo musulmano.
Un aspetto importante riguarda il coinvolgimento dell'attività dell'istituto nella
politica islamica del fascismo, su cui tenteremo di far luce.
Allo stesso modo, anche se con le ovvie limitazioni derivanti dall'impossibilità di
accedere alle fonti prodotte dai paesi interessati, interessa capire quale fosse la
percezione del fascismo e quanto incidesse, su di essa, il rapporto conflittuale
con le potenze mandatarie. Ci proponiamo di verificare in che modo “la destra
islamica si distinse per il suo atteggiamento di naturale simpatia per i movimenti
fascisti dell'Europa centrale” e se “ciononostante l'ideologia fascista degli anni
trenta ebbe scarso successo nelle società islamiche.
Una corrispondenza di gran lunga superiore esisteva tra gli ideali della destra
islamica e le linee di fondo della politica fascista italiana sotto Mussolini. Nella
visione del mondo della destra islamica trovavano riscontro soprattutto il sistema
corporativo di rappresentanza sociale e l'idealizzazione della storia. Agli occhi
del mondo islamico, il nazionalsocialismo fu invece fin dall'inizio un fenomeno
oscuro: il razzismo e l'antisemitismo dei nazionalsocialisti costituivano una
barriera culturale difficilmente superabile.” 12
Un altro aspetto che merita attenzione nello sviluppo delle relazioni tra mondo
arabo-musulmano e fascismo riguarda le motivazioni che spinsero, in
determinati frangenti, i paesi islamici a mostrare interesse e simpatia nei
confronti dell'Italia: semplice idea che “il nemico del mio nemico è mio amico” o
c'erano affinità che andavano oltre questa sorta di cinico opportunismo?
Altrettanto importante sarà esaminare se davvero in seguito alla riconquista della
10 B. Soravia, Ascesa e declino dell'orientalismo scientifico in Italia, in “Il mondo visto dall'Italia. Atti del convegno annuale
della società italiana per lo studio della storia contemporanea”, Milano 2004, pp. 271-274
11 Ibidem
12 R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo, cit., p. 133
6
Libia nel mondo islamico “una presa di posizione a favore del fascismo
equivaleva di fatto a un'approvazione della politica di insediamento coloniale in
Libia. Alla ricezione del fascismo venne così posto un chiaro limite politico. […]
Ma la ricezione positiva del fascismo cessò solo nel 1938, quando nell'ambito
dell'operazione “Ventimila”, cioè l'immigrazione a scopo propagandistico di
ventimila coloni italiani in Libia, prese il via una politica di insediamento coloniale
in grande stile.”13
Il presente lavoro è basato sulle fonti di archivio del ministero degli esteri, in
particolare per quanto riguarda lo Yemen e l'Arabia Saudita: di grande utilità
sono risultati soprattutto i rapporti che venivano redatti dai diplomatici residenti
nel regno saudita e dai medici che, in mancanza di una rappresentanza ufficiale,
oltre a dirigere la missione sanitaria yemenita fungevano da intermediari politici.
Anche i documenti del Gabinetto segreto, in cui è conservata, pur con molte
lacune dovute al deterioramento delle carte, la corrispondenza di alcuni
personaggi che funsero da intermediari con il mondo arabo, è risultata utile per
sondare quale fosse il clima vigente intorno alle scelte politiche italiane.
Fondamentale, per quanto riguarda il punto di vista arabo-musulmano, in
mancanza di fonti dirette, la rassegna stampa della rivista Oriente Moderno, che
consente di avere un quadro molto ampio di ciò che accadeva in Medio Oriente
e dei dibattiti politico-ideologici che vi avevano luogo. Per quanto riguarda la
posizione inglese, ci siamo affidati soprattutto alla storiografia, data l'impossibilità
di consultare le fonti di archivio; alcuni documenti reperibili online non sono infatti
risultati sufficienti per avere un quadro organico del punto di vista di Londra.
13 Ivi, pp. 135-136
7
1.La politica estera del fascismo
Nel primo intervento parlamentare da capo del governo e ministro degli esteri ad
interim, Mussolini dedicava una parte importante del suo discorso alla politica
estera. Più che ai deputati il discorso era diretto all'esterno, alle varie cancellerie
europee che si domandavano quale sarebbe stata la linea politica del governo
fascista appena insediato, dopo quella operazione per metà politica e per metà
militare che era stata la marcia su Roma.
Dal quadro disegnato da Mussolini emergeva una posizione moderata: i trattati
di pace sarebbero stati onorati, anche se non erano considerati eterni ed
irreparabili e, di conseguenza, passibili di revisione qualora si fossero rivelati
inadeguati. L'Italia rimaneva fedele alle alleanze di guerra, ma chiedeva che i
suoi alleati valutassero al meglio la sua posizione: la condizione nel
Mediterraneo e in Adriatico era peggiorata ed alcuni dei diritti fondamentali
venivano ignorati. Il paese non aveva ricevuto colonie né fonti di materie prime
ed era oppresso dai debiti contratti per far fronte alla causa comune.
La permanenza dell'Italia nell'Intesa restava condizionata alla soluzione di questi
problemi e al riconoscimento di uguali diritti per tutti i membri della coalizione. I
toni erano moderati eppur non privi di quelle rivendicazioni che rivestiranno un
ruolo via via crescente nella politica estera del governo fascista. Su larga scala
la linea prudente si confermerà per circa un decennio, mentre in alcune
situazioni particolari si sceglierà una condotta più intraprendente, come avremo
modo di vedere nel dettaglio.
Uno dei motivi che viene ritenuto fondamentale per la linea prudente dei primi
anni di governo Mussolini è la precaria situazione interna, che richiedeva il
concentramento degli sforzi sul consolidamento del potere. In più, la situazione
internazionale si andava normalizzando dopo la bufera della guerra ed il non
facile immediato dopoguerra.14 L'Europa e l'America si avviavano verso un
periodo di stabilità internazionale e di crescita economica che non offrivano il
fianco a manovre eversive né tanto meno a politiche revisioniste. I trattati di pace
potevano essere criticati ma non sovvertiti.
Il primo vero test per la politica estera italiana coincise con la crisi di Corfù:
nell'agosto 1923 una missione militare italiana incaricata dai paesi dell'Intesa di
14 G. Mammarella – P. Cacace, La politica estera dell'Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Feltrinelli, Bari 2010, pp. 8587
R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1996, p. 323
8
tracciare i confini greco-albanesi venne attaccata da elementi nazionalisti locali e
quattro dei suoi membri, tra cui il capo delegazione generale Enrico Tellini,
vennero uccisi.
Due giorni dopo Mussolini inviava un ultimatum alla Grecia in cui si chiedeva la
condanna a morte dei colpevoli ed una serie di risarcimenti estremamente
onerosi. Il governo greco si mostrò disponibile ad aderire soltanto parzialmente
alle richieste ricevute, ragion per cui Mussolini inviò una squadra navale a Corfù
che, dopo aver bombardato l'isola, provvide a sbarcare truppe che occuparono
l'isola.
La prova di forza che il futuro dittatore aveva voluto dare viene interpretata come
finalizzata a dimostrare al paese la determinazione a difendere il prestigio
nazionale;15 ad ogni modo il capo del governo dovette presto riconoscere di aver
esagerato e, pur rifiutando che la questione venisse risolta in seno alla Società
delle Nazioni, che avrebbe dovuto essere la sede naturale per un contrasto tra
due membri, accettò l'intervento inglese e quello francese per dirimere la
questione. Nella versione ufficiale Mussolini sosteneva che non c'era stato alcun
atto ostile da parte italiana, ma soltanto desiderio di avere soddisfazione del
crimine subito. Arrivò anche a minacciare una uscita dell'Italia dalla Società delle
Nazioni poiché per lui era inammissibile rinunciare al prestigio e agli interessi
nazionali.16
Una piccola digressione riguardo la Società delle Nazioni: il documento istitutivo
venne inserito nel trattato di Versailles, che sanciva la pace tra la Germania e le
nazioni vincitrici del conflitto; in 26 articoli esso dettava le regole che avrebbero
dovuto consentire la soluzione pacifica delle controversie, prima che qualsiasi
stato membro si sentisse legittimato ad utilizzare la forza, e le regole che
dovevano reprimere qualora uno degli stati membri o altri stati, non appartenenti
all'organizzazione, si fossero posti in violazione del patto, ovvero avessero fatto
ricorso alla guerra.17
Il sistema della Società delle Nazioni, basato sul principio della sicurezza
collettiva, era un nobile segno della propensione a tentare di istituzionalizzare i
rapporti di forza internazionali sino a inserirli in uno schema giuridico capace di
dominare la potenza e di dare la garanzia di dare una risposta repressiva
15 G. Mammarella – P. Cacace, Op. cit., p. 89
16 E. Costa Bona – L. Tosi, L'Italia e la sicurezza collettiva: dalla Società delle nazioni alle Nazioni Unite, Morlacchi 2007,
pp.57-58
17 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Roma 2000, p. 13
9
adeguata a bloccare le trasgressioni del diritto. La mancata ratifica, da parte del
senato americano, del trattato di Versailles privò la Società delle Nazioni
dell'unica forza esterna all'Europa capace di mediare le rivalità tradizionali del
vecchio mondo. La voluta esclusione dell'Unione Sovietica, l'assenza della
Germania sconfitta e il relativo disinteresse con cui il Giappone guardava ai
problemi relativi a zone al di fuori dell'area del Pacifico fecero si che la Società si
trovasse sotto l'influenza delle principali potenze vincitrici, Gran Bretagna e
Francia. Il peso politico che le due nazioni conquistarono all'interno
dell'organizzazione le fece acquistare il carattere di istituzione asservita agli
interessi delle maggiori potenze imperialistiche europee. 18 Questo elemento era
alla base delle contestazioni mosse da Mussolini; tornando alle vicenda di Corfù,
alla fine la conferenza degli ambasciatori dell'Intesa si pronunciò per un'indennità
di cinquanta milioni di lire a favore dell'Italia, oltre alle scuse da parte del governo
greco. A fine settembre le truppe italiane lasciarono Corfù e la situazione venne
definitivamente ricomposta.
L'intera vicenda procurò però le prime diffidenze all'estero riguardo il fascismo:
se inizialmente le reazioni alla marcia su Roma e alla presa del potere da parte
di Mussolini erano state tutto sommato caute, la vicenda di Corfù insinuava dei
dubbi nei governi europei; il Foreign Office britannico riteneva che quanto
avvenuto fosse la testimonianza che il duce non riconosceva altra legge
all'infuori della sua e che fosse incapace di gestire e convogliare verso obiettivi
pacifici il consenso di cui godeva in patria. 19
Dopo il delitto Matteotti si crearono due schieramenti in Europa: quello di coloro i
quali, come Francia ed in parte Germania, si auguravano una caduta del
fascismo e quello dei conservatori inglesi che, pur non essendo filo-fascisti,
ritenevano quello di Mussolini un esperimento interessante, adatto ad una
nazione come l'Italia, ancora immatura per la democrazia. 20
Al di là dell'episodio specifico, nei primi anni di governo Mussolini la politica
estera venne interamente subordinata a quella interna, e per questo veniva
presentata, come accadde per la crisi di Corfù, come volta a rinnovare e
rinforzare la dignità ed il prestigio della nazione nel mondo. In pratica però non
esisteva un programma specifico e lo stesso capo del governo, prima della
18 Ivi, p. 14
19 R. De Felice, Op. cit., p.327
20 Ivi, p.330
10
marcia su Roma, aveva parlato in termini molto vaghi di affari esteri, e quasi
sempre in termini di colonialismo, imperialismo e revisionismo rispetto alla
situazione creata dalla conferenza di Versailles. 21 Riteniamo quindi utile fare un
passo indietro per capire quali fossero le idee di Mussolini.
Al termine della prima guerra mondiale, i quattordici punti enunciati in un celebre
messaggio al congresso degli Stati Uniti dal presidente Wilson l'8 gennaio 1918,
che avrebbero dovuto essere fondamentali nella ristrutturazione del mondo al
termine del conflitto, trovarono l'appoggio incondizionato di Mussolini. L'Italia,
diceva il futuro dittatore, era la meno imperialista delle nazioni; nessuno,
nazionalista o conservatore, era imperialista. Persino i germanofili e i neutralisti
si aggrappavano alle tesi wilsoniane, non perché ci credessero, ma perché
speravano, attraverso di esse, di salvare la Germania dalle inevitabili
conseguenze della sua disfatta.
Nel quadro dipinto da Mussolini la coscienza italiana era unanime nel ripudiare
gli imperialismi di aggressione, anche se questo non esclude il desiderio di
espansione, che può esprimersi attraverso le gare pacifiche dell'ingegno e del
lavoro. L'Italia respingeva tutti gli imperialismi territoriali o militari, nessuno
escluso. Questo per ragioni di principio, ma anche per il fatto che, mentre
dell'ipotetico imperialismo italiano nessun popolo avrebbe avuto a soffrire, quello
aggressivo e pazzesco delle altre nazioni rappresentava un pericolo per la
nazione italiana. I democratici italiani sembravano invece ignorare tali pericoli e
venivano accusati da Mussolini di bersagliare l'imperialismo della propria
nazione e ignorare o favorire quello degli altri. 22
Questo idillio con il presidente Wilson non durò a lungo e si incrinò bruscamente
quando apparve chiaro che l'Italia non avrebbe ottenuto, dai trattati di pace
ancora in corso, Fiume. A partire dal 25 aprile 1919 gli attacchi al presidente
americano e agli alleati si susseguono, in una serie di articoli infuocati pubblicati
sul Popolo d'Italia23, giornale diretto da Mussolini fin dall'uscita del primo numero,
il 15 novembre 1914.
Alla fine del 1919 Mussolini appariva ormai convinto della necessità di una
politica estera che guardasse ad oriente, per emancipare la nazione dalle
plutocrazie occidentali, soprattutto per quanto riguardava le importazioni e, più in
21 Ivi, p.336, vedi anche G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista (1918-1923), Laterza 1968, pp.290 e ssg.
22 Opera Omnia di Benito Mussolini, A cura di E. e D. Sismel, Vol.XII pp. 113-115. La Fenice, Firenze 1953. D'ora in avanti
Mussolini
23 Mussolini, vol. XIII, pp.80-89
11
generale, l'espansione economica.24
Comincia quindi in questo periodo il malcontento di Mussolini per quello che
riteneva, seguendo la tesi della “vittoria mutilata” formulata da D'Annunzio, il
mancato riconoscimento delle promesse fatte all'Italia prima del suo ingresso in
guerra. Da qui una serie di attacchi agli alleati, al loro imperialismo che
contraddiceva apertamente i quattordici punti di Wilson. Quest'ultimo ovviamente
divenne bersaglio delle critiche più feroci, reo di non aver saputo, o voluto,
mantenere le linee guida della sua politica.
Con il patto di Londra firmato il 26 aprile del 1915 le forze dell'Intesa avevano
promesso all'Italia il Trentino, l'Alto Adige fino al Brennero, la Venezia Giulia e la
penisola istriana, con l'esclusione di Fiume, un terzo della Dalmazia, la piena
sovranità su Valona e il protettorato sull'Albania, la piena sovranità sul
Dodecaneso, una zona di influenza nell'area di Adalia (nella penisola turca) e
aggiustamenti dei confini coloniali qualora, dopo la guerra, la Gran Bretagna e la
Francia avessero ampliato i loro domini coloniali. In realtà, la maggior parte delle
richieste italiane erano state accolte, e nel 1924 anche Fiume sarà acquisita alla
piena sovranità italiana. Tuttavia la percezione dei limiti del nuovo assetto e dei
pericoli in esso intrinseci alimentavano la tesi di D'Annunzio, al punto che essa
mise radici nel paese e favorì il diffondersi del nazionalismo e del revisionismo
italiani, nel cui alveo avrebbero attecchito il fascismo e la politica estera di
Mussolini.25
Se la tesi della “vittoria mutilata” prese piede, non altrettanto si può dire della
coscienza coloniale: durante la conferenza di Versailles, Colosimo ammise che
“sulla questione coloniale l'opinione pubblica è stata finora inerte”. Ancora su
questo argomento, nel gennaio 1919 Orlando disse a Rodd: “agli italiani non
importa niente dell'Asia Minore né di colonie africane.” 26
D'altronde anche nel corso della guerra le vicende coloniali giocarono un ruolo
marginale per l'Italia: il generale Luigi Cadorna si rifiutò sempre di prendere in
considerazione l'ipotesi di rafforzare le difese militari delle colonie o di destinarvi
delle truppe suppletive, poiché una simile scelta avrebbe indebolito il fronte
principale della guerra italiana, quello sul Carso. Inoltre, a differenza di quanto
avvenne per le potenze coloniali di lungo corso, Francia ed Inghilterra, le colonie
24 Mussolini, vol XIV, pp.217-220
25 E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Laterza, Bari 2006
26 C.G. Segrè, Il colonialismo e la politica estera: variazioni liberali e fasciste, in J.B. Bosworth-S. Romano, La politica
estera italiana/1860-1984, Il Mulino, Bologna 1991
12
non rappresentarono per l'Italia un serbatoio di risorse naturali e militari da
utilizzare per lo sforzo bellico.
Tra le cause del disinteresse, che coinvolse quindi anche ampie porzioni
dell'establishment italiano, si possono annoverare la fragilità della giovane
nazione, l'ascesa dei partiti di massa, socialista e popolare, l'ascesa del
movimento dei fasci di combattimento, fondato il 23 aprile 1919 e costituitosi in
partito il 7 novembre 1921, i grossi problemi economici e, non ultimo, l'elevato
tasso di analfabetismo, tutti elementi che non consentivano la formazione di una
opinione pubblica su un argomento tanto alieno dalla vita quotidiana come era il
colonialismo.
Come accennato in precedenza, Mussolini cavalcò l'onda della tesi della “vittoria
mutilata”, conscio del fatto che questo era il tema più sensibile del momento e, di
conseguenza, quello che gli avrebbe potuto far conseguire il consenso
maggiore.
La conferma che in questo particolare periodo storico l'imperialismo non fosse al
centro delle preoccupazioni di Mussolini ci sembra risiedere nel fatto che egli
non faccia mai menzione dell'accordo stipulato a Khallet ez-Zeitun il 21 aprile del
1919 da parte del governo italiano con i tripolitani, tradotto poi in legge il 1
giugno dello stesso anno.
Questo trattato, conosciuto come Patto Fondamentale o Statuto libico prevedeva
importanti concessioni ai tripolitani: superamento della sudditanza coloniale in
una “cittadinanza italiana della Tripolitania”; istituzione di un Parlamento locale a
maggioranza araba, unico depositario della potestà di imposizione tributaria;
riconoscimento della libertà di stampa e di associazione; promozione della lingua
araba al pari di quella italiana; presenza di cittadini tripolitani nei consigli
amministrativi locali; abolizione del servizio militare obbligatorio ed altre
concessioni minori.
Nonostante le perplessità suscitate, i governi di Orlando e Nitti portarono avanti
questa politica e la estesero anche alla Cirenaica (31 ottobre 1919). In molti degli
ambienti coloniali delle altre potenze europee questa condotta suscitò vivo
interesse e più di qualche preoccupazione, visto che sembrava andare
addirittura oltre le già preoccupanti posizioni wilsoniane. 27 A questo proposito,
non è da escludere che una politica coloniale strutturata in modo tanto originale
27 N. Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana,Il Mulino, Bologna 2002, pp.138-139
13
potesse essere dettata dalla piega non favorevole che stava prendendo il
congresso di pace di Parigi. Ad ogni modo, l'anno seguente, con la sottoscrizione
di un nuovo patto con la Senussia (interlocutore unico in Cirenaica), lo Stato
italiano vide riconosciuta la propria presenza nella regione.
Gli stessi risultati non vennero invece conseguiti in Tripolitania, dove ripresero gli
scontri tra gli italiani e i rappresentanti della Giumhurriya, la Repubblica
proclamata dalla resistenza anticoloniale. Il governo Nitti decise quindi per un
rafforzamento della presenza militare, scelta che segna l'inizio di una nuova
politica di riconquista, che raggiungerà il suo apice con l'avvento al potere del
fascismo.
Mussolini non affronta nei suoi scritti tutti gli avvenimenti sopraelencati;
mancanza di interesse o scelta consapevole, volta a favorire quello che riteneva
l'argomento di maggior interesse popolare, ovvero lo svolgimento del congresso
di pace parigino?
Considerando la produzione della penna del futuro leader del fascismo in questo
periodo, possiamo ragionevolmente sostenere che egli condividesse una politica
coloniale più prudente rispetto a quella delle altre potenze; rimane un mistero il
motivo che lo spinse a non far menzione degli avvenimenti libici, che avrebbe
potuto sfruttare per rendere ancor più stridente il contrasto tra l'atteggiamento
italiano e quello degli alleati.
Bisogna però considerare che Mussolini aveva ormai avviato una campagna
contro il governo italiano, sempre partendo dalle difficoltà incontrate durante il
processo di pace; questo spiega, almeno in parte, il silenzio sulle vicende libiche:
se avesse espresso un giudizio favorevole, le aspre critiche al governo
sarebbero risultate meno efficaci. Se avesse espresso un giudizio contrario a
quel tipo di politica, avrebbe finito con il contraddire le sue posizioni anticoloniali
e wilsoniane. Le alternative a disposizione rimanevano due: indicare una terza
via per la risoluzione della questione libica o, semplicemente, tacere. Mussolini
scelse questa seconda opzione, sicuramente più confacente ai suoi interessi e a
quelli dell'opinione pubblica. Ci sembra di poter ravvisare già in questo caso la
buona dose di opportunismo che sarà alla base delle prime scelte da adottare in
politica estera.
Se poi facciamo un ulteriore passo indietro, fino al 1911, anno in cui venne
intrapresa la conquista della Libia, troviamo ancora un Mussolini contrario alla
14
guerra, che esprimendo le sue perplessità incita allo sciopero generale contro
l'impresa tripolitana. Questa sua posizione lo condurrà all'arresto, avvenuto il 14
ottobre 1911 imputato di aver “il 24 settembre 1911 in un pubblico comizio
eccitato la folla a impedire con ogni mezzo la spedizione militare in Tripolitania, a
scendere in piazza e ad opporsi con la violenza e anche con le barricate alla
forza pubblica, fare la guerra civile, bandire le proteste platoniche e venire
all'azione immediata ed energica per uno sciopero generale con carattere
insurrezionale...”28
La sua posizione non muterà nemmeno dopo il rilascio e la ripresa dell'attività
giornalistica: attaccherà a più riprese i fautori della guerra, coloro che avevano
parlato di una azione che sarebbe stata rapida ed indolore, che si infiammavano
di sentimenti bellici seduti nei caffè, ma che fuggivano l'arruolamento nel
momento in cui venivano richiesti volontari per far fronte alle difficoltà incontrate
durante la guerra. (Agosto, settembre 1912)
Il filo conduttore della forte opposizione all'attività bellica e ai sogni coloniali è
ben visibile nel periodo che precede la conquista del potere. Capire in che
misura questa scelta di campo fosse dettata dalla volontà di piegare gli
avvenimenti esteri in favore della polemica interna è problema di difficile
soluzione.
Di certo, negli anni che precedono la marcia su Roma, l'obiettivo di Mussolini è
quello di aumentare il proprio consenso e contrastare le politiche dei governi
liberali. A questo scopo si prestavano benissimo la posizione contraria alla
guerra di Libia e la contemporanea e per certi versi conseguente spinta agli
scioperi e alla ribellione.
Non a caso, in un articolo riguardante l'ultimatum lanciato dall'Italia alla Turchia,
pubblicato su La lotta di classe il 30 settembre 1911, dopo aver espresso le sue
perplessità e preoccupazioni concludeva: “L'Italia inizia oggi un nuovo periodo
della sua storia, periodo incerto e grave di molte terribili incognite. Noi
aspettiamo fiduciosi gli eventi. Quasi sempre la guerra preclude alla rivoluzione.”
29
Da questo momento fino alla conquista del potere, Mussolini avrà in mente
soltanto la situazione interna del paese e tratterà i temi più sensibili per l'opinione
28 Mussolini, Vol. IV p.102
29 Mussolini Vol. IV, p.74
15
pubblica, disinteressandosi o quasi dei problemi legati a questioni coloniali e
dell'esclusione dell'Italia dalle potenze mandatarie della Società delle Nazioni.
C'è un altro testo, datato 1 gennaio 1919, che può aiutarci a capire
l'atteggiamento del futuro dittatore; un testo non banale, che lascia spazio a
numerose interpretazioni, ma che ci sembra chiarire il fatto che Mussolini, al
contrario della maggior parte dell'opinione pubblica, avesse le idee chiare
riguardo il concetto di imperialismo: “L'imperialismo italiano non esiste. E non
esiste nemmeno l'imperialismo inglese. Nemmeno quello francese. Bisogna
intenderci una buona volta su questa parola imperialismo. L'imperialismo è la
legge eterna ed immutabile della vita. Esso in fondo non è che il bisogno, il
desiderio e la volontà di espansione che ogni individuo, che ogni popolo vivo e
vitale ha in sé. È il mezzo con cui viene esercitato l'imperialismo, ciò che
distingue, sia negli individui come nei popoli, l'uno imperialismo dall'altro.
L'imperialismo non è, come si crede, necessariamente aristocratico e militare.
Può essere democratico, pacifico, economico, spirituale. In un certo senso, il
presidente Wilson -e non è difficile dimostrarlo- è il più grande e il più fortunato
degli imperialisti.”30
Bisogna prima di tutto sottolineare che, nel momento in cui scrive queste parole,
la conferenza di pace di Versailles non è ancora cominciata e Mussolini non ha
ancora motivo di mostrarsi ostile nei confronti degli alleati.
Come avverrà anche in futuro, il concetto di imperialismo non viene condannato
in quanto tale, ma soltanto se messo in pratica attraverso l'azione militare. Certo,
esempi di imperialismo, diciamo così, non violento, la storia ne ha offerti ben
pochi, per cui le affermazioni di Mussolini sembrano lasciare il tempo che
trovano. Quello che ci preme sottolineare è la definizione dell'imperialismo come
legge eterna ed immutabile della vita: una sorta di distorsione politica del
darwinismo tesa a giustificare, attraverso una presunta caratteristica naturale, la
volontà di espansione degli individui e dei popoli. Da un simile concetto, il passo
verso una completa accettazione ed ammissione dell'azione violenta è, ed
effettivamente sarà, breve.
Bisogna però anche considerare le parole citate nel contesto più ampio in cui
vengono espresse: alla vigilia del congresso di pace, Mussolini ritiene giuste le
richieste francesi ed inglesi, volte a tutelare i propri interessi e quelli, più ampi, di
30 Mussolini, Vol XII, pp.100-101
16
una pace duratura. Per questo, non si può definire imperialismo la volontà di
conservare e fortificare la propria posizione da parte delle nazioni alleate, a patto
però che altrettanto si faccia con le richieste, ben più misere al confronto, da
parte dell'Italia.
Dovrebbe essere questo l'imperialismo pacifico e democratico a cui fa
riferimento, come se non fosse stato preceduto da una guerra di dimensioni mai
viste prima. È questa la contraddizione in cui cade Mussolini, è questo il primo
passo verso la totale accettazione dell'espansionismo coloniale e la sua messa
in pratica negli anni in cui governerà la nazione, fino alla creazione dell'impero.
Ed è sempre in queste parole che possiamo leggere la predisposizione alla
polemica faziosa nei confronti delle decisioni che verranno prese durante la
conferenza di pace; le richieste delle nazioni alleate sono giustificate ed
accettate soltanto se poste in relazione a quelle dell'Italia: nel momento in cui
questo equilibrio verrà a mancare, per Mussolini sarà naturale assumere un
atteggiamento ostile nei confronti dei protagonisti di Versailles.
Possiamo affermare, pur con le dovute precauzioni, che fino alla marcia su
Roma Mussolini opterà per una flebile e fallace condanna dell'imperialismo, in
funzione della tutela di presunti diritti italiani. Dopo questa breve digressione ci
sembra si possa meglio capire l'idea che era alle spalle delle iniziative che
portarono alla crisi di Corfù e agli sviluppi successivi.
Nei primi anni di governo Mussolini si mosse nel solco di quello che la situazione
internazionale gli permetteva, rientrando prontamente nei ranghi in seguito alla
mossa spregiudicata dell'occupazione di Corfù. I suoi obiettivi furono
sostanzialmente due: assicurarsi la sicurezza della zona danubiano-balcanica e
dare avvio al lento processo che avrebbe dovuto portare all'espansione nel
Mediterraneo e in Africa.
Per quanto riguarda il primo punto i provvedimenti adottati furono: nel luglio del
'24 un accordo di amicizia e collaborazione per il rispetto delle decisioni di
Versailles con la Cecoslovacchia, un accordo commerciale con l'Ungheria nel
settembre del '25, uno con la Romania sui prestiti di guerra nel '26. In generale,
la politica svolta nell'area intendeva soprattutto ostacolare l'influenza degli altri
stati europei, in particolare della Francia, molto attiva nei rapporti con i paesi
della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia) 31 Nell'ottica della
31 G. Mammarella- P. Cacace, Op. cit., pp. 90-94
17
sicurezza danubiano-balcanica può essere inserito anche il riconoscimento
dell'Unione Sovietica, avvenuto nel '24.
Per quanto riguarda la politica espansionistica, essa era direttamente connessa
ai rapporti con Francia e Gran Bretagna e alle trattative che si sarebbe potuto
intavolare in base agli accordi di Londra del 1915 e alla sistemazione mandataria
del dopoguerra. Pur se non di facile esplicazione, la strada delle trattative con
l'Inghilterra si dimostrò percorribile e si ottennero degli aggiustamenti territoriali
riguardo i confini orientali della Cirenaica e l'Oltre Giuba. In questo periodo i
rapporti con il governo di Sua Maestà erano tutto sommato buoni, visto che
l'amicizia italiana era ritenuta utile dagli inglesi soprattutto in funzione di
contrappeso a Parigi e come pedina nel gioco diplomatico.
Il governo italiano, d'altro canto, vedeva nel governo britannico l'unico
interlocutore che avrebbe potuto aiutarlo nella politica coloniale, per cui non era
pensabile assumere atteggiamenti ostili alla Gran Bretagna. 32 Avremo modo di
vedere come questa convinzione trovasse compimento anche nello Yemen.
Più difficili i rapporti con la Francia: nei primi mesi di governo Mussolini tentò un
avvicinamento a Parigi e sostenne le posizioni transalpine in materia di
riparazioni, appoggiando l'occupazione della Ruhr. Ciò nonostante non fu
possibile trovare un accordo con la Francia e, dopo la vittoria della sinistra alle
elezioni fu evidente che sarebbe stato sempre più difficile trovare un punto
d'incontro.
Alla base delle difficoltà c'era però un elemento fondamentale: Parigi perseguiva
una politica di egemonia in Europa, contraria ad ogni rivendicazione che
andasse in senso diverso dalla sistemazione stabilita a Versailles, per evitare
che la Germania tornasse ad essere una grande potenza. 33
Anche quando nel 1925 la conferenza di Locarno riavvicinò Francia, Germania e
Belgio, che si impegnavano a riconoscere le frontiere fissate a Versailles e a
risolvere pacificamente le future controversie, accordi di cui Italia e Gran
Bretagna erano garanti, la situazione italo-francese non conobbe sostanziali
miglioramenti.34 Questo perché il timore di Mussolini era che il patto di Locarno
spostasse a sud le mire espansionistiche tedesche e quindi all'annessione
dell'Austria (Anschluss), prospettiva che da sempre inquietava il duce.
32 R. De Felice, Op. cit., p. 349
33 Ivi, p. 350
34 G. Mammarella – P. Cacace, Op. Cit., p,95
18
Se consideriamo la politica svolta nella regione danubiano-balcanica cui
abbiamo accennato, le prime rivendicazioni italiane in materia coloniale cui la
Francia era sorda e le polemiche relative alla questione dei rifugiati antifascisti
oltralpe, possiamo capire perché l'ambasciatore italiano a Parigi, Romano
Avezzana, l'anno successivo alla firma del trattato di Locarno potesse scrivere in
un rapporto a Mussolini: “la possibilità di una guerra con l'Italia, che fino a poco
tempo fa era considerata come impossibile, oggi comincia ad essere discussa
come una evenienza cui la Francia pur riluttante deve prepararsi perché voluta
dall'Italia.”35
Certo la prospettiva di una guerra era in realtà impensabile, ma il documento
lascia trapelare quanto fosse alta la tensione e quanto, in prospettiva, i rapporti
italo-francesi avrebbero potuto influire sull'intera Europa. A fare da contrappeso
alle complicazioni nelle relazioni tra i due paesi rimaneva la comune
preoccupazione per il ritorno della Germania tra le grandi potenze e la
convinzione di parte italiana che la Francia rappresentasse la miglior garanzia di
sicurezza nei confronti tedeschi, oltre a rimanere un interlocutore necessario per
le aspirazioni coloniali.
Un primo tentativo di conferire alla politica estera una strategia di lungo periodo
venne intrapreso da Dino Grandi, nominato ministro degli esteri il 12 settembre
1929, carica che ricoprì fino al 1932. Con lui ebbe inizio la fascistizzazione del
ministero e, soprattutto, una fase nuova della politica estera, non più subordinata
alle scelte altrui, ma volta ad assumere una posizione autonoma ed originale. 36
Il primo obiettivo di Grandi fu quello di dare unitarietà di azione nell'affrontare i
problemi, anche a scapito delle ideologie, che rischiavano prima o poi di portare
a scontri non dettati da questioni reali. Il fascismo doveva impostare una politica
estera di pace, di disarmo, di collaborazione attiva con la Società delle Nazioni e
di conciliazione con le potenze democratiche. Se questa strada poteva portare a
momenti di isolamento, nel medio-lungo periodo avrebbe consentito all'Italia di
acquisire un ruolo autonomo nella politica internazionale ed un peso
determinante nella realtà europea, che avrebbe consentito di creare il tanto
agognato impero coloniale.37
Pertanto nel breve termine l'obiettivo doveva essere quello di costringere la
35 Citato in De Felice e in G.Mammarella – P. Cacace
36 E. Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana 1919-1933, CEDAM, Padova 1960, pp. 251-252
37 R. De Felice, Op. cit., pp. 370-373
19
Francia ad accettare le richieste in materia coloniale, mentre su tempi più lunghi
si doveva puntare a fare dell'Italia l'arbitro della situazione europea, l'ago della
bilancia tra i vari paesi, per assicurarsi la possibilità di scegliere il proprio campo
in base ai vantaggi che le sarebbero stati offerti. Per fare tutto ciò bisognava
avere pazienza, il tempo avrebbe giocato a favore del paese.
Il primo esempio della nuova direzione si ebbe in occasione della conferenza di
Londra dell'ottobre '29, convocata per ridiscutere i termini del disarmo navale già
stabilito con la conferenza di Washington del '21-22 e della rinuncia alla guerra
stabilita dal patto Briand-Kellog dell'anno precedente. In questa occasione la
delegazione italiana chiese la parità di armamenti con la Francia, e si disse
disposta ad assumere qualunque limite, anche il più basso, deciso da Parigi.
Questa posizione mise inizialmente in cattiva luce il governo francese, che non
poteva dare l'impressione di assumere posizioni estreme rispetto a quella
conciliante espressa dall'Italia.
Le trattative tra i due paesi si protrassero a lungo, senza approdare ad una
soluzione condivisa; nel frattempo però la Germania otteneva la cancellazione
delle riparazioni di guerra e la Francia ritenne opportuno rinnovare i rapporti che
la legavano alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti in vista di un contenimento delle
volontà
revisioniste
tedesche,
superando
l'impasse
che
proprio
la
contrapposizione con l'Italia in materia di armamenti aveva causato. Nella nuova
prospettiva, il peso determinante italiano veniva nettamente ridimensionato e, di
conseguenza, venivano drasticamente ridotte le possibilità di veder riconosciute
le richieste in ambito coloniale. Così nel '32 Mussolini rimosse Grandi dalla
carica di ministro inviandolo come ambasciatore a Londra ed assunse l'interim
del ministero degli affari esteri.38
Peraltro la sua azione rinnovò poco la politica di Grandi. 39 Gli obiettivi che si
poneva erano mantenere una posizione equidistante da Francia e Germania,
tentare di incrinare il rapporto anglo-francese e rinsaldare i rapporti con
Budapest e Vienna per prevenire l'azione politico-economica che avrebbe potuto
essere messa in pratica dalla Germania. Lo sbocco di questa politica doveva
essere un accordo tra le quattro potenze: Italia, Francia, Germania ed Inghilterra
avrebbero dovuto garantire la pace del continente. Il progetto di Mussolini
38 Ivi, pp. 390-394
39 F. D'Amoja, Declino e prima crisi dell'Europa di Versailles, Giuffè 1967, p. 95
20
prevedeva la creazione di una sorta di direttorio europeo ispirato alla
regolamentazione del revisionismo, più che a quello della sua prevenzione. Il
compito del direttorio sarebbe dovuto essere quello di impegnare i firmatari alla
realizzazione di una effettiva politica di pace, secondo i termini del patto BriandKellogg, e a svolgere in Europa un'azione comune idonea a far adottare anche a
paesi terzi, qualora necessario, la loro politica e le loro decisioni. Il Patto sarebbe
dovuto diventare, in pratica, una sorta di gabbia giuridica in virtù della quale il
potenziale eversivo tedesco avrebbe dovuto essere razionalizzato e i due
antagonisti, Francia e Germania, sarebbero stati controllati dalla Gran Bretagna
e dall'Italia, non più in veste di garanti, come era previsto dal patto di Locarno,
ma in veste di contrappesi rispetto alla gradualità dei cambiamenti. 40
Il “Patto a Quattro” venne firmato a Roma il 15 luglio '33, peraltro dopo numerosi
rimaneggiamenti rispetto all'accordo originale pensato da Mussolini; nella pratica
rimarrà sempre lettera morta, visto l'abbandono della Società delle Nazioni da
parte di Hitler e il perdurante scetticismo francese riguardo al trattato. 41
Oltre all'impegno per raggiungere la stipula del patto, dal momento in cui
Mussolini assunse l'interim del ministero per gli affari esteri cominciò a prendere
piede l'idea dell'impresa di Etiopia, che avrebbe appunto dovuto essere
agevolata dalla pace in Europa. Allo scopo di valutare la situazione il duce inviò
in missione ispettiva in Eritrea il ministro delle Colonie De Bono, il quale al suo
ritorno presentò una relazione in cui esprimeva la difficile situazione interna del
Negus, a causa di ribellioni interne, e la convinzione della necessità di un
accordo con Francia ed Inghilterra per aver via libera in Etiopia, visto che una
azione militare era ancora prematura, anche per gli elevati costi che avrebbe
presentato.42
Un momento di alta tensione si visse quando, il 25 luglio del '34, nazisti austriaci
tentarono un golpe contro il governo di Vienna in nome dell'annessione alla
Germania; il tentativo di colpo di stato fallì, ma durante l'assalto venne ucciso il
cancelliere Engelbert Dollfuss, amico personale di Mussolini ed alleato dell'Italia:
in risposta all'accaduto il capo del governo mise in allarme quattro divisioni al
confine nord orientale.
Hitler, che aveva incontrato Mussolini per la prima volta il mese precedente ed
40 E. Di Nolfo, Op. cit., pp. 159-166
41 R. De Felice, Ivi, p. 464. Si veda anche: E. Serra, La Francia, l'Italia e il Patto a quattro, in Affari Esteri, gennaio 1971
42 Ivi p. 416 e G. Mammarella – P. Cacace, Op. cit. p. 102
21
aveva ripetutamente sottolineato la sua stima per il duce 43, si dissociò dal
tentativo e l'episodio si concluse senza ulteriori scontri. In Austria venne
nominato cancelliere il cattolico conservatore Kurt von Schuschnigg, ma
l'impressione che il paese fosse entrato nelle mire tedesche era ormai
consolidata.
Ad essere preoccupata di una simile eventualità non era soltanto l'Italia, ma
anche la Francia, ovvero i due paesi che fin dai primi anni del dopoguerra
temevano un ritorno in auge tedesco. Il fallito golpe ebbe quindi l'effetto di
riavvicinare i due paesi che, dopo una lunga trattativa, giunsero a stipulare gli
accordi Laval-Mussolini del 7 gennaio 1935, che seguivano di pochi giorni gli
incidenti avvenuti a Ual Ual (5 dicembre '34), al confine tra Somalia italiana ed
Etiopia, durante i quali alcuni soldati italiani vennero uccisi dagli etiopici.
L'episodio, che vide Parigi assumere un atteggiamento di condanna rispetto
all'Etiopia44, sarà la base su cui Mussolini fonderà la conquista del paese
africano.
Con gli accordi Laval-Mussolini i due contraenti si impegnavano a mantenere la
pace generale, a consultarsi reciprocamente con il governo austriaco in caso di
nuove minacce all'integrità e all'indipendenza del paese, per giungere ad un
accordo sulle misure da prendere che avrebbero dovuto coinvolgere anche altri
stati. In tema di disarmo l'accordo veniva raggiunto specificamente in relazione
alla Germania e si stabiliva che i due governi in caso di una convenzione
generale per la limitazione degli armamenti si sarebbero adoperati perché essa
stabilisse cifre che assicurassero, in rapporto alla Germania, i vantaggi ritenuti
necessari.
Per quanto riguardava le questioni coloniali, l'Italia otteneva una revisione dei
confini meridionali della Libia, che acquisivano una vasta area desertica e
scarsamente popolata, e l'inclusione entro i confini eritrei di un tratto di costa
fronteggiante lo stretto di Bab el Mandeb, oltre al libero traffico nello stesso.
Fatto però più importante, era il via libera che Laval concedeva a Mussolini in
Etiopia durante dei colloqui privati ribaditi da una lettera segreta di Mussolini a
Laval; anche se successivamente il ministro francese sosterrà di essersi limitato
a concordare con il duce una generica libertà di azione economica, la critica è
43 R. De Felice, Op. cit., pp. 418-445
44 E. Di Nolfo, Op. cit., p. 179
22
unanime nel sostenere che in realtà egli diede effettivamente mano libera a
Mussolini, pur cautelandosi grazie al mancato rilascio di un chiaro impegno e,
probabilmente, suggerendo al capo del governo italiano di usare la “mano
leggera”.45
Nel complesso, gli accordi ponevano fine, almeno per il momento, alla lunga
diatriba che aveva diviso i due paesi: l'Italia di fatto accettava il sistema francese
in Europa ed in cambio otteneva il via libera all'espansione in Africa. Infine,
sembrava che si ponesse un freno definitivo al revisionismo tedesco; qualche
mese dopo infatti, con la conferenza di Stresa che ebbe luogo in aprile, Francia
Italia e Gran Bretagna si dichiaravano d'accordo nell'opporsi con ogni mezzo a
qualunque tentativo unilaterale di mettere in pericolo la pace. Mussolini, ormai
prossimo all'invasione dell'Etiopia, fece aggiungere la precisazione “in Europa”.
Nasceva così il fronte di Stresa, che seguiva di pochi giorni la decisione di Hitler
di ripristinare il servizio militare obbligatorio.
Anche il fronte però, come il Patto a Quattro, non ebbe grossa fortuna né vita
lunga: già in giugno la Gran Bretagna stipulava un accordo con la Germania con
il quale si impegnava ad accettare il riarmo navale tedesco fino al 35 per cento
della propria flotta. L'episodio venne accolto con sorpresa e sdegno dai francesi,
convinti che fosse un atto di debolezza. 46 Intanto l'Italia, il 5 ottobre, dava il via
alle operazioni militari in Etiopia.
L'azione di Mussolini apparteneva al passato: l'epoca delle conquiste era ormai
terminata, e mentre le altre potenze coloniali provvedevano a consolidare i loro
possedimenti o addirittura preparavano l'uscita, l'Italia si lanciava in un'impresa
che non dava risultati concreti, in termini di vantaggi, se non sull'immagine
interna. Fu invece il primo motivo di vero attrito con la Gran Bretagna: se la
Francia aveva, più o meno esplicitamente, dato il proprio assenso alla conquista
italiana, non altrettanto si poteva dire del governo di Londra: esisteva la
disponibilità a fare concessioni marginali all'Italia in Etiopia, ma non ad accettare
che l'intero paese cadesse sotto il controllo italiano. Una simile eventualità
veniva considerata come una sfida più grave per gli interessi imperiali britannici
di quanto non fosse l'azione revisionistica di Hitler nell'Europa centrale. 47
45 Ivi, pp. 181-184, R. De Felice, Op. cit. pp. 530-533, W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell'equilibrio europeo,
Laterza, Bari 1970, pp. 98-104, N. Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002,
p. 185
46 G. Mammarella – P. Cacace, Op. cit. p. 106
47 E. Di Nolfo, Op. cit., p. 192
23
Mussolini non ebbe l'esatta percezione della posizione inglese e credette
probabilmente che alla fine nemmeno il governo di Sua Maestà si sarebbe
dimostrato contrario all'azione militare italiana. A questa errata deduzione
avevano forse contribuito le parole del ministro degli esteri britannico Simon, che
si era detto persuaso del fatto che la collaborazione italiana in Europa nell'ambito
del fronte di Stresa fosse più importante della sovranità abissina. In pratica però
l'accordo navale raggiunto con la Germania stava a dimostrare quanto poco la
Gran Bretagna credesse alla validità del fronte. In più, nel giugno del '35 ci fu un
cambio di governo che portò al potere i conservatori; si discusse allora di alcune
concessioni territoriali che si era disposti ad accordare all'Italia, in cambio delle
quali Mussolini avrebbe dovuto limitare le sue ambizioni. Ma ormai il duce era
convinto delle sue scelte e, d'altra parte, un recente sondaggio, che dimostrava il
favore degli inglesi rispetto alla politica di pace della Società delle Nazioni e la
loro minor propensione alle sanzioni militari, costringevano il governo di Londra a
misurare le proprie azioni, per paura di ricadute interne. 48
Il passo successivo, in seguito al ricorso dell'Etiopia alla Società delle Nazioni, di
cui era membro, fu l'applicazione di sanzioni economiche che, decise il 3
novembre, avrebbero dovuto essere applicate il 18. Nella pratica l'effetto fu
piuttosto blando, visto che merci strategiche per gli armamenti (ferro, acciaio,
rame, piombo) e soprattutto il petrolio, non vennero incluse nelle sanzioni. In
questo clima farsesco la Società delle Nazioni sviluppò il tentativo di frenare
l'azione italiana, mentre segreti negoziati anglo-francesi si svolgevano per
definire una formula di compromesso che consentisse la fine delle ostilità.
Alla fine di novembre il compromesso era delineato e portato a conoscenza di
Mussolini, il quale diede il suo assenso di massima: il piano prevedeva che
l'Italia ottenesse le regioni del Tigré e dell'Ogaden e la facoltà di sviluppare la
propria influenza economica nel sud del paese, in cambio di un qualche controllo
della Società delle Nazioni e della concessione all'Etiopia di un corridoio verso il
mare, fino al porto di Assab. Tutto questo senza che le operazioni militari
avessero compiuto passi significativi. Inoltre, mentre la diplomazia italiana aveva
seguito costantemente lo sviluppo del compromesso, quella etiopica era stata
tenuta praticamente all'oscuro di tutto.49
48 Ivi, p. 193, G. Mammarella – P. Cacace, Op. cit., p. 109, N. Labanca, Op. cit., pp. 186-189
49 E. Di Nolfo, Op. cit., pp. 194-197
24
Ma il piano venne reso noto dalla stampa francese, con conseguenze nefaste
per il governo inglese: Hoare, ministro degli esteri inglese che aveva lavorato al
piano, fu costretto a dimettersi ed il primo ministro Baldwin dovette
precipitosamente dichiarare il compromesso “defunto”. A questo punto per l'Italia
non restavano che le operazioni militari. Dopo alterne vicende, che ebbero un
notevole costo militare, logistico e finanziario, il 5 maggio 1936 venne annunciato
da Mussolini, dal balcone di piazza Venezia, il termine delle ostilità. 50 Quattro
giorni dopo, il 9 maggio, Vittorio Emanuele III veniva insignito del titolo di
Imperatore.
Le operazioni militari italiane avevano instillato nel Foreign Office inglese il
dubbio che l'Italia volesse dominare il Mediterraneo centrale ed assumere un
ruolo di primo piano nel Mediterraneo occidentale, lasciando alla Gran Bretagna
un corridoio per le comunicazioni con l'Egitto e l'estremo oriente; alla fine del
conflitto le rassicurazioni di Mussolini vennero prese per buone dal governo di
Londra, il che significava una propensione generale verso la normalizzazione
che portò alla stipulazione della convenzione di Montreux (20 luglio '36),
attraverso la quale si stabiliva un nuovo regime per la navigazione negli Stretti, in
sostituzione di quello stabilito a Losanna nel '23. 51
Se in quella occasione l'obiettivo era stato chiudere la Russia all'interno del Mar
Nero e si era potuto imporre il trattato ad una nazione sconfitta come la Turchia,
adesso bisognava tenere conto delle esigenze dei due paesi, anche in ottica di
una politica di contenimento della Germania: la sovranità in materia di
navigazione venne restituita interamente alla Turchia e all'Unione Sovietica
veniva lasciata la possibilità di far transitare, anche in tempi di pace, navigli da
guerra, mentre per le altre nazioni erano previste delle limitazioni. 52
Nel frattempo, il 10 giugno 1936 Mussolini aveva abbandonato l'interim degli
esteri e nominato ministro Galeazzo Ciano: era il primo passo verso la
Germania, con cui da tempo questi invocava una alleanza. La guerra civile
spagnola, iniziata nel luglio, vide i due paesi intervenire in modo deciso al fianco
del generale Franco, capo dei militari ribelli appoggiati da monarchici,
conservatori ed esponenti della “Falange”, movimento filo-fascista. 53 Mentre
Hitler inviava soprattutto armi e mezzi, Mussolini aggiungeva una folta schiera di
50
51
52
53
N. Labanca, pp. 193-194, R. De Felice, pp. 765-767
E. Di Nolfo, pp. 200-201
Ivi, p. 202, A. Biagini, Op. cit., pp. 95-96
Ivi, pp. 216-228
25
uomini (50.000-60.000). La scelta del duce, per sua ammissione, era stata dalla
convinzione che “il trionfo dell'ispanità franchista ci serve per non finire domani
assediati nel nostro mare”.54 Il timore era quello che una vittoria comunista in
Spagna avrebbe potuto portare ad una alleanza con il nuovo governo Blum in
Francia, anch'esso espressione di forze comuniste. Tanto più questo timore
doveva essere forte se si pensa che l'Italia era appena uscita dal conflitto
etiopico ed era ancora impegnata a normalizzare la situazione; infine, la scelta
dell'intervento la poneva nuovamente in una posizione antagonista rispetto alla
Gran Bretagna, che vedeva rinforzati i dubbi e i timori riguardo la politica italiana
nel Mediterraneo. Ma non si può escludere che l'intervento fosse dettato dalla
volontà di fare delle isole Baleari una base militare in territorio spagnolo, per
bloccare le comunicazioni tra la Francia e l'Africa settentrionale. 55
Per tentare di giungere ad una soluzione di compromesso a settembre, a
Londra, venne promosso il comitato del non intervento, per impedire la
partecipazione di forze esterne agli avvenimenti spagnoli: proposto dalla Francia,
esso vedeva l'adesione di Italia e Germania, formalmente già impegnate nelle
attività belliche.56 Nella pratica la politica del non intervento si limitò a qualche
discussione diplomatica, mentre Mussolini ed Hitler da un lato, e l'Unione
Sovietica dall'altro, continuavano nelle loro operazioni.
La guerra di Spagna si concluse nel '39 con la vittoria dei franchisti; fu, di
riflesso, una vittoria anche dell'Italia fascista che aveva investito ingenti quantità
di uomini e mezzi nel conflitto. Ma il prezzo di questo successo sarebbe stato
pagato molto caro: alla vigilia del secondo conflitto mondiale l'esercito e
l'aviazione italiana risultavano ulteriormente indeboliti. Anche a livello di opinione
pubblica interna, forse per la prima volta, le operazioni spagnole non ottennero
consenso, poiché in molti facevano fatica a cogliere il significato di un intervento
tanto massiccio. Mussolini confermava il suo ruolo di alfiere della lotta al
comunismo, ma in quel momento il pericolo più vero e reale che incombeva
sull'Europa era quello del nazismo.
