Lezione 27: Nichilismo e post-umanesimo.

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TESI 1 – RAPPORTO TRA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO E FILOSOFIA DEL
DIRITTO
Una filosofia che non pensa il nomos (giustizia/norme-diritto) delle relazioni tra gli uomini si
spegna, perché non si apre al logos (verità/linguaggio-discorso), illuminato dalle domande dei
singoli, che si possono formare e svolgere soli in un dire intersoggettivo disciplinato dal nomos.
Residua un dire narcisistico, individuale o collettivo, incapace di aprire interrogativi ed ipotesi di
ricerca di senso, attivabili solo dal dire-dirsi nella reciprocità delle relazioni di riconoscimento
incondizionato ed universale tra gli uomini, che sono custodite nel nomos. Senza il pensarecoesistere nel diritto, il pensiero filosofico si dissolve.
La prima del tesi del corso di filosofia del diritto riguarda i rapporti fra la teoria generale del
diritto e la filosofia del diritto.
Per distinguere questi due itinerari è necessario tornare all’inizio del pensiero occidentale, all’inizio
del pensiero filosofico, così come compare nei primi momenti della cultura greca dove viene
discussa la distinzione ed il legame tra il logos ed il nomos.
Il logos consiste nel linguaggio che è esclusivo degli uomini. Soltanto gli uomini hanno la capacità
di esercitare un linguaggio.
Il nomos riguarda la disciplina dei rapporto tra i soggetti..
Tornando alla differenza tra teoria generale del diritto e filosofia del diritto, si può dire che sono
possibili due tipi di legami:

legare in modo da impiegare una tecnica, la tecnica dei nodi, nell’esempio utilizzato da
Legendre (filosofo contemporaneo francese) (tori legati per le corna), è un legame
funzionale, destinato a far funzionare le operazioni, un legame per qualcosa che mette in
primo piano il qualcosa ed in secondo piano gli uomini; E’ un legame tipico dei sistemi
biologici si limita a funzionare perché sia conservata quella specie biologica. Nei sistemi
biologici si presenta sempre ed esclusivamente soltanto una successione di informazioni
vitali. Questo tipo di legame è quello della tecnica del funzionamento sistemico delle
norme giuridiche. Questo legame tecnico funzionale si dispiega nei modelli di un
linguaggio numerico, che tende a svuotare il diritto dalla sua specificità, trasformandolo in
una delle tecniche della prassi manageriale, orientata dal funzionalismo gestionario;

il legare che nasce con le parole, ed è il legame che gli uomini stabiliscono tra loro
incontrandosi nel reciproco rapporto, nella reciproca relazione, di riconoscimento. Qui il
modello non è quello di un legame tecnico ma è un modello di un legame che impegna l’arte
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esclusivamente umana dell’istituire le norme giuridiche, di interpretare le norme di
diritto. Si tratta di un legame esistenziale. E’un legame che appartiene al linguaggio
disnumerico, non padroneggiabile dalla attualità vincente del mercato, in quanto la parola
è polisensa, dice oltre quel che dice ed esige l’interpretazione giuridica.
Il legare con le parole è formato ogni volta nella pienezza della lingua, che non è frammento
settorializzabile dell’uomo, ma presenta il parlante nella sua unità esistenziale, l’io.
Legare con le parole si può esemplificare pensando alla promessa, al promettere. Nietzsche dice
che soltanto l’uomo è in grado di promettere e promettere vuol dire stabilire un legame che nasce
con le parole, che viene istituito con le parole.
Diversamente dal legame biologico, l’esercizio della soggettività da parte dell’uomo ovvero della
sua inscrizione di senso nell’esistere con gli altri, non ha alle spalle una spiegazione scientifica.
Il parlante si pone delle domande sul senso della vita oltre le operazioni biologiche: i sistemi
biologici non istituiscono norme giuridiche, né si avvalgono al terzo-Altro, il giudice, con procedure
istituite (penali, civili) differenziate rispetto al procedere naturalistico che continua le forme di vita,
prive di un linguaggio svolto nella creatività del discorso intersoggettivo e triale.
Tornando all’inizio di questa prima tesi bisogna considerare che nella realtà contemporanea, nelle
realtà culturale contemporanea, si afferma tendenzialmente sempre più una direzione che ritiene di
poter dare una spiegazione dell’uomo così come si dà un spiegazione dei sistemi biologici.
La cultura contemporanea tende ad eclissare questa dimensione non spiegabile scientificamente
dell’uomo, tende anzi a dare spiegazioni scientifiche alla stessa attività di produzione delle norme
(attività legislativa), e la stessa attività dell’applicazione delle norme (attività giurisdizionale).
L’italiano Esposito, nel suo dialogare con il francese Nancy, sostiene che “la libertà non è un diritto,
ma soltanto un’esperienza” ovvero una delle innumerevoli modalità in cui può manifestarsi il senso.
Quando si afferma questo convincimento che dell’uomo si può dare un spiegazione scientifica si
afferma un itinerario che consapevolmente o meno finisce per aprire la via al nichilismo in generale
ed al nichilismo giuridico. Se si pretende di spiegare la libertà degli uomini, se si pretende di
spiegare la produzione delle norme che disciplinano la libertà degli uomini che sono in relazione, si
finisce per dover affermare che la libertà è un nulla.
La libertà è ciò che non si spiega, è ciò che stupisce, che non si lascia anticipare. Essa è ciò che,
come coglie Aristotele, genera questo senso di meraviglia, di stupore, di sorpresa, proprio perché
l’uomo nell’esercitare la sua libertà mostra il non essere oggettivabile
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Le controversie costituiscono il materiale della esperienza giuridica: c’è diritto perché ci sono o ci
possono essere delle controversie, ma le controversie che interessano il diritto non sono i conflitti
vitali dei sistemi biologici.
Nell’ordine biologico i conflitti vitali sono decisi dall’essere più forte, dall’avere più vita
dell’elemento che entra in conflitto vitale con un altro elemento.
Il diritto invece lascia apparire delle controversie che sono delle controversie di senso, ovvero
sono delle controversie che riguardano il modo in cui ogni singolo uomo legge la sua presenza nel
mondo che è condiviso con gli altri uomini, ha una sua lettura, ha una sua interpretazione del
trovarsi nel mondo. I conflitti di interpretazioni chiedono di non essere risolti dalla legge del più
forte, come avviene nei sistemi biologici, ma una soluzione del conflitto che è quella esclusiva della
giuridicità ovvero appartiene ad una norma che è stata istituita avendo i caratteri della terzietà è
sopra le parti.
Dove c’è diritto c’è una relazione di riconoscimento, c’è il ritrovare se stesso nell’altro e dove c’è il
riconoscimento c’è il superamento di un rapporto che è semplicemente di esclusione.
L’uomo non si lascia incontrare nella forma di una oggettivazione che lo riduca ad un materiale
vitale. L’uomo si lascia incontrare sempre nel suo essere capace di una soggettività creativa in un
mondo, come ricorda Sartre, caratterizzato dalla penuria, ovvero da quella condizione dove non ce
n’è abbastanza per tutte le possibili creazioni di senso di tutti gli uomini. Proprio per questo è
indispensabile istituire una disciplina giuridica, volta a garantire alcune “esperienze” (per dirla con
Esposito) e non altre.
Secondo l’insegnamento di Sartre, la libertà non si lascia spiegare scientificamente: la libertà è
sempre ciò che è ed anche ciò che non è, si presenta in una sua forma definita però ogni volta che si
presenta in quella sua forma definita è già sempre oltre quella sua forma definita. Per questo
l’uomo non è mai ciò che è. Secondo Sartre, nell’opera dell’essere nulla dell’uomo, si può dire che
l’uomo non è mai ciò che è, è sempre ciò che non è. Per dire che l’uomo non è si afferma che
l’uomo non è riducibile a nulla che si lasci incontrare attraverso un processo di oggettivazione
tecno-scientifica.
Dunque i tentativi di epurare, di emarginare la direzione interpretativa filosofica del diritto per
lasciar essere soltanto la direzione che è propria di una tecnica di una scienza e di una tecnica del
diritto, sono tentativi destinati a fallire perché non incontrano l’uomo poiché la qualità peculiare,
ciò che distingue e differenzia l’uomo consiste appunto nella sua irriducibilità ad un oggetto che
trovi una qualche sperimentazione scientifica.
Roudinesco, una psicoanalista contemporaneo francese, dice che non c’è nulla di più distruttivo
per un soggetto che l’essere ricondotto al suo sistema fisico-chimico perché in questo modo la
soggettività viene cancellata, la libertà viene spenta, diventa nient’altro, secondo Roudinesco, che
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un esercizio meccanico di una funzione vitale, ma questo, conclude la studiosa francese, porta alla
vigilia di una nuova barbarie.
Ecco che è opportuno considerare la distinzione che viene fatta più volte nel corso di questi ultimi
decenni, viene ripresa in modo originale da più autori, viene ripresa soprattutto da Scheler che è un
filosofo tedesco che si forma con Husserl ma che si allontana poi da Husserl che scrive nei primi
decenni del novecento e che distingue con forza la società dalla comunità perché la società si
costruisce secondo un modello che è vicino a quello dei sistemi biologici.
Nella società prevale la dimensione del funzionalismo, prevale ciò che è proprio di una funzione
ovvero di un “per qualcosa”, mentre nella comunità, scrive Scheler che quel che è essenziale è un
insieme vissuto direttamente da tutti i suoi membri.
In modo fondamentale, Heidegger, che è il pensatore contemporaneo di maggiore vigore
speculativo, dice che all’uomo appartiene questa dimensione centrale dell’esistere come mortale,
ovvero dell’avere nella sua esistenza la questione del senso della morte la quale implica una forma
di coesistenza che è possibile, che si possa comunicare, che si possa compartecipare, che possa
trovare delle forme coesistenziali nel modello della comunità.
Nel modello della società invece la morte diventa un fatto privo di rilievo, è qualche cosa che
disturba il funzionamento del produrre il consumo, è un incidente che viene calcolato tra i tanti
altri incidenti ma non ha un rilievo esistenziale.
La scienza conosce, tornando ad Heidegger, il fatto della morte, la tecnica lo tratta, ma entrambi
non riescono ad accedere al senso di ciò che significa esistere come mortali.
Esistere come mortali significa esistere in un condizione dove si ha la consapevolezza di esistere
con gli altri non avendo un dominio integrale del proprio esistere: questa consapevolezza porta a far
luce sul nomos, ovvero sulle regole: chi non può tutto, e dunque non può avere un dominio integrale
sulla sua vita non ha un sapere totale poiché la morte rimane un mistero non può tutto sugli altri.
Heidegger precisa che la teoria del reale nel pensiero moderno, a differenza del pensiero greco dove
la teoria del reale aveva una capacità di disvelare la verità, nella condizione contemporanea invece
le teorie del reale finiscono per funzionare come delle operazioni che esigono di avere una
incidenza tale da frammentare l’Io, da ridurre l’unità dell’Io in molti frammenti.
Dunque le teorie del reale, e dunque la stessa teoria generale del diritto che non entra in dialogo
con una filosofia del diritto, incontra l’uomo come se lo potesse incontrare in un suo frammento, lo
incontra come l’uomo che è l’uomo del diritto, del fenomeno diritto, quasi che si potesse mettere a
parte, separarlo radicalmente dagli altri frammenti di uomo: quello della vita affettiva, l’uomo della
vita artistica, l’uomo che esercita la propria attività di ricerca e di creazione di un senso. Dunque le
teorie del reale, la teoria generale del diritto come una delle teorie del reale finiscono per
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comportare una sorta di declino, di caduta del pensiero giuridico perché esigono che l’uomo sia
incontrato in diversi frammenti, che l’uomo del diritto possa essere incontrato come una parte
dell’essere uomo.
Invece la filosofia del diritto sollecita a pensare che ogni volta che ogni volta che un insieme di
norme istituite incontra l’uomo, lo incontra nella sua interezza, lo incontra proprio per questo nella
sua responsabilità, come colui che risponde della sua soggettività.
Il nichilismo diventa un nichilismo giuridico quando spezza questo ponte essenziale fra una teoria
generale del diritto ed una filosofia del diritto, ovvero quando spezza questo ponte essenziale fra
incontrare l’uomo anche nelle sue distinte, diversificate presentazioni particolari che sono quelle
trattate dalle diverse scienze, ed invece incontrarlo nella unità, nella sua esistenza che non può
essere frammentata perché sempre ripropone, tornando a destare ciò che è proprio dell’inizio della
filosofia, ovvero la meraviglia e lo stupore, perché appunto ripropone questa unità non anticipabile
di un soggetto creatore che però esistendo in un mondo dove non ce n’è abbastanza per tutti entra in
conflitto, entra in una coesistenza che è attraversata dallo stato di penuria e dunque chiede la
disciplina giuridica, ricordando però che la giuridicità è sempre tale se ha i tratti che sono propri di
una regola terza e non di una regola di parte.
Fenomenologia, nel pensiero di Heidegger, è la ricerca di ciò che innanzitutto e per lo più non si
manifesta, ciò che è nascosto ma esprime il senso ed il fondamento della cosa, diversa da ciò che si
lascia mostrare della cosa stessa.
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TESI 2 – L’ORDINE SIMBOLICO: TRIALITA’ DEL LINGUAGGIO (LOGOS)
E
TERZIETA’ GIURIDICA (NOMOS)
La trialità del logos si dispiega nell’”ordine simbolico” dove i soggetti parlanti prendono e
destinano la parola ipotizzante, tenendosi in un luogo terzo, che non è di un singolo, ne di una
qualsiasi altra entità. Qui si apre il darsi inevitabile delle controversie tra gli uomini, alimentate
dalla condizione di penuria del mondo e regolate alla terzietà del nomos (filosofia del diritto),
secondo la principalità del modello relazionale della filiazione, esclusivamente umano e non
riducibile in quello biologico della riproduzione animale (Tecno Scienza del bio-diritto).
Trialità del logos: i soggetti prendono la parola a partire da un luogo terzo, da un luogo che non è
né il luogo di chi prende la parola, né il luogo di quanti sono gli interlocutori, i destinatari di questo
prendere la parola. Tra i soggetti di una relazione comunicativa c’è questo spazio terzo, non
padroneggiabile con la forza, dove ognuno prende la parola e la ridestina. A garanzia di questo
spazio è posta la terzietà del nomos: il diritto, dunque le norme giuridiche vigenti in un tempo in
un luogo, operano in modo tale che ognuno possa esercitare questo diritto primo, prendere la parola
ovvero dire se stesso, partecipare a ciò che appartiene alla coesistenza.
Nessuno può impedire che ognuno nella sua struttura esistenziale concepisca una comunicazione la
faccia transitare agli altri nei modi e nei tempi che sono propri di ogni forma che ricostituisce una
relazione caratterizzata dal reciproco riconoscimento.
L’impiego del termine soggetto, come viene sostenuto da Derrida, non è confondibile con la
sostanza della struttura delle cose. L’uomo è titolare di diritti perché non è una cosa, è titolare di
una soggettività giuridica perché è soggetto ed è soggetto perché la sua struttura non coincide mai
con una nessuna sostanza definita, non ha una possibile conformazione di tipo sostanzialistico.
Derrida sostiene che bisogna sempre tornare a criticare ogni visione del soggetto ritenuto come
sostanza identica a se stessa. Perché se si dovesse ritenere che il soggetto, l’uomo, colui che parla,
come una sostanza identica a se stessa, si finirebbe per dire che questo soggetto non è aperto alla
creazione del suo discorso, non è aperto a creare un senso ed a iscriverlo nel mondo condiviso con
gli altri. Derrida insiste in una critica di ogni forma sostanzialistica di riduzione dell’uomo a
sostanza così come sono riducibili le cose a sostanza.
L’uomo non è una cosa, non è un semplice vivente perché non è oggettivabile in nessuna sostanza,
la supera sempre, c’è sempre nella manifestazione di ogni singolo uomo di un plus che eccede
qualsiasi confine in una possibile sostanza definita e proprio in questo plus compare l’inesauribile
esercizio del diritto da parte dell’uomo, del diritto a formare la sua identità. L’identità che però è
un’identità esistenziale, quindi non è una identità data una volta per sempre.
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Il diritto garantisce che l’uomo costruisca una identità che non è mai ultima, che non è mai
definitiva, che è sempre da riprendere nel lavoro continuo della comunicazione discorsiva con gli
altri uomini.
Diversamente da Derrida, Roberto Esposito che ha colloquiato in un volume con Nancy, arriva ad
affermare che la libertà non è nient’altro che una esperienza. Quindi la libertà non sarebbe un
diritto ma nient’altro che una esperienza perché la stessa questione del senso è una esperienza.
La questione del senso viene presentata in modo paradossale da Esposito in “libertà in comune”,
che afferma che “ogni senso è libero di essere uno degli infiniti sensi in cui è esploso il senso” e
dunque non può essere qualcosa che costituisce il contenuto dell’esercizio di un diritto
incondizionato di ogni singolo uomo. Se è soltanto l’esplosione il senso non c’è che da stare a
vedere ciò che si afferma, non c’è che da rassegnarsi a prendere atto di ciò che essendo vincente si
afferma su altre forme, su altri tentativi di far emergere un senso invece che in un altro, e di farlo
emergere tramite alcuni uomini invece che attraverso altri uomini.
Nel sostenere questo Esposito non tiene conto che il modo in cui si descrive questa esplosione di
senso non è indifferente: non si stratta soltanto di un gioco, non è un fenomeno ludico di tipo
vitalistico come si può osservare negli altri animali. Gli effetti possono essere radicalmente opposti,
si può dire che in base al modo in cui è esploso il senso, si potranno avere delle forme di
coesistenza che sono nettamente diverse. Si potrà avere l’affermarsi dei crimini contro l’umanità
che è una direzione in cui il senso è esploso, oppure si può avere invece una mondializzazione dei
diritti dell’uomo.
Dunque non si può condividere la posizione di Esposito e di Nancy che vedono nella questione del
senso soltanto un giuoco che registra questo formarsi di modalità sempre distinte, sempre difforme
del senso, che finiscono per dar vita poi a delle forme diverse di organizzazione della stessa vita
quotidiana, della stessa vita pubblica, delle stesse istituzioni anche giuridiche. Non si può
condividere che sia solo questo perché si dovrebbe allora concludere che le istituzioni giuridiche in
modo indifferente possano essere il luogo dove si praticano dei crimini contro l’umanità come
accade nei sistemi dittatoriali, o invece siano le istituzioni giuridiche quei luoghi che sono destinate
a garantire la mondializzazione dei diritti dell’uomo.
Il termine soggetto nel pensiero moderno, soprattutto dopo che Freud ha dato attenzione
all’inconscio, ha una valenza diversa da quella che ha avuta nella storia del pensiero filosofico
precedente. Con Freud si prende atto che il soggetto è sia l’autore di ciò che dice, ma è anche colui
che è sempre attraversato da ciò che non dice, e questo non è senza rilievo nella vita del diritto (nel
diritto penale il soggetto, l’autore di un delitto, è incontrato nella sua soggettività non soltanto se
viene incontrato nell’essere il portatore di ciò che dice ma se si riesce a svelare ciò che gli
appartiene pur non essendo mai stato posto in parole, ciò che gli appartiene perché è la sua
dimensione inconscia).
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Con Freud diventa difficile incontrare in modo critico la soggettività dell’altro che è certamente
l’autore, colui che è responsabile delle scelte che compie, delle azioni che pone in essere, delle
condotte che decide di assumere, di perseguire, di realizzare, ma è anche colui che è attraversato da
questo mondo dell’inconscio: il giurista non può non entrare anche in rapporto con questa
dimensione. Si torna ad affermare ciò che in modo efficace si era già letto in Sartre, ovvero che la
condizione esistenziale dell’uomo che non è soltanto la sostanza ma è anche ciò che l’uomo non è,
non è soltanto la coscienza consapevole che esercita ma è anche la dimensione dell’inconscio che
gli appartiene. Nella scoperta freudiana assume rilevanza la compresenza del detto e del non
detto, di ciò che è patrimonio della coscienza dell’uomo e di ciò che appartiene invece al suo
inconscio, proprio in questa duplicità di dimensioni si chiarisce lo spazio iniziale del diritto.
Kierkegaard
L’uomo vive, coesiste con gli altri avendo istituito delle norme, ma è possibile che abbia istituito
delle norme perché nell’uomo la struttura temporale è profondamente diversa dagli altri viventi non
umani, dai singoli oggetti.
Secondo Kierkegaard (filosofo che dà il via all’esistenzialismo come critica di ogni visione
sistemica del sapere, che ha trovato nell’idealismo tedesco il suo compimento) la dimensione
temporale dell’uomo non è il rapporto ma è il rapporto che si mette in rapporto con se stesso.
Egli sollecita a pensare che la struttura temporale dell’uomo è quella della doppia
contemporaneità, ovvero l’uomo è contemporaneo con gli oggetti che lo circondano, però è poi
contemporaneo a questa contemporaneità, ovvero ha la coscienza della sua esistenza. Tra la prima
contemporaneità e l’essere contemporaneo a questa contemporaneità, vi è lo spazio della libertà,
dove l’uomo nell’essere contemporaneo verso gli elementi che lo ambientano, stabilisce delle
direzioni di senso, stabilisce degli orientamenti, formula dei progetti di mondo. Freud, sul tema, ha
affermato che il soggetto è caratterizzato dalla presenza a se stesso e dalla coscienza della sua
esistenza.
Tutto questo costituisce l’inizio delle questioni del diritto, costituisce l’inizio della questione del
perché nasce il diritto. Il diritto nasce perché non è anticipabile il modo in cui l’uomo nella
seconda dimensione della contemporaneità si farà contemporaneo agli elementi che lo ambientano.
E non essendo tutto questo anticipabile non può essere oggetto di conoscenza scientifica, ovvero
dalle discipline che studiano la vita nei viventi non umani che sono tutti integralmente anticipabili
nelle loro manifestazioni vitali.
Il diritto si istituisce quindi in questo spazio che è proprio della temporalità dell’uomo, che è
situato tra la prima contemporaneità, l’essere in una condizione di simultaneità con gli elementi che
ci ambientano, e l’essere poi simultanei verso questa simultaneità, ovvero compiere un’opera di
riflessione, compiere un’opera che è quella propria del progettare ed è nel progettare, nel creare un
itinerario nuovo che viene ad essere il risultato di una relazione che interessa gli uomini in un
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rapporto comunicativo, dove il comunicare non è l’informare con comunicazioni vitali che
appartengono agli altri animali, ma l’interrogarsi sul perché, sul senso di ogni uomo nella sua
esistenza e sulla sua esistenza condivisa con gli altri e sul senso delle regole che disciplinano questa
coesistenza: nel compiere quest’opera di riflessione, compie l’opera che è tale da manifestare la sua
struttura temporale che è questa della doppia contemporaneità.
L’apertura di senso del soggetto entra in rapporto con quelle degli altri, producendo le controversie
che generano la genesi fenomenologica del diritto, che opera mediante il terzo Altro come
disciplina delle polte possibili inscrizioni di senso che, essendo diversificate in un mondo
caratterizzato dalla penuria, sono destinate ad escludersi in un mondo condiviso nel quale non tutte
le ipotesi di senso dei parlanti possono realizzarsi:
Tutto ciò che ha a che fare con il diritto, dice un giurista francese Ost, ha a che fare con la
dimensione principale della temporalità che è la promessa, ovvero il futuro. Il futuro è dunque la
dimensione principale del diritto, che è una dimensione cha appartiene esclusivamente agli uomini.
Gli animali hanno un poi, hanno un ciò che accade dopo, ma non hanno nulla a che fare con il
futuro.
Il futuro è lo scegliere un progetto, secondo Heidegger, è l’infuturarsi, che vuol dire compiere una
scelta nel progettare un’esistenza che è sempre condivisa con gli altri in un mondo sempre avvolto
da questa condizione dove non ce n’è abbastanza per tutti e dunque dove è indispensabile
l’intervento di una disciplina giuridica. Il diritto costituisce la regola terza che contempla la
possibilità che coesistano il mio ed il tuo senza la violenza di ciò che è più forte dell’uno sull’altro.
L’io non è anticipabile da alcuna conoscenza oggettivante: le teorie del reale tendono a
settorializzare l’uomo dissolvendolo nelle molte regioni sistemiche che costituiscono i distretti di
tali teorie (economia, politica, etc). Ogni teroria-scienza non incontra l’io integrale dell’uomo, ma
un uomo frammentato, scisso come avviene nel caso delle tecno-norme di una scienza giuridica
senza giurista.
I viventi non umani, gli animali, sono attraversati da una evoluzione biologica che accade, ma non
comporta una partecipazione consapevole e responsabile, un intepretarsi dei viventi nella la
prospettiva della creazione di senso, che invece è nucleo delle formazioni storiche che ambientano
le istituzioni giuridiche. Le regole dello stato civile possono essere osservate e descritte nel
coesistere dei parlanti ma non nel vivere insieme degli animali. Nella coesistenza dei soggetti
parlanti le regole non sono prodotte ed applicate dalle operazioni di un saper fare tipico del tecnico
delle norme.
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TESI 3 – GUSTIZIA E LEGALITA’: L’ARTE DEL GIURISTA
L’arte del giurista non si esaurisce nel servire una forma vuota che è legge a se stessa:la legalità
(Teoria generale del diritto) senza la giustizia (filosofia del diritto). Nella situazione
contemporanea, l’opera della ragione giuridica è impegnata nell’illuminare la differenza tra
l’umanesimo del diritto ed il post-umanesimo delle norme, costitutivo oggi delle diverse figure di
funzionario-tecnico del “sistema normativo”, concepito come sistema di funzione , desoggettivato
ed indifferente alla qualità del relazionarsi nel rispetto o nella violenza dell’altro.
Il metodo trionfa sulla scienza quando si afferma un itinerario dove il solo metro è la
precalcolabilità di ciò che viene trattato. L’uomo ritarda e devia il trionfo del metodo sulla scienza
perché, con il suo esistere nell’ascolto artistico, disnumerico e disfunzionale, lascia presentarsi
ancora ciò che non si lascia calcolare nell’anticipazione di quel che è calcolabile impiegando un
definita metodologia.
Il senso della Teoria del diritto si illumina nella differenza-di-senso nei confronti degli oggetti della
teoria dell’economia, della politica. Le parole del diritto nascono dal silenzio creativo sulle parole
dell’economia, della politica, è solo quel silenzio che consente di nominare il diritto,
differenziandolo nella sua direzione fenomenologica.
Il silenzio, così come definito da Platone, incide come la luce: il silenzio non si sente e non si legge,
ma rende possibile l’ascoltare-comprendere; la luce non si vede, ma è condizione del poter
guardare.
Il silenzio è la preparazione responsabile delle parole da enunciare. Il “pensiero preparatorio”
sollecita lo scegliersi dei parlanti nell’istituire il futuro, che non va confuso con l’accadere poi
di una commistione fattuale ed a-soggettiva. Ciò, cioè il semplice accadere-poi si afferma nel
nichilismo giuridico perfetto, condizione del post-umanesimo compiuto.