Il '36 è l'anno in cui l'avvicinamento dell'Italia alla Germania si fa concreto e
definitivo: il 24 ottobre a Berlino Ciano stipulava un protocollo con il suo omologo
tedesco von Neurath, attraverso il quale i due paesi si impegnavano nella lotta
54 Citato in E. Di Nolfo, p. 219
55 P. Pastorelli, Dalla prima alla seconda guerra mondiale. Momenti e problemi della politica estera italiana 1914-1943, LED,
Milano 1997, pp. 121-122
56 G. Mammarella – P. Cacace, p.111
26
comune al bolscevismo e ribadivano la comune posizione nella guerra spagnola.
Cominciava inoltre il distacco dall'Austria: Mussolini, in un incontro con il
cancelliere Schuschnigg consigliava di prendere atto della naturale amicizia
esistente tra il suo paese e la Germania. L'anno successivo il duce dichiarava di
voler armonizzare i rapporti tra Italia e Austria con l'amicizia per la Germania, e
di non essere contrario all'Anschluss.57
Nel marzo del 1938 l'annessione dell'Austria alla Germania è realtà. La
questione austriaca venne dimenticata in fretta, nonostante fino a quel momento
fosse stata il cemento di ogni intesa antirevisionistica e di politica di
contenimento della Germania. L'Italia era ormai irreversibilmente diretta nella
sfera di influenza della politica hitleriana. Questo anche se il 16 aprile 1938 Italia
e Gran Bretagna siglavano i cosiddetti accordi di Pasqua, che avremo modo di
esaminare nel dettaglio per quanto riguarda gli allegati relativi alla penisola
arabica. Qui serve dire che gli inglesi riconoscevano la sovranità italiana
sull'Etiopia, si stabiliva un disimpegno italiano in Spagna (che nella pratica non
avvenne) e l'adesione del governo di Roma al trattato di disarmo di Londra,
appena questo fosse entrato in vigore.58
Gli accordi furono un buon successo diplomatico per Mussolini e per un
momento sembrarono rinverdire lo spirito che aveva caratterizzato il fronte di
Stresa: la Francia pensò di avviare trattative per un riavvicinamento con l'Italia,
ma la visita di Hitler a Roma, tra il 5 e il 9 maggio 1938 vanificò ogni sforzo: il
dittatore tedesco rassicurò quello italiano in relazione alle conseguenze
dell'Anschluss ed ottenne pieno appoggio sulla questione dei sudeti, popolazione
tedesca abitante una vasta regione della Cecoslovacchia che Hitler rivendicava
alla Germania.
Il 26 settembre un ultimatum tedesco al governo di Praga minacciava l'intervento
militare qualora non si fossero accolte le richieste hitleriane; ma la Francia,
alleata della Cecoslovacchia, decideva una parziale mobilitazione ed anche gli
inglesi, che mettevano in allarme la flotta, dimostravano che un'aggressione non
sarebbe stata tollerata. Il premier inglese Chamberlain e Hitler si incontrarono
due volte in pochi giorni senza trovare una soluzione accettabile, così venne
richiesta la mediazione di Mussolini, che sulla questione aveva dichiarato la
57 Ivi, p. 113, E. Di Nolfo, pp. 226-230
58 E. Di Nolfo, pp.240-243
27
propria neutralità. Al governo tedesco aveva però privatamente comunicato
“solidarietà completa con la Germania e l'impegno che in ogni evenienza l'Italia
sarebbe stata al suo fianco”.59
Il 29 e 30 settembre Mussolini, Hitler, Chamberlain ed il primo ministro francese
Daladier si incontrarono a Monaco. I cecoslovacchi non vennero consultati.
Anche i sovietici furono tenuti all'oscuro. Nella notte del 30 venne raggiunto un
accordo in otto punti con cui si accettavano le richieste tedesche; soltanto dopo il
governo di Praga venne informato.60 Hitler e Chamberlain raggiunsero anche
un'intesa riguardo la priorità delle buone relazioni anglo-tedesche per il
mantenimento della pace in Europa, e l'accordo di Monaco, insieme al vecchio
accordo navale, erano la dimostrazione del desiderio di pace dei due paesi.
Mussolini uscì da Monaco con l'aura del pacificatore, ma in realtà era ben
consapevole che ci si doveva preparare alla guerra. 61
Alla fine del '38 la decisione di una alleanza militare con la Germania, da tempo
proposta dai tedeschi ma sempre rinviata, era definitivamente maturata. Nel
maggio del '39 si aprivano le trattative formali a Milano, in un incontro tra Ciano
ed il nuovo ministro degli esteri tedesco von Ribbentrop. 62
Le circostanze in cui si svolse il negoziato furono particolari: il ministro degli
esteri tedesco aveva fatto avere a quello italiano uno schema di trattato e lo
aveva sollecitato a preparare un suo progetto per confrontarlo e discuterne
insieme. Ciano, al contrario, si presentò soltanto con le note di Mussolini.
Durante le conversazioni Ribbentrop ostentò misura e moderazione, chiarì che le
intenzioni tedesche verso la Polonia non prevedevano il ricorso alla guerra
poiché la Germania non era pronta ad un conflitto su larga scala e non lo
sarebbe stata ancora per un certo tempo. Ciano condivise e insistette sul fatto
che l'Italia non sarebbe stata pronta ad una guerra prima di tre-cinque anni. Il
compito di redigere il testo definitivo fu affidato ai soli tedeschi e Ciano trascurò
di esplicitare i punti sui quali la posizione italiana doveva essere tutelata.63
Addirittura secondo il Pastorelli vi sono fondate ragioni per ritenere che Mussolini
non fosse a conoscenza del testo preciso per cui il suo ministro si preparava ad
59
60
61
62
63
G. Ciano, Diario 1937-1943, RCS libri 2010, p. 186
E. Di Nolfo, p. 247
Ivi, p. 248
M. Toscano, Le origini diplomatiche del Patto d'acciaio, Firenze 1956
E. Di Nolfo, p. 282, G. Mammarella – P. Cacace, pp. 122-123, D.C. Watt, How war came. The immediate origins of the
second world war. 1938-1939, London 1989, p.426
28
impegnarsi.64 Il trattato, noto successivamente come Patto d'acciaio, venne
firmato a Berlino il 22 maggio ed era sostanzialmente un accordo bilaterale con
poche clausole, le più importanti delle quali erano quella di consultazione totale
su tutte le questioni di interesse comune e, soprattutto, quella di reciproca
assistenza in caso di guerra, senza specificare le cause dell'eventuale conflitto:
fatto inusuale poiché, solitamente, accordi di questo tipo prevedono assistenza
in caso di guerra di aggressione da parte di un soggetto terzo. 65
Forse conscio delle mancanze del testo, nei giorni successivi Mussolini fece
redigere un memoriale che precisava i limiti dell'impegno italiano, specialmente
per quanto riguardava la partecipazione ad un eventuale conflitto; nonostante
venisse consegnato ai tedeschi e considerato parte integrante dell'alleanza, non
ricevette mai una risposta precisa su una tale interpretazione.
Sta di fatto che, immediatamente dopo la firma del trattato, la Germania mise nel
mirino la Polonia. Inizialmente in Italia si ostentava ottimismo, ma in agosto
venne sollecitato un incontro Ciano Ribbentrop, in cui per ordine di Mussolini il
ministro avrebbe dovuto ribadire l'impreparazione dell'Italia al conflitto. Ma
durante gli incontri con Hitler e Ribbentrop il ministro italiano dovette arrendersi
all'evidenza che l'invasione della Polonia era ormai stata decisa e non ci sarebbe
stato modo di tornare indietro.66
Il 23 agosto arrivava il patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica
nel quale si stabilivano anche, in un protocollo segreto, le rispettive zone di
influenza in Europa orientale: Hitler consegnava gran parte degli stati baltici, la
Polonia orientale e la Bessarabia ai sovietici, in cambio del controllo sulla parte
restante della Polonia e della libertà di movimento che il patto gli concedeva. 67
Con la certezza che la guerra fosse alle porte, Mussolini ricorse ad un
escamotage per restarne fuori: lo Stato maggiore italiano preparò una lista
chilometrica di armamenti e materie prime di cui l'Italia aveva bisogno per
entrare in guerra al fianco della Germania. Hitler dichiarò l'impossibilità di fornire
tale materiale. Ciano annota nel suo diario: “comprende la nostra situazione e ci
invita a mantenere un contegno amichevole”.68
Il 1 settembre 1939 le forze tedesche varcarono il confine polacco, il 3 Gran
64
65
66
67
68
P. Pastorelli, Dalla prima alla seconda guerra mondiale:cit., pp. 135 ssg
E. Di Nolfo, Op. cit., p.282
Ivi, pp. 294-295 G. Ciano, Op. cit., pp. 326-327
E. Di Nolfo,Op. cit., pp. 295-299, D.C. Watt, Op. cit., p. 479
G. Ciano, Op. cit., p. 335
29
Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania.
In questa sede non è necessario seguire gli avvenimenti bellici, ma ci
concentriamo su quelle che furono le scelte dell'Italia: la “non belligeranza” durò
fino al 10 giugno 1940, quando le vittorie tedesche e la prossima capitolazione
francese convinsero Mussolini che i tempi fossero maturi per entrare in guerra,
convinto che la definitiva affermazione tedesca fosse prossima. Fino a quel
momento i rapporti con la Germania avevano conosciuto un declino, causato da
due motivi principali: il primo fu il tentativo dell'Italia di costituire un blocco
balcanico di paesi neutrali, il secondo l'acuirsi della tensione con i tedeschi per la
questione dell'Alto Adige.
Subito dopo l'Anschluss era stato concordato che gli altoatesini che lo avessero
desiderato avrebbero potuto trasferirsi in Germania, dove il governo li avrebbe
assistiti nel loro reinserimento. L'applicazione dell'accordo aveva dato luogo ad
una serie di inconvenienti, soprattutto per la propaganda filonazista che elementi
tedeschi svolgevano in Alto Adige che, insieme alla lentezza del trasferimento
faceva pensare all'esistenza di secondi fini, tanto più che gli optanti non ancora
trasferiti, non sentendosi più sottoposti alla legislazione italiana, commettevano
azioni giudicate sempre più pericolose.
Per tutta la seconda metà del '39 la questione fu oggetto di dibattito e di un
negoziato fortemente influenzato dalle notizie provenienti da Bolzano, secondo
le quali i tedeschi, allo scopo di ottenere una manifestazione plebiscitaria di
chiaro sapore politico, ricorrevano a pressioni di ogni genere, compresa quella di
diffondere la voce di una prossima annessione dell'Alto Adige. La tensione tra
Italia e Germania raggiunse l'acme, anche in considerazione del fatto che dopo
l'annessione dell'Austria lo Stato maggiore italiano aveva ordinato l'inizio della
costruzione di un sistema di fortificazioni lungo tutto il confine con la Germania.
Soltanto nel dicembre del '39 vennero raggiunte delle intese che permisero una
distensione dei rapporti, anche se non risolsero del tutto la questione. 69
Un altro motivo di attrito era dovuto alle relazioni economiche tra i due paesi: la
neutralità italiana, come abbiamo visto, era stata giustificata con la carenza di
una serie di materie prime che il paese avrebbe dovuto reperire all'estero, dalla
stessa Germania o da paesi suoi nemici. Così, da un lato i tedeschi non erano
sempre in grado di assolvere alle richieste italiane, dall'altro i commerci italiani
69 E. Di Nolfo, Op. cit., pp. 345-346
30
finivano per incappare puntualmente nel blocco navale messo in atto contro la
Germania. Questo significava che i rifornimenti che raggiungevano l'Italia erano
quelli che passavano attraverso la linea ferroviaria del Brennero. L'aspetto del
blocco navale fu, fino all'accordo economico italo-tedesco del 24 febbraio '40,
questione dirimente nei rapporti dell'Italia anche con Gran Bretagna e Francia,
che cercarono un modo per evitare che Hitler traesse vantaggio dai danni subiti
dal commercio italiano a causa del blocco stesso. Ma tutto ciò che fecero le due
potenze alleate fu utilizzare i problemi affrontati dall'Italia come monito circa le
ulteriori difficoltà che Mussolini avrebbe patito con l'ingresso in guerra. La
speranza di convincerlo all'equidistanza e, in futuro, al cambio di campo era
destinata a restare tale.70
Il punto di maggiore criticità era però quello dei rapporti della Germania con
l'Unione Sovietica. Il 16 dicembre '39 Ciano, nel tentativo di sganciare l'Italia da
Hitler, pronunciò un discorso molto duro alla Camera dei fasci e delle
corporazioni71, che suscitò la furiosa reazione da parte di Ribbentrop.
Un'ulteriore, e più incisiva iniziativa italiana è rappresentata dalla lettera che
Mussolini scrisse ad Hitler il 5 gennaio '40.72
Questa si apriva con una dichiarazione di pieno accordo con il discorso di Ciano
alla Camera e si concludeva con la riaffermazione della fedeltà dell'Italia
all'alleanza e della volontà di Mussolini di partecipare, se necessario, al conflitto,
anche se nulla veniva detto su quando la preparazione militare italiana sarebbe
stata compiuta e l'intervento era subordinato al determinarsi del “momento più
redditizio e decisivo”.73
Nella sua parte centrale la lettera verteva su due argomenti: l'impossibilità per
l'Asse di riportare una completa vittoria sugli anglo-francesi e, d'altro canto, di
sacrificare i propri principì ideologici in nome dei vantaggi tattici conseguiti con
l'accordo tedesco-sovietico. La conclusione era però un'offerta di mediazione:
proponeva di ricostruire una parvenza di Stato indipendente polacco e di non
prendere alcuna iniziativa ad ovest. Quanto ai rapporti con l'Unione Sovietica, ciò
che avrebbe spinto la Gran Bretagna e la Francia, e dietro di loro gli Stati Uniti, a
concludere la pace e ad aver fiducia che la Germania l'avrebbe rispettata
70 Ivi, p.347
71 G. Ciano, Op. cit., pp. 701-724
72 E. Di Nolfo, Op. cit., p.349
73 Mussolini, XXIX, pp.423 e ssg. La lettera è erroneamente datata 3 gennaio. Vedi anche R. De Felice, Mussolini il Duce.
Lo stato totalitario 1936-1940, pp. 750 e ssg.
31
sarebbe stato il fatto che con la pace ad occidente la Germania avrebbe
finalmente trovato il suo spazio vitale ad oriente, liberandole dalla minaccia
bolscevica.74
La lettera fu letta con particolare attenzione da Hitler, che la sottopose
all'attenzione dei suoi collaboratori, tra i quali non dovette mancare chi ne
condivideva lo spirito; ciò nonostante la decisione del dittatore tedesco di
attaccare la Francia non venne revocata, ed anzi nelle alte sfere naziste si
diffuse la convinzione che Mussolini fosse incapace di sconfiggere l'opposizione
interna all'intervento italiano. Di conseguenza, molti si convinsero che la non
belligeranza fosse stata determinata da questa incapacità e non dagli asseriti
problemi economici; Ciano si vide costretto a smentire immediatamente, tramite
l'ambasciata di Berlino. La prova migliore dei timori che la lettera suscitò a
Berlino risiede nel fatto che per due mesi non ricevette risposta. 75
Il 10 marzo Ribbentrop si fece latore della lettera del führer, che per i toni usati
rappresenta una svolta nei rapporti fra i due dittatori. Hitler contestò
puntualmente le considerazioni di Mussolini: respinse il tema della guerra
prematura affermando di aver raggiunto la convinzione che la Gran Bretagna
avesse ormai deciso di combattere a fondo i regimi dittatoriali, per cui era
necessario che i tedeschi sfruttassero il momento favorevole, dovuto ad una
superiore preparazione militare. Quanto all'Unione Sovietica, Hitler affermava
che la questione ideologica dovesse essere accantonata e bisognava
considerare i vantaggi economici tangibili che derivavano dalla collaborazione
con i sovietici.76
Infine il dittatore tedesco metteva Mussolini di fronte ad una alternativa: essere al
fianco della Germania vittoriosa o assumere un ruolo subalterno nell'Europa che
sarebbe nata dopo il conflitto. Con toni profetici e minacciosi allo stesso tempo il
führer scriveva: “credo che la sorte ci costringerà, prima o poi, a combattere
insieme”.77
Il viaggio di Ribbentrop a Roma era stato preceduto, in febbraio, dalla missione
in Europa di Sumner Welles, sottosegretario di stato statunitense, cui il
presidente Roosvelt aveva affidato l'incarico di verificare quali fossero le
74 Ibidem
75 Ibidem; E. Di Nolfo, Op. cit., p. 348; G.L. Andrè, La guerra in Europa. 1 settembre 1939-22 giugno 1941, 1964, pp. 348
ssg.
76 R. De Felice, Op. cit., pp. 754-763
77 Citato in E. Di Nolfo, Op. cit., p. 350
32
rispettive posizioni dei paesi europei e se esistesse la possibilità di una pace
stabile e duratura.78 Se a Roma egli trovò in Mussolini e Ciano interlocutori
disposti a discutere ma, in fin dei conti, poco o nulla in grado di influire sulla
cessazione del conflitto, in Germania era stato sostanzialmente ignorato. Il suo
viaggio proseguì in Francia e Gran Bretagna, ormai privo di prospettive visto
l'atteggiamento tedesco.
Nel colloquio con Ribbentrop in occasione della consegna della lettera di Hitler,
Mussolini si disse convinto, con il dittatore tedesco, che le sorti delle due nazioni
fossero legate indissolubilmente. Il giorno successivo il duce si dimostrò disposto
ad accettare il punto di vista tedesco sui rapporti con i sovietici e a migliorare le
relazioni italiane con l'Unione Sovietica. Inoltre si lasciò andare ad affermazioni
sull'impossibilità per l'Italia di non partecipare al conflitto, facendo la gioia di
Ribbentrop.79
La disponibilità che Mussolini aveva dimostrato con il ministro tedesco non
aveva persuaso Ciano di un prossimo intervento in guerra dell'Italia; nel suo
diario scrive80 che il duce gli aveva confidato di non credere all'offensiva tedesca
né ad un suo successo immediato e completo. Avrebbe quindi meditato più
lungo.
Il 18 marzo, come concordato con Ribbentrop, i due dittatori si incontrarono al
Brennero; il duce cercò di convincere Hitler a rimandare di qualche mese
l'attacco alla Francia, per dargli modo di incrementare le forze militari italiane e
partecipare attivamente alle operazioni. Da parte sua, il führer non chiese un
immediato ingresso in guerra dell'Italia, ma una definizione dell'atteggiamento di
Roma, soprattutto per il momento in cui la Francia sarebbe stata prossima alla
sconfitta e la collaborazione dell'Italia sarebbe stata decisiva per piegarne
definitivamente la resistenza. Inoltre allettò Mussolini con la prospettiva che, a
quel punto, l'Italia sarebbe stata la padrona del Mediterraneo. 81
Il duce, ancora una volta, non assunse una posizione univoca e rimase convinto
che un'offensiva terrestre fosse di là da venire. Ma è altamente probabile che la
sicurezza dimostrata da Hitler lo avesse impressionato e avesse instillato in lui il
dilemma su ciò che sarebbe avvenuto in caso di una vittoria tedesca senza
l'appoggio italiano.
78
79
80
81
Idibem, p. 351; R. De Felice, Op. cit., pp.754-755; S. Welles, Ore decisive, Einaudi Roma 1944, p.161
G. Ciano, L'Europa verso la catastrofe, Mondadori 1948, p. 527 ssg.
G. Ciano, Diario, pp. 405-407
R. De Felice, Op. cit., pp. 767-768; G. Ciano, L'Europa verso la catastrofe, p. 545
33
Di ritorno dal Brennero Mussolini redasse un “promemoria segretissimo”, datato
31 marzo '40 e destinato al re, a Ciano, a Badoglio, ai capi di Stato maggiore
Graziani, Cavagnari e Pricolo e al ministro dell'Africa italiana Teruzzi. 82
Il documento faceva il punto della situazione e vagliava le opzioni che si
presentavano riguardo il conflitto; dimostrava ormai poca fiducia in un
compromesso pacifico ma ribadiva che l'ingresso in guerra italiano, che sarebbe
dovuto essere necessariamente al fianco della Germania, era inevitabile. Ancora
una volta non si fornivano scadenze temporali precise.
Ma ormai, nonostante tutti i tentennamenti del duce, Hitler era deciso a
completare la sua strategia militare: il 10 maggio ebbe inizio l'attacco alla Francia
che si risolse in una travolgente vittoria; il 10 giugno, quando ormai il risultato
appariva scontato, l'Italia entrò in guerra. Il 22 giugno veniva firmato l'armistizio
franco-tedesco, due giorni dopo quello con l'Italia, cui i francesi dovettero
arrendersi pur avendo combattuto soltanto qualche scontro di frontiera. Le
richieste italiane, anche dietro suggerimento di Hitler, furono modeste e si
limitarono all'occupazione di alcune strisce di territorio lungo il confine alpino, alla
smilitarizzazione di una fascia profonda 50 chilometri sia sul territorio
metropolitano sia su quello esistente tra la Libia e le colonie africane della
Francia e al diritto per l'Italia di utilizzare il porto di Gibuti e la ferrovia GibutiAddis Abeba nell'Africa orientale italiana.83
In questa sede non possiamo ripercorrere le disfatte militari che caratterizzarono
la guerra dell'Italia. Nel periodo bellico, fino a quel 25 luglio '43 che segna la
caduta di Mussolini, l'attività politica si ridusse a qualche incontro con Hitler,
senza iniziative di rilievo. Con il fronte nemico i contatti furono ancor più scarsi.
La guerra aveva dimostrato tutta l'impreparazione italiana.
82 R. De Felice, Op. cit., pp. 772-775
83 E. Di Nolfo, Op. cit., p. 356
34
2.Il Medio Oriente tra le due guerre
2.1 L'accordo Sykes-Picot e la dichiarazione Balfour
La prima guerra mondiale rappresentò una spartiacque per il Medio Oriente; le
popolazioni furono coinvolte direttamente nelle operazioni belliche, poiché
numerosi furono i soldati che entrarono nelle fila degli eserciti dei paesi coloniali.
Questo fu uno degli aspetti che, a guerra finita, spinse i paesi interessati alla
rivendicazione dell'indipendenza, che sarebbe però rimasta inesaudita ancora a
lungo: la prospettiva che l'impero ottomano, alleato con gli imperi centrali di
Germania e Austria-Ungheria, si disgregasse alimentò gli appetiti coloniali di
Francia e Gran Bretagna, ma anche di Russia ed Italia.
Nel cosiddetto accordo di Costantinopoli del marzo 1915 veniva addirittura
promessa alla Russia l'annessione di Istanbul ed il controllo degli Stretti. Più in
generale i governi dell'Intesa miravano ad estendere la loro influenza su tutta la
regione mediorientale. I due passi fondamentali attraverso i quali vennero
sintetizzate queste mire furono due: l'accordo Sykes-Picot del 1916 e la
dichiarazione Balfour del 1917.
L'accordo Sykes-Picot costituì un tradimento, innanzitutto da parte della Gran
Bretagna, degli accordi diplomatici presi in particolare con gli arabi. Alla Mecca lo
sceriffo (discendente del profeta) Husayn al-Hāshimī sognava di ricostituire un
impero arabo nei territori che avevano visto la nascita dell'Islàm e il regno dei
primi califfati. Suo avversario nella regione era l'emiro del Neģd, Ibn Sa'ūd.
Entrambi erano governatori dell'Impero ottomano ed entrambi concepivano la
sovranità come un potere riferito alla personalità del sovrano, che il popolo
doveva delegare attraverso un omaggio ufficiale. Uno stato immaginato su un
tale principio doveva rivelare un'identità nazionale: per Husayn la dimensione
nazionale risiedeva nella tradizione araba, di cui si sentiva rappresentare, in virtù
della sua discendenza dal Profeta, la parte più nobile. Per Ibn Sa'ūd invece non
era importante la storia familiare e la supposta discendenza da Maometto, bensì
il prestigio della sua famiglia nell'ambito della società tribale del Neģd. 84
Gli inglesi strinsero accordi con Husayn poiché sapevano che l'apporto degli
arabi alla lotta contro gli ottomani sarebbe stato di grande aiuto per l'Intesa: una
rivolta araba avrebbe significato distogliere una importante quantità di truppe
84 R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 72
35
ottomane da altri fronti e costringerle a combattere in territori aspri, desertici e
difficili da difendere.
Il carteggio che lo sceriffo intrattenne con il nuovo console generale britannico al
Cairo, sir Henry McMahon, tra il luglio 1915 e il marzo 1916 sembrava far
sperare al meglio per gli arabi. Ad esempio il 24 ottobre 1915 McMahon scriveva
a Husayn in cui riconosceva e approvava “l'indipendenza degli arabi nei territori
inclusi nei limiti e nei confini proposti dallo sceriffo della Mecca.”85
Ma questa affermazione era riconducibile ad una indipendenza dalla Turchia e
non alla nascita di uno o più stati sovrani arabi, di cui gli inglesi non volevano
farsi garanti.86
Nello stesso tempo Husayn avviò trattative analoghe con gli oppositori arabi al
regime di Damasco ed Istanbul, che si erano raccolti in piccoli gruppi ed erano
stati oggetto di una attenta osservazione da parte delle autorità e dell'esercito
ottomano, che li riteneva creazioni dirette di Francia e Gran Bretagna, con lo
scopo di separare i territori arabi dall'Impero ottomano e porli sotto il proprio
controllo. Le autorità ottomane avrebbero finito con l'infierire duramente contro
questi oppositori arabi, anche se le loro richieste non erano particolarmente
rivoluzionarie: chiedevano una riforma dell'Impero in modo che la moderna civiltà
europea potesse diventare parte integrante della cultura araba. A questa
versione filo-ottomana del nazionalismo arabo si opponeva una corrente che
aveva espresso ad Husayn la volontà dei paesi arabi di insorgere contro gli
ottomani sotto la sua guida, per poi ricompensarlo con la dignità califfale.
In fin dei conti il nazionalismo arabo diede un appoggio molto modesto alle
ambizioni di Husayn, per due motivi sostanziali: il suo radicamento sociale era
modesto e, soprattutto, il nazionalismo arabo aveva come obiettivo non tanto la
fondazione di uno stato nazionale arabo, ma la conquista dell'indipendenza da
parte delle singole regioni e la loro trasformazione in stati nazionali. Il
colonialismo di guerra aveva causato l'affiorare della rivendicazione di
indipendenza dello stato coloniale sulla base delle realtà economiche e sociali
create nei decenni precedenti, e destinata anche a definire le frontiere dei nuovi
stati.87
Confortato dalle promesse inglese nell'ottobre 1916 Husayn si proclamò re degli
85 M. Yapp, The Making of the modern Near East. 1792-1923, London, Longman 1987, p.279
86 B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, RCS Libri, 2001, p. 94
87 R. Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo, cit., pp. 60, 72-73
36
arabi, anche se le potenze europee non vollero riconoscerlo con quel titolo ma
solamente come re della regione del Ḥiģiāz.
Intanto il 3 gennaio 1916 l'inglese Mark Sykes e il francese Francois Picot
firmavano un accordo in cui, riprendendo i termini dell'intesa di Costantinopoli,
stabilivano la divisione della Mezzaluna fertile in una sfera di influenza francese
ed una inglese: alla Gran Bretagna venivano assegnati il basso Iraq e tutti i
territori a sud della Mezzaluna fertile, dalla Palestina al Golfo Persico, mentre
alla Francia la Siria, il Libano e la zona di Mosul nell'alto Iraq.
Questa spartizione teoricamente non contrastava la possibilità di creare uno
stato arabo nella penisola araba, ma certamente rendeva particolarmente difficile
che si potesse creare un'entità autonoma ed indipendente dal volere delle
potenze europee. Così, quando nel 1917 scoppiò la tanto auspicata rivolta araba
che doveva portare il secondogenito di Husayn, Faysal, a Damasco con l'aiuto
degli inglesi e del mitico “Lawrence d'Arabia”, Gran Bretagna e Francia
sapevano già che le aspirazioni arabe sarebbero state frustrate. 88
La rivolta araba fu effettivamente efficace come ci si attendeva: il 1 ottobre 1918
furono le truppe arabe di Faysal ad entrare per primi a Damasco, seguiti dalle
truppe britanniche guidate dal generale Allenby. Per i nazionalisti arabi la Siria
era stata liberata da un esercito arabo e pertanto a loro spettava il potere
politico. Immediatamente si progettò un governo arabo in Siria, attraverso la
convocazione di un congresso nazionale arabo che tenne le sue sedute tra il
giugno 1919 ed il luglio del 1920.
Il congresso, presieduto da Faysal, intendeva tutelare gli interessi arabi; con il
termine Arabia, in questo momento, si intendeva tutto il territorio della Mezzaluna
fertile. La sovranità politica avrebbe dovuto inizialmente restare nelle mani del
congresso nazionale, di cui tra l'altro faceva parte un notevole gruppo di ex
deputati ottomani.
I lavori furono però rallentati dalle tensioni tribali interne e dalla difficoltà di
costituire un esercito efficiente. Nonostante tutto, Faysal si recò a Parigi per
chiedere che durante la conferenza di pace venisse riconosciuta l'indipendenza
dell'Arabia.
Le cose andarono però in maniera differente: su impulso del presidente
americano Wilson, nell'estate del 1919 una commissione di indagine, cosiddetta
88 M. Campanini, Storia del Medio Oriente, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 64-66
37
King-Crane, era stata incaricata di sondare l'opinione pubblica siriana ed aveva
concluso che, comunità cattolica a parte, i siriani desideravano esclusivamente
l'indipendenza e si dimostravano più favorevoli alla Gran Bretagna che alla
Francia.
Tuttavia le due potenze europee si accordarono per una immediata evacuazione
britannica che avrebbe lasciato mano libera ai francesi; il passo successivo da
parte inglese fu di consigliare a Faysal di tentare di ottenere il più possibile dalla
Francia, tirandosi così definitivamente fuori dalla questione.
Il congresso nazionale arabo con un gesto di orgoglio offrì a Faysal, il 7 marzo
1920, il trono della Grande Siria e di fatto il regno venne proclamato. La Francia
non era disposta ad accettare un simile sviluppo degli eventi e così, con il
pretesto di porre fine alle ostilità anti-francesi, inviò delle truppe a Damasco
sottoponendo la città ad un bombardamento. Il male assortito esercito di Faysal
venne sconfitto e questi dovette rifugiarsi in Palestina. 89
Nel novembre 1920 'Abdallāh, primogenito di Husayn, mosse verso la Siria alla
testa di un piccolo gruppo di beduini; questa mossa preoccupò i francesi, che
avevano chiaramente manifestato l'intenzione di trasformare il mandato in un
vero e proprio controllo coloniale, chiesero alla Gran Bretagna di intervenire e in
occasione della conferenza del Cairo del marzo 1921 si decise di separare la
Transgiordania dalla Palestina e di affidarla ad 'Abdallāh.90
L'intenzione francese di rimanere in Siria necessitava di provvedimenti riguardo
alle terre della Mezzaluna fertile sottoposte al mandato britannico e, in
particolare, in quello che oggi è l'Iraq. Londra era inizialmente indecisa su come
agire nella regione, ma quando una rivolta esplose nella seconda metà del '20 la
regola coloniale britannica dell'indirect rule consigliò di costituire un regno
formalmente indipendente, che sarebbe comunque rimasto sotto la supervisione
britannica.
Nel 1921, dopo un referendum che sancì la preferenza della popolazione locale
per un governo arabo, si consentì a Faysal di cingere la corona dell'Iraq, che
raggruppava le tre antiche province ottomane di Mosul, Baghdad e Bassora. Ad
ogni buon conto il nuovo stato rimaneva sotto lo stretto controllo della Gran
Bretagna, che si vedeva riconosciuto il diritto di interferire nelle questioni
89 R. Schulze, Op. cit., p. 76
90 M. Campanini, Op. cit., p. 69
38
finanziarie, di difesa e di politica estera.
Oltre all'indipendenza di fatto solo formale, il nuovo stato nasceva con un
ulteriore problema: la frammentazione etnica e religiosa su cui era stato costruito
( riuniva in sé un sud arabo sciita, un centro arabo sunnita ed un nord
prevalentemente curdo sunnita) lo rendeva estremamente fragile.
L'iniziativa delle due potenze europee di costituire due entità in maniera di fatto
arbitraria, se gettavano le basi per future discordie nelle regioni interessate,
avevano il pregio di accontentare, in qualche modo e parzialmente, i figli di
Husayn. Il sovrano del Ḥiģiāz fu invece praticamente abbandonato a sé stesso e
negli anni seguenti perse il controllo del suo territorio, sconfitto militarmente dal
rivale Ibn Sa'ūd.
Altrettanto, se non più gravida di conseguenze fu la dichiarazione Balfour; fin dal
1897 il congresso sionista di Basilea aveva auspicato un ritorno degli ebrei in
Palestina. Questo auspicio era stato fatto proprio da un attivo ed influente
propagandista, il dottor Chaim Weizman, che si era adoperato presso il governo
inglese per ottenere un impegno da parte di Londra a realizzare il progetto. La
situazione difficile dell'Intesa nel 1917, i cui eserciti erano impantanati sul fronte
occidentale, fu uno dei motivi che spinse la Gran Bretagna a sottoscrivere quello
che sarebbe diventato il più importante riconoscimento della causa sionista, la
dichiarazione Balfour.
Altri motivi che possono essere citati come decisivi per la scelta inglese sono il
timore che la Russia stesse per concludere una pace separata, la speranza di
indurre gli Stati Uniti ad un più deciso impegno a favore degli Alleati e la volontà
di contrastare le rivendicazioni francesi in Palestina, visto che la Francia aveva
già riconosciuto la causa sionista cinque mesi prima senza troppi proclami.
Appoggiare il sionismo significava, in definitiva, giustificare la propria presenza
nella regione.
I funzionari britannici temevano che gli ambienti ebraici internazionali
osteggiassero la Russia per il suo antisemitismo e intendessero ostacolarne la
vittoria ed espansione territoriale, sospettavano che gli ebrei americani
parteggiassero per gli imperi centrali, poiché spesso di origine tedesca o austroungarica, e, in generale, sopravvalutavano la potenza, l'influenza, l'unità di intenti
e di opinione degli ebrei. Alcuni inglesi giunsero addirittura a imputare la stessa
grande guerra ad un manipolo di finanzieri e faccendieri ebrei. In quest'ottica
39
francesi e britannici si convinsero che guadagnare alla propria causa gli ebrei
americani avrebbe facilitato l'ingresso in guerra al loro fianco degli Stati Uniti e
rafforzato la posizione russa.
Nel consiglio dei ministri del 31 ottobre 1917, in cui la dichiarazione fu infine
approvata, Lord Balfour fu estremamente chiaro: “la grande maggioranza degli
ebrei in Russia e in America, come nel mondo in generale, sembra al momento
favorevole al sionismo. Se potessimo emettere un comunicato di appoggio a
quell'ideale, avremmo l'occasione di organizzare sia in Russia sia in America una
campagna propagandistica di estrema utilità.”
La dichiarazione Balfour venne emanata, sotto forma di lettera, il 2 novembre
1917, ed espresse il favore del governo britannico alla costituzione di una
National Home degli ebrei in Palestina. L'espressione del focolare nazionale
preannunciava la nascita di uno Stato vero e proprio, di cui tuttavia non si
definivano estensione geografica e confini.
Le autorità britanniche non consultarono alcun leader arabo prima di emettere la
dichiarazione e soltanto dopo due mesi ci si impegnò a rassicurare Husayn che
gli insediamenti ebraici sarebbero stati resi possibili solo laddove fossero stati
compatibili con la libertà politica ed economica della popolazione araba in
Palestina.91
I flussi migratori furono inizialmente molto modesti e, almeno nella prima fase, il
sionismo che si affermava era un movimento quasi esclusivamente di origine
europea, in cui l'elemento religioso era importante ma subordinato all'elemento
etnico dell'identità nazionale ebraica legata alla terra dei padri. 92
Gli ebrei cominciarono però subito a contendere agli arabi i due beni primari
della
Palestina, l'acqua e la terra, tutt'oggi al centro
delle
dispute.
L'espropriazione delle terre avvenne sia attraverso l'acquisto presso arabi
compiacenti, sia attraverso atti di violenza, il che portò ben presto allo sviluppo di
tensioni e scontri.
Il problema della convivenza di due popoli e, ancor più importante, due culture
nella stessa terra divenne subito oggetto di studio da parte di commissioni che
tentarono di raggiungere una soluzione, tra cui la Peel del 1937.
La Gran Bretagna, che aveva la responsabilità sulla Palestina in qualità di
91 B. Morris, Op. cit., pp. 98-102
92 T. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna 2004, p.15
40
nazione mandataria, non fu capace di gestire la situazione. Negli anni Trenta,
soprattutto con l'inizio delle persecuzioni hitleriane, il flusso migratorio aumentò
notevolmente, il che ovviamente costituì un ulteriore motivo di preoccupazione
per gli arabi. Nel 1936 ci fu lo scoppio della rivolta araba, guidata dal muft ī di
Gerusalemme, Hajjī Amīn al-Husaynī, appartenente ad una delle famiglie arabopalestinesi più ricche ed influenti.
La rivolta venne messa in atto soprattutto attraverso atti di guerriglia e duri
scioperi che misero in crisi le strutture economiche e sociali locali. La Gran
Bretagna faticò a contenere la ribellione ed utilizzò in modo anche massiccio
l'esercito e progressivamente le manifestazioni andarono esaurendosi. Dopo lo
sciopero e gli scontri che caratterizzarono il 1936, la commissione Peel lavorò ad
una soluzione: il 4 luglio del 1937 il rapporto emesso stabiliva che il conflitto
fosse insopprimibile ed insolubile nell'ambito di un solo stato e che il mandato
fosse inapplicabile.
La raccomandazione era quindi quella di dividere il territorio tra arabi ed ebrei,
con la costituzione dei rispettivi stati. Gerusalemme, Betlemme e un corridoio
verso il mare, con sbocco a Giaffa, sarebbe rimasto sotto il controllo britannico.
Per fare tutto questo sarebbe stato necessario anche uno “scambio di
popolazione”.93
L'alto comitato arabo guidato da Hajjī Amīn al-Husaynī respinse le proposte,
affermando che lo schema di divisione assegnava agli ebrei le terre migliori e
che, quando il territorio concesso loro fosse diventato sovrappopolato a causa
dell'immigrazione, avrebbero tentato di espandersi a spese degli arabi. In
settembre la ribellione riprese. Questa seconda fase assunse sempre più
l'aspetto di un'insurrezione delle campagne contro il dominio delle città. 94
I combattimenti proseguirono fino alla primavera del 1939, dopo aver toccato il
culmine nell'estate del 1938, durante la quale alcune città finirono per qualche
tempo in mano ai ribelli. Ma il proseguimento della lotta metteva sempre più in
evidenza le debolezze organizzative degli insorti, divisi da contrasti politici,
familiari e regionali. Il rafforzamento del dispositivo militare britannico e la
mancanza di coesione dei ribelli portarono al fallimento dell'insurrezione. 95
La pericolosità della situazione e la necessità di non inimicarsi gli arabi
93 B . Morris, Op. cit., p. 180
94 R. Schulze, Op. cit., p. 126
95 B. Morris, Op. cit., pp. 196-200
41
convinsero gli inglesi a pubblicare, nel 1939, un Libro Bianco in cui si poneva un
limite all'immigrazione ebraica in Palestina, una scelta che vanificava il proposito
della dichiarazione Balfour e alienava il consenso dei sionisti. 96
2.2 La fine dell'Impero ottomano
La Turchia uscì dalla guerra con la sottoscrizione dell'armistizio di Mudros il 30
ottobre 1918. A Istanbul il governo si adattò rapidamente alle condizioni previste,
che erano piuttosto dure nei confronti turchi: l'articolo 7 attribuiva alle potenze
alleate il diritto di occupare qualsiasi punto dell'impero, qualora la sicurezza delle
loro truppe lo avesse richiesto.
A questo diritto esse ricorsero a più riprese: il 13 novembre cinquantacinque navi
da guerra alleate gettarono l'ancora nel porto di Istanbul, unità francesi
occuparono i territori sudorientali dell'Anatolia e si spinsero fino alle regioni
centrali, unità della marina britannica si stabilirono sulle coste del Mar Nero. Gli
italiani occuparono la zona sudoccidentale dell'Anatolia. Era così stato raggiunto
uno degli scopi principali dell'Intesa, le cui potenze l'anno precedente avevano
comunicato al governo americano che uno degli obiettivi bellici era “scacciare
dall'Europa l'Impero ottomano, il quale si è dimostrato totalmente estraneo alla
civiltà occidentale”.97
Il nuovo governo turco rinunciò a qualsiasi protezione militare, il che significò la
totale perdita di controllo sui territori ancora formalmente parte dell'impero; tra la
fine del 1918 e l'inizio del 1919 i nazionalisti turchi avevano schierato le prime
unità della Unione per la difesa dei diritti: in Anatolia le prime schiere di
combattenti si apprestarono a scontrarsi con gli occupanti. Queste milizie erano
guidate in parte dai cosiddetti efe (briganti), ma si contava anche sulla presenza
di ufficiali ottomani contrari alla smobilitazione e su alcuni intellettuali provenienti
soprattutto dalla regione di Smirne, che nel '19 era stata occupata da contingenti
greci.
Nel maggio il governo del sultano decise di inviare Mustafa Kemal a Samsun,
nell'Anatolia nordorientale, per ristabilire l'ordine in quei territori. Kemal aveva
manifestato fin dall'inizio del secolo il suo temperamento innovatore con la
fondazione del Comitato politico segreto “Patria e libertà” che rappresenta la
96 M. Campanini, Op. cit., pp. 71-73
97 R. Schulze, Op. cit., p. 65
42
cellula originaria di quel movimento politico dai forti connotati nazionalisti che nel
periodo successivo alla prima guerra mondiale lo portò ad assumere il potere.
Dopo aver combattuto per tutto il conflitto mondiale, Kemal si opponeva alla
rassegnazione con cui il governo aveva passivamente accettato le condizioni
dell'armistizio di Mudros, tanto che nel momento in cui venne inviato a Samsun
era già un sospetto cospiratore.98
Probabile che in questa occasione Kemal vedesse la possibilità di realizzare il
progetto che aveva in mente da tempo, quello di uno stato nazionale turco
indipendente. Di certo c'è che invece di agire secondo i dettami del governo si
pose alla testa dei nazionalisti, esortando le truppe a sua disposizione a
resistere agli occupanti stranieri. A questo punto su pressione della Gran
Bretagna Kemal venne congedato dal governo ottomano, il che sanciva la
definitiva frattura tra Istanbul e l'Anatolia Orientale.
A questo punto due congressi nazionalisti, quello di Erzurum svoltosi tra il 23
luglio e il 7 agosto 1919, e quello di Sivas (4-11 settembre 1919) furono alla base
della costituzione di un nuovo potere statale. Tra le principali rivendicazioni dei
nazionalisti anatolici figurava la salvaguardia del territorio della penisola: per
nessun motivo si sarebbero dovuti cedere al nemico territori abitati da turchi.
L'inasprirsi della resistenza rese più decise le reazioni delle potenze dell'Intesa:
nel marzo 1920, due mesi dopo l'elezione dell'ultimo parlamento ottomano,
all'interno del quale i nazionalisti erano riusciti a conseguire una maggioranza
relativa, il comando poliziesco su Istanbul passò alle truppe britanniche mentre
Kemal veniva dichiarato contumace e condannato a morte.
Il conflitto era ormai definitivamente inasprito. Il 23 aprile 1920 ad Ankara venne
convocata la grande Assemblea nazionale turca, che avrebbe dovuto
rappresentare la nazione turca in quanto potere esecutivo e legislativo. Tra l'altro
si continuava a prevedere un ruolo futuro anche per il sultano, che continuava a
risiedere ad Istanbul in quella che i nazionalisti ritenevano una sorta di prigionia.
L'assemblea era composta in gran parte da intellettuali, liberi professionisti e
militari, che avevano ormai abbracciato la causa del nazionalismo turco, primo
passo verso un definitivo abbandono dei legami con il mondo arabo.
Il 1 marzo 1921 venne emanata anche una costituzione in cui il termine
“ottomano”, riferito allo stato, veniva definitivamente sostituito con “turco”. Era la
98 A. Biagini, Storia della Turchia contemporanea, Bompiani, Milano 2005, pp.55-57
43
rinuncia definitiva del governo di Ankara alla sovranità su territori non turchi.
Nel frattempo le potenze dell'Intesa stipularono il trattato di Sèvres, che non
venne
però
ratificato
dal
nuovo
parlamento
turco,
che
prevedeva
l'internazionalizzazione degli Stretti, la cessione alla Grecia dell'intera Tracia, del
territorio di Smirne e di alcune isole della costa anatolica, la nascita di una
Armenia
indipendente
grazie
alla
sottrazione
di
territori
dell'Anatolia
nordorientale e la provvisoria conferma della sovranità sul Kurdistan, di cui si
prevedeva una non meglio precisata futura indipendenza. 99
Erano condizioni durissime che, unite ad una nuova offensiva greca,
scatenarono una ulteriore reazione da parte di Kemal, che organizzò un esercito
pronto alla controffensiva. Nell'agosto 1922 avvennero nuovi e decisivi scontri,
che nel breve volgere di un paio di mesi portarono alla sconfitta dei greci e alla
riconquista di Smirne. Le truppe di Kemal giunsero fino ad Istanbul, dove in
novembre venne destituito e costretto alla fuga il sultano, che a bordo di una
nave britannica raggiunse Sanremo dove rimase in esilio.
Alle potenze dell'Intesa non restava che riconoscere lo sviluppo delle cose: con
la Conferenza di pace di Losanna (21 novembre 1922-24 luglio 1923) la Turchia
ottenne una sostanziale revisione del trattato di Sèvres e le venne riconosciuta la
sovranità sulle regioni precedentemente dichiarate territorio nazionale dei turchi,
cui venne riconosciuta anche la sovranità sugli Stretti.
Quando il 2 ottobre 1923 le ultime truppe britanniche lasciarono Istanbul alle
truppe nazionali la conquista dell'indipendenza dalle potenze europee poteva
dirsi raggiunta; la capitale del nuovo stato turco venne però spostata ad Ankara
e, in concomitanza, Kemal fu nominato primo presidente della Repubblica turca.
Kemal promosse una serie di iniziative volte a laicizzare lo stato: abolì il califfato,
chiuse le scuole coraniche, gli 'ulamā' vennero privati delle loro funzioni e gli
ordini mistici vennero sciolti. Con il tempo l'Islàm cessò di essere la religione
ufficiale e la Turchia divenne l'unico stato a maggioranza musulmana ad abolire
questo principio costituzionale.
Ciò che Kemal, che grazie alle sue riforme si guadagnò il soprannome di Atatürk
(padre dei turchi), voleva era avvicinare il paese all'Europa rescindendo i legami
con il mondo islamico.
99 M. Campanini, Op. cit., pp. 76-77
44
2.3 L'Egitto
Poiché nel corso della trattazione della politica islamica italiana avremo modo di
fare alcuni riferimenti all'Egitto, riteniamo utile fare un breve cenno a quanto
avvenne nel paese in seguito alla guerra. Ancor prima che si aprissero i colloqui
di pace a Parigi, una “delegazione” (Wafd) di nazionalisti, guidata da Zaghlūl,
capo del movimento, premette su Londra per veder riconosciuti i diritti egiziani.
La risposta fu l'arresto del capo delegazione. Per tutta risposta il popolo egiziano
insorse compatto, mettendo in grossa difficoltà le autorità inglesi che, dopo tre
anni
di
disordini,
dichiararono
unilateralmente
l'Egitto
una
monarchia
indipendente, pur conservando alcune importanti prerogative quali il controllo
dell'esercito, della polizia e del canale di Suez. 100
Intanto la “delegazione” si era trasformata in un vero e proprio partito (Wafd), che
sarebbe diventato, insieme al re e alla Gran Bretagna, protagonista principale
della vita politica. Nonostante le apparenze l'Egitto rimaneva fortemente
condizionato dalla politica di Londra, anche dopo il nuovo trattato del 1936 che
concedeva alcune concessioni, come la sostituzione dell'alto commissario con
un vero ambasciatore e l'ingresso del paese nella Società delle Nazioni;
rimanevano però invariati i privilegi che gli inglesi si erano riservati già nel 1922.
101
Ma l'Egitto fu soprattutto teatro della nascita dei Fratelli Musulmani per opera di
Ḥasan al-Bannā, insegnante elementare di estrazione piccolo borghese, che
forniva una lettura islamica della presa di distanza dalla società coloniale e la
identificava con l'emigrazione di Maometto dalla Mecca. 102 Nati nel 1928, i Fratelli
Musulmani conobbero una crescita molto veloce durante gli anni Trenta: alBannā aveva costituito una organizzazione gerarchizzata ma flessibile, di cui egli
costituiva la “Guida Suprema”, affiancato da diversi organismi di consultazione
ed amministrazione. Le giovani reclute erano inquadrate in falangi attive nel
campo della propaganda.103
La Fratellanza intendeva rinnovare l'Islam sul piano della pratica spirituale e farlo
diventare il fulcro della vita dei credenti, oltre ad impegnarsi sul fronte della lotta
nazionalistica contro gli inglesi. Il successo presso la popolazioni fu notevole,
100 M. Campanini, Op. cit., p. 80; B. Bagnato, Origini, sviluppo e crisi dell'imperialismo coloniale, Le Monnier, Firenze 2006,
pp. 150-153
101 Ibidem
102 R. Schulze, Op. cit., pp. 117-121
103 M. Campanini, Op. cit., p. 97
45
grazie anche all'impegno nell'assistenza, negli ospedali e nelle scuole; erano
tradizionalisti ma non integralisti: ad esempio, pur ribadendo il ruolo
essenzialmente domestico della donna propugnavano l'alfabetizzazione e la
diffusione dell'istruzione a tutti i livelli della società. Essi divennero la prova di
come si potesse costituire un movimento politico-religioso di massa su base
islamica.104
Durante la seconda guerra mondiale si sviluppò un'ala militante armata
all'interno dell'organizzazione, che probabilmente sfuggiva al controllo dello
stesso al-Bannā; alla fine del conflitto questa fazione tentò di inserirsi nella lotta
politica, ed il nuovo primo ministro al-Nuqrāshī dichiarò fuorilegge l'intera
Fratellanza. In seguito a questa decisione il primo ministro venne ucciso, e la
polizia rispose uccidendo, nel febbraio 1949, lo stesso al-Bannā; questo non
significò la fine dei Fratelli Musulmani, che anzi ebbero un ruolo importante nel
trionfo della rivoluzione degli Ufficiali Liberi del luglio 1952. 105
104 B. Lia, The Society of the Muslim Brothers in Egypt. The rise of an Islamic Mass Movement (1928-1942), Ithaca Press,
Reading, 1998
105 M. Campanini, Op. cit., p. 98
46
3.La politica italiana nel mondo musulmano
Abbiamo visto come, almeno fino al 1929, la politica estera del fascismo non fu
molto attiva né innovativa, sia a causa del generale immobilismo che
caratterizzava la situazione europea ed internazionale, sia per la sostanziale
subordinazione che questa ebbe a soffrire rispetto alle scelte di politica interna.
Per quanto riguarda la politica nei confronti dei paesi arabi si ritiene invece che
l'immobilismo fu dovuto al fatto che la politica del fascismo riguardo questi paesi
facesse riferimento, almeno per tutti gli anni Venti, a quella britannica. 106
Se queste motivazioni contengono molti elementi di verità, bisogna fare almeno
due precisazioni, non di poco conto: la situazione internazionale era stata
stabilizzata, pur con tutti gli errori e le mancanze, dal congresso di pace di
Versailles, ma nelle regioni dei mandati e, per quanto riguarda l'Italia, in Libia, il
contesto era ben lungi dall'essere calmo ed immobile. Inoltre, come avremo
modo di vedere più avanti, il governo fascista inaugurò una stagione di politiche
ostili, o meglio concorrenziali rispetto alle grandi potenze, Inghilterra in
particolare, in paesi lontani come lo Yemen, con il chiaro obiettivo di minare la
loro forza e tentare di imporre la presenza italiana in luoghi lontani, ma ritenuti
comunque importanti, vuoi per ragioni economico-politiche, vuoi per semplice
prestigio internazionale.