L’umanesimo, nella prospettiva di Jaspers, afferma cha appartiene all’ uomo l’esercizio
responsabile della libertà, nella condizione contemporanea, però, lo sviluppo delle tecno-scienze
costringe ogni esistente in itinerari dove solo chi è capace di una competenza specializzata può oggi
produrre qualcosa di significativo. La condizione per umanesimo futuro è l’infinito affaticarsi
intorno all’assimilazione e al controllo della tecnica.
In questo “affaticarsi” emerge il compito esistenziale del diritto nel disciplinare gli effetti delle
tecno-scienze, che incidono sulla qualità del poter essere liberi in un mondo condiviso.
Del resto l’estensione del dominio della tecnica non ha confini, coincide con l’attuale processo di
globalizzazione del mercato, così che oggi è divenuto impossibile emigrare in altre terre per
fondarvi un’altra migliore comunità.
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Jasper osserva che molte civiltà sono tramontate e l’umanità è minacciata nella sua totalità e che
tale minaccia è avvertita più acutamente di sempre e che,nella sua virulenza, non coinvolge più
soltanto i beni della vita, ma lo stesso essere uomo. Si aprono in questo modo gli itinerari di un
oscurasi dell’ umanità nel post-umanesimo.
L’umanesimo non è la causa della libertà né il suo fine ultimo, ma ne costituisce lo spazio
spirituale. La libertà non è mai l’oggetto di un sapere totale che spieghi i nessi causali e casuali, ma
si chiarisce sempre in sapere parziale.
Heidegger non condivide la tesi di Nietzsche, secondo il quale ciò che caratterizza il XIX secolo
non è la vittoria della scienza, ma il trionfo del metodo scientifico sulla scienza. Heidegger infatti
sostiene che per metodo si intende la totale calcolabilità di tutto ciò che si rende necessario e
dimostrabile nell’esperimento. In questo senso, il metodo è un trionfo anche sull’uomo, che diventa
solo uno tra i materiali pre-calcolabili, così d affermarsi il convincimento che l’uomo rappresenta
ancora un fattore di disturbo. Crea disturbo l’apparentemente libero pianificare e fare dell’uomo.
L’uomo infatti devia il trionfo del metodo sulla scienza perché con il suo ec-esistere artistico,
disnumerico e disfunzionale , si presenta ancora come ciò che non si lascia calcolare.
Si descrive così la dimensione artistica dell’opera del linguaggio –discorso, della parola rinviante
che eccede il successo sistematico fattuale dei linguaggi numerici, usati nelle tecno-scienze.
La discussione della condizione contemporanea può progredire con la critica di Nancy che sostiene
che la libertà è un fatto, cioè una libertà fittizia, consistente nel suo stesso farsi,senza alcuna regola.
Le tesi di Nancy però non considerano il peculiare incidere della “formatività”sulla condizione
dell’essere liberi, che nasce e si costudisce nel medio della trialità (logos)-terzietà (nomos) e dunque
nel reciproco chiarirsi del linguaggio-discorso e della struttura del diritto.
La teoria della formatività si deve analizzare, riferendola:
1) alle modalità peculiari dell’arte pura, poetica, musicale;
2) agli elementi costitutivi dell’arte istituire-applicare il diritto .
Nell’arte pura l’opera riuscita non ha altro titolo per offrirsi al riconoscimento che l’essere riuscita.
Fuori dall’arte pura, quindi essenzialmente l’arte del diritto, la riuscita è misurata dalla
corrispondenza dei fenomeni sociali agli scopi che li specificano. Tali scopi non possono essere
confusi né con una creatività assoluta del singolo artista (eccezione) né con l’occasionalità di ciò
che accade (casualità).
Nelle istituzioni radicate dell’arte del diritto, gli uomini si relazionano giuridicamente solo in
quanto conoscono già la norma istituita che precede e disciplina i loro atti e che conferisce ad essi
una forma certa.
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Il giurista,diversamente dall’artista dell’arte pura non opera con una forma che è legge a sé stessa.
Opera invece con una forma che ha la sua Legge nella specificità della differenziazione del
fenomeno diritto degli altri fenomeni sociali.
La libertà non è un fatto innocente, senza l’unità-differenza delle dimensioni temporali-passato,
presente e futuro- non si svuota nel declino nichilistico del senso, è l’esercizio della responsabilità
che memora il passato e, nel presente, progetta il futuro del mondo con-diviso e disciplinato
dall’ortonomia del diritto dell’uomo, che conferisce senso esistenziale all’ incidere delle norme
giuridiche nelle relazioni tra gli uomini.
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TESI 4 – ISTITUIRE IL DIRITTO: OLTRE LA SISTEMAZIONE LOGICO-FORMALE
DELLE NORMA
La “teoria del diritto” tratta la sistemazione logico-formale delle norme; non dice nulla sul senso
esistenziale del diritto, perché non pensa l’”ordine simbolico”, che, distinto dall’”ordine cosale”,
sostenta la dimensione contro fattuale della terzietà giuridica, imparziale e disinteressata,
nell’opera d’arte di istituire le norme (terzo legislatore) e dell’enunciare il giudizio (terzo giudice),
garantito dalla forza (terzo polizia).
Nella discussione del rapporto tra teoria generale del diritto e la filosofia del diritto è essenziale
cogliere il confine tra l’ordine delle cose (cosale) e l’ordine simbolico che alimenta la giuridicità.
L’ordine cosale è l’ordine di tutto ciò che si lascia oggettivare, contare, di una tecnica. Il metodo
si tecnicizza e domina la scienza (Nietsche).
L’ordine delle relazioni tra i soggetti di diritto (simbolico) si forma in modo continuo ed
inesauribile tipico del modo di incedere dell’uomo. Viene oggettivato un insieme di entità di
oggetti, dopodiché questi elementi ricevono un senso nuovo che viene inscritto attraverso
l’opera di istituire una seconda vita, la vita delle istituzioni. L’ordine simbolico risulta
dall’attività dell’istituire che costituisce la base delle istituzioni giuridiche. L’istituire le norme da
pare del legislatore terzo, enunciare le sentenze da parte del giudice terzo con la garanzia della forza
da parte delle forze di polizia terze. Tre qualificazioni dell’essere terzo, che sono un tutt’uno e che
formano un ordine simbolico, nel quale i tre elementi dell’essere terzo sono funzionali l’uno
all’altro.
Il riferimento principale è alla vita di relazione. Ficht dice che l’uomo è tale solo se ci sono gli altri
uomini e se non è oppresso dagli altri uomini, se è in una relazione distintiva del relazionarsi
giuridico. Quando si riprende la tesi di Ficht (l’uomo diventa uomo solo con altri uomini) si fa
riferimento a quanto scrive attualmente Nancy dell’uomo ““Ogni ego sum è un ego cum” ogni io
sono è un io con. E’ un uomo singolare plurale. L’uomo è singolare ma la singolarità della sua
identità attiene ad una singolarità che è tale nella pluralità.
Nancy nell’affermare ciò non si ferma nel descrivere che appartiene alla struttura dell’uomo la
dimensione fondamentale del pathos, ovvero del sentire originario, che è un sentire che eccede
la dimensione biologica. L’uomo forma la propria identità attraverso le identità degli altri con un
processo che non si ferma mai. Il diritto garantisce che ognuno possa essere singolare (dire se
stesso, prendere la parola). Questa dimensione “patetico-affettivo”. Il pathos è la dimensione base,
originaria, costitutiva della peculiarità dell’essere uomo, è il sentire che appartiene solo
all’uomo perché solo in esso c’è il sentire che ne va di se stesso. L’uomo non si limita ad essere
un fatto, l’accadere di qualche cosa: nell’uomo c’è qualcosa che eccede, che è l’avvertire che è in
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gioco il suo sé stesso. E che quindi è in gioco il suo sé stesso in un ordine che è l’ordine simbolico,
l’ordine che nasce nelle forme storiche, che come tutti gli ordini simbolici acquista la modalità che
è propria della storicità.
Il linguaggio che riguarda il diritto è un “linguaggio–discorso”, che ha una disciplina che viene
formata di volta in volta, in quel luogo, tempo, modo di relazionarsi. E’ un modo che è stato
istituito e così sono state istituite le norme che lo disciplinano, che essendo state istituite chiedono
un lavoro interpretativo. Il linguaggio degli altri viventi, informazionale, non richiede di essere
istituito, interpretato, non esige l’opera d’arte dell’interpretazione, che è opera centrale del diritto. Il
diritto è il diritto incontrato dalla filosofia del diritto, ed interessa l’esistente nella sua differenza
fenomenologica rispetto alle altre forme di vita. Non ci sono norme che nella vita degli uomini. Le
norme sono solo istituite. Norme non si danno in nessun altro ambito del non umano.
La contrapposizione tra mondo delle tecniche e della filosofia, nel mondo attuale, si manifesta nel
cercare di sostituire il mondo incerto della filosofica con la certezza del mondo scientifico e tecnico:
però questa certezza che si ritiene di poter guadagnare ha un costo altissimo, in quanto comporta la
negazione della soggettività dell’uomo. La soggettività non si lascia accertare, essere messo in
regole certe. Haidegger dice che la scienza non pensa, ovvero la fisica non può affermare nulla
sulla fisica, su sé stessa, non si può dire cos’è la matematica con un calcolo matematico. Le scienze
secondo Heidegger non sono in grado di rappresentare sé stesse come scienze, con i mezzi della
loro tecnica. Ogni scienza è già chiusa nel suo settore, come è chiusa la stessa intelligenza artificiale
(Harel, non si può computare la computazione, i computer non sono in grado di dire qual è il senso
della computazione, in che modo incide nell’esistenza dell’uomo la computazione). Heidegger dice
che viene rimosso il problema del senso. Ogni scienza tanto più progredisce tanto più dà
compimento di un metodo, tanto più rimuove le domande sul senso. Le questioni che investono il
diritto sono sempre questioni sul senso. Non ci sono controversie numeriche o vitali, non vi sono
contrapposizioni su diverse modalità di vita, si hanno contrapposizioni tra diverse interpretazioni
del senso che risponde alla domanda “che ne è di me stesso?”. Questo tipo di domanda è costitutivo
dell’uomo nell’avere a che fare con gli altri uomini e costituisce le controversie giuridiche come
controversie di senso. Quando si ritiene che le controversie tra gli uomini non sono
controversie di senso, cioè non sono tali da incontrare il terzo legislatore, per essere incontrato
scientificamente, non si incontra più nulla dell’uomo, anzi si incontra il nulla dell’uomo, si
incontra la riduzione dell’uomo sul piano del nichilismo perfetto (Nietsche). Quando si
persegue il convincimento di poter dire i fenomeni della giuridicità secondo lo schema normativo
delle teorie del reale, allora si dicono le norme, destinate ai frammenti di io , ma non si dice il
diritto, che è riferibile unicamente all’unità esistenziale dell’io. La teoria generale del diritto dice
solo la funzionalità sistemica delle norma nelle tante partizioni e sottopartizioni dei sistemi
normativi vigenti, non pensa il senso del diritto nel nesso uomo-diritto e dunque enuncia una
sistemazione di modelli di norme senza questionarne il senso nella differenza nomologica dirittonorme che costituisce l’orizzonte della filosofia del diritto.
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Il solo titolare del diritto, di una pretesa giuridica rivolta al terzo altro, una pretesa a non essere
usato nell’esecuzione di una tecnica, il solo titolare è l’uomo che pretende di manifestare il suo
essere diverso rispetto a qualunque altro e questo comunica ogni volta che va valere uno dei suoi
diritti fondamentali ma anche ogni volta che fa valere un diritto che è contenuto in qualche
enunciato normativo. Sempre diventa essenziale un rinvio al ripristino la condizione differenziale
dell’uomo, l’aspettativa dell’uomo di essere incontrato dal terzo attraverso l’arte del diritto e non da
un tecnico delle norme. Il palazzo di giustizia non è un’officina che ripara guasti, è un luogo dove si
ricerca il giusto nel legale. Ciò consente a Scheler (autore del pensiero tedesco moderno, primi
decenni del 900, che si forma con Husserl, dando avvio ad una fenomenologia dell’uomo e del
diritto) di affermare che “per quale altro motivo noi non ci attendiamo mai che gli animali possano
obbedire alle leggi, alle leggi morali, giuridiche? E perché non ce lo attendiamo dalle macchine,
neanche da quelle intelligenti? Perché né animali né le macchine si trovano mai davanti
all’alternativa tra violare o rispettare una norma. La macchina ha un guasto, ma non compie
gesti di violazione delle regole che sovrintendono al suo funzionamento. I concetti di giusto e bene
e rispetto si oppongono al concetto di non giusto e di male e di non rispetto attengono ad una
condizione che attiene ad una alternativa aperta che necessita di una disciplina, la disciplina
giuridica.
Negli uomini non c’è mai coincidenza tra le norme che sono istituite e le loro condotte: c’è
sempre uno spazio, un vuoto, che lascia aperto all’uomo la scelta tra rispettare la legge
istituita e non rispettarle.
Il diritto rispetta la struttura delle relazioni tra gli uomini se rispetta le modalità attraverso le quali il
diritto per incontrare gli altri ricrea di continuo la dimensione artistica, che è capace di incontrare la
soggettività nelle sue dimensioni mai anticipate, mai riproducibili. Non ci sono scienze che possono
riprodurre o anticipare la condotta degli uomini.
L’uomo ha l’aspettativa a trovare una garanzia nel diritto affinché il suo desiderio non sia confuso e
svuotato nelle modalità animali. Ciò che inquieta nel mondo moderno è che la cosiddetta fabbrica
dell’uomo occidentale, per usare una frase di Legendre, è una fabbrica che ritiene di potere sempre
di anticipare sempre l’opera di fabbricare l’uomo, del costruirlo come consumatore, pretendendo di
ridurlo ad uno solo degli elementi del sistema dell’economia. Ma l’uomo è una bestia avida
portatrice di una voglia di infrangere la possibilità di essere costretto nella condizione di
consumatore costruito dalla fabbrica dell’occidente, chiede che la sua condizione gli sia garantita
dal diritto e consista nel contenuto primo delle norme giuridiche e delle pretese giuridiche che
rivolge al terzo nella consapevolezza di rivolgersi ad un terzo che è tale in quanto imparziale e
disinteressato.
La comunicazione, luogo del destinare-ricevere la libertà che è dire-dirsi nelle parole, è già il
relazionarsi nella struttura e nelle leggi non disponibili del linguaggio-discorso, così che la libertà
dei parlanti non è coesistibile fuori da leggi non disponibili, non è dunque senza leggi, ovvero
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non una modalità di autolegislazione fattizia, consistente in una forma, pura e vuota, di un
accadere aperto a tutti i possibili contenuti che si affermano perché di fatto vincono ed
emergono. L’uomo esercita la libertà ma non dispone del trovarsi in essa o fuori di essa.
Il diritto dell’uomo corrisponde al rispetto del soggetto parlante, mentre trattare ed usare l’esistente
come un vivente-parlato corrisponde al diritto nell’uomo. Nelle aule di giustizia viene discusso il
diritto dell’uomo, non il diritto nell’uomo, non vi entrano né le nude norme né i nudi fatti costituenti
la “libertà fattizia” senza un chi responsabile del suo scegliersi.
La filosofia del diritto sollecita le domande sul senso del legame tra la giuridicità, l’interezza
dell’uomo e l’opera d’arte del giurista (Carnelutti), che consiste nell’istituire, interpretare e
nell’applicare le norme.
L’osservazione e l’analisi del soggetto parlante mostrano che fenomenologicamente si
incontra prima l’uomo, “chi” del logos, nella trialità del linguaggio discorso connessa alla
terzietà del nomos che disciplina (giusto/non giusto) il prendere-destinare la parola in uno
spazio logico-esistenziale non padroneggiabile da qualcuno escludente l’altro. Solo poi si
incontrano le norme istituite, costitutive di un ordine giuridico positivo (legale/non legale)
storicamente individuato.
Le leggi dei viventi non umani risultano da un divenire integralmente coincidente con l’evoluzione,
priva della coalescenza di logos, pathos e nomos, che formano e differenziano la storia.
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TESI 5 – CONVENZIONE FUNZIONALE E RELAZIONE GIURIDICA: IL SENSO
GIURIDICO
La Teoria tratta le norme nella prospettiva delle convenzioni funzionali (numerare il per-qualcosa).
La filosofia pensa il diritto nelle convenzioni essenziali (il dire per se stesso); discute l’istituzione
delle forme ortonome della relazione giuridica che, in una duplice e connessa direzione, tolgono
dall’in-forme, senza un senso e liberano dall’assoggettamento alle forme imposte dalla attualità
vincente del più forte, che oggi consiste nel funzionare-più del Nessuno, nucleo del
fondamentalismo funzionale.
La lezione discute il rapporto tra convenzione ed il diritto, intendendo per convenzione ciò che
costituisce l’incontro tra due volontà che convengono.
Si ha una modalità del convenire funzionale e del convenire essenziale. La prima riguarda le
forme e i contenuti e gli itinerari con cui due soggetti convengono su qualcosa di definito, per
qualcosa, come nel contratto. La convenzione essenziale consiste nel convenire iniziale per se
stessi, ovvero in quel convenire che manifesta uno scegliersi del singolo soggetto e dell’altro
singolo soggetto ed attiene alla priorità giuridica dell’io, al suo non asservimento né agli altri, né
all’asservimento al successo del mercato o di definite operazioni funzionali ad un per qualcosa.
Ogni relazione si stabilisce in un convenire per qualcosa, ma che all’inizio ha un convenire per se
stesso.
Il convenire su qualcosa che tralascia il per se stesso: si conviene su qualcosa che non muove dal
convenire per se stesso. Il convenire funzionale si configura in un ruolo (venditore etc), mentre il
convenire essenziale eccede ogni ruolo, ma costituisce il senso del convenire di un uomo con un
altro uomo, e costituisce un esercizio della propria libertà.
Il convenire essenziale è alla genesi di ogni convenire funzionale. La convenzione funzionale è
fenomenologicamente omogenea alla giuridicità (è giusta) quando viene radicata e misurata
nella convenzione essenziale.
Nancy dice che si ha nel convenire l’apertura di uno spazio libero del senso, dove compare l’io
come soggetto di diritto nella sua unità esistenziale. Il convenire essenziale dove compare il
soggetto nella sua unità non divisa, l’io.
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Nello spazio custodito dalla giuridicità si ritrovano di continuo le due modalità che l’uomo
stabilisce con il senso ovvero la differenza di senso ed il rinvio di senso. Differenza di senso
perché ogni senso è tale perché diverso da ogni altro senso, che non può essere fungibile con altri
sensi. E’ un senso che appartiene ad un uomo in quanto libero di far rinvio ad altre scelte, che lascia
libero l’uomo di scegliere altre modalità di senso. Nel futuro le modalità non scelte potranno
divenire scelte dall’uomo.
Le controversie giuridiche sono controversie di senso, che mostrano come il diritto non sia
riducibile ai modelli dei sistemi biologici. Luhmann (autore della sociologia e della filosofia, un
pensatore universale) nella sua opera costruisce il sistema diritto partendo dal modello di sistemi
biologici.
Luhmann ritiene che i sistemi sociali abbiano come possibili modelli sistemi biologici. Per questa
direzione si ha che la convenzione tende a scivolare verso una semplice convenzione funzionale in
quanto nei sistemi biologici si ha un convenire perché si ha un continuare delle memorie di quel
sistema biologico. Nel sistema biologico non si aprono conflitti di senso.
Scivolando verso un sistema delle teorie del reale, si apre la strada ad un sistema di norme che
opera come un sistema immunitario, indifferente alla qualità esistenziale del relazionarsi
secondo i due poli opposti del giusto (reciprocità del riconoscimento) non giusto
(unidirezionalità dell’esclusione) e confinato alla vuota forma del codice binario del legale/non
legale capace di avere come suo contenuto qualsiasi fatto normativizzato (razzista, fondamentalista,
etc).
L’esistenza dell’uomo è un plus, non si lascia confinare nel sistema biologico. L’incontro tra gli
uomini avviene in un mondo caratterizzato dalla penuria, in cui non tutte le modalità di senso
possono realizzarsi (Sartre). Se tutte le modalità di senso potessero tutte trovare
concretizzazione nel mondo non nascerebbe nessuna questione che dà origine alla giuridicità.
La disciplina nasce dal fatto che non tutte le modalità di senso possono concretizzarsi.
Nei conflitti biologici si danno domande sul fisiologico e sul patologico, non sul senso. L’uomo
si interroga sulla propria esistenza, costruisce una identità non confondibile: nel sistema umano non
si danno domande su funzionamento e patologia, ma si danno questione del giusto che si oppone al
non giusto, si dà tutto ciò che è proprio delle scienze umane e storiche (Croce) che non sono esatte.
Le scienze storiche umane non sono esatte perché non hanno nessuna possibile presentazione di tipo
rigorosamente scientifico. Il filosofo francese contemporaneo Ost dice che la modernità giuridica
(costituzione, legge, trattato, contratto), centrata sulla soggettività creativa del futuro che va oltre
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l’accadere necessario-contingente delle memorie naturalistiche, si pensa nella forma nel nucleo
della promessa, ovvero sulla formazione giuridicamente convenuta del futuro, che è il
convenire essenziale delle libertà umane su un qualcosa di definito ovvero su un convenire
funzionale.
In questa definizione giuridica del futuro si pongono questioni che si interrogano sui contenuti che
deve assumere la promessa, perché non tutte le promesse hanno caratteri di giuridicità (la promessa
di uccidere, etc). E’ essenziale che compaiono delle riflessioni proprie della filosofia del diritto
relative alla selezione dei contenuti della promessa, per dire sì a determinati contenuti e no ad altri.
La piena giuridicità dei contenuti della promessa è radicata nella specificità fenomenologica
del diritto, messa in opera dall’arte del giurista, che custodisce l’unità del sé stesso, nel suo
relazionarsi con gli altri nel medio del terzo Altro
La promessa ha i tratti della giuridicità perché è disciplinata dai contenuti delle norme selezionati
ed istituiti dal terzo-Altro (terzietà nomos, trialità logos): tale regola vale sia per la relazione
giuridica, sia per la relazione discorsiva. Si conferma pertanto il legame tra diritto (nomos) e
linguaggio-discorso (logos). L’opera di selezione dei contenuti normativi della relazione giuridica
ha la medesima struttura dell’opera selettiva dei contenuti comunicativi della relazione discorsiva,
ovvero l’opera che si costruisce nel reciproco riconoscimento dei parlanti nel medio della trialità del
logos.
Così come la discorsività non può avere nel suo contenuto il toglier la parola all’altro (per
mantenere la sua struttura la discorsività deve mantenere la relazione che è comunicativa solo se è
di riconoscimento tra i soggetti che parlano) , così anche la relazione giuridica non può avere
ogni contenuto (se ha un contenuto violento, se non riconosce la soggettività dell’altro, si nega
come relazione giuridica).
Il convenire ha una struttura giuridica se ha la struttura che ripropone l’attraversarsi costante di
logos e nomos. Ciò spiega perché il convenire per se stessi è la regola del convenire per qualcosa, in
quanto mantenendo questa regola del convenire per se stessi si selezionano i contenuti del convenire
su qualcosa. Così si afferma che il diritto conferisce una forma alle relazioni tra gli uomini, che
è una forma che non è aperta a tutti i contenuti. Si dice pertanto che il diritto conferisce una
formatività alle relazioni tra gli uomini, cioè toglie le relazioni dall’informe, assegnando una
durata alle relazioni. Le relazioni giuridiche ricevendo una forma sono tolte dall’occasionalità
dell’accadere, ricevendo una certezza della relazione nel futuro. Così facendo si garantisce la
liberazione dalla violenza contro giuridica della forza del più forte e dunque viene custodito il
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convenire per se stessi (giustizia) come misura-regola del convenire per qualcosa (legalità) che
qualcuno potrebbe voler imporre ad un altro escludendolo.
Il diritto mostra come una forma che viene data alle relazioni è diversa da quelle data alle altre
entità naturali, che è già data dalla struttura naturale. Nella relazione tra gli uomini le forme sono
istituite, sono una forma storica e non coincidono più con la condizione naturalistica. Il diritto così
istituito dà origine a qualcosa che a che fare con la creatività originale, diversamente dai soggetti
biologici che non hanno caratteri di creatività. E’ semplicemente l’esecuzione delle regole della
natura.
Istituire significa (Legendre) dar vita ad una seconda vita nella quale viene deciso insieme un
diverso modo di inscrivere un senso. Negli uomini la struttura specifica della relazione giuridica
ha il suo modello nel “debito simbolico”, come detto da Lacan, cioè ciò che da vita all’istituire
una forma diversa da quella semplicemente naturalistica. Il debito che è detto simbolico perché non
è mai saldabile. E’ il debito dove tutto ciò che si conviene tra gli uomini, che da vita al convenire
giuridico, impegnando la libertà degli uomini impegna il dovere ogni uomo la sua libertà anche agli
altri uomini. Il debito segnico nomina ciò che è proprio del vivente non umano. Qui ogni vivente
deve qualcosa a qualche altro: si tratta di un debito segnico, che il vivente ha sperimentato essere
proprio del mondo biologico. Non ha a che vedere con l’opera d’arte che è la formazione delle
regole della relazione intersoggettiva.
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Lezione 6 - La forma del diritto e la formalità dell'arte
La Filosofia mostra come la formatività dell’arte strutturi la forma giuridica, che è tale perché non
è vuota, ma seleziona i contenuti delle norme secondo il senso del relazionarsi nell’ortonomia,
distinta da una autonomia arbitraria (contingenza) e da una eteronomia della forza (necessità). La
Teoria enuncia una ‘formatività’ solo sistemica, funzionale ma indifferente al senso esistenziale dei
contenuti delle norme, usabili così per legalizzare ogni tipo di relazione: dalla reciprocità del
riconoscimento alla sproporzione dell’escludere.
La formatività del diritto è l’incidere della forma nelle relazioni. La fenomenologia del diritto è la
descrizione (Heidegger) del fenomeno cogliendo ciò che innanzitutto e per lo più non si manifesta
ma ne costiuisce il senso ed il fondamento.
Sartre diceva che la legge è quello che mi lega e frena. Il lavoro fenomenologico dimostra che il
diritto però, non è un limite, ma è ciò garantisce la qualità della relazione coesistenziale dando
forma alla relazione. Infatti il diritto, come l’arte, ha un incidere che è formativo, di creazione di
forma. La forma presentata del diritto è analoga alla forma dell’arte, ha i suoi caratteri e tratti
peculiari. Il diritto incidendo come forma, forma la libertà ai soggetti che coesistono. Il diritto
conferisce una forma alle relazioni degli uomini, alla loro libertà.
Nancy interpreta la libertà, sostenendo che questa non è data da nessuna altra parte, la libertà è
tale perché non ha nessuna determinazione: ha manifestazione nella stessa manifestazione di
libertà. Ma se la libertà è la possibilità dove tutto è possibile, significa che è un contenitore dove
possono essere posti tutti i possibili opposti contenuti.