In seguito alla spartizione della parte araba dell'Impero Ottomano tra Francia e
Gran Bretagna, si rendeva necessario per l'Italia cercare di tutelare i propri
interessi nella regione; in particolare era prioritario che gli italiani residenti in
Siria potessero conservare la loro cittadinanza, poiché in questo paese
esistevano “moltissimi e importantissimi interessi […] costituiti da tempi remoti.”
107
Ogni tipo di richiesta italiana dovette però essere immediatamente sospesa,
per ottenere l'appoggio francese nella questione di Fiume e per la soluzione
della crisi di Corfù. Le rivendicazioni italiana venivano parzialmente accolte dalla
Francia in uno scambio di note datato 1 ottobre 1923, che assicurava al governo
italiano il principio della “porta aperta”, in campo economico e culturale. Su
queste basi il fascismo svilupperà la sua politica in Siria. 108 L'obiettivo era quello
di divenire, nel medio-lungo termine, l'interlocutore privilegiato dei dirigenti
siriani, per ottenere una posizione di vantaggio nel momento in cui il paese fosse
106 Vedi introduzione
107 M. Petricioli, L'Italia fascista e il nazionalismo siriano, in “Scritti in onore di Giuseppe Vedovato”, Vol. III, Firenze 1997, pp.
299-300
108 Ibidem
47
divenuto indipendente: che non ci fosse alcuna intenzione di rivendicare il
mandato siriano divenne evidente nel 1926, quando sulla stampa europea
cominciarono a circolare voci circa l'imminente cessione della Siria all'Italia. Il
Servizio Informazioni Militari (SIM) pensava addirittura che le voci fossero state
messe in giro proprio dai francesi, come reazione per la politica ostile condotta
dal fascismo nei primi anni di governo. Il console generale a Beirut, De Cicco,
suggeriva ai consolati di Damasco e di Aleppo di smentire le notizie riguardo alle
aspirazioni italiane e di mostrarsi lieti che il mandato fosse tenuto dalla Francia.
Lo stesso Mussolini in un colloquio con l'ambasciatore francese a Roma,
Beaumarchais, dichiarò che riguardo ai mandati l'Italia non solo non chiedeva la
Siria, ma non l'avrebbe voluta nemmeno se le fosse stata concessa. 109 In questo
momento quindi l'Italia non si proponeva di sovvertire l'ordine costituito, ma
lavorava in prospettiva futura, attenta a non turbare gli equilibri ancora fragili.
Che la presenza italiana fosse poco rilevante nei paesi musulmani lo dimostra
una iniziativa dell'ente nazionale per la tutela e la diffusione della cultura italiana
all'estero (Italica110), presieduta dal conte Guido Carlo Visconti di Modrone, che
nel 1927 inviava un questionario redatto dalla presidenza della stessa
associazione a tutte le ambasciate e legazioni italiane all'estero. Le domande
poste erano le seguenti:111
1.Quali manifestazioni di propaganda culturale italiana hanno avuto luogo in codesto Paese negli
ultimi tre anni.
2.Quali manifestazioni, nello stesso periodo di tempo, sono state promosse da altre nazioni, ed in
quali forme si sono esplicate.
3.Quali sono gli istituti e le Società Italiane in codesto Paese che offrono garanzia di serietà e
con le quali l'Italica possa utilmente mettersi in rapporto per l'attuazione del suo programma.
4.Se esistono istituti di collegamento culturale tra codesto Paese e i nostri connazionali ivi
residenti; quali fini si propongono e e quali mezzi si servono.
5.quali sono gli istituti culturali delle altre nazioni, che si propongono fini simili a quelli che noi
intendiamo raggiungere, e se il loro sistema di organizzazione possa essere da noi
vantaggiosamente adottato
6.Se esistono iniziative italiane, anche di privati, che sia opportuno incoraggiare, ed alle quali
l'Italica possa eventualmente accordare il suo appoggio.
7.Quali manifestazioni si ritiene opportuno promuovere in codesto Paese per diffondere la nostra
109 Ivi, p. 301
110 L'Ente nazionale Italica venne costituito con decreto legge del 26 novembre 1925 con sede centrale a Firenze. Il suo
scopo era “la tutela e la diffusione della coltura italiana all'estero”. Finanziata con sottoscrizioni e contributi volontari, i
componenti del consiglio di direzione erano nominati per decreto reale su proposta del consiglio dei ministri, mentre
l'organizzazione nel suo complesso era posta sotto la diretta supervisione di Mussolini.
111 ASMAE, Ministero Cultura Popolare 1920-1944, busta 67
48
cultura ed in quale periodo dell'anno
Le risposte erano piuttosto deludenti: non solo fino a quel momento non si era
praticamente provveduto ad alcun tipo di manifestazione di propaganda
culturale, ma non si giudicava nemmeno necessario provvedere a simili
iniziative, poiché si riteneva che mancasse un substrato di ceti intellettuali su cui
poter agire. Soltanto per l'Etiopia si invocava l'invio di materiale cinematografico.
Evidente quindi come, per lo meno fino al '27, si possa parlare di disinteresse nei
confronti dei paesi arabi e mediorientali.
Anche i contatti che il governo ebbe con i rappresentanti sionisti in Palestina non
culminarono in nulla più di un sondaggio, una valutazione di quelle che potevano
essere le opzioni a disposizione per il prossimo futuro. 112
Per quanto concerne la presunta mancanza di idee di Mussolini riguardo le linee
guida da seguire in politica estera, si può obiettare che il capo del governo non
aveva abbandonato il revisionismo della prima ora e che il suo scopo restava
quello di sovvertire l'ordine stabilito dal congresso di Versailles. Mancava ancora
una politica unitaria e coerente attraverso la quale ottenere i risultati agognati,
ma l'idea dell'Italia grande potenza era la base da cui partire.
L'Africa e, come abbiamo detto, lo Yemen, furono i luoghi deputati a fare da
apripista alla politica di grandezza. I metodi utilizzati furono differenti da luogo a
luogo ed avremo modo di vedere nel dettaglio quello che avvenne nei paesi a
maggioranza o totalmente islamici. Una precisazione riguardo l'aspetto religioso
va fatta immediatamente: ancora in questi primi anni l'Islam rimane sconosciuto
a Mussolini. Siamo ancora lontani dal fascismo presentato come alfiere
dell'Islam e paladino della causa dei paesi musulmani. Comincia però a
cambiare qualcosa, pur se non per decisione diretta del capo di governo: il 13
marzo 1921 era stato fondato l'Istituto per l'Oriente, per iniziativa di ambasciatori
e docenti universitari di materie orientalistiche, al fine di studiare il mutamento
che avveniva nel Vicino e Medio Oriente islamico. Vedremo che l'Istituto, nato
con scopi scientifici, verrà presto utilizzato dal fascismo per la propria
propaganda. Per adesso basti rilevare il nuovo interesse verso un mondo che
assumerà una notevole importanza negli anni Trenta e a cui il fascismo guarderà
con interesse.
Una panoramica sulla politica attuata nei confronti dei paesi islamici nei primi
112 L. Rostagno, Terrasanta o Palestina? La diplomazia italiana e il nazionalismo palestinese (1861-1939), Studi Orientali
XIV, Roma 1996, pp. 112-114
49
anni di governo Mussolini sarà sufficiente a mostrare quanto scarso fosse
l'aspetto culturale e religioso nelle scelte operate.
In Libia l'inversione di tendenza del governo Mussolini fu chiara ed immediata:
dichiarata decaduta la politica degli Statuti in Tripolitania, che come ricordiamo
era stata sostanzialmente ignorata dal Mussolini giornalista, venne avviata una
operazione di polizia che presto avrebbe portato alla sconfitta della resistenza
locale. Ridotta ad una guerra di bande, questa riuscì ancora ad infliggere
qualche duro colpo all'occupante (Misurata, 7 settembre 1923). Gli italiani
riuscirono però ad ottenere risultati concreti attraverso la politica di divisione dei
capi e con azioni militari spietate, irriguardose delle leggi di guerra e dei costumi
locali: il 25 settembre fu profanata la Moschea di Homs. Con l'attacco finale a
Sedada, 15-22 settembre 1923, il grosso della resistenza tripolitana poteva dirsi
stroncato.113
In Cirenaica le cose furono più difficili, a causa del minor controllo sul territorio e
per una maggiore coesione della resistenza guidata dalla Senussia. Dopo
intense operazioni nella primavera 1923, in quella del 1924 gli scontri si
spostarono sul Gebel. La fitta rete di presidi militari fissi nel frattempo stesa non
dava quei risultati che tecniche più mobili di antiguerriglia, condotte a terra con
autoblindo e mezzi motorizzati ed appoggiate dall'alto da aeroplani, sembravano
promettere (primavera 1925).
Alla fine del 1925 il governo Mussolini poteva affermare di aver messo ordine in
Tripolitania e rotto ogni tipo di trattativa con Mohammed Idris e la Senussia in
Cirenaica.114
Nonostante le apparenze, gli italiani erano ancora fuori dal Gebel e negli anni
successivi operazioni di carattere militare e diplomatico si susseguirono. Non
interessa, in questa sede, seguire nel dettaglio tutte le operazioni, che
culminarono con l'uccisione del leader della resistenza Omar al-Mukhtar il 16
settembre 1931 e giunsero a definitivo compimento con la nomina di Balbo
governatore, avvenuta il 1 gennaio 1934. Si chiudeva così la fase più dura della
riconquista italiana, che dalla nomina di Graziani a vice governatore della
Cirenaica nel 1930 si era inasprita e macchiata di diverse atrocità: per privare la
resistenza del substrato popolare che la sosteneva, Badoglio ordinò a Graziani
113 N. Labanca, Op. cit., p.147
114 Ibidem, pp. 147-148
50
di spostare con la forza la popolazione della roccaforte del Gebel Akhdar. 115 Circa
centomila persone vennero confinate in appositi campi di concentramento,
insieme al loro bestiame; altre iniziative furono: la creazione di tribunali “volanti”
che si trasferivano per via aerea da un posto all'altro del paese per emettere le
condanne nei confronti degli accusati; l'interruzione delle comunicazioni tra
combattenti per la resistenza e l'estero, mediante l'erezione di reticolati di filo
spinato lungo tutta la frontiera con l'Egitto; la confisca dei terreni agricoli; l'arresto
dei notabili di cui sospettavano la fedeltà, impiccandone alcuni, imprigionandone
altri o trasferendoli in Italia. Quando, a riconquista ultimata, i campi di
concentramento vennero riaperti (si stima che nel frattempo circa sessantamila
detenuti fossero deceduti), i superstiti si trovarono nella povertà più assoluta,
avendo perso terre e bestiame, e trovarono spesso impiego come manodopera a
basso costo nella costruzione delle opere e delle infrastrutture intrapresa dal
governo fascista.116
Questi aspetti della riconquista spiegano come ci si trovasse di fronte alla
completa mancanza di una idea coerente ed organica sulla politica da seguire
nei confronti dei paesi islamici: mentre si perpetravano aggressioni e massacri in
Libia, si cominciava a parlare di appoggio alla causa musulmana, con cui si
riteneva di condividere le conseguenze negative del congresso di Versailles.
A questo proposito il seguente documento sembra riassumere perfettamente la
confusione in questi primi approcci con il mondo islamico:
La Libia, in questo momento tipico della sua storia, è per l'Italia il problema dei problemi:
incuneata tra i due imperi nordafricani dell'Inghilterra e della Francia, essa rappresenta il solo
punto su cui noi possiamo far leva, per non subire oggi la stretta degli accerchiamenti irresistibili,
per imporre domani il moto preponderante della nostra azione.... L'aspetto islamico del problema
è non meno importante di quello mediterraneo, cui, del resto, profondamente si connette. La
Libia, la cui scarsa popolazione indigena è tutta islamica, può con una saggia politica, darci dei
grandi risultati in ordine alla politica islamica del Nord Africa, il che significa in ordine alla politica
generale di tutto l'islam, uno dei sistemi religiosi più organici e più coerenti, che attraverso le terre
e i mari, viva in una interiore unità, che è anche, in momenti supremi, unità pratica d'azione. La
politica che si fa oggi con l'islam in Libia avrà le sue conseguenze lontane domani in una terra
più lontana. La guerra ha creato una situazione nuova dell'Islam dinanzi alle nazioni occidentali.
A determinarla hanno concorso: la politica della pace seguita dagli alleati a Versailles, politica di
repressione anti-islamica, sotto il cui impulso si ridestarono ed acutizzarono i moti nazionalisti; la
115 H. W. Al-Hesnawi, Note sulla politica coloniale italiana verso gli arabi libici (1911-1943), in Le guerre coloniali del
fascismo, a cura di A. Del Boca, Laterza, Bari 2008, pp. 44-45
116 Ivi, pp. 46-47
51
disillusione dell'elemento musulmano in Egitto, in Asia Minore, in Arabia, cui gli alleati avevano
durante la guerra promessi vantaggi di ogni sorta, specialmente politici....
Silenziosamente il mondo islamico si prepara. Per questo oggi bisogna avere una politica
islamica precisa, chiara, lungimirante. L'Italia ha oggi una sua politica islamica. Essa, ha detto in
una recente intervista il sottosegretario Cantalupo <<rafforzerà senza dubbio la posizione
generale nei confronti dell'islam, posizione che del resto ha durante lungo tempo coltivata... Tale
posizione è garantita geograficamente e storicamente dalla nostra funzione di ponte di
passaggio, unico e insostituibile, fra l'oriente e l'occidente: noi siamo in definitiva gli occidentali
con i quali sempre hanno dovuto e dovranno prendere contatto gli orientali, ogni qualvolta nella
loro storia si sviluppano fenomeni di accostamento o di interessamento all'Europa...>> Sia il
punto di vista mediterraneo che quello islamico del problema ci persuadono della prevalente
importanza politica della Libia nel nostro sistema coloniale. 117
Come si potesse sperare che il mondo islamico accettasse l'aggressione alla
Libia non è dato sapere e ancor meno chiare appaiono le differenze tra
l'approccio italiano e quello dei paesi alleati a Versailles nei confronti dei
musulmani.
Ad aiutarci nel districare questa matassa sono le parole, pronunciate undici anni
più tardi, da Italo Balbo:
L'Italia ha affrontato in Libia la prova decisiva quale potenza islamica. Una politica islamica
basata sulla oppressione sarebbe stata in contrasto con l'indirizzo generale dell'Italia in oriente.
La politica islamica dell'Italia deve trovare la sua base essenziale nel massimo rispetto per la
religione musulmana, rispetto che non è mancato neppure nei momenti difficili della ribellione e
della lotta contro la Senussia. Ma il rispetto, identificato nell'agnosticismo, avrebbe condotto alla
più completa incomprensione della mentalità islamica. L'Italia ha quindi assunto il compito che
spettava un tempo a quelle autorità, dal califfo al gran senusso, per le quali la tutela della
religione era strettamente connessa con l'esercizio del potere politico. L'Italia ha cioè rivendicato
a se stessa la protezione religiosa dei suoi sudditi musulmani, in virtù della sua dignità di potenza
islamica.118
Nella mentalità italiana la perfetta comprensione del mondo islamico comportava
l'esercizio del potere politico, attraverso il quale si sarebbe espletata la
protezione religiosa dei sudditi, come avevano sempre fatto le autorità locali.
Potremmo quindi dire che la guerra non venne condotta contro il popolo libico,
ma a favore di questo, evidentemente incapace di governarsi e di tutelare il
proprio credo. Non era il rispetto per la religione a mancare durante la
repressione della ribellione, anzi, in virtù di esso l'Italia si era impegnata al fine di
117 Giuseppe Bottai, Mussolini costruttore d'impero, Roma 1927, pp. 30-35. In Goglia e Grassi, il colonialismo italiano da
Adua all'Impero, Laterza, Roma 2006
118 Italo Balbo, la politica sociale fascista verso gli arabi della Libia, estratto della relazione presentata al convegno Volta
sull'Africa, Roma 4-11 ottobre 1938, pp.3-16, 20-22
52
poter svolgere in pieno il ruolo di potenza islamica.
Al contrario delle crociate, la conquista della Libia non era stata una guerra di
religione, ma una guerra laica condotta in favore della religione islamica, ovvero
per consentire al popolo di vivere la propria spiritualità nel miglior modo
possibile. Quella italiana era una sorta di missione civilizzatrice che avrebbe
dovuto elevare il popolo libico e, successivamente, gli altri popoli islamici. Il
concetto è espresso in maniera talmente ingenua che ci sembra di poter dire che
fosse ispirato da una sincerità di fondo, per quanto apparentemente folle. Ciò
che importava era assumere un ruolo guida nel mondo islamico, ma non il modo
in cui si sarebbe ottenuto il risultato: una volta penetrata nell'area di interesse,
l'Italia sarebbe stata capace di ergersi a paladina dei paesi musulmani.
Che alle spalle delle iniziative in Libia ci fossero intenti nobili o no, quel che è
certo è che i risultati ottenuti furono tutt'altro che lusinghieri: le operazioni italiane
suscitarono infatti una levata di scudi di vaste dimensioni contro l'Italia che di
fatto non consentì, almeno fino alla metà del 1933, forme di dialogo efficaci col
mondo arabo, nonostante i primi tentativi di avvicinamento voluti da Roma: tra
questi i due convegni degli studenti asiatici organizzati nel dicembre del 1933 e
del 1934, l'inizio delle trasmissioni in lingua araba da parte di Radio Bari (maggio
1934) ed il potenziamento dell'attività dell'Istituto per l'Oriente, con la
pubblicazione, nel 1932, del quindicinale bilingue “L'avvenire arabo”.
Le rimostranze più dure cominciarono a farsi sentire nel 1929: nel mese di
maggio, in occasione del pellegrinaggio alla Mecca venne diffuso un opuscolo
arabo anonimo dal titolo “appello al mondo musulmano dal popolo tripolitanocirenaico oppresso”119; dopo una citazione di passi del Corano e di ḥadīth di
Maometto riguardanti la solidarietà fra i musulmani, l'opuscolo accusava e
rimproverava questi ultimi dello scarso aiuto dato agli abitanti della Tripolitania e
della Cirenaica nella lotta contro l'Italia. L'appello terminava con queste parole:
“tutti questi avvenimenti, con le loro conseguenze dolorose, sono accaduti
mentre il mondo musulmano si teneva in disparte da tutto ciò e non sapeva nulla
dei patimenti e delle sventure di ogni sorta che il popolo tripolitano-cirenaico
sopportava. A te, o mondo musulmano nelle parti orientali ed occidentali della
terra, noi eleviamo questo appello con voce che arriva al firmamento e diciamo
che nel territorio della Tripolitania è una nazione musulmana araba di più di un
119 “Oriente Moderno”, 1929, p. 299
53
milione e mezzo, la quale da diciotto anni non cessa d'essere bersaglio alle
bombe, ai proiettili ed ai fulmini infernali degli eserciti dei colonialisti, che hanno
occupato i suoi paesi e violato le sue terre riservate, per rubare schiavi ch'erano
stati creati liberi e per impossessarsi con la violenza d'un diritto che a loro non
apparteneva nemmeno per un atomo. O difensori della religione! O nazione del
migliore degli Inviati! Ecco qui la nazione tripolitano-cirenaica, che chiede aiuto e
non trova soccorritore, che grida e non ode alcuno che le risponda. Le sono stati
tagliati i mezzi di sussistenza, le sono venute a mancare le risorse, le sono state
chiuse in faccia le vie, ed il suo prepotente nemico attende il momento propizio
per assalire i suoi accampamenti, senza preoccuparsi dell'uccisione degli
innocenti: vecchi, fanciulli, donne. […] i vostri confratelli musulmani in Tripolitania
ed in Cirenaica affissano i loro sguardi e tendono le loro mani a voi, per chiedervi
soccorso e cercare di destare il vostro sentimento religioso ed il vostro zelo
musulmano contro un nemico che non capisce cosa significhi generosità, non da
valore all'umanità, uccide le persone innocenti in nome della civiltà e commette
ogni obbrobrio per il quale ogni volto umano dovrebbe arrossire.” 120
Non erano certo queste le basi su cui impostare un dialogo con il mondo
musulmano o rivendicare una diversità rispetto alle potenze coloniali. Non erano
soltanto questi opuscoli a descrivere il comportamento italiano: una campagna
stampa piuttosto consistente si scatenò in diverse parti del mondo islamico; ne
riportiamo alcuni esempi, per evidenziare come, tra il 1929 ed il 1932
difficilmente si sarebbe potuto fare più di quanto si fece.
Un giornale di Tunisi, an-Nahḍah, pubblicava la lettera di un “Tripolino
errabondo”, che sosteneva che l'unico modo per far cessare la guerra era
tornare alla politica degli Statuti del 1919 e che “i proclami recentemente emanati
dal governatore della Libia121 non sono sufficienti per varie ragioni; tra l'altro essi
riguardano solo la Cirenaica e non la Tripolitania; inoltre sono poco chiari e
contengono per lo più minacce, laddove la clemenza e la dolcezza sarebbero più
opportune. […] se le cose continuassero di questo passo, il Governo
commetterebbe un delitto imperdonabile contro l'umanità.” 122
Qualche giorno dopo un'altra lettera anonima pubblicata sullo stesso giornale
sollecitava aiuti da parte del mondo musulmano e dei libici residenti all'estero. In
120 Ivi, p. 300
121 Si riferisce ai proclami di Badoglio, che aveva assicurato il perdono a chi si sarebbe sottomesso alle autorità italiane ed
aveva invitato la popolazione alla quiete e al lavoro
122 “Oriente Moderno”, 1929, pp. 451-452
54
occasione del diciottesimo anniversario della presa di Tripoli da parte italiana, da
Damasco giungeva all'Istituto per l'Oriente un foglio intitolato “l'avvenimento
doloroso, per l'occupazione di Tripoli d'Africa il 5 ottobre 1911” in cui, dopo aver
ricordato alcuni episodi bellici, ci si rivolgeva direttamente agli italiani, accusati di
combattere un popolo che resisteva senza mezzi di difesa ed invitandoli ad
abbandonare la lotta. L'appello si chiudeva con l'invito agli altri paesi arabi a
partecipare alla mesta commemorazione dell'infausto anniversario. 123 Il momento
più difficile per l'Italia fu però il 1931, quando con l'attacco finale e senza scrupoli
perpetrato ai danni della resistenza libica, attirò le attenzione di una fetta ancor
più consistente delle testate giornalistiche mediorientali.
In Egitto una campagna stampa particolarmente violenta contro le operazioni in
Libia costrinse la legazione al Cairo a smentire: “alcuni fogli arabi, distribuiti
questi giorni in qualche ambiente musulmano, attribuiscono al Governo della
Cirenaica atrocità contro i ribelli e repressioni contro le tribù durante
l'occupazione di Cufra. La legazione d'Italia dichiara tali notizie inventate di sana
pianta ed invita a non prestarvi la benché minima fede”. Questo non bastò a
fermare gli attacchi; l'al-Fallāḥ oltre ad insistere nelle accuse riportava la notizia,
attribuita all'emiro Arslan, di persone gettate dagli aerei da cinquecento metri
d'altezza.124 La stessa notizia veniva riportata in Palestina dal al-Giāmi'ah
al-'arabiyyah, insieme all'appello all'aiuto da parte musulmana contro le atrocità
italiane e al boicottaggio delle merci provenienti dall'Italia. 125
L'associazione dei Giovani Musulmani di Acri inviò tre petizioni alla Società delle
Nazioni, all'Alto Commissario e al console di Italia a Gerusalemme, firmate,
secondo quanto riportato dal Filasṭīn, da migliaia di persone; il comitato
esecutivo arabo di Gaza e quello di Gerusalemme presentarono anch'essi una
protesta, in cui oltre alle atrocità si menzionavano anche offese al Corano e al
Profeta. Sempre secondo lo stesso giornale in Transgiordania ci fu una
manifestazione contro l'Italia da parte di studenti e contadini.
In Siria venivano riportate notizie riguardo uno sciopero completo come protesta
contro le atrocità commesse dalle autorità italiane in Tripolitania e Cirenaica, e si
affermava: “se i musulmani e gli arabi sapranno essere solidali in ogni occasione
e armarsi da ora in poi con l'arma del boicottaggio contro chiunque maltratti uno
123 “Oriente Moderno”, 1929, p. 453
124 “Oriente Moderno”, 1931, p. 218
125 Ivi, p. 219
55
qualsiasi dei loro paesi, adoperando quest'arma a dovere senza darsi pensiero
degli interessi personali, potranno raccogliere da una tale azione frutti superiori a
quelli che danno i cannoni, le mitragliatrici e le spade, perché l'arma del
boicottaggio è la più penetrante. Ci auguriamo che gli altri paesi arabi e
musulmani imitino Damasco e uniscano in questi giorni i loro sforzi per
organizzare il boicottaggio.”126
A questa ondata di rabbia e indignazione l'Italia rispose attraverso una lettera del
regio console di Beirut Attilio de Cicco, pubblicata dall'Orient il 21 aprile, giornale
della stessa città. I punti salienti erano: “se non avessi la certezza che le
comunità musulmane del Libano e della Siria sono state sorprese nella loro
buona fede e indotte alle attuali manifestazioni di protesta contro l'Italia a motivo
di pretesi massacri, non crederei utile né opportuno fare qualsiasi dichiarazione
in proposito. Le notizie assurde sparse in questi ultimi giorni dalla stampa locale
provengono dall'Egitto, ove sono recentemente affluiti ribelli libici, dopo
l'occupazione dell'oasi di Cufra. Costoro hanno tutto l'interesse a falsificare la
verità dei fatti, presentando la nostra azione in Libia con le apparenze di una
feroce persecuzione religiosa e spacciandosi per martiri. L'ammirabile solidarietà
che lega tutti i credenti dell'Islam è notissima; i ribelli libici possono sperare nel
miglior successo, posando quali vittime della loro fede e facendo appello a quella
nobile solidarietà. Ma la verità è tutta un'altra: la Libia italiana gode oggi di pace
assoluta, non vi scorre una goccia di sangue, indigeni e italiani vi lavorano in
perfetta armonia di sforzi, di intenzioni, di passione, per lo sviluppo e il
benessere generale del paese. L'ultimo avvenimento guerresco e quindi cruento
fu l'occupazione dell'oasi di Cufra, il 24 gennaio scorso. Per la pacificazione della
Libia l'occupazione era necessaria, poiché la località era l'ultima fortezza dei
ribelli senussiti.”127
Dopo aver ricordato la politica degli accordi seguita dal governo italiano nei
confronti della Senussia ed il mancato rispetto di questi accordi da parte dei
ribelli, la lettera riprendeva sostenendo che l'Italia era stata costretta ad agire
energicamente “contro i gruppi poco numerosi di ribelli sostenuti dai senussiti.
[…] Nessuna atrocità, nessun massacro, nessun atto che uscisse dalle più
severe regole della buona guerra, nessuna offesa alla civiltà, della quale l'Italia
126 Ivi, p. 220
127 Ivi, p. 221
56
dimostra di essere la più gelosa tutrice.” 128 La lettera si concludeva sostenendo
che tutto quanto il console aveva affermato era documentato e che la Tripolitania
era aperta a tutti coloro i quali avessero voluto recarvisi per verificare le
condizioni di vita della popolazione.
L'intento era quello di presentare i ribelli come responsabili della guerra condotta
dall'Italia,
la
cui
missione
pacificatrice
era
stata
messa
in
pericolo
dall'inosservanza degli accordi da parte dei senussiti. Sulla stessa linea si
muoveva la lettera pubblicata dall'italiano Giornale d'Oriente di Alessandria
d'Egitto, in cui si accusavano i ribelli di aver abbandonato nel deserto donne e
bambini durante la fuga da Cufra: molti erano stati salvati dalle truppe italiane,
ma le vittime erano numerose. L'episodio era l'esempio lampante di come la
strategia dei ribelli fosse quella di far ricadere la colpa di atrocità bestiali
sull'Italia.129
Dopo aver raggiunto il suo culmine nei primi mesi dell'anno, la polemica nei
confronti dell'Italia andò attutendosi sempre più: non sappiamo quanto
incidessero le repliche italiane in tutto questo. Siamo portati a ritenere che furono
altri i motivi che distrassero il mondo musulmano dagli avvenimenti di Libia,
primo fra tutti l'aggravarsi del conflitto arabo-sionista. Complessivamente durante
la fase appena esaminata il maggior successo italiano fu quelli di non pervenire
ad una rottura totale dei rapporti con il mondo musulmano, nei confronti del
quale l'immobilismo non era dettato dalla situazione internazionale o da una
semplice strategia di attenzione nei confronti inglesi, ma più semplicemente era
l'unica alternativa possibile, almeno fin quando non si fosse normalizzata la
situazione libica. Le dichiarazioni di circostanza non avevano altra funzione di
smorzare, per quanto possibile, il risentimento dei musulmani.
128 Ibidem
129 Ivi, p. 222
57
3.1 Aspetti culturali: l'Istituto per l'Oriente, l'orientalismo e la propaganda
Negli anni precedenti la prima guerra mondiale era sorta tutta una corrente
composta da politici e uomini d'affari che spingeva, soprattutto dopo la guerra
italo-turca, verso un maggior coinvolgimento italiano nel vicino oriente. Questa
corrente
trovò
maggior
consenso
nel
dopoguerra,
anche
a
causa
dell'estromissione dell'Italia dalle società mandatarie e la diffusione del mito della
“vittoria mutilata”.
Alcuni personaggi che furono all'inizio della vicenda dell'Istituto per l'Oriente
(IPO), fondato il 13 marzo 1921, non erano alla loro prima esperienza del
genere: il duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, che ne fu il primo
presidente, era stato promotore di analoghi comitati, tra i quali l'italo-armeno e
l'italo-rumeno. Sarà anche ministro delle poste e telegrafi nel primo governo
Mussolini.
Accanto al filone di interesse economico e commerciale del quale Colonna fu
uno degli uomini più rappresentativi all'interno dell'istituto, confluì nell'IPO la
miglior generazione di studiosi dei problemi orientali che l'Italia abbia avuto nel
passato: Carlo Alfonso Nallino, Michelangelo Guidi ed altri rappresentarono
l'anima scientifica e tesa all'approfondimento culturale dell'Istituto. 130
L'anima politica dell'IPO era invece rappresentata da Amedeo Giannino,
funzionario del ministero degli Esteri e acuto conoscitore del vicino oriente. Nella
sua stanza di direttore dell'ufficio stampa al ministero, e in seguito di segretario
generale del contenzioso diplomatico, si tenevano le riunioni del consiglio di
amministrazione dell'istituto, d'altronde sostenuto finanziariamente dal ministero
stesso. Il ministero degli Affari Esteri fu fin dall'inizio attivo promotore della nuova
iniziativa.131
L'IPO si proponeva di “divulgare ed accrescere la conoscenza della vita
culturale, politica ed economica dell'Oriente, sovra tutto musulmano”. La prima
iniziativa di rilievo fu la pubblicazione, dal 15 giugno 1921, della rivista Oriente
Moderno. Giannini, proprio per il suo lungo lavoro all'ufficio stampa del ministero
degli Esteri, aveva ben chiaro quanto fosse importante per l'Italia avere uno
strumento scientifico-politico all'altezza delle produzioni estere, tedesche inglesi
e francesi in particolare.
130 M. Giro, L'Istituto per l'Oriente dalla fondazione alla seconda guerra mondiale, in “Storia Contemporanea”, Vol. VI, anno
1986, pp. 1139-1176
131 Ivi, p. 1142
58
Il nesso stampa-politica internazionale era stato intravisto dal Giannini fin dal
1920 e costituiva uno dei punti fermi delle sue convinzioni. In una relazione al
ministro Sforza del 9 ottobre 1920, con la quale caldeggiava la costituzione di
un'Agenzia stampa di politica estera, sintetizzò così il problema: “compito
dell'agenzia sarebbe quello di fornire a tutta la stampa in genere e ai giornali di
provincia in specie, attraverso i loro corrispondenti, con brevi note e commenti
ispirati, senza però che questa ispirazione appaia, e con notizie dall'estero che
sarebbero attinte a questo ufficio, direttive, elementi di giudizio e materiale
esplicativo ed informativo su tutti gli avvenimenti di politica internazionale e
naturalmente in special modo su quelli più direttamente interessanti per l'Italia.”
132
L'idea di uno strumento che agisse concretamente era condivisa, anche se con
accezioni diverse, da tutti i padri fondatori dell'istituto, oltre a Giannini da Nallino,
da Guidi, da Ettore Rossi, che succederà a Nallino nella direzione di Oriente
Moderno, da Carlo Conti Rossini, etiopista di fama ed altri. Secondo Giannini
l'azione doveva essere di sostegno all'attività del governo, quasi un consigliere
speciale di alta qualità sulle questioni d'oriente; la tendenza di Nallino fu invece
più articolata e complessa: egli intravide l'IPO come stimolo a più ampio raggio
per contribuire a ridisegnare la politica e l'atteggiamento italiano verso i popoli
d'oriente.
Nonostante il differenti approccio, questi due uomini si trovarono d'accordo su un
punto fondamentale:occorreva ripensare la politica coloniale italiana stretta da
troppo tempo tra un minimalismo eccessivo e un rozzo approccio ignorante e
repressivo. All'interno di questo disegno vi era come condizione necessaria il
rispetto per la storia dei popoli in questione e delle loro tradizioni, a cominciare
ovviamente dall'Islam. Conoscenza rispettosa dell'Islam non voleva dire per
Nallino sostenere idee anti-colonialiste; egli si può anzi annoverare tra quei
conservatori dediti al servizio della patria ed alla sua penetrazione in oriente. 133
Nel programma della rivista Oriente Moderno si poteva leggere:134 “mentre
l'Oriente, dopo la guerra mondiale, si sta aprendo a nuove forme di vita e mentre
lo stringere con esso saldi e numerosi vincoli culturali ed economici sarebbe di
grande vantaggio per l'Italia, il pubblico nostro ignora gran parte delle vicende
132 Relazione a S.E. Il ministro in ASMAE, Minculpop, Ufficio stampa estera, b.296. Sforza siglò “Approvo”. citato in M. Giro,
Op. cit., p. 1145
133 Ibidem
134 “Oriente Moderno” I, 1921, p. 2 di copertina
59
passate e presenti dei popoli orientali. […] Occorre scuotere l'opinione pubblica
italiana da questo dannoso disinteressamento, illuminarla sui problemi d'Oriente
in base a informazioni genuine e copiose, a far nascere quindi anche fra noi
correnti eccitatrici, ausiliatrici ed integratrici dell'azione governativa, così come
accade in Francia ed in Inghilterra. A siffatto scopo mira la Nostra rivista, la quale
intende divulgare la conoscenza dell'Oriente Moderno, sotto l'aspetto degli
avvenimenti che vi si svolgono, delle tendenze e delle idee che lo animano e lo
scuotono, delle condizioni sociali ed economiche in cui esso si trova: attingendo
le informazioni sovra tutto alle fonti genuine, ed integrandole con succinte note
esplicative o anche, ove occorra, con note critiche che ne rilevino eventuali errori
di fatto e manifeste tendenziosità. […] La rivista Oriente Moderno non intende
proporre speciali soluzioni ai differenti problemi né entrare in dibattiti politici, ma
soltanto fornire, ben vagliati, quegli elementi e quelle notizie sicure che
permettano all'uomo politico ed all'uomo d'affari di conoscere la verità
sull'Oriente, e di trarne le deduzioni che gli parranno opportune per regolare la
propria condotta. […] Rimarranno escluse le questioni coloniali propriamente
dette, sia per l'indole loro uscente spesso dal piano della nostra rivista, sia
perché oggetto ormai d'altri periodici autorevoli.” 135
Troviamo in queste parole, da una parte la fede nell'obiettività storiografica,
nell'esistenza di una Verità, tale da poter essere trovata e presentata a chi su di
essa voglia basarsi, dall'altra il piano essenzialmente pratico, di servizio per la
nazione, che i fondatori dell'istituto intendevano dare alla loro opera. 136 Ci
sembra di poter dire che la posizione assunta, almeno da un punto di vista
politico, rimaneva ambigua, a metà strada tra un ruolo attivo, volto a favorire ed
aiutare l'azione di governo in ambito orientale, ed uno più defilato, che non
intendeva proporre particolari soluzioni o entrare in dibattiti politici, ma solo
fornire i mezzi attraverso i quali chi di dovere avrebbe potuto regolare la propria
condotta.
Stando anche a quanto scriveva il Giannini soltanto pochi mesi prima della
fondazione della rivista riteniamo che il ruolo politico di Oriente Moderno fosse
innegabile, anche se moderato e smussato dalle idee dei diversi partecipanti alla
sua costruzione. L'idea di base era una rivisitazione della politica coloniale,
135 Il nostro programma, “Oriente Moderno” I, 1921, pp.1-2
136 G.E. Carretto, “Sapere” e “Potere”: l'Istituto per l'Oriente (1921-1943), in “Annali della facoltà di Scienze Politiche
dell'Università di Cagliari” n. IX, 1983, p. 212
60
ispirata da una minor rozzezza nei rapporti con il mondo musulmano, ma
comunque la posizione sociale dei personaggi che parteciparono allo sviluppo
dell'istituto e della rivista rimaneva quella di “servitori” dello stato. 137
Il Nallino, che diresse Oriente Moderno fino alla sua morte, avvenuta nel 1938,
nello svolgimento della sua attività scientifica non si era mai considerato avulso
dalla vita del paese: tra il 1909 e il 1912 era stato invitato a tenere corsi in arabo
all'Università egiziana del Cairo, dove avrebbe poi insegnato regolarmente, fra il
sospetto crescente dell'opinione pubblica nazionalistica egiziana, che accusò lui
e i suoi collaboratori di fare propaganda a favore dell'Italia e di deformare e
svilire il messaggio dell'Islam.138
Dopo la conquista della Libia, nel 1912 era stato a Tripoli, per conto del Ministero
della Guerra, per tentare di istituire un buon ufficio traduzioni e recuperare e
illustrare i documenti dell'archivio politico ottomano. Nonostante questa sua
predisposizione alla collaborazione con la politica, sotto la sua direzione l'IPO e
la sua rivista acquistavano una sempre più sicura considerazione scientifica, con
l'inevitabile diminuzione del suo pubblico. 139 La rivista, paradossalmente, attirò il
maggior numero di lettori all'estero. 140
Nallino non mancò di criticare l'ignoranza delle cose islamiche e l'operato del
governo in Libia, specialmente in occasione della brutale repressione della
resistenza senussa, che gli valse l'epiteto ingiurioso di “Gran Senusso”. 141 Nata
in seguito alla recensione estremamente negativa del libro Turchi, Senussi e
Italiani in Libia, scritto da un funzionario dell'Ufficio agrario, Macaluso Aleo, e
pubblicato a Bengasi nel 1930, la polemica coinvolse anche il vicegovernatore
Graziani, cui il volume era dedicato.142
La recensione del Nallino venne attaccata violentemente da Sandro Sandri sulle
colonne del quotidiano di Bengasi La Cirenaica, che si accanì in particolare sulla
questione della senussia: il Macaluso la definiva “setta” e “setta tentacolare” nel
suo libro, e il Nallino faceva notare l'errore affermando che la giusta definizione
era “confraternita”. Questo era solo uno dei rilievi mossi all'incompetenza
dell'autore in materia islamica, ulteriore esempio di come l'ignoranza del mondo
137 Ivi, p.213
138 B. Soravia, Ascesa e declino dell'orientalismo scientifico in Italia, in Il mondo visto dall'Italia. Atti del convegno annuale
della società italiana per lo studio della storia contemporanea, Milano 2004, p.278
139 G.E. Carretto, Op. cit., p. 214
140 M. Giro, L'Istituto per l'Oriente,Op. cit., pp. 1140 e ssg.
141 B. Soravia, Op. cit., p. 280
142 F. Cresti, La polemica tra C.A. Nallino e R. Graziani sulla Senussia e su altre questioni libiche, in “Studi Storici”, anno 45,
ottobre-dicembre 2004, pp. 1121-1123
61
musulmano non giovasse alla politica italiana.143
Sulla definizione di “setta tentacolare” il direttore dell'Istituto per l'Oriente
aggiungeva che se per “tentacolare” si intendeva dire che cercava di fare
propaganda ed espandersi allora anche il fascismo poteva essere definito
“tentacolare”. Sandri attaccò duramente e personalmente il Nallino, accusandolo
di non conoscere la senussia e le brutalità di cui era capace e di contribuire a
creare il mito della stessa, creando soltanto confusione. 144
La vicenda assunse maggiore importanza per il coinvolgimento di Graziani, che
in un discorso pubblico attaccò il Nallino e le sue critiche al volume di Macaluso.
Lo studioso fu per qualche tempo incerto su come rispondere agli attacchi: le
bozze di due lettere da inviare a Graziani ed al ministro delle colonie De Bono
risultano non inviate, ed alla fine Nallino scrisse soltanto al ministro, chiedendo
che fosse salvata la sua onorabilità e sostenendo che nella recensione
incriminata i suoi rilievi erano stati di natura esclusivamente dottrinaria, senza
toccare questioni politiche estranee agli scopi della rivista da lui diretta. 145
Copia della lettera venne inoltrata a Graziani, che a sua volta scrisse a Nallino, il
quale rispose a sua volta. La polemica poteva dirsi così conclusa. La critica alla
condotta in Libia, più che da motivi umanitari, era dettata dal fatto che veniva
considerata nociva degli interessi nazionali. 146 Ed in effetti rilievi di carattere
politico e morale in difesa delle popolazioni oppresse non sembrano emergere.
Ci sentiamo di concordare con il Cresti quando afferma che le critiche di
carattere dottrinario mosse dal Nallino doveva risultare fondamentalmente
incomprensibili a uomini che erano impegnati in azioni militari autoritarie e
repressive. Se l'obiettivo fosse stato quello di smuovere le coscienze, si sarebbe
dovuto agire in maniera differente.
L'attrito con le autorità coloniali diminuirà durante il governatorato di Balbo,
ritenuto più modernista e benevolo e la polemica si spense, tanto che proprio al
Nallino nel 1936 venne affidato l'incarico di redigere la voce “Senussi” per
l'Enciclopedia Treccani.147
143 Ibidem
144 Ivi,pp. 125-127
145 Ivi, p. 1132
146 M. Giro, L'Istituto per l'Oriente, Op. cit., p. 1152
147 M. Mozzati, Gli intellettuali e la propaganda coloniale del regime, in Le guerre coloniali del fascismo, Cit., p.106 L'Istituto
Giovanni Treccani venne fondato a Roma il 18 febbraio 1925, con adesione di personalità quali Giovanni Gentile e
Ferdinando Martini, già governatore civile per l'Eritrea, il quale aveva fornito l'idea di “una grande Enciclopedia nazionale,
non semplice opera compilativa e divulgativa come le enciclopedie popolari prebelliche” che rientrasse in un “programma
di rafforzamento della borghesia italiana, in linea con la tendenza degli Stati moderni a darsi, dopo crisi di crescita e di
ricostruzione, una rinnovata organizzazione culturale”. Nella presentazione al primo volume dell'enciclopedia lo stesso
62
L'attività di “consigliere” scelta fin dall'inizio per l'istituto non verrà quindi
esercitata tanto attraverso Oriente Moderno e le collane di libri pubblicate,
sempre più indirizzate ad un pubblico di specialisti, quanto tramite l'opera dei
singoli: troviamo così articoli dei componenti l'ambiente dell'IPO su Gerarchia,
loro cicli di conferenze e, in particolare, la direzione della sezione orientale
dell'Enciclopedia Italiana, iniziata nel 1929 ed affidata al Nallino stesso.
Gli elementi essenziali dell'istituto potevano dunque disporre facilmente di mezzi
più adatti per la diffusione delle loro idee, che “erano e non erano, a un tempo,
quelle del loro ambiente italiano, sul quale essi stessi agivano; come se
l'ambiguità fra attività pratica e speculativa, già in precedenza accennata,
influisse su ogni aspetto della loro attività pubblica. L'Italia che aveva tentato
l'impresa etiopica ed era alle soglie della riconquista libica, quando nasceva
l'Istituto per l'Oriente, vedeva quell'oriente fra l'esotico e il familiare, lontano,
diverso e pronto ad essere incluso nel proprio mondo. La distanza permetteva
all'italiano di sentirsi, senza un cosciente razzismo, il fratello grande e in buona
fede di un “orientale” dell'africano Occidente”. 148 L'opera del Nallino e dei suoi
collaboratori forniva un sostegno scientifico a questa convinzione.
Ad ogni modo, secondo il direttore di Oriente Moderno le cause delle divergenze
sorte con il mondo musulmano, in particolare quello sottoposto al colonialismo
europeo e al regime dei mandati, andavano ricercate nel tentativo di imporre stili
di vita che mal si conciliavano con l'Islam.
Soltanto attraverso la comprensione e lo studio approfondito della religione
musulmana si sarebbe potuto “penetrare negli animi di quei popoli” ed apparire
ai loro occhi diversi da semplici sfruttatori. 149 In queste parole ci sembra
racchiusa l'essenza del pensiero di Nallino: non contrario al colonialismo né ad
una politica islamica volta a tutelare gli interessi italiani, ma convinto assertore
della necessità di comprendere quei popoli per conquistarne la fiducia.
Non c'è, nelle sue parole, una presa di distanza chiara ed univoca dalle politiche
di conquista e di influenza, ma la speranza di renderle più “umane”, nella
Gentile spiegava i punti su cui si basava l'opera. Il primo era “il nuovo spirito esploso con l'avvento del Fascismo che
scosse idee e sentimenti e accese una passione inestinguibile di rinnovamento e di affermazione della potenza dell'Italia
nel mondo: potenza interiore, intellettuale e morale, che è la base di ogni altra potenza con cui le nazioni possano lottare,
difendersi, espandersi e vivere”. Il secondo era chiamare gli autori a costruire il luogo in cui l'espressione di un popolo e
di un'epoca “si raccoglie in sistema dalle menti che dirigono e perciò rappresentano tutti.” La “discorde concordia” che
animava l'opera degli autori doveva ubbidire a un patto che la mantenesse non già “per la materia che coltivano ma
anche per l'indirizzo mentale con cui la coltivano, in guisa che tutti gli aspetti della cultura vengano a comporsi
armonicamente in quadro coerente, com'è nelle sue note principali il pensiero di un popolo e di un'epoca”.
148 G.E. Carretto, Op. cit., p. 216
149 C.A. Nallino, Il mondo musulmano in relazione con l'Europa, convegno Volta, Roma 14 novembre 1932, pp.1-14
63
consapevolezza che soltanto in questo modo si sarebbe giunti a consolidare le
posizioni raggiunte. A parziale conferma di quanto andiamo dicendo ci sembra
utile questo passo, tratto dalla recensione di un libro scritta dal Nallino stesso:
“L'azione nefasta del partito socialista sulla politica coloniale italiana nel 1919 è
messa in giusta luce; forse meritava d'esser rilevata meglio la ripercussione
dannosa del modo in cui gli interessi italiani furono trattati dai nostri Alleati della
Conferenza della Pace”.150
Se in queste parole sembra fare capolino il mito della “vittoria mutilata”, in una
recensione del 1936 di un libro curato dal Reverendo Paolo Sbath, edito al Cairo
dal titolo Massime di Elia metropolitano di Nisibi (975-1056), che portava in
italiano e francese la dedica: “Al duce Benito Mussolini, il quale ha salvato dal
comunismo la civiltà latina”, Nallino faceva notare che questo era uno dei segni
della grande popolarità raggiunta dal Duce in Oriente. 151
Infine, durante la polemica che accompagnò sui giornali arabi lo sviluppo della
tensione italo-etiopica prima del conflitto, nella rassegna stampa non mancavano
trafiletti critici a commento delle posizioni contrarie all'Italia. Se quanto elencato
non è, e non può essere, sufficiente per inserire lo studioso tra i fascisti convinti,
di certo ci sembra indicare che, per lo meno in materia di politica orientale, le sue
idee non fossero molto diverse da quelle del Duce, personaggio che non doveva
essergli inviso.
Mentre il pensiero del Nallino è, per molti versi, non facilmente decifrabile, meno
complesso risulta constatare la deriva panaraba e panislamica di alcuni suoi
allievi e collaboratori.152 Emblematico il pamphlet di Laura Veccia Vaglieri,
Apologia dell'islamismo (1925), in cui il riconoscimento e la difesa del significato
storico e spirituale dell'Islam, che saranno adottati dal filo-arabismo fascista, si
coniugano con l'appello agli arabo-musulmani, perché si liberino delle influenze
di etnie inferiori (mongoli, turchi) e ripristinino i primitivi valori della loro razza. 153
Non mancavano posizioni opposte, caratterizzate da un non tanto velato
razzismo: esponente principale Romolo Tritonj, le cui idee esposte in un articolo
del dicembre 1932 sono emblematiche: i musulmani sono definiti fanatici, la cui
religione li obbliga a combattere l'infedele e a preferire la morte al dominio degli
stranieri, generalmente disprezzati, a causa, a detta dell'autore, dei metodi
150 "Oriente Moderno", 15 settembre 1921, p. 252
151 “Oriente Moderno”, 1936, p. 116
152 B. Soravia, Op. cit., p. 279
153 Ibidem
64
brutali utilizzati dagli inglesi.154
Nella visione politica più moderata prevalente fra gli islamisti dell'Istituto per
l'Oriente, emergeva la concezione, ripresa più volte da Mussolini, dell'Italia come
naturale potenza di riferimento del mondo mediterraneo, la cui azione
civilizzatrice è in grado di favorire i rapporti con l'oriente e la formazioni di
correnti culturali e politiche modernizzatrici. Non si mancava inoltre di
paragonare i movimenti nazionalistici arabo-musulmani al risorgimento italiano,
immagine che verrà spesso utilizzata in ambito culturale e politico. 155
A dimostrazione del fatto che non sempre l'opera dell'IPO fosse del tutto affine
alle aspettative fasciste, una polemica nata nel 1937 sull'esistenza o inesistenza,
e comunque sulla necessità per l'Italia fascista di un “orientalismo politico”, ossia
in grado di valutare e studiare il “mondo arabo” in base agli interessi nazionali. A
chi presentava l'Oriente Moderno come l'esempio di orientalismo politico italiano
si rispondeva che la rivista era un esempio di informazione scientifica, ma non
forniva quella interpretazione necessaria all'Italia fascista. 156
Nato nell'alveo delle migliori tradizioni del periodo liberale, inseritosi all'interno
degli sforzi che il regime fascista tentò all'inizio degli anni Trenta per affermare la
potenza nazionale in oriente, l'IPO, quasi fino alla guerra, rimase a metà strada
tra collaborazione e isolamento sterile. Soltanto con l'inizio della guerra fu
recuperato come strumento d'appoggio propagandistico alla penetrazione
italiana in oriente e conobbe un rilancio con la pubblicazione di Mondo Arabo,
rilancio reso subito vano dagli eventi bellici contrari all'Italia. 157
Con l'intensificarsi della politica islamica del governo, a cominciare dal 1932, si
rese necessario creare uno strumento di propaganda più adatto a raggiungere i
popoli arabo-musulmani di quanto fosse Oriente Moderno. Venne allora fondato
il quindicinale bilingue Avvenire Arabo diretto dal Nallino per i primi tre numeri e
poi da Barbiellini Amidei, rimanendo il Nallino gerente responsabile. Proprietario
e redattore “il signor Munir el-Labābīdī, di nota famiglia musulmana di Damasco,
che già diresse in Siria il giornale al-Ḥaḍārah e poi, a San Paolo del Brasile, un
giornale arabo-portoghese”.158 L'iniziativa sostenuta apertamente dal ministero
degli affari esteri e patrocinata direttamente dall'IPO nacque con l'intenzione di
154 “Oriente Moderno”, 1936, pp. 565-575
155 Ibidem
156 G.E. Carretto,Op. cit.,, p. 217
157 M. Giro, L'Istituto per l'Oriente, cit., p. 1154
158 “Oriente Moderno”, 1932, p. 72
65
avvicinare l'opinione pubblica araba attraverso un foglio scritto anche nella loro
lingua, per mezzo del quale propagandare l'orientamento filo-arabo dell'Italia
fascista.