Nancy poi avverte anche che la mia libertà non comincia dove finisce libertà dell’altro, ma
comincia dove comincia la libertà dell’altro. La mia libertà deve trovare l’essenziale sollecitazione
nella libertà dell’altro. Posso diventare uomo solamente con altri uomini, solo se ricevo
sollecitazioni dall’altro.
La scienza giuridica contemporanea, come dice IRTI, porta invece a dire che la norma è per il
giurista il luogo di partenza della sua indagine ma anche il luogo di arrivo: la formatività del diritto
è quindi tutta racchiusa nei testi delle norme vigenti. Si tralascia così che le norme sono incontrate
ogni volta secondo le due direzioni essenziali ed aperte, ovvero la differenza di senso ed il rinvio di
senso. Le norme costituirebbero un cerchio chiuso dove la coscienza del giurista non viene
impegnata e ci si deve attenere strettamente alla norma. La scienza giuridica è vista dall’autor come
scienza di secondo grado, considerata un sapere che ha come oggetto un sapere che è già stato
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posto, un sistema di norme mai ripreso ed interpretato nella priorità fenomenologica del giusto
(convenire per se stessi) sul legale (convenire per qualcosa).
Il giurista deve agire nella libera opera ermeneutica di interpretazione, impegnando il giurista nel
passaggio dalla norma astratta alla decisione del caso concreto. In questo passaggio vi è un vuoto,
che si può definire il rinvio alla questione del senso del diritto, che comporta che la forma
giuridica non è aperta ad ogni contenuto.
Il giurista deve ricercare il giusto nel legale. Il giurista deve avere una attenzione creativa alla
peculiarità del caso. Il diritto ha una forma formante, selettiva, perché non incontra tutti i possibili
contenuti come fossero tutti possibili.
Il giurista deve ricercare il giusto nel legale, si deve
interrogare quali siano i contenuti che hanno i caratteri della giuridicità.
La forma del diritto non è simile alla forma che si ha in natura, alle leggi della natura, puramente
biologiche, dove la forma più forte o più efficiente è la forma che vince. Nel diritto non è così, la
forma giuridica non è aperta ad ogni contenuto: se fosse così, pur sorgendo per dare una forma di
giuridicità, potrebbe assumere anche contenuti di antigiuridicità, confondendo la violenza con il
rispetto dell’altro; inscriverebbe alcuni comportamenti giusti ed altri non giusti. La giuridicità è una
forma formante, non aperta a tutti i contenuti, discrimina sui contenuti, alcuni ascrivendoli al posto
del giusto, altri al polo del non giusto. La forma che non è selettiva, formante, che confonde i
contenuti della legalità fa scivolare la soggettività dell’uomo nella sua negazione. La soggettività
c’è perché quando la si esercita si avverte che nell’uomo qualcosa dipende da lui, l’uomo può
decidere di sé. Questo decidere di sé è inaccessibile a qualsiasi spiegazione scientifica (Jaspers). La
decisione appartiene all’uomo perché apre la dimensione della possibilità, da non confondere con
l’eventualità. La possibilità impegna il decidere del se stesso, l’eventualità si limita a registrare ciò
che accade. La possibilità è l’esercizio della possibilità, nello scegliere esercita la responsabilità e
pertanto è imputabile delle sue scelte. In altre direzioni il giurista non ricerca il giusto nel legale,
non si fa più domande sul contenuto del diritto, ma scivola verso lo spegnersi della soggettività
responsabile. Nietzsche parla di arte senza artista, un’arte che segnala il semplice accadere delle
forme che vincono su altre forme, nel quale si prende semplicemente atto del primeggiare di alcune
forme sulle altre, ma scompare la soggettività dell’artista, che diventa innocente come un bambino.
Nietzsche lo dice per l’arte che descrive il superuomo non è un uomo più forte, ma è un post uomo,
un uomo che non è più soggetto, che ha spento la significatività del giusto e dell’ingiusto, tra il bene
ed il male, limitando le proprie domande in un nichilismo dove non c’è più spazio per il senso per
alcun perché, dove vi è il nulla; il nichilismo, un’arte senza artista.
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Scienza giuridica senza giurista significa una scienza che non impegna la soggettività del giurista
davanti ad una formatività selettiva, formante, che seleziona i contenuti, ma una scienza
sformante, che prevede la occasionalità di una forma, che viene un momento dopo l’altra, e che non
avendo forma definita è senza forma. Nietzsche dice che l’essere è uguale al divenire, ovvero la
forma è uguale all’assenza di forma.
La scienza giuridica senza giurista pensa che la scienza giuridica si possa costruire modellandosi
secondo le altre scienze, liberando il giurista dalle domande proprie del pensiero filosofico, senso
della giuridicità, dell’arte dell’interpretare per appropriarsi dell’itinerario scientifico. Questo
itinerario che rinuncia al giurista come artista della ragione per costruire un tecnico delle norme. Un
tentativo di dare certezza alle relazioni giuridiche che però nega la soggettività degli uomini.
La scienza non pensa, dice Heidegger, perché la scienza non si interroga sulla propria essenza,
non è in grado di definire stessa. La scienza giuridica non si interroga sul diritto dell’uomo; ma è un
diritto nell’uomo, che si limita al funzionamento tecnico delle norme che non incontrano più il
soggetto; diventa un luogo privo di soggettività.
Luhmann (Teoria dei sistemi sociali) dice che il diritto diventa un sistema immunitario al servizio
del sistema mercato. Nella biologia c’è l’apparato immunitario che garantisce il continuare della
vita: in quest’ottica il diritto svolge una funzione strumentale, è una tecnica funzionale al mercato
ed all’economia. In quest’ottica non ha più senso l’ermeneutica (Heidegger) che ha la sua
dimensione principale nel futuro (“un presente sa essere di volta in volta futuro”). L’interprete passa
dalla norma astratta al fatto singolo incontrando proprio quell’esistente nella sua soggettività.
L’uomo entra nel palazzo di giustizia alla ricerca di che ne sarà del suo futuro.
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Lezione 7 - Il nichilismo giuridico perfetto: la norma ambientata nel nulla
Il nichilismo giuridico ‘perfetto’ tratta le norme con altre norme, si conforma al non-senso della
contingenza che le produce e vi immette un contenuto qualsiasi. Il giurista diviene un nichilista
quando nega il diritto (‘giusto’) come ragione-misura delle norme (‘legale’); registra senza pathos
il nudo accadere delle norme e considera quel che viene nominato con il concetto del diritto
solamente un sintomo dell’essere=divenire, ambientato nel nulla.
La discussione sul nichilismo giuridico necessita la chiarificazione nel fondamentalismo funzionale.
Il nichilismo giuridico diventa perfetto quando si afferma il sistema del fondamentalismo
funzionale che ha una chiarificazione nella tesi di Luhmann, che sostiene che la funzione della
funzione è solo la funzione. Ogni sistema sociale (diritto, economia, religione, amore) ha una sua
funzione, ed ogni operazione è finalizzata al compimento della sua funzione. Non vi è nessuna
apertura alla considerazione dell’uomo, alle relazioni tra gli uomini, al senso delle azioni; l’uomo
viene quindi ad essere situato nel nulla, viene considerato un nulla. Il nulla, ovvero il nichilismo si
concretizza quando i molti sistemi sociali hanno solo la preoccupazione al loro stesso
accrescimento.
Per quanto attiene al sistema diritto si attua il nichilismo giuridico quando si trattano le norme
con altre norme e non si considera il contenuto delle norme. Questo è il diritto figlio del
fondamentalismo funzionale, che non si interroga sulla misura e sul contenuto delle norme, sul
giusto e sull’ingiusto, ma si limita al legale. Il diritto diventa un sintomo, un sintomo di ciò che
funziona più, indipendentemente dal contenuto delle norme.
Nel fondamentalismo giuridico la decisione del giudice si limita ad essere una decisione sistemica,
che si limita a registrare senza partecipazione critica, riflessione filosofica sul giusto e l’ingiusto, il
dare o toglier la parola, senza una piena terzietà che consideri la singolarità dei soggetti e delle loro
relazioni, ed il senso dei comportamenti del soggetto. Si limita a mettere in parole ciò che di fatto ha
vinto in quanto è più forte.
E’ questa la prospettiva ipotizzata da Nietzsche: Dio è morto, ovvero Dio è morto perché sono stati
cancellati i valori del pensiero classico occidentale, dove si è sempre distinto il giusto e
l’ingiusto; si è al di là del bene e del male e del giusto e dell’ingiusto. Si è abbandonati a quel che
accade, che accade perché emerge sugli altri modi di accadere.
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In questa affermazione di DIO E’ MORTO vi è però una contraddizione. Se sono stati gli uomini a
uccidere Dio, quindi a cancellare i valori classici, impegnandosi in un impegno di manifestare la
loro soggettività. Solamente dopo hanno cancellato anche la loro soggettività. Perché si dice di
essere al di là del giusto e dell’ingiusto, al di là della soggettività si ha uno svuotamento della
soggettività. Si chiede il massimo delle energie del soggetto per negare il soggetto.
Negli ordinamenti giuridici, in quanto sistemi funzionali di norme, possono operare solo delle
forme vuote, un nihil colmato operazionalmente dai due poli: il legale ed il non legale, determinati
nei loro contenuti dai fatti attualmente vincenti nel sistema del fondamentalismo funzionale.
I filosofi maggiori interpreti di Nietzsche sono Heidegger e Jaspers.
Per Heidegger il nichilismo si viene compiendo attraverso il passaggio dal mondo greco, ovvero
dall’idea di Platone, al mondo moderno, ovvero al concetto di cogito di Cartesio (l'uomo riscopre la
sua esistenza nell'esercizio del dubbio. Cogito ergo sum: dal momento che è propria dell'uomo la
facoltà di dubitare, l'uomo esiste).
Il nichilismo secondo Heidegger si forma passando dall’idea di disvelamento della verità di Platone
al concetto di Cartesio di considerare vero non ciò che è portato dal nascosto alla luce, ma l’idea
che diventa certa modellata sulla certezza scientifica, vicina al linguaggio numerico delle scienze.
Con Cartesio diventa vero ciò che viene posto vicino ad un linguaggio numerico delle scienze,
secondo il modello della matematica, della certezza.
Quindi i valori diventano un nulla, secondo Heidegger, perché i valori non possono essere
accomunati ai numeri delle scienze. I valori nel pensiero classico aprono delle linee guide, ma non
possono essere situati nel mondo scientifico, perché i valori riguardano la soggettività dell’uomo.
Quindi l’uccisione di Dio, dice Heidegger, consiste nella posizione dell’idea come oggetto per il
soggetto ovvero il tralasciare l’apertura per lo svelamento della verità che non è mai ultima a favore
della certezza di un oggetto sperimentato scientificamente, raggiunto attraverso modelli matematici.
Nietzsche dice che nazionale ed internazionale sono categorie dell’umanità che si sono date sinora,
ma che hanno poco senso. Queste categorie hanno un significato per l’uomo inteso per un soggetto
che esercita la soggettività nella cultura di un luogo, nella relazione tra le culture, che necessitano di
una disciplina giuridica che le regolamenti. Oggi internazionale e nazionale è solo lo spazio
dell’unico terreno che è il mercato globale. Abbiamo una sola globalizzazione relativa al mercato
che cancella l’attenzione delle peculiarità delle culture dei luoghi. La società diviene di massa,
anonima, di una massa che appartiene ai canali del mercato globale.
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Il concetto Dio è morto ha anche il significato della cancellazione delle differenze esistenziale dei
molti luoghi abitati dagli uomini nella terra. Jaspers dice che ormai non hanno più valore le
affermazioni storiche filosofiche sulle differenze culturali, sul sapere che metta in questione l’uomo
in ogni terra abitata, che essendo uomo realizza sé stesso nelle diverse culture rimanendo soggetto
di diritti che gli appartengono come uomo indipendentemente della razza. Secondo Jaspers
l’attenzione a questioni filosofiche che mettono l’attenzione sull’uomo in quanto uomo, perché
ormai nulla è un sapere che meriti una attenzione. Con l’affermazione del nichilismo non vi è più u
senso, un perché, che necessiti un sapere sull’uomo.
Vi è una contraddizione del nichilismo giuridico, perché il nichilismo dovrà continuare ad affermare
un pathos, un impegno che richiede molte energie, una partecipazione affettiva, magari solo per
affermare l’inversione dei valori, per cancellarli. Il nichilismo però afferma che non c’è alcun senso,
alcun perché. Il pathos testimonia l’esistenza di una partecipazione, mentre la fine del senso
testimonia la fine di ogni partecipazione che abbia un pathos, condannando l’uomo ad un semplice
stare a vedere. In Nietzsche questo gioco appartiene solo all’innocenza del bambino che guarda una
ruota che gira da sola senza un perché, senza un pathos, un senso, con l’uomo che sta a vedere con
indifferenza lo scivolare degli eventi, senza un alto ed un basso, un giusto ed un ingiusto.
C’è ancora un giusto e un ingiusto, un alto e un basso? Che diviene la giustizia una volta che si è al
di là del giusto e dell’ingiusto? Secondo Heiddeger nell’interpretare il percorso di Nietzsche dice
che nel nichilismo la giustizia diventa la giustificazione.
La giustizia lascia il giusto e l’ingiusto e la relativa libertà di scelta dell’uomo con le relative
conseguenze, ovvero ciò che guida le scelte degli uomini. Si passa alla giustificazione, cioè che
segue i fatti già avvenuti, ne prende atto, ovvero si da il via al processo di legalizzazione, la forza
che ha vinto diventa il contenuto delle norme, la legalizzazione.
Jaspers dice che la giustizia non è più quella per cui l’uomo lotta ed aspira: l’essenza della ricerca
della verità delle relazioni tra gli uomini. La giustizia diventa l’essenza delle cose nel loro
accadere. Dice in modo diverso ciò che Heiddeger dice parlando di giustificazione, cioè il diritto
non è più ciò che orienta il soggetto nella scelta tra il giusto e l’ingiusto, ma viene a prendere atto i
fatti come sono accaduti, della forza che ha vinto.
Il tentativo di umanizzare il mondo del superuomo, nel senso del tentativo dell’uomo di divenire
padrone del mondo attraverso la certezza dell’idea matematica, non tanto mediante la sostituzione
dell’uomo a Dio (nichilismo imperfetto), ma la costruzione del mondo attraverso l’inversione dei
valori, ovvero secondo l’abbandonarsi alla volontà di potenza che pone i valori solo come punti di
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vista del suo stesso accrescimento perfetto (nichilismo perfetto). L’uomo deve tuttavia poi rendersi
conto che il mondo è diventato il padrone dell’uomo, cancellando anche i suoi diritti non
disponibili. Il mondo non è un luogo padroneggiato, ma privandolo della dimensione giuridica,
cancellando le dimensioni non disponibili dei diritti dell’uomo, il mondo diventa un luogo dove
accadono gli elementi vincenti.
Nella prospettiva di Nietzsche (1995) il diritto “è la funzione di una potenza reggente ad ampio
raggio, che vede al di la delle ristrette prospettive del bene e del male, ed è tale da costituire un
orizzonte che è più ampio del vantaggio del conservare qualcosa di questa o di quella persona”. La
giustizia non appartiene più a nessuna persona,ogni uomo non riesce a confinarla.
Il diritto appartiene al padroneggiamento degli eventi per come si manifestano. Si ha il permanere di
un “Nessuno”, che può essere il nome da dare agli eventi nei confronti dei quali l’uomo non ha
alcun diritto, alcun potere. L’immagine del superuomo svela dunque il suo compimento nel postuomo, nella fine dell’uomo, comportando una radicale trasformazione del fenomeno della
giuridicità.
L’uomo, il soggetto di diritto, diviene oggetto delle norme; così matura la progressione verso il
nichilismo giuridico perfetto, ovvero verso un apparato normativo strumentale alla forza che
funziona di più. Si danno solo norme trattate con altre norme, che usano l’uomo per il crescere della
volontà di potenza del Nessuno e mai rinviano al diritto dell’uomo, alla giustizia illuminata dalla
ragione giuridica (terzietà del nomos), che è strutturata come la ragione dialogica (trialità del logos).
Jaspers mostra che in Nietzsche dice che “le categorie del pensiero sono delle illusioni necessarie
alla vita”, ma sono uno strumento di cui la vita si serve per mantenere in essere se stessa. Anche la
categorie del pensiero giuridico sono state illusioni così come le categorie che distinguono il giusto
dal legale (ciò che è giusto perché è giusto nei contenuti che si riferiscono alla struttura dell’uomo e
ciò che è legale perché posto da chi ha avuto più forza) diventano una illusione.
Il diritto sembrerebbe essere solo un sintomo della forza, che non appartiene a nessuno, che di volta
in volta sembra appartenere a chi è più forte, ma che poi svuota anche questo qualcuno.
La coerenza del nichilismo vuole lo spegnimento della soggettività e la cancellazione di ogni
manifestazione di ogni uomo, anche in quelle manifestazioni di chi ha esercitato una forza più forte
di altri.
Dal libro
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La frase “Dio è morto” rappresenta l’itinarario del nichilismo perfetto e ha il suo nucleo nel
rapporto tra la “volontà di potenza” e “l’eterno ritorno all’uguale”. Nella prima parte di questo
rapporto si costruisce il voler essere padroni di se stessi, perseguito mediante la negazione della
responsabilità esercitata nelle distinte, non uguali, dimensioni temporali. La figura del soggetto
responsabile è cancellata dall’eterno ritorno all’uguale, che rende gli uomini indifferenti verso
l’esistere nel presente, lo scegliere il futuro, assumendosene il rischio e la responsabilità.
Si annuncia che il nichilismo giuridico perfetto consiste nel trattare le norme mediante altre
norme, non pensando il diritto come ragione e senso di ogni norma. Qualsiasi discussione sul
nichilismo giuridico non può evitare di prendere atto che, cos’ come l’orizzonte generale del
nichilismo consiste nel ridurre l’essere negli enti, analogamente la peculiarità del nichilismo
giuridico matura con la riduzione del diritto nelle norme, è l’usare la tecnica delle norme
senza impegnarsi nell’arte del diritto.
Differenza nomologica= differenza norme/diritto
Differenza ontologica= differenza ente/essere
Differenza logologica= differenza significato/significante
Nel pensare il nichilismo giuridico perfetto secondo Heiddeger si conferma la negazione della
differenza tra le norme (ordine del legale) ed il diritto (ordine del giusto). In tale dimensione la
relazione giuridica viene decisa dalla forza più forte, confinata nella dualità (io o lui) ma mai
regolata dal terzo altro.
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Lezione 8 - Unità scissione tra il 'legale' e il 'giusto': la differenza nomologica
Il compimento del nichilismo giuridico consiste nel negare l’unità-scissione tra il ‘legale’ ed il
‘giusto’, dunque nel rimuovere l’essenzialità della ‘differenza nomologica’ (Filosofia del diritto),
che nomina la coappartenenza e la distinzione, non cancellabili, tra le norme ed il diritto, nella
ripresa del pensiero sulla ‘differenza ontologica’(Filosofia) tra gli enti e l’essere.
Dove vi è il nichilismo giuridico le norme sono trattate soltanto da altre norme: si afferma insomma
una autosufficienza del legale, come se il lavoro interpretativo per passare dalla norma astratta alla
decisione il giudice potesse non riferirsi al diritto, all’insieme del sapere giuridico che trova
espressione nel diritto. Il diritto non si può dire compiutamente, come possono essere dette le
norme, né l’uomo si lascia dire compiutamente ed integralmente: chi ha questa pretesa svuota
l’uomo della sua soggettività. L’uomo non è mai qualcosa di precalcolabile e così analogamente il
diritto perché riguarda eventi non preventivabili, non sono l’esecuzione di cose oggettivabili..
Il nichilismo giuridico non si impegna a cercare il senso delle norme nel diritto, ovvero il giusto nel
legale, ma si compiace di questa sua autosufficienza e si limita a cercare il legale nel legale,
rinunciando così all’opera interpretativa che chiede sempre il rinvio al senso della ragione
giuridica della norma nell’essere aperta al diritto.
Nel nichilismo giuridico l’operatore delle norme non è più il giurista artista della ragione, ma il
tecnico delle norme. Si nega la differenza nomologica, ovvero la differenza tra il diritto e le leggi. Il
giurista rimane costantemente esposto alla differenza tra norme e diritto, alla unità/scissione tra
norme e diritto.
Heidegger insiste sulla differenza ontologica, ovvero tra l’ente e l’essere. Gli enti non sono l’essere
e l’essere non può essere concepito a partire dagli enti. Gli enti sono le presenze definite, confinate
in una forma. L’essere è il presentarsi dei diversi enti; l’essere non si lascia mai chiudere in una
forma, non ha mai una enunciazione definita.
Il disvelamento, il passaggio da ciò che è nascosto a ciò che è conosciuto dei classici, viene lasciato
a favore degli enti nel pensiero occidentale. Ma se l’uomo non si interroga più sul presentarsi sul
soggetto e si ferma all’ente, si perde il senso dei diritto. Abbandonando la differenza nomologica si
è avviata al configurazione scientifica del mondo moderno (Heiddeger). La tecnica diventerà
progressivamente l’essenza della scienza, ovvero viene sempre meno a trovare spazio l’aspettativa a
conoscere, l’atteggiamento contemplativo. Non la ricerca della verità ma la costruzione di una
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capacità a manipolare
ad elaborare in modo efficiente ed efficace degli enti e degli uomini
considerati enti tra gli altri enti e per questo vincente. L’itinerario della ricerca della verità viene
variata in una ricerca dell’efficienza.
Questo porta, secondo Heiddeger, l’uomo a non pensare, a non interrogarsi sul senso, limitandosi
all’intervento tecnico. Ecco perché si è detto che la scienza non pensa, ma è solamente un insieme
di operazioni tecniche efficienti.
Analogamente non si domanda che cos’è il diritto, non ci si interroga sul giusto, ma ci si interroga
solamente se le norme siano efficaci, con il solo riferimento ad altre norme. Vi è una legalità
indifferenza alla giustizia, che quindi può legalizzare tutto, dalla schiavitù al razzismo.
Heidegger critica questo scivolamento dall’idea occidentale platonica della ricerca della verità (lo
svelamento) alla semplice manipolazione tecnica, che si assolutizza. Tuttavia in Heidegger però non
è pensata la centralità del diritto. Non compare alcuna riflessione su come il logos (luogo che
custodisce l’uomo soggetto parlante) sia custodito dal nomos (il diritto). Per Heidegger il concetto
di libertà è solamente un eventarsi dell’uomo, ovvero libertà semplice scorrere di eventi. In
Heiddeger, proprio perché non è centrale il pensiero sul diritto, non ci si interroga sulla libertà che
non sia un semplice evento. Non si interroga sulla differenza degli effetti della liberta sugli uomini e
tra altri uomini. Non c’è alcuna attenzione sulla molteplicità della libertà di comportamento delle
relazioni tra gli uomini. Eventi che non hanno una disciplina giuridica.
La libertà diventa in Nancy una libertà fattizia, che il suo stesso accadere, senza regole perché è
regola a se stessa. Se la libertà viene intesa come un succedersi di eventi che accadono, non può
avere regole perché è essa stessa a regolarsi. Questo chiarisce perché una siffatta concezione della
libertà non incontra mai le domande sul diritto, non si interroga sulla genesi fenomenologica e
sull’uso esisenziale del diritto La libertà diventa paradossalmente una sorta di proprietà dell’uomo,
che l’uomo si trova ad avere ma sulla quale non si fa delle domande; la libertà non impegnerebbe la
responsabilità, a scegliere per il giusto o l’ingiusto. In questo modo le forme lasciano spazio allo
scorrere di altre forme, lasciando spazio all’informe, lasciando spazio all’entrare dell’ingiusto al
posto del giusto. Situato nel campo del diritto segna come le condotte dell’uomo appartengono solo
al legale e al non legale, che sono solo eventi: ora accade l’uno, ora l’altro, a seconda dei rapporti di
forza. L’ingiusto può diventare legale, perché non c’è una riflessione sulla qualità di libertà, che in
questo caso non impegnerebbe l’uomo alla responsabilità sulla scelta del giusto e l’ingiusto.
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Per il giurista è necessario interrogarsi sulla differenza tra la presenza ed il presentarsi. La
differenza va interrogata (che effetto esistenziale ha la distinzione, la successione di eventi, in che
modo può costruire una società)
Oggi tra i molti sistemi sociali, si vede il dominio del sistema mercato, quale subsistema del sistema
economia (Luhmann – Teoria dei sistemi sociali). Il sistema mercato si impone sugli altri sistemi
ed anche sul sistema diritto, imponendo orientamenti anche agli altri sistemi. Il diritto diventa uno
strumento del mercato, delle operazioni mercantili.
Il denaro è il significante più annichilente ogni significazione. (Lacan). Si torna a cogliere la
distinzione tra il significato ed il significante. Il significato consiste nell’enunciare semplicemente
ciò che enuncia ovvero è solamente un enunciato definito. Il significante è l’aprirsi di un rinvio alla
ricerca del senso di un oltre di ciò che è stato enunciato. Nella tesi di Lacan viene detto che il
danaro è un significante ovvero dice un enunciato ma lo dice in modo tale da non essere confinato
in quell’enunciato. Il denaro è quindi non solo un significato ma un significante, perché è in grado
di nominare molti oggetti oltre quei singoli significati.
10 dollari dicono alcuni oggetti e
parimenti altri oggetti. La stessa somma di denaro domina molte cose, che vengono rese fungibili
dal quantum del denaro. Il danaro monetizza le cose e le rende un nulla, con un passaggio tipico del
nichilismo. Tutto ha un prezzo, nulla è in sé qualcosa. Tutto è un nulla. Il potere nientificante del
denaro (Heiddeger). Questa tesi che segna la principalità del denaro ed il suo potere nientificante
impone al diritto di porsi delle domande.
La filosofia del diritto interroga la scienza del diritto, la sociologia del diritto e ne evidenzia i limiti
della commercializzazione dell’uomo, della monetizzazione dell’uomo. Ci sono dei limiti del
potere del denaro? Se ci si pongono queste domande si comincia ad uscire dal nichilismo. Ciò che
non può essere nientizzato quantificandolo nel denaro è l’uomo in quanto soggetto di diritti; i diritti
dell’uomo non sono monetizzabili.
Queste sono le domande sui rapporti tra il diritto e l’economia, tra il diritto ed il mercato. Il diritto è
uno strumento del mercato o deve mettere dei limiti al mercato, affermando così che l’uomo non è
una merce? Ponendosi le domande tra diritto e mercato/economia, ci si interroga se ci sono
gerarchie tra i sistemi sociali.
Nella teoria di Luhmann (che trae la sua tesi da due biologi, Varela e Maturana) si dice che non vi
è alcuna gerarchia tra i vari sistemi, ad esempio tra il sistema mercato ed il sistema diritto. Si
afferma quindi che a seconda del tempo ad esempio per un certo periodo il sistema religione ha
prevalso sul sistema diritto e che oggi il sistema mercato prevale sul sistema diritto. Se si lasca
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senza gerarchia i sistemi, allora si apre la strada che porta il diritto ad essere asservito al sistema
sociale vincente. Ma se il diritto non ha alcun contenuto, essendo asservito agli altri sistemi, il
diritto ha semplicemente la funzione di sistema immunitario. Il sistema immunitario garantisce il
funzionamento degli altri organi. Il diritto analogamente in sé non ha uno scopo, ma si limita
a garantire, a regolare il funzionamento degli altri sistemi sociali.
Il diritto non ha quindi alcun contenuto: non c’è alcun diritto dell’uomo, all’uomo accade di avere
una condizione imposto in modo eteronomi di alcuni sistemi rispetto ad altri sistemi: il nichilismo
giuridico perfetto.
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Lezione 9 - Il caos della necessità: il diritto tra funzione e giustizia
Il nichilismo giuridico “perfetto” si concretizza nella formazione di un funzionario delle norme,
confinato in una coscienza spettatrice del gioco innocente degli accadimenti generati dal caos della
necessità. La giustizia, che qualifica e precede le condotte dei soggetti del linguaggio-discorso, si
trasmuta così nella giustificazione (Nietzsche), esaurita in uno “stare a vedere”, che è un eseguire
accadere-accaduto dei fatti vincenti, sia che riconoscano l’altro nell’essere-uomo, sia che gli
neghino il riconoscimento, escludendolo.
In Heidegger si constata che solo l’uomo attiva domande sull’essere, ma non ci si domanda perché
gli effetti del mettere in questione la differenza essere-enti non appartengano anche alle operazioni
degli animali, dei vegetali e del non –umano in generale. Non porsi queste domande conduce a non
pensare la differenza radicale tra quel che è proprio del diritto e dell’uomo e quel che accade nel
non-umano e nelle sue leggi non istituite. Non si analizza che l’uomo è colui che esiste sempre
coesistendo con i soggetti parlanti, che ipotizzano i contenuti del diritto, selezionandoli secondo la
peculiarità della ragione giuridica e ponendoli nelle forme storiche delle norme vigenti.
Il parlante infatti non dispone né delle leggi né del linguaggio. Il parlante può avviare una
modalità del comunicare che si svolge in un discorso senza senso, perché viene esercitato senza le
leggi del linguaggio; allo stesso modo invece di rispettare l’esistenza umana, la può trattare in
modalità violente, perché non disciplinate dalla terzietà del diritto.
Ne segue che l’opera istitutiva delle norme può produrre anche l’assoggettamento di alcuni uomini
ad altri uomini, può generare lo svuotamento dei diritti dell’uomo.
Per Heidegger l’essenza dell’uomo costituisce il luogo del presentarsi dell’essere, manifesta il
divenire insicuro dell’uomo. L’uomo, fattosi insicuro, tende alla sicurezza rifugiandosi nell’ente,
trovandosi tuttavia nella condizione di essere asservito all’ente.
L’uomo ed il giurista che non si aprono alla differenza tra l’ente e l’essere (differenza ontologica),
tra le norme ed il diritto (differena nomologica) vengono configurati come tecnici delle norme
necessarie per la sicurezza ed il successo della manipolazione dell’ente, secondo le teorie-scienze
del reale, che rimuovono le diverse prospettive della questione dell’essere.
Pertanto l’ente in quanto tale appare come la volontà di potenza, che costituisce la
soggettività moderna.
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Le operazioni di una tale giustificazione calcolante sono eseguite esclusivamente nel dominio di
una visione procedurale del diritto. Le procedure giuridiche funzionano ora nel loro continuo
flessibile adeguarsi a ciò che ha successo nell’essere prodotto e dominato da una soggettività che
però finisce per essere asservita agli oggetti che manipola,perché perde la possibilità di divergere
dall’unica dimensione che residua, quella del conoscere-calcolare la loro oggettività
In questo esito il nichilismo mostra solo tratti distruttivi. La qualità di questo incidere del nichilismo
viene segnata anche dall’emergere della storiografia, che avanza la pretesa di essere la
rappresentazione determinante della storia, prende il passato o lo spiega nella sua genesi come una
connessione causale, tralasciando di domandarsi cosa sia la storia.
La scienza della storia scivola verso i giornalismo ovvero verso la cronologia della quotidianità che
si lascia consumare nei canali commercializzanti dei mass media. Allo stesso modo il pensiero del
giurista scivola verso le tecniche della normatività, che diventa un efficace strumentario, che si può
trattare secondo la spiegazione prodotta da una scienza giuridica senza giurista, modellata secondo
l’ingegnerizzazione delle norme.
Allo stesso modo nell’intepretazione degli eventi storici viene eseguita una scienza della storia
senza lo storico, poiché questa figura scivola in quella del giornalista che presenta un’immagine
cronologica dei fatti storici, ma non si chiede che cosa sia la storia.
Secondo Heidegger la condizione attuale è qualificata dal dominio del giornalismo e della
pubblicità, che sono modalità nelle quali è rimosso l’essere e diviene imprigionante l’attenzione agli
enti commercializzanti nei canali dei mass media, che si mantengono in vita con la pubblicità delle
merci.
In questo muovere dall’ente, commercializzato mediante le tecniche pubblicitarie, l’essere viene
rimosso e si consolida il nichilismo, che trasmuta la comunicazione della verità nella vendita delle
notizie.
Nell’epoca moderna e contemporanea emerge una condizione ambigua, perché qualificata:
1) da una parte, è uno stato privo della necessità dell’essere che libera dal rimanere presi-tragli-oggetti (velatezza dell’essere);
2) dall’altra è uno stato colmo della necessità invasiva, propria degli enti, degli oggetti del
produrre consumare che imprigionano l’uomo nel successo delle tecniche usate dai massmedia e dalla pubblicità.
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L’oscurarsi della differenza tra l’ente e l’essere produce certo uno stato del mondo dove la
condizione di spaesatezza dell’uomo rispetto alla sua essenza viene rimpiazzata con l’instaurazione
della conquista della terra, con la parvenza che l’uomo, liberato nella sua umanità, abbia assunto in
suo potere l’ordinamento dell’universo.
Le qualificazione della necessità sono diverse ed opposte:
1) vi è una necessità che consiste nel venire asserviti al trovarsi quotidianamente presi-tra-glienti
2) una necessità che svolge un’opera di liberazione (svelamento dell’essere).
Nell’analisi della giuridicità analogamente il muovere da alcuni sistemi di norme per volgersi ad
altri complessi normativi situa l’uomo nel cerchio captativi dell’essere-preso-tra-le-norme, così da
non poter mai aprire le domande sul diritto, destinato ad un funzionamento del sociale che è stato
privato di senso esistenziale e dunque senza senso.
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Lezione 10 L'essenza del nichilismo: il fondamentalismo funzionale
L’essenza del nichilismo si concretizza attualmente nel Sistema del fondamentalismo funzionale,
che si afferma sostituendo, alle domande sul senso del futuro scelto, il calcolo monetizzante delle
operazioni sistemiche, determinate l’una dopo l’altra dai fatti che hanno successo mercantile e
producono una ‘decisione’ che è del Nessuno e dunque ‘funziona’ senza autori, né scopi, né senso.
È una ‘decisione’ che ha potenza perché, nel suo immediato presentarsi nella ‘società complessa’
non si lascia contrastare, essendo priva di una genesi e di un volto individuabili.
Le analisi di Heiddeger sul nichilismo ricevono una chiarificazione dalle tesi di Luhmann che
discutono il concetto di decisione, sollecitando a considerare anche i concetti di scelta e di
responsabilità, formativi del diritto, descrivibile come sistema distinto dagli altri sistemi sociali.
La decisione è un concetto che implica il riferimento alla responsabilità di chi decide, comporta il
rinvio agli argomenti che costituiscono la qualità della decisione, la conformità della decisione a
delle norme, la conformità della decisione ai riferimenti che dalle norme vigenti aprono al
questionare sulla ricerca del giusto nel legale. Aprono quindi al complesso dell’attività ermeneutica
interpretativa, che è una attività che porta a pienezza il decidere nel diritto.
Luhmann (descrive nelle sue opere i due fenomeni dell’economia e del diritto) sostiene che
nell’economia della società il momento centrale
è il momento del saldo, del pagamento;
l’economia si regge sul momento del pagamento (senza il quale gli altri piani dell’economia
sarebbero inutili ad es. produrre o fare pubblicità se poi non si concretizzasse il pagamento).
Analogamente nel diritto si dice che il momento centrale è quello della decisione del terzo
giudice. Se non ci fosse questo momento le attività del legislatore e della forza di polizia sarebbero
delle operazioni private, come l’esperto che dà consigli, non ci sarebbe la certezza della
concretezza, poi garantita dal terzo polizia. E’ solo il momento del terzo giudice poi garantito dal
terzo polizia che dà realtà al sistema del diritto.
Che ne è della struttura della decisione in generale e, in particolare, della decisione del terzo giudice
nella società contemporanea? La decisione è un concetto che fa riferimento alla scelta, si decide
dopo aver compiuto un’opera selettiva.
La decisione giuridica è tale se comporta poi la
responsabilità, cioè ciò che costruisce la struttura del diritto nei vari gradi di giudizio della
decisione.
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Luhmann mette in discussione il concetto di decisione secondo la sua teoria generale dei sistemi,
costruita sul concetto principale di tale teoria: la funzione della funzione è solo la funzione. Dire
che la teoria generale dei sistemi ha il suo asse nella suddetta tesi, vuol dire che non c’è nulla oltre
il semplice funzionare: vi è quindi solo il funzionalismo che configura il sistema del
fondamentalismo funzionale. Soltanto la fluidità lascia emergere alcune forme invece di altre solo
perché sono più, perché vincenti, ma senza un perché, senza una domanda sul senso. Dunque il
nichilismo diventa il Fondamentalismo funzionale, una modernità liquida, trasformando alcuni
concetti fondamentali del sistema giuridico, quali quello di partecipazione e di organizzazione.
La partecipazione in Luhmann non ha più quel significato, quel pathos, che doveva indicare come
si diventa uomini e come gli uomini dovevano essere trattati da uomini. Il concetto della
partecipazione per Luhmann non ha più riferimento al valore dell’uomo, ma deve solo chiedersi
come si possono raggiungere i migliori risultati possibili: la partecipazione è soltanto funzionale.
La partecipazione giuridica, prendere parte all’organizzazione giuridica, non significa più cercare
di avvicinare la soluzione migliore per la qualità delle relazioni giuridiche tra gli uomini, la ricerca
del giusto nel legale, ma cercare la soluzione migliore dal punto di vista del fondamentalismo
funzionale, ovvero una soluzione funzionale e coerente alle norme, al legale; senza interrogarsi
se corrisponda alla soluzione più giusta. Un diritto che accade nell’uomo – che usa l’uomo - ma che
non ha nulla a che vedere con il diritto dell’uomo.
Si trasforma anche il concetto di organizzazione. Diventa ciò che è richiesto dalla non conoscenza
del futuro (essendo non precalcolabile non anticipabile), deve soltanto concretizzarsi per costituire
il successo delle operazioni dei sistemi, per garantire la velocità del combinarsi delle molte
operazioni dei sistemi. L’organizzazione deve essere ciò che tratta l’incertezza. Significa trattare
l’incertezza non con riguardo alla qualità delle relazioni giuridiche tra gli uomini, ma con riguardo
al successo delle molte operazioni dei diversi sistemi sociali, tra i quali oggi quello dominante
risulta essere proprio il sistema del mercato che orienta e condiziona gli altri sistemi sociali e
dunque anche il sistema diritto. Si ha quindi una organizzazione non è interessata ad un concetto di
ordine giuridico che ha al suo centro il rispetto della condizione umana, la custodia della dignità
dell’uomo, ma è interessata solo a custodire un’efficace funzionamento delle operazioni dei molti
sistemi, che non hanno un volto, non hanno riferimento all’esercizio della soggettività, che sono il
fluire liquido delle diverse funzioni dei diversi sistemi. Si tratta di qualcosa che si allontana dal
concetto classico di ordine giuridico.
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Tale distanziarsi dal concetto di ordine giuridico si trova in in Luhmann, che afferma – all’interno
della sua costruzione dei sistemi sociali - che le diverse organizzazioni non sono orientate allo
scopo ma sono organizzazioni che cercano uno scopo. Le prime hanno come criterio del loro
orientamento la giustizia degli scopi, cioè organizzazioni che nel loro operare assumono come
principi del loro orientamento quei principi che sono omogenei al perseguire gli scopi, e lo scopo
principale nella giuridicità è la ricerca del giusto nel legale . L’organizzazione oggi è invece del
secondo tipo, cioè un’organizzazione che cerca uno scopo, perché costantemente si adatta a quel
che accade; è una organizzazione costantemente in formazione, caratterizzata da un fluire liquido,
dove lo scopo è quel che volta per volta guadagna una forma e si afferma ma non è ciò che orienta e
precede l’organizzazione (cercare uno scopo è il flessibile adeguarsi a cioè che emerge
all’accaduto).
Nel trasformarsi dell’organizzazione
Luhmann afferma che cambia anche il rapporto, cioè la
distinzione tra scopi (fini) e mezzi, in quanto questa distinzione serve solo per assumere una forma
che possa essere presentata come una forma razionale. Dunque non ci sono degli scopi che
precedono i mezzi, ma c’è un continuum indistinto tra scopi e mezzi, una sorta di liquidità che rende
indifferenziati gli scopi e i mezzi perché l’eventuale distinzione tra scopi e mezzi serve soltanto a
che si possa dare una sorta di presentazione razionale a quel che accade, perché si possa continuare
a comunicare una qualche modalità razionale di ciò che accade, anche se ciò che accade è senza
scopo e privo di senso come vuole il nichilismo di Nietzsche che ha la sua pienezza nel
fondamentalismo funzionale.
Viene meno la stessa distinzione tra l’osservare una realtà e poi l’assumere un orientamento che
conferisce una direzione, perché ci si limita ad adeguarsi all’accadere che si afferma, a constatare
ciò che è già accaduto, cosi che la razionalità non precede l’accadere ma consiste semplicemente nel
metterlo in informazioni (cioè in parole che informano accrescendo così il continuo potenziarsi
delle funzioni dei diversi sistemi).
Cambia il concetto di organizzazione, il rapporto tra scopi e fini: ma cambia anche il diritto, che
diventa semplicemente uno dei settori dell’organizzazione, perché è solamente un sistema
immunitario, che garantisce il funzionamento efficace delle molte operazioni delle diverse funzioni
che individuano i vari sistemi sociali.
Il pensiero di Luhmann porta a compimento il nichilismo, che con lui assume la sua espressione più
compiuta proprio nel fondamentalismo funzionale: non c’è nulla oltre la funzione del sistema, non
c’è qualcosa che possa essere ancora nominato come incondizionato. L’insieme dei concetti
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riconducibili all’io, all’uomo, alla soggettività, alla relazione intersoggettiva finisce per cadere:
secondo Luhmann tali concetti si sono retti sull’equivoco del paradosso, ovvero sulla pretesa di
poter lavorare nel superamento del paradosso. Tutta l’opera di Luhmann annuncia che è fallito il
lavorare senza paradossi, perché dietro ogni descrizione che appartiene a ciascun sistema sociale è
inevitabile che si manifestano dei paradossi. Perché da una parte tutte le osservazioni e tutte le
descrizioni, secondo Luhmann, sono costrette a distinguere ciò indicano, ma nel fare ciò – cioè
nell’osservare e descrivere gli elementi – gli uomini sono costretti a distinguere ciò che implicano
descrizioni e osservazioni mentre esse stesse non possono figurare nella distinzione. Il paradosso
consiste nel fatto che in ogni sistema l’uomo nel momento in cui descrive compie delle distinzioni,
ma poi questa distinzioni finiscono per non venire descritta (questo è il paradosso, la lacuna
fondamentale, ciò che viene ad inficiare il pensiero classico dell’osservare e del distinguere,
paradosso che costituisce la struttura profonda dell’essere, dell’io che è sempre eccedente ogni
funzione; l’uomo parla ma la struttura delle parole conferma che l’io non si lascia mai dire, si
sottrae. Ma è proprio questa struttura – che Lumhan descrive negativamente come un paradosso - è
la struttura positiva della soggettività giuridica dell’uomo, che si presenta davanti al terzo giudice
che emetterà un giudizio come un io che non si dissolve nelle condotte che ha compiuto ma ne è
responsabile, ha una soggettività giuridica, e per questo in attesa del giudizio.
“La decisione prima della decisione è diversa da quella dopo la decisione e mentre si decide
(simultaneamente) non è affatto possibile osservarla. La decisione allora è un paradosso: la
stessa cosa e non la stessa cosa”.
L’eccedere dell’io rispetto alle condotte lascia trasparire la libertà che ne determina la
responsabilità. In questo eccedere dell’io compare la libertà, compare la condizione temporale
dell’uomo: l’uomo ha la doppia contemporaneità, uno spazio costituito da ciò che descrive e ciò che
osserva e nell’intervallo tra la prima e la seconda contemporaneità c’è la libertà. Quel che con
Lumhan compare come paradosso inaccettabile è invece semplicemente nel profondo la condizione
temporale dell’uomo ( responsabilità giuridica e soggetto di diritto). Jasper legge in questo spazio
descritto come doppia contemporaneità che la coscienza non si esaurisce semplicemente in un
dirigersi verso gli oggetti, ma la coscienza riflette su se stessa, cioè non è solo coscienza ma è anche
autocoscienza, non è solo l’io dell’osservare e del descrivere ma è anche l’io che è cosciente
dell’avere osservato e dell’avere descritto; l’io penso è l’io penso che penso, che coincidono in
modo paradossale per Lumhan mentre per Jasper sono un due (un uno e un due), coesistono in uno
spazio che è lo spazio della dignità, del soggetto di diritto, spazio posto invece in un piano
marginale da Lumhan secondo l’approccio del nichilismo.
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Nietzsche: la vita è soltanto la vita, non vi è null’altro che l’ordine della potenza nel nominare le
modalità della vita, non c’è il giusto né il non giusto, si è al di là del bene e del male, al di là della
giustizia e della ingiustizia, come in tutti i sistemi biologici.
Luhmann trasferisce la costruzione della teoria dei sistemi biologici dei biologi sudamericani Varela
e Maturana nella sua opera sulla teoria dei sistemi sociali. Come nei sistemi biologici non ci sono
spazi per le domande sul giusto così finirà anche per i sistemi sociali, che avranno modo di
accrescere solo il loro funzionamento in maniera analoga ai sistemi biologici che accrescono solo la
continuazione della loro vita. Luhmann descrive la formazione dei sistemi sociali a partire dai
sistemi biologici attraverso un passaggio fondamentale per la teoria dei sistemi: ogni sistema si
forma perché una funzione lo individua (per il sistema diritto è la funzione immunitaria) e lo
distingue dall’ambiente (spazio indistinto da dove emerge il sistema guadagnandosi una forma
togliendosi dall’informa: le forme di vita si sono tolte progressivamente da una condizione
indistinta specificandosi come altre forme di vita).
I paradossi: l’uomo avendo a che fare in ogni sistema, compie una opera di osservazione e di
descrizione, ma in questa opera compie le distinzioni che poi però finiscono nel non poter essere
descritte. Paradosso dell’osservare e del distinguere costituisce la struttura profonda dell’io, che è
sempre oltre ogni lettura sistemica; l’io non si lascia mai dire. L’uomo parla, è discorso, ma l’io
non si lascia mai dire, sembra un paradosso, ma è l’essenza della soggettività.
Jaspers dice che la coscienza
non si esaurisce in un dirigersi verso gli oggetti, ma la coscienza
riflette su se stessa. E’ coscienza ed autocoscienza. Non è soltanto l’io dell’osservare e del
descrivere ma è anche l’io che è cosciente di aver osservato e descritto. Io penso, io penso che
penso. Uno non è come uno ma è come un due che però rimane un uno unico.
Per Luhmann ogni sistema si forma perché una funzione lo individua, lo distingue dall’ambiente,
dall’informe. Il diritto viene ad esistenza per una funzione di anticorpo. Il diritto ha due passaggi
fondamentali: una apertura informativa agli altri sistemi, una acquisizione di informazioni (si
aprono agli altri sistemi e acquisiscono dei dati) e poi il passaggio di una chiusura organizzativa ed
operativa. I dati acquisiti vengono trattati secondo un codice selettivo binario per lo svolgimento
della funzione. Nel caso del diritto il codice binario è quello del legale-non legale.
Così il sistema diritto si apre agli altri sistemi, acquista dei dati, tratta tali dati attraverso il codice
legale-non legale, e poi conclude le proprie operazioni che portano a concretizzare la chiusura
operativa. Ma il codice è un codice formale (perché è un codice funzionale) che non si interroga sul
senso esistenziale dei contenuti; in particolare il codice binario del diritto non sarà un codice giusto40
non giusto perché non si interrogherà mai sulla ricerca del giusto nel legale ma si limiterà ad
assegnare al legale le operazioni che sono negli altri sistemi di fatto vincenti, ne prenderà atto e li
metterà nel piano del legale e metterà nel piano del non legale le operazioni che sono perdenti, così
come avviene nei sistemi biologici. Ma in questa visione che traspone la struttura dei sistemi
biologici nei sistemi sociali il diritto perde ogni suo senso esistenziale, perde la domanda sul perché,
sul senso del giusto, si limita a procedere ad una sistemazione solamente funzionale dei contenuti
che servono all’accrescimento delle molte funzioni, il diritto opera come un sistema immunitario
che serve gli altri sistemi nell’assoluto disinteresse verso la qualità degli uomini e delle relazioni tra
gli uomini.
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Lezione 11 'Memoria personale e memoria sistemica': il fondamentalismo funzionale
Il fondamentalismo funzionale trasforma la ‘memoria personale’ in una ‘memoria sistemica’; così
le memorie del ‘giuridico’ - norme, giurisprudenza, ecc. - non impegnano il giurista-uomo sulla
qualità del coesistere nel diritto, ma riguardano il funzionario delle tecno-norme quanto
all’efficienza di ‘decisioni’ determinate dalle fasi asoggettive di una evoluzione modellata
nell’ordine di un bio-diritto. Si produce la nientificazione dei soggetti di diritto, tali solo in quanto
soggetti di storia e non oggetti dell’evoluzione, che mai ha presentato alcunché dei fenomeni della
giuridicità. La storia del diritto eccede la cronologia dell’evoluzione biologica di una specie di
viventi.
Nella discussione del diritto nella condizione contemporanea occorre far riferimento al nichilismo
giuridico. Se si vuole parlare del diritto incontrando la realtà contemporanea bisogna fare una
riflessione sul diritto caratterizzato dal nichilismo giuridico che sono attualmente in progressivo
concretizzarsi nel sistema del fondamentalismo funzionale.
L’annuncio di Nietzsche sul nichilismo oggi diventa sempre più concreto con l’affermarsi del
sistema del fondamentalismo funzionale.
In questo contesto, afferma Luhmann (teoria dei sistemi sociali) anche il concetto di memoria
cambia significato, tende a trasformarsi da memoria personale a memoria sistemica.
Conseguentemente si ha la trasformazione dal giurista uomo al funzionario delle tecno-norme.
Il nichilismo trova così il suo compimento: nel nichilismo giuridico non interessa più la storia del
pensiero giuridico, ma solamente la continua trasformazione asservita al funzionamento dei
sistemi al fine dell’efficacia delle operazioni giuridiche (senza alcun riferimento ai diritti
fondamentali dell’uomo, alla dignità dell’uomo quale concetto centrale della giuridicità).
La teoria generale avvia questo trasformarsi del diritto sempre nel tenere in chiaro che ogni sistema,
quindi anche il sistema diritto, funziona in due fasi: apertura informativa e chiusura operativa. Sono
momenti essenziali che servono a far sì che il diritto custodisca la sua funzione, ovvero secondo la
teoria dei sistemi di Luhmann conservare la auto poiesi delle operazioni del singoli sistema
(secondo Maturana un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso
ed al proprio interno si sostiene e si riproduce) ovvero la conservazioni delle operazioni del sistema,
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che conservando la sua differenza continua ad esistere. Il singolo sistema continua ad esistere se la
sua auto poiesi viene custodita. Il sistema non cade, non si annulla nell’ambiente, conserva la sua
differenza sistemica: si tratta, cioè di un processo che vede una sorta – così dice Luhmann – di
rientro della distinzione tra il sistema e l’ambiente nel sistema stesso; ovvero il sistema diritto si
distingue dagli altri sistemi perché custodisce la sua funzione specifica, fa rientrare in ogni sua fase.
La funzione specifica del diritto è quella di operare come un sistema immunitario, ha attenzione alla
conservazione della vita degli altri sistemi: è un apparato immunitario (è uno strumento principale
dell’economia del mercato). Il sistema diritto non è posto davanti alla scelta giusto-non giusto, ma
sovrintende solo al funzionamento degli altri sistemi. Nel far questo sembrerebbe che il sistema del
diritto sia vicino alla coscienza dell’uomo: non c’è questa similitudine con la coscienza.
Il sistema non ha una coscienza, non ha neppure quello che è proprio della coscienza. Si tratta di
una analisi che non può essere certo avvicinata a quella della doppia contemporaneità nella quale
compaiono la coscienza, l’io, il se stesso, la libertà e la responsabilità. Essere contemporaneo agli
ambienti, agli elementi che lo ambientano, alle cose che lo circondano ma essere anche
contemporaneo a questa contemporaneità.
In questo intervallo tra queste contemporaneità
compare ciò che non compare nella vita dei sistemi, ovvero compare l’io, la coscienza, compare ciò
che è esclusivo dell’uomo. I sistemi non lasciano apparire nulla della doppia contemporaneità, né
della responsabilità, niente di ciò che ha a che fare con l’attivarsi della coscienza.
Luhmann invece distingue tra macchina banale e macchina non banale (il sistema diritto è una
macchina non banale). Per Luhmann sono banali le macchine prive di auto-osservazione, che
compiono solamente delle funzioni immesse dall’esterno (producono secondo delle sollecitazioni
con gli stessi risultati).
Le macchine capaci di auto-osservarsi sono macchine non banali; sembrano compiere dei processi
propri della coscienza, ma non hanno nulla della struttura della coscienza. Sono in grado di auto
aggiustarsi ovvero sono fluide e flessibili con la realtà che muta e che mutando esige anche un loro
stesso mutamento. Per Luhmann sono macchine non banali le macchine storiche, i sistemi sociali; le
macchine banali sono tutte le altre macchine che non mostrano una flessibilità adattativa.
I sistemi, in quanto macchine non banali, compensano secondo Luhmann la propria chiusura
operativa con l’autoosservazione.