Nel proemio al primo numero Barbiellini Amidei scriveva: “ il titolo del periodico
ed il fatto che esso è bilingue spiegano già gran parte dei propositi che si
vogliono perseguire. Far conoscere agli Arabi l'Italia fascista, far conoscere agli
italiani dell'Italia fascista gli arabi nella reale attualità […] L'incomprensione
europea dei popoli d'Oriente è senza dubbio una della cause principali della crisi
dell'Europa. Come noi individualmente proviamo un senso di ribellione di fronte
a chi non avendo fatto la guerra volesse trattarci da superiore a inferiore, così è
spiegabilissima la reazione dei popoli d'Oriente verso quegli occidentali che
volendo avere con loro relazioni usassero quel ripugnante sussiego, quella
stucchevole sufficienza, a cui gli uomini delle democrazie dell'anteguerra
avevano improntato la loro educazione. […] Si è stampato che questo giornale
potrà “puzzare” di ufficialità od almeno di ufficiosità. Orbene, se si è voluto
alludere all'autorità ed alla responsabilità della pubblicazione, nessun altra
autorità ha il giornale se non quella derivante dai soggetti che tratta e dai fini che
persegue. In quanto alla responsabilità essa è tutta intiera di chi lo dirige, per
qualunque cosa e verso chiunque. Se poi è la fede del giornale che si vuol
analizzare allora siamo ufficialissimi, perché crediamo dovere degli italiani
fascisti abbracciare una causa utile alla patria ed alla civiltà con tutto il cuore e
con tutte le forze, sicuri che altri passeranno oltre di noi e compiranno l'opera”. 159
Nella sezione araba Munir el-Labābīdī, dopo aver ribadito l'intento di far
conoscere gli arabi agli italiani e viceversa, scriveva: “per quanto sarà possibile,
stabiliremo per mezzo di questa pubblicazione dei rapporti utili tra noi e
l'Occidente che ha bisogno di noi e del quale noi abbiamo bisogno. Dissiperemo
nella misura del possibile quei preconcetti che si hanno sul conto degli arabi in
Occidente, e che sono diffusi ad arte da messaggeri in mala fede, figli propri di
quelle nazioni i cui appetiti non sono mai abbastanza soddisfatti, e che furono
causa principale dell'avversione tra Oriente ed Occidente. In lingua araba noi
esporremo ai nostri lettori arabi quel che si dice di loro, quello che può
interessarli delle notizie e degli avvenimenti dell'Occidente. […] E più
specialmente attireremo la loro attenzione sopra le qualità di questa nobile
159 Ivi, p. 73
66
nazione che ci ospita, quelle qualità e quelle virtù che l'hanno sorretta nel suo
risorgere, grazie al suo nuovo regime e grazie alla devozione che i suoi operosi
figli hanno per il loro grande Duce, salvatore dell'Italia e autore del movimento
fascista. (corsivo nostro).”160
Dopo un cenno agli interessi economici che sarebbero stati trattati dal giornale,
Munir el-Labābīdī concludeva: “noi assolveremo questi compiti tenendo presente
innanzi a noi, come chiaro esempio, il risveglio della nuova Italia: con la scienza,
con l'opera e con l'ordine; tale è la divisa che Mussolini ha scelto nel guidare il
suo paese alla vittoria economica, dopo aver consolidato le basi politiche della
nazione.”161 Le intenzioni propagandistiche erano meno celate di quanto
avvenisse nella sezione italiana, e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto
che l'obiettivo principale del giornale, pur essendo una pubblicazione bilingue,
era quello di risollevare le sorti italiane nel mondo arabo-musulmano. Eppure,
nonostante le interessanti premesse, l'Avvenire Arabo non ebbe vita facile fin
dall'inizio: nel primo numero Barbiellini Amidei metteva in parallelo la vittoria
mutilata degli italiani con le “giuste reazioni” dei popoli d'oriente verso quelli
“occidentali che li sfruttano”.
Le reazioni furono immediate e dalla Libia Graziani scrisse che questa
pubblicazione avrebbe causato “deleterie conseguenze” nelle colonie libiche. Da
quel momento l'attenzione del ministero delle colonie per la rivista e l'attività
dell'IPO in generale si fece sempre più attenta e pesante. 162 Evidente che una
presa di posizione tanto radicale cozzava pesantemente con la condotta italiana
in Libia, che la collocava di diritto tra quei “popoli occidentali” che sfruttavano i
popoli d'oriente. Bastava guardare le cose dal punto di vista delle nazioni
oppresse per rendersi conto che l'Italia non aveva ancora i titoli per assumere un
atteggiamento
filo-arabo:
si
cadeva
pienamente
in
quella
evidente
contraddizione che fino a quel momento era stata ignorata. Anche nei numeri
successivi, l'eccesso di filo-arabismo portò la rivista ad essere ritenuta fonte di
problemi maggiori rispetto ai benefici che se ne potevano trarre.
La sorte del giornale era ormai segnata. Il sostegno che il ministero degli Esteri
voleva fornire alla causa del nazionalismo arabo in modo da presentare l'Italia
fascista con un volto filo-arabo e sostenitore degli ideali di unificazione panaraba
160 Ivi, pp. 73-74
161 Ibidem
162 M. Giro, Op. cit., pp. 1156 e ssg.
67
presenti in larghi settori dell'intellettualità di quei paesi, non trovava riscontro nel
ministero delle colonie preoccupato per gli effetti che ciò poteva avere sul
movimento senussita in Libia; un'Italia troppo filo-araba avrebbe vanificato gli
sforzi di repressione-pacificazione delle colonie italiane e questo metteva i due
ministeri in rotta di collisione proprio attorno alla scelta di fondo su quale fosse la
politica coloniale più consona agli interessi nazionali.
Tra ulteriori polemiche, il 31 ottobre 1932 uscì il numero 20 del giornale, che
sarebbe stato anche l'ultimo.163 L'esperimento era per lo meno servito a capire
che bisognava trovare il modo di conciliare la politica coloniale con quella
islamica.
Dopo la morte del Nallino (1938), la direzione di Oriente Moderno venne affidata
ad Ettore Rossi, mentre a Giannini spettò la direzione dell'IPO. Rossi era stato
combattente nella Grande Guerra e in Libia, dove erano nati in lui i germi di
quell'interesse, per lui fondamentale, verso il mondo turco, studiato da
autodidatta solo dopo quello arabo.
“Rossi era essenzialmente un nazionalista, al servizio dello Stato, con una fede
sicura nella propria civiltà italiano-occidentale;[...] nel 1937 gli era stata affidata,
dal Ministero per la Stampa e la Propaganda, la direzione della parte culturale
del programma radiofonico per la Turchia, e nel 1940 proponeva una serie di
quindici conferenze, che in gran parte doveva tenere egli stesso, dirette alla
stessa nazione.”164
Durante la seconda guerra mondiale l'Istituto dovette aumentare i propri progetti,
volti ad influenzare direttamente l'opinione pubblica. Gran parte del sostegno al
regime venne dalla rivista Mondo Arabo, cui abbiamo accennato in precedenza,
in cui ad un primo anno di contributi prevalentemente scientifici seguì un
secondo anno dai toni prettamente propagandistici e in quanto tali antibolscevichi, antisionisti, anti-britannici e, di conseguenza, filopalestinesi e
filosauditi. Anche in questo caso assistiamo ad un paradosso piuttosto evidente:
nel 1941 la stessa rivista pubblicò, postuma, una celebre dichiarazione di Leone
Caetani, “principe degli orientalisti” ma anche antifascista dichiarato. 165 La cultura
dell'istituto finì con l'essere utilizzata in chiave politica, senza più segno di quella
ricerca obiettiva della verità perseguita fin dalla fondazione. 166
163 Ibidem
164 G.E. Carretto, Op. cit., p. 218
165 B. Soravia, Op. cit., p. 282
166 M. Giro, L'Istituto per l'Oriente, Op. cit., p. 1172
68
Nel 1942-1943, infine, l'Istituto pubblicherà i primi quattro numeri della sua unica
serie destinata alla più ampia diffusione, tanto da esserne prevista la vendita
anche nelle edicole: i Quaderni Orientali.167 Alla caduta del fascismo, l'IPO fu
chiamato ad una superficiale resa dei conti, che si concluse con una generale
assoluzione che escluse il solo Giannini, ritiratosi a vita privata. 168
A prescindere dagli intenti degli orientalisti italiani, è stato rilevato che spesso,
quando ci si occupava di tradizioni islamiche, emergeva un pregiudizio più o
meno marcato che inficiava sulla attendibilità e sulla qualità delle opere prodotte.
169
Capitava così spesso che la dottrina islamica venisse ridotta ad una semplice
derivazione del Cristianesimo operata da Maometto, in cui l'aspetto divino veniva
scarsamente considerato. Per questo motivo gli aspetti graditi dell'Islam
venivano attribuiti alla filiazione con la tradizione cristiana, mente quelli sgraditi
rappresentavano i segni di una manifesta inferiorità, dovuti in buona parte a
difetti di mentalità.
Un
aspetto
interessa
sottolineare,
poiché
ricorrente
spesso
nella
documentazione di archivio che abbiamo avuto modo di consultare: l'utilizzo del
termine “maomettani” per indicare i musulmani. Questa definizione stava a
significare che si assimilava Maometto ai fondatori delle filosofie e dottrine
politiche europee, negando a priori l'origine non umana della rivelazione
coranica.170 Ed era proprio questo il difetto maggiore di molti studi: si pretendeva
di spiegare difetti e debolezze dell'Islam ricorrendo a schemi propri della
civilizzazione occidentale.
Le dottrine islamiche furono inoltre sottoposte ai parallelismi più spericolati, tra
cui non mancavano le affinità con il fascismo. A questo proposito è interessante
esaminare il volume “Fascismo e Islamismo” dell'africanista Gino Cerbella, edito
nel 1938, che ci sembra rappresentare bene una corrente di pensiero piuttosto
diffusa.171 Il libro si apre con un capitolo intitolato “I due Capi: Maometto e
Mussolini”, in cui si afferma che il periodo in cui visse il Profeta poteva essere
paragonato ai tempi correnti per grandiosità e per nobiltà; Maometto e Mussolini
erano entrambi creatori di impero e di religione e la marcia su Roma era stata,
167 G.E. Carretto, Cit., p. 228
168 B. Soravia, Cit., p. 284
169 E. Galoppini, L'Oggetto Misterioso. L'immagine dell'Islàm in Italia tra le due guerre mondiali, in “Africana” 1999, pp. 97113
170 Ibidem
171 Aspetti simili abbiamo riscontrato in R. Cantalupo, L'Italia musulmana, Casa editrice d'oltremare, Roma 1929, F.
Lattanzio, O. Besesti, Nostre terre d'Oltremare. Brevi cenni storici, geografici, politici ed economici per la gioventù
studiosa, Bologna 1936; M. Essad Bey, Maometto, Firenze 1935
69
come la marcia sulla Mecca, un momento di liberazione. 172 L'Italia aveva iniziato
nelle colonie l'unica politica possibile: quella islamica. Dopo la guerra italoetiopica, in cui le popolazioni libiche avevano offerto prova di valore militare, la
politica islamica rappresentava un dovere per l'Italia: certa stampa (non specifica
quale) parlava di politica islamica soltanto riguardo agli ambulatori o alle strade
che si inauguravano, agli orfanotrofi, alla distribuzione di viveri, alla trivellazione
di pozzi in terre prive di acqua, all'offerta di bestie e attrezzi da lavoro ai pastori.
Ma questa era amministrazione che ogni nazione colonizzatrice, che si assume
dinanzi al mondo l'arduo compito di civilizzare dei popoli, ha il dovere di
espletare, indipendentemente dalla religione del popolo colonizzato. La politica
islamica era incarnata dal rispetto che il popolo italiano dimostrava delle
consuetudini, della vita intima, familiare delle popolazioni indigene. Non c'era
musulmano in Libia che non fosse grato per questo atteggiamento. 173
Nonostante il parallelismo tra Maometto e Mussolini, il popolo libico rimaneva
quello incivile. E non finiva certo qui. Moschee sorgevano dappertutto, la cultura
islamica era curata, la Scuola superiore islamica era già al terzo anno di vita e in
futuro avrebbe potuto richiamare studenti da tutti i paesi islamici, che sarebbero
diventati i migliori propagandisti della opera italiana di civiltà e della politica
islamica in tutto l'oriente musulmano. La cultura islamica non doveva essere
particolare ed esclusiva delle popolazioni indigene: gli italiani avrebbero dovuto
essere capaci di interpretarla ed intenderla. Solo così si sarebbe delineata una
maggiore comprensione tra dominatori e dominati. 174
La politica islamica era si importante, la comprensione per i popoli fondamentale,
ma il rapporto doveva rimanere quello tra dominatori e dominati. Ci sembra una
versione più rozza di quella che abbiamo visto espressa dal Nallino: che si fosse
più o meno capaci di esprimerle, le idee riguardo la subordinazione del popolo
arabo-musulmano rimanevano basilari. L'opera proseguiva su questa falsariga,
ricordando il nemico comune da combattere, il bolscevismo, che rendeva ancor
più solidi i rapporti tra italiani e musulmani, ma non si accennava mai alla
repressione operata durante la riconquista.
Il parallelismo tra fascismo e Islam iniziava e finiva in una sorta di dimensione
mitica, a cui nella pratica non seguiva altro che la superiorità della cultura
172 G. Cerbella, Fascismo e Islamismo, Tripoli 1938, pp. 13-17
173 Ivi, pp. 21-31
174 Ivi, pp. 35-39
70
italiana, intenta a prendere per mano e civilizzare il popolo dominato. La
comunanza di intenti, conseguenza del maltrattamento subito a Versailles da
italiani ed arabi, poteva trovare realizzazione soltanto se l'Italia avesse preso per
mano e guidato il mondo arabo-musulmano. L'Islam vicino era profondamente
disorientato e considerava lo stato di cose nato dal trattato di Versailles come
aleatorio ed incerto; la figura dell'Italia agli occhi della maggioranza dei
musulmani si era accresciuta dopo la guerra; adesso c'erano nuove aspettative
nei confronti italiani, che non andavano disilluse. 175
La comprensione dell'Islam aveva ancora molta strada da percorrere, oltre che
per la difficoltà ad eliminare del tutto i pregiudizi, per la convinzione del mondo
accademico di essere più informato degli stessi musulmani riguardo alle loro
dottrine, per cui il sapere occidentale sull'Islam diventava l'Islam reale. 176
Questi argomenti vennero tutti riutilizzati dal governo fascista nel tentativo di
imporre la propria influenza sul mondo arabo-musulmano.
3.2 Radio Bari
Un mezzo di propaganda in grado di raggiungere un pubblico più vasto e più
facilmente riconducibile agli intenti politici del fascismo doveva essere quello
delle trasmissioni in lingua araba di Radio Bari, che ebbero inizio il 24 maggio
1934 “in seguito alle richieste che giungevano dai paesi arabi e specialmente
dalla Libia”177. Dapprima fu un notiziario trisettimanale (quotidiano dal 1 dicembre
1937) della durata di quindici minuti, che divennero poi venti, trenta e, dal
dicembre 1937, quaranta.
Al notiziario seguivano programmi musicali e conferenze varie. Dopo la
conquista dell'Abissinia si aggiunsero le trasmissioni in onda corta di Roma, che
potevano essere ascoltate in tutto il mondo.
Queste trasmissioni erano destinate anzitutto agli arabi e ai musulmani della
Libia e dell'Africa Orientale Italiana, poi anche agli altri popoli arabi, cui l'Italia
era “legata da vincoli storici, culturali e di vicinanza. Esse mirano a consolidare le
relazioni”178. Diversi i motivi che avevano portato alla decisione di dare inizio alle
trasmissioni radio in lingua araba: numero rilevante, nel mondo, degli arabi e dei
musulmani che capivano l'arabo, e la prevalenza fra di essi dell'analfabetismo,
175 R. Cantalupo, Cit., pp. 242-245
176 E. Galoppini, Cit., p. 112
177 “Ar-Radyo”. Le radio arabe d'Europa e d'oriente e le loro pubblicazioni, V.Vacca Vaglieri, "Oriente Moderno" 1940, pp.
444-451
178 Ibidem
71
ostacolo alla propaganda per mezzo della stampa. Inoltre la mancanza o
scarsezza di passatempi in confronto ai paesi occidentali, l'abitudine di passare
molto tempo al caffè, il tipo di vita domestica, l'amore degli arabi per la musica,
per l'eloquenza e la bellezza della propria lingua, tutti elementi che contribuirono
a rendere la radio gradita agli arabi e quindi interessante per chi si rivolgeva loro.
Le condizioni economiche non permettevano agli arabi l'acquisto di numerosi
apparecchi radio, ma nei locali pubblici queste erano spesso presenti e venivano
ascoltate da molte persone.179
Gli obiettivi di queste trasmissioni erano due: restaurare il prestigio italiano nel
mondo arabo, danneggiato dalle operazioni contro la Senussia in Libia, e
affermare la presenza italiana in un'area ritenuta sempre più importante. L'AlifBa di Damasco diede la notizia della prima trasmissione di Radio Bari già il
giorno successivo riportandone i contenuti: dopo un articolo sulla produzione
agricola e industriale italiana, l'emittente parlò dei Waqf180 tripolini e di come
l'Italia fosse decisa a curare e a far progredire quelli libici, poi ci fu una serie di
notizie locali e, per concludere, una conversazione sulla fiera araba di
Gerusalemme.181 L'intento propagandistico delle trasmissioni si fece chiaro fin da
subito, tanto che l'Orient, giornale francese di Beirut, attaccò violentemente le
notizie sulla Siria in un articolo del 6 giugno 1934 definendole ingiuste, offensive
per la potenza mandataria e contrarie alla cordialità dei rapporti internazionali. 182
Anche l'al-Gāmi'ah al-'arabiyyah commentando l'inizio delle trasmissioni notava:
“nessuno può negare che l'Italia ha vaste ambizioni nel vicino oriente, e
quantunque le agenzie telegrafiche e i giornali italiani cerchino di smentire tali
ambizioni, il dittatore signor Mussolini non lo può negare: la sua lingua più d'una
volta si è lasciata andare nei suoi discorsi, ed egli ha dichiarato che l'Italia
sorveglia con occhio vigile tutto ciò che avviene nel vicino oriente, che essa vi ha
interessi commerciali impossibili a garantire se non si garantiscono gli interessi
politici”.183
Un rapporto inglese dalla Palestina del novembre 1935 notava che le notizie
radio diventavano sempre più popolari nei caffè arabi e che un notiziario arabo
poteva raggiungere una quantità di persone molto maggiore rispetto ad un
179 Ibidem
180 Sono gli organismi che amministrano i lasciti e le donazioni fatte in spirito religioso e attraverso i quali si gestiscono una
serie di servizi comunitari.
181 M. Tedeschini Lalli, La propaganda araba del fascismo e l'Egitto, in “Storia Contemporanea” 1976, p. 726
182 Ivi, p. 728
183 “Oriente Moderno” 1934, p. 272
72
giornale, specialmente se accompagnato da programmi di musica orientale.
L'offerta di Radio Bari aveva immediatamente conseguito un buon successo, e,
soprattutto, aveva anticipato di gran lunga Francia ed Inghilterra. L'alto
commissario per la Palestina stimava che nel 1937 il 60% dei possessori di
licenze radio ascoltava regolarmente Bari. 184
All'inizio furono commessi alcuni errori, come scegliere annunciatori libici che
parlavano in arabo classico, risultando ridicoli per gli ascoltatori; un'inversione di
marcia portò alla scelta di annunciatori egiziani e palestinesi. Per quanto
riguarda l'intrattenimento il livello era alto, visto che venivano impiegati i più
famosi cantanti arabi. Fino alla crisi etiopica le trasmissioni erano, da un punto di
vista britannico, innocue, visto che seguendo la politica del fronte di Stresa gli
italiani volevano evitare ogni tipo di problema con gli inglesi. Questo dato è
confermato dallo stesso Ciano, che nel suo diario ricorda come fosse stato
costretto a licenziare il primo speaker che, di sua iniziativa, aveva offeso gli
inglesi, con i quali i rapporti erano buoni.185
Dopo le sanzioni contro la guerra di Etiopia il tono delle trasmissioni cambiò
drasticamente. Una violenta propaganda anti-britannica intendeva risvegliare il
nazionalismo arabo per creare problemi agli inglesi ed eventualmente impegnare
le loro truppe, in modo che non potessero essere utilizzate contro quelle italiane
in Africa orientale.186 Da parte italiana, risultava che già in imminenza della
guerra, tra il 31 agosto e il 1 settembre '35, a Gerusalemme agenti di polizia
ordinarono di spegnere le radio, per impedire che venisse ascoltata Bari. 187
Con il cambio di atteggiamento del 1935 la situazione cominciò ad essere
costantemente monitorata dal Foreign Office. 188 Con la concentrazione di forze
armate in Libia, secondo gli inglesi Roma voleva dimostrare loro che se
potevano danneggiare le operazioni in Abissinia chiudendo il canale di Suez alla
navigazione italiana, l'Italia era in grado di ostacolare centri vitali della
comunicazione dell'impero britannico con sovversioni interne ed eventuali
invasioni. Con queste iniziative Roma sperava di persuadere gli inglesi a non
andare troppo oltre con le sanzioni ginevrine. Nelle trasmissioni si cominciò ad
affermare che la Gran Bretagna utilizzava gli arabi in azioni anti-italiane per il suo
184 C.A. Mac Donald, Radio Bari: Italian wireless propaganda in the Middle East and British countermeasures 1934-38, in
“Middle Eastern Studies”, maggio 1977, pp. 195-207
185 G. Ciano, Diario, Op. cit., p. 89
186 Ibidem
187 V. Vacca Vaglieri, Op. cit., p. 445
188 C.A. Mac Donald, Op. cit.,pp. 195-207
73
esclusivo tornaconto.
Molto più serio era il diretto incitamento alla ribellione contenuto nei programmi
di Bari. Una tipica trasmissione in Palestina nel 35 criticava gli inglesi per
l'oppressione ai danni dei musulmani e si augurava l'indipendenza araba al più
presto. In ottobre, quando venne invocata una azione araba contro gli inglesi,
l'Italia esacerbò la situazione diffondendo la notizia che armi destinate agli ebrei
erano state scoperte nei depositi del porto di Jaffa e che gli inglesi permettevano
loro di importarle per massacrare gli arabi. Si sosteneva inoltre che la Gran
Bretagna stesse costringendo i paesi arabi sotto il suo controllo a seguire una
politica contraria ai loro reali interessi economici, imponendo loro con la forza
l'applicazione delle sanzioni contro l'Italia. Con riferimento all'Egitto si diceva
che, qualora il paese si fosse adattato alle imposizioni inglesi, l'interruzione dei
rapporti commerciali con l'Italia sarebbe stato dannoso soprattutto per il paese
africano.189
Quando la rivolta scoppiò nell'aprile del 1936, Bari supportò il movimento
palestinese per la libertà ed accusò gli inglesi di perpetrare massacri ai danni dei
musulmani. In Egitto ci si mosse allo stesso modo, arrivando a sostenere che
era “vergognoso che la Gran Bretagna combattesse per l'indipendenza di un
popolo selvaggio (etiope) e continuasse a tenere sotto scacco un popolo
altamente civilizzato (egiziano)”.190
L'Italia era ovviamente dipinta come amica degli arabi: essa intendeva difendere
le minoranze musulmane in Abissinia e tutti i musulmani dell'impero italiano
erano felice e soddisfatti del trattamento loro riservato. L'apprensione sempre
maggiore causata a Londra dal tono delle trasmissioni, portò alcuni esponenti
del governo a proporre un sabotaggio, facendo in modo che non si potesse
risalire alle responsabilità inglesi e, qualora fosse avvenuto, giustificarsi dicendo
che le trasmissioni di Bari avevano fortemente incoraggiato i disordini. 191
L'ambasciatore a Roma Drummond si espresse contro una simile eventualità,
poiché avrebbe causato grossi risentimenti da parte italiana, i cui possessi
coloniali erano pericolosamente collocati tra le più importanti linee di
comunicazione dell'impero britannico. Alla fine ci si limitò ad inoltrare una
protesta verso Roma, peraltro immediatamente frustrata perché l'Italia chiedeva
189 M. Fiore, La guerra delle parole. La propaganda anti-inglese di Radio Bari e le contromisure britanniche (1935-1940), in
“Nuova Storia Contemporanea”, Anno XV, n.1 2011, p. 69
190 C.A. Mac Donald, Op. cit.
191 Ibidem
74
di provare il suo reale coinvolgimento nei disordini e Suvich arrivò ad affermare
che forse c'era un trasmettitore clandestino che operava sulle lunghezze d'onda
di Radio Bari. Promise di investigare ma assicurò che le espressioni di opinione
di cui si lamentava il governo britannico non emanavano da Bari. Gli inglesi
investigarono per loro conto e risultò immediatamente che nessun clandestino
operava su radio Bari. A quel punto Suvich dichiarò che la radio era gestita da
una compagnia privata e che il governo italiano non poteva interferire, poiché in
Italia “non esisteva la censura preventiva.” 192
Da parte inglese si decise di non sabotare Radio Bari, ma di proseguire nel
tentativo di migliorare le relazioni diplomatiche; in quest'ottica si potrebbero
inserire la mancata applicazione di sanzioni petrolifere ed il piano Hoare-Laval
del dicembre 1935, con cui si proponeva la spartizione dell'Etiopia e la
costituzione di una speciale zona di influenza economica italiana a condizione
della fine delle ostilità.193 Questi provvedimenti portarono effettivamente ad un
tono più disteso delle trasmissioni, ma la tregua non era destinata a durare: con
l'intensificarsi delle operazioni belliche in Etiopia, dalla primavera del 1936
ripresero gli attacchi contro gli inglesi, che non poterono far altro che registrare il
regresso della propaganda italiana ai toni della seconda metà dell'anno
precedente.194
Il termine delle ostilità abissine non significò la sospensione della campagna
ostile: lo scoppio della rivolta palestinese offriva nuovo materiale al regime
fascista per attaccare le misure adottate dagli inglesi in Palestina: si affermava
che “gli arabi palestinesi venivano uccisi dalle autorità inglesi per proteggere gli
ebrei.”195 Ma l'aspetto peggiore per il governo di sua Maestà, che contribuiva in
maniera determinante a rendere efficace questo tipo di propaganda, era che “il
vero problema di tutti questi messaggi è che gli italiani possono tranquillamente
continuare a disseminare propaganda anti-inglese senza raccontare una sola
bugia”, come sosteneva George Rendel, capo del Eastern Department del
Foreign Office.196 Con la conclusione della prima fase della rivolta palestinese
nell'ottobre 1936, l'impegno italiano nella guerra civile spagnola e la
consapevolezza della debolezza militare, le trasmissioni abbandonarono
192 Ibidem
193 M. Fiore, Op. cit., p. 72
194 Ibidem
195 Citato in M. Fiore, p. 73
196 Ibidem
75
nuovamente il tono ostile, per tornare ad una più semplice esaltazione del
fascismo, in particolare in occasione della visita in Libia del duce, durante la
quale ricevette la “spada dell'Islam” e si proclamò protettore dei musulmani. 197
Durante lo sviluppo delle trattative anglo-italiane che avrebbero trovato
compimento con gli accordi di Pasqua, le trasmissioni seguirono un andamento
altalenante, nel tentativo di fungere da strumento per ottenere quante più
concessioni possibili: il Foreign Office osservava che “questa campagna di
propaganda sembrerebbe essere un rubinetto che viene aperto o chiuso a
piacimento. Quando il regime fascista è desideroso di buone relazioni con il
governo inglese o ritiene vantaggioso creare una relazione più distesa tra i due
paesi, il rubinetto è chiuso. Quando crede, invece, che la linea politica contraria
potrebbe meglio servire ai propri interessi, il rubinetto è aperto.” 198
Così il “rubinetto” venne nuovamente aperto dopo l'annuncio al Parlamento
inglese, nel novembre 1937, del prossimo inizio di trasmissioni in arabo da parte
della BBC. Nonostante le rassicurazioni sul fatto che la radio inglese non
avrebbe operato in senso propagandistico, la notizia turbò Mussolini: descrizioni
di rivolte in Transgiordania ed ai confini con l'Arabia Saudita, in realtà mai
verificatesi, vennero mandate in onda da Radio Bari. Inoltre l'ambasciatore
inglese a Roma comunicava che erano stati installati trasmettitori in Sardegna
con lo scopo di interferire con i programmi della BBC e che, allo stesso tempo,
agenti italiani in Palestina e Transgiordania stavano lavorando per bloccare i
comandi delle radio per impedire la sintonizzazione su stazioni diverse da Bari. 199
In Italia veniva inoltre avviata una campagna stampa contro l'iniziativa inglese e
tramite la quale si affermava che nessuna propaganda ostile alla Gran Bretagna
era in atto in Medio Oriente da parte italiana. Sul Corriere della Sera del 23
dicembre 1937 si faceva notare che “se la diffusione di notizie vere nuoce al
prestigio inglese, la colpa non è né della verità né della radio che la divulga, ma
della politica inglese”.200
Nel gennaio 1938 la Gran Bretagna diede inizio a trasmissioni simili a quelle
mandate in onda da radio Bari. Tuttavia già con la prima trasmissione si
scatenarono polemiche vigorose: in nome di una informazione obiettiva
l'annunciatore aveva infatti riportato la notizia che un arabo palestinese era stato
197 Ibidem
198 Citato in M. Fiore
199 Ibidem
200 M. Tedeschini Lalli, La propaganda araba del fascismo e l'Egitto, Op. cit., p. 733
76
impiccato dalle autorità inglesi quella stessa mattina, per essere stato trovato in
possesso di un fucile e munizioni. I rappresentati inglesi in Medio Oriente
sollevarono forti proteste, facendo notare l'impatto disastroso e le relative
tensioni generate da notizie del genere: non si poteva, in nome dell'obiettività,
mettere a repentaglio la politica e la sicurezza inglese. 201 Peraltro l'episodio
innescò un rapporto conflittuale tra il Foreign Office e la BBC che segnava un
precedente molto importante nella definizione dei rapporti tra potere politico ed
informazione.
Da parte italiana la risposta non fu, come si temeva in ambiente inglese, il
sabotaggio delle trasmissioni; venne invece ingaggiata la più popolare cantante
araba Umm Kulthrum e mandata in onda in contemporanea con l'inizio del
notiziario della BBC. Cominciò anche a pubblicarsi la rivista Radyo Bari – Radio
Araba di Bari, mensile, di sedici e poi ventiquattro pagine, che stampava una
scelta delle trasmissioni del mese e articoli di interesse storico e culturale, la
rubrica “quel che si dice in occidente dei paesi arabi”, che riassumeva articoli
politici di giornali e riviste italiane, recensioni di libri e una pagina dedicata alle
lettere degli ascoltatori arabi che esprimevano giudizi o presentavano proposte
sulle trasmissioni; c'era anche una pagina delle donne. 202 Nel complesso, il
successo ottenuto dalle trasmissioni della BBC fu piuttosto scarso, a causa del
livello nettamente più alto dell'intrattenimento proposto da Radio Bari.
In
seguito
agli
accordi
di
Pasqua
la
situazione
andò
rapidamente
normalizzandosi, anche se sporadici attacchi non mancarono fino alla ratifica del
trattato, avvenuta nel novembre 1938. La calma resse fino a quando, nell'aprile
1939, l'Italia occupò l'Albania: l'Inghilterra non si lasciò sfuggire l'opportunità di
strumentalizzare l'avvenimento e mandò in onda la sintesi di un articolo
pubblicato da un quotidiano arabo il cui autore negava a Mussolini il diritto di
atteggiarsi a protettore dell'Islam.203
A prescindere dalla iniziativa inglese, l'influenza e la popolarità di Radio Bari
avevano ormai subito una forte diminuzione, probabilmente a causa della
cessazione degli aiuti finanziari ai ribelli arabi in Palestina, in seguito agli Accordi
di Pasqua. Con l'inizio del conflitto mondiale la radio, che aveva aumentato il
numero e la frequenza delle trasmissioni 204, subì ulteriori censure: dopo
201 M. Fiore, Op. cit., p. 79
202 V. Vacca Vaglieri, Ar-Radyo, cit., p.445
203 M. Fiore, Op. cit., p. 83
204 F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di suoni e di immagini, Marsilio editori, Venezia
77
l'intervento italiano in Siria fu vietato di ascoltare Bari e il 12 giugno un decreto
dell'Alto Commissario autorizzava il sequestro temporaneo, collettivo o
individuale degli apparecchi radioriceventi privati “nei casi in cui il loro uso fosse
dannoso per l'ordine, la sicurezza, il credito pubblico o la difesa nazionale”. 205
Con la caduta del fascismo Radio Bari diventava la prima emittente libera e voce
della resistenza e degli Alleati, tanto da meritare l'epiteto di “Radio Vergogna”,
coniato dalle emittenti fasciste che ancora trasmettevano, come quella dell'EIAR
206
di Milano.207 L'11 settembre 1943 mandava in onda il primo discorso di Vittorio
Emanuele III dopo la fuga da Roma.
L'esperimento di Radio Bari fu molto interessante per vari aspetti: innanzitutto
perché fu il primo di questo tipo ad opera di una nazione europea, attraverso il
quale si poteva raggiungere una larga fetta di popolazione arabo-musulmana
che non leggeva i giornali, visto l'alto tasso di analfabetismo. Per questo si
dimostrò particolarmente efficace, ed anche se non abbiamo riscontri diretti sulla
reazione del mondo arabo, il fatto che le trasmissioni provocassero, da un certo
momento in poi, la reazione preoccupata ed indignata della Gran Bretagna, ci
sembra un elemento decisivo per affermare che da parte italiana si fosse trovato
il modo migliore per penetrare in oriente, bypassando i filtri e gli ostacoli posti
dalle altre potenze, oltre che dalla più volte ricordata condotta libica durante la
riconquista. In una relazione segreta del ministero degli esteri del 15 luglio 1936,
viene confermata la validità delle trasmissioni e si propone di renderle sempre
più accurate, oltre ad aggiungerne altre in lingua italiana sul mondo arabo. Ma
ancor più probante sembra una polemica sorta in Gran Bretagna nel dicembre
1937, quando già sono in atto le conversazioni con l'Italia che porteranno agli
accordi di Pasqua: Il 24 dicembre il Times pubblica208 un articolo riportante
alcune dichiarazioni di Eden, ministro degli esteri inglese, sulla propaganda di
Radio Bari. Questi rendeva noto di aver informato l'ambasciatore italiano che se
non si fosse posto fine alla propaganda sarebbe stato impossibile creare
l'atmosfera necessaria al proseguimento e alla riuscita di conversazioni destinare
a migliorare le relazioni reciproche.
All'onorevole Lawson che gli domandava se fosse al corrente delle forti spese
1999, p. 143
205 V. Vacca Vaglieri, Ar-Radyo, Op. cit., p.445
206 Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche
207 F. Monteleone, Storia della radio..., Op. cit., pp. 164-178
208 "Oriente Moderno", Vol. I, 1938
78
che paesi quali Germania ed Italia sostenevano per la propria propaganda
all'estero, fortemente anti-britannica, Eden rispondeva di essere al corrente e di
essere al lavoro affinché si potessero distribuire notizie obiettive in alcune zone
particolari.
Nella seduta del 23 dicembre sull'argomento il deputato laburista Fletcher
pronunciava un discorso di estrema violenza contro la campagna anti-inglese
della stampa italiana, nel quale affermava che la propaganda di Radio Bari e
denaro italiano avessero sostenuto la rivolta in Palestina.
Il 29 dicembre sulla United press, Webb Miller, direttore per l'Europa della
medesima testata, inviava una serie di corrispondenze da Gerusalemme
pubblicate in vari paesi, in cui sosteneva di non aver trovato nessuna conferma
autorevole al fatto che l'Italia avesse fornito denaro ai ribelli arabi. Molti dirigenti
arabi sostenevano che le trasmissioni di Radio Bari avessero avuto qualche
effetto, seppur circoscritto a causa del limitato numero di apparecchi radio diffusi
in Palestina.209
Oltre alle preoccupazioni che abbiamo appena elencato, la polemica sorta su
Radio Bari si ritorse ulteriormente contro il governo di Londra: in una serie di
articoli pubblicati dai giornali al-Giāmi'ah al-'arabiyyah del Cairo e il Filasṭīn
palestinese, si riteneva offensivo pensare che la rivolta araba fosse esplosa in
seguito alle trasmissioni di Bari e si invitava il governo britannico a ragionare
sulla politica sionista seguita fino a quel momento, per poter finalmente
annunciare agli arabi un cambio di direzione. 210
Per finire, la definitiva conferma della bontà dell'iniziativa italiana fu la scelta
inglese di procedere sulla stessa strada: il 4 gennaio 1938 la BBC mandava in
onda la sua prima trasmissione in lingua araba 211. Un anno dopo, nell'aprile del
1939, anche la Germania si adeguava.212
Come altre iniziative, Radio Bari non era nata in funzione anti-inglese, ma come
mezzo di espressione ed affermazione dell'Italia nel mondo arabo; ma il
successo conseguito fu, in gran parte, dovuto proprio all'atteggiamento antiinglese dei popoli mediorientali, che da parte italiana venne sfruttato con
decisione soltanto in seguito alle tensioni derivanti dalla guerra d'Etiopia. In
seguito le alterne vicende delle relazioni tra i due paesi trovarono un riflesso
209 Ibidem
210 Ivi, Vol. II
211 Ibidem
212 "Oriente Moderno", 1939, p. 307
79
costante nei toni delle trasmissioni, a dimostrazione dell'importanza che si
attribuiva al ruolo svolto da Radio Bari. Eppure l'aspetto centrale nella
determinazione del successo della programmazione fu sempre l'umore della
popolazione araba, più che la qualità intrinseca delle trasmissioni.
3.3 Altri mezzi di propaganda
Una parte importante della propaganda italiana nel mondo arabo fu quella svolta
dalle pubblicazioni che venivano inviate dal ministero della cultura popolare alle
rappresentanze all'estero e da queste successivamente inoltrate ai nominativi di
predisposti indirizzari o a chi ne facesse richiesta. Nella pubblicistica inviata nel
mondo arabo si possono distinguere due settori principali: quello che tendeva ad
illustrare ed elogiare le realizzazioni del regime fascista in Italia e quello che
trattava i problemi di politica internazionale e del relativo atteggiamento italiano,
specialmente per quei settori che influivano più direttamente sui rapporti con il
mondo arabo.213
La pubblicazione e la distribuzione a spese dell'Italia di libri volti a spiegare la
politica del fascismo si può far risalire alla metà del 1934, quando i primi
telespressi inviati dalla Legazione del Cairo all'ufficio stampa del ministero degli
esteri richiedevano libri e documentazione sul fascismo, per far fronte alle
richieste dei giovani.214 Le prime spedizioni al Cairo furono di una sessantina di
volumi al massimo, di cui ancora nessuno in arabo. Anche l'anno seguente,
nonostante l'incremento numerico dei volumi inviati, l'arabo era ancora assente.
Soltanto nel 1936 le prime pubblicazioni in lingua araba giunsero alla Legazione
del Cairo: su 711 volumi totali, 96 erano in arabo, mentre la maggior parte era in
francese. Il trend rimase in aumento negli anni successivi, ma non cambiava il
tema prescelto: in larga parte le pubblicazioni che raggiungevano il mondo arabo
celebravano il fascismo ed il duce, mentre una piccola porzione di essi si
occupava di questioni di politica internazionale e delle conseguenze sul mondo
arabo. Queste pubblicazioni raggiungevano per la maggior parte Egitto e Siria, in
misura minore Iraq, Palestina ed Arabia Saudita. A nostro avviso non soltanto
perché, come sostenuto da Tedeschini Lalli, 215 l'interesse principale dell'Italia
fosse la propaganda in Egitto, ma soprattutto perché in questo paese era più alto
il tasso di alfabetizzazione. L'incremento delle trasmissioni di Radio Bari,
213 M. Tedeschini Lalli, La propaganda araba del fascismo e l'Egitto, cit., p. 735
214 Ivi., p. 737
215 Ivi, p. 738
80
significativamente più importante di quello delle pubblicazioni inviate all'estero,
dovrebbe essere una prova abbastanza solida per dimostrare che il problema
principale era aggirare l'analfabetismo. Dovettero poi concorrere anche questioni
di carattere economico: aumentare le trasmissioni radio doveva essere più
economico che tradurre, stampare ed inviare all'estero quantità sempre crescenti
di libri e pubblicazioni varie. Dai nostri calcoli risulta infatti che mentre
l'incremento delle trasmissioni radio fu di circa quaranta volte, nello stesso arco
di tempo il numero di volumi inviati nel mondo arabo si quadruplicò. Difficile
stabilire quale fosse l'accoglienza ricevuta dalle pubblicazioni: certamente le
legazioni italiane lamentarono pochissimi rifiuti o restituzioni. 216
Un altro mezzo tramite il quale si tentava di espletare la propaganda italiana era
il “servizio articoli”: il ministero della cultura popolare preparavano a Roma gli
articoli da inviare alle rappresentanze diplomatiche in Egitto. Questi organi si
occupavano poi di farli pubblicare sui giornali locali più disposti ad assecondare i
desiderata italiani. In realtà questi erano giornali di minima importanza, la cui
tiratura era nettamente inferiore a quella dei giornali più letti; peraltro l'intensità
maggiore del lavoro del “servizio articoli” si registrò in occasione del conflitto di
Etiopia, per poi scemare gradualmente fino ad una ripresa alla fine del 1938:
dopo il patto di Monaco, l'Anschluss e il degrado della situazione mondiale, negli
articoli inviati in Egitto trovavano spazio temi prettamente politici che fino a quel
momento non erano mai apparsi. Accanto ai soliti elogi per le realizzazioni del
fascismo trovarono spazio il comunismo e l'anti-comunismo, la politica
mediterranea, l'impero. Oltre a questo tipo di rapporto, con la stampa egiziana ed
araba in generale ne esisteva un altro, fatto di sovvenzioni dirette o tramite la
sottoscrizione di numerosi abbonamenti; a volte si procuravano ai giornali
inserzioni pubblicitarie di prodotti italiani.217
Anche in questo caso, il reale impatto delle iniziative italiane è difficilmente
quantificabile, ma stando alla rassegna stampa che abbiamo potuto consultare
su Oriente Moderno ed ai documenti di archivio, dovette essere piuttosto
modesto; nello Yemen addirittura, nonostante la scarsa diffusione della stampa,
si sconsigliava di procedere alla pubblicazione di articoli favorevoli all'Italia,
poiché avrebbero potuto avere un effetto controproducente. Certamente in
216 Ibidem
217 Ivi, pp. 743-748
81
alcune fasi, come quella della riconquista libica e del conflitto italo-etiopico, la
“guerra” combattuta a mezzo stampa poté avere delle ripercussioni sull'opinione
pubblica, ma come dimostra il fatto che le atrocità denunciate in Libia e
l'aggressione all'Etiopia vennero presto dimenticate, siamo portati a ritenere che
essa influì in modo molto blando sullo sviluppo dei rapporti italo-arabi.
3.4 Una nuova fase dei rapporti con il mondo arabo-musulmano
Se ci fu un elemento che giocò a favore dell'Italia nelle relazioni con i paesi
musulmani fu, come abbiamo visto anche in relazione del successo di Radio
Bari, l'aggravarsi del conflitto arabo-sionista in Palestina che, di fatto, calamitava
le attenzioni dei maggiori rappresentanti del mondo arabo. 218 L'Italia, per evitare
contrapposizioni forti con la Gran Bretagna, aveva inizialmente mantenuto una
posizione defilata, ed anche in occasione di alcuni scontri tra arabi ed ebrei,
cominciati nel 1928 ed aggravatisi nel '29, si era espressa a favore di un
mandato di tipo internazionale, senza prendere posizione a favore degli arabi. 219
La deflagrazione del conflitto palestinese rende evidente il motivo che condusse
il Congresso Musulmano di Gerusalemme, che si svolse nel dicembre '31 sotto
la direzione del Gran Muftī Hajjī Amīn al-Husaynī, ad incentrare le discussioni
totalmente sul modo di affrontare il sionismo. Ad uscire dal coro e porre
l'attenzione su quella che era stata la condotta italiana in Libia l'intervento di 'Abd
er-Rahmān 'Azzām, ex deputato wafdista egiziano e, tra il 1912 e il 1919,
impegnato a fianco dei ribelli libici. Egli prese la parola dopo che un profugo
libico presente al congresso, es-Sa'dāwī, aveva proposto una energica
riprovazione dei delitti che le autorità italiane erano accusate di aver commesso
in Libia. 220
A questa proposta la risposta di 'Abd er-Rahmān 'Azzām fu molto dura e ci
sembra opportuno riportarla per intero:221
Tra le proposte ve n'ha una che ci fa raccapricciare, ossia quella concernente la riprovazione dei
delitti che l'Italia commette verso i musulmani. Circa un terzo dei musulmani della Libia è perito
ad opera delle baionette delle truppe italiane. Voi siete qui a cercare di far fronte al pericolo
sionista; ma questo che l'Italia fa è più pericoloso per i musulmani. È doveroso alzare altamente
la voce contro la prepotenza degli italiani. Gli scopi degli italiani non differiscono affatto da quelli
dei Sionisti, salvo in questo: che l'Italia vuole strappare la fede dai cuori dei musulmani. Gli Ebrei
218 B. Morris, Vttime, pp. 158-161
219 L. Rostagno, Op. cit., pp. 115-124
220 "Oriente Moderno", 1932, p.39
221 Ivi, pp. 39-40
82
sono deboli e non agiscono se non con l'aiuto delle ricchezze che affluiscono ad essi; invece
l'Italia agisce contro i musulmani con la forza delle baionette. Se esiste un pericolo, è dovere dei
musulmani d'unirsi a fronteggiarlo in tutti i territori musulmani: tale pericolo è quello degli italiani.
Essi sono troppo dappoco per essere temuti, e troppo dappoco per esporsi all'inimicizia del
mondo musulmano; che cosa vi impedisce di prendere una deliberazione riguardo a questo
governo e di porre nel programma dei vostri lavori il boicottaggio di questo governo insolente?
Dopo il discorso venne osservata una sospensione di due minuti in segno di lutto
per il martire libico 'Omar el-Mukhtār. Venne poi stabilito che la questione libica
venisse ripresa nel congresso successivo.
I
termini
dell'intervento
anti-italiano
erano
decisamente
molto
duri
e
dimostravano inequivocabilmente coma la presenza in Libia potesse essere
gravemente lesiva della reputazione del governo di Roma. Allo stesso tempo
però, la scarsa considerazione di cui la questione libica fu oggetto, rende l'idea di
quanto le priorità del mondo arabo-musulmano fossero altre. Oltre alla questione
del sionismo, giocava a favore dell'Italia anche non essere una nazione
mandataria, per cui i motivi di attrito erano minori rispetto a quelli di Francia ed
Inghilterra. Inoltre, la politica di avvicinamento alla Gran Bretagna, che abbiamo
esaminato in apertura del presente lavoro, favorì, almeno in questo caso, la
posizione italiana: il governo mandatario in Palestina decretò l'espulsione di 'Abd
er-Rahmān 'Azzām, poiché il suo discorso aveva rischiato di compromettere i
rapporti con uno “stato amico”.222
A rafforzare la posizione italiana provvide anche una dichiarazione che alcuni
notabili libici, sotto pressione fascista223, decisero di rilasciare ai correligionari
all'estero, per smentire le voci emerse durante il congresso ed affermare la
benevolenza ed il rispetto che il governo italiano aveva sempre dimostrato nei
confronti dei musulmani. Che la situazione dell'Italia non fosse però delle più
rosee lo dimostra un articolo uscito sull'Alif-bā di Damasco e ripreso dall'al-Gihād
in Egitto, a firma dell'emiro Shekib Arslan. 224
Parlando della situazione del Medio Oriente, egli riteneva che in caso di un
conflitto europeo l'Italia avrebbe tentato di occupare la Siria e affermava
l'esistenza di un accordo italo-turco che prevedeva la spartizione del paese e del
Libano. Chiudeva sostenendo che
i musulmani non potevano guardare con
piacere al regime italiano, ricordando ciò che esso aveva fatto e continuava a
222 Ivi, p. 42
223 H. W. Al-Hesnawi, Note sulla politica coloniale italiana verso gli arabi libici (1911-1943), in Le guerre coloniali del
fascismo, a cura di A. Del Boca, Laterza, Bari 2008, p. 46
224 Ivi, p. 76
83
fare in Libia.
Oltre ai problemi causati dalle manovre libiche, altri fattori contribuivano a
mettere in cattiva luce l'Italia in oriente 225: la Francia organizzava una campagna
di propaganda contro il governo di Roma con lo scopo, secondo Iqbal Shedai 226,
di sollevare le popolazioni soggette all'Italia in vista di una guerra e rinforzare le
antipatie e l'odio delle popolazioni musulmane destinate a fornire all'esercito
francese il materiale umano; inoltre si intendeva boicottare le merci italiane.
Infine si voleva presentare l'Italia, sull'onda degli avvenimenti in Tripolitania e
Cirenaica, come possibile conquistatrice dei paesi del Nord Africa e della Siria.
Tra le personalità ostili all'Italia, quella più importante era quella dell'autore
dell'articolo appena citato, l'emiro Shekib Arslan, il quale aveva condotto la
rivolta dei Drusi in Siria contro i francesi e che era poi fuggito a Ginevra, dove dei
fiduciari del governo parigino erano stati inviati per cercare una riconciliazione e
attirarlo dalla propria parte.
Bisogna fare un piccolo inciso riguardo la rivolta dei Drusi: in Italia si guardò con
interesse a questa ribellione, poiché si riteneva che le autorità francesi non
sarebbero state in grado di controllare il fenomeno; anche dopo la conclusione
della rivolta, le richieste di aiuti in armi e denaro da parte dei nazionalisti siriani
suscitarono interesse in Italia, tanto che il 7 luglio del 1928 il console generale a
Beirut inviò ai consoli in Aleppo e Damasco la direttiva di “favorire
nascostamente, per quanto è possibile e con la massima prudenza, i vari
movimenti nazionalisti degli indigeni; sfruttare tutti i segni di stanchezza e di
malcontento delle popolazioni”. Un paio di mesi dopo elementi siriani si rivolsero
al console generale per degli aiuti e questi si dimostrò propenso a fare qualcosa,
convinto che altrimenti sarebbe subentrata la Russia; Mussolini impartì l'ordine di
limitarsi ad ascoltare nuovi eventuali analoghi approcci. La sua cautela e le
proteste francesi riguardo gli interessi italiani in Siria portarono il governo di
Roma ad abbandonare ogni velleità.227
Nonostante gli attacchi dell'emiro riguardo la condotta in Libia, esisteva ancora la
possibilità di poterlo guadagnare alla causa italiana; lo stesso Shedai aveva
cominciato un'opera di convincimento nei suoi confronti e, viste le cattive
225 ASMAE, Gabinetto del ministero e segreteria generale 1923-1943, busta 1059, Rapporto del servizio segreto circa
l'oriente musulmano, 29 marzo 1933
226 Nazionalista indiano di religione musulmana che in questo periodo risulta praticamente l'unico contatto italiano con il
mondo del Medio Oriente. Fungeva da informatore e lavorava in stretta collaborazione con il dottor Enderle, psichiatra di
origine rumene ed ex ufficiale medico italiano, buon conoscitore del mondo islamico.
227 G. Carocci, La politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969, p. 204
84
condizioni economiche in cui versava l'emiro, sarebbe potuto bastare fornirgli
denaro ed armi per sottrarlo all'influenza francese.
Oltre a conquistare personalità di spicco del mondo musulmano, bisognava
anche infilarsi nelle crepe dei rapporti del mondo arabo con Francia ed
Inghilterra, la cui condotta politica in oriente faceva si che venissero ancora
considerate nemiche dell'Islam: per farlo bisognava cominciare ad agire presso
di loro, onde evitare che la propaganda ostile all'Italia potesse alienare
definitivamente le simpatie del mondo arabo al governo di Roma. A questo
scopo, il programma politico da seguire viene elaborato per sommi capi in un
rapporto che, a giudicare dalla presenza della classica siglatura “M” con cui
Mussolini usava contrassegnare i documenti che arrivavano alla sua diretta
attenzione, arrivò tra le mani del duce. 228
1.Diffusione della convinzione che l'Italia desidera l'indipendenza politica ed economica di tutti i
paesi musulmani.