Nella macchina non banale del sistema diritto, la decisione – emessa dal terzo giudice - (per
Luhmann) ha un significato diverso dal significato attribuitole dal pensiero classico fino a prima
dell’affermarsi del nichilismo e del fondamentalismo funzionale che si fonda sull’assunto che “la
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funzione della funzione è solo la funzione”. La decisione dunque non persegue uno scopo (che
implicherebbe una scelta, che richiama ad una coscienza, alla libertà umana), ma ha soltanto dei
fini (che si trovano anche nell’intelligenza artificiale, ripetizione di un insieme di operazioni). Si
torna a riprendere questa attenzione alle memorie esclusive degli uomini che hanno un centrale
riferimento alla selezione degli scopi in contrapposizione alle memorie del non umano delle
macchine non banali che non hanno una presenza che sceglie e che seleziona gli scopi ma che si
limita solo a perseguire dei fini (le memorie del non umano hanno esclusivamente fini, non scopi, i
fini sono la ripetizione di un insieme di operazioni che volta per volta si riproducono senza che
intervenga la coscienza della responsabilità del terzo giudice).
La memoria personale si trasforma così in una memoria organizzativa: si eclissa sempre più la
presenza essenziale di una soggettività libera e responsabile (per il terzo giudice).
Per Luhmann la decisione in una macchina non banale come il sistema diritto è un insieme di
attività che lascia apparire la decisione ma attribuisce a tale parola un significato completamente
diverso rispetto all’affermazione del nichilismo giuridico. Nei sistemi come il diritto non
compaiono gli scopi, che comporterebbe la presenza di una soggettività che sceglie: nelle macchine
non banali non ci sono scopi, ma solamente fini. Le memorie degli uomini hanno centrale
riferimento alle selezioni degli scopi, diversamente dalle altre del non umano che hanno solo fini,
che sono ripetizione di un insieme di operazioni che si riproducono senza che intervenga la
coscienza per la responsabilità.
In Luhmann la differenza tra sistema ed ambiente viene copiata all’interno del sistema perché
orienta, ripetendole con flessibili autosservazioni funzionalmente specifiche delle memorie di quel
singolo sistema: non si apre però lo spazio terzo, costitutivo della trialità del logos dove la libertà
del parlante si lega al senso del diritto, nomos dell’uomo e non solo apparato del funzionamento
strumentale delle norme dell’uomo.
Luhmann dice che uno dei compiti dei sistemi è trasformare una memoria personale in una
memoria organizzativa, che significa eclissare sempre più la presenza anche nel terzo giudice
della soggettività libera e responsabile, rimuovendo anche in chi si trova davanti al terzo giudice la
memoria personale, lasciando spazio solo alle memorie organizzative, ovvero ciò che chiede ogni
volta la vita dei sistemi, che non ha soggettività e può continuare a funzionare anche sacrificando la
qualità della soggettività, la condizione e il riconoscimento dell’io.
Luhmann: nelle società antiche l’uomo viveva in economie domestiche e si moriva nello stesso
luogo in cui si era vissuti, mentre nelle organizzazioni moderne non si muore (è un paradosso,
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perché gli uomini continuano a morire) . E’ questo un paradosso che significa che la morte non ha
più un rilievo esistenziale, è soltanto un evento tra gli altri eventi, viene trattato
nell’organizzazione come nient’altro che un incidente. Dunque l’uomo non è più l’unico soggetto
ad avere il senso della morte, e di conseguenza anche il senso della responsabilità.
Altro paradosso di Luhmann: le persone non pensano. Attualmente, secondo la teoria dei sistemi
sociali, gli uomini sono costruzioni della società a fini della società stessa. Gli uomini devono il
loro io soltanto al continuarsi dei sistemi sociali. Essendo prodotti dei sistemi sociali, gli
individui non sono portatori di libertà, ma sono solo dei luoghi di transito delle molte
informazioni che provengono dai vari sistemi (politica, economia) che si incrociano. L’uomo
essendo solamente un luogo di transito, non ha nessuna responsabilità, nessuna soggettività, l’uomo
non dice niente di se stesso, e quindi non ha nessuna responsabilità ed è per questo che, come dice
Nietzsche, è innocente. Cadrebbe la differenza tra l’uomo e l’animale, la differenza tra il diritto e le
leggi biologiche.
Ma è il pensiero che distingue l’uomo dagli altri viventi non umani. L’uomo è soggetto di diritto in
quanto soggetto di pensiero e per questo capace di compiere delle scelte, e poi di emettere delle
decisioni e quindi di assumersi delle responsabilità. Il pensiero non ha una spiegazione scientifica,
l’arte non ha nessuna spiegazione, l’arte è extra sistemica, non si lascia precalcolare.
Per Luhmann però vi è stata una sovravvalutazione del pensiero umano (che consiste
nell’affermare che il pensiero non ha una spiegazione scientifica) ed anche l’arte non è altro che uno
dei sistemi. Luhmann nel sostenere questa tesi finisce per oscurare quello che è proprio dell’arte,
che è oltre ad una qualsiasi funzione, l’arte evoca domande, fa pensare al di là delle sue forme,
torna agli interrogativi della condizione umana. Per far ciò Luhmann deve cancellare la
caratteristica precipua dell’arte, ovvero la extrasistematicità, la sua irriducibilità ad una funzione.
La decisione è una scelta responsabile argomentata con una ragione sufficiente dal terzo giudice che
emette la sentenza o che cosa diventa la decisione in Luhmann?
Per Luhmann la decisione sarebbe un paradosso: “i paradossi decisionali sono indecidibili
perché ogni decisione contiene il suo contrario”. La teoria della decisione opera seguendo la
scelta. Si fa ricorso alla scelta che è nient’altro che ciò che manca, ovvero una semplice operazione
che non si lascia osservare. Luhmann ritiene che la decisione essendo un paradosso è nient’altro che
il luogo ove si affermano i fatti vincenti degli altri sistemi, quelli che vincono. Per questo l’uomo
non esercita una libertà di scelta, perché le operazioni di decisione non si lasciano osservare; se si
facesse questo tentativo di osservare le operazioni del decidere si incorrerebbe in un processo
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infinito di altre operazioni che pretenderebbero di osservare il loro stesso porsi in operazioni.
Questo processo sarebbe infinito e quindi impossibile e per questo per Luhmann la decisione
sarebbe da scartare; al posto si prende atto che l’uomo non decide, che il terzo giudice non emette
alcuna sentenza secondo una fedeltà alle norme ed una libertà nell’interpretarle, ma la emette
enunciando ciò che è una composizione volta per volta vincente dei diversi dati e delle diverse
informazioni dei vari sistemi sociali.
La decisione è il luogo dove si affermano i fatti vincenti degli altri sistemi, anche se chiamato
dall’uomo decisione o anche sentenza.
In Luhmann la decisione e la scelta non sono la manifestazione della soggettività libera e non
fungibile del soggetto parlante, esercitata anche dal terzo giudice, ma prendono il posto del
paradosso, ovvero del fatto che le operazioni dell’osservazione, e quindi lo stesso osservatore che
“sceglie e decide”, non sono osservabili negli atti dell’osservare. Quel che sfugge all’essere
osservato non si lascia spiegare e si ritiene che non dica nulla, sia nulla.
In sintesi, la decisione sarebbe un paradosso e in quanto un paradosso sarebbe da scartare, perché le
operazioni del decidere non si lascerebbero osservare, perché ogniqualvolta si provasse ad osservare
tali operazioni si incorrerebbe in un processo infinito di altre operazioni che pretenderebbero di
osservare il loro stesso porsi in operazioni, quindi si scarta la responsabilità della decisione e al
posto della decisione si prende atto che il giudice non decide e al posto della sentenza enuncia una
posizione di volta in volta vincente dei diversi sistemi sociali.
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Lezione 12 Il giudizio giuridico tra terzietà e nichilismo
Nell’opera del terzo-giudice, la trasformazione delle ‘memorie personali’ in ‘memorie sistemiche’
configura il nichilismo della sua ‘decisione’, che viene formulata mediante il passaggio da una
‘contingenza aperta’ ad una ‘contingenza chiusa’, produttiva dell’enunciato del giudizio giuridico,
divenuto omogeneo alle operazioni della tecnica ed estraneo alla formatività dell’arte. Il giudice
configurato dal nichilismo ‘perfetto’ permane confinato nell’assolutezza di una condizione
contingente, senza senso, che ha la sua struttura nel paradosso comunicato con l’espressione ‘caos
della necessità’.
Nel descrivere il concetto di decisione enunciata dal terzo giudice, il processo di concretizzazione
del nichilismo nel sistema del fondamentalismo funzionale - ovvero un funzionare che non si
interroga sul senso - va analizzato alla luce della visione di Luhmann della decisione quale
complesso delle operazioni che portano al passaggio da una contingenza aperta a contingenza
chiusa.
La contingenza è aperta quando ancora il sistema diritto si apre agli altri sistemi ed acquisisce dei
dati, che sono ancora in uno stato di indifferenziazione, ovvero ogni dato vale l’altro, non vi è una
gerarchia funzionale tra un dato e l’altro. Poi il diritto, quale sistema sociale, tratta questi dati nel
suo interno e si verifica il passaggio da una contingenza aperta ad un contingenza chiusa. Questo è
quello che compie il terzo giudice nell’enunciare la sentenza. Ma è una decisione che rimane nella
sola contingenza: non è cioè una decisione che viene assunta secondo la ricerca del giusto, avendo
attenzione al rispetto dei diritti fondamentali inviolabili dell’uomo. Dall’esterno gli altri sistemi
(soprattutto il sistema dominante che è il mercato) con le loro operazioni immettono dei dati,
impongono un orientamento, ma che rimangono nella contingenza (non ha una ragione giuridica).
La decisione con il chiudersi si danno dei nomi e si mettono in parole questi dati; la contingenza
rimane chiusa ma rimane chiusa nella contingenza, senza una ragione giuridica.
Il diritto ha funzionato così come sistema immunitario degli altri sistemi sociali; ha catalogato certi
dati al polo del legale e gli altri dati acquisiti al polo del non legale, facendo una fredda operazione
scientifica, matematica. La decisione del terzo Altro è legale ma rimane indifferente alla ricerca
del giusto. Secondo Luhmann infatti la decisione è un paradosso, perché il terzo giudice non la può
osservare e pertanto non è compiuta con responsabilità, con libertà nell’interpretazione. Le
operazioni del decidere aprono il tentativo sempre fallito di osservare le operazioni dell’osservare.
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Proprio perché le operazioni del decidere non si lasciano osservare, per Luhmann è un paradosso,
ma invece proprio perché non si lasciano oggettivare sono decisioni dell’io, dell’uomo, che è
soggetto e che non si lascia mai trattare come oggetto. Non si lascia oggettivare la terzietà giuridica,
non è materiale di osservazione scientifica e dunque è un paradosso, perché le operazioni del
decidere non si lasciano osservare e come paradosso va scartato. Ma questo ha alle spalle una
visione dell’uomo lontana da quella occidentale che troviamo nella definizione data da Heiddeger:
“l’uomo è tale in quanto è tratto nel movimento del sottrarsi, è in marcia verso questo, è colui che
indica il sottrarsi stesso”; cioè l’uomo è quel che è perché è un soggetto, è un io che non si lascia
mai oggettivare, si sottrae continuamente da tale oggettivizzazione.
Luhmann nel negare tale struttura deve innanzitutto modificare il lessico giuridico della decisione,
della responsabilità e della imputabilità.
Luhmann per la decisione fa l’analogia con il tempo: anche il tempo è un paradosso; il tempo nel
tempo è lo stesso tempo ma contemporaneamente nel tempo il tempo è un che di diverso, è un
divenire.
Per Luhmann la decisione è un evento comunicativo e non un qualcosa che ha luogo nella
testa di un individuo. In concreto Luhmann dice che la decisione è un evento (che succede
autonomamente) e che è comunicativo (non perché appartenga alla comunicazione, perché per
Luhmann la comunicazione è informazione) perché si dà per il darsi delle molte informazioni, che
si combinano, che si attraversano in questo luogo che è la terzietà del giudice, ovvero un evento
informazionale. Non è nella testa di un terzo (non è imputabile alla soggettività responsabile del
terzo giudice) significa che non appartiene alle scelte del terzo, non gli è riferibile, non è opera di
una sua selezione, non è imputabile alla soggettività responsabile del terzo giudice.
Luhmann dice ancora che la decisione è possibile solo perché il futuro è ancora indeterminato,
sconosciuto: in questo consiste la responsabilità. La decisione e la responsabilità sono state intese
sinora, ma non correttamente secondo Luhman, solo per qualcosa che ancora non è conosciuto
dall’uomo pienamente.
Se l’uomo conoscesse tutto non avrebbe nulla da decidere, non avrebbe
alcuna responsabilità.
Una tesi opposta a quella di Luhmann è quella di Jaspers che dice “mi accerto del fatto che
qualcosa alla fine dipende solo da me, là io decido cosa sono”. Certo l’uomo può pensare di
progredire nel conoscere, crescere verso un sapere compiuto, però tutto questo non lascerà
cancellare la dimensione dell’io; anche davanti ad un sapere compiuto, l’uomo potrà dire di no,
rimarrà sempre libero, rimarrà sempre l’essenzialità dell’io. Anche la conoscenza scientifica
integrale non potrà impartire comandi sugli aspetti affettivi propri dell’uomo. Il concetto di
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orientamento allo scopo viene sostituito da Luhmann con il concetto di assorbimento
dell’incertezza.
Nella descrizione di Luhmann rimane assente l’apertura affettiva dell’uomo e dunque rimangono
assenti gli a priori dell’intenzionalità affettiva (l’uomo proverà sempre amore o odio, partecipazione
o indifferenza, a priori non sono disponibili da parte della scienza), gli a priori dell’intenzionalità
cognitiva (rimarrà sempre il principio di non contraddizione, etc, l’uomo non avrà mai la
disponibilità della fase iniziale dell’attività cognitiva), e infine degli apriori dell’intenzionalità
giuridica (l’uomo non potrà avere la disponibilità tra ciò che oppone il giusto e l’ingiusto
opposizione giusto=riconoscimento, ingiusto=esclusione).
Questi tre piani del pathos (apertura e intenzionalità affettiva), del logos (apertura e intenzionalità
cognitiva) e del nomos (apertura e intenzionalità giuridica) non sono tre sistemi, non possono
essere concepiti come se fossero tre sistemi, non sono separabili, nell’uomo costituiscono un plesso
unitario. Per usare una metafora di Lacan, sono come tre anelli di corda uniti da un nodo (che è il
nodo borromeo di Lacan) fatto in modo tale che se si taglia o si scioglie uno dei tre anelli si perdono
anche gli altri due. Si hanno quindi tre dimensioni dell’esistenzialità non scindibili, unite appunto da
questa metafora del nodo borromeo: il cadere di una segna anche il cadere delle altre. Quando
questo avviene è che l’uomo non è più soggetto di scopi ma è un portatore di fini ovvero di
operazioni che sono contenute nelle memorie di un qualche sistema.
L’uomo non è solo un portatore di fini (i fini non sono scelti ma trovati), ma di scopi. (Scheler
distingue tra scopi che sono cercati, scelti, appartengono all’unità dell’io costituito dalle tre
dimensioni del pathos, del logos e del nomos, ed i fini che sono trovati).
Se la decisione è un paradosso (come per Luhmann), la decisione non è assunta dal terzo
giudice nella sua dimensione unitaria, di pathos, nomos e logos, ma è un qualcosa che accade,
ma non è assunta nella dimensione unitaria di pathos, logos e nomos.
Per Luhmann gli scopi non sono altro che dei disagi, che l’uomo ha chiamato scopi. Non sono
fattori motivazionali, sono piuttosto dei disagi che vengono situati nel futuro, che permettono di
agganciare alcune operazioni di un sistema ad altre operazioni di un altro sistema. Gli scopi sono
dei disagi nel senso che sono un funzionamento non perfettamente efficiente di un qualche sistema
sociale. Gli scopi si degradano e diventano fini perché sono quelle condizioni di disagio che
vengono poi superate dalle operazioni vincenti nei molti sistemi sociali.
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Dunque, dice Luhmann, la decisione prima della decisione è diversa da quella che è, e mentre si
decide non è affatto possibile osservarla. La decisione del terzo giudice allora è un paradosso,
perché non è mai possibile osservarla: è un po’ come il tempo, dice sempre Luhmann, c’è una sorta
di analogia tra il tempo e la decisione, anche il tempo è un paradosso, perché il tempo nel tempo è
lo stesso tempo e però contemporaneamente nel tempo il tempo è diverso è un diverso (il tempo è lo
stesso e contemporaneamente non è lo stesso tempo).
Questa descrizione del paradosso della decisione e del paradosso del tempo porta che si tralasci la
questione del soggetto del decidere e anche del soggetto del tempo; ciò fa si che si tralasci la
soggettività giuridica, sia come soggettività del terzo sia come soggettività del soggetto di
diritto. Tralasciare la questione del tempo significa non interrogarsi sul futuro nell’esistenza
dell’uomo, ma semplicemente vederlo sostituirsi da un dopo, una successione di momenti che
accadono: ma non è il futuro, ritenuto invece una scelta responsabile, un progetto compiuto
assumendosi un rischio e la responsabilità della scelta. Dunque la decisione e il tempo sono dei
paradossi, vengono quindi svuotati dell’intensità attribuita dal pensiero giuridico classico.
La decisione ed il tempo diventano una sorta di
passaggio verso un lavoro per assorbire
l’incertezza: il concetto di orientamento allo scopo (pensiero classico) viene sostituito con il
concetto di assorbimento dell’incertezza. Questo è il momento centrale delle tesi di Luhmann:
il futuro non interessa, non responsabilizza il soggetto che dovrebbe sceglierlo, non impegna la
libertà, si passa da una memoria personale ad una memoria organizzativa, perché il futuro
viene ad essere solo quel che consiste nell’assorbire la condizione di incertezza, ovvero
l’assimilare in modo sistemico l’incertezza, il trattarla in modo tale che i sistemi continuino a
funzionare efficientemente, per cercare la produttività della relazione intersoggettiva senza
guardare alla qualità dell’esistenza dell’uomo.
Le tesi di Luhmann sulla decisione sostengono che la responsabilità si darebbe soltanto perché
l’uomo tratta qualcosa di non pienamente conoscibile in una definita condizione del sapere. La
responsabilità consisterebbe pertanto nel non poter raggiungere i livelli di conoscenza e della
speciazione propri della scienza, quanto ai rapporti tra l’uomo e le entità che egli incontra e tratta.
Se tali livelli di conoscenza fossero raggiungibili l’uomo sarebbe innocente, perché pienamente
dispiegato nel funzionamento delle operazioni dei sistemi. Luhmann sostiene che la responsabilità
non sorge perché l’uomo non è esposto al poter scegliere diverse gradazioni dei due poli opposti
che costituiscono i modelli principali dell’esistere in relazione con gli altri: il polo del rispetto e
quello della violenza.
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Uscendo dalla costruzione di Luhmann la responsabilità nasce non perché non sono ancora
conosciuti scientificamente il rispetto e la violenza, ma perché l’uomo pur conoscendo le due
dimensioni, esercita e manifesta la sua libertà rendendosi responsabile della sua decisione nel
rispettare l’altro oppure nell’usargli violenza.
Luhmann dice nel caso di una informazione completa nessuna decisione potrebbe essere
riconoscibile come decisione, ovvero non ci sarebbe un problema di decisione, ma neanche un
problema di linguaggio. Se l’informazione non chiedesse all’uomo il senso dell’operazione e si
esaurisse nel sistema funzionale, e l’uomo non fosse chiamato a descrivere il senso, verrebbe meno
il linguaggio perché non ci sarebbe nulla da dire. Nella teoria dei sistemi il linguaggio non è il
linguaggio di un soggetto ma sarebbe solo il linguaggio del linguaggio, ovvero il succedersi delle
operazioni dei vari sistemi, una dopo l’altra. Ma il linguaggio pieno che investe la responsabilità del
soggetto parlante è un linguaggio che si domanda sugli eventi dei sistemi, che si trova sempre
chiamato ad una condizione che avverte la responsabilità di sceglier un orientamento piuttosto che
un altro. I parlanti non si limitano a mettere in parole ciò che accade (i parlanti non diventano
parlati), ma dicono le loro ipotesi, prendono distanza da ciò che viene enunciato perché subito vede
l’aprirsi di altre ipotesi, vede apparire subito la possibilità che altri soggetti parlanti abbiano altre
interpretazioni. Il parlante – che non è semplicemente un parlante parlato dagli accadimenti che
dentro lo attraversano - vede nella comunicazione con gli altri il suo ipotizzare, che è tale perché
ascolta e coglie nell’ascoltare le ipotesi degli altri vede emergere i diversi possibili conflitti di sensi
(avverte che si danno delle controversie che esigono la centralità del diritto, della terzietà giuridica,
che non si limiti ad essere semplicemente un luogo dove si sta a vedere la combinatoria delle
operazioni dei diversi sistemi, ma anzi una terzietà giuridica che modo imparziale e disinteressato
garantisca in ogni soggetto sia il ruolo - che quel soggetto ha in quella relazione giuridica - sia la
sua originalità, garantisca dunque sia il suo essere un esso (ossia il suo ruolo) sia l’essere un tu (e
dunque qualcosa che non si lascia mai consumare in un ruolo). Soltanto nella custodia di queste
due dimensioni dell’essere e del tu il terzo imparziale e disinteressato garantisce la soggettività
giuridica e garantisce il diritto come fenomeno esistenzialmente rilevante perché legato alle
controversie giuridiche.
Nella teoria dei sistemi sociali di Luhmann la decisione potrebbe diventare un semplice stare a
vedere il succedersi delle operazioni vincenti. Luhmann dice che le decisioni sono eventi che si
orientano in modo autoreferenziale, che hanno un fondamento paradossale, si limitano a far si che
si passi da una contingenza aperta (dove i dati hanno ancora una consistenza indifferenziata) ad una
contingenza chiusa (dove i dati hanno assunto una configurazione); però in questo passaggio si è
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rimasti nella contingenza e
rimanendo nella contingenza non si è fatto attenzione ai diritti
fondamentali della libertà.
Luhmann dice che i diritti fondamentali alla libertà ed all’uguaglianza simbolizzano una sorta
di forma di inclusione degli individui nella società di tutti gli individui in quanto individui,
ovvero dice che gli individui sono degli elementi inclusi in una organizzazione che serve
all’organizzazione stessa; con il dire che gli individui sono inclusi si dice tutt’altra cosa dal
dire che gli individui sono riconosciuti nella società in quanto portatori di una soggettività
giuridica. L’inclusione è uno svuotamento della originalità dell’uomo. Tutt’altra cosa dice
invece il rispetto dei diritti fondamentali degli individui alla libertà e all’uguaglianza intesi
non come inclusione in qualche funzionamento sistemico ma come riconoscimento
disfunzionale della dignità dell’uomo e della qualità della relazione dell’uomo in quanto
portatori di una soggettività giuridica.
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Lezione 13: Formazione del giurista o addestramento del tecnico delle norme?
La formazione del giurista è ambientata nello spazio dell’arte, pensato dalla Filosofia.
L’addestramento del tecnico delle norme è perseguito seguendo il modello delle Teorie del reale.
L’ingegnerizzazione post-umana di una ‘scienza giuridica senza giurista’ tratta, nel linguaggio
numerico, il cosiddetto diritto ‘contingente=fattuale’ e non il diritto ‘incondizionato=controfattuale’, che viene espresso nel linguaggio evocante dell’ermeneuta, l’‘artista della ragione’.
Nella condizione contemporanea la formazione del giurista porta a distinguere due possibili vie
rispettivamente per la formazione della personalità e poi dell’opera che il giurista pone in essere
nella concretezza dell’esperienza giuridica: da una parte si può avere un formarsi del giurista che si
modella secondo lo spazio dell’arte (artista), così come si chiede nella direzione del pensiero
classico (diritto come arte); dall’altra via (secondo il modello delle teorie del reale) abbiamo invece
lo scivolare della formazione del giurista come tecnico delle norme che si limita ad assistere, ad
assecondare il funzionamento delle operazioni vincenti nei vari sistemi sociali.
In queste due formazioni si incontra il problema della qualità del linguaggio del giurista. Uno
dei contributi principali moderni del linguaggio proviene dal pensiero moderno di Derrida (che si
deve a Freud) e che consiste in un evento incancellabile, che segna lo spazio in cui ci troviamo sia
a vivere, sia a pensare, sia a lavorare, sia ad insegnare; ci si trova in un confine osmotico e
permeabile e che permette ma anche impedisce lo scambio tra psicoanalisi e diritto, permette ma
anche mette in discussione tutti quegli interrogativi sul diritto a partire da questo contributo che
viene dalla psicoanalisi di Freud. Attraverso l’attenzione all’inconscio di Freud si coglie che il
linguaggio (come dirà Merleau-Ponty) è indiretto, “è silenzio”, ovvero è allusivo, intendendo
così dire che il linguaggio è permeato dal silenzio perché risente dell’inconscio, il linguaggio del
giurista è attraversato dagli effetti dell’inconscio.
L’inconscio è un silenzio che prepara il senso delle parole che vengono enunciate.
Tutto questo interessa la formazione del giurista, soprattutto l’alternativa di un giurista che si fonda
secondo l’arte, perché riguarda il lavoro dell’interpretazione. Il lavoro dell’interpretazione sarà
chiamato a compierlo sia il giurista che si forma secondo il modello dell’arte sia quello che si forma
secondo il modello della tecnica. Sarà inevitabile che qualsiasi operatore del diritto si trovi di
fronte a degli enunciati normativi e quindi davanti agli effetti del linguaggio, che sono simili agli
effetti dell’arte, aprono degli spazi nei quali l’operatore del diritto deve spendere la propria
53
responsabilità nel lavoro interpretativo. La tecnica non è in grado di affacciarsi a ciò che è
strutturalmente disfunzionale, come è proprio dell’arte e l’interpretazione che compie il giurista è
arte, ha i tratti della disfunzionalità dell’arte, ha gli elementi propri del pensiero in quanto tale e,
come dice Heidegger, la scienza e la tecnica non pensano.
Nancy nel volume “L’esperienza della libertà” dice “il pensiero prodiga (ovvero dona: il
pensiero è donativo) ciò che pensa prendendo distanze dal calcolo” e il pensiero fa questo a
dispetto dei vantaggi che immancabilmente potrebbero conseguire sia per il soggetto che pensa sia
per l’economia del suo discorso e del discorso che appartiene ad una società strutturata secondo la
teoria dei sistemi sociali.
Anche l’interpretazione ha questa struttura del donare, che appartiene anche al lavoro
interpretativo del giurista, che è sempre la ricerca del giusto nel legale; è sempre il colmamento di
quel vuoto tra la norma astratta e la situazione concreta che il giurista compie attraverso l’arte
dell’interpretazione, che compie in modo donativo se ha la stessa struttura che Nancy dice essere
propria del pensiero, ovvero quello dell’essere – come il pensiero - un pensiero prodigo;
l’interpretazione del giurista dona il garantire il se stesso (del soggetto di diritto) nel suo poter
essere. L’operatore del diritto (il terzo giudice in modo centrale) nell’opera dell’interpretazione
compie un lavoro che è vicino al lavoro dell’arte, che ha la struttura del pensiero, è un lavoro
donativo gratuito, che non può essere lasciato all’efficienza funzionalistica delle tecno-scienze.