2.Creare in ognuno di essi centri segreti di propaganda filo italiana.
3.Stringere rapporti con i “giovani musulmani”, con la stampa e con i partiti rivoluzionari
musulmani, che andrebbero aiutati e sovvenzionati.
4.Stabilire linee di navigazione fra Gedda e l'India, Giava e l'Africa del nord, da usarsi nei
pellegrinaggi diretti alla Mecca. Il viaggio su navi italiane potrebbe facilitare la propaganda tra i
pellegrini.
5.Acquisire alla causa Ibn Sa'ūd, alleato di Arslan, e farne il centro della politica araba. Ibn Sa'ūd,
uomo di eccezionale intelligenza e capacità, sovano dell' Higiàz e del Nağd, odia i francesi
mentre con l'Inghilterra, seppur a denti stretti, mantiene rapporti amichevoli. Attualmente versa in
cattive condizioni economiche: fornire denaro ed armi potrebbe essere utile per attirarlo
nell'orbita italiana.
6.In occasione del pellegrinaggio annuale inviare una missione medica italiana alla Mecca con lo
scopo apparente di aver cura dei pellegrini provenienti dalle colonie italiane. Istituire poi alla
Mecca un ambulatorio stabile, con a capo un medico italiano, possibilmente musulmano.
7.Profittare del pellegrinaggio alla Mecca per organizzare sui piroscafi ed a terra una esposizione
campionaria di prodotti italiani, specialmente tessuti.
8.Stringere rapporti con
il comitato
panislamico di Gerusalemme ed eventualmente
sovvenzionarlo.
9.Studiare l'istituzione di un centro di propaganda anche a Baghdad, approfittando del
risentimento del popolo e del re per la Francia (Mussolini sigla con un ?).
10.Promettere una azione diplomatica presso il governo turco e quello bulgaro per un miglior
trattamento dei musulmani “conservatori” nel primo paese, e delle minoranze islamiche nel
secondo.
228 ASMAE, Gab. 1059, Rapporto del servizio segreto circa l'oriente musulmano, 29 marzo 1933
85
11.Agire attraverso l'informatore (Shedai) sulla stampa musulmana indiana, che esercita una
notevole influenza su quella araba e servirsi dei musulmani indiani, difficilmente sospettabili, per
la causa italiana.
12.Dare eventualmente la promessa di un atto di clemenza verso i fuoriusciti cirenaici a
condizione che per la durata di almeno un anno venga assicurata la completa pacificazione della
colonia. A suo tempo l'atto di clemenza costituirebbe un magnifico argomento di propaganda.
Come si vede, questo primo abbozzo di politica nei confronti del mondo
musulmano era piuttosto eterogeneo, certamente non di immediata applicazione
e dimostra che, fino a questo punto, molto poco era stato fatto per attirare
all'Italia le simpatie dell'oriente islamico. Con lo stesso Ibn Sa'ūd, ad esempio,
era già stato siglato un trattato di amicizia che però non aveva ancora portato i
frutti sperati, anche a causa della politica di amicizia perseguita fin dal 1926 con
lo Yemen e la volontà di non incrinare i rapporti con Londra. 229
Il progetto delineato cominciò a prendere lentamente corpo nei mesi successivi,
quando anche da parte del mondo islamico cominciarono a giungere segnali di
interesse, anche se non per vie ufficiali.
In un incontro tra Lanza d'Ajeta, diplomatico italiano presso la Società delle
Nazioni e in seguito segretario particolare e capo di gabinetto del ministro degli
esteri Ciano, ed Andon Bey Keutchecajan, uomo di fiducia dell'ex kedivè d'Egitto
Abas-Hilmi, si parlò della situazione del mondo islamico e venne fatto presente
al d'Ajeta che esisteva il rischio concreto che il movimento panislamico trovasse
nell'unione sovietica un appoggio decisivo. Andon Bey si chiedeva il motivo per il
quale l'Italia non si servisse del movimento per penetrare nella politica orientale,
specialmente in quelle regioni dove sarebbe stato storicamente più facile
(Arabia, Siria, Palestina, Tunisia, Marocco).
Anche a causa di alcune comuni finalità politiche (riferimento implicito al
revisionismo fascista) per il governo di Roma sarebbe stato molto facile
guadagnare le simpatie del mondo islamico. Della stessa opinione era anche
Tabatabai, segretario generale del congresso panislamico.
Le iniziative da prendere, sempre stando ai consigli di Andon Bey, erano:
modificare completamente i quadri diplomatici italiani nel vicino oriente, inviando
persone capaci di comprendere la mentalità musulmana e rimediando così alla
totale inesistenza di qualunque organizzazione politica italiana in oriente;
appoggiare l'iniziativa di Roma su capi che avessero una reale forza politica: Ibn
229 Vedi avanti, capitolo Yemen
86
Sa'ūd e Abas-Hilmi erano i più indicati. Ricordare che la Mecca era un centro
fondamentale per le direttive politiche del movimento islamico e, infine, scegliere
come interlocutore il Patriarca di Gerusalemme che avrebbe dovuto essere
convinto a protestare contro l'invadenza ebraica in Palestina, che si risolveva
con una espropriazione terriera di arabi e contemporaneamente in una
affermazione anti-cristiana.230
L'Italia era percepita come totalmente assente nelle vicende del Vicino e Medio
Oriente, ma cominciava ad essere ritenuta una possibile ed importante alleata
nella contrapposizione con le principali potenze mandatarie. Di conseguenza la
si allettava attraverso futuri scenari trionfali e la si spaventava facendole capire
che altri avrebbero potuto approfittare delle esigenze del movimento islamico.
Infine si cercava, sempre attraverso di essa, di ottenere l'appoggio del mondo
cristiano contro il movimento sionista, che per la cristianità veniva presentato
dagli arabi dannoso tanto quanto per il mondo islamico.
Il vuoto da colmare era quindi importante, ma nonostante tutto una buona notizia
poteva essere dedotta da questi primi contatti politico-diplomatici con il mondo
islamico: la questione libica era ormai scivolata in secondo piano, in un certo
senso accettata dai paesi arabi, i quali d'altronde non potevano far altro se
volevano trovare nuovi alleati nella loro battaglia. La necessità di trovare alleati
contro gli inglesi ed i francesi li portava ad applicare l'adagio secondo il quale “il
nemico di un mio nemico è mio amico”.
Mussolini ruppe quindi ogni indugio e decise di dar corso ad una operazione di
avvicinamento al mondo islamico; ricordiamo che da pochi mesi aveva sostituito
Grandi nella direzione degli esteri. La politica del peso determinante perseguita
nel precedente triennio cominciava a vacillare. Già due mesi dopo le cose
avevano preso una direzione favorevole all'Italia, visto che si era riusciti ad
avvicinare ed ingraziarsi l'emiro Arslan, il quale aveva pubblicato un articolo
favorevole all'Italia, pur con lievi accuse, forse per non dare l'impressione di un
troppo brusco voltafaccia, sul più importante giornale arabo di Gerusalemme, il
al-Gāmi'ah al-Islāmiyyah.
Inoltre Shedai continuava la sua opera di propaganda favorevole all'Italia: si era
incontrato a Ginevra con il co-direttore della rivista nazionalista araba “La Nation
230 ASMAE, Gab., busta 724, fascicolo I, Appunto di Aloisi per Mussolini (03-05-33) con allegato appunto di Lanza d'Ajeta
per Aloisi (01-05-33), carte 1-5
Aloisi è il Capo di Gabinetto al Ministero degli affari esteri, carica che manterrà fino al 1936
87
Arabe”, Iḥsān al-Jābirī, ottenendo promessa di collaborazione e a Territet con
Tabatabai, il quale aveva espresso il desiderio di andare in Italia, ma solo se
invitato e ricevuto da una personalità ufficiale. Questa ipotesi venne
immediatamente scartata poiché egli, già presidente del consiglio in Persia, era
ritenuto un ribello fuoriuscito dallo Scià in carica.
L'ultimo incontro di una certa rilevanza di Shedai avvenne a Belgrado, dove si
incontrò con esponenti del partito di opposizione musulmano, il dottor Mohamed
Spaho, capo del partito e con il Gran Muftī Jemal-ud-din Sciausciovic, seguito
dalla maggioranza dei musulmani jugoslavi, malgrado fosse stato ufficialmente
rimosso dalla carica e sostituito da un personaggio ligio al governo di Belgrado.
Con questi due rappresentanti del mondo islamico si concordarono delle non
meglio specificate azioni da svolgere nel congresso dei musulmani d'Europa,
che si sarebbe svolto nell'agosto seguente.231
Questi primi successi avrebbero dovuto essere seguiti, secondo il consiglio di
Aloisi, da altre iniziative, tra cui la traduzione in arabo di alcuni volumi favorevoli
all'Islam e la concessione di aiuti economici all'emiro Arslan, quantificati,
momentaneamente, in diecimila lire. Mussolini approvò.
La politica di cauto avvicinamento al mondo islamico andava prendendo
lentamente forma, anche se in seguito, stando alla documentazione disponibile,
non tutte le strade intraprese vennero percorse: nulla più si saprà dei contatti con
il mondo musulmano jugoslavo e con lo stesso Tabatabai i contatti saranno
saltuari, seppur mai abbandonati.
Ormai era definitivamente chiaro che, se si voleva proseguire nella politica
revisionista ed affrancarsi da Francia ed Inghilterra, era necessario guardare ad
oriente e non soltanto alla ricerca del predominio sul Mediterraneo, dove d'altra
parte le possibilità di sovvertire l'egemonia delle due potenze erano praticamente
nulle.
Per ottenere i risultati sperati ci si rivolgeva ai più disparati interlocutori, segno
che la condotta da seguire era lungi dall'esser chiara. In un paio di incontri non
ufficiali tra Romolo Tritonj, console generale a riposo e redattore di “Oriente
Moderno”, e l'ex re del Ḥiģiāz Alì Ben Hussein, le conversazioni spaziarono sulla
situazione di gran parte del mondo arabo. Venne così fuori che l'ex sovrano non
vedeva di buon occhio la Francia e la sua politica mediorientale, poiché il
231 ASMAE, Ivi, Appunto di Aloisi per Mussolini (7.7.33), cc.6-8
88
governo di Parigi aveva dimostrato di non essere degno di fiducia: due o tre anni
prima gli aveva offerto la corona di Siria e lui aveva accettato, ma dopo che gli fu
detto di attendere qualche mese non se ne fece più nulla. Il discorso si spostò
quindi sulla Palestina232 e Alì espresse tutte le sue perplessità riguardo la politica
inglese, alludendo anche ad una fascistizzazione della gioventù islamica.
Il tentativo di blandire Tritonj appare evidente lungo tutto il colloquio e in special
modo quando questi viene informato che si progettava una rivolta in Siria, di cui
l'Italia avrebbe dovuto prendere la testa; ovviamente Tritonj ricorda che esistono
gli accordi relativi ai mandati, che non possono essere infranti. Ma a dettare
prudenza nell'atteggiamento del console a riposo era il fatto che Alì era reduce
da un viaggio in Francia e poteva essere intenzionato a riferire eventuali progetti
ostili dell'Italia. Qualche mese più tardi infatti lo stesso Tritonj pubblicò un articolo
su Oriente Moderno nel quale criticava l'operato francese in Siria e l'intenzione di
suddividere il territorio sotto mandato, oltre che in Siria e Libano, in Governo di
Laodicea, in quello del Gebel Druso e nel Sangiaccato di Alessandretta,
cristallizzando cinque entità statali diverse, che avrebbero dato all'attuale paese
un ritmo di vita diseguale, avviando ciascuna zona su un cammino proprio. Gli
elementi colti, affermava l'autore, e quelli che guidavano la massa si
mantenevano profondamente restii ad accogliere la divisione dell'unità. Inoltre
non si poneva un termine alla presenza francese, che si assicurava anche basi
232 ASMAE, A.P.1931-1945 Siria busta 7, Relazione riservatissima del console a riposo Romolo Tritonj sulle conversazioni
avute con l'ex re dell'Higiaz Alì ben Hussein (1-11-33)
Alì: Il mandato sulla Palestina è fondato su di un errore: il Focolare Nazionale Ebraico. La famiglia nostra è la più rispettata ed
onorata del mondo arabo perché è quella che ha fatto di più per la causa araba. È da noi che, durante la guerra, è partita
la rivolta araba contro i turchi; e fu mio padre, lo Sceriffo Hussein della Mecca, che si mise risolutamente alla testa di
questo movimento. Giovammo assai agli inglesi, i quali ci fecero allora grandi e solenni promesse, tra cui anche quella di
conglobare la Palestina nel Regno arabo, sotto il governo del mio genitore. Poscia, con l'istituto del Focolare, non l'hanno
mantenuta. Il mondo arabo non l'ignora e lo ritiene un torto. Come mai si potrebbero, d'altronde, ritenere irragionevoli le
richieste degli arabi palestinesi? Si tratta di un paese abitato da loro da moltissimi secoli, gli ebrei vi erano un'infima
minoranza di fronte a circa 800 mila arabi; si viveva colà in pace, la Gran Bretagna ha cominciato a riversarvi giudei, ed
ora, invece di frenarne l'arrivo, lo incita sempre più. Gli ebrei comprano continuamente terreni spossessandone gli arabi;
hanno costoro forse il torto di allarmarsene e di voler far cessare questa loro eliminazione? Il mandato imponeva di
avviare il popolo all'autodecisione, a governarsi da sé; gli inglesi non hanno mantenuto neanche quest'altra promessa.
Tritonj: Ma essi hanno largito il consiglio legislativo e gli arabi ne hanno boicottato sempre le elezioni.
Alì: Questo consiglio era una parvenza di autodecisione perché la massima parte dei suoi membri sarebbe stata formata da
funzionari governativi; gli israeliti vi avrebbero avuto una parte non eguale, ma superiore agli arabi: e notate che, se si
fosse lasciato realmente un ragionevole influsso agli arabi, come loro spetterebbe a cagione del numero, questi
avrebbero finito con l'accordarsi presto e bene con gli ebrei. Prima, sotto il regime turco, non vivevano forse migliaia di
giudei in Palestina, eppure erano sempre vissuti d'accordo con i musulmani?
Tritonj: In Europa si ritiene che, ritirati gli inglesi, gli arabi massacreranno gli ebrei.
Alì: Questa è una voce sparsa dagli inglesi per essere legittimati a rimanere. Sapete del resto che si sta già fascistizzando la
gioventù palestinese?
Tritonj: In quale senso intendete questo fascismo palestinese?
Alì: Si organizza la gioventù islamo-cristiana col metodo fascista italiano, ossia in senso nazionale. La nuova generazione
saprà farsi valere assai meglio della vecchia.
Tritonj: Secondo voi, quale sarebbe una soluzione giusta ed attuabile del problema palestinese?
Alì: O porla sotto l'emiro Abdalla, oppure fare di essa e della Transgiordania, due stati confederati, sotto un solo regnante.
Certo questo problema non si risolve con la guisa con cui credono di averlo sistemato gli inglesi: ormai gli avvenimenti
hanno provato troppo ripetutamente che nella loro organizzazione esiste un vizio essenziale; e finché questo non si
correggerà, mai vi sarà tranquillità e pace.
89
militari, aeree e navali in Siria. Tutto ciò era ritenuto estremamente preoccupante
per l'Italia, poiché queste basi avrebbero potuto essere utilizzate contro il paese.
233
Le idee espresse da Tritonj erano sostanzialmente quelle del governo
fascista, favorevole all'indipendenza della Siria ma assolutamente contrario ad
un trattato che assicurasse alla Francia una posizione di assoluto privilegio, al di
fuori di ogni controllo internazionale. Fin dal 1931 infatti la strategia italiana era
quella di sostenere l'unicità del mandato siriano, la cui cessazione avrebbe
dovuto dar luogo alla completa indipendenza della Siria e del Libano, come
entità amministrativamente autonome nel quadro di un unico stato. 234 Così,
quando l'anno successivo l'intenzione francese di abbandonare il mandato si
fece più concreta, Roma ribadì la posizione favorevole all'indipendenza siriana e
contraria alla divisione del suo territorio. La posizione italiana doveva essere
sostenuta in seno alla Società delle Nazioni ed accompagnata da una vasta
campagna di propaganda allo scopo di “far conoscere ai nazionalisti siriani che a
Ginevra una grande potenza, l'Italia, [aveva] in materia di cessazione del
mandato, una concezione e delle linee politiche analoghe a quelle che [erano] le
[loro] aspirazioni.”235
Quando però la politica seguita a Ginevra cominciò a dare i suoi frutti e i
nazionalisti si rivolsero al console generale a Beirut chiedendo aiuti concreti, il
ministero degli esteri consigliò moderazione e prudenza: si potevano stabilire
contatti e rapporti con i nazionalisti, ma non ricercarli, in modo da non dare
l'impressione che l'Italia volesse fomentare agitazioni contro una potenza
mandataria; inoltre non bisognava lasciare intendere ai siriani che le relazioni
precludessero ad impegni da parte di Roma. 236
Bisognava muoversi con prudenza e tramite iniziative indirette, che non
andassero a colpire frontalmente gli interessi di Francia o Inghilterra. In
quest'ottica nacque l'idea del primo Congresso degli studenti asiatici, un passo
per assumere, o meglio riassumere, il ruolo di intermediario tra Asia ed Europa,
storicamente appartenuto all'Italia fin dai tempi dell'impero romano e fortemente
rivendicato da Mussolini.
Lavorare su quella che sarebbe divenuta la classe dirigente dei paesi orientali
sembrava la scelta migliore per recuperare lo svantaggio che si era creato
233 "Oriente Moderno", 1934, pp. 257-264
234 M. Petricioli, L'Italia fascista e il nazionalismo siriano, cit., pp. 304-305
235 Relazione segreta di Buti per Mussolini, citata in M. Petricioli, cit., p. 305
236 Ibidem
90
rispetto alle potenze mandatarie, che avevano mezzi di diffusione della loro
cultura molto più avanzati di quelli italiani.
Nonostante il ritardo, anzi paradossalmente in virtù di esso, si poteva sfruttare il
malcontento che la politica di oppressione di Francia ed Inghilterra aveva
causato nei confronti di questi paesi e si doveva approfittare del fatto che l'unica
altra potenza che avrebbe potuto inserirsi in quel mondo, la Germania, pagava la
politica della razza, che le attirava forti antipatie. 237
Il discorso con cui Mussolini inaugurò il Congresso conferma la volontà di
riavvicinarsi all'oriente e la presa di distanza dal rapporto di subordinazione che
legava questo all'occidente. Era necessario tornare ad un rapporto di
collaborazione spirituale volto a sovvertire i valori degradati della civiltà basata
sul capitalismo:
Interessa quindi tutti i continenti la reazione contro la degenerazione liberale e capitalistica,
reazione che trova la propria espressione nella fede rivoluzionaria del fascismo italiano, che ha
lottato, che lotta, contro la mancanza di anima e di ideale di questa civiltà che, negli ultimi secoli,
ha avuto il sopravvento nel mondo.
Nei mali di cui si lagna l'Asia, nei suoi risentimenti, nelle sue reazioni, noi vediamo, dunque,
riflesso il nostro volto stesso. La differenza è di forma e di dettaglio; il fondamento è il
medesimo... Come già altre volte, in periodi di crisi mortali, la civiltà del mondo fu salvata dalla
collaborazione di Roma e dell'oriente, così oggi, nella crisi di tutto un sistema di istituzioni che
non hanno più anima e vivono come imbalsamate noi, italiani e fascisti di questo tempo, ci
auguriamo di riprendere la comune, millenaria tradizione della nostra collaborazione costruttiva.
238
Per la prima volta veniva espressa con forza e chiaramente la presunta identità
di ideali e di obiettivi tra fascismo ed oriente, seppur senza riferimenti al mondo
arabo in particolare. Il messaggio, dato il momento estremamente delicato per gli
equilibri mondiali, non avrebbe potuto essere più chiaro: Roma come guida del
risentimento orientale.
Il discorso ottenne riconoscimenti positivi in tutto il mondo islamico, criticato
soltanto dal giornale del Cairo al-Ahrām, peraltro più per motivi di forma che di
sostanza: il riferimento all'impero romano non era ritenuto appropriato, poiché
questo visse per secoli sulle spalle dei popoli sottomessi; se le intenzioni di
Mussolini
potevano
essere
nobili,
il
discorso
dell'espansionismo europeo degli ultimi secoli. 239
237 ASMAE, Busta 724 Fascicolo 1, Appunto di Aloisi per Mussolini (9-11-33), cc.9-14
238 Mussolini, Vol XXVI, Oriente e occidente, pp.127-128
239 Oriente Moderno, 1934, p.198
91
rimaneva
nel
solco
Di tutt'altro avviso invece il giornale al-Gāmi'ah al-Islāmiyyah di Giaffa, organo
del Comitato esecutivo del Congresso Generale Musulmano di Gerusalemme,
su cui come si ricorderà scriveva l'emiro Arslan, che lodava la politica orientale di
Mussolini, unico uomo occidentale ad aver compreso che l'epoca del
colonialismo era finita, che non mirava ad una espansione territoriale ma ad una
irradiazione economica e culturale, causando preoccupazione in Francia ed
Inghilterra.240Come progettato l'emiro sembrava acquisito alla causa italiana e la
questione libica scivolava sempre più in secondo piano.
Che la percezione del fascismo nel mondo arabo stesse cambiando è
confermato dalla conversazione che Iḥsān al-Jābirī, con cui abbiamo visto si
erano avviati contatti, ebbe con Porta, rappresentante della Regia Legazione a
Baghdad:241 la politica dell'Italia dimostrava che era giunto il momento di mettere
“una grossa pietra” sopra quanto si era detto e scritto della presenza in Libia.
Sempre più stretti intanto si erano fatti i rapporti con Hajjī Amīn al-Husaynī, Muftī
di Gerusalemme, in buoni rapporti con il console residente De Angelis. 242 Dalla
documentazione disponibile, ci sembra di poter dire che dall'inizio del '33 si
assiste alla svolta definitiva nella politica verso il Medio Oriente, in senso filoarabo. Certamente, come accennato in precedenza, non possiamo considerare
una semplice coincidenza che ciò avvenisse dopo la sostituzione di Grandi al
ministero degli esteri. Altrettanto evidente appare la volontà prettamente politica
e di interesse limitato alla sfera strategica che caratterizzava i rapporti con il
mondo arabo-islamico; a questo proposito un rapporto del Regio ministro a
Gedda, De Peppo, descrive bene quale fosse la concezione dell'Islam negli
ambienti governativi italiani:243
La forza dell'islam consiste essenzialmente in questo: primo, che è una religione esclusiva,
secondo, nelle sue promesse. L'Islam non è, e forse non sarà mai, una nazione nel senso
occidentale ed europeo della parola, né è un popolo come Israele; l'Islam è una religione ed una
religione esclusiva, nel senso che al dì fuori di essa non vi è né scienza né arte né diritto né
giustizia né politica, ma tutto è compreso in essa. Siffatta religione ha due potenti fattori a sua
disposizione, la cui inalterabilità sembra quasi sufficiente ad attribuir loro carattere divino, il
Corano e la lingua araba. Perciò le potenze occidentali devono essere guardinghe e circospette
nei loro rapporti con i musulmani; perché i giornali arabi sono letti in tutto l'Islam e quali che siano
le differenze di sette e le ostilità fra di loro, un atto compiuto verso o contro una parte ha
240 Ivi, pp.198-199
241 ASMAE, Arabia busta 14, Telespresso riservato “ Iḥsān al-Jābirī”, Baghdad 1 febbraio 1934
242 L. Rostagno, p.183
243 ASMAE, Arabia busta 13, Fascicolo Religione e Politica, Rapporto di De Peppo sul pellegrinaggio del '33
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immediata e profonda ripercussione in tutto il mondo musulmano. La seconda forza dell'Islam è
nelle sue promesse. Fin quando vi saranno uomini semplici e fin quando il ministero dell'oltre vita
preoccuperà l'umana filosofia, il Paradiso promesso da Maometto avrà una invincibile forza di
attrazione, superiore certamente a quella del paradiso cristiano. Troppo lungo sarebbe
analizzarne le ragioni. Mi limito ad accennare alla principale di esse. La religione cristiana mentre
impone ai praticanti una infinità di doveri la cui rigida osservanza implicherebbe una vita di
rinunzie, in pratica poi si concilia con le esigenze mondane e permette o tollera che i suoi
seguaci si costituiscano il paradiso in terra, prima ancora della loro morte. Il Corano non impone
nessuno speciale dovere al musulmano, tranne che le rituali e quotidiane preghiere, anzi è largo
nella sua concezione della vita e della famiglia, ma in compenso investe completamente lo spirito
e l'intelligenza dei popoli ed impedisce loro di alimentare altre rivendicazioni che non siano
ultramondane. E propagatosi nei deserti e nei climi tropicali promette datteri, acque correnti,
vergini bianche, frutta matura e godimenti corporali per l'eternità a chi ha saputo vivere secondo il
suo precetto. In altri termini: quello che per noi è il paradiso in terra, e perciò essenzialmente
caduco e perituro non solo ma anche estremamente pericoloso per il raggiungimento del
paradiso divino, per il musulmano è il compenso eterno raggiungibile con relativa facilità. Se tutti
fossimo toccati dalla “Grazia” nessuno esiterebbe fra la precarietà e l'eternità. L'Islam è dunque
un tutto compatto ed omogeneo malgrado le interne crepe e discordanze. Bisogna considerarlo
un blocco anche se si è in contatto con una sola delle sue parti ed in blocco bisogna ammetterlo.
Ciò è tanto vero che se un raggruppamento islamico tende a diventare nazione occidentale,
come la Turchia di oggi, perciò stesso si distacca dall'Islam. Nessun turco viene più al
pellegrinaggio della Mecca. Il mondo musulmano in genere sembra tuttavia da qualche tempo
agitarsi per un'idea che pur essendo nel fondo ancorata alla religione, in apparenza potrebbe
definirsi politica. Esso aspira in modo fino ad ora disordinato ed inorganico ma con un ritmo
crescente all'indipendenza. Incautamente favorito ai loro fini dalle potenze “colonizzatrici” o
“mandatarie” questo spirito nuovo affiora oggi da per tutto nelle comunità musulmane, dalle Indie
all'Arabia, alla Palestina, alla Siria. Basta enunciare questa verità per intravedere quali vaste
possibilità si offrano all'attività politica dell'Italia. Grazie al prestigio di un nome su cui si polarizza
l'attenzione mondiale, grazie alle realizzazione del Fascismo anch'esse oggi universalmente note
e riconosciute, grazie agli atteggiamenti assunti in tutti i convegni internazionali del dopo guerra,
l'Italia è forse la sola delle grandi potenze che non compromessa da secolari transazioni e da
sparsi interessi locali possa aspirare a cattivarsi le simpatie profonde dell'Islam, seguendo una
politica rettilinea di accorto incoraggiamento del nascente spirito di indipendenza, e di sostegno a
quei rari Principi e capi musulmani che sono o si dichiarano indipendenti. La fittizia agitazione
creata contro di noi per la nostra politica coloniale non può costituire un ostacolo. Essa era
artificiale e superficiale e si è spenta per mancanza di ossigeno e di convinzione.
Si evince la mancanza pressoché totale di interesse nel capire un mondo che
veniva percepito troppo lontano dai propri standard culturali e che non si riusciva
ad interpretare in altro modo da quello imposto dal pensiero europeo. Possiamo
anche rilevare i germi dell'influenza di alcuna pubblicistica contemporanea, cui
93
abbiamo fatto riferimento parlando dell'orientalismo italiano. Nel testo citato ciò
che colpisce, anche in virtù del fatto che ancora oggi è un argomento spesso
utilizzato per la descrizione dei musulmani, è lo scarso valore che questi
darebbero alla vita, allettati dalle promesse di un Paradiso che li libererebbe di
tutte le restrizioni imposte dalla loro religione. Al di là delle correnti culturali che
andavano sviluppandosi nel paese e che, pur con i loro limiti, tentavano un
approccio nuovo al mondo musulmano, ciò che era considerato importante era
cavalcare l'onda dell'indipendentismo per rafforzare la posizione politica italiana.
Cominciarono ad essere così erogati fondi ai nazionalisti arabi, 244 e nell'anno
successivo, grazie anche al netto miglioramento dei rapporti con il regno saudita,
245
indicato da molti come principale sostenitore della lotta per l'indipendenza
degli arabi, il rapporto di collaborazione con gli ambienti islamici si fece più forte.
A questo proposito una lettera di al-Jābirī ad Enderle del 8 maggio 1934, citata
da Lucia Rostagno, dimostra come si lavorasse in questo senso: il governo di
Roma avrebbe dovuto operare sul piano diplomatico per favorire l'indipendenza
dei paesi arabi e questi avrebbero organizzato dall'interno il movimento di lotta,
sfruttando anche i finanziamenti italiani. Ricordiamo che il 24 maggio 1934
avevano inizio le trasmissioni arabe di Radio Bari, coincidenza di certo non
casuale. Le porte del mondo arabo-musulmano erano ormai aperte e l'obiettivo
di conquistare le personalità ritenute più in vista poteva dirsi sostanzialmente
raggiunto: l'emiro Arslan, nel numero di settembre-ottobre della Nation Arabe,
dopo aver ricordato, a scanso di equivoci, le sue pesanti critiche alla politica
italiana in Libia, lodava il trattamento riservato ai musulmani di Eritrea: “i
musulmani hanno i propri tribunali sciaraitici, per le questioni religiose e gli affari
di statuto personale, sono ammessi alle cariche e alcuni occupano posizioni
elevate. Il governo cura l'istruzione, anche religiosa, dei musulmani, costruisce
moschee e da forti contributi alle iniziative private per la costruzione di altre. I
missionari cristiani non hanno il permesso di svolgere propaganda tra i
musulmani.” L'articolo si chiudeva con in confronto tra il trattamento liberale
usato dall'Italia verso i musulmani dell'Eritrea e l'oppressione subita dal popolo
algerino per mano della Francia.246 Evidente che il duplice incontro avvenuto con
Mussolini nel febbraio di quell'anno aveva sortito i propri frutti, visti anche i forti
244 Ivi, p. 186
245 Vedi capitolo 3
246 “Oriente Moderno” 1934, p. 519
94
incentivi economici promessi in cambio della collaborazione per le attività
politiche.
Il culmine di questo tipo di collaborazione si ebbe nel 1935: secondo informazioni
provenienti da Iḥsān al-Jābirī e Arslan, il muftī Hajjī Amīn al-Husaynī era al
lavoro per organizzare una rivolta che avrebbe visto coinvolte le tribù beduine e
gli abitanti delle città in Palestina. Per questo, si chiedeva un ulteriore sforzo in
termini economici e materiali all'Italia; da questo momento avvenne però un
cambio nella strategia italiana: i contatti con il muftī, che finora erano stati quasi
sempre presi per interposta persona, divennero diretti, forse a causa del
mancato recapito di diverse sovvenzioni, che si sospettava fossero state
trattenute da al-Jābirī.247
In ambiente italiano si riteneva che l'iniziativa della rivolta avrebbe potuto avere
successo, ma principalmente la si riteneva importante per la pressione che
avrebbe esercitato nei confronti degli inglesi, che avrebbero dovuto impegnarsi
sul fronte palestinese proprio nel momento in cui l'Italia si apprestava ad
attaccare l'Etiopia. Anche su altri fronti i contatti con le fazioni anti-inglesi si
facevano più intensi: il dottor Enderle aveva preso contatti con Gulam Siddiq
Khan, già ministro degli esteri afgano, adesso esiliato in Svizzera, il quale
durante una conversazione aveva sostenuto: 1. La propaganda del partito di
Gulam in Afghanistan era intensissima e si erano formate legioni della morte fra i
giovani afgani per combattere il governo; le tribù del sud erano in rivolta; 2.
Gulam era stato invitato più volte a recarsi a Londra dall'intelligence service
inglese, per prendere accordi circa la caduta della dinastia in carica e la
successione con lui o con re Amannullah o con una persona di famiglia. Gulam
affermava di aver rifiutato, non volendo asservire il paese all'Inghilterra e
contando sull'aiuto italiano; 3. proponeva di recarsi alla Mecca allo scopo di
prendere accordi con i capi rivoluzionari afgani e indiani con la scusa del
pellegrinaggio e di cogliere l'occasione per passare in Egitto con messaggi per i
nazionalisti locali da parte del governo italiano; 4.Dichiarava di voler servire
l'Italia contro l'Inghilterra e chiedeva di poter conferire una volta con il duce;
5.Chiedeva di essere fornito di veleno da portare con sé, per potersi sopprimere
qualora fosse stato fatto prigioniero.248
247 Ivi, p. 189
248 ASMAE, Gab. 1923-1943, busta 1058, “corrispondenza varia della sezione segreta del gabinetto” 31 ottobre 1935
95
L'emiro Arslan metteva invece in guardia il governo sul fatto che l'Inghilterra
avesse già preso accordi per la completa cessione della Palestina ai sionisti, e lo
invitava a stringere i rapporti con i sauditi e a rassicurare l'Imam Yaḥyà che
l'attacco all'Etiopia non significava che in futuro la stessa sorte sarebbe toccata
allo Yemen.249 Nel gennaio '36, quindi ad invasione italiana già in corso,
Mussolini approvò250 la richiesta del muftī di 100.000 sterline, 10.000 fucili con
munizioni e 6 mitragliatrici antiaeree, purché l'aiuto italiano non lasciasse traccia.
In realtà ancora nel luglio successivo soltanto 12.000 sterline erano state versate
nelle casse del Hajjī Amīn al-Husaynī. 251 Mentre si stringevano i rapporti con gli
arabi
palestinesi,
l'intesa
Mussolini-Laval
del
gennaio
1935,
pur
non
menzionando esplicitamente la Siria, convinse i nazionalisti di quel paese che
l'Italia avrebbe ammorbidito le proprie posizioni nei confronti della Francia. Il
console a Beirut segnalava che il clima di sfiducia era ben rappresentato dal
fatto che mentre prima il consolato “era meta abituale di tutti gli oppositori del
mandato, oggi non viene quasi più nessuno.”252
Quello che veramente contava per il governo italiano era essere riusciti ad
ottenere un contegno di stretta neutralità e una grave minaccia per gli interessi
inglesi da parte della maggior parte dei popoli arabi durante la spedizione
abissina. Le tensioni e la successiva invasione dell'Etiopia peraltro non erano
state mai oggetto di molta ostilità da parte del mondo musulmano, che si era
limitato a muovere delle critiche senza mai affondare colpi come quelli a
proposito della riconquista della Libia. Probabilmente a favore italiano giocarono
le buone relazioni con gli esponenti arabi, il fatto che l'Etiopia fosse un paese a
prevalenza cristiana e, ancora, la situazione Palestinese. Il primo a parlare delle
tensioni italo-etiopiche fu l'emiro Arslan, con una serie di articoli in cui difendeva
l'operato italiano: “quanto all'ostilità che alcuni ambienti musulmani dimostrano
all'Italia in questa occasione, è da osservare che in questi ultimi anni la condotta
dell'Italia verso i paesi arabi e musulmani è notevolmente migliorata, mentre
l'Abissinia, che possiede oltre cinque o sei milioni di sudditi musulmani, li
opprime e misconosce i loro diritti; sicché le simpatie dei musulmani dovrebbero
andare piuttosto all'Italia che all'Abissinia.” 253 L'articolo proseguiva con un
249 Ivi, Relazione del dottor Enderle riguardo un suo incontro con l'emiro Arslan a Ginevra, 2 novembre 1935
250 L. Rostagno, Cit., p. 190
251 R. De Felice, Arabi e Medio Oriente nella strategia politica di guerra di Mussolini (1940-1943), in “Storia Contemporanea”
XVII n.6 dicembre 1986, p. 1270
252 M. Petricioli, L'Italia fascista e il nazionalismo siriano, cit., p. 308
253 “Oriente Moderno”, 1935, p. 195
96
immancabile riferimento alla Libia, esposto peraltro in maniera da far sorgere, ad
una attenta lettura, qualche dubbio sulla sua attendibilità: “un autorevole
personaggio musulmano ci comunica di aver ricevuto una lettera da un altro
musulmano che vive in Egitto, il quale, assieme ad altri personaggi, ha condotto
un'inchiesta sulle condizioni della Tripolitania. Egli dice che in verità l'Italia,
specialmente in questi ultimi tempi, ha inaugurato una politica tendente a dar
soddisfazione agli arabi ed ai musulmani. Occorre che gli arabi e i musulmani
facciano buona accoglienza a queste nuove e soddisfacenti direttive dell'Italia.”
254
Il fatto che la notizia provenisse “dall'amico di un amico”, tutti anonimi, ci
sembra inficiarne la veridicità, ma indubbiamente il suo impatto non poteva che
essere positivo per l'Italia. In un articolo di qualche giorno successivo l'emiro
attaccava i giornali arabi che si schieravano a favore dell'Abissinia, dimenticando
il trattamento iniquo riservato ai loro correligionari. Per non sbilanciarsi troppo
aggiungeva: “non vogliamo con questo approvare la conquista italiana
dell'Abissinia; figli di un popolo oppresso, siamo sempre sostenitori della libertà e
dell'indipendenza altrui. Ma di fronte alla condotta del Governo abissino verso
musulmani che sono della stessa razza ed hanno la stessa patria, troviamo che
non è bene amare chi non ci ama e rispettare chi ci disprezza. In secondo luogo,
mi sembra che l'esistenza politica degli Arabi siriani e palestinesi sia minacciata
ben più gravemente di quella dell'Abissinia. Le potenze europee sentono
simpatia per l'Abissinia, in quanto paese cristiano e debole di fronte all'Italia; […]
Noi arabi siamo invece oppressi dall'Inghilterra e dalla Francia in Palestina e
Siria, la nostra esistenza politica è in pericolo, e l'Italia tiene a nostro riguardo
una condotta favorevole. Vogliamo rendercela nemica, per avere contrarie tre
potenze anziché due? Consigliamo ai nostri connazionali e correligionari di
essere neutrali nella questione italo-abissina, e di non dimenticare la potenza
dell'Italia. […] Questa non è propaganda italofila, come qualcuno potrebbe
obiettare; è propaganda dei nostri interessi.” 255
In poche righe l'emiro toccava tutti gli argomenti che potevano essere presentati
a difesa dell'Italia e non dimenticava di dirsi difensore della libertà di tutti i popoli.
Rispetto alle notizie di terza mano riportate nel primo articolo, il livello del
discorso si faceva più politico: le presunte minacce italiane all'Etiopia non
254 Ivi, p. 196
255 Ibidem
97
potevano essere la priorità per chi, in Palestina e Siria affrontava problematiche
concrete e, di conseguenza, bisognava fare in modo di non perdere l'appoggio
dell'unica nazione che dimostrava interesse per la causa araba. Il lettore si
sarebbe potuto chiedere cosa avrebbe impedito all'Italia di aggredire un paese
musulmano e se i presunti miglioramenti delle condizioni di vita del popolo libico
potevano rappresentare una garanzia sufficiente a questo proposito. Le lacune
del discorso di Arslan erano evidenti, ma la sua difesa era quanto di meglio ci si
potesse attendere.
Nell'ultimo articolo di questa serie, datato 4 aprile, l'emiro riprendeva il discorso
da dove aveva lasciato: la possibilità che le sue parole potessero essere
accusate di propaganda italofila. L'accusa era infatti puntualmente arrivata e la
sua reazione fu di ricordare le aspre critiche mosse all'Italia riguardo la Libia
mentre molti dei suoi attuali denigratori non avevano mosso un dito. Aggiungeva
di aver sempre cercato un accordo con l'Inghilterra e la Francia, e ancora nutriva
speranze, ma nel frattempo era lieto che i popoli arabi potessero contare sulla
potente amicizia italiana e li invitava a non darsi troppe pene per la sorte
dell'Etiopia, già sufficientemente provvista di protettori. 256
Le critiche continuarono però ad arrivare: ci si chiedeva se la propaganda
dell'emiro e di Iḥsān al-Jābirī a favore dell'Italia fosse dovuta al fatto che
avevano ormai perso la speranza di liberare la Siria e la Palestina oppure se vi
fossero già riusciti all'insaputa di tutti. Il Filasṭīn in un articolo dall'eloquente titolo
“Un gruppo prezzolato fa propaganda per l'Italia” segnalava un discorso
trasmesso da Radio Bari il 13 aprile nel quale si lodava l'opera disinteressata di
Arlsan nei confronti dell'Italia e sosteneva invece che gli interventi di questo
erano avvenuti sotto la regia del console italiano a Gerusalemme. Dello stesso
tono erano i rilievi fatti a proposito dell'operato di Iḥsān al-Jābirī. L'articolo
concludeva: “esiste dunque un accordo fra questi capi arabi e l'Italia, per la
diffusione della propaganda italofila in Oriente. Essi sono convinti che l'Italia è
una potenza capace di aiutare gli Arabi e rivendicare i loro diritti conculcati. […]
L'Italia invece è uno dei paesi più imperialisti del mondo. Tutti sanno del resto
che l'Italia ha delle ambizioni sulla Palestina, e si adopera a ottenere per sé il
mandato palestinese.”257 La polemica andò avanti molto a lungo, con le rispettive
256 Ivi, pp. 197-198
257 Ivi., pp. 198-199
98
fazioni che giocavano sempre sugli stessi argomenti. Una mossa che scatenò
ulteriori polemiche fu la pubblicazione da parte del Filasṭīn e del al-Gāmi'ah alIslāmiyyah di una presunta lettera dell'emiro Arslan al Muftī di Gerusalemme
Hajjī Amīn al-Husaynī, nella quale dopo un duro attaccato gli inglesi, si poteva
leggere: “è stato concluso l'accordo per dar principio alla propaganda a favore
dell'Italia nei paesi arabi quanto più presto sarà possibile, poiché colui
(Mussolini) dice di temere una guerra mondiale e, se le cose non sono pronte fin
d'ora, i vantaggi che ci proponiamo andranno perduti. Io ho già compiuto qualche
azione preliminare […] e ritengo che dobbiamo cogliere l'occasione del dissidio
fra l'Abissinia e loro, ed esporre i torti degli abissini contro i musulmani. Forse
l'ufficio propaganda di Roma manderà ai nostri giornali alcune notizie da
pubblicare.”258 La prova tangibile dell'accordo dell'emiro con gli italiani diede da
scrivere ancora per qualche mese, con dei botta e risposta in cui l'emiro
presentava sempre più insistentemente Mussolini come l'unico interlocutore della
causa araba. Anche il trattamento dei musulmani in Etiopia conquistò centralità
nelle polemiche: in giugno l'al-Arhām del Cairo pubblicava delle lettere di
musulmani etiopici residenti in Egitto che smentivano le presunte discriminazioni
riportate da Arslan e riportavano la costruzione di nuove moschee e la costante
attenzione prestata dall'imperatore Ḫāila Sellāsē al loro culto. 259 Altri articoli che
rivalutavano il ruolo dei musulmani nella società abissina vennero pubblicati per
tutta l'estate. Intanto in Egitto si infiammava il dibattito sulla posizione che si
sarebbe dovuto assumere in caso di conflitto italo-etiopico; il capo del governo
Nasīm Pascià affermava che non si era ancora giunti ad una decisione, ma che
questa non avrebbe potuto essere differente da quella del governo inglese. L'alArhām attaccava il capo del governo, chiedendosi se l'Egitto, dopo gli accordi
con gli inglesi, era davvero indipendente. 260 Ad avere le idee più chiare era 'Abd
er-Rahmān 'Azzām, ex deputato wafdista e autore dell'invettiva contro la politica
italiana in Libia durante il congresso musulmano del 1931, il quale esprimeva
simpatia per l'Etiopia, in nome di una amicizia che risaliva ai primi tempi della
diffusione dell'Islam e in virtù del fatto che bisognava condannare senza remore
l'imperialismo dell'Italia.261 In Egitto si rimase contrari alla guerra, si crearono
comitati a favore dell'Etiopia e ci furono offerte di volontari nel caso di conflitto.
258 Ibidem
259 Ivi., p. 351
260 Ivi., pp. 406-407
261 Ibidem
99
L'emiro Arslan, percepita questa ostilità nei confronti dell'Italia, pubblicò un lungo
articolo sul giornale Kawkab ash-Sharq del Cairo, in cui dichiarava di non poter
accettare la perdita dell'indipendenza etiopica, sia che avvenisse per mano
dell'Inghilterra che per mano dell'Italia. Sapeva che il governo di Sua Maestà
difendeva il paese africano, ma lo faceva soltanto per timore di perdere il proprio
impero. Ma non poteva nemmeno accettare che l'Etiopia divenisse una colonia
italiana: lui e la delegazione siro-palestinese avevano scelto come sede Ginevra
proprio per poter, in occasioni del genere, ricorrere alla Società delle Nazioni per
difendere i popoli orientali di fronte a quelli occidentali, pur consci della
debolezza della società stessa. Proponeva poi una soluzione per distogliere
l'attenzione italiana dall'Abissinia: lo sgombero dell'Egitto da parte degli inglesi,
la dichiarazione di indipendenza di Palestina e Transgiordania, la restituzione di
el 'Aquabah al regno saudita e degli emirati del Golfo Persico allo Yemen.
Soltanto così, da uomini liberi, gli arabi avrebbero potuto efficacemente opporsi
alle azioni italiane, perché uomini non liberi non possono pretendere di
difenderne altri. Nell'elenco dei vari punti uno era dedicato direttamente ai
musulmani e rinnovava la domanda già posta nei suoi precedenti articoli: se
l'Abissinia fosse stato un paese musulmano, si sarebbe forse preoccupato
qualcuno per l'aggressione dell'Italia contro di essa? La risposta era no,
argomentata da un breve riassunto delle aggressioni subite dai paesi musulmani
senza che si elevassero proteste di alcun genere. Ma la preoccupazione
maggiore espressa dall'emiro era questa: i suoi correligionari sembravano
essere ormai assuefatti da questa situazione e nella condanna nei confronti
dell'atteggiamento italiano si schieravano al fianco di quelle stesse potenze che
da secoli li opprimevano. L'invito finale era a ravvedersi e a chiedere con forza
per sé stessi quello che si chiedeva per l'Abissinia.262
Da parte italiana intanto si diffondevano le notizie delle attività che ci riproponeva
di svolgere in Libia a favore dei musulmani: restauro e costruzione di nuove
moschee e restituzione dei beni Awqāf all'amministrazione diretta dei cittadini
libici. Veniva inoltre fondata una rivista araba mensile, “La Libia illustrata”, “segno
manifesto dell'orientamento governativo favorevole agli indigeni libici”. 263 Infine si
convocò una riunione di 'ulamā' per eliminare cattive usanze dei musulmani
262 Ivi., pp. 441-444
263 Ivi., pp. 562-563
100
locali, in difesa del corretto svolgimento della vita religiosa.
Anche dopo l'aggressione italiana all'Etiopia, il tono delle polemiche non salì mai
di tono, almeno stando alla rassegna stampa di Oriente Moderno. La
concomitante fase di esplosione del conflitto arabo-palestinese distrasse senza
dubbio l'opinione musulmana, ed evidentemente buon gioco aveva avuto, alla
lunga, la battaglia propagandistica condotta soprattutto tramite l'emiro Arslan. Da
non sottovalutare, e anzi forse da considerare come elemento principale,
l'influsso benefico che dovette emanare dalla neutralità di Ibn Sa'ūd, ormai
assurto a paladino della lotta araba e strenuo difensore della causa musulmana
in Palestina. Il suo mancato coinvolgimento nelle polemiche e la dimostrazione di
fiducia nell'Italia dovettero giocare un ruolo molto importante per il prestigio
italiano in Medio Oriente. D'altro canto però, all'inizio del 1936 si concludevano i
rapporti con i nazionalisti siriani: quando in gennaio la protesta esplose in tutta la
Siria, il governo italiano non si mostrò disposto a sostenerla fino in fondo. In una
circolare ai consoli Mussolini osservava che il momento era “particolarmente
male scelto [per] giungere agli estremi di più vaste ribellioni a mano armata”,
poiché mentre la Francia era già organizzata per soffocare nel sangue la
ribellione, i nazionalisti non erano sufficientemente organizzati; il duce proponeva
di agire presso la Commissione dei Mandati per aiutare i siriani a raggiungere
“quell'effettiva sovranità e indipendenza che il Patto stabilisce come termine e
scopo del regime mandatario.”264 A questo punto i nazionalisti decisero di tentare
la via del trattato con la Francia rinunciando a presentare l'Italia come mezzo di
pressione.
A guerra di Etiopia terminata, il primo passo italiano fu quello di valorizzare
l'elemento musulmano nella regione appena conquistata: nel Harrar venne
ripristinato l'arabo come lingua ufficiale, in luogo dell'aramaico imposto dalla
precedente
amministrazione.
Inoltre
nella
legge
per
l'ordinamento
e
l'amministrazione dell'Africa Orientale Italiana emanata il 1 giugno si poteva
leggere: “ai musulmani è data piena facoltà in tutto il territorio dell'Impero di
ripristinare i loro luoghi di culto, le loro antiche istituzioni pie, le loro scuole
religiose. Le controversie tra sudditi musulmani saranno giudicate dai Cadi
secondo la legge islamica e le consuetudini locali delle popolazioni musulmane.
È obbligatorio in tutti i territori musulmani dell'Impero l'insegnamento della lingua
264 M. Petricioli, L'Italia fascista e il nazionalismo siriano, cit., p. 309
101
araba nelle scuole per i sudditi.”265
Si tornava a concentrare l'attenzione sull'azione da intraprendere nel mondo
arabo, visto che attraverso di essa si poteva continuare a fare pressioni su
Francia ed Inghilterra e contemporaneamente affermare l'influenza morale,
culturale e commerciale italiana.266 Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire attraverso i
soliti mezzi di propaganda (radio e giornali), con borse di studio elargite agli
intellettuali orientali, che si riteneva avrebbero influito sempre di più sulla
popolazione, e tramite l'organizzazione di crociere italiane in quei paesi e l'invio
di missioni scientifiche. Non si dovevano poi interrompere i contatti con le
personalità del mondo arabo, il tutto però senza assumere impegni troppo rigidi,
agendo con la massima cautela e riservatezza, in modo da far rispondere le
relazioni ad ampi “criteri di elasticità”. Bisognava inoltre valorizzare quanto si era
fatto e si sarebbe fatto in Libia.
Nelle direttive del 5 agosto 1936 del ministero delle colonie, Lessona 267 invitava il
viceré Graziani268 a perseverare nella politica di largo favore verso le istituzioni e
le popolazioni musulmane. Ma si aggiungeva anche che questa politica non
doveva mai giungere a consentire “sopraffazioni” sul cristianesimo.