Perché al centro del diritto vi è l’incontro con l’uomo, al centro dell’incontro del terzo giudice con il
soggetto del diritto, vi è l’incontro del soggetto del diritto in quanto portatore di un se stesso che è
tale perché è soggetto del suo futuro del suo poter essere. L’interpretazione giuridica guarda alla
concretezza della situazione che viene posta in giudizio, avendo però uno sguardo aperto al soggetto
di diritto alla soggettività degli attori della controversia giuridica rispettando il loro futuro, e ciò può
essere fatto solo donando aprendo ciò che non è determinato. Il dono consiste nell’aprire un
itinerario dove l’altro può trovare la sua libertà; il tecnico delle norme indica solamente un itinerario
che è già preformato.
Quando si lascia la dimensione dell’arte e si lascia l’attenzione all’inconscio, al processo
interpretativo, si cade nel fondamentalismo del detto, si incorre così nella pretesa impossibile di
poter esaurire la giuridicità degli enunciati normativi; come ogni detto anche il detto delle norme
se viene isolato nella sua presunta letteralità e nella sua presunta sufficienza della letteralità diventa
un fondamentalismo, non è più in grado di ascoltare l’altro, di dare rispetto al soggetto di diritto ma
lo tratta come si trattano le cose lo manipolano come la scienza tratta gli oggetti.
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Non appena si svela che l’opera dell’interpretazione è essenziale nell’attività del giurista, questa
attività si situa in una precisa qualificazione del sapere, è situata nella qualificazione del sapere che
è in grado di togliersi dai fondamentalismo del detto, dalle presunte autosufficienze delle chiusure
all’interno degli enunciati normativi, si esce cioè dalla presunzione che si possa avere il sapere
totale (sia pure un sapere costituito dalla sufficienza della legalità), ovvero il ritenere sufficiente il
conoscere e l’enunciare la legalità che si afferma quando si del concretizza verso i soggetti di
diritto con la violenza di un fondamentalismo. La struttura del diritto è invece quella del sapere
parziale: il diritto è una relazione di riconoscimento, quindi ha la qualità del sapere parziale,
spazio dove nessuno ha la pretesa di enunciare un sapere ultimo scientificamente esatto. Il sapere
totale è un sapere che tende ad essere modellato secondo la compiutezza del linguaggio numerico
mentre il sapere parziale volta per volta si ricrea, riacquista la sua struttura modellandosi secondo il
linguaggio dell’arte che è un linguaggio evocante; il sapere numerico è il sapere della scienza e la
scienza tratta fenomeni che sono riproducibili, cioè fenomeni che possono essere situati in forme
modellate secondo il linguaggio numerico; la verità scientifica ha una presentazione univoca (non ci
sono due verità scientifiche che riguardano lo stesso oggetto), ha una unica formulazione, non si
presenta mai il lavoro dell’interpretazione. Tale opera di interpretazione si chiede sempre nel lavoro
del giurista, diventando centrale nella sua formazione.
Il diritto ha tra i suoi compiti essenziali, il compito di conferire una forma alle relazioni, ovvero
definire secondo tipologie (enunciate con rigore) le qualificazioni delle condotte, le relazioni: il
relazionarsi in genere, divenendo giuridico, si toglie dall’informe, esce dall’informe, dall’incerto,
perché solo il diritto garantisce la certezza (la certezza è garantita dal diritto perché il diritto
conferisce quella specifica forma a quella modalità di relazionarsi degli uomini). Questa forma che
il diritto conferisce alle relazioni dei parlanti è un riferimento, dà certezza, ma non è sottratta
all’opera dell’interpretazione. La forma appartiene all’arte, la forma appartiene al diritto;
“la
forma è di per sé interpretabile ed interpretanda: suo carattere intrinseco è di richiedere
interpretazione e al tempo stesso stimolarla.” Ogni forma è da interpretare. (Pareyson)
Si chiede pertanto che ogni relazione giuridica sia interpretata. Il giurista, nel suo lavoro
interpretativo, da un lato deve mantenere fedeltà all’enunciato normativo, dall’altra deve
parimenti avere un esercizio responsabile della sua libertà nell’opera dell’interpretazione.
La libertà dell’interprete non è il luogo ove tutto è possibile, non è la omnieventualità; non è la
possibilità di ogni possibilità. Per chiarire tale concetto bisogna fare riferimento a una tesi che
invece nega questa struttura di una libertà dove tutto sia possibile.
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Infatti Nancy ha una tesi opposta che ritiene la libertà sia un evento dove accade qualsiasi
contenuto: dice Nancy libertà uguale il niente, quindi la libertà è aperta ad ogni itinerario. La libertà
è il niente sorpreso nella sua folgorazione, evento di una folgorazione che sorprende, è un evento
dove ogni contenuto è possibile, diventa un contenitore che può accettare qualsiasi qualificazione
delle condotte del se stesso e degli altri. La libertà non riposa né nella indipendenza né nella
necessità, non è né spontanea e neanche è imposta, è null’altro che una semplice folgorazione (il
semplice trovarsi davanti all’accadere di un evento). Libertà è trovarsi davanti all’accadere di un
accadimento, lo stare a vedere innocente (una folgorazione) il succedersi queste folgorazioni.
Se fosse così però la libertà finirebbe per essere confusa con una condizione dove l’uomo vive
in uno stato di indifferenza, di innocenza e di irresponsabilità sia giuridica che morale, che
appartiene alle macchine ed agli animali, non all’uomo. L’uomo soggetto ha una sua storia (che
esige soggettività, la storia si lascia interpretare come si lascia interpretare la storia del diritto), non
è l’oggetto di una evoluzione come le macchine e gli animali. C’è una differenza incolmabile tra la
storia e l’evoluzione, che è priva di soggettività e si lascia conoscere scientificamente ma non
interpretare.
Dunque il diritto chiede l’arte dell’interpretare, l’interpretare non è da confondere con il nulla
perché l’interpretare esige fedeltà al testo che si interpreta ed esige certo libertà, ma la libertà che
esige non è questo evento che sorprende e che è un possibile contenuto di ogni qualsiasi
qualificazione: la libertà non è lasciata scivolare verso l’indistinto, non è un nulla ma è il ritrovarsi
costantemente nell’esercizio della responsabilità. La libertà c’è perché appartiene a qualcuno: la
libertà di un singolo è la formulazione di una ipotesi interpretativa, che può essere tale solo se ci
sono altre ipotesi. L’ipotesi non è possibile se è slegata dal rinvio ad altre ipotesi di senso. Affinché
un’ipotesi possa appartenere ad un io deve entrare in comparazione con un’ipotesi degli altri: solo
quando si ascolta, ovvero si fa opera di comparazione con le ipotesi di altri, solo allora si ha
consapevolezza che la propria è una ipotesi, solo allora si ha libertà. Finché non c’è dunque una
pluralità di ipotesi quel che io enuncio potrebbe essere semplicemente qualcosa che accade per caso
o per necessità, lo svolgimento di una legge biologica che porta ad enunciare ciò che si ritiene
essere un ipotesi. Sarà veramente un’ipotesi solo quando sarà stata comparata con le ipotesi degli
altri; solo allora si avvertirà che il riferirsi dell’uomo a ciò che incontra, il riferirsi del terzo giudice
alle norme è un lavoro interpretativo che non può pretendere di essere un’ipotesi interpretativa se
non prende atto che il suo è un sapere parziale, e proprio perché sapere parziale e non totale richiede
la pluralità dei gradi di giudizio, ciò che la storia del diritto ha portato alla costruzione della
pluralità dei gradi di giudizio.
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Gli uomini ipotizzano perché discorrono, comunicano, in uno spazio terzo, quello dello logos e del
nomos, che nessuno può padroneggiare . Non tutte le possibili interpretazioni saranno equivalenti:
alcune avranno i tratti della giuridicità, ovvero espressione della ricerca del giusto nella legalità. Il
diritto deve avere la modalità del riconoscimento e non dell’esclusione.
Nella situazione contemporanea si prende atto che la tendenza è di modellare l’interpretazione
secondo il modello della tecnica, trascurando l’arte: la tecnica modella l’interpretazione secondo
come il mercato modella la tecnica. Se il dominio è del mercato si avrà allora un capovolgimento
della visione classica, che distingue le cose di valore (beni che entrano nel mercato) che possono
essere manipolati dalle tecniche, dai valori assiologici come la giustizia, la solidarietà, la
partecipazione nell’ascoltare l’altro nella sua interezza.
Ciò chiede di orientare la formazione del giurista: attualmente emergono problemi che il tecnico
delle norme non può avvicinare.
Scrive sempre Derridà: numerosi manoscritti rifiutati dagli editori in futuro (ormai nella nostra
condizione contemporanea) verranno pubblicati sul Internet, soltanto delle analisi estremamente
raffinate e comunque sempre discutibili consentiranno una vera e propria rielaborazione dell’intero
ambito pubblico dell’editoria e del diritto, rielaborazione che però non sarà avvicinabile dal tecnico
delle norme, chiederanno l’essenzialità dell’arte del giurista, formatosi secondo il modello specifico
dello spazio disnumerico dell’arte.
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Lezione 14: Il diritto strutturato come il linguaggio che è discorso.
Le leggi - strutturali e non convenzionali - del linguaggio consentono di enunciare e comunicare le
creazioni di senso, ma non sono create né dai parlanti, né dai linguisti. Le leggi delle cose, dei
viventi e delle macchine sono scoperte ed enunciate dall’attività di ricerca delle scienze, ma non
sono ‘istituite’ dagli scienziati; non si individuano legislatori nelle leggi della fisica, della chimica,
della neurobiologia, ecc. Le norme giuridiche sono invece istituite, nella ripresa, storicamente
sempre originale, del principio: il diritto(nomos) è strutturato come il linguaggio che è
discorso(logos), illuminato dagli a priori dell’apertura affettiva(pathos).
La discussione sull’opera dell’interprete torna inevitabilmente a descrivere il linguaggio degli
uomini che ha una particolare struttura, certamente diverso dai messaggi linguistici dei non umani,
che non hanno un linguaggio discorso, perché il discorso implica la formazione di ipotesi, quindi
l’istituire una vita che è la vita delle istituzioni, una seconda vita dove principali sono le istituzioni
giuridiche. Nei linguaggi dei non umani e dei sistemi informatici non compare nulla della
discorsività, perché non compare questa seconda vita, propria dell’istituire appunto le istituzioni
giuridiche. Ma nel discutere dell’interpretazione si prende atto che le leggi del linguaggio
consentono alla discorsività degli uomini una creazione di senso, un discontinuare segnato appunto
dal presentasi di un senso nuovo. Quando questo manca, quando non c’è creazione di senso, il
linguaggio scivola nella noia, nella semplice informazione funzionale, non accade nulla, non si ha
una creazione di senso, si ha un semplice transitare di informazioni che svolgono delle operazioni
sistemiche ma che non implicano l’esercizio creativo della soggettività, e ciò che è proprio della
creazione di senso.
Il linguaggio discorso però consente una creazione di senso ma non consente però una creazione
delle leggi del linguaggio che è discorso; l’uomo non ha la disponibilità delle leggi del
linguaggio che è discorso, perché se avesse tale pretesa scivolerebbe verso un rischio che
gradualmente si avvicina alla fuga delle parole, al disordine e al caos di un dire senza senso. Del
resto lo scienziato è il chimico, il botanico, ma mai il legislatore delle leggi della scienza, della
chimica o della botanica. Tutte queste leggi gli scienziati le enunciano, lavorano per portarle alla
luce, ma non ne sono i legislatori delle leggi della chimica o della botanica, le scoprono. Parimenti
gli uomini non sono i legislatori delle leggi del linguaggio, ma sono però i creatori del senso che
viene comunicato con il linguaggio che è discorso e gli uomini sono i creatori anche delle norme
giuridiche.
Le norme giuridiche, dunque, sono norme istituite: gli uomini ne hanno una disponibilità, a
differenza delle leggi della scienza, ed anche a differenza delle leggi del linguaggio; si può
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convenire su alcune formulazioni linguistiche ma non si può disporre delle leggi profonde del
linguaggio, non si può mai disporre della distinzione tra il significato e il significante.Non si può
mai disporre di una legge fondamentale del linguaggio che vede nella parola un elemento che non è
riducibile nel numero: l’uomo non ha questa disponibilità.
L’uomo, pur non disponendo delle leggi del linguaggio che è discorso, ha la responsabilità di
istituire (attraverso le leggi di un linguaggio che è discorso) le norme e di selezionare i
contenuti delle norme giuridiche. Questa è la responsabilità esercitata dal terzo legislatore, cui
segue poi la responsabilità del terzo giudice, che è l’interprete dell’opera del legislatore. Questa
attività del terzo giurista non è riconducibile ai modelli della scienza, perché si tratta di un’opera
ermeneutica non riconducibile al lavoro scientifico in quanto presuppone un lavoro di
interpretazione che ha sempre a che fare con la soggettività.
In proposito dice Pareyson: la personalità dell’interprete è una situazione invalicabile dalla
quale egli non può uscire, perché nessuno può uscire da sé.
Dunque l’interprete non può liberarsi dalla responsabilità dell’interpretazione, non può
ritenere che possa essere sostituita dai modelli scientifici perché ciò richiederebbe all’interprete di
uscire da se stesso per non essere più uomo ma un congegno di tipo macchinale. L’interpretazione
non può essere lasciata all’intelligenza artificiale, perché in tal caso non incontrerebbe più la
soggettività.
Soltanto la soggettività del terzo giudice in quanto uomo può incontrare l’altro uomo nella sua
soggettività. Solo se l’opera ermeneutica rimane nel campo dell’arte potrà incontrare la
soggettività di chi entra in un palazzo di giustizia e peraltro si deve tener conto della tendenza
dell’ingegnerizzazione del diritto che sembrerebbe rappresentare una maggiore certezza e
imparzialità (il giudice sarebbe inevitabilmente parziale perché portatore di una personalità, di una
storia personale e dei relativi limiti). Ma non è così perché il tecnico delle norme non è imparziale
in quanto persegue solo l’efficienza funzionale, incontra il diritto che si svolge nell’uomo e quindi
chiede esclusivamente il concretizzarsi delle operazioni del sistema diritto; il diritto invece che
implica costantemente un riferimento alla pienezza dell’io alla pienezza dell’uomo non è il diritto
nell’uomo ma è il diritto dell’uomo, che costituisce la misura dei contenuti delle operazioni
giuridiche e chiede un incontro con la soggettività che non è accessibile a nessuna strumentazione
biomacchinale.
In tal senso ritorna la tesi di Jasper che dice che la coscienza si sottrae ad ogni considerazione
oggettiva perché l’esistenza è ciò che non diventa mai oggetto (quel che avviene in un processo
è sempre ciò che mette in gioco l’esistenza non gli oggetti o gli animali perché non sono imputabili,
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perché i loro comportamenti sono costituiti dalle loro memorie biologiche o vegetali e dunque non
costituiscono quel che invece è proprio dell’opera del terzo giudice, ovvero l’analisi della
soggettività; pertanto l’analisi dell’esistenza rende impossibile l’intervento di un processo che renda
tecnica la via del giudizio giuridico).
A differenza degli animali, il percorso dell’uomo è quello di un libero continuo perfezionarsi che
non ha mai un momento finale. E’ quel che Russeau afferma quando distingue l’uomo dagli
animali: egli dice che nell’uomo
la volontà parla ancora quando la natura tace (con ciò
sottraendosi sempre al ruolo di servitore della funzione di un sistema, ed il giudice deve incontrare
l’uomo tenendo presente di questa caratteristica).
Nel giudizio entrano sempre gli uomini con le loro memorie esistenziali (non quelle biologiche dei
non umani) che restano aperte alla creazione del futuro, a questo compito mai esaurito di
perfezionarsi: ciò che è proprio del processo penale, riconosciuto anche dalla nostra costituzione,
ovvero che la pena sia destinata al reinserimento del singolo nel complesso delle relazionalità
sociali; solo questa è la ragione che conferisce alla pena un senso esistenziale e la distingue dalla
quantificazione che è propria della vendetta animale).
L’impegno di perfezionarsi che contraddistingue l’uomo chiede sempre al giudice di incontrare i
soggetti che si presentano davanti ad un collegio giudicante, come colui che è il portatore di questo
impegno inesauribile a ricostituire costantemente la propria identità esistenziale; cioè ricostituire
costantemente l’impegno a perfezionarsi. Si rinuncia a questo impegno a perfezionarsi quando il
soggetto è avvicinato dalla follia, dalla disperazione e pertanto diventa non più imputabile, non è
più interlocutore del dibattimento.
Pertanto il perfezionarsi degli uomini avviene in mondo che porta costantemente ad avere
attenzione alla centralità esistenziale del diritto e del giudizio giuridico, perché il perfezionarsi
avviene in un modo dove ci sono anche altri portatori della medesima istanza, in un modo – per
tornare ad un’espressione di Sartre – caratterizzato dalla penuria, ovvero da quella condizione dove
non ce n’è mai abbastanza per tutti, cioè che non tutte le possibile forme per raggiungere un
perfezionarsi di ogni singolo. Dunque, poiché la formazione dell’identità di ognuno avviene in
presenza della formazione dell’identità degli altri, ecco che nascono le controversie tra gli uomini e
il diritto non può mai essere un fenomeno destinato all’estinzione contrariamente all’ipotesi
profetizzata da Marx: il diritto non potrà mai estinguersi, perché il diritto si darà sempre finché si
darà un soggetto che ipotizza, che ipotizza però non una dimensione collettiva e anonima priva di
una soggettività originale, ma che ipotizza la sua non fungibile soggettività esistenziale. Ci saranno
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dunque delle controversie di senso, che si presenteranno come la genesi del fenomeno diritto e della
impossibile estinzione della giuridicità.
Ma le controversie di senso che interessano il diritto sono quelle controversie che investono
dei beni che per la loro struttura nell’esser goduti esigono una divisibilità: questo lo si legge in
modo chiaro nell’analisi fenomenologica compiuta da Scheler: egli, nella sua analisi
fenomenologica, dice che
le contrapposizioni tra gli uomini sono da ricondurre ai c.d. beni
materiali, ovvero a quelli che possono essere distribuiti in quanto vengono divisi, facendo sorgere
il confine tra ciò che è mio e tuo, facendo sorgere ciò che è proprio della disciplina della
proprietà (beni quindi che fanno sorgere i problemi che il diritto deve disciplinare ponendo dei
limiti al mio che escluda il tuo). All’opposto ci sono gli altri beni (il bello, il vero) che non
producono controversie che investono beni divisibili, perché il bello e il vero per il loro godimento
la divisibilità non portano la partizione per i loro portatori e quindi non vi è necessità di norme
giuridiche (as esempio l’ascolto di una musica, la contemplazione di un’opera d’arte).
Si può dire, ricapitolando, che le controversie di senso sorgono e sono inevitabili perché gli
uomini ipotizzano ed il loro ipotizzare accade in un mondo affetto dalla penuria: le
controversie giuridiche sono quelle che trattano beni che per esser goduti comportano una
divisibilità oppure una appropriazione che in quanto tale fa nascere il mio ed esige il confine
dal tuo.
In questa prospettiva si capisce che le norme giuridiche, nel disciplinare questo ordine di beni,
comportano una forma nelle relazioni giuridiche, comportano delle tipologie definite nel modo in
cui le controversie avvengono e poi trovano soluzione. Poiché della soluzione delle controversie di
senso è la soluzione che il terzo giudice enuncerà essendo fedele al testo delle norme, che precede le
condotte degli uomini e le qualifica. Se il testo delle norme dovesse essere successivo alle condotte
queste non avrebbero possibilità di essere inscritte in una relazione certa. E’ la formatività giuridica
che definisce e dunque confina le relazione e le rende certe definendole. Rendendole certe lascia
sorgere la pretesa giuridica, che è una dimensione esclusivamente propria della giuridicità, non si
può pretendere un sentimento oppure una invenzione tecnica. Posso invece pretendere quanto è
divenuto contenuto delle norme giuridiche, che precedendo le condotte, e che disciplinano le
controversie che volta per volta acquistano rilievo giuridico e che lo acquistano in quanto
controversie di senso che gli uomini esistono in un mondo caratterizzato dalla dimensione della
penuria della impossibilità che tutte le ipotesi di senso possano trovare una loro concretizzazione
senza escludere tutte le altre ipotesi di tutti gli altri.
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Dunque le norme giuridiche mostrano questa essenziale funzione nel disciplinare le controversie di
senso e mostrano il loro nascere in quanto controversie di senso riproponendo l’omogeneità che
lega il nomos e il logos: si torna dunque a dover filosoficamente argomentare che il diritto è
strutturato come il linguaggio che è però discorso. Perché l’uomo parla, comunica, discute e nel
comunicare mette in essere delle creazioni di senso però l’uomo non crea le leggi del linguaggio che
struttura il discorso. L’uomo non può creare un inversione della parola verso la dimensione del
numero.
Parimenti l’uomo non crea neanche il giusto perché non dispone della differenza fra il giusto (che
è il rispetto ed il riconoscimento dell’altro come soggetto del diritto a prendere la parola) ed il non
giusto (che è l’escludere l’altro, il togliergli la parola). C’è dunque questa struttura di profonda
analogia tra il logos (ovvero la parola, il discorso: l’uomo parla ma non dispone delle leggi del
linguaggio) e il nomos ( l’uomo si trova ad avere davanti alla sua esistenza delle norme, però non
dispone del giusto: nessun legislatore potrà cancellare la differenza fra il rispetto dell’altro e la
violenza dell’altro, fra il riconoscerlo e l’escluderlo). Ma il nucleo che accomuna il logos e il nomos
è questa relazione di riconoscimento, che viene ricordata in modo paradossale da Scheler a
proposito della condizione che è propria del condannato, ovvero ancor prima di colui che è l’autore
di un delitto: l’autore del danno o il reo del delitto di qualunque entità ha il diritto di essere
riconosciuto come persona e dunque ha paradossalmente il diritto alla pena. Solo con la pena
gli si riconosce la soggettività. Se non gli si dovesse riconoscere la pena, è come se
lo si
riconoscesse non imputabile, è come se lo si facesse cadere nella indifferenza tra l’innocenza e la
responsabilità, come se lo si facesse cadere nella situazione dell’animale che non è mai
responsabile dei suoi comportamenti. Il diritto alla pena (Scheler) potrebbe essere negato da chi
volesse rendere l’uomo un mero oggetto nei loro provvedimenti cautelativi, se il terzo giudice
finisse anziché pronunciare la sentenza si limitasse a trasmutare il processo nella semplice
utilizzazione di alcuni provvedimenti cautelativi che consistono non nell’incontrare l’altro nella sua
soggettività che ha scelto di usare violenza ad altri esistenti, ma nell’incontrarlo come un oggetto
che può essere reso inoffensivo, confinato, togliendogli l’opportunità di incontrare gli altri. Quando
questo avviene, quando si nega il riconoscimento, sia pure nella misura certo difficile da vivere che
infligge una pena, si nega la soggettività giuridica, si finisce per trattare l’altro come un elemento
che produce un disagio nei molti ingranaggi dei diversi sistemi sociali. Questo elemento che
produce un disagio non è più incontrato come portatore della dignità umana ma semplicemente
come
quantificabile
come
una
funzionalità
sistema,
come
un
quantum
monetario.
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Lezione 15: Istituire, interpretare ed applicare le norme: la dimensione dell'arte nel diritto,
oltre il suo "funzionamento"
Nell’istituire, interpretare ed applicare le norme, il giurista opera nella dimensione dell’arte,
formativa di ogni modalità del linguaggio delle parole creative, origine anche del legame giuridico
tra gli uomini. Quando le parole scivolano verso i numeri, si ha quel ‘funzionamento’ dei sistemi
sociali dove il nichilismo progredisce verso il suo affermarsi come ‘fondamentalismo funzionale’,
retto dal principio ‘la funzione della funzione è la funzione’, senza perché e senza senso. Il
nichilismo può essere vissuto in un suo stadio ancora ‘imperfetto’, ‘non tragico’; può circolare
come una merce culturale, esposta, tra le altre, nei canali mercantili dei mass media.
La distinzione fondamentale nel descrivere la formazione e l’attività del giurista consiste nel
riportare l’opera del giurista uomo ha due possibili itinerari: uno che si costruisce nel modello
dell’arte e l’altro che si costruisce secondo il modello della tecnica.
Questi due itinerari sono presenti da sempre nella storia del pensiero giuridico. Attualmente è
divenuta più forte la presenza del modello tecnico-scientifico.
Quando ci si riferisce all’opera del giurista ci si riferisce alle tre figure della terzietà giuridica,
che costituiscono i tre spazi principali dell’intera esperienza giuridica, ovvero:
1. l’opera dell’istituire le norme, del terzo legislatore;
2. l’opera dell’interpretare ed applicare le norme, del terzo giudice;
3. l’opera dell’eseguire, del porre in concreto i due passaggi precedenti, del terzo polizia.
Quelle tre figure della terzietà esigono un confronto tra l’attività della ragione artistica e l’opera
della ragione tecnica. La peculiarità della condizione contemporanea emerge nella tendenza a
proporre una spiegazione scientifica della libertà dell’uomo che il pensiero filosofico dei classici
discute con il concetto di libero arbitrio. Ritenuta raggiunta la spiegazione della libertà, ne
consegue che anche il diritto ed il linguaggio giuridico siano incontrati secondo modelli scientifici,
principalmente dalla neurobiologia e dall’intelligenza artificiale.
La maggiore presenza delle costruzioni fondate sul versante della tecnica dipende dal fatto che la
scienza ritiene di proporre una spiegazione del libero arbitrio dell’uomo.
Gli itinerari che ritengono di poter spiegare il libero arbitrio scientificamente sono sostanzialmente
quello delle scienze neurobiologiche e quello delle attività che ruotano attorno all’intelligenza
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artificiale. Questi due versanti avvengono oggi in un modo che si mostra costantemente proporsi in
un processo ibridativo (neurobiologia e intelligenza artificiale sono in questo costante, reciproco
cammino di ibridazione). In direzione esplicitamente vicina ad una spiegazione scientifica della
libertà è un lavoro di Dennett (comparso in una traduzione italiana ne “L’evoluzione della libertà”,
2004); questo studioso ha questa tesi: l’atmosfera del libero arbitrio che avvolge tutto, che tutt’ora
continua a conferire il potere che modella la vita, è composta da quelle azioni intenzionali che
consentono di progettare, di sperare, di promettere (quindi la spiegazione del libero arbitrio, delle
azioni intenzionali, che avviano i processi di progettazione, della promessa, a vedere l’individuo
responsabile di una possibile azione), ma che ormai è in via di archiviazione. E’ possibile pensare
di possedere una condizione umana dove forse è nominato il libero arbitrio, ma la situazione attuale
della scienza ci permette di dire che non è stato altro che una ideologia che ha modellato la vita in
questi millenni e l’ha forse anche accresciuta ma ormai possiamo farne a meno. Possiamo imparare
a fare a meno di questo riferimento ideologico al libero arbitrio e quindi l’insieme delle
interpretazioni dell’esperienza giuridica. La libertà, il libero arbitrio, secondo Dennett, sarebbe stato
null’altro che un sintomo, uno dei fenomeni della stessa evoluzione biologica. Per Dennett non
esiste un libero arbitrio che appartiene ad un soggetto che sceglie ed è libero e responsabile e quindi
giuridicamente imputabile. La caduta dei questa costruzione farebbe cadere la distinzione anche
tra l’evoluzione della natura (ascritto ad un processo non scelto) e la storia delle istituzioni
(ovvero lo scegliersi degli uomini nelle diverse fasi delle loro diverse condizioni sociali). Con la
caduta del libero arbitrio, ovvero con la spiegazione scientifica della libertà, evoluzione e storia
finiscono per identificarsi: sono soltanto il processo che registra lo svolgersi del funzionamento dei
sistemi, che hanno nel loro nucleo volta per volta una funzione.
Queste considerazioni sono fatte dagli studiosi dell’intelligenza artificiale ma in modo forse più
impegnativo dagli studiosi della neurologia: in questa disciplina il neurobiologo francese Changeux
dice che appunto le scienze cognitive possono giovarsi di straordinari sviluppi e metodi che
avrebbero aperto quello che mai prima si era reso accessibile all’umanità; avrebbero aperto una
finestra scientifica sulla soggettività. Questo avrebbe portato ad aprire una sorte di luce sulla
normatività. La spiegazione scientifica della libertà darebbe dunque una spiegazione scientifica
della normatività, e questa spiegazione scientifica della normatività porterebbe a dover discutere
oggi il darsi di tre modelli di quel che si è ritenuto essere il sé, ovvero il se stesso, l’io, il centro
imputabile delle attività dell’uomo.
Questo sé avrebbe oggi una serie di qualificazioni diverse: non sarebbe più il sé in modo greco,
medievale, classico, il sé dell’uomo in quanto portatore di una dimensione che è quella dello
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spirito, non sarebbe dunque il sé del profondo esistenziale, ma sarebbe il sé dei neuroni oppure il
sé degli elettroni: il sé dei neuroni (parte spiegabile dalla prospettiva della neurobiologia) sarebbe
questo centro di riferimento che costituisce il luogo dove nella massa cerebrale avvengono i diversi
processi di combinazione delle molte attività delle sinapsi, ovvero di questi processi elementari e
complessi che compongono per intero l’attività delle diverse regioni della geografia cerebrale.
Accanto al sé dei neuroni rimarrebbe questo sé degli elettroni, luogo che è proprio dell’intelligenza
artificiale dove i diversi programmi situati nelle diverse modalità di svolgimento dell’intelligenza
artificiale lasciano sempre apparire ciò che sarebbe proprio di una macchina non banale.
Dunque queste due configurazioni del sé residuali
(dei neuroni e degli elettroni), una volta
eliminato il sé esistenziale, sarebbero due figure proprie di una c.d. macchina non banale, perché
capace di compiere un processo di auto osservazione, in grado di autoaggiustarsi, come dice
Luhmann, mostrandosi capace di adattarsi agli elementi che incontra (flessibilità).
Dunque la spiegazione scientifica del libero arbitrio e della libertà in generale comporterebbe che la
scienza giuridica si avvii ad essere una scienza giuridica senza giurista, perché la finestra che la
neurologia ibridandosi con l’intelligenza artificiale getta sulla attività di questa macchina non
banale, che è il giurista, e getta sulla stessa produzione, sull’interpretazione e sull’esecuzione della
normatività, l’insieme delle attività giuridiche risulterebbero nient’altro che dalla combinatoria dei
neuroni e degli elettroni, poiché il processo è oggi costantemente in un accelerato ibridarsi dei
sistemi biologici e dei sistemi informatici.
Ma la spiegazione scientifica della libertà, la riduzione del libero arbitrio, la riduzione dell’attività
del giurista che cessa di essere l’artista della ragione per farsi il funzionario, il tecnico
dell’efficienza dei sistemi normativi porta che la combinatoria delle attività della esperienza che
appartiene alla giuridicità non si distingue più dalla combinatoria degli elementi che mantengono in
vita gli animali o i vegetali (Non ci sarebbe quindi alcuna differenza con la combinatoria che
mantiene in vita gli animali, i vegetali e le macchine). Cancellato il libero arbitrio si guarda alle
spalle la storia del pensiero giuridico e la storia delle attività di produzione delle norme e si vede
che si è trattato di null’altro che di un sintomo dell’evoluzione dei sistemi biologici. L’attività della
ragione giuridica si svelerebbe ora, con il fascino della luce della scienza, come nient’altro che un
sintomo dell’evoluzione dei sistemi biologici che oggi si interseca con il crescere dell’efficienza e
dell’incidere dei sistemi informatici.
Dunque il cervello del giurista è riferito a queste tre figure della terzietà: il legislatore (ovvero colui
che pone le norme), il terzo giudice (colui che pronuncia il giudizio) e il terzo polizia (ovvero colui
che concretizza l’attività delle precedenti figure).
L’attività di queste tre figure della terzietà
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sarebbe altro che un’opera cerebrale: il cervello secerne pensiero come il fegato secerne bile (è
un’espressione che esprime la psicoanalista vivente francese Roudinesco). Essendo spiegabile,
l’attività di secrezione farebbe cadere la differenza fra uomo e ciò che non è umano: con il venir
meno di tale distinzione cadrebbe anche la distinzione tra le leggi che sono trovate nel non umano e
le norme che sono istituite nella società degli uomini. Questa differenza è sempre centrale, che da
ragione del continuare a non essere cancellabile il fenomeno del diritto, e in generale delle
istituzioni giuridiche. Se invece si cancella questa distinzione fra umano (libertà che è non
spiegabile) e il non umano (operazioni che si lasciano spiegare scientificamente) si affermerebbe
una sorte di nichilismo giuridico compiuto, perché non sarebbe più presente alcuna domanda sul
senso dell’istituire le norme, sugli scopi che portano ad istituire, selezionare i contenuti di alcune
norme invece di altre, non sarebbe più presente alcuna attenzione a considerare perché il singolo
nell’esercitare la sua libertà compia una scelta che lo porta a rispettare l’altro o a usare violenza
verso l’altro: non ci sarebbe più alcuna differenza tra ciò che accade (che appartiene all’ordine del
non umano) e ciò che si sceglie (che appartiene all’ordine umano) e di conseguenza alcuna
responsabilità. La spiegazione scientifica rende omogeneo l’umano e il non umano: si lascia cadere
anche il concetto di responsabilità, l’uomo è innocente non giuridicamente responsabili, sono solo il
luogo dove alcune cose accadono. Il diritto sarebbe lasciato a una condizione che in modo poetico
Lucrezio definisce con il concetto di “clinamen” (gli atomi cadono, e cadendo rispettano alcune
leggi che sono delle leggi necessarie, ma cadendo in modo inclinato si combinano secondo delle
contingenze che sono assolutamente occasionali, casuali): si avrebbe cioè questa condizione di
abbandono al non senso, mancherebbe una domanda e una risposta sul perché del contenuto delle
norme, sul perché di alcune scelte delle condotte dei soggetti di diritto che sono davanti al giudice e
ne attendono il giudizio quanto alle loro controversie, mancherebbe appunto ogni riferimento a
domande e a risposte su questi modi del procedere dell’essere e si avrebbe solamente una
combinatoria delle cause e dei casi. Si avrebbe il caos della necessità (formula che Heidegger
riprende nel chiarire il concetto di nichilismo di Nietzsche: il nichilismo è questo caos della
necessità). Caos (occasionalità dei casi) e necessità (svolgersi delle cause) sono due versanti
opposti e in quanto tali cancellano ogni domanda sul senso, sul fine: ci si troverebbe davanti a
questa sorta di in significatività, a ciò porterebbe la spiegazione scientifica della libertà dell’uomo.
Un risultato immediato sarebbe quello di togliere al diritto l’elemento che ne rappresenta la sua
genesi, cioè l’essere una risposta che custodisce il singolo uomini nella relazione con gli altri
uomini davanti alla mutevolezza dell’improvviso del poi; le relazioni intersoggettive fra gli uomini,
che sono dunque legali e giuste, sono custodite davanti alla mutevolezza del futuro dal diritto. Così
cancellata la ragione della civiltà giuridica, orientata dal perseguire la liberazione dei parlanti
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dall’angoscia dell’improvviso, da una mutevolezza che non è scelta mediante il partecipare alla
formazione del giusto consenso dei soggetti. L’opera che libera dall’accadere dell’imporvvisonon deciso costituisce l’elemento peculiare del fenomeno diritto che conferisce durata alle
forme di coesistenza dei soggetti. In un contesto così istituito i parlanti sono riconosciuti titolari
della pretesa giuridica verso il terzo che, imparziale e disinteressato, garantisce la durata delle
relazioni giuridicamente convenute, liberando quindi le parti dall’eventualità di una mutevolezza
che è subita, perché viene arbitrariamente imposta dall’accadere della forza-più che, nel
manifestarsi in alcuni uomini, ne esclude altri.
Il diritto non è semplicemente prendere atto di quello che accade, ma è il garantire all’uomo la
certezza del progetto che egli compie con altri uomini.
Se viene meno la visione della libertà che non è spiegabile e del diritto come garanzia di una libertà
che non è spiegabile, il risultato è che il diritto diventa nient’altro che uno dei molti sistemi di
funzione (in quanto sistema di funzione sarebbe volto a tenere in vita gli altri sistemi sociali,
assumendo contenuti imposti dai diversi modi di procedere degli altri sistemi sociali, quali il
sistema del mercato, dell’economia ecc.., non ci sarebbe più attenzione al giusto nel legale, alla
qualità della esistenza del singolo, delle relazioni intersoggettive, a ciò che accade rendendo
indifferente la distinzione tra l’ascoltare l’altro o l’usare l’altro, tra l’accogliere l’altro o permanere
in uno stato di indifferenza).
La spiegazione scientifica del libero arbitro tende quindi a cancellare la differenza tra le leggi delle
cose e il diritto degli uomini, tende a cancellare ciò che Scheler dice essere quell’impegno specifico
dell’uomo che
consiste nell’emancipazione esistenziale da tutto ciò che è organico, ovvero
nell’emancipazione che l’uomo guadagna ogni volta dal trovarsi condizionato in norme
naturalistiche e non in quelle istituite per degli scopi ch danno vita all’ordine simbolico della
giuridicità che appartiene solo agli uomini. La spiegazione scientifica della libertà dunque segna la
riduzione dell’uomo nello stesso modo di essere che è proprio degli animali e dei vegetali, segnando
anche l’estinzione del diritto che diviene nient’altro che una tra le molte leggi che si affermano nei
sistemi sociali secondo rapporti che sono di forza e non di attenzione alla ricerca del giusto.
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Lezione 16: Il diritto senza pathos. Ascoltare/intendere l'altro della relazione
Il tecnico delle norme non è più il giurista e non è ancora un software. In quanto uomo, custodisce
l’affettività che apre all’ascolto dell’altro; come funzionario, la trasforma in un intendere l’altro.
L’‘ascoltare’ rispetta il diritto dell’altro a dire se stesso; l’‘intendere’ calcola gli altri e privandoli dei diritti incondizionati - li usa in un nichilismo senza pathos e commercializzato nella
cultura spettacolo del mercato. Il pathos è ‘sentire iniziante e non disponibile’, costituisce il senso e
la finitudine della volontà, che dunque non dispone né della differenza tra odio e amore, tra non
giusto e giusto(nomos), né del principio di non contraddizione (logos).
La tesi 15 e la tesi 16 discutono sia la spiegazione scientifica dell’uomo e il suo esito nel nichilismo
giuridico sia la peculiarità dell’opera del giurista nell’essere un’opera che ha analogia con la
struttura dell’arte, perché ripropone sempre l’attività dell’interpretazione e questa ha la medesima
struttura dell’arte. Ma queste due tesi portano innanzitutto ad affermare che esiste l’opera del diritto
e quindi l’opera ermeneutica, in quanto l’esistenza dell’uomo non è la fisiologia della sua vita,
intesa allo stesso modo degli altri viventi non umani; questo perché l’uomo esercita il linguaggio,
che è discorso. Scheler dice che l’uomo si allontana dall’essere centro biologico come lo sono gli
uomini, perché la parola dell’uomo mette a tema (interrogandosi) il proprio se stesso (La posizione
dell’uomo nel cosmo) e per questo non coincide con il funzionamento dei suoi organi vitali. Per
questo l’uomo può essere soggetto di attività che sono giuste o non giuste, l’uomo può violare le
norme che sono state istituite, perché mettendo a tema se stesso con la parola apre una serie di
itinerari di libertà, dove l’uomo può rispettare o violare le norme che sono state istituite: tutto ciò è
assente nel mondo degli animali dove è assente uno spazio giuridico. Se si vuole, come nella
profezia di Nietzsche, affermare una omogeneità di tutto ciò che è, affermare un nichilismo
compiuto, allora si dovrà concludere che il diritto perde ogni senso, non ha più nessuna regione di
essere. L’uomo si trova invece in quello spazio in cui si apre uno spazio per il diritto aprendo uno
spazio di libertà, e nell’aprire lo spazio per la libertà apre le diverse possibili modalità di condotte
verso gli altri. Questo perché nell’esercitare la parola si ha qualcosa di assolutamente diverso da
quel che avviene nel cervello dell’animale non umano: qui, dice Scheler, si ha qualcosa che
funziona e vive, ma l’animale in questo funzionare e vivere del suo cervello non diventa mai né uno
psicologo né un fisiologo, cioè l’animale non elaborerà mai una dottrina che è propria delle scienze
psicologiche o che è propria della fisiologia della vità, non darà mai un’interpretazione dei
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fenomeni che sono propri della stessa vita. L’animale si limiterà a coincidere con il suo vivere, non
darà mai un senso alla propria vita, non elaborerà mai una dottrina della propria esistenza.
In modo essenziale si deve dire che l’uomo soltanto ha la doppia contemporaneità, mentre gli
animali sono solo contemporanei con i processi vitali che mantengono la vita che li specifica.
L’uomo invece è contemporaneo al funzionamento dei suoi organi, ma poi ha una seconda
contemporaneità con la quale apre un’area dove si interroga sul senso, dove istituisce un ordine che
non è quello che si trova ad avere assegnato dalle memorie biologiche e si presenta come un chi che
è capace a violare o rispettare l’ordine istituito.
Questa dimensione del senso si presenta sempre come ciò che appartiene alla differenza tra la
parola e il numero. La parola è irriducibile la numero, non si lascia numerare, è polisensa, il
numero è univoco la parola è evocante, schiude il poter esser, si apre alle interpretazioni. Quando si
ritiene di poter ridurre il giurista ad un tecnico delle norme si ritiene di poter ridurre il giurista ad un
linguaggio di tipo numerico. Quando questo avviene il giurista non avrà più alcuna possibilità di
esercitare l’arte della ragione giuridica, che è l’arte stessa del linguaggio, è l’arte aperta alla
struttura plurivoca della parola; il numero è univoco, si impone per essere ciò che è mentre la
parola schiude il poter essere, le possibili interpretazioni e dunque la parola che riceve il contenuto
delle norme, la parola che enuncia e scrive le norme è una parola che si offre ed esige anzi
inevitabilmente questa opera che è specifica della interpretazione.
Nel porsi l’interrogativo su che ne è del giurista nella condizione contemporanea, si è portati a
prendere atto che attualmente il giurista contemporaneo è in una condizione difficile, si trova in uno
stato di sospensione. Per un verso non è più l’artista della ragione e per un altro verso non è ancora
però un software, un insieme tecnico di operazioni costruite secondo i sistemi dell’intelligenza
artificiale. In estrema sintesi la condizione del giurista è questa: non è più un giurista, perché non è
più aperto fra l’arte e l’estetica, ovvero la operazione specifica dell’interpretazione e però non è
neppure un elaboratore.
Questa condizione è quella che ci si trova a dover misurare nella
quotidianità della giurisprudenza.
Torna ancora una volta questa domanda: è’ possibile che il giurista artista della ragione lasci il
posto al tecnico delle norme modellato secondo i sistemi propri dell’intelligenza artificiale? Se
questo interrogativo permane, ci dobbiamo chiedere perché allora i processi si fanno solamente
quando attori sono gli uomini. Perché non si processano le macchine intelligenti o gli animali?
Perché dunque il processo giuridico ha solo gli uomini come attori?
Secondo Scheler anche gli animali sono stati processati e sono stati regolarmente condannati a
morte. Se però si considera più da vicino questi processi dove sono coinvolti agli animali, si scopre
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che si tratta di situazioni che si sono verificate sempre sul presupposto che gli animali erano
strutture umane nelle fattezze, si sono cioè processate le proiezioni proprie dell’uomo sugli animali
e solo per questo è stato possibile processare gli animali.
Né alcuna macchina intelligente è stata parte di un processo, né un animale può essere parte di un
processo.
Questo perché elemento essenziale del diritto è il momento di responsabilità e di
imputabilità del soggetto,
che sono radicate nella libertà ovvero nell’inspiegabilità tecnico
scientifica delle condotte dell’uomo. L’uomo entra in un palazzo di giustiziai perché le sue condotte
non hanno una spiegazione scientifica, ma sono l’esito di scelte libere: solo l’uomo è imputabile,
solo l’uomo è responsabile e questa responsabilità è legata alla libertà dell’uomo, ovvero alla
non spiegabilità tecno-scientifica della condotta dell’uomo. Le condotte a giudizio dell’uomo
sono la conseguenza di scelte libere dell’uomo, per questo non scientificamente spiegabili.
Continua
Scheler
dicendo che quando l’uomo si presenta con malattia che lo rende
completamente invisibile quanto alla la sua personalità, ovvero si trovi in una condizione che
oscura completamente la sua personalità allora non è più possibile emettere alcun giudizio
sull’uomo, si ha cioè una sorta di caduta dell’uomo fuori dall’esercizio della sua libertà, una
condizione patologica che rende anche l’uomo estraneo a qualsiasi presenza in ogni modalità
della vita del diritto.
Dunque il diritto appartiene esclusivamente agli uomini, in quanto gli uomini sono soggetti della
parola e perché la parola ha questo annuncio di una sua struttura polisensa. L’uomo è un soggetto
parlante, scrive delle parole, che non non sono dei numeri univoci, non si lasciano incontrare in una
un’unica maniera, ma manifestano questa condizione aperta che è propria della condizione di non
spiegabilità dell’uomo di essere una entità libera. Questa condizione fa sì che solo l’uomo, in
quanto soggetto parlante, è soggetto di un diritto che è una realtà storica: il diritto non è mai dato
una volta per sempre muta nella vita di un uomo una infinità di volte. Oggi più di prima le leggi che
sono istituite invecchiano rapidissimamente, non appena sono state prodotte perché la velocità e la
quantità degli elementi che investono una civiltà complessa come la civiltà contemporanea rende
immediatamente usurata e vecchia e estranea alla vita reale una norma che è stata istituita.
C’è dunque una presenza forte della storia nella vita del diritto, che oggi ha dei tempi sempre più
veloci e però anche in questi tempi più veloci della storia e della società complessa in un processo
di trasformazione veloce e mai anticipabile completamente, l’uomo è certo nella storia, l’uomo è
soggetto di storia e, però, non si identifica con nessuna delle fasi storiche. Il diritto istituito, le
norme prodotte invecchiano perché gli uomini non coincidono con le esigenze e con le
selezioni dei contenuti delle norme che sono state prodotte, ma sono già in un futuro che
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cominciano ad esistere come esigenza e richiesta di altra attività formativa, e dunque di altra
successiva attività di interpretazione; c’è una presenza nella dimensione della storia del diritto
di una non coincidenza dell’uomo con le contingenze storiche, così come l’uomo in quanto
soggetto parlante non coincide con il linguaggio che pronuncia ma sempre lo eccede (ogni
volta che esprime le parole è già oltre le espressioni che ha pronunciato) così l’uomo non coincide
neppure con le produzioni normative che volta per volta sono quelle vigenti. Oggi la società
complessa mostra come entità che la specifica questo stato di usurabilità sempre più crescente
che chiede un impegno maggiore al giurista nell’essere aperto ad intervenire e ad incidere con
quell’arte della ragione giuridica che non può essere sostituita con una tecnica del trattamento
delle norme.
Torna a questo riguardo la tesi centrale di Heidegger che afferma una descrizione che appare
essere fuori dal buon senso, ma che poi si mostra essere invece più autentica ed esistenzialmente
più rilevante del buon senso usato a buon mercato: si tratta della sua espressione verso la scienza
espressa nell’assunto “la scienza non pensa”; perché la scienza si risolve ed è possibile che sia
enunciata in formulazioni che hanno come loro modelli dei modelli numerici ed hanno una loro
verifica in una riproducibilità in laboratorio della scoperta scientifica. Ecco l’origine
dell’affermazione di Heidegger, perché il pensiero è un materiale che non si lascia trattare in nessun
laboratorio, non è riproducibile, ed è ciò che riguarda le condotte degli uomini, il senso esistenziale
delle relazioni giuridiche, è ciò che riguarda la formazione del decidersi nel convenire con altri
uomini nel dar vita ad una convenzione. In questo processo del formare questo patrimonio, che
risulta dal convergere delle soggettività non si ha nulla che possa essere riprodotto o trattabile in
laboratorio dove si danno i processi delle tecnoscienze. Si chiederà ancora una volta l’arte della
ragione, una ragione come arte e non come tecno scienza, si chiedere una ragione come arte perché
si chiede una interpretazione.
Un giurista civilista contemporaneo, Pietro Barcellona, dice che il problema dell’interpretazione è
definibile come l’insieme dei procedimenti attraverso cui l’interprete colma (il giurista come
artista della ragione) quel vuoto inevitabile fra diritto e realtà. Questo vuoto quando si afferma,
come accade tendenzialmente oggi in modo sempre più invasivo, quando si afferma una
spiegazione scientifica della libertà e dunque una spiegazione scientifica delle operazioni che
riguardano i molti sistemi sociali, questo vuoto tra diritto e realta è un vuoto che si ritiene di
cancellare, perché viene colmato dal procedere scientifico, si ritiene che questo vuoto si possa dare
ancora perché non si è compiuta la spiegazione scientifica della normatività, perché non si è
spiegata definitivamente la libertà, non ci si è liberati dal libero arbitrio e dunque si continua ancora
71
ad avere riferimento a questo spazio vuota fra il diritto e la realtà lo spazio dove sarebbe ancora in
gioco la libera soggettività degli uomini.
Una volta compiuto l’itinerario della spiegazione
scientifica, una volta resi omogenei gli uomini al resto del non umano, il vuoto tra il diritto e la
realtà è integralmente ormai cancellato e resta solo la fluidità del procedere delle tecno scienze che
trattano le norme. Quando questo avviene si ha che l’interpretazione allora diventa inessenziale,
perché l’interpretazione non è un processo necessario, e non è neanche un processo contingente
(ovvero tale da dover essere ambientato nell’occasionalità dell’affermarsi dei molti casi).
Tornando al nichilismo, l’interpretazione non ha nulla a che vedere con l’interpretazione che
nomina il nichilismo: non a nulla a che vedere con il caos della necessità, ovvero con questo
reciproco attraversarsi dei casi e delle cause, ma è un’opera originale che viene compiuta
nell’esercizio della responsabilità che si assume l’interprete nel colmare il vuoto inevitabile fra
l’astrattezza della norma e la concretezza esistenziale dei casi. Il processo dell’attività interpretativa
è un processo quando si compie è un processo che ripropone ciò che è proprio della struttura
dell’arte.
Si deve ricordare un’efficace analisi che Luigi Pareyson fa un’analisi dell’arte musicale:
l’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito musicale, ma è quella viva e
sonora dell’esecuzione, la quale per il suo carattere, necessariamente personale è un’arte
interpretativa,e dunque è sempre nuova, non è mai anticipabile, è molteplice. E’ l’interpretazione
musicale, con la partecipazione libera ed originale dell’interprete, che riaccende le note dello
sparito musicale che altrimenti sarebbe in sé muto e morto.
Ma questo è quello che in modo analogo succede nella vita del diritto: le norme che si possono
leggere in un codice, in un testo, non sono il diritto ma sono, come lo spartito, una entità morta,
priva della vita della giuridicità. La vita sarà immessa nella concretezza delle relazioni giuridiche
dall’attività interpretativa, che apparterrà certo alla dottrina e al pensiero giuridico, ma apparterrà
però in modo essenziale al terzo giudice, che dovrà colmare questo vuoto fra l’astrattezza della
norma e la concretezza esistenziale del caso, e lo dovrà colmare con la sua attività di interpretazione
che è analoga a quella dell’esecutore dello spartito di un morto foglio di un testo musicale. Ma in
quest’opera il giurista restituisce vita al diritto attraverso ciò che è proprio dell’interpretazione e
cioè attraverso un riattivarsi dell’arte dell’ermeneutica, che è l’arte di un soggetto che incontra un
altro soggetto: nella vita del diritto è l’arte di quel soggetto, che è il terzo giudice, che incontra un
altro soggetto – che è il legislatore – ma che incontra essenzialmente altri soggetti nell’aula di
giustizia, ed in particolare gli attori del processo. Quella controversia giuridica non sarà mai
riproducibile in nessun laboratorio nell’attività delle tecno scienze.
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Quindi l’attività interpretativa ha i tratti dell’arte perché appartiene ad un soggetto che incontra un
altro soggetto; appartiene al terzo giudice che nella sua soggettività, certo fedele al testo, ma libera e
creativa nell’interpretazione, dovrà incontrare l’originalità del singolo, di quell’unico che gli si
presenta con quel volto, con la sua storia, in quella specifica controversia giuridica. Sarà solo
quella interpretazione non riproducibile in nessun laboratorio delle tecno scienze. Quando l’attività
dell’interpretazione si viene spegnendo pensando che possa essere sostituita dai processi propri del
funzionario delle norme prima e poi dai sistemi informatici dopo, si finisce per costruire un esito
dove all’ascolto dell’altro si sostituisce l’intendere l’altro.
Al riguardo si richiama un’interpretazione di un testo di Nancy, che afferma che tra l’ascolto e
l’intendere vi è un’opposizione radicale e che l’ascolto ha a che fare con il rispetto del diritto
dell’altro mentre l’intendere ha a che fare con il calcolare e l’usare l’altro. In particolare il filosofo
scrive in questo modo: “Si ascolta sempre solo il non codificato (solo quando il giudice incontra
l’altro, la soggettività mai codificabile dell’altro in una relazione tra soggetti di un possibile poter
essere e non tra elementi di un funzionamento già dato da programmi macchinali o secondo
memorie di tipo biologico), ciò che non è ancora inquadrato in un sistema di rinvii significativi,
mentre s’intende solo il già codificato”. Si ascolta il diritto dell’uomo, si intendono le norme
dei sistemi giuridici.
Il terzo altro del giudizio tratta ed interpreta il singolo caso che, nella sua non precalcolabile originalità,
esige l’ascoltare (filosofia del diritto) oltre l’intendere (teoria generale del diritto).