Graziani il 9 agosto 1936 così enumerava i principi fondamentali della politica
governativa verso i sudditi musulmani: 1)rispetto dell'Islam e sua magnificazione
nelle moschee e nelle scuole; 2) protezione, a norma di legge, di tutti i
musulmani indistintamente; 3) rispetto delle tradizioni e consuetudini che
formavano lo statuto familiare dei fedeli dell'Islam; 4) rispetto delle donne; 5)
rispetto della proprietà privata; 6) creazione nello Harrar di un grande centro di
cultura musulmana; 7) largo impiego tecnico, artigianale e commerciale di
personale musulmano per il potenziamento e la valorizzazione del paese.269
Effettivamente iniziative volte a costruire moschee, scuole ed infrastrutture
furono progettate e portate a termine. Nel 1937 Mussolini riceveva la “Spada
dell'Islam”. Le ragioni del viaggio di Mussolini in Libia, dal 12 al 21 marzo 1937,
erano dettate da considerazioni di politica internazionale: Il protettore dell'Islam
portava l'annuncio di un nuovo periodo di cooperazione con il quale, per usare le
parole di Balbo, cessate le distinzioni tra dominatori e dominati, italiani cattolici e
265 “Oriente Moderno” 1936, pp. 361-362
266 R. De Felice, Arabi e Medio Oriente, cit., p. 1272 ,Relazione di massima sulla situazione orientale, 15 luglio 1936
267 Divenuto ministro delle colonie l'11 giugno 1936
268 Fu governatore generale dell'Africa Orientale Italiana con il titolo di Vice Re dal 11 giugno 1936 al 21 dicembre 1937
269 C. Marongiu Bonaiuti, Politica e religioni nel colonialismo italiano, Giuffrè, Varese 1982
102
italiani musulmani, uniti, avrebbero edificato un grande potente organismo,
l'impero fascista. 270
Durante la permanenza in Libia, il duce inaugurò la litoranea che da Amseat, al
confine con l'Egitto, percorreva la costa libico fino al confine con la Tunisia. In
questa occasione, rivolgendosi ai giornalisti egiziani presenti, disse che la strada
era il primo passo per rinnovare le relazioni commerciali e turistiche tra il loro
paese e l'Italia, un nuovo vincolo in nome degli antichi rapporti che
intercorrevano tra i due paesi.271 Il 18 marzo riceveva poi la “spada dell'Islam”;
nel discorso che tenne ringraziò i “musulmani di Tripoli” per il grande contributo
dato in occasione della guerra d'Etiopia e aggiunse: “dopo queste prove, l'Italia
fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell'Etiopia
la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta e vuole inoltre
dimostrare la sua simpatia all'Islam e ai musulmani del mondo intero.” 272
Considerato il momento storico delle relazioni italo-inglesi, l'episodio della “spada
dell'Islam” suonava come un avvertimento minaccioso al governo di Sua Maestà
e contemporaneamente doveva servire ad attrarre le simpatie del mondo
islamico, per convincerlo della sincerità delle intenzioni italiane.
L'al-Ahrām commentava così: “è passato il tempo in cui i musulmani
consideravano come indizio di amicizia o simpatia verso l'Islam la costruzione di
una moschea o la visita alla tomba di un santo. […] L'amicizia verso gli arabi e
verso l'Islam deve palesarsi con altre dimostrazioni. I sistemi come quelli usati
dall'Italia in Libia e in altri paesi arabi possono ottenere l'effetto opposto a quello
desiderato. Gli arabi, se anche chiedono l'amicizia dell'Italia, non hanno mai
domandato la sua protezione”.273 Il Filasṭīn riportava commenti che, pur non
essendo ostili, ritenevano l'affermazione di Mussolini rivolta più all'Inghilterra che
al mondo musulmano e faceva notare che le tensioni tra i due paesi avrebbero
potuto essere sfruttate dagli arabi a proprio favore. 274 Di carattere più tecnico era
il commento del rettore dell'università di el-Azhar del Cairo: “il solo uomo che
possa dichiararsi protettore dell'Islam è colui che è musulmano, crede nella
missione dell'Islam e opera con tutte le sue facoltà alla diffusione degli
insegnamenti di questa religione. Chiunque ritenga di essere protettore dell'Islam
270 Ibidem
271 Mussolini, Vol. XXVIII, p. 140
272 Ivi, p.143
273 “Oriente Moderno”, 1937, p. 170
274 Ibidem
103
senza avere queste doti, non può essere riconosciuto come tale dai musulmani,
anche se sia musulmano. I musulmani non possono accettare come protettore
un non musulmano, qualunque sia il paese cui appartengano. L'unico uomo il
quale abbia diritto di chiamarsi protettore dell'Islam è il sostenitore dei sovrani
musulmani; difensori dell'Islam sono i sovrani degli stati musulmani e i capi
musulmani e i capi musulmani oltre a quelli. Da queste parole risulta chiaro che
ai musulmani nel momento attuale non può neppure venire in mente l'idea
dell'esistenza di un difensore dell'Islam. Il solo pensiero che possa loro venire in
mente e quello ch'essi cercano, è di trovare libertà e buon trattamento dagli stati
europei che li governano o l'allentarsi parziale dell'autorità di questi stati sui
paesi islamici.”275
Anche da Siria e Iraq le autorità religiose facevano notare che nessuno che non
fosse musulmano poteva assumere il ruolo di protettore dell'Islam. 276 Le reazioni
del mondo islamico ci sembrano evidenziare l'aspetto ingenuo e la mancanza di
conoscenza della religione musulmana: chiunque avesse organizzato la
cerimonia della consegna della spada non aveva tenuto in debito conto che la
proclamazione di un non musulmano a protettore dell'Islam non avrebbe potuto
ottenere alcun consenso. C'era poi un elemento più concreto per cui la
proclamazione del duce a protettore dell'Islam era inconsistente: su una
popolazione mondiale di circa trecento milioni di musulmani, soltanto otto o nove
abitavano le colonie italiane. Il discorso di Mussolini non faceva però menzione
del suo nuovo ruolo, ma si limitava ad una dichiarazione di amicizia che voleva
soltanto dimostrare che la popolazione libica non avrebbe avuto nulla da temere
dal regime fascista. Probabilmente, oltre alla pressione che il duce intendeva
mettere sulla Gran Bretagna, non era aliena dall'intera manifestazione la retorica
imperiale che aveva contribuito all'aggressione all'Etiopia.
Certamente anti-inglese era la decisione di sovvenzionare, tra la fine del '36 e
l'inizio del '37, il muftī di Gerusalemme con armi e denaro, anche se sempre in
quantità inferiori rispetto a quelle richieste; Hajjī Amīn al-Husaynī rimase
evidentemente deluso dalla ritrosia italiana (che oltre a ragioni di prudenza
doveva a nostro avviso essere dettata da reali difficoltà economiche) ma non per
questo rinunciò a ritenere l'opzione italiana come la più vantaggiosa.
275 Ivi, pp. 171-172
276 Ivi, pp. 218-219
104
La situazione internazionale giocava però a sfavore dei rapporti tra il muftī e
l'Italia: era incominciato il processo di riavvicinamento con l'Inghilterra, che
avrebbe portato alla firma degli accordi di Pasqua del '38, per cui il governo di
Roma pensò di interrompere ogni aiuto e sovvenzione agli arabi in rivolta in
Palestina, garantendo comunque un appoggio “morale ed indiretto, assai più
vantaggioso di quello materiale”. 277L'Italia assicurava inoltre che il governo di
Sua Maestà aveva ormai abbandonato la politica filo-sionista seguita fino a quel
momento, per cui gli arabi avrebbero fatto bene a cercare una qualche intesa
con il governo britannico.
Era questa la dimostrazione più evidente di quanto fosse strumentale la politica
italiana in Medio Oriente: adesso che la pressione esercitata sugli inglesi
portava, certo non da sola, ad un riavvicinamento, si pensava bene di diminuire
nettamente i rapporti con i nazionalisti arabi.
Eppure, nonostante lo smacco subito, da parte araba non ci si era dati per vinti e
più volte si tornò alla carica per riallacciare le relazioni ed ottenere nuovi
finanziamenti. Ma un riavvicinamento tra le due parti fu possibile soltanto dopo
l'ingresso dell'Italia in guerra, e almeno inizialmente fu subordinato all'azione
italiana in Egitto, dove si riteneva che l'ostilità verso gli inglesi fosse molto viva,
ed in Iraq, che si pensava di utilizzare come un punto fermo per bloccare
eventuali manovre tedesche di penetrazione in oriente. 278
In Egitto un primo tentativo di sviluppare una influenza positiva si era già avuto
poco dopo la proclamazione dell'impero, tanto che il 22 giugno 1936 el Nahas,
leader del partito Wafd e capo del governo pronunciava in parlamento queste
parole:279 “risulta al ministero degli Interni che l'Associazione del Giovane
Egitto280 agisce per conto di una potenza straniera contro gli interessi del paese.
277 R. De Felice, Arabi e Medio Oriente, cit., p. 1274
278 Ivi, pp. 1280-1281
279 "Oriente Moderno", 1936, pp. 419-420
280 L'associazione del Giovane Egitto nacque nell'ottobre 1933 per iniziativa di due giovani studenti di legge, Ahmad Hussein
e Fathi Radwan, nella sede del “programma delle piastre”, una iniziativa diretta dallo stesso Hussein che organizzò con
qualche successo la raccolta di fondi per la creazione di una industria egiziana. Il programma allora adottato rimase
sostanzialmente lo stesso fino al 1940, quando il gruppo, dal 1936 trasformato in partito, accentuò la sua
caratterizzazione politico-religiosa assumendo il nome di “Partito nazionalista islamico”: lotta all'influenza straniera, sia
diretta che indiretta; esaltazione dello spirito egiziano ed arabo-islamico con la visione di un “impero” che comprendesse
l'Egitto e il Sudan e che si cristallizzava nello slogan “l'Egitto sopra a tutto”; fedeltà al palazzo reale.
Si trattava di un movimento di giovani diretto da giovani (i due fondatori avevano nel '33 soltanto 22 anni) con struttura
paramilitare: squadre di combattenti organizzate in vari livelli di comando, una divisa uguale per tutti (da qui la definizione
di “camicie verdi”) ed il saluto con il braccio destro disteso verso l'alto. Nonostante il numero piuttosto basso degli iscritti,
poche centinaia nel triennio 1933-1936, l'influenza del movimento non era da sottovalutare, soprattutto grazie alle
campagne giornalistiche che venivano lanciate. Fino al 1935 l'associazione non ebbe a scontrarsi con particolari attività di
repressione; nell'anno in questione, a novembre, scoppiarono gravi disordini che vedevano giovani e studenti in prima fila
per la risoluzione dei problemi che l'indipendenza unilateralmente accordata dalla Gran Bretagna all'Egitto nel 1922
aveva causato. Gli scontri portarono alle dimissioni del governo in carica, ritenuto troppo ossequiante nei confronti di
Londra e la formazione di un governo provvisorio che portò il paese alle elezioni del maggio 1936, dove il Wafd guidato
105
Perciò il Ministero ha deciso di vietare ai membri di quella associazione di girare
nei villaggi con uniforme speciale.”
Anche se l'Italia non veniva esplicitamente menzionata, era evidente il
riferimento a Roma, visti i timori che la guerra italo-etiopica avevano causato in
Egitto e a Londra. La stampa interpretò in questo senso le dichiarazioni di
Nahas.281
L'intervento in parlamento del capo del governo scatenò violenti scontri tra le
“Camicie Verdi” ed un'altra organizzazione giovanile paramilitare, le “Camicie
Azzurre”, che uniti alla pesante repressione governativa portarono per alcuni
mesi all'eclissi politica del Giovane Egitto. 282 Le dichiarazioni di Nahas avevano
colto di sorpresa le stesse autorità britanniche, anche se da tempo lo
spauracchio delle attività sovversive italiane in Egitto si era diffuso a Londra: già
dall'ottobre 1935 l'alto commissario britannico in Egitto, Sir Lampson, si era
lamentato apertamente con il ministro italiano al Cairo, Ghigi, della “attiva
campagna” che l'Italia svolgeva in funzione ostile alla Gran Bretagna. Le accuse,
prontamente smentite, sembra fossero mosse più sulla base di sospetti che di
prove concrete, tanto che qualche mese dopo lo stesso Lampson dovette
ammettere con Ghigi la correttezza assoluta della legazione italiana, anche se i
corrispondenti inglesi ed alcune esponenti delle autorità continuavano a nutrire
seri dubbi sulla condotta italiana.283
Il rapporto tra il governo di Roma ed il Giovane Egitto, in realtà, era improntato
sulle richieste dell'associazione di sostegno e collaborazione, lasciate cadere nel
vuoto per la xenofobia e l'estremismo dimostrato ma, soprattutto, non turbare i
rapporti con la Gran Bretagna. 284 Si ripeteva, in sostanza, uno schema che
abbiamo avuto già modo di vedere e che si ripeterà fino all'inizio del conflitto
mondiale.
Per inquadrare bene l'atteggiamento italiano basta ricordare la visita di Ahmad
Hussein in Italia, avvenuta tra luglio e agosto 1938: ospite del governo italiano,
fu affiancato per tutta la durata del viaggio da un funzionario del ministero della
cultura popolare, Selim Cattam, ma non fu mai ricevuto da nessun esponente di
da Nahas ottenne la maggioranza. Le trattative con la Gran Bretagna portarono alla firma di un trattato di alleanza che,
sulla carta, riconosceva pienamente l'indipendenza egiziana.
M. Tedeschini Lalli, La politica italiana in Egitto negli anni Trenta, in “Storia Contemporanea” anno XVII, n. VI, 1986, pp.
1178-1180
281 Ibidem
282 J.P. Jankowski, The Egyptian Blue Shirts and the egyptian Wafd, in “Middle Eastern Studies” 1970, pp. 77-95
283 M. Tedeschini Lalli, Cit., p. 1182
284 Ivi, p. 1184
106
governo, nonostante si fosse dichiarato ammiratore del fascismo, avesse definito
Mussolini “il maestro di tutta un'epoca” e ritenesse naturale e logica una intesa
con l'Italia a scapito di quella con gli inglesi.285
Gli argomenti del fondatore del Giovane Egitto erano sostanzialmente quelli
propugnati dal fascismo, eppure si preferì evitare contatti ufficiali: probabilmente
alle vecchie perplessità si aggiungeva la prudenza dettata dagli accordi di
Pasqua, sottoscritti soltanto tre mesi prima. Più in generale l'intento italiano era
quello di non intrattenere rapporti alla luce del sole con tutti quei personaggi che
potevano essere invisi alla Gran Bretagna. Nonostante la freddezza con cui
venne accolto, Ahmed al momento della partenza inviò un telegramma di
ringraziamento a Mussolini, in cui sosteneva che Italia e Germania erano le
uniche vere democrazie europee.286 Alla fine di agosto tenne un comizio ad
Alessandria in cui rinnovò gli elogi per i due paesi europei.
Con il partito di maggioranza, il Wafd, i rapporti furono invece sostanzialmente
nulli, poiché ritenuto troppo distante dal fascismo e paragonato ai partiti
socialdemocratici o radical-socialisti. In più, Nahas conduceva una politica ostile
al re, che da sempre rappresentava per l'Italia il contatto privilegiato: il sovrano
egiziano Fuad, esiliato insieme al padre, aveva trascorso gran parte della sua
gioventù in Italia, dove si legò personalmente all'allora principe ereditario Vittorio
Emanuele; tornato in Egitto e divenuto re, visitò l'Italia nel 1929, ricambiato dal
viaggio dei reali italiani al Cairo nel 1933.
Per questo, quando nel '37 il partito di maggioranza egiziano subì una grave
scissione, da parte italiana si provvide a prendere immediati contatti con
l'opposizione, in particolare con 'Alì Maher, uomo vicino al palazzo reale. Questi
presentò a Ghigi il generale 'Aziz 'Alì al Masri, che aveva combattuto contro gli
italiani in Libia durante la guerra del 1911 ed aveva successivamente diretto la
scuola di polizia in Egitto.287 Ormai senza incarichi, poiché era nota la sua
avversione al partito Wafd e la sua posizione contraria all'influenza britannica,
egli chiese apertamente l'appoggio italiano per la costituzione di una
organizzazione politica che puntasse alla limitazione ed all'esclusione della
presenza inglese. A differenza delle precedenti richieste di collaborazione
avanzate dal Giovane Egitto, questa sembrò interessare il diplomatico italiano,
285 Ivi, p.1187
286 Ibidem
287 Ivi, p. 1193
107
che ricevette istruzioni direttamente da Ciano sul comportamento da tenere, di
cui i documenti non lasciano traccia. 288 Basandoci su quella che fu la condotta
standard dell'Italia, possiamo ipotizzare che si volessero mantenere i contatti
senza
tuttavia
appoggiare
esplicitamente
la
costituzione
della
nuova
organizzazione politica che, di fatto, non si costituì.
Il fatto poi che negli accordi di Pasqua, che seguirono di qualche mese questi
contatti, venisse inserito un accordo di buon vicinato tra Italia, Gran Bretagna ed
Egitto, senza particolari riferimenti alla situazione interna egiziana (a differenza di
quanto avvenne per Yemen e Arabia Saudita), ci permette di ipotizzare che,
anche se i contatti vennero mantenuti, non furono tali da insospettire il governo
inglese, che come abbiamo visto era solito allarmarsi con facilità riguardo alle
manovre italiane.
Caduto Nahas, sembrò per qualche tempo possibile rinsaldare i rapporti tra i due
paesi, tanto che 'Alì Maher, divenuto presidente del consiglio, tentò fino all'ultimo
di evitare che i due paesi finissero contrapposti nel conflitto mondiale: ancora
quattro giorni prima dell'entrata in guerra, il 6 giugno 1940, in un incontro con il
ministro al Cairo Mazzolini, chiese che l'Italia non attaccasse l'Egitto, per non
costringerlo, sulla base del trattato del 1936, a mettere a disposizione degli
inglesi basi e mezzi di trasporto. Le cose andarono però diversamente e con
l'entrata in guerra i rapporti tra i due paesi non seguirono la strada auspicata.289
Così, nei primi mesi di partecipazione al conflitto, fu con il primo ministro
iracheno el-Gaylani che i contatti furono più intensi e a cui si promise che l'Italia
mirava alla completa indipendenza di tutte le zone sotto mandato britannico; in
realtà questa posizione non portò a nulla di fatto, poiché il primo ministro
iracheno chiese una dichiarazione congiunta italo-tedesca sull'argomento, di
fatto impossibile perché da parte tedesca non si era d'accordo. La questione si
trascinò fino al gennaio del '41, quando il governo Gaylani cadde.
Ma la vicenda fu fondamentale per il riavvicinamento col muftī, a cui il primo
ministro iracheno, nel momento di massima pressione su Roma, si era rivolto per
ottenere appoggio soprattutto in Germania, dove aveva ormai stabilito ottimi
rapporti. Pochi giorni prima della caduta del governo iracheno Hajjī Amīn alHusaynī aveva scritto una lettera ad Hitler in cui ricordava la disponibilità degli
288 Ibidem
289 Ivi, pp. 1197-1200
108
arabi a schierarsi contro gli inglesi, purché venissero garantite alcune aspirazioni
di ordine “morale e materiale”.290
La lettera non ebbe risposta visto che qualche giorno dopo il governo Gaylani
cadde. Questo però non significò l'interruzione dei rapporti con l'Asse: la
rappresentanza italiana a Baghdad, nonostante fosse tenuta sotto una sorta di
quarantena dal nuovo governo filo-britannico, mantenne i contatti con l'ex primo
ministro ed il muftī, che avevano subito iniziato a tramare per riprendere il
potere, insistendo presso l'Asse per l'invio di armi; così il colpo militare che agli
inizi di aprile riportò Gaylani al governo, per l'ultima volta, non colse di sorpresa il
governo italiano e lo convinse che la guerra potesse entrare in una nuova fase,
che avrebbe visto la Gran Bretagna tagliata fuori dal Medio Oriente.291
Circa un mese prima del colpo di stato, il segretario particolare del muftī aveva
consegnato al ministero degli esteri un progetto di dichiarazione comune italotedesco in cui venivano chiarite le aspirazioni cui si era accennato con la lettere
di gennaio: un elenco dettagliato di tutti i paesi che avrebbero dovuto vedere
riconosciuta la propria indipendenza (Iraq, Egitto, Sudan, Arabia Saudita, Yemen,
Palestina, Transgiordania, Kuwait, Dubai, Oman, Hadramaut, Siria e Libano),
l'esclusione della possibilità di regimi mandatari e il riconoscimento dell'illegalità
del “focolare ebraico” in Palestina. La reazione tedesca fu positiva, poiché si
riteneva che, un domani, si sarebbe comunque riusciti ad esercitare una
influenza positiva sui paesi arabi.292
La realtà delle cose fu però differente: dopo il colpo di stato el-Gaylani non
ottenne gli aiuti sperati, se non una ventina di aerei tedeschi che si dimostrarono
del tutto insufficienti a fronteggiare al reazione britannica. Il 30 maggio Baghdad
venne riconquistata e Gaylani dovette riparare a Teheran.293 Come se non
bastasse tre settimane dopo gli Alleati conquistarono alla Francia di Vichy anche
la Siria, in modo da tagliare definitivamente le speranza dell'Asse di poter
sfruttare a proprio vantaggio il Medio Oriente.294
La sconfitta, peraltro, non causò una cessazione dei rapporti con gli arabi, anche
se da questo momento le cose vennero gestite più da un punto di vista militare
che non politico; in quest'ottica si inserisce la strategia studiata dal ministero
290 R. De Felice, Arabi e Medio Oriente, cit., p.1291
291 Ivi, pp. 1283-1288
292 Ivi, pp. 1291-1293 anche J. Schroder, I rapporti fra le potenze dell'Asse e il mondo arabo, in “Storia contemporanea”,
gennaio-marzo 1971, p. 156
293 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni, cit., pp.432-433
294 Ibidem
109
degli esteri e dal comando supremo italiano, basata su quattro punti: 1)arruolare
un certo numero di profughi arabi ed istruirli, a seconda delle attitudini, come
paracadutisti, guastatori e radiotelegrafisti; 2) addestrare una missione militare in
vista di una possibile ripresa della rivolta anti-britannica in Medio Oriente; 3)
stabilire un sistema di comunicazioni che potesse permettere di proseguire con i
contatti nei paesi occupati dagli inglesi; 4) organizzare attività di sabotaggio
contro le infrastrutture utili ai britannici: ferrovie, strade, ponti, oleodotti.295
Contemporaneamente Mussolini appoggiò la proposta del muftī di istituire una
Legione araba da arruolare tra rifugiati, residenti e prigionieri medio orientali, da
essere utilizzata contro gli inglesi, quando le circostanze lo avessero reso
possibile.
Nella primavera-estate del 1942, in vista dell'attacco all'Egitto, l'attenzione
italiana si concentrò su due obiettivi: massiccia azione propagandistica, in cui
venne coinvolto direttamente il muftī e il vice presidente delle camicie verdi
egiziane Mustafa Wakil, e preparazione del regime di occupazione che avrebbe
dovuto tenere il paese, almeno fino alla fine della guerra. 296
Questo secondo obiettivo era di gran lunga quello ritenuto più importante; per
condurlo in porto nel miglior modo possibile bisognava conciliare tre esigenze
primarie: stabilire un rapporto chiaro con i tedeschi, che si sarebbero presentati
come gli artefici principali della vittoria e che avrebbero voluto molta voce in
capitolo, vista l'importanza del canale di Suez; tutelare gli interessi degli italiani
residenti e fare dei rapporti dell'Egitto con l'Italia una sorta di modello da
presentare agli altri paesi arabi. 297 La sconfitta di el-Alamein rese vano ogni
tentativo, anche se apparve subito chiaro che la posizione di Hitler riguardo
all'indipendenza dell'Egitto era decisamente contraria.
La differenza di approccio di Mussolini e del dittatore tedesco si coglie bene
dall'atteggiamento tenuto dai due nei confronti del muftī e di Gaylani, che erano
stati condotti rispettivamente a Roma e Berlino dopo la sconfitta subita in Iraq
per mano inglese. Hajjī Amīn al-Husaynī fu ricevuto dal duce il 27 ottobre del
1941 e sottopose un piano per il Medio Oriente arabo che ricalcava abbastanza
fedelmente quello proposto alla Germania prima dell'insurrezione irachena.
Mussolini si disse sostanzialmente d'accordo e il muftī redasse un piano
295 R. De Felice, Gli arabi cit., p. 1306
296 Ivi, pp.1310-1311
297 Ivi, pp. 1311-1313
110
presentato il 1 novembre al capo del governo italiano, prima di muoversi alla
volta della Germania per ottenerne l'approvazione.
Secondo De Felice le trattative con Hitler non furono semplici, vista la riottosità
del führer a prendere impegni precisi con gli arabi e se alla fine si decise a
raggiungere una intesa lo fece per due motivi: le insistenze italiane e la
posizione assunta da Gaylani, che ritenuto più malleabile si dimostrò invece
d'accordo con i piani del muftī.298
Secondo Dalin e Rothmann invece l'incontro con Hitler andò benissimo ed i due
trovarono subito l'intesa, basandosi soprattutto sull'odio reciproco nei confronti
del nemico comune: gli ebrei.299 Su queste basi, sempre secondo gli autori, Hajjī
Amīn al-Husaynī avrebbe partecipato alla stesura del piano per lo sterminio
totale degli ebrei di Palestina insieme ai vertici nazisti. Che la carta
dell'antisemitismo sia stata giocata dal muftī per accattivarsi le simpatie di Hitler
è molto probabile, e non è da escludere che sia stato poi questo il motivo che
spinse la Germania ad accettare le posizioni proposte, visto che alla fine la
dichiarazione congiunta cui si pervenne al termine delle trattative “in gran parte
ricalcava quella che questi [il muftī] aveva concordato con Roma e in alcuni punti
era anche più corrispondente ai suoi desiderata”. 300
Qualunque siano stati i motivi che portarono alla dichiarazione, nella pratica
questa rimase lettera morta, visto che l'impegno della Germania sul fronte russo
non permetteva ulteriori sforzi per aiutare i paesi arabi. Da parte italiana invece
le speranze di una vittoria in Egitto portavano Mussolini a riporre grandi
speranze nella carta araba. Si giunse così ad uno scambio di lettere segrete con
i due leader islamici, tramite le quali si sarebbero dovuti stabilire i futuri assetti
dell'area mediorientale: a Gaylani venne ribadita la piena indipendenza e la
completa sovranità del suo paese (Iraq); il medesimo scambio di lettere avrebbe
dovuto aver luogo anche con il governo tedesco, ma Gaylani ed il muft ī, una
volta giunti a Berlino, si trovarono in contrasto tra di loro, visto che il secondo
spingeva in senso panarabista la formulazione degli accordi, mentre l'iracheno
sembrava accontentarsi di quanto già ottenuto a Roma. Nell'impossibilità di
accordarsi con entrambi, i tedeschi scelsero Gaylani, le cui richieste sembravano
più attinenti a quanto Hitler fosse disposto a concedere. Inoltre veniva
298 Ivi, pp. 1320-1321
299 D.G. Dalin e J.F. Rothmann, La Mezzaluna e la svastica. I segreti dell'alleanza tra il nazismo e l'islam radicale, Lindau,
Torino 2009, pp. 75-77
300 R. De Felice, Op. cit., pp. 1320-1321
111
considerato personalmente e politicamente più debole e, di conseguenza, più
facilmente gestibile nel dopoguerra. 301
Al loro ritorno a Roma, nel luglio '42, il dissidio era insanabile: entrambi
pretendevano di essere riconosciuti come unici rappresentanti del mondo arabo.
La scelta del governo italiano, una volta appurata l'impossibilità di una
riconciliazione, cadde sul muftī, ritenuto più influente nel mondo arabo e più
vicino ai piani italiani per il Medio Oriente.
La sconfitta di el-Alamein segnò la fine di ogni illusione mediorientale italiana:
quando divenne evidente che gli Alleati avrebbero attaccato l'Italia, Hajjī Amīn alHusaynī si recò in Germania (dicembre '42) per tentare un riavvicinamento col
governo tedesco e anche con Gaylani. Il soggiorno berlinese, durato fino a
maggio '43, non portò risultati concreti; il 20 aprile, da Berlino, inviò una nota al
ministero degli esteri italiano per rilevare che, se lo scambio di note dell'anno
precedente sul futuro assetto della Palestina e del mondo arabo fosse stato reso
noto, come richiesto da lui e Gaylani, l'impressione suscitata sulle popolazioni di
quei paesi sarebbe stata decisiva nel rendere vane le manovre degli Alleati, che
cercavano di convincere gli arabi a lottare al loro fianco con generiche
promesse. Da parte italiana si fece giungere presso il governo tedesco una
proposta di dichiarazione congiunta che avrebbe dovuto andare nella direzione
auspicata dal muftī. Da Berlino non giunse risposta, così ai primi di luglio si
chiese almeno che i due rappresentanti arabi venissero autorizzati a rendere
noto lo scambio di lettere dell'anno precedente.302 La cosa non ebbe seguito, ed
era ormai del tutto inutile: gli Alleati si apprestavano a sbarcare in Italia e l'unico
che poteva avere qualcosa da guadagnare dalla pubblicazione delle lettere era il
muftī, che avrebbe così giustificato agli occhi del mondo arabo il suo impegno a
fianco dell'Asse.
301 Ivi, pp. 1331-1334
302 Ivi, pp. 1344-1348
112
113
4. Il caso dello Yemen
Le mire italiane nei confronti della costa occidentale della penisola arabica non
nascevano con il fascismo: da quando l'Eritrea era divenuta una colonia italiana
si era guardato al di là del Mar Rosso con interesse. Tra la fine del XIX e l'inizio
del XX secolo tra la costa africana e quella araba si verificarono diversi scontri
tra italiani ed autorità turche, causate da attività commerciali poco lecite, come il
contrabbando di tabacco operato dagli indigeni eritrei ed osteggiato dai turchi.
L'inseguimento ed il sequestro di alcuni natanti eritrei fin nelle loro acque
territoriali scatenò la prima rappresaglia italiana, cui seguirono diversi scontri.
Tra le cause delle tensioni italo-turche non erano secondarie le velleità di
espansione verso la costa araba più volte espresse dal governatore dell'Eritrea
Martini, probabile vero motivo che indusse le autorità italiane ad appoggiare la
causa dei contrabbandieri eritrei.303 Nel 1901 la presenza di un incrociatore
tedesco sulle coste yemenite, oltre a quella di presidi inglesi e francesi,
convinse il governatore dell'Eritrea che si stesse procedendo ad una divisione
dello Yemen tra le potenze europee, cui non poteva mancare l'Italia. Si pensò
allora di sfruttare la pirateria araba in funzione antiturca, ma ben presto ci si
rese conto che questo era un problema che andava considerato a sé stante,
poiché la crescente attività piratesca araba danneggiava in maniera
considerevole le attività commerciali eritree. 304 I contrasti con le autorità turche,
accusate di non essere in grado di controllare la pirateria, portarono, il 31
ottobre 1902, al bombardamento italiano di Maydi, piccola località yemenita che
si riteneva base dei pirati, in cui erano però stanziate anche truppe ottomane. Il
bombardamento provocò circa 250 morti; dopo qualche giorno la crisi venne
chiusa e il 9 novembre si giunse ad un accordo che prevedeva il pagamento
degli indennizzi richiesti ai turchi, la consegna dei sambuchi arabi catturati ed
una più solerte vigilanza contro la pirateria.305
I rapporti tra Italia e Turchia andarono normalizzandosi dopo le tensioni appena
elencate, anche perché tra il 1904 e il 1911 esplose la rivolta yemenita, che
attirò tutte le attenzioni turche; dal canto suo l'Italia rimase neutrale: nella scelta
influiva la paura che da un collasso turco potesse trarre vantaggio l'Inghilterra.
Durante la lunga ribellione si ebbero i primi contatti tra un commerciante e
303 M. Lenci, Eritrea e Yemen. Tensioni italo-turche nel Mar Rosso 1885-1911, F. Angeli, Milano 1990, pp. 45-61
304 Ivi, pp. 61-71
305 Ivi, pp. 81-83
114
rappresentate italiano, Giuseppe Caprotti, e l'Imam dello Yemen Yaḥyà, a capo
della rivolta: nel 1905 il Caprotti venne convocato dall'Imam ed incaricato di
telegrafare al sultano ottomano la richiesta di sospensione delle operazioni
militari, almeno fino a quando avesse ricevuto una lettera scritta dallo stesso
Imam e che lo stesso Caprotti doveva spedire. L'episodio, che non ebbe alcun
effetto pratico, rimane importante per la scelta yemenita di considerare l'Italia
come possibile mediatrice dei propri interessi.306
Un nuovo contrasto italo-turco si verificò nel 1910, sempre per questioni di
contrabbando, di cui stavolta era accusata direttamente anche una nave
italiana. Le tensioni portarono ad un passo da un nuovo scontro armato;
nonostante il protocollo firmato nel gennaio 1911 riguardo le modalità con cui si
sarebbero dovute condurre le indagini riguardo le accuse mosse alla nave
italiana, i contrasti non diminuirono: l'Italia perorava la causa della regolarità del
commercio, mentre la Turchia rimaneva sulle sue posizioni. La vicenda
presentava parecchi punti oscuri 307 e finì con il coinvolgere, per iniziativa turca,
anche Francia e Gran Bretagna, in quanto presenze attive nel Mar Rosso e
quindi interessate alla sicurezza di quelle acque. Quando sembrava che un
accordo, dopo lunghe trattative, dovesse essere raggiunto, giunse l'ultimatum
italiano che preludeva alla guerra in Libia, così la parola passò alle armi. Con
l'inizio del conflitto l'Italia appoggiò la ribellione antiturca in corso di svolgimento
nella penisola araba, individuando nel leader del 'Asīr, Idrīs, l'interlocutore
privilegiato.308 Con la fine del conflitto in Libia l'alleato arabo venne presto
scaricato e si tornò a discutere della condotta da seguire sulla costa orientale
del Mar Rosso.
Il 23 maggio 1913 Pietro Bertolini, da pochi mesi alla guida dell'appena
costituito ministero delle colonie, in una nota al ministro degli esteri Antonino di
San Giuliano sollecitava una riflessione sulle linee generali da seguire per la
futura politica in Arabia: “noi non potremmo, stando ai nostri interessi,
permettere che un'altra potenza si insediasse di faccia a Massaua sulla costa
arabica del Mar Rosso e, ad ogni modo, se questo avvenisse, anche a noi
dovrebbe essere riservata una parte della penisola arabica su cui esercitare la
nostra influenza.”309 Il ministro degli esteri cercò di raffreddare gli entusiasmi del
306 Ivi, pp. 106-116
307 Ivi, pp. 127-142
308 Ivi, pp. 153-156
309 M. Pizzigallo, La politica “araba” dell'Italia e l'articolo XII del Patto di Londra, in “Scritti in onore di Giuseppe Vedovato”
115
ministro delle colonie, convinto che qualora gli inglesi avessero deciso di
intraprendere delle iniziative sulla costa arabica, difficilmente l'Italia sarebbe
stata in grado di impedirle. Si poteva quindi pensare ad un accordo con la Gran
Bretagna, peraltro già tentato dai governi precedenti con scarso successo. 310 Il
dibattito tra i due ministri proseguì per qualche mese, senza però che di San
Giuliano si dimostrasse mai disponibile ad accogliere le proposte provenienti
dall'Eritrea, preoccupato di mantenere buoni rapporti con l'Impero Ottomano e
la Gran Bretagna. Venne quindi anche rigettata la proposta di inviare presso
l'Imam Yaḥyà dello Yemen una sorta di inviato speciale. Anche il nuovo ministro
delle colonie, Ferdinando Martini, assunse una posizione convinta di rilancio
degli interessi italiani sul Mar Rosso, ma il ministero degli esteri non abbandonò
la posizione prudente.
Si giunse allora alla formulazione della bozza di un accordo da proporre
all'Inghilterra che avrebbe dovuto stabilirsi sulle seguenti basi: “a) guarentigia
comune per l'indipendenza dello Yemen e autonomia dei capi dell'Arabia,
conservando in libere mani musulmane i Luoghi Santi; b) impegno reciproco di
Italia e di Inghilterra di non procedere all'annessione dell'Arabia o a qualsiasi
altra forma di dominio, senza però rinunziare al diritto di opporsi a che una terza
potenza acquisti o si alleghi dei diritti qualsiasi sul territorio dell'Arabia; c) tutto il
territorio dell'Arabia del versante del Mar Rosso liberamente aperto all'azione
commerciale ed economica dell'Italia e dell'Inghilterra; d) In caso però che
l'Inghilterra intervenisse in Arabia con una forma di dominio diretto, riservare
all'Italia una eguale forma di dominio sul Asīr e su parte dello Yemen.”311
La questione fu sottoposta, per decisione del nuovo ministro degli esteri
Sonnino, dall'ambasciatore italiano a Londra Imperiali al ministro degli esteri
inglesi Grey, il quale dopo aver esaminato la proposta rispose che non era
possibile un accordo separato anglo-italiano sulle questioni arabe, tanto che il
governo britannico aveva già concordato con Francia e Russia che i Luoghi
Santi e l'Arabia sarebbero rimaste sotto un dominio arabo indipendente.
D'altronde la formulazione proposta dall'Italia avrebbe significato la totale
limitazione degli spazi di manovra inglese, in un momento in cui si procedeva ai
contatti con gli emiri e gli sceicchi insofferenti della dominazione turca. La
Vol. III, Firenze 1997, p. 347
310 Ivi, p. 349
311 Citato in M. Pizzigallo, Op. cit., p. 352
116
formulazione finale della questione araba, inserita nel Patto di Londra,
prevedeva che l'Italia si associasse semplicemente a quanto già concordato
dagli Alleati.312
All'inizio degli anni venti, dopo il crollo dell'Impero Ottomano, lo Yemen era
l'unico stato della costa araba a non essere soggetto ad alcuna sfera di
influenza e che anzi manifestava uno spirito di indipendenza che lo induceva a
respingere anche i tentativi d'accordo con gli altri stati arabi, tutti più o meno
soggetti all'influenza britannica.
Diversi tentativi inglesi, e successivamente anche francesi, di estendere la
propria influenza nel paese fallirono, mentre l'Italia riuscì a raggiungere qualche
risultato concreto: fin dal '23 venne impiantata una stazione radio e creato un
collegamento via telegrafo Ṣan'ā'-Mocha-Assab-Asmara. Inoltre, dal 1924
venne sviluppato un servizio sanitario affidato a medici appartenenti all'esercito,
che avevano un compito diplomatico nonché di spionaggio ai danni della Gran
Bretagna.
Nel 1925 la Gran Bretagna fece un ulteriore sforzo per raggiungere un accordo
con l'Imām Yaḥyà, che oltre a dimostrarsi reticente ad ogni tipo di influenza
esterna, aveva occupato alcuni territori del protettorato di Aden; tutti gli sforzi
inglesi si dimostrarono ancora inutili.313
Il 1926 segnò la chiave di volta per la politica di espansione nel Mar Rosso da
parte dell'Italia. Il primo passo fu la crociera compiuta da navi italiane lungo
tutta la costa, dall'Eritrea al Sudan, per motivi essenzialmente di prestigio,
poiché gli inglesi avevano già tre navi da guerra nel Mar Rosso. Non dobbiamo
dimenticare che in questo periodo comincia anche l'interesse concreto di
Mussolini per il mondo islamico, per cui questo episodio ha una doppia valenza.
Gli inglesi, preoccupati della presenza italiana, cercarono di contrastare e
bilanciare la presenza italiana attraverso la creazione a Kamaran di un
avamposto politico-militare. Questo non era l'unico motivo di contrasto tra Italia
e Gran Bretagna: sul piatto c'era anche la questione dell''Asīr, sorta in seguito
ad alcune lacune del trattato di Sèvres, che non si occupò di questa regione
della penisola araba. Sotto la dinastia degli Idrissiti l''Asīr si era costituito in
stato indipendente, rimanendo però oggetto delle mire espansionistiche dello
312 Ivi, pp. 353-356
313 J. Baldry, Anglo italian rivalry in Yemen and 'Asīr 1900-1934, in “Die Welt des Islams”, vol.XVII, 1976-1977, p. 156
117
Yemen e del regno del Neģd, governato da Ibn Sa'ūd, sovrano bellicoso che nel
1925 aggiunse ai suoi domini l'Ḥiģiāz, sottratto alla dinastia hascemita.
Nel '26 e negli anni successivi, l'appoggio dato dall'Italia allo Yemen in merito
alla questione dell''Asīr determinò una grossa crisi nei rapporti anglo-italiani nel
Mar Rosso. I primi tentativi di Roma di influire sulla zona, sotto il controllo
inglese, erano iniziati nel 1921 quando dall'Eritrea erano partite missioni verso il
capo degli Idrisi, Sayyd Muhammad, con lo scopo di ottenere, attraverso delle
regalie, concessioni minerarie, petrolifere e sul sale nei territori da lui governati.
314
Questi tentativi, non riusciti, avevano preoccupato il governo inglese, che
deteneva quelle concessioni a cui ambivano gli italiani. Il massimo della
tensione si raggiunse dopo il trattato italo-yemenita del 2 settembre 1926, che
sanciva la penetrazione commerciale dell'Italia nel paese, fortemente voluto da
Gasparini, allora governatore dell'Eritrea. 315
Il trattato prevedeva il riconoscimento di Yaḥyà quale sovrano dello Yemen,
cosa che provocò una forte tensione da parte britannica: si riteneva che l'Italia,
attraverso tale atto, appoggiasse le aspirazioni dell'Imām alla sovranità su
Aden, la regione dell'Hadramaut e i territori idrisiti. Londra tentò di ottenere dal
governo italiano il riconoscimento della limitazione dei confini yemeniti,
ricordando che un accordo con gli Idrisi del '17 impegnava la Gran Bretagna a
difendere le coste dell''Asīr da ogni attacco straniero. Da parte italiana si
provvide a rassicurare il Colonial Office che le frontiere yemenite non erano
state definite nel trattato.316
Anche la stampa italiana sostenne che l'Italia non aveva mire monopolistiche
né, tanto meno imperialistiche sull'area, e che il trattato non avrebbe causato
modifiche alla situazione nella penisola araba. 317
Lo scambio di telegrammi affettuosi tra Mussolini e l'Imām Yaḥyà, sovrano dello
Yemen, avvenuto il 31 dicembre 1926 sancì i risultati ottenuti dall'Italia nel
vicino oriente. È opportuno rilevare che la politica yemenita era parte integrante
della politica etiopica e di espansione intorno al Mar Rosso: lo stabilirsi
dell'influenza italiana su quel mare mirava a spezzare l'egemonia britannica e a
conquistare l'accesso alla via per l'India, l'estremo oriente e l'Australia.
314 Ivi, p. 166
315 R. Quartararo, L'Italia e lo Yemen. Uno studio sulla politica di espansione italiana nel Mar Rosso (1923-1937) in “Storia
Contemporanea” Vol. 6, 1986, pp.811-823
316 J. Baldry, cit., p. 173
317 Corriere della Sera; Tribuna, 20 Ottobre 1926
118
Gasparini, che assunse il governo dell'Eritrea nel '23 aveva capito subito quali
difficoltà avrebbe dovuto affrontare l'Italia nel tentativo di espandere la propria
influenza sul Mar Rosso. La guerra mondiale e l'estromissione dell'Italia dalla
spartizione anglo-francese dei mandati avevano vanificato i primi timidi tentativi
italiani di annodare relazioni di amicizia con gli stati arabi; si trattava quindi di
agire con pazienza, senza cedere alla tentazione di approfittare dello stato di
endemica guerriglia esistente fra quei paesi ancora in fase di assestamento
politico. L'Eritrea, con i suoi porti di Massawa ed Assab, offriva all'Italia il
vantaggio di posizione per lo sviluppo della politica di penetrazione
commerciale. Lo Yemen, prospiciente la colonia italiana, era il punto di approdo
più naturale di questa politica.
Ad aumentare la tensione nel Mar Rosso contribuì l'accordo che si concluse il
21 ottobre 1926 alla Mecca tra Ibn Sa'ūd e Sayd Hassan Idn Ali El Idrisi, in base
al quale l''Asīr passava definitivamente sotto il controllo dell' Ḥiģiāz; l'importanza
della regione era enorme, poiché separava i possessi del regno di Sa'ūd da
quelli dello Yemen, che a sua volta avanzava pretese sulla zona. A rendere
ancor più complicata la situazione, era la suddivisione della zona in numerose
tribù che, a seconda della convenienza, dichiaravano fedeltà all'Imām o a
Sa'ūd.
Dopo la stipulazione del trattato, l'Italia cominciò a fornire con frequenza armi e
munizioni a Yaḥyà, mettendo nuovamente in allarme la Gran Bretagna. Inoltre si
temeva che il governo di Roma riuscisse ad ottenere il monopolio commerciale;
una interrogazione alla Camera dei Comuni giunse però alla conclusione che
Londra non aveva nulla da temere dalla presenza italiana nello Yemen e che i
propri interessi non sarebbero stati danneggiati, né ci sarebbero state
conseguenze negative nelle negoziazioni con l'Imām. 318
Queste prime conclusioni si dimostrarono presto fallaci, non soltanto perché la
presenza italiana su ambedue le sponde del Mar Rosso metteva a repentaglio
la sicurezza della via per le Indie, ma anche, e forse soprattutto, perché le armi
fornite dal governo di Roma erano state usate contro gli inglesi nel protettorato
di Aden.
L'importanza che gli inglesi attribuivano alla situazione yemenita è testimoniata
318 J. Baldry, cit., pp. 173-174
119
dalla visita che Sir Gilbert Clayton 319 fece a Roma, per discutere della politica
italiana nel Mar Rosso: prima di partire per l'Italia, Clayton venne istruito sulle
linee guida della politica araba che avrebbe dovuto difendere. Innanzitutto
bisognava stabilire che nessun potenza avrebbe dovuto stabilirsi sulle coste
orientali del Mar Rosso, e in particolare sulle isole Kamaran e Farasan, in cui gli
inglesi erano titolari di concessioni. D'altra parte bisognava chiarire che, da
parte britannica, non c'erano ambizioni politiche nell'area e che c'era la
massima disponibilità a favorire eque opportunità commerciali. Per quanto
riguardava i rapporti con l'Italia, bisognava informare il governo che Yaḥyà
aveva occupato parti del protettorato di Aden e che ogni tentativo di negoziare
una definizione dei confini era fallito: in queste circostanze l'Italia avrebbe
potuto tentare di sfruttare la propria influenza per convincere l'Imām a trovare
un accordo col la Gran Bretagna. Infine il governo italiano doveva essere
avvertito della neutralità inglese riguardo gli scontri tra idrisiti e yemeniti, ma che
questa posizione avrebbe potuto essere modificata in caso di attacco alle isole
Farasan e Kamaran: in questo caso Londra avrebbe dovuto agire in difesa dei
propri interessi.320
Le conversazioni cominciarono il 4 ottobre 1926. Da parte italiana si sostenne
che, a causa della povertà dell'Eritrea, era necessario aprire al commercio con
la sponda opposta del Mar Rosso. D'altro canto si riconosceva l'importanza di
Farasan per le comunicazioni inglesi con l'India, ma si rifiutava di riconoscere la
rivendicazione idrisita sulla sovranità dell'isola: gli sceicchi delle isole non
l'avevano mai riconosciuta ed avevano offerto concessioni in cambio dell'aiuto
italiano, però sempre rifiutato in ottemperanza agli interessi inglesi. Clayton
rispose che gli sceicchi erano stati corrotti dagli italiani. Infine il governo di
Roma reclamò il diritto di partecipare all'amministrazione sanitaria di Kamaran,
basandosi sul fatto che la presenza di dottori italiani nella stazione di
quarantena risaliva a prima dello scoppio della guerra mondiale. 321
Le trattative richiesero tempo, ma nel febbraio seguente si giunse ad un
accordo di massima secondo il quale Italia ed Inghilterra si impegnavano a
perseguire una politica di pacifica collaborazione nell'area, senza interferire
319 Diplomatico all'epoca ambasciatore presso Ibn Sa'ūd
320 J. Baldry, cit., pp. 178-179
321 Ivi, p. 180. Kamaran era la stazione di quarantena in cui sostavano i pellegrini provenienti dall'Africa durante il
pellegrinaggio alla Mecca.
120
l'una con l'altra.322
In realtà questo accordo lasciava sostanzialmente insoluti i problemi di fondo: le
dichiarazioni di intenti erano del tutto vaghe e, se escludiamo la proibizione
esplicita di partecipare ad un eventuale conflitto, consentivano ai due governi di
proseguire nella politica condotta fino a quel momento. La preoccupazione
principale dei due governi ci sembra fosse quella di ribadire le rispettive
posizioni; da parte inglese ci si poteva ritenere soddisfatti, poiché le indicazioni
fornite a Clayton prima delle conversazioni di Roma avevano trovato tutte la
soluzione auspicata; da parte italiana, tranne per la questione della presenza
medica a Kamaran che veniva lasciata in sospeso, si poteva essere altrettanto
compiaciuti, visto che nessun veto particolare veniva posto all'iniziativa politica
seguita fino a quel momento, nemmeno per quanto riguardava la fornitura di
armi, non espressamente menzionata. E, d'altra parte, ci sembra molto vago, e
perciò passibile di interpretazioni differenti, l'impegno ad operare per una pace
duratura nell'area interessata dagli accordi. Notiamo anche che gli interlocutori
arabi venivano trattati come delle semplici pedine, da muovere in modo che non
arrecassero danno ai due paesi europei. La preoccupazione più grande era
evitare che potessero cogliere segni di debolezza e discordia tra Italia e Gran
Bretagna e sfruttarli a proprio vantaggio.
322 Alle conversazioni parteciparono l'ambasciatore a Roma Ronald Graham, Sir Gilbert Clayton, Jacopo Gasparini e
Raffaele Guariglia, il 7 febbraio 1927: I sopracitati delegati hanno, in base alle istruzioni dei rispettivi governi, discusso
sulle questioni riguardanti gli interessi britannici ed italiani nell'Arabia Meridionale e nel Mar Rosso. I delegati, in
conformità delle istruzioni ricevute, per cui le rispettive politiche dei due governi nell'Arabia meridionale e nel Mar Rosso
devono attuarsi secondo uno spirito di amichevole collaborazione e devono svilupparsi secondo linee parallele benché
indipendenti, sono giunti alla conclusione che i loro governi sono d'accordo sui seguenti punti:
1) che risponde all'interesse comune dei due governi di perseguire una politica di pacificazione allo scopo di evitare il più
possibile conflitti fra i vari capi arabi;
2) che l'influenza che i due governi possono essere in grado di esercitare rispettivamente su Ibn Sa'ūd, sull'Imām Jahia e
sull'Idrisi dello 'Asīr debba essere diretta ad eliminare cause di conflitto, per giungere, se è possibile, a pacifici ed
amichevoli accordi tra i capi stessi;
3) che pur continuando ad esercitare la loro influenza per la causa della pace fra i due governi non debbano intervenire in
nessun conflitto che, malgrado la loro azione pacificatrice, potesse verificarsi fra i suddetti capi;
4) che il principio che informa la politica britannica nel Mar Rosso è quello della sicurezza delle comunicazioni imperiali
con l'India e con l'Oriente. Per questa ragione, il Governo di Sua Maestà britannica considera come un vitale interesse
imperiale che nessuna potenza europea abbia a stabilirsi sulla costa araba del Mar Rosso e più particolarmente a
Camaran e nelle isole Farsan e che né Camaran né le isole Farsan abbiano a cadere nelle mani di un capo non amico;
5) che debba esservi libertà economica e commerciale sulla costa araba e nelle isole del Mar Rosso per i cittadini e
sudditi dei due paesi e che la protezione che tali cittadini e sudditi possono legittimamente attendersi dai loro rispettivi
governi non debba assumere carattere o portata politica;
6) che la presenza di funzionari britannici a Camaran ha unicamente lo scopo di assicurare il servizio sanitario dei
pellegrinaggi alla Mecca, ma che per ragioni amministrative il Governo di Sua Maestà britannica non considera possibile
nell'attuale momento di aderire alla domanda italiana per la partecipazione al servizio quarantenario. Ma poiché il
governo italiano mantiene il suo punto di vista su questo argomento, il Governo di Sua Maestà britannica è disposto a
riconsiderare la questione quando il numero dei pellegrini originari delle colonie e possedimenti italiani aumenti in modo
tale da meglio giustificare la presenza di un sanitario italiano;
7) che è nell'interesse comune dei due governi di esercitare la loro rispettiva influenza sui capi arabi, in modo che i
reciproci interessi della Gran Bretagna e dell'Italia siano il più possibile salvaguardati e che perciò è desiderabile che i
due Governi si mantengano in contatto in tutte le questioni riguardanti il Mar Rosso e l'Arabia meridionale, allo scopo di
evitare malintesi fra di loro o inesatte impressioni da parte dei capi arabi nei riguardi della politica che i due governi
intendono perseguire nelle regioni suindicate.
Documento citato in R. Quartararo, Op. cit., p. 828
121
Nel frattempo i rapporti italo-yemeniti diventavano sempre più stretti, grazie alla
visita del secondogenito dell'Imām Yaḥyà, Saif-al-Islam Mohamed, che venne
ricevuto da Mussolini il 28 giugno 1927 ed accolto con parole di ammirazione e
rispetto per lui e per “l'Augusto sovrano” suo padre. Il discorso di Mussolini
all'illustre ospite terminava con la ferma volontà di continuare a collaborare con
il forte ed indipendente paese, allo scopo di garantirne la felicità e la prosperità.
323
La penetrazione italiana nello Yemen nel biennio successivo all'accordo del '26
non conobbe ostacoli, nonostante le continue pressioni ed offerte di denaro
all'Imām da parte di americani, inglesi e tedeschi per accaparrarsi la sua fiducia
e lo sfruttamento delle risorse del paese.324 Da parte inglese, pochi mesi dopo
le conversazioni di Roma, venne inviato a Roma un documento in cui venivano
riaffermate le posizioni raggiunte, con l'aggiunta di un memorandum riferito
all'accordo anglo-idrisita del '17, con cui gli inglesi si erano impegnati a
difendere la controparte da “tutti” gli atti di ostilità in cambio della promessa
degli Idrisi di precludere ogni interferenza straniera nell''Asīr. Era un chiaro
monito
a
controllare
l'aggressività
dell'Imām
nei
confronti
dell''Asīr,
evidentemente non sopita.325 E probabilmente ci si era resi conto della
eccessiva vaghezza in ambito strategico militare degli accordi di febbraio. A
questo proposito un dato merita di essere sottolineato: nel 1928 la voce più
importante nelle esportazioni italiane verso lo Yemen era quella delle armi.
Nell'area del Mar Rosso Italia e Gran Bretagna non erano le sole a tentare una
politica di espansione: dal 1924 anche l'URSS aveva intrapreso una propria
attività di propaganda. L'atteggiamento di Roma era di ferma opposizione alla
presenza sovietica, in stretta intesa con Londra; tuttavia il governo italiano
accennò talvolta ad utilizzarla come strumento di pressione sull'Inghilterra, che
nella penisola arabica era l'obiettivo principale dell'azione comunista.
Nonostante questo la diffidenza nei confronti dei sovietici restava piuttosto
marcata: si cercò spesso di presentarli, presso il governo di Londra, come
sobillatori dell'Imām contro gli interessi italiani ed inglesi e si cercò sempre di
dissuadere il sovrano yemenita dal prestare ascolto alle proposte degli agenti
sovietici.326
323 Mussolini, Vol. XXIII, pp. 10-11
324 R. Quartararo, Op. cit., pp. 828-831
325 J. Baldry, Op. cit., p. 181
326 G. Carocci, La politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969, pp. 226-227
122
Nel frattempo si era scatenato un vero e proprio conflitto tra Aden, protettorato
inglese, e lo Yemen per la definizione di alcune frontiere: gli inglesi
parteciparono attivamente al bombardamento di diverse città yemenite. L'Italia
tentò una prima mediazione, ma i bombardamenti non cessarono. A questo
punto l'azione successiva fu quella di lasciare in sospeso il riconoscimento di
Ibn Sa'ūd come re dell'Ḥiģiāz e del Neģd, dopo l'incoronazione avvenuta nel
1926. Il sovrano arabo allora inviò un delegato presso il consolato inglese di
Gedda, che si lamentò del fatto che l'Italia stava minando la stabilità della
penisola araba; aggiunse inoltre che molti arabi erano pro inglesi, ma allo
stesso tempo poneva un interrogativo: cosa avrebbero fatto questi se avessero
visto “una potenza di secondo rango come l'Italia minare gli interessi inglesi in
Arabia”?327
Come se non bastasse, nell'agosto 1927 Ibn Sa'ūd informò Gedda che alcune
settimane prima Yaḥyà aveva espresso il proprio desiderio di pace con il regno
del Ḥiģiāz, ma poi era stato persuaso dagli italiani a cambiare idea; la
propaganda degli agenti italiani in 'Asīr, contraria a Ibn Sa'ūd, completava le
operazioni ostili. Il governo italiano, conscio che il sovrano saudita forniva
informazioni agli inglesi, provvide ad informare Londra della difficoltà nel tenere
a bada le mire dell'Imām, e domandò se da parte inglese si stesse
incoraggiando l'aggressività di Ibn Sa'ūd nei confronti del sovrano yemenita.
Da Londra si rispose a questa insinuazione affermando che lo stesso dubbio
era stato espresso loro dal sovrano saudita riguardo agli italiani. Il segretario di
stato per gli affari esteri Chamberlain era tuttavia convinto della sincerità italiana
e invitò Gedda a comunicare a Ibn Sa'ūd le sue impressioni. Questi bollò le
dichiarazioni italiane come del tutto false, e dichiarò di essersi impegnato per
frenare le ambizioni yemenite e di essere certo che gli italiani stessero
incoraggiando l'Imām ad attaccare diverse parti dei suoi territori. 328
Questo reciproco scambio di accuse andò avanti per qualche mese, senza però
che Chamberlain sembrasse persuaso delle iniziative ostili dell'Italia. Nel marzo
del 1928 Gedda riferì di rimostranze molto forti di Ibn Sa'ūd riguardo le
operazioni italiane, ed aggiunse che Yaḥyà continuava nei tentativi di occupare
territori appartenenti al protettorato di Aden, facilitato dall'appoggio italiano. A
327 J. Baldry, Cit., p. 182
328 Ivi, p. 183
123
questo punto la Gran Bretagna giocò la “carta bolscevica”, informando il
governo di Roma che più a lungo il sovrano saudita si persuadeva delle
interferenze dell'Italia, più aumentavano i rischi che, non ricevendo supporto da
parte inglese, si rivolgesse all'aiuto bolscevico. 329 Ma da parte italiana le accuse
venivano rispedite al mittente; sembra inoltre che venisse rifiutata un'ulteriore
fornitura di armi all'Imām, che erano già state promesse. 330
In aprile il governo italiano inviò un memorandum a Londra, in cui si ribadiva
che non esistevano accordi segreti con lo Yemen, si dichiarava la disponibilità a
riconoscere la sovranità di Ibn Sa'ūd in cambio dell'assicurazione delle sue
intenzioni pacifiche e si ricordava che si era già dissuaso l'Imām dall'attaccare i
territori idrisiti. Si aggiungeva inoltre che le minacce del saudita di ricorrere
all'aiuto sovietico erano soltanto finalizzate ad ottenere il supporto britannico.
Era, in pratica, lo stesso metodo usato da Roma per tenere sotto pressione il
governo di Londra. Forte di queste dichiarazioni italiane, Clayton si recò da Ibn
Sa'ūd per tentare di convincerlo che Roma non stava interferendo negli affari
politici e da parte inglese si sarebbe fatto tutto il possibile per salvaguardare i
suoi interessi.331
Era ovvio infatti che Londra non potesse correre il rischio di inimicarsi un
sovrano che controllava una grossa fetta dei territori confinanti con il
protettorato e con aree di influenza britannica. Nel giugno successivo una
delegazione yemenita raggiunse La Mecca per tentare una conciliazione, ma le
trattative non ebbero esito. A questo punto Ibn Sa'ūd, deluso ed arrabbiato,
iniziò a preparare le sue truppe alla imminente battaglia per il controllo dell''Asīr.
Mentre la situazione diventava di stallo, Gasparini lasciava il governatorato
dell'Eritrea per essere sostituito da Zoli; fu un duro colpo per l'Imām, legato da
una vera amicizia con il governatore uscente, ma soprattutto l'avvicendamento
segnò un regresso nei rapporti italo-yemeniti.
Al contrario di Gasparini, che aveva svolto una cauta politica di penetrazione
economico-commerciale, Zoli impresse un impulso più deciso e tuttavia
inefficace, forse anche a causa della firma del trattato commerciale russoyemenita del dicembre 1928, concluso all'insaputa dell'Italia. Nonostante ciò la
presenza e l'influenza italiana restavano ancora importanti, visto anche il
329 Ivi, p. 185
330 G. Carocci, Op. cit., pp.225
331 J. Baldry, Op. cit., p.186
124
proseguimento dei bombardamenti da parte inglese. Di certo la mancanza di un
intervento diretto dell'Italia a difesa dei territori yemeniti fu un fattore importante,
se non decisivo, nella scelta di Yaḥyà di guardarsi intorno e rinunciare, almeno
parzialmente, al suo isolazionismo. Quel che era cambiato era il monopolio nei
rapporti con il sovrano, che impostò un'attività volta proprio a far intendere al
governo italiano di aver perso la sua preminenza: oltre al trattato con i sovietici,
è probabile che ne offrì uno anche alla Germania.
Un momento di grossa tensione si visse nell'agosto del 1928, quando
l'aviazione inglese bombardò le forze yemenite che avevano occupato alcune
zone del protettorato: si temeva che gli yemeniti avrebbero reagito attaccando
le proprietà europee della città di Hodeidah. Gli italiani, che erano stati avvisati
in precedenza dell'attacco, inviarono una nave da guerra nella città, per
proteggere gli individui e le proprietà europee, compresi anche i soggetti
britannici.332 Anche questo episodio non dovette giovare alle relazioni italoyemenite. Si aggiunga, a completare il quadro, che gli scontri di frontiera tra il
protettorato di Aden e le truppe di Yaḥyà proseguirono fino al 1934, quando
venne firmato un trattato che stabiliva le frontiere. In tutto questo tempo, le
azioni italiane a supporto dell'Imām furono praticamente nulle.
Molteplici quindi le cause che portarono al cambiamento nei rapporti italoyemeniti; dopo il 1928, ed in particolare tra il 1930 e il 1932, le riunioni
interministeriali a Roma per decidere la politica da seguire nello Yemen ed in
Etiopia si susseguirono numerose, poiché non si riusciva a giungere ad un
accordo. Dino Grandi ad esempio, sosteneva che bisognava tornare alla politica
di Gasparini, mentre secondo il ministro delle Colonie De Bono bisognava tener
conto anche di una possibile espansione territoriale. Il risultato fu che la politica
italiana divenne sempre più bifronte ed il suo prestigio decadde ulteriormente.
Nel marzo 1929, ad esempio, il residente di Aden, Sir Stewart Symes, si recò in
visita da Zoli, presso il quale rimase dieci giorni: il governatore italiano mostrò i
dispacci ricevuti da Roma e le sue stesse istruzioni per gli agenti yemeniti, in
cui si ordinava di comunicare a Yaḥyà che non avrebbe dovuto aspettarsi
nessun aiuto in funzione anti-britannica. I due concordarono inoltre che una
solidarietà anglo-italiana era fondamentale per fronteggiare il pericolo sovietico
332 Ivi, p.188
125
e il ritorno di fiamma della Turchia. 333 L'Italia, dopo aver agitato lo spauracchio
bolscevico, sembrava cadere vittima del suo stesso gioco. In realtà, ci sembra
di poter dire che l'obiettivo principale, ovvero il riconoscimento della propria
importanza nell'area, era raggiunto e quindi si riteneva saggio avviare una
politica di collaborazione con gli inglesi per mantenere e rafforzare la posizione
raggiunta. A Londra si ebbero queste stesse impressioni. 334
Nel 1930 i rapporto italo-yemeniti attraversarono una “fase grigia” 335:
i
funzionari impiegati nel paese non erano visti con simpatia, ma a stento
sopportati; l'azione denigratoria della stampa araba e quella disturbatrice dei
russi, che avevano corrotto il fiduciario dell'Imām per la politica estera Raghib
Bey, sembravano aver cancellato quanto di buono era stato precedentemente
fatto. Gli yemeniti sostenevano che la responsabilità del loro mutato
atteggiamento era da ascriversi alla politica di ripensamenti ed attese che
aveva caratterizzato le ultime scelte italiane, nonché la mancata massiccia
penetrazione commerciale, che era stata promessa e non perseguita.
Altra, e forse più importante rimostranza mossa dagli yemeniti era quella di non
essere mai autorizzati a parlare e trattare direttamente con il governo centrale,
ma essere costretti a passare per il tramite del governatorato eritreo: questo
dava la sensazione di essere trattati alla stregua di una colonia e cominciava a
creare dubbi sulle reali intenzioni dell'Italia riguardo al paese.
A gettare ombre sulla reputazione italiana contribuivano anche le pessime
condizioni igienico-sanitarie dell'ospedale di Ṣan'ā', 336 presso cui operavano i
medici italiani; la mancanza di mezzi faceva il resto e così i russi avevano avuto
buon gioco a definirlo una “tomba” e a gettare ulteriore discredito sull'Italia. 337
Le conseguenze di tutte queste difficoltà si riflettevano nelle differenze tra
alloggi messi a disposizione dei medici italiani e quelli in uso ai russi: i primi
vivevano in case anguste ed erano addirittura costretti a dormire su delle
brande da campo per evitare i letti “infestati” forniti dall'Imām mentre i secondi
vivevano in magnifiche ville appartenute ai turchi. E mentre i russi erano liberi di
girare senza costrizioni per la città, gli italiani erano costantemente spiati e
vedevano spesso invaso, da chiunque, il loro già insufficiente alloggio.
333 Ivi, pp. 189-190
334 Ibidem
335 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 9, Relazione Sarnelli sullo Yemen, 7 maggio 1932
336 C. Ansaldi, Nell'Arabia felice, Società italiana arti grafiche, Roma 1937, pp.47-48
337 Relazione Sarnelli
126
Parte delle colpe di questa situazione veniva attribuita anche alla stampa
italiana che, in occasione del trattato italo-yemenita del '26 aveva sostenuto che
il paese “si era dato a noi” e che era una zona di influenza esclusivamente
italiana.338 Il dottor Sarnelli, capo missione tra il maggio 1930 e il febbraio 1932,
riuscì con il tempo a risollevare le sorti italiane, procedendo inizialmente ad un
lento riavvicinamento con le personalità più in vista e non mancando di
controbattere alle accuse mosse dai russi. Grazie alla conoscenza della lingua il
Sarnelli comunicava direttamente con gli yemeniti e questo contribuì a diradare
la nube di diffidenza che aveva avvolto la missione italiana.
Intanto un nuovo contrasto tra Yemen ed Ḥiģiāz scuoteva la tranquillità della
penisola araba: oggetto del contendere era il Gebel el-'Arw (sempre nella
regione dell''Asīr), che era stato occupato da truppe yemenite; dopo che,
durante il 1931, si fu sfiorato più volte lo scontro, Ibn Sa'ūd e l'Imām giunsero
ad un accordo attraverso il quale il re saudita rinunciò ad el-'Arw e,
successivamente, i due paesi pervennero alla stipulazione di un trattato di
amicizia, sottoscritto il 15 dicembre del 1931.
In Italia nessuno si aspettava che la contesa venisse risolta senza il ricorso alle
armi, tant'è che Sarnelli, per completare il suo lavoro di riavvicinamento, si era
precipitato dall'Imām dichiarando che “ l'Italia era disposta a fornire tutto il
materiale bellico desiderato dall'amico Yemen, non curandosi che quel nostro
aiuto potesse toccare la sensibilità degli inglesi”. 339
L'accordo raggiunto senza combattere rappresenta anche la causa che portò
all'inizio del declino di Avvenire Arabo. Nella sezione italiana si potevano infatti
leggere: “ è una nobile e generosa lezione che i due paesi arabi hanno dato alle
potenze civili le quali hanno esaurito i mezzi e i rimedi per trovare una soluzione
ai conflitti resi insanabili dall'eccessiva ambizione, dal desiderio di vincere e
dominare e dalla mancanza di fiducia e generosità: se essi potessero riuscire a
scoprire una sorgente divina di bontà e di abnegazione, come se ne trovano
spesso, poiché esse sono innumerevoli, nel ricco dominio dell'Islam, tutti questi
conflitti che pongono la civilizzazione europea su un vulcano, sarebbero
spariti.”340
Questa fu giudicata una irresponsabile esaltazione del popolo arabo. Con
338 Ibidem
339 Ibidem
340 Avvenire arabo, n.3, 15 febbraio 1932, p.1, citato in M. Giro, Op. cit.
127
decreto del prefetto di Roma del 16 febbraio 1932, il terzo numero fu
sequestrato e sostituito con un altro senza l'articolo incriminato. Il ministero
delle colonie riuscì ad imporre che le bozze dei numeri successivi fossero
sottoposte alla visione del ministero stesso prima della pubblicazione. La
preoccupazione per le conseguenze sulla situazione in Libia era ancora troppo
forte per permettere una così forte esaltazione dei popoli arabi.
Da parte italiana la soluzione pacifica venne attribuita alla grave crisi economica
in cui versava il regno di Ibn Sa'ūd e al mancato appoggio della Gran Bretagna.
A ben vedere il trattato concordato tra i due paesi apportava almeno tre
importanti vantaggi ad Ibn Sa'ūd: 1) evitava una guerra che, se vinta, sarebbe
costata comunque molto in termini economici e di sangue, se persa avrebbe
potuto significare la definitiva caduta del sovrano wahabita; 2) offriva a Ibn
Sa'ūd il modo di fare a meno dell'altrui riconoscimento nella questione
dell'emirato idrisita (di cui originariamente facevano parte i territori contesi),
chiamando il vicino a farsi complice della spartizione del bottino; 3) permetteva
al sovrano dell'Ḥiģiāz di far bella mostra dei suoi intendimenti pacifici rispetto
agli altri popoli arabi, in un momento in cui le sue azioni subivano un
preoccupante ribasso.341
Inizialmente la notizia della cessione territoriale da parte di Ibn Sa'ūd gettò
un'ombra sulla ostinata bellicosità e sulla presunta imbattibilità del sovrano, ma
quando venne reso noto il trattato molti lo considerarono il suo più grande
successo. Di certo la notizia non aveva fatto piacere alla Gran Bretagna, che
vedeva consolidarsi la posizione del sovrano wahabita e, di conseguenza,
diminuire la propria capacità di controllo sullo stesso. 342
Per quanto riguarda le interpretazioni del trattato da parte italiana, le posizioni
erano piuttosto differenti: se il console di Ḥiģiāz, Neģd e dipendenze Sollazzo
riteneva che:
Quanto a noi, il trattato higiazeno-yemenita ci pone, a mio modo di giudicare, di fronte ad una
situazione affatto nuova. Di 'Asīr intanto non si sentirà più parlare per un pezzo, quel trattato
presupponendo un'intesa circa la sua sparizione come entità politica a sé stante. Il nuovo
accordo però avrà l'efficacia di modificare leggermente l'indirizzo della nostra politica in Arabia,
nel senso di un più marcato accostamento allo stato higiazeno-negediano divenuto, nonostante
talune gravi deficienze della sua organizzazione e tal'altre incompatibilità di natura ideologica,
341 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 9 fascicolo “Conflitto tra Ḥiģiāz e Yemen. Trattative Anglo Yemenite e Italo
Yemenite”, Rapporto del console Sollazzo
342 Ibidem
128
uno dei fattori politici più importanti del Vicino Oriente. 343
Secondo il console bisognava quindi cambiare almeno parzialmente rotta nella
politica seguita nella penisola araba, per avvicinarsi al regno di Ibn Sa'ūd, ormai
assurto al ruolo di leader del vicino oriente.
Di opinione differente era invece il Governatore dell'Eritrea Astuto:
Se concordo con il R. Console nell'Ḥiģiāz circa l'eliminazione definitiva come entità politica
dell'emirato idrissita, ritengo che sia azzardato dedurne che di 'Asīr non si sentirà più parlare per
un pezzo e che il trattato di amicizia segni una pace definitiva tra i due regni, perché ciò significa
attribuire a tale avvenimento l'efficacia morale e giuridica di sgomberare il terreno di ogni futura
pretesa e rivalità, ciò che, soprattutto nelle mentalità orientali, è ben lungi dalla realtà. Non
ritengo, infine, che si possa affermare che l'Ḥiģiāz, solo per aver stipulato un trattato che gli
assicura la tranquillità sui confini con lo Yemen, è divenuto “ uno dei fattori politici più importanti
del Vicino Oriente”. Non potrebbe lo stesso argomento valere anche per lo Yemen, che con
questo trattato si è assicurato almeno una tregua alla ostilità uahabita, che fino a pochi mesi fa
sembrava così grave e così preoccupante? E che si è assicurato ciò non con concessioni, ma
con acquisti territoriali? Premesse queste considerazioni, rilevo che la debolezza, che ha indotto
Ibn Sa'ūd a cedere alle pretese dell'Imām Jahia, trae le sue ragioni, secondo le affermazioni del
R. Console italiano a Gedda, non solo dalla difficile situazione politica e finanziaria interna dell'
Ḥiģiāz, ma ancora dalla tensione dei rapporti tra questo stato e l'Inghilterra. Nulla da opporre alla
constatazione di fatto, ma non bisogna da questa pensare di dedurne che l'Italia possa
rivaleggiare o contrastare con la potenza britannica sulla base dell'influenza nell' Ḥiģiāz. L'attuale
malumore degli inglesi non può essere che un fenomeno contingente e transitorio; troppo grande
è l'influenza britannica tra i popoli arabi per pensare che il Sovrano della Mecca possa uscire
dall'orbita della politica inglese. Quale interesse rappresentiamo noi per l'Ḥiģiāz? Quello dei pochi
pellegrini che dai nostri domini si recano nei Luoghi Santi? È evidentemente troppo poco, ed Ibn
Sa'ūd, ove credesse per un istante di fondarsi sulla nostra amicizia per svincolarsi dall'influenza
inglese e conquistare una maggiore autonomia, si accorgerebbe ben presto di aver commesso
un grosso errore di calcolo. Occorre guardare, ripeto, alla realtà; e la realtà, malgrado il trattato di
amicizia già stipulato tra Ḥiģiāz e Yemen, malgrado tutti i probabili, futuri trattati di amicizia e di
reciproco riconoscimento tra l'Yemen e l'Inghilterra, si fonda sui seguenti caposaldi:
La nostra amicizia con lo Yemen data già da qualche tempo e nessuna ragione oggi è tale da
indurci a mutare una linea di condotta, che già adesso ci da dei vantaggi, che non sarò certo io a
sopravvalutare ma che non vanno certo neppure annullati e che col tempo e con la pazienza ci
permette di sperare il sorgere e il consolidarsi di una di quelle situazioni politiche che derivano
dalle amicizie tradizionali.
Nello Yemen noi possediamo una breve rete di uffici sanitari, che ci permette un'opera di
penetrazione tra le popolazioni di cui nessuno può misconoscere l'importanza e l'efficacia.
Nello Yemen noi abbiamo già iniziative commerciali e ad esse occorrerà dare ogni maggiore,
possibile sviluppo. Gli unici europei che ci facciano alla data odierna una concorrenza su questo
343 Ibidem
129
mercato sono i russi, ma non è impossibile combattere e vincere tale concorrenza. Lo Yemen
rappresenta quindi per noi l'unico mercato dell'Arabia nel quale sarà ci sarà facile affermarci su
solide basi.
Tutti gli avvenimenti, anche un futuro, eventuale, accordo tra lo Yemen e l'Inghilterra, per il
reciproco riconoscimento in Arabia, non avranno mai eccessive conseguenze sui nostri rapporti
con l'Imām, purché la nostra amicizia si consolidi attraverso l'espansione di una rete di interessi,
purché sia costante in noi la preoccupazione di mantenere agli attuali rapporti quel prestigio che
loro deriva dall'aver preceduto nel tempo tutte le altre amicizie e purché l'Imām veda sempre in
noi la potenza disposta a proteggerlo anche contro quei pericoli ai quali si trova esposto in
conseguenza delle amicizie più recenti e meno disinteressate. Occorre non dimenticare che
Ḥiģiāz ed Inghilterra confinano con lo Yemen e che tra potenze confinanti le cause di attrito sono
infinite, mentre, da questo punto di vista, il Governo italiano è per l'Imām l'amico più
disinteressato ed innocuo.
Lo Yemen non è certamente “uno dei fattori politici più importanti del Vicino Oriente” e sarebbe
un errore ritenere che questa nostra amicizia ci permetta di penetrare nel gioco delle potenze
orientali; ma, a mio avviso, i fattori politici più importanti dell'Oriente si trovano in Europa e non so
quale esito potrebbe avere un tentativo di immischiarci, dato, ma non concesso, che questo
possa farsi col solo mezzo di una politica di amicizia con l'Ḥiģiāz, nel giuoco delle maggiori
potenze orientali: Inghilterra e Francia. Lo Yemen: per la sua posizione geografica, che lo pone
un po' ai margini della politica orientale, e gli permette di mantenere nei confronti delle grandi
potenze dominatrici una certa indipendenza; per il grado arretrato del suo sviluppo civile; per la
diffidenza che lo anima verso gli europei e che fino ad oggi soli abbiamo entro certi limiti potuto
vincere, ci offre solo la possibilità di una finestra dalla quale guardare i ludi imperialistici che si
celebrano nel vicino Oriente. Ritengo però che sia opportuno accontentarci di questa seconda,
più modesta, ma più sicura, possibilità.
Una linea di condotta di amicizia ad oltranza con Ibn Sa'ūd susciterebbe senza dubbio contro di
noi le diffidenze dell'Imām Jahia, che, malgrado il trattato di amicizia che lo lega attualmente
all'Ḥiģiāz, rimane pur sempre in netto antagonismo con il regno vicino: antagonismo per
l'egemonia della penisola arabica. Anche volendo attribuire a questa considerazione un valore di
attendibilità limitato, ritengo che non sia assolutamente il caso di correre l'alea di una rottura con
lo Yemen al solo scopo di inseguire il sogno di una effettiva influenza nell'Ḥiģiāz, ove per ragioni
finanziarie, economiche e politiche gli inglesi conserveranno sempre una situazione di privilegio o
quanto meno avranno sempre la forza di impedire che altri li soppianti.
Da tutto quanto ho esposto ed illustrato ritengo di poter concludere che il nostro indirizzo politico
in Arabia non dovrebbe mutare le sue basi fondamentali che sono: mantenimento e
consolidamento di rapporti di amicizia con lo Yemen ed opera di penetrazione tra questo popolo,
rafforzandovi una nostra rete di interessi e di scambi commerciali che ci assicurino una assoluta
preminenza su questo mercato; atteggiamento genericamente amichevole verso tutti gli altri stati
arabi (ed in questo quadro possono trovare il loro posto i trattati di amicizia e commercio che
saranno prossimamente firmati con l'Ḥiģiāz), che ci permetta di diffondere la sensazione di una
130
nostra funzione equilibratrice, consona alla nostra qualità di grande potenza; evitare
intemperanze ed entusiasmi improvvisi, ora per questo ora per quello Stato arabo, che
potrebbero dare la sensazione di una mutevolezza di atteggiamenti non corrispondente alla
nostra dignità ed al nostro prestigio... L'Italia, in questo campo, non è, purtroppo, che agli inizi, e
chi comincia non ha la possibilità di servirsi di varie corde per il proprio arco... La serietà e la
continuità che dimostreremo nella nostra linea di condotta saranno, forse, gli elementi a noi più
favorevoli per dare un alto concetto di quanto valga la nostra amicizia; i trattati che impegnano
senza attribuire vantaggi corrispettivi sono sempre fatti in pura perdita; specialmente nell'Oriente
si può essere amici senza essere legati da un trattato; i rapporti non consacrati da legami
giuridici danno diritto a compensi ogni qualvolta una delle parti ha interesse a richiedere una
prova tangibile di amicizia; le amicizie, dal momento del loro regolamento giuridico, perdono di
valore perché sono dovute.344
Questi due documenti sono importanti per una serie di ragioni: nel rapporto di
Sollazzo troviamo quelle caratteristiche di improvvisazione e mancanza di linee
guida che emergono frequentemente in questo periodo nella politica fascista,
specialmente in oriente; l'idea è quella di seguire, diremmo supinamente, gli
avvenimenti senza un progetto preciso, se si esclude quello di schierarsi dalla
parte più conveniente al momento.
Più complessa e più lungimirante la posizione di Astuto, suggerita dalla sua
esperienza di governatore dell'Eritrea, ruolo che gli aveva permesso più volte di
scontrarsi sia con la situazione dello Yemen che con la dura realtà delle risicate
possibilità, soprattutto economiche, dell'Italia.
Soltanto qualche mese più tardi, infatti, Astuto avrà modo di far notare che le sue
casse erano allo stremo e, se non si volevano perdere le posizioni acquisite nello
Yemen, bisognava necessariamente stanziare ulteriori fondi. Alla pochezza
economica italiana si aggiungeva anche la scarsa propensione dell'Imām a
saldare i propri debiti, per cui non c'era mai modo di far respirare le malandate
casse del governatorato. Si era addirittura giunti al pericolo di non poter
soddisfare le ordinazioni di materiale da parte dell'Imām, se questi non avesse
anticipato i pagamenti.345 La posizione di Astuto era confermata da un
precedente rapporto della direzione generale del ministero degli affari esteri. 346
344 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 9, “Rapporti Italia Yemen Higiaz” Astuto, Asmara 2 febbraio 1932
345 ASMAE, Arabia b. 9, fascicolo “Spese politiche per lo Yemen”, Rapporto Astuto 30 novembre 1932:
A questo proposito Astuto scriveva: è superfluo ch'io rilevi che un siffatto sistema, finora da noi non seguito, non
gioverebbe certo ai nostri rapporti col governo yemenita; tenuto conto specialmente che è, appunto, nel campo delle
forniture di materiali e di prestazioni di personale che si esplica l'attività di penetrazione delle nazioni europee nello
Yemen e che, come ho già accennato, né forza di trattati, né precedenti facilitazioni, elargizioni e prove di amicizia
trattengono lo Yemen dall'accattare, in questo campo, quelle offerte, da qualsiasi parte provengano, che prestino
maggiori vantaggi, sia per il prezzo che per le altre condizioni di pagamento.
346 Ivi, Relazione a sua eccellenza il Ministro per gli Affari Esteri da parte della direzione generale, 23 maggio 1932
131
Ma soprattutto il governatore dell'Eritrea mostrava una conoscenza dei problemi
dei paesi in questione più profonda di quella di Sollazzo: intuiva che la pace
riguardo l''Asīr era soltanto provvisoria e, soprattutto, suggeriva a ragione di
attenersi ad una politica il più possibile realista. Inutile rischiare di perdere
quanto di buono si era costruito nello Yemen per andare dietro ad improbabili
sogni di gloria, tentando di scalzare l'Inghilterra dal ruolo predominante che
svolgeva nella penisola arabica senza, tra l'altro, avere validi argomenti di
persuasione verso il regno dell'Ḥiģiāz.
Un elemento che poteva, a ragione, far temere ad Astuto di compromettere il
rapporto con lo Yemen, risiede in un aspetto non di poco conto: nonostante le
relazioni andassero avanti da anni, ancora non si era riusciti a convincere l'Imām
ad accettare un rappresentante ufficiale del governo, per cui erano soltanto i
medici della missione sanitaria a Ṣan'ā' a fungere da tramite con Yaḥyà.347 Non
sappiamo
valutare
quanto
incidesse,
in
questa
scelta
dell'Imām,
il
summenzionato malcontento degli yemeniti per essere costretti a trattare con il
governatorato eritreo e non con il governo centrale. Per uscire da questa
situazione, che cominciava ad avere del paradossale, Astuto proponeva di
inviare una lettera all'Imām a firma del capo del governo o del ministro degli
esteri, per spiegargli che veniva utilizzato come tramite il governatore dell'Eritrea
soltanto perché era il funzionario più alto in grado nel Mar Rosso; ciò non
toglieva che, per le questioni più importanti, egli riportasse direttamente al
governo e ne eseguisse le volontà. Al fine di agevolare il contatto diretto con il
governo, bisognava a questo punto riproporre l'invio di un rappresentante
ufficiale. In realtà le cose non sarebbero mutate e la missione sanitaria sarebbe
rimasta l'unico tramite tra governo centrale e governo yemenita.
Nonostante queste difficoltà, l'idea di poter assumere un ruolo decisivo in oriente
attraverso un avvicinamento ad Ibn Sa'ūd non teneva nel debito conto un fattore
fondamentale, ovvero che ancora in quel tempo gli equilibri della zona si
decidevano in Europa e, di conseguenza, forzare troppo la mano avrebbe
significato rischiare lo scontro, in questo caso con l'Inghilterra, a cui ovviamente
l'Italia non era assolutamente preparata.
Non si poteva far altro che proseguire nel percorso tracciato fino a quel
347 Ivi, Appunto per S.E. Il Capo del Governo, 29 giugno 32: non da ora ma da anni il Ministero degli Esteri ha fatto fare
tentativi presso l'Imām per indurlo ad accettare a Ṣan'ā' un rappresentante, ufficiale o ufficioso, del R. Governo. Sinora
tali tentativi non sono stati coronati da successo.
132
momento, facendo in modo di dare l'impressione di essere una potenza
coerente, la cui amicizia poteva, e doveva, rappresentare un valore aggiunto.
Inoltre bisognava riprendere con nuova forza il progetto della penetrazione
commerciale, il cui affievolimento, come abbiamo visto, era già stato causa di
numerosi problemi. A questo proposito, il 2 maggio del 1931 era già stata
fondata la Società Anonima di Navigazione Eritrea (S.A.N.E.), che avrebbe
dovuto occuparsi direttamente del commercio del caffè, delle armi e del petrolio,
avendo ottenuto l'esclusiva del petrolio russo. Questo senza trascurare l'attività
politica, motivo per il quale la società era stata costituita con fondi pubblici. 348
Soltanto così si poteva sperare, nel lungo termine, di ottenere dei frutti.
In definitiva, la posizione del governatore eritreo sembrava essere quella con più
prospettive, ed infatti la politica dei piccoli passi proposta da Astuto fu quella
sostanzialmente intrapresa dall'Italia, che, sfruttando il momento favorevole
scaturito dall'accordo raggiunto dai due paesi della penisola arabica, riuscì
nell'intento di migliorare i rapporti con il regno di Ibn Sa'ūd: il 10 febbraio 1932
venne firmato un trattato di amicizia e di commercio con i sauditi che prevedeva
il riconoscimento di Ibn Sa'ūd quale sovrano di Ḥiģiāz, Neģd e dipendenze. I
contenuti dell'accordo, è bene dirlo, erano molto vaghi e non segnavano certo
una svolta epocale nei rapporti tra i due paesi. Il Giornale d'Italia commentava:
I trattati che sono stati or ora firmati, mentre da un lato sono la espressione della funzione
economica che l'Italia ha, e deve giustamente avere, nel Mar Rosso, con la sua colonia Eritrea,
dall'altra parte costituiscono un riconoscimento dello stato di fatto che si è stabilito negli ultimi
anni nella penisola arabica, con l'affermazione politica e militare di Ibn Sa'ūd, e con la
restaurazione, sotto il suo nome, del regno del Ḥiģiāz... A proposito del riconoscimento di Ibn
Sa'ūd quale Sovrano del Ḥiģiāz, esso non costituisce nulla di più di un riconoscimento di uno
stato di fatto. Lo stesso Sa'ūd ha recentemente stipulato accordi per regolare, fra l'altro, l'annosa
e delicata questione dei confini tra il Ḥiģiāz e lo Yemen, con cui l'Italia concluse già nel 1926 un
Trattato di amicizia e mantiene tuttora le più cordiali relazioni. Il riconoscimento dell'Italia non
appare, perciò, che come una integrazione.349
Nei confronti dello Yemen, la scelta di guardare ai principali rivali della zona
poteva rappresentare un'arma da utilizzare nel momento del bisogno, ma
avrebbe potuto anche significare la rottura definitiva con l'Imām Yaḥyà, tanto che
l'articolo citato sembrava voler giustificare la scelta compiuta come inevitabile, e
348 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 8, Lettera del consigliere delegato S.A.N.E. Fagiuoli, 28 Aprile 1932
Negli anni precedenti allo stesso scopo era stata fondata la Società Commerciale Italo-Araba (S.C.I.T.A.R.) cui però la
concessione petrolifera venne ritirata dall'Imām dopo un solo anno.
349 Oriente Moderno 1932, p.93
133
comunque conseguente ad accordi già intercorsi tra Sa'ūd e lo Yemen. In questa
prudenza ritroviamo i suggerimenti e le considerazioni del Sarnelli riguardo le
direttive da impartire alla stampa, per evitare che le notizie giungessero
ingigantite e manipolate nello Yemen.
Alla base di questo trattato c'era la volontà di interferire ulteriormente con le
posizioni britanniche, pur non assumendo un atteggiamento di aperta ostilità.
All'inizio degli anni Trenta il Foreign ed il Colonial Office cominciarono a nutrire
seri dubbi sulle inclinazioni filo britanniche di Ibn Sa'ūd, viste le scorrerie ai
confini con Iraq e Transgiordania, composte poi con l'intervento britannico.
Inoltre il sovrano saudita rivendicava il porto di Aqaba, che gli inglesi volevano
invece trasformare in una piazzaforte marittima, benché al tempo della rivolta
araba fosse stato tolto agli Ottomani proprio dalle truppe di Re Husayn e quindi
avrebbe dovuto passare ai nuovi padroni del Ḥiģiāz. 350 La convergenza politica
tra i due paesi nasceva quindi da comuni interessi: l'Italia puntava
sull'impopolarità della Gran Bretagna, il governo saudita cercava un alleato
europeo. Un ruolo importante lo giocò senza dubbio il sempre più difficile
sviluppo della situazione in Palestina, a proposito del quale Ibn Sa'ūd si era
espresso a favore della popolazione araba.351
Nonostante la prudenza italiana, ricominciarono a circolare voci di aspirazioni
italiane sullo Yemen: il giornale Filasṭīn di Giaffa riportava questa notizia352 e
sosteneva che Yemen e Ḥiģiāz fossero in procinto di concludere un accordo
difensivo da allegare al trattato appena firmato; probabile che dietro questa
notizia ci fosse la mano dell'Inghilterra, ma è anche vero che l'eventualità
prospettata si prestava bene anche alla propaganda panaraba.
In realtà, sul piano pratico, l'accordo non acquistò rilevanza immediata, visto che
la convergenza di massima raggiunta con l'Inghilterra nel '27 consigliava di non
azzardare una politica eccessivamente filo-saudita. Questa ambiguità nella
condotta italiana può, in definitiva, essere letta in due modi: accentuare le
posizioni filo-islamiche, andando oltre i contrasti particolari che caratterizzavano
il mondo arabo e presentarsi come potenza pacificatrice o, come detto, attuare
un piano di disturbo nei confronti britannici. Di certo la politica bifronte degli ultimi
tempi non accennava a trovare una soluzione univoca. Anche dal punto di vista
350 V. Strika, Le relazioni tra l'Italia e l'Arabia Saudita negli anni 1932-1942, in “Levante” n.27, 1985, p. 35; C. Leatherdale,
Britain and Saudi Arabi (1925-1939), London 1983, p. 166
351 V. Strika, Cit., p. 36; C. Leatherdale, Cit., p. 166
352 "Oriente Moderno" 1932, p. 294
134
commerciale i rapporti tra i due paesi non ebbero lo sviluppo atteso: il regno
saudita non era ancora molto allettante dal punto di vista commerciale, visto che
mancava sia una industria di stato che iniziative private valide. 353 D'altro canto,
da parte italiana mancavano investitori intenzionati, o più semplicemente in
grado di avviare rapporti commerciali o di valorizzazione delle risorse del
sottosuolo; a questo proposito esemplare è la questione del monopolio
decennale per la vendita di automobili nel regno saudita, concesso alla Ford
dopo che con la Fiat non fu possibile trovare un accordo. Allo stesso modo la
concessione petrolifera concessa nel 1933 alla Standard Oil Company of
California era stata offerta anche all'Italia, ma gli scarsi mezzi a disposizione
dell'AGIP e la titubanza del governo italiano non avevano permesso il
raggiungimento di un accordo. Cinque anni dopo un enorme giacimento di
petrolio sarebbe stato scoperto dalla compagnia americana. 354
Tuttavia le conseguenze non furono immediate, grazie alla condizione di relativa
tranquillità che, per circa un anno, caratterizzò i rapporti tra Yemen e regno
saudita; in questo periodo cominciarono ad acuirsi i già noti problemi di salute
dell'Imām, affetto da “nefrite emorragica”, patologia renale che lo costringeva a
letto in preda a febbre molto alta. Egli si fece curare dai medici italiani, che da
questo momento in poi lo seguiranno costantemente. 355
Intanto ricominciavano le prime scaramucce causate da alcune tribù residenti
nell''Asīr che, probabilmente per conservare un minimo di indipendenza,
continuavano a giurare fedeltà alternativamente allo Yemen o al regno saudita.
Questa situazione aveva portato il figlio dell'Imām, Seif-el-Islàm Ahmed, ad
intraprendere una spedizione militare contro di loro, conclusa con l'uccisione di
una ventina di ribelli. Per il momento i sauditi non reagirono, mentre l'Italia,
tramite Astuto, si complimentava prontamente per il risultato della spedizione. 356
Come se non bastasse, un nuovo fronte di possibile conflitto si apriva al confine
tra lo Yemen ed il protettorato di Aden: l'Imām, per una questione di tributi non
pagati e in seguito al tentativo di uccidere un suo messo, aveva inviato un
drappello armato contro la tribù dei Murad, colpevole del misfatto.
Questi si ribellarono apertamente all'autorità yemenita, ma furono costretti alla
353 V. Strika, Cit., p. 37
354 M. Pizzigallo, La diplomazia dell'amicizia. Italia e Arabia Saudita (1932-1942), Edizioni Scientifiche Italia, Napoli 2000, pp.
70-73
355 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 11, Notiziario politico Arabia, Marzo-Aprile 1933
356 Ibidem
135
fuga dai soldati dell'Imām e ripararono nei territori di un'altra tribù, stanziata
anch'essa al confine con Aden, quella dei Mussabain. I capi di questa invocarono
aiuto da parte del protettorato e chiesero armi; secondo alcuni gli inglesi
avrebbero immediatamente intimato all'Imām di porre fine alla sua azione,
minacciando bombardamenti, mentre altre voci sostenevano che ad Aden non ci
si era lasciati convincere dai Mussabain, che erano soliti ingigantire i fatti per
ottenere armi. Comunque stessero le cose, si rischiava di acuire la già latente
tensione tra inglesi e yemeniti.357 I sospetti nei confronti delle intenzioni
britanniche aumentarono quando venne comunicata la decisione di sottrarre
Aden al governo dell'India, cui era sottoposto fino a quel momento, per porlo alle
dirette dipendenze del Colonial Office.
La nuova prospettiva di conflitto, in special modo quella tra i due regni arabi per
l'ennesima divergenza sull''Asīr, apparve all'Italia come una nuova possibilità di
giocare un ruolo di primo piano nella penisola araba: le azioni belliche yemenite,
che non avevano trovato per il momento reazione da parte saudita, persuasero il
Regio ministro di Gedda De Peppo della debolezza di Ibn Sa'ūd, che a suo
parere rischiava di finire definitivamente sotto il giogo inglese. Per evitare che ciò
accadesse, l'Italia avrebbe dovuto fungere da elemento di equilibrio tra i due
paesi e spingere per una politica di collaborazione tra il re saudita e l'Imām, in
modo da ribadire il proprio peso nella penisola. 358 Le intenzioni italiane di
riacquistare consenso e peso erano percepite, e temute, da parte inglese. 359
La politica dell'equilibrio non doveva però chiudere del tutto le porte al dialogo
con i ribelli dell''Asīr, specialmente quelli che miravano ad una sistemazione
politica della regione che non fosse contraria ai desideri dell'Imām. Tutto ciò
sarebbe dovuto avvenire senza perdere di vista l'obiettivo principale: fare in
modo che Ibn Sa'ūd rimanesse sul suo trono, poiché una sua caduta sarebbe
quasi certamente coincisa con l'ascesa al trono di qualche personaggio fedele
agli inglesi.360
Gli scontri e le ribellioni proseguirono senza soluzione di continuità, anche se il
re saudita tentava di non scatenare una vera e propria guerra; a questo
proposito il suo governo, nella persona del sottosegretario agli esteri Fuad
Hamza, si rivolse a De Peppo per chiedergli, in nome del trattato tra le due
357 Ivi, Notiziario Politico Arabia, Maggio-Giugno 1933
358 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia busta 11, Rapporto su Ibn Sa'ūd di De Peppo, 19 aprile 1933
359 J. Baldry, Cit., p. 190
360 ASMAE, A.P. 1931-1945 Arabia b.11, Istruzioni per il Regio ministro a Gedda
136
nazioni da poco concluso e dell'antica amicizia con lo Yemen, di “voler usare
della sua influenza per cercare di convincere l'Imām Yaḥyà che egli, Ibn Sa'ūd,
non soltanto non ha la minima intenzione aggressiva, ma è animato dal vivo
desiderio di collaborare sempre più cordialmente ed intimamente con l'Imām
Yaḥyà nel reciproco interesse della loro indipendenza e per il bene dell'Islàm.”
Per migliorare le modalità di comunicazione tra i due governi, Hamza rilanciava
l'idea di istituire relazioni postali e telegrafiche dirette. 361
La perdurante tensione convinse gli inglesi della necessità di un accordo con
l'Imām, forse nel tentativo di spaventare il re saudita, prospettandogli la
possibilità di un mancato appoggio nel caso di un conflitto; da parte yemenita,
come sempre, i dubbi e i sospetti sulle reali intenzioni delle potenze straniere
non giocavano a favore di una rapida trattativa, ed infatti i negoziati andarono
avanti fino al febbraio '34, quando finalmente l'accordo venne siglato.
Nel frattempo il governo italiano aveva abbandonato del tutto la possibilità di
appoggiare i ribelli dell''Asīr, e si era limitata a far sapere loro che, qualunque
fosse la soluzione finale, avrebbe dovuto essere aderente alle volontà dell'Imām.
In sostanza la speranza italiana, coincidente con quella dei ribelli, era quella che
si costituisse uno stato indipendente nella regione, che fungesse da cuscinetto
tra Yemen e regno saudita.
Nonostante i tentativi di scongiurare la guerra, i primi scontri armati ebbero inizio
il 21 marzo del '34, accolti con delusione dai paesi del Medio Oriente la cui
stampa spinse immediatamente per la fine delle ostilità. 362 In contemporanea si
verificò un raffreddamento delle relazioni italo-saudite, almeno stando alla
carenza di documenti relativi al periodo di guerra.
Poco meno di un mese dopo, il 12 aprile, constatata la vittoria militare da parte
del regno saudita, Yaḥyà chiese un armistizio, accettato da Ibn Sa'ūd; si
prevedeva il ritiro immediato dall''Asīr delle truppe yemenite, cosa però che non
avvenne nei tempi stabiliti. Il 26 aprile le ostilità ripresero con nuova forza,
segnando il travolgente successo dei sauditi: lo Yemen si vide costretto, il 13
maggio, a chiedere un nuovo armistizio, cui cinque giorni dopo seguì l'inizio della
conferenza di pace tra i delegati dei due stati belligeranti.
Anche in occasione di questo conflitto la città di Hodeidah fu al centro di un
361 ASMAE, A.P. 1931-1945 Arabia b.11, Conversazioni di De Peppo con Hamza
362 “Oriente Moderno” 1934, pp. 170-176
137
momento di grossa tensione, stavolta riguardante direttamente l'Italia e la Gran
Bretagna: quando fu chiaro che le ostilità sarebbero riprese, truppe inglesi
sbarcarono in città, per difenderla dalla minaccia di saccheggi da parte delle tribù
vicine, che intendevano approfittare dell'assenza delle truppe yemenite, fuggite
alla notizia dell'approssimarsi dei sauditi. Gli inglesi temevano che la loro azione
avrebbe potuto giustificare una iniziativa simile da parte italiana; questa paura si
dimostrò parzialmente esatta due giorni dopo, quando una imbarcazione italiana
sbarcò quindici soldati somali e quattro ufficiali italiani, seguiti il giorno dopo da
altri soldati somali ed ufficiali italiani, con l'intento di offrire protezione alla
popolazione europea. Quando giunsero le truppe saudite gli inglesi, dopo aver
ricevuto assicurazioni sulla sicurezza degli europei, lasciarono la città. Gli italiani
fecero sbarcare ulteriori truppe provocando le rimostranze saudite, nonostante la
dichiarazione di neutralità nel conflitto e sulla loro presenza dettata unicamente
dalla preoccupazione per l'incolumità degli europei. Soltanto dopo la firma del
trattato di pace le truppe italiane lasciarono Hodeidah. 363
Un primo schema di trattato venne rigettato dal sovrano yemenita, senza però
che ci fosse una ripresa dell'attività bellica, se si esclude un attacco a sorpresa
delle truppe saudite, condannato dallo stesso Ibn Sa'ūd. Il trattato di pace venne
infine ratificato il 19 giugno: il regno saudita ottenne degli aggiustamenti
territoriali in proprio favore e rinunciò a chiedere un'indennità di guerra.
La moderazione di Ibn Sa'ūd in occasione dei negoziati gli permise di
guadagnare apprezzamento e consenso in larga parte del mondo islamico,
specialmente in Siria, Palestina ed Iraq: 364 il sovrano cominciò ad essere
considerato il campione del risveglio arabo. Con la fine del conflitto anche i
rapporti italo-sauditi conobbero un netto miglioramento, come dimostra la visita
di Fuad Hamza, sottosegretario di stato saudita, che venne ricevuto da Suvich e
Mussolini.
Questo nonostante alla fine delle ostilità si fosse scatenata una campagna
stampa ostile all'Italia: il Manchester Guardian sosteneva che Yaḥyà fosse stato
aizzato contro Sa'ūd dal governo italiano, mentre altri giornali scrivevano invece
che per iniziativa italiana si andava preparando un complotto contro l'Imām. 365
In Italia non si escludeva che il rinnovato interesse dei sauditi nei confronti di
363 J. Baldry, Cit., pp. 190-193
364 ASMAE, Gab. 1923-1943, busta 1059, Relazione per il Sottosegretario di stato Suvich sulla prossima visita di Fuad, 9
settembre 1934
365 "Oriente Moderno" 1934, pp. 434-435
138
Roma fosse dovuto “all'attuale situazione della penisola araba, divisa in due
blocchi rivali, quello hascemita controllato completamente dalla Gran Bretagna
(Iraq e Transgiordania) e quello saudita che, pur non essendo infeudato
ufficialmente al sistema britannico, deve ad esso e al suo appoggio la sua
ascesa. L'Inghilterra manovra la situazione a piacimento, imponendo una sorta di
pax britannica. Un avvicinamento ai sauditi è dunque auspicabile e non si pensa
possa essere causa di dissidi con lo Yemen”.366
In occasione del colloquio di Hamza con Suvich si parlò delle buone prospettive
dei rapporti tra i due paesi, tramite i quali i sauditi intendevano impedire che il
Mar Rosso divenisse un lago britannico. L'Italia si proponeva come nazione
amica dei paesi arabi e si felicitava della pace raggiunta tra sauditi e yemeniti.
L'incontro tra i due si concludeva parlando della difficile situazione in Siria e della
intollerabile situazione degli arabi in Palestina. 367
Lo stesso sottosegretario saudita volle ribadire, in una intervista al Giornale
d'Italia, che i rapporti con l'Italia, nonostante le voci messe recentemente in giro,
erano ottimi; colse anche l'occasione per esaltare la figura del duce. 368 Prima di
lasciare l'Italia Fuad visitò l'Istituto per l'Oriente, di cui fu nominato socio
onorario; per l'occasione il Nallino tenne un applaudito discorso in arabo. 369
Per lo Yemen il 1934 non fu soltanto un anno di guerra: si intensificarono i
rapporti diplomatici e, dopo aver sottoscritto il trattato commerciale e di amicizia
con la Gran Bretagna, l'Imām pensò di prendere ulteriori precauzioni nei
confronti della supposta invadenza italiana e, approfittando di una visita di una
delegazione etiopica si mostrò interessato a concludere un trattato di amicizia e
commercio. Questo trattato venne firmato a Ṣan'ā' il 22 marzo 1935 e ratificato il
21 settembre; il Foreign Office britannico ne venne a conoscenza soltanto nel
marzo 1936, mentre Roma venne informata subito: la stipulazione dell'accordo
potrebbe aver avuto un peso decisivo nell'aggressione all'Etiopia, prima che si
stabilisse un vero e proprio blocco ostile formato dalle due nazioni.
Se i rapporti con lo Yemen si facevano più complicati, esattamente l'opposto
accadeva con il regno saudita, che sembrava particolarmente interessato ad una
politica di avvicinamento all'Italia: all'inizio del '35 Fuad Hamza chiedeva a
366 ASMAE, Gab. 1923-1943, busta 1059, Relazione per il Sottosegretario di stato Suvich sulla prossima visita di Fuad, 9
settembre 1934
367 ASMAE, Gab. 1923-1943, busta 1059, Rapporto di Suvich sul colloquio avuto con Fuad Hanza, 10 settembre 1934
368 Il Giornale d'Italia, 14 settembre 1934
369 "Oriente Moderno" 1934, p. 496
139
Persico, Regio ministro a Gedda, un parere sulle intenzioni del suo governo di
entrare nella Società delle Nazioni; la richiesta mise in qualche difficoltà l'Italia,
che già si apprestava a contestare la legittimità della partecipazione etiope alla
Società delle Nazioni, ragion per cui non sembrava il caso di favorire l'ingresso a
Ginevra di uno stato come quello arabo che si trovava in “condizioni sociali e
politiche arretrate”.370 In altre parole, sarebbe risultato contraddittorio esprimere
reticenza sulla partecipazione dell'Etiopia alla S.d.N., basandosi sul suo stato di
arretratezza, e poi favorire l'ingresso di un paese dalle condizioni socio-politiche
molto simili.
Ma nel momento in cui si gettavano le basi per la campagna etiope non si poteva
correre il rischio di inimicarsi un paese che, come lo Yemen, occupava una
posizione geografica strategica e da cui sarebbero potuti venire dei problemi. Si
pensò quindi di invitare Persico ad evitare di dare una risposta ad Hamza e, se
proprio questi avesse insistito, avrebbe potuto rispondere che “per quanto il
Regio Governo vedrebbe con simpatia l'ammissione del Regno arabo-saudiano
nella Società delle Nazioni, sembra che osti a ciò la mancanza di una condizione
fondamentale, quella cioè della determinazione delle frontiere”. 371
Questo aspetto, si doveva aggiungere, avrebbe con tutta probabilità causato il
respingimento della domanda di ingresso nella S.d.N., cosa che avrebbe
causato un notevole danno di prestigio al regno saudita.
In particolare l'Italia faceva riferimento alla questione della città portuale di
Aqaba, che proprio in questo periodo tornava di attualità per dei presunti lavori
militari ivi iniziati dagli inglesi. Nel 1925, durante la guerra tra Ibn Sa'ūd ed il re
dell'Ḥiģiāz Husayn la città, originariamente appartenente a quest'ultimo, venne
ceduta da suo figlio, su pressione dell'Inghilterra, alla Transgiordania.
Ovviamente il re saudita contestava questa scelta, poiché ormai Husayn era di
fatto destituito e quindi non poteva cedere territori su cui non aveva giurisdizione.
Strategicamente la scelta di far ricadere la responsabilità del mancato
accoglimento nella Società delle Nazioni sulla Gran Bretagna era piuttosto
intelligente; inoltre Mussolini in persona, in occasione della visita a Roma del
principe ereditario saudita del maggio '35, durante una conversazione con
Hamza rilanciò il problema della sovranità su Aqaba e, quando il sottosegretario
370 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b. 16, fascicolo Rapporti politici Saudia 1, Telespresso del Ministero Esteri alla
Legazione di Gedda
371 Ibidem
140
arabo gli chiese appoggio qualora l'Ḥiģiāz avesse sollevato la questione contro
l'Inghilterra, il duce si dichiarò del tutto disponibile. 372 Radio Bari, alla quale Sa'ūd
aveva consegnato un messaggio, diede grande rilievo agli incontri, contribuendo
alle apprensioni britanniche per la Palestina. 373
In tal modo venne superato un ostacolo che avrebbe potuto essere davvero
deleterio per il governo italiano. In questa stessa occasione l'Italia si assicurò la
benevola neutralità del regno saudita in caso di guerra con l'Etiopia.
Effettivamente Ibn Sa'ūd mantenne la parola, anche quando fu sollecitato dal
Negus ad entrare in rapporti con il suo governo. Ciò non evitò che una fetta
dell'opinione
pubblica
saudita
si
schierasse
dalla
parte
dell'Etiopia,
fondamentalmente perché, stando al parere di Persico, nelle famiglie di Gedda,
Mecca e Medina c'erano molti “incroci di sangue tra arabi e donne abissine
vendute qui come schiave”; in qualche circostanza anche la stampa si fece
esponente di una corrente filo-etiopica.374
Altri elementi che contribuirono a rafforzare i rapporti tra i due paesi furono: la
pronta solidarietà espressa da Mussolini al sovrano wahabita in occasione del
fallito attentato perpetrato ai suoi danni durante il pellegrinaggio del '35, l'invio di
allievi sauditi alla scuola di pilotaggio italiana e la smentita immediata da parte
del governo italiano alle voci che lo volevano in combutta con Seif-el-Islàm
Ahmed per agire contro l'Imām. In questo caso la notizia allarmava i sauditi
poiché il figlio di Yaḥyà era da sempre ostile a Sa'ūd. 375 Sempre alla primavera
del 1935 risalgono le prime trattative per una fornitura di armi da parte dell'Italia:
nonostante alcune complicazioni, che causarono il fallimento dell'accordo
secondo il quale le armi sarebbero state pagate tramite la fornitura di cammelli, il
governo italiano decise comunque di regalare il materiale bellico. 376
Sistemato il versante saudita, durante la campagne etiopica gli obiettivi furono
sostanzialmente due: assicurarsi la neutralità dello Yemen, il rifornimento agrario
ed alimentare per le truppe italiane, nonché la prestazione di manodopera
yemenita per le colonie italiane e per l'Abissinia, e l'arruolamento di battaglioni
per l'Eritrea; allargare l'influenza italiana sul piano politico, strategico e
372 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.14, Fascicolo rapporti italo-saudiani, Colloquio fra S.E. Il capo del governo ed il
ministro degli affari esteri del regno arabo-saudiano, presente il sottosegretario agli esteri on. Suvich, 22 maggio 1935
373 V. Strika, Cit., p. 39
374 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.16, Fascicolo rapporti politici Saudia 1, Situazione politica Saudia. Relazione del
console Persico da Gedda, 01 gennaio 1936
375 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b. 17, Fascicolo Aviazione
376 M. Pizzigallo, La Diplomazia dell'amicizia, cit., pp. 89-92
141
territoriale, assicurandole l'uso di avamposti militari che avrebbero potuto
bloccare la Gran Bretagna nel Mar Rosso. Limitata era invece l'influenza della
propaganda di Radio Bari, visto che nello Yemen esistevano soltanto due
apparecchi radio riceventi.377
Se il primo obiettivo fu agevolmente raggiunto, il tentativo di egemonizzare il Mar
Rosso ebbe scarsa fortuna, non solo per il fatto che l'Imām, nonostante le sue
precarie condizioni di salute, non passava ancora a miglior vita, ma soprattutto
perché l'Italia voleva mantenere almeno il rispetto formale degli accordi del '27
con la Gran Bretagna: si cercò quindi di fare in modo che lo Yemen chiedesse
“spontaneamente” la protezione italiana, in modo da vanificare ogni possibile
protesta inglese.378
L'atteggiamento dell'Imām, in questo periodo, rimase ambivalente: se aveva
concluso accordi per l'approvvigionamento alimentare delle truppe italiane in
Etiopia, a dispetto dell'accordo stipulato con lo stesso paese, non per questo
voleva accettare una sorta di vassallaggio nei confronti dell'Italia e temeva
fortemente che le sue truppe varcassero il mare.
Allarmato dalla situazione, Yaḥyà ordinò l'interruzione dei collegamenti telegrafici
con l'Eritrea. A questo punto da Roma partirono due richieste, di ordine
prettamente strategico: la prima riguardava l'uso di Mocha come centro di
smistamento dei soldati feriti provenienti dall'Etiopia attraverso l'Eritrea, con
l'apparente intenzione di costruire sulla costa un ospedale militare. La seconda
implicava il controllo di un altro punto nevralgico della costa del Mar Rosso:
Sheik Said, la testa di ponte che comandava la penisola di Perim, appartenente
alla Gran Bretagna. Per inciso, il promontorio di Sheik Said si protendeva verso
gli stretti di Bab-el-Mandeb che, secondo gli accordi Laval-Mussolini del '35,
erano stati concessi all'Italia in regime di libero traffico 379.
Se le richieste fossero state accolte il controllo dell'Italia sul Mar Rosso sarebbe
stato molto solido. Da parte italiana però si commise un grave errore, stando a
documenti del Foreign Office britannico: 380 il console di Aden, Cav. Pasqualucci,
si lasciò sfuggire che a Roma si era decisi a prendere Sheik Said anche con la
forza, qualora fosse stato necessario. L'Imām si rivolse allora al governatore di
Aden, chiedendo rassicurazioni in merito alle scelte che si sarebbero fatte in
377 V. Vacca Vaglieri, cit., in "Oriente Moderno" 1940, pp. 444-451
378 R.Quartararo, Op. cit., p. 864
379 R. De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 1974, p. 528
380 Documenti citati in R. Quartararo, Op. cit., pp. 866-871
142
caso di attacco italiano. La Gran Bretagna rassicurò l'Imām sul fatto che non
nutriva ambizioni imperialistiche sul suo paese e affidò al capitano Seager il
compito di sovrintendere alla fornitura di materiale bellico, cannoni compresi, per
la fortificazione di Sheik Said.
A Roma si decise quindi di desistere da ogni tentativo imperialistico-militare,
tornando a favorire un approccio filo-musulmano nello Yemen. Una scelta
differente avrebbe inevitabilmente condotto ad un conflitto con la Gran Bretagna
ed avrebbe potuto significare la rottura definitiva con il governo di Sua Maestà,
cosa che in questo momento Mussolini era intenzionato ad evitare. Si scelse
quindi di tornare alla vecchia politica di penetrazione commerciale.
I tempi erano maturi per il rinnovo del trattato del '26 e per l'occasione venne
richiamato in causa Gasparini. Rispetto al precedente accordo, quello siglato nel
'37 era molto più preciso nella sua formulazione per quanto riguardava il regime
preferenziale accordato all'Italia nel campo commerciale. Inoltre si prevedeva la
nomina di reciproci agenti diplomatici e consolari e si garantiva, per i reciproci
sudditi residenti “assoluta sicurezza e protezione per quanto riguarda le loro
persone e le loro sostanze”. La durata del trattato veniva estesa a venticinque
anni ed era previsto il rinnovo automatico se nessuna delle due nazioni lo
avesse denunziato, sei mesi prima della scadenza.
L'accordo segnava la fine del grande sogno di un unico impero territoriale sul
Mar Rosso381, ma lasciava aperta la possibilità di un protettorato pacifico, qualora
le condizioni interne dello Yemen lo avessero permesso. A rendere difficilmente
percorribile anche questa seconda strada giunse la decisione del governo
yemenita di aderire al trattato di alleanza araba già concluso, il 2 aprile 1936, da
Iraq e Regno Arabo Saudiano. Aderendo a quello che era un patto di mutua
assistenza, l'Imām si garantiva da eventuali mire dei paesi confinanti e lasciava
intendere di non essere disposto a lasciare il paese in mano a potenze straniere.
L'accordo, siglato nell'aprile del 1937, chiudeva definitivamente le porte ad
interventi italiani di stampo coloniale, perché questo avrebbe finito con il
compromettere i rapporti con una fetta troppo grande ed importante del mondo
arabo, oltre a minare definitivamente anche le relazioni con Londra; già in
381 L'articolo I recita che “...Il governo italiano di Sua Maestà il Re d'Italia, Imperatore d'Etiopia, conferma e assicura
incondizionatamente il proprio riconoscimento della piena e assoluta indipendenza, senza restrizione, di Sua Maestà il Re
l'Emir El-Mumminin Jahia Ben Mohammed Hamid El Din e del suo Regno. Il Governo italiano non avrà ingerenza alcuna
nel Regno di Sua Maestà il Re dello Yemen che possa, in qualsiasi modo, contrastare con quanto è stabilito nel primo
capoverso del presente articolo...” citato IN R. Quartararo, op. cit., p. 871
143
occasione delle prime trattative saudo-irachene in Italia si sospettava che fosse
la Gran Bretagna a spingere per un accordo, da poter utilizzare in futuro in
funzione anti-italiana.382 Una volta che i trattati divennero realtà, la reazione più
ovvia fu quella di fermare qualsiasi progetto espansionistico.
La politica seguita continuò quindi ad essere quella dell'amicizia: per questo nel
1936 venne accordato a Ibn Sa'ūd il regalo di tre aerei da trasporto e altrettanti
da utilizzare per la scuola di aviazione, la cui direzione venne affidata ad un
italiano, il capitano Ciccu.383 Fu proprio grazie all'aviazione che la propaganda
italiana nel regno saudita colse i suoi successi migliori, per l'ammirazione e
l'affetto che i piloti di ritorno dall'Italia dimostravano e per l'ammirazione suscitata
dai voli organizzati dalla scuola organizzata in loco. 384
Era d'altro canto difficile organizzare la propaganda tramite altri mezzi: i soli tre
giornali che si stampavano in Arabia Saudita erano pochissimo diffusi e, per
giunta, non accettavano di pubblicare articoli che potessero essere utilizzati per
la divulgazione delle idee italiane o britanniche. La soluzione poteva essere
intervenire sulla stampa egiziana, che godeva di un certo seguito. 385
Sul piano prettamente politico una comunanza di intenti sempre più ampia
sembrava nei desideri dei sauditi; in una conversazione con il ministro degli
esteri ad interim Yussuf Yassim, veniva fatta notare al regio ministro a Gedda
l'inquietudine di Ibn Sa'ūd per la situazione palestinese, e si ponevano quattro
domande fondamentali per capire le intenzioni italiane: 386 quale fosse la politica
permanente che l'Italia intendeva seguire rispetto ai paesi arabi, quali le idee
italiane sulla spartizione della Palestina tra ebrei ed arabi, quali e quanti aiuti,
materiali e morali, il governo poteva fornire in caso di necessità.
Per quanto riguardava la politica rispetto ai paesi arabi, da parte italiana si
distingueva tra paesi sotto mandato e paesi indipendenti della costa orientale del
Mar Rosso: per i primi si affermava la contrarietà ad una ulteriore affermazione
dell'influenza delle potenze europee, per i secondi ci si sarebbe impegnati per il
mantenimento della pace e il rafforzamento della loro sovranità politica e
territoriale. Per quanto riguarda la Palestina, si affermava la volontà di ottenere
382 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.18, Rapporto segreto “La riunione di Riad e le relazioni anglo-saudiane” , Gedda 26
dicembre 1935
383 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, Telespresso del Ministero dell'Aeronautica “Trattative aeronautiche con Saudia”, 23
aprile 1936
384 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, Telespresso “Festa dell'aviazione Saudiana”, Gedda 6 settembre 1936
385 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, “Propaganda in Arabia”, Gedda 1 maggio 1937; “Articoli di propaganda”, Gedda 29
ottobre 1937
386 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, Fascicolo Rapporti Politici, Appunto agosto 1937
144
una soluzione equa per gli arabi, ma anche di non aver ancora preso una
posizione definita, poiché la questione era ancora trattata a livello di Società
delle Nazioni. Non si riteneva di spingersi oltre poiché le discussioni che
avrebbero portato agli accordi di Pasqua erano in pieno svolgimento e non si
voleva rischiare di incrinare i rapporti con la Gran Bretagna. Per le ultime due
domande, si rispondeva che si intendeva continuare con la missione aeronautica
e si manteneva la disponibilità a fornire armi, rimanendo aperti a nuove proposte
di collaborazione.387
In colloqui successivi la fiducia del sovrano saudita nei confronti dell'Italia e della
sua politica veniva costantemente ribadita, 388 incrinata soltanto parzialmente
dalle notizie sulle trattative con la Gran Bretagna, che fecero temere a Ibn Sa'ūd
il sacrificio degli interessi arabi in nome di altri vantaggi per il governo italiano. 389
In Italia intanto, in occasione del dodicesimo anniversario della conquista del
trono da parte del sovrano wahabita, il Giornale d'Italia pubblicava in prima
pagina un panegirico sulla sua vita, a conferma dell'importanza che Sa'ūd aveva
assunto per gli interessi italiani.390
Sul versante yemenita il 1938 si aprì con un cordiale scambio di lettere tra Yaḥyà
e Mussolini, in occasione della sostituzione di Dubbiosi, capo della missione
medica in Yemen: l'Imām chiese che la partenza del dottore, prevista per il mese
di gennaio, potesse essere posticipata di circa un mese, in modo che questi
potesse prendersi cura dello stesso Yaḥyà, colpito da un malattia. Mussolini
rispose affermativamente, orgoglioso del buon lavoro fatto dal capo missione.
Questa corrispondenza proseguirà in occasione dell'effettivo rientro del Dubbiosi
in Italia, per il quale l'Imām chiederà al Duce il conferimento, puntualmente
accordato, dell'onorificenza dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Il sovrano
yemenita ringraziava ancora Mussolini per la condotta tenuta nei confronti dei
paesi arabi ed islamici ed il duce non mancava di confermare che sua ferma
intenzione era che “le relazioni dell'Italia coi paesi arabi dell'oriente e l'azione
dell'Italia in favore della pace e del benessere dei paesi stessi, continuino ad
inspirarsi a quei sentimenti di amicizia e di cordialità che Vostra Maestà si è
compiaciuta di rilevare nella lettera indirizzatami”.391
387 Ibidem
388 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, Fascicolo Rapporti Politici, Rapporto riservatissimo “Situazione politica e rapporti
italo-saudiani” Gedda, 23 ottobre 1937
389 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, Fascicolo Rapporti Politici, Telegramma segreto, Gedda 4 marzo 1938
390 Giornale d'Italia, 9 gennaio 1938
391 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 15
145
I rapporti tra i due paesi e i rispettivi sovrani rimanevano nell'ambito della
cordialità, eppure non si può non rilevare come, al di là delle frasi di circostanza,
ci fosse una mancanza di una politica organica e ben delineata dell'Italia, che
sembrava principalmente non voler scontentare il sovrano e muoversi nel solco
dell'improvvisazione.
A parziale conferma di quanto si va dicendo sembra la visita in Italia, in marzo,
del figlio dell'Imām, il principe Saif el Islam el Hussein, il quale pronunciò un
discorso a Radio Bari in cui esaltava l'amicizia nei confronti del paese che lo
ospitava ed auspicava sempre migliori relazioni tra i due paesi, basati sul
reciproco rispetto. Nella sostanza, questo discorso era identico a quello
pronunciato il 4 gennaio precedente, in occasione dell'inizio delle conversazioni
in arabo della British Broadcasting Company a Londra. Il principe, che aveva
inizialmente previsto di rimanere in Italia per una settimana, prolungò il
soggiorno per circa un mese, ricevendo il grado di Grande Ufficiale dell'ordine
dei SS. Maurizio e Lazzaro, con relative insegne.392
Ebbe cordiali rapporti con Ciano ma la visita non sortì effetti ulteriori, anche se
non mancò di suscitare reazioni contrapposte nel mondo arabo: da un articolo
apparso sul giornale egiziano ”al-Ahram” il 28 marzo, in cui si commentavano i
testi dei discorsi pronunciati da Ciano e Seif el Islam el Hussein in occasione di
un banchetto offerto al principe ereditario dello Yemen, sappiamo che le posizioni
di quest'ultimo erano malviste dalle persone che si occupavano di politica araba
ed erano ostili alla diffusione dell'influenza italiana nei paesi arabi: mentre Seif
mostrava di avvicinarsi all'Italia, nelle parole di Ciano si poteva cogliere
l'intenzione del governo italiano di rinforzare la sua influenza nello Yemen per
creare fastidi alla Gran Bretagna nella sua politica araba e per intendersi con
l'Inghilterra circa lo Yemen.
I più moderati invece, la maggioranza, ritenevano che i due discorsi fossero una
prova chiara dell'amicizia dei due paesi. Questi moderati sostenevano che lo
Yemen, in seguito alla conquista dell'Etiopia, teneva in grande considerazione
l'Italia in ragione della sua forza militare e riteneva che avrebbe sempre avuto
grande influenza nel Mar Rosso; per questo non poteva rinunciare all'amicizia
dell'Italia, visto che non sembravano esserci altre potenze sulle quali poter
contare contro la Gran Bretagna, la quale in Palestina aveva agito in modo da
392 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 14, fascicolo “Viaggio in Inghilterra e in Italia del principe Hussein”
146
deludere l'Imām ed il suo popolo. Lo Yemen, sapendo che l'Italia non avrebbe
tardato a mandargli le armi e convinto della politica islamica dell'Italia, aveva
deciso per assicurare la sua indipendenza, di rinforzare i suoi rapporti con l'Italia,
malgrado questa politica potesse non soddisfare gli altri paesi arabi. Secondo i
moderati, lo Yemen faceva bene a non fidarsi della Gran Bretagna, visto che
questa era una potenza coloniale.393
Se quindi la presenza dell'Italia poteva non essere invisa ai più, la realtà delle
cose era più complicata ed incerta poiché in molti non facevano altro che
aspettare la morte dell'Imām, sempre gravemente malato, e preparavano la
successione in maniera conflittuale, divisi in fazioni. 394 È facile intuire che le
politiche e le decisioni prese dall'attuale sovrano poggiassero su basi
assolutamente fragili; il paese era sostanzialmente fermo, non si costruivano
infrastrutture e l'unico commercio che sembrava non conoscere crisi era quello
delle armi, visto che la divisione in fazioni rendeva i più sospettosi e spaventati.
Non possiamo tralasciare il fatto che molti Paesi, oltre l'Italia, tentassero di
estendere la propria influenza e praticamente nessuno di essi trovasse la strada
sbarrata a priori. C'era, nel 1938, un ritorno di fiamma della Turchia, che faceva
molta propaganda nel paese, sostenendo di vedere nello Yemen la sua antica e
prediletta colonia, che auspicava si avviasse verso un avvenire di progresso e
benessere, come le altre nazioni musulmane. A tal fine, la Turchia si rendeva
disponibile all'invio di tecnici ed istruttori militari, armi ed aeroplani e faceva
affidamento su un accordo da sottoscrivere con l'erede al trono Seif el Islam el
Hussein.395
La mancanza di un interlocutore rendeva le scelte politiche ancor più difficili di
quanto già fossero. Pare inoltre che anche in Italia la presunta imminente morte
del sovrano condizionasse le scelte, poiché non ci si voleva inimicare i possibili
futuri dirigenti. Lo stallo, insomma, non era dovuto soltanto ad incapacità, ma
anche e forse soprattutto a ragioni di opportunità. Alla già difficile situazione, si
aggiunse l'insorgere di una ribellione nella zona di confine tra protettorato di
Aden e Yemen, in particolare nella regione di Shabwa.
Immediatamente ci furono movimenti delle truppe dell'Imām che riteneva le zone
teatro della rivolta appartenenti alla propria giurisdizione. Gli inglesi stanziati ad
393 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 15, Fascicolo “Rapporti Italo-yemeniti”
394 H. Ingrams, The Yemen. Imams, rulers & revolutions, London 1963, pp. 66-73
395 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 14, Fascicolo “Rapporti politici”, ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 15,
Esposto dell'ingegner Clementi
147
Aden non rimasero a guardare e, soprattutto attraverso l'azione diplomatica e
militare del capitano Seager, costantemente monitorata dalla diplomazia italiana,
cercarono un accordo per scongiurare un conflitto con le truppe yemenite. Più
volte sembrò che potesse essere raggiunta una intesa sulla base della creazione
nella zona di Shabwa di un territorio neutrale tra Yemen e protettorato inglese;
per indurre i ribelli e l'Imām a più miti consigli, non mancarono azioni violente,
come il bombardamento di alcune delle tribù in rivolta da parte della Gran
Bretagna.396 Durante le operazioni, l'ambasciatore inglese a Roma, Lord
Drummond, tenne costantemente aggiornato Ciano, ormai ministro degli esteri,
sugli sviluppi della situazione. Ad ogni buon conto da parte italiana si provvide fin
da subito ad intercettare le comunicazioni tra Aden e Yemen, così che la maggior
parte delle notizie era già conosciuta.397
Il conflitto tra inglesi, ribelli e yemeniti andò avanti a lungo, tra apparenti
riconciliazioni e nuovi scontri, che il console italiano di Aden temeva avrebbero
potuto coinvolgere, sotto pressioni inglesi, anche Ibn Sa'ūd, il quale avrebbe
dovuto reclamare diritti sul territorio di Shabwa, in modo da far apparire
l'intervento britannico come arbitro del conflitto. Tuttavia questa eventualità non
si presentò.398
Ad acuire la gravità dello scontro era la scoperta di petrolio nella zona oggetto
del contendere: per il governo di sua Maestà diventava vitale non tanto tutelare
confini che, in fondo, non erano ancora delineati con chiarezza, quanto
conquistare il controllo di un territorio ricco di una risorsa che assumeva ancor
più valore con l'approssimarsi del conflitto mondiale.
Durante lo sviluppo del conflitto, Italia e Gran Bretagna firmarono, il 16 aprile
1938, i cosiddetti accordi di Pasqua 399 che, tra le altre cose, riguardavano anche
il Medio Oriente: i due governi avrebbero dovuto scambiarsi informazioni militari
“nei possedimenti d'oltremare di ciascuna delle due Parti che si trovano o che
hanno coste sul Mediterraneo, il Mar Rosso o il golfo di Aden”. Per ciò che
concerne la penisola araba le due nazioni non avrebbero concluso alcun
accordo, o intrapreso alcuna azione che potesse compromettere l'indipendenza
o l'integrità di Arabia Saudiana e Yemen; nessuna delle due avrebbe cercato di
396 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen busta 15, Fascicolo “Rapporti Anglo Yemeniti-capitano Seager”
397 ASMAE, A.P. 1931-1945, Yemen b.15, Fascicolo “movimento di truppe yemenite alla frontiera orientale, situazione di
Shabwa”
398 Ibidem
399 Vedi cap. 1
148
ottenere una posizione privilegiata di carattere politico nei territori appartenenti,
al momento degli accordi o in seguito, ai governi saudiano e yemenita; entrambe
le parti dichiaravano loro interesse comune che nessuna altra potenza
acquistasse potere nei territori in oggetto, che tra i due paesi arabi ci fosse pace
e, comunque, Italia e Gran Bretagna non sarebbero intervenute in eventuali
conflitti ed avrebbero impedito che lo facessero altre potenze.
Di particolare importanza, vista la situazione di conflitto descritta in precedenza,
che aveva portato, nella seconda metà del 1937 ad un aumento della tensione
tra i due paesi,400 l'articolo 6 del trattato che riportiamo testualmente:
Per quanto riguarda la zona dell'Arabia situata ad est ed a sud degli attuali confini dell'Arabia
Saudiana e dello Yemen o di qualsiasi futuro confine che potrà essere stabilito d'accordo fra il
Governo del Regno Unito, da una parte, e i Governi dell'Arabia Saudiana o dello Yemen,
dall'altra:
(1) Il Governo del Regno Unito dichiara che nei territori dei capi arabi sotto la sua protezione
entro tale zona:
(a) nessuna azione sarà intrapresa dal Governo del Regno Unito, che possa essere di natura da
pregiudicare in qualsiasi modo l'indipendenza o integrità dell'Arabia Saudiana o dello Yemen, in
qualsiasi territorio che attualmente appartiene a questi Stati o in ogni altro territorio che potrà
essere riconosciuto dal Governo del Regno Unito come appartenente all'uno o all'altro di questi
Stati come risultato di qualsiasi accordo che potrà in seguito essere concluso fra il Governo del
Regno Unito e il Governo dell'uno o l'altro di essi;
(b) Il Governo del Regno Unito non intraprenderà, né farà in modo che sia intrapreso, alcun
apprestamento od opera militare all'infuori degli apprestamenti od opere militari di puro carattere
difensivo per la difesa di detti territori o delle comunicazioni fra le differenti parti dell'Impero
Britannico. Inoltre, il Governo del Regno Unito non arruolerà gli abitanti di alcuno di questi
territori, né farà in modo che essi siano arruolati, in alcuna forza militare all'infuori delle forze
destinate e atte esclusivamente al mantenimento dell'ordine e alla difesa locale;
(c)mentre il Governo del Regno Unito si riserva la libertà di prendere in questi territori quelle
disposizioni che potranno essere necessarie per il mantenimento dell'ordine e per lo sviluppo del
paese, esso intende di mantenere l'autonomia dei capi arabi sotto la sua protezione.
(2) Il Governo italiano dichiara che non cercherà di acquistare alcuna influenza politica in questa
zona.401
Nella zona oggetto di questo articolo era compresa anche quella di Shabwa,
interessata dalla rivolta. Ci sembra di poter dire che, in particolar modo con il
punto c, il governo inglese si lasciava ampi margini di autonomia per effettuare i
400 Le azioni militari da parte inglese avevano causato le lamentele italiane, che ritenevano tali iniziative contrarie alle
conversazioni del 1927, mentre per gli inglesi erano giustificate dal fatto di essere manovre volte a difendere i confini del
protettorato e di territori che erano sotto il controllo inglese in seguito a degli accordi stipulati nel 1914 con la Turchia.
401 http://www.fco.gov.uk/resources/en/pdf/treaties/TS1/1938/31.1
149
suoi interventi, mentre l'Italia si tirava del tutto fuori. Effettivamente, fino al
momento della firma del trattato con l'Inghilterra, ed anche successivamente, il
governo italiano si limitò a monitorare la situazione, senza schierarsi né tanto
meno intervenire direttamente. Nel suo complesso il trattato, che potremmo
definire una riedizione delle conversazioni del '27 in merito alla penisola araba,
tentava di cristallizzare lo stato delle cose, senza legare troppo le mani al
governo inglese che infatti, nei mesi successivi la firma dell'accordo, intervenne
compiutamente per dirimere la questione di Shabwa, fino a quando, il 29
novembre 1938, le truppe yemenite vennero ricacciate nei loro confini da quelle
inglesi, senza per altro incontrare resistenza. A questo punto un nuovo accordo
per la neutralità della zona venne sottoposto all'Imām, che fu costretto ad
accettare.
La firma degli accordi di Pasqua causò un lieve risentimento da parte saudita,
che in una nota fatta pervenire all'ambasciatore italiano a Gedda, fu fatta notare
soprattutto l'inutilità della clausola che garantiva l'indipendenza dello Yemen e
dell'Arabia Saudita, visto che il regno di Sa'ūd era già indipendente ed aveva
stipulato rapporti con entrambi i paesi europei. 402
Il caso fu risolto senza difficoltà: proseguirono le trattative per la fornitura di armi
e munizioni, i medici italiani presenti a Gedda continuarono il proprio lavoro,
venne mantenuta la missione aeronautica e creato un nuovo ospizio italomusulmano a Medina, accanto a quello già in funzione alla Mecca. A conferma
dei buoni rapporti, la visita di Nallino in Arabia, che incontrò Fuad Hamza e lo
stesso sovrano Ibn Sa'ūd, riportando che “il re parlò più da uomo di cultura che
da sovrano”.403 Nel promemoria stilato per il ministero degli esteri, oltre agli scopi
che la missione dell'accademico si proponeva, viene più volte menzionata la
volontà di mostrare la serietà degli studi arabo-islamici italiani. 404
La visita doveva precludere ad una serie di scambi culturali che lo scoppio della
seconda guerra mondiale avrebbe reso in gran parte impossibili. Ma soprattutto
le richieste di appoggio per la causa araba riguardo la Palestina si fecero sempre
più insistenti: il regno saudita non poteva intervenire compiutamente senza
l'appoggio di una potenza europea che contrastasse quella britannica, e soltanto
l'Italia poteva svolgere un simile ruolo. Le vicende della Cecoslovacchia, con la
402 V. Strika, Cit., p. 41
403 Ibidem; "Oriente Moderno" 1938
404 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b. 23, “Relazione a sua Eccellenza il ministro degli affari esteri intorno alla missione del
prof. Carlo A. Nallino e figlia Maria nell'Arabia Saudiana, 9 febbraio-29 marzo 1938
150
mediazione di Mussolini a Monaco 405, avevano ulteriormente convinto gli arabi
dell'importanza internazionale del dittatore. 406 A prescindere dalla scarsa efficacia
del patto di Monaco, probabilmente il governo saudita non era a conoscenza del
fatto che le decisioni prese in quella sede erano state concordate senza
interpellare i diretti interessati.
Durante la guerra l'iniziale neutralità di Ibn Sa'ūd andò scemando a causa dei
problemi economici del paese, che non poteva ancora contare su grossi introiti
petroliferi e aveva visto diminuire nettamente il numero dei pellegrini alla Mecca,
fonte di guadagno principale. Ma a dimostrazione della sua lealtà nei confronti
dell'Italia riportiamo un episodio avvenuto nell'ottobre 1940: durante un
bombardamento aereo italiano del centro petrolifero del Bahrein, alcune bombe
caddero in territorio saudiano per errore. Dopo aver accennato ai passi fatti
presso il governo italiano onde appurare le cause dell'incidente, Sa'ūd si
dichiarava soddisfatto della posizione assunta dall'Italia e convinto che l'episodio
fosse da attribuire ad un incidente.407
L'aiuto finanziario proveniente da U.S.A. e Gran Bretagna fece di fatto cessare la
neutralità saudita; inoltre la pressione britannica aumentò in seguito al colpo di
stato pro-asse in Iraq dell'aprile maggio '41. 408 Ad inizio '42 venne deciso lo
sgombero dell'ambasciata italiana a Gedda, ma a dimostrazione del fatto che
non ci fossero particolari attriti tra i due paesi, le relazioni vennero considerate
“sospese” e non “interrotte”.409
Durante il rientro della missione italiana, il sovrano saudita non ebbe difficoltà ad
incontrare l'ambasciatore Sillitti, al quale disse “se l'Italia e la Germania avessero
aiutato l'Iraq avreste visto di cosa sono capaci gli Arabi”. 410 Espresse inoltre
l'auspicio che a Roma si comprendesse la sua difficile situazione, determinata
dalla pressione inglese cui non poteva più sottrarsi. 411 Nello Yemen invece
soltanto nel febbraio 1943 vennero interrotti i rapporti con Italia e Germania e gli
italiani e i tedeschi presenti nel paese tratti in arresto 412 Si chiudeva così il
tentativo del governo fascista di stabilire la propria influenza sulla costa orientale
del Mar Rosso, travolto dalle vicende belliche che avrebbero, di lì a qualche
405 Vedi cap. 1
406 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b.19, “Direttive politiche del governo saudiano” Segreto, Gedda 2 ottobre 1938
407 M. Nallino, La politica estera dell'Arabia Saudiana, in “Rivista di studi politici internazionali”, Vol. VIII, 1941, pp. 92-119
408 Vedi pp. 46-47
409 Giornale d'Italia, 24 febbraio e 20 marzo 1942
410 V. Strika, Cit., p. 43
411 M. Pizzigallo, Cit., p. 115
412 ASMAE, A.P. 1931-1945, Arabia b. 28, fascicolo Paesi Arabi 1943
151
mese, visto la caduta definitiva del regime.
152
Conclusioni
Quanto emerso dalla nostra ricerca rende possibile rispondere ai quesiti che ci
siamo posti in apertura, anche se ulteriori indagini potranno certamente chiarire
ulteriormente la vicenda, ancora ricca di aspetti da approfondire. Il mito della
“vittoria mutilata” giocò un ruolo fondamentale nella decisione del fascismo di
guardare al Medio Oriente come sbocco della propria politica estera: ci sembra
che Mussolini fosse fermamente convinto che in questa regione avrebbe potuto
ottenere le soddisfazioni che cercava.
Non ci sembra di ravvisare, nel suo interesse verso il mondo arabo-musulmano,
nessun altro tipo di motivazione oltre a quella politica ed economica; di certo non
ci sono elementi che possano suggerire una sua particolare affinità spirituale con
la religione islamica, ed i suoi continui richiami alla “romanità” del fascismo,
versione novella dell'impero romano, dovrebbero essere sufficienti a sgombrare
il campo da ogni possibile equivoco.
Ci sono però due aspetti del problema da approfondire: il primo è la convinzione
del duce che l'Italia fosse, per questioni meramente geografiche, il ponte
naturale tra Oriente ed Occidente e, di conseguenza, interlocutore obbligato per i
popoli mediorientali. Questa sorta di determinismo non era in realtà una
intuizione originale di Mussolini, e già ai tempi del primo colonialismo italiano era
stata utilizzata per giustificare le ambizioni d'oltremare. Pur volendo accogliere
questo aspetto tra le motivazioni che spinsero il fascismo a guardare ad oriente,
non crediamo si possa sostenere che ciò bastasse per arrivare ad
autoproclamarsi difensori dell'Islam.
Il secondo aspetto, non direttamente attribuibile a Mussolini, è quello promosso
da certa pubblicistica che vedeva Mussolini e Maometto accomunati dalla
fondazione di un impero e riteneva la marcia su Roma e quella sulla Mecca
momenti di liberazione. In questa visione distorta, che nulla aveva a che vedere
con la religione, l'islamismo finiva per sostituire l'impero romano come termine di
paragone con il fascismo: si sceglieva l'impero di riferimento in accordo con gli
obiettivi. Anche se, lo ribadiamo, stando ai documenti consultati non risulta che
queste idee promanassero da Mussolini, il fatto stesso che circolassero in
ambiente fascista può rappresentare un motivo, a nostro avviso del tutto
strumentale oltre che profondamente sbagliato, in grado di giustificare l'interesse
per il mondo arabo-musulmano.
153
La conferma che ottenere il favore del mondo musulmano fosse un aspetto
meramente strategico della politica italiana e che nessuna delle pretese affinità
avesse un benché minimo valore, fu la campagna di riconquista della Libia: la
brutalità della repressione, soprattutto nel biennio 1929-1931, poco si concilia
con il preteso ruolo di nazione amica dei paesi islamici, figurarsi con quello di
difensore della loro religione. Le giustificazioni addotte durante e dopo le brutali
azioni militari, la presentazione di quella guerra come una campagna di
liberazione dei libici dalle crudeltà imposte dalla senussia, non possono essere,
e non sono sufficienti a scagionare il fascismo dalle sue colpe né a ritenere
plausibile ed accettabile che per salvare i musulmani “buoni” bisognasse
sterminare quelli “cattivi”. Inquieta invece il fatto che ancor oggi le cosiddette
missioni di pace vengano giustificate in modi molto simili.
Stabilito con ragionevole certezza che l'interesse del fascismo per l'Islam fu
finalizzato agli interessi politici italiani, in barba al sentimento di comune
frustrazione per l'assetto geopolitico del dopoguerra, passiamo ad esaminare
quali furono gli atteggiamenti rispetto all'Inghilterra. In questo caso crediamo che
non sia possibile generalizzare, ma che il problema vada esaminato in relazione
alle diverse regioni.
Partiamo dalla penisola arabica, il cui studio attraverso i documenti di archivio ha
fornito elementi più esaurienti che per le altre aree. Innanzitutto non si può non
notare che l'interesse per Yemen e, in subordine, Arabia Saudita, o sarebbe
meglio dire Ḥiģiāz e Neģd, non fu carattere originale della politica estera del
fascismo: abbiamo visto che già tra il finire del XIX secolo e l'inizio del XX, in
seguito alla colonizzazione dell'Eritrea, i tentativi di ottenere influenza politica e
commerciale si erano susseguiti, causando anche forti contrasti con l'impero
Ottomano, che all'epoca controllava la regione.
In questo ci sembra di poter scorgere una continuità di intenti tra i governi liberali
e quello di Mussolini. Certamente la penisola arabica era sotto l'influenza
dell'Inghilterra, che attraverso il protettorato di Aden esercitava la propria
pressione pur non possedendo colonie né, dopo la guerra, mandati. Ovviamente
la regione, situata nel bel mezzo della via per l'India, veniva considerata di
importanza vitale da Londra, che non vedeva di buon occhio tentativi di
intromissione di alcun genere, figurarsi la prospettiva di vedere l'Italia controllare
il Mar Rosso.
154
Questa possibilità, temuta dagli inglesi e per un breve periodo, in concomitanza
con la guerra di Etiopia, sbandierata da alcuni italiani, non ci sembra venisse
attivamente perseguita, ritenuta impossibile per motivi economici e perché
avrebbe scatenato la pronta reazione inglese, non sostenibile per Roma.
Nel periodo tra le due guerre sia lo Yemen che l'Arabia Saudita dimostrarono forti
spinte indipendentistiche, che le spingeva a tentare di alienarsi dalla longa
manus britannica, cercando interlocutori differenti: oltre all'Italia anche l'Unione
Sovietica e, più tardi, gli Stati Uniti cercarono ed ottennero delle partnership
politico-commerciali.
Nel caso dell'Italia i tentativi di penetrazione nell'area non ci sembrano legati ad
una volontà esclusiva di interferenza con la Gran Bretagna, ed anzi spesso le
iniziative furono indipendenti da questo tipo di obiettivo, forse anche per una
superficialità di base che non permetteva di valutare le possibili conseguenze
delle scelte operate. Anche se non nascevano in funzione anti-inglese, molte
azioni lo diventavano di fatto, mettendo spesso a repentaglio le relazioni con
Londra, anche per una sorta di ossessione britannica, che è stata definita “la
sindrome dell'italiano sotto il letto”.
Probabilmente oltremanica non si aveva una chiara percezione delle limitate
possibilità italiane, le cui aspettative erano spesso frustrare dalla mancanza di
fondi; le lamentele di Astuto dall'Eritrea e gli affari sfumati proprio per
l'impossibilità economica di sostenerli dimostrano che le preoccupazioni erano
eccessive. D'altro canto alcuni aspetti, come la fornitura di armi allo Yemen e,
dopo il 1935, al regno saudita, non potevano risultare graditi all'Inghilterra,
spesso in lotta contro l'Imam Yaḥyà per questioni di confine tra il protettorato e lo
stato yemenita. In questo caso la volontà di ottenere influenza politica si sposava
bene con la possibilità di destabilizzare la presenza inglese, tanto che spesso gli
affari venivano conclusi in perdita pur di non contrariare l'Imam, peraltro già di
suo restio a spendere.
Dopo le conversazioni del 1927 di Roma, convocate per stabilire le linee da
seguire nella penisola arabica e concluse con degli accordi in realtà piuttosto
vaghi, l'Italia tentò di attenersi il più possibile ad una condotta che non potesse
essere invisa a Londra, pur non rinunciando ai propri obiettivi: nei documenti
consultati ci si imbatte spesso in richiami alla prudenza. In quest'ottica il 1927
può essere interpretato come una sorta di spartiacque, non tanto per gli obiettivi
155
perseguiti quanto per il modo in cui si tentò di perseguirli. Il fatto stesso poi che
gli inglesi avessero deciso di intavolare le discussioni rappresentava un
riconoscimento della presenza italiana nella penisola arabica, e tanto bastava al
governo per non spingersi troppo oltre.
Se negli anni seguenti, in particolare nel 1930, i rapporti con lo Yemen si fecero
più difficili, oltre che all'incremento dell'influenza russa la causa potrebbe anche
essere individuata nella maggior prudenza italiana. Anche in occasione del
trattato di amicizia con l'Arabia Saudita del 1932 la condotta italiana fu
improntata alla massima cautela, tanto che i rapporti con il regno di Ibn Sa'ūd
rimasero piuttosto freddi per almeno altri due anni.
L'amicizia con il regno saudita divenne una priorità dopo la conclusione della
guerra con lo Yemen del 1934, che consacrò il sovrano arabo come campione
del risveglio arabo, soprattutto grazie alla moderazione nella condotta dei
negoziati di pace. Presentarsi come nazione amica di un uomo tanto ammirato
era della massima importanza e poteva rappresentare il colpo di grazia a tutte le
polemiche, in realtà già in fase di spegnimento, che avevano accompagnato nel
mondo musulmano la riconquista della Libia.
Avvicinarsi ad Ibn Sa'ūd significava nuovamente rischiare di incrinare le relazioni
con la Gran Bretagna e stavolta se ne aveva piena consapevolezza: abbiamo
visto che la disponibilità saudita veniva interpretata in Italia come segnale della
paura di cadere sotto l'egemonia britannica e si riteneva necessario evitare che
Ibn Sa'ūd venisse destituito in favore di un rappresentante hascemita vicino al
governo di Londra.
In questo caso la prudenza doveva essere subordinata ad una serie di scopi
ritenuti fondamentali: mantenere l'equilibrio nella penisola arabica, acquisire il
favore dell'uomo a cui il mondo arabo guardava come possibile guida e, non
ultimo, ottenere la neutralità dell'Arabia Saudita e del mondo islamico nella
campagna di Etiopia che ci si apprestava ad intraprendere.
In conclusione, per quanto riguarda la penisola arabica, la politica italiana non
nasceva in funzione anti-britannica, ma in una prima fase venne interpretata da
Londra in questo senso per la preoccupazione di vedere una potenza straniera
conquistare potere in una regione che si voleva porre sotto la propria esclusiva
influenza. Con l'inizio della questione etiopica e il successivo conflitto, che causò
l'ostilità inglese, le scelte italiane furono invece operate in funzione anti156
britannica: un esempio per tutti il tentativo di far ricadere su Londra la
responsabilità del mancato ingresso dell'Arabia Saudita nella Società delle
Nazioni.
Non ci sembra poi da sottovalutare il fatto che le iniziative italiane furono
condizionate anche dagli stimoli che venivano dai due paesi arabi, interessati a
liberarsi dell'influenza inglese. Da parte di Yemen ed Arabia Saudita l'idea che “il
nemico del mio nemico è mio amico” dovette essere un elemento importante
nell'accettare, e talvolta cercare, le avances italiane.
Se nella penisola arabica le interpretazioni della politica italiana possono essere
molteplici, meno dubbi sembrano esserci riguardo la Palestina: il fatto che la
situazione critica tra arabi ed ebrei finisse con il catalizzare l'attenzione del
mondo arabo e alleviasse le critiche all'Italia per il comportamento in Libia,
mentre aumentava l'ostilità per gli inglesi, spinse il governo fascista ad
appoggiare la causa araba.
Le sovvenzioni in armi e denaro concesse al Muftī di Gerusalemme per
fomentare la rivolta del 1936-1939 non possono che essere interpretate come
atti ostili agli inglesi, tanto più che, dopo gli accordi di Pasqua del 1938, la presa
di distanza dalla causa araba fu praticamente immediata. Anche la propaganda
per mezzo di Radio Bari fu sostanzialmente funzionale a questa manovra antiinglese: se non si poteva ottenere l'amicizia del mondo arabo, si poteva almeno
fare in modo che l'ostilità verso Londra venisse convogliata nell'accettazione di
un compromesso con l'Italia, in nome della causa anti-sionista. Anche in questo
caso il nemico comune avvicinava il fascismo ad un mondo che soltanto qualche
anno prima lo aveva fortemente e strenuamente attaccato.
In Egitto invece le attività italiane furono molto limitate, e nonostante i contatti
con il “Giovane Egitto” non si giunse mai ad intraprendere delle iniziative che
potessero danneggiare la Gran Bretagna; probabilmente la presenza di un
corposo nucleo di italiani residenti non consigliava azioni che ne avrebbero
potuto mettere in gioco la sicurezza. Se quindi nel comportamento italiano
possiamo rilevare una alternanza di opportunismo, velleità di aumentare
l'influenza politico-economica ed ostilità nei confronti dell'Inghilterra, da parte del
mondo arabo l'Italia, che aveva commesso atrocità indicibili contro i correligionari
libici e mostrato il suo lato aggressivo in Etiopia, dovette rappresentare una
opportunità da sfruttare per arrivare alla tanto agognata indipendenza, ma non
157
certo una nazione su cui contare in futuro.
Accanto all'ambiguità politica del fascismo non da meno era la posizione degli
arabisti italiani, il cui atteggiamento, caratterizzato dalle diverse sfumature che
abbiamo rilevato, non si dissociò mai dalla condotta italiana in Libia e nella
migliore delle ipotesi non andò oltre un inquietante silenzio. Certamente l'Istituto
per l'Oriente nasceva con finalità scientifiche ben definite e strenuamente
inseguite sotto la direzione Nallino, ma questo non può bastare a giustificare la
mancanza di una presa di posizione decisa contro le violenze del fascismo.
Lo stesso Nallino, di cui abbiamo potuto seguire la polemica con Graziani, pur
invocando un maggiore impegno nel comprendere le popolazioni musulmane,
non condannò mai, almeno pubblicamente, il comportamento italiano e fu lesto a
rientrare nei ranghi dopo le critiche che gli vennero rivolte. All'interno dell'istituto
si alternavano voci più o meno compiacenti, ma si fatica a scorgerne di critiche.
La rivista Oriente Moderno, il cui lavoro non può che essere giudicato
positivamente per la mole di informazioni che ancora oggi ci permette di reperire,
fin dalla fondazione, operando la scelta di non parlare delle colonie, operò una
scelta di campo che ci sembra abbastanza evidente: non rischiare lo scontro con
le autorità. Bisogna anche dire che la rivista ebbe fin dall'inizio un pubblico molto
selezionato, fatto soprattutto di studiosi, per cui il potere di influire, in un senso o
nell'altro, sull'opinione pubblica rimaneva molto limitato.
Che gli studiosi dell'istituto fossero poco adatti ad essere uno strumento diretto
della propaganda sembra dimostrarlo la vicenda di Avvenire Arabo, la cui
ingloriosa parabola discendente fu causata dall'eccesso di filo-arabismo che
metteva in crisi la gestione delle colonie, quella libica in particolare. Chiamati a
schierarsi per ottenere il consenso degli arabo-musulmani, gli arabisti avevano
esagerato ed erano immediatamente stati richiamati all'ordine.
Nel complesso la vicenda dell'orientalismo in periodo fascista ci sembra
soprattutto un'occasione persa da parte di chi avrebbe potuto tentare di porre un
freno alla condotta violenta e razzista del fascismo; ciò non significa che
avrebbero potuto ottenere qualche successo: la polemica che investì il Nallino
mostra chiaramente che la mentalità degli uomini impegnati nella riconquista
della Libia era troppo gretta per capire le rimostranze degli intellettuali. Ma anche
se il silenzio poteva essere una strategia per poter continuare in pace i propri
studi, riteniamo che un intellettuale silenzioso sia un intellettuale inutile.
158
Vogliamo infine sottolineare che anche nella mentalità di questi arabisti, spesso
sinceramente ammirati dal mondo islamico, si può rilevare, attraverso alcuni
scritti, la convinzione di fondo che gli italiani e gli occidentali in generale fossero
in qualche modo superiori e che soltanto attraverso la loro collaborazione il
mondo musulmano avrebbe potuto raggiungere la piena civiltà; potrebbe essere
questa una chiave di lettura del silenzio che accompagnò le pratiche coloniali e
la politica fascista in genere.
Riteniamo utile un'ultima considerazione riguardo un aspetto della politica
orientale del fascismo che probabilmente la caratterizzò più di ogni altro:
l'improvvisazione. Nella consultazione dei documenti e nella lettura delle opere
storiografiche si ha la sensazione della mancanza di una programmazione a
medio-lungo termine, che portò appunto ad operare molte scelte in virtù della
convenienza del momento, causando probabilmente negli interlocutori la
sensazione di avere a che fare con un governo la cui affidabilità fosse piuttosto
aleatoria.
159
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio mia madre Anna per tutto quello che ha fatto per me, senza di lei
niente di tutto quanto ho fatto sarebbe stato possibile.
A Mara, la mia compagna, sono riconoscente per avermi fatto trovare sempre
nuovi stimoli, proprio nel momento in cui la mia vita sembrava destinata a
dirigersi in una direzione diversa da quella che avrei voluto.
Un pensiero a mia sorella Grazia, che oltre ad essere un punto di riferimento su
cui poter sempre contare mi ha regalato due nipoti magnifiche che adoro,
Michelle e Nicole. Grazie per questo anche a mio cognato Emanuele.
Non posso non citare la mia famiglia, gli zii che mi hanno sempre aiutato quando
ne ho avuto bisogno: Floriana, Loredana, Vincenzo, Maurizio, Nicoletta. Un
pensiero è d'obbligo per la folta schiera di cugini, in particolare quelli che ho visto
crescere e che oggi sono uomini che ammiro: Marco, Matteo, Michele, Simone.
Per finire un “grazie” a tutti gli amici, che non posso nominare singolarmente,
con cui ho passato momenti indimenticabili.
A tutti un sentito ringraziamento.
Giacomo
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