Fuori della pienezza dell’opera ermeneutica, il modello di una interpretazione costruita seguendo il
linguaggio tecno-scientifico è quello che si consuma nella cosiddetta interpretazione letterale ovvero
strutturalmente omogenea alla dimensione numerica; qui l’interprete non è sospeso nel rischio della
condizione rinviante della parola, che invece chiede sempre l’arte del giurista, segnalando l’insufficienza
dell’ingegnerizzazione del diritto mediante qualche prodotto dell’intelligenza artificiale, strutturalmente
chiusa alla dimensione disnumerica dell’unità esistenziale del parlante dove il pathos ed il logos si
coappartengono nel nomos.
Il tecnico delle norme opera nel registro del numero che dice solo quel che dice (le norme); il giurista
rischia la parola e dice oltre quel che dice, si apre al silenzio creativo proprio del non detto (il diritto). Il
giurista è artista della ragione perché la sua opera eccede l’intendere=calcolare la realtà oggettivabile e
consiste invece nell’ascoltare l’originalità della singola, concreta controversia tra i parlanti, non
anticipabile in alcuna codificazione
Ogni modalità dell’ascoltare l’altro muove dall’unità del pathos e del logos, nel conferire lue al nomos.
Quando emergono problemi di interpretazione. L’arte del giurista è insostituibile, è la dimensione dell’arte
configurata nel nesso che lega la parola ed il silenzio, il detto (norma) ed il non detto (diritto), il sapere
saputo (conscio) ed il sapere che non si sa (inconscio), dimensioni che si originano tutte dall’attraversarsi
del pathos (apertura affettiva all’alterità) e del logos (comunicazione logico-relazionale).
L’opera dell’interprete disvela la sua struttura nella prospettiva del pathos che illumina il logos nella vita
del nomos. La formazione del giurista non può compiersi nella rimozione degli sunti umanistici.
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Lezione 17: Giusto/non giusto. Legale/non legale. La regola e la procedura
Nei soggetti di un linguaggio che è discorso, il regolato e le regole, il procedere e le procedure non
coincidono; permangono in una scissione che ha il suo polo più iniziale nel giusto/non giusto
(Filosofia del diritto), principio regolativo dell’istituire i contenuti storici del polo legale/non
legale (Teoria del diritto). Una analisi fenomenologica mostra che il ‘legale’ può essere istituito
solo muovendo da una visione argomentata del ‘giusto’, come è confermato dalla descrizione del
nascere di un nuovo ordinamento giuridico, che comincia dal ‘nulla del legale’ e dall’‘essere del
giusto’.
In questa tesi il tema torna ad essere quello della peculiarità del soggetto di diritto, che è tale perché
è soggetto dotato di un linguaggio che è discorso. Il diritto si ha soltanto in presenza di un uomo
che esercita la propria soggettività. Negli altri enti non umani non c’è il diritto e non c’è nulla che
possa essere riferito ad un linguaggio che abbia i tratti della discorsività. Il discorso è
comunicazione, il dire di qualcuno con qualcun altro. La discorsività è questa dimensione propria di
un ordine triale: ordine che si svolge tra un soggetto che parla, un altro soggetto che riceve la
parola, la elabora, la interpreta e la ridestina; dunque in una intersoggettività che però si compie in
un ordine triale, perché questi soggetti si incontrano in uno spazio terzo che non è di nessuno dei
due, uno spazio terzo dove avviene di continuo l’ascoltare reciproco che è la creazione di senso,
creazione di senso che insieme all’interpretazione non è univoca ma molteplice e che può creare
controversie. Le controversie generano il fenomeno diritto, che non identifica solo la distinzione tra
ciò che è legale e ciò che non è legale, e che dunque potrebbe confinato nella conoscenza del
contenuto della legalità, ma questo possibile modo di confinare l’esperienza del diritto non ha una
ragione sufficiente perché nell’uomo i poli legale e non legale sono successivi ad un codice che è
prioritario, ovvero il giusto e il non giusto.
Questo è un momento essenziale della vita del diritto ed è essenziale della formazione del giurista
(legislatore, giudice o polizia che sia), perché nessun ordinamento giuridico nel suo nascere
(esemplificando in una condizione rivoluzionaria, nel prendere vita un nuovo ordinamento
giuridico) ci si trova nel legale o non legale, ma bensì nel giusto-non giusto; solo dopo
l’opposizione giusto-non giusto viene l’opposizione tra il legale e in non legale.
In tutti i processi non si è mai già nel legale-non legale, ma si parte sempre dagli interrogativi sul
giusto-non giusto, si selezionano i contenuti chiedendosi se sono giusti-non giusti. Solo dopo
questa selezione è possibile trattare con critica ampiezza ciò che appartiene al legale e al non legale.
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La preminenza del giusto non giusto rispetto al legale non legale torna ad essere continuamente
ripreso perché solo partendo dai contenuti che possono assumere i due poli originari è possibile
trattare il legale ed il non legale.
Questo momento essenziale torna ad essere continuamente ripreso, non finisce con la istituzione
della norma, del legale-non legale.
Con il continuo confermarsi della scienza e della tecnica, il rischio è quello di uno scivolamento
dalle parole verso i numeri. Questo non comporta in alcun modo una rinuncia alla dimensione né
della tecnica, né della scienza, né del progresso; queste dimensioni sono irrinunciabili nella
condizione attuale dell’umanità, se l’umanità dovesse rinunciare a tali dimensioni consegnerebbe se
stessa ad una rapida estinzione, ma non si deve però anche rinunciare ad una coscienza critica;
la parola non deve essere sostituita dal numero. Se si ritiene che la parola possa essere sostituita
dal numero si comincia tendenzialmente ad essere convinti che sia inessenziale l’esercizio della
creazione di senso da parte dell’uomo, e ciò porta a ritenere che non è più l’uomo il soggetto del
linguaggio, ma è la combinatoria dei messaggi numerici e il comporsi dei molti dati che nella
loro commistione finiscono per parlare nell’uomo; l’uomo presterebbe soltanto uno spazio
affinché la combinazione dei dati, dei numeri e delle informazioni possa trovare una espressione.
Questo itinerario è proprio del nichilismo, specie nell’interpretazione che alcuni studiosi danno
sulla tesi del linguaggio di Hidergger, che sosterrebbe che non è tanto l’uomo ad essere il soggetto
del linguaggio, ma sarebbe il linguaggio a usare l’uomo e a trovarvi uno spazio affinché il
linguaggio stesso possa esternarsi e trovare poi una concretizzazione nelle relazioni umane nelle
istituzioni giuridiche. Quando però si pensa questo si avvia quel cammino che porta alla
realizzazione della profezia di Nietzsche, cioè la profezia del nichilismo in generale e anche del
nichilismo giuridico, ovvero il compiersi dell’assoluta omogeneità in tutto ciò che avviene,
segna l’assoluta omogeneità tra quello che avviene tra le cose, nei sistemi biologici e dunque anche
tra quello che avviene nell’uomo. Verrebbe a cadere la differenza tra il diritto istituito e le leggi
trovate della natura o della scienza che sono leggi trovate e non istituite. Questa omogeneità,
questo Nichilsmo come nientificazione della differenza tra umano e non umano, non convince e
viene messo in crisi proprio dal filosofo del diritto che compie un lavoro fenomenologico: la tesi di
Nietzsche che prepara il nichilismo giuridico, viene messa in crisi dal filosofo del diritto che
nell’esercitare uno sguardo fenomenologico evidenzia come soltanto negli uomini il regolato e le
regole, il procedere e le procedure non coincidono, ma rimangono separati. C’è questa
dimensione centrale nella vita del diritto che è la dimensione procedurale, che è tale perché le
procedure sono istituite, non sono trovate. Le operazioni di una reazione chimica, ad es. sono
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operazioni delle fasi di un procedere che non hanno mai distinte e separate procedure e il procedere
coincide con la procedura.
Nell’uomo invece il procedere delle relazioni, della stessa vita delle istituzioni, esige di continuo
che siano istituite delle procedure, delle modalità che sono essenziali affinché l’ordinamento
giuridico possa trovare la sua concretizzazione nel momento del giudizio emesso dal terzo
giudice e poi reso certo dal terzo polizia.
Dunque nell’uomo c’è questa scissione tra il procedere e le procedure, che è analoga a quella che
c’è tra il regolato e le regole.
Tutto quello che non è umano è dato dalla coincidenza tra il regolato e le regole. Nella vita di
qualsiasi esistente non umano non c’è un vuoto, uno iato tra la regola ed il regolato, così come non
c’è nessuna scissione tra le procedure e il procedere.
Nell’uomo compare questa condizione di scissione lascia presentarsi un momento di vuoto, quello
spazio dove si presenta la responsabilità del soggetto di diritto, che è tale perché nella sua vita la
regola con coincide con il regolato. Potrà sempre essere libero di violare una regola, diversamente
da quanto accade nell’intelligenza artificiale o nel mondo animale.
L’analisi fenomenologica coglie tutto ciò mostrando il momento centrale che viene esercitato dalla
dimensione del silenzio: infatti, nel linguaggio del diritto quale linguaggio che è discorso, gli
uomini in questo darsi della discorsività intersoggettiva un ruolo fondamentale viene esercitato dalla
dimensione del silenzio, che non è un nulla, non è il darsi di cuna condizione che è una assenza
assoluta, ma è sempre la dimensione tra una fase di una discorsività ed una fase successiva. E’ il
silenzio che si dà nel comunicare con l’altro che ha una funzione preparatoria (attraverso
l’interpretazione che ogni se stesso da del suo esistere) alla scelta ed alla decisione. Questo
silenzio mette sempre l’uomo davanti a questa inevitabilità dello scegliersi, che è uno scegliere per
se stesso. Dunque nella discorsività la dimensione del silenzio lascia presentarsi lo spazio di una
preparazione da parte dell’individuo alle relazioni giuridiche con gli altri, al formarsi della propria
identità e al rispetto dell’identità degli altri con i quali condivide un mondo. E’ un silenzio
preparatorio del per se stesso, non è semplicemente un silenzio preparatorio di qualche operazione
per qualche cosa. Il silenzio è questo spazio creativo dove la libertà si trova a rischiare la sua
responsabilità.
In modo efficace questo modo di intendere la libertà viene descritto dal filosofo italiano
scomparso da poco Cornelio Fabro (che ha tradotto Kirkegaard direttamente dal danese facendolo
conoscere in Europa): la libertà è quel certo principio mediante il quale possono avvenire certe
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cose che altrimenti non sarebbero accadute. Oppure possono non avvenire certe cose che
altrimenti sarebbero avvenute. Dunque la libertà è il sì o il no che viene detto tenendo sempre
presente però il legame profondo che connette il logos (ovvero il discorso, l’esercizio stesso della
libertà) con il nomos (ovvero la regola, la giuridicità della relazione comunicativa).
E’ essenziale quindi tornare, quando si nomina il diritto, alla soggettività dell’uomo e ricordare con
Jasper che l’essere nel senso dell’essere oggetto e l’essere nel senso dell’essere libero si
escludono, si oppongono, perché l’esercizio della libertà non si lascia mai situare in nessuna
contabilità oggettiva, in nessuna forma di tipo oggettivante che possa essere trattata dalle tecno
scienze.
Proprio perché la libertà ha questa dimensione originale non spiegabile, la libertà ha il contenuto, la
struttura della responsabilità. La responsabilità è tale se è la libertà che si concretizza permanendo
libera e non condizionata, avendo la possibilità di dire si o no ad una ragione, dunque una libertà
non arbitraria ma esercitata secondo la ragione giuridica.
L’esercizio della libertà non si lascia mai oggettivare, ha una dimensione originale; la libertà ha
la struttura della responsabilità. Non una libertà senza legge; una libertà senza condizionamenti ma
avere la possibilità di dire sì o no ad una ragione, non una libertà arbitraria. Una ragione giuridica.
Una libertà esercitata con violenza verso gli altri sarebbe la negazione stessa della libertà. Perché
per essere tale deve essere continuamente alimentata dall’ascolto degli altri, altrimenti si perderebbe
nella libertà di Narciso; una libertà di chi si specchia in una immagine che è metaforicamente lo
specchio dell’acqua dove viene restituito il volto, ovvero non un confrontarsi con gli altri, non
ascoltare gli altri. Una libertà vera ha il rispetto del confronto con gli altri.
Il diritto non è un semplice self service normativo (Legendre) perché se così fosse il diritto non
avrebbe più a che fare con la priorità del giusto – non giusto, prioritari al polo del legale – non
legale, sarebbe un diritto asservito alla legge del vincente. Comporterebbe la rimozione delle
domande sul giusto e quindi della stessa responsabilità. Se si dà soltanto il darsi fattuale, il
vincere funzionale, la responsabilità non ha più ragione. Se gli eventi accadono per regole di
natura, all’uomo non rimane che osservare gli accadimenti del più forte, e quindi non avrebbe più
senso la propria responsabilità.
Ma in uno dei suoi ultimi scritti (Forza di legge) Derrida dice invece che il concetto di
responsabilità è inseparabile da tutta una griglia di concetti connessi alla vita reale del diritto;
è connesso ai concetti di proprietà, di intenzionalità, di volontà che costituiscono la vita reale
del giuridico. Scrive Derrida: nell’esercizio del diritto opera un lessico della responsabilità di
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cui si dirà che non corrisponde ad alcun concetto, ma che oscilla senza rigore attorno ad un
concetto introvabile.
In questa direzione si comprende che il diritto non può considerarsi solo un self-service normativo,
un insieme di strumenti a disposizione di chi in quel momento a successo, perché se questo dovesse
accadere si avrebbe una situazione di nichilismo giuridico perfetto annunciato da Nietzsche:
quando egli, come ricorda Derrida, sostiene che tutto ha un prezzo, ogni cosa può essere comprata,
non c’è nulla che sia senza un prezzo senza una possibile quantificazione; anche la libertà
dell’uomo sarebbe una merce, e in sé diventa un nulla. Qui allora il diritto diventa nient’altro che
una sorta di self service normativo. Allora, come ha detto recentemente il civilista italiano De
Benedetto, se si dimentica questo riferimento centrale alla non disponibilità del diritto, alla priorità
della coppia giusto-non giusto, allora accade che il diritto si perde e si nientifica nelle leggi
spicciole e in sostanza si risolvono in atti di amministrazione.
Seguendo questa direzione, il diritto risponderebbe allora ad una c.d. “volontà legislatrice”, come
scrive Schlerer, e quindi non avrebbe nessun’altra misura che la potenza della volontà legislatrice:
gli ordinamenti giuridici positivi, le norme vigenti non avrebbero nessun’altra misura se non
l’assolutezza, il potere, la forza della volontà legislatrice. Ma in tal caso, cadrebbe allora anche la
distinzione che si è detta essere centrale per una lettura fenomenologica della vita del diritto, ovvero
la distinzione della priorità dei poli giusto-non giusto che consentono poi di selezionare i contenuti
che sono fatti appartenere invece ai poli del legale-non legale.
A chiusura di questa tesi, si può dire che ogni volta che nasce un nuovo ordinamento,
esemplarmente che nasce un processo rivoluzionario, non si è già con un legale – non legale
presenti che si trovano e che l’uomo prende come self service normativo; l’uomo ha soltanto,
iniziando una nuova fase della storia del diritto, un nuovo ordinamento giuridico, ha soltanto
le domande prioritarie che attengono alla differenziazione tra il giusto e non giusto, che
dunque attengono alla qualità delle relazione, principalmente all’affermare la qualità della
relazione dove c’è un reciproco rispetto ovvero c’è una violenza unidirezionale e dunque
contro giuridica.
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Lezione 18: Verità e giustizia nella relazione. Narcisismo del singolo e amore per l'altro
La qualità - positivamente la giustizia - delle relazioni con gli altri è la verità della coesistenza; è
la verità accessibile alla finitudine degli uomini, i soggetti parlanti. Circolarmente, il
giusto(nomos) è il reale contenuto del relazionarsi nel vero ed il vero(logos) ha la sua realtà
coesistenziale nel ‘giusto’, misura non formale del ‘legale’. Non si discute nulla quanto alle
interpretazioni della verità permanendo chiusi nella legge narcisistica del singolo, vissuta come
quella presunta autosufficienza dell’io che è la negazione della verità=qualità del coesistere nel
rispetto dell’altro, del diritto universale degli uomini in quanto uomini; analogamente non ci si
apre alle domande sull’amore dell’altro muovendo dalla chiusura nell’amore di sé, assunto quale
regola ‘misurante, non misurata’.
Nella descrizione fenomenologica del diritto, che mira ad individuare che cos’è che specifica questo
fenomeno da altri fenomeni, un passaggio non evitabile è quello del confronto tra fenomeno del
diritto e fenomeno dell’amore. Questi due fenomeni hanno alcuni elementi comuni ed altri che sono
in netta opposizione.
Il riferimento all’amore viene fatto con attenzione soprattutto agli scritti di Kirkegaard (da “Gli atti
dell’amore”, una delle opere di maggiore intensità filosofica nel discutere il fenomeno dell’amore).
La comparazione fenomenologica fra diritto e amore viene alimentata dal considerare che non
appena si nomina il fenomeno del diritto (vedi 17^ tesi) diviene inevitabile prendere atto che
accanto al legale e al non legale, si apre la questione fondamentale del giusto – non giusto; e questo
porta a comprendere che non appena si nomina la giustizia viene inevitabile il riferimento alla
questione della verità. Non è possibile argomentare nulla sulla giustizia senza discutere sulla
questione della verità.
E dunque i due momenti del giusto e del vero, sono l’uno coessenziale all’altro. Ma proprio
nell’argomentare questa coessenzialità della giustizia e della verità il passaggio iniziale viene ora in
questa esposizione dal confrontare l’amore con il diritto.
Quanto all’amore Kierkergaard, muove dalla seguente un’affermazione provocatoria: “Il
beone non ama l’alcool e l’avaro non ama il danaro, ma entrambi ne dipendono”. Dunque la qualità
del rapporto di colui che è vittima dell’alcool o di colui che è vittima di una eccessiva dipendenza
dal quantum del denaro, è una condizione che ha poco a che fare con la libertà. Anzi è una
condizione in cui la libertà lascia il passo allo stato dell’assoggettamento. Si è assoggettati e dunque
non vi è soggettività. Un ulteriore passo deriva dall’affermazione che l’amore consiste nel donare,
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nella struttura donativa. Nella qualità della relazione amorosa emerge come sia essenziale non
tanto il che cosa della verità ma il come della verità; nelle relazioni intersoggettive l’incontro tra
i soggetti diventa rilevante, ha una pregnanza esistenzialmente consistente, se la relazione consiste
in una relazione dove la verità è messa in gioco nella dimensione del come si comunica la verità e
non soltanto di che cosa si comunica, perché nel come si entra in relazione con le attese esistenziali
dell’altro. Nel come si situa la verità in un discorso, ci si avvicina all’altro rispettandolo, mostrando
indifferenza, essendo semplicemente nell’ordine di un calcolo ovvero essendo integralmente
nell’ordine dell’affettività.
Questo viene detto da Kierkergaard, perché non appena si vuol fare questa comparazione tra il
diritto e l’amore, l’attenzione viene a posarsi in una contraddizione apparente propria
dell’affermazione cristiana e cioè che l’amore è un dovere. Questa affermazione sembra
apparentemente essere una contraddizione perché non appena si pensa all’amore si pensa ad una
relazione assolutamente libera, in quanto donativa e gratuita, mentre il dovere viene ad evocare
invece dei limiti, dei legacci, dei confini che finiscono per situare definendola e dunque
mortificandola la libertà.
Questa contraddizione tra libertà e la legge è una contraddizione
apparente, perché l’idea di una libertà assoluta è una contraddizione in se stessa; infatti spesso si
pensa che la libertà esiste e che poi è la legge a negare la libertà, ma in realtà è proprio l’inverso:
senza la legge non c’è libertà. E’ la legge che dà la libertà perché la libertà non consiste
nell’arbitrarietà, in una condizione dove nella possibilità tutto è possibile anche lo stesso
spegnersi della libertà, anche lo stesso offendere ed umiliare la libertà.
Per chiarire che la libertà e la legge non si oppongono, e che nello stesso amore la libertà non
consiste nell’arbitrarietà, nel volgersi con una improvvisazione mai prevedibile all’altro,
Kierkergaard fa rinvio al concetto di disperazione: “La disperazione consiste nel rapportarsi con
passione infinita a qualcosa di particolare”. Nel rapportarsi con una passione infinita a qualcosa
di particolarmente definito l’esito è la disperazione. Rapportarsi con una passione a qualcosa di
particolare presuppone una libertà che è infinita, che non deve assumere degli orientamenti e
delle leggi. Presumendo questo stato di infinito la libertà diventa negativa; nel rapportarsi in
modo infinito a qualcosa di finito l’uomo avvertirà la condizione profonda del se stesso di
essere disperato, ovvero di essere avvolto da questa sofferenza profonda del se stesso. Questo
perché rapportarsi in modo infinito a qualcosa di particolare (per esempio, ad un bene del mercato, a
ciò che è posto nella trama del commercio oggi divenuto globale) significa trasmutare se stessi in
uno dei tanti elementi che sono veicolati da questi canali del commercio globale e dunque significa
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trasmutarsi così per arrivare ad avvertire quello stato di disagio profondo che è la disperazione,
ovvero lo stato di non speranza.
Ma questo stato di disperazione mostra che la libertà non si dà in un rapportarsi senza regole ad un
qualche cosa che viene perseguito, ma la libertà si dà nella sua pienezza se assume delle leggi nel
rapportarsi a quel che viene incontrato: se si comprende questo la riflessione sul concetto di
disperazione torna a far vedere come sia la libertà sia la disperazione (in quanto uno degli eventi
della libertà) non possano avere una qualche spiegazione scientifica; lo stato di disagio dell’io
profondo non può essere trattato dal tecnico delle norme e chiede invece che si torni ad avere
attenzione a questa differenza tra il giurista uomo e il giurista dal funzionario delle norme, soltanto
l’uomo giurista sarà in grado di compiere l’arte della ragione giuridica, di cogliere la distinzione
profonda nel rapportarsi a dei beni terreni e nel rapportarsi a dei beni dello spirito.
Solo il giurista quale artista della ragione giuridica può cogliere la differenza profonda tra il
rapportarsi a dei beni terreni ed a dei beni dello spirito immateriali. Su questo il tecnico delle
norme non ha nulla da dire.
Al riguardo Kierkergaard dice: “I beni terreni sono una realtà in senso esteriore e perciò si
possono possedere come se non si possedessero”. L’uomo può avere la proprietà, la disponibilità,
può possedere i beni materiali ma con una totale indifferenza, come se non lo coinvolgessero
esistenzialmente, senza essere chiamati a dire nulla di se stessi; possono essere posseduti come se
non si possedessero.
Mentre invece i beni dello spirito consistono in un peculiare modo di
rapportarsi a questi beni, che è tale perché i beni dello spirito sono posseduti soltanto se sono
realmente posseduti, ovvero non con indifferenza, ma con una partecipazione che coinvolge il se
stesso, lo scegliersi della libertà del singolo, la formulazione dei suoi orientamenti, dei suoi progetti,
condivisi nelle relazioni anche di tipo giuridico con gli altri.
Quando si dice questo si dice che non è possibile trattare la relazione che l’uomo ha con le cose
come le relazioni che ha con gli altri uomini: non si può avere una relazione giuridica (che è
sempre una relazione con gli altri uomini) con gli altri come se si avesse una relazione con
qualche cosa che ha nessuno dei tratti della soggettività discorsiva specifica dell’uomo. La
relazione giuridica è sempre tra gli uomini, quando vi è un rapporto con le cose è una relazione che
ha qualche rilievo giuridico soltanto perché ha un rilievo nella qualità delle relazioni con altri
soggetti (il possedere una cosa ha rilievo giuridico solo perché ha effetti che incidono nella qualità
della mia relazione con gli altri).
Questo perché in modo centrale il tema dell’uguaglianza implica soltanto prioritariamente il
rapporto tra l’uomo e gli altri uomini e solo secondariamente poi si riverbera sui rapporti che ogni
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singolo uomo ha con i beni in commercio, con il comprare e consumare gli oggetti, con il mercato.
Ma prioritariamente l’uguaglianza attiene soltanto alla relazione tra un soggetto parlante e un altro
soggetto parlante e l’uguaglianza è uno degli elementi che sono propri della relazione che si
modella nel medio dei beni dello spirito.
Così con ironia Kierkergaard scrive: l’aristocratico certo comprende bene l’uguaglianza tra gli
uomini, ma solo dopo aver stabilito la distanza aristocratica della sua superiorità nei confronti degli
altri. Afferma degli enunciati sull’uguaglianza a partire dalla sua disuguaglianza con gli altri non
aristocratici. Non stabilirà con gli altri quel rapporto che è proprio tra entità spirituali ma
affermando solo formalmente l’uguaglianza stabilirà con gli altri lo stesso tipo di rapporto che si
stabilisce con le cose (l’aristocratico è una figura omnicomprensiva che fa riferimento in generale a
chi ha un potere maggiore, chi è in grado di esercitare una potenza più forte). L’aristocratico
affermerà solo formalmente l’uguaglianza, praticando nel concreto l’assoggettamento degli altri,
che è il tipico rapporto con le cose che si posseggono come se non si possedessero. Usa un concetto
di uguaglianza ipocrita, che è proprio di una finzione (non si sarà mai aperti agli altri), perché
utilizzerà un concetto di uguaglianza che è propria della disuguaglianza e farà questo cercando di
dimenticare che la differenza,e quindi la disuguaglianza, consiste soltanto in mantelli, abiti che si
indossano ma così strettamente sino al punto da nascondere che le differenze sono nient’altro che
mantelli (qualcosa posto sul corpo dell’uomo, non qualcosa di intrinseco all’uomo) perché poi, al di
là dei mantelli, brilla invece la luce interiore dell’uguaglianza umana, che però nella storia riesce
raramente a penetrare.
Così si chiede sempre (e questo è il compito principale del principio di uguaglianza), così come
appartiene anche alla filosofia del diritto, di ricordare incessantemente che ogni momento della
diversità è soltanto un semplice vestito, è soltanto un mantello, è qualcosa di posticcio, di
solamente fattuale, è ciò che dunque contraddice nel profondo al diritto. Al di là dei mantelli brilla
la luce interiore dell’uguaglianza umana, che però fatica ad essere visto. Il servirsi degli strumenti
della legalità per conservare la disuguaglianza e non per affermare l’uguaglianza servendosi dei
mantelli comporta la negazione stessa del diritto. Il diritto al di la di questo fatto ha la sua struttura
di essere in una dimensione controfattuale , è volto a superare la attualità, la contingenza, le velature
esteriori. Questa riflessione sull’uguaglianza così come viene affermato dal diritto, tornano a far
pensare al rapporto tra diritto ed amore.
Il diritto e l’amore hanno dei tratti in comune e dei tratti che sono in opposizione (Von Hildebrand,
Essenza dell’amore). Certamente tra i tra i tratti che sono in opposizione: noi non possiamo darci
l’amore anche se lo vogliamo, cioé l’amore non si può istituire, l’amore c’è se si manifesta nella
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gratuità della relazione, questo vale al di là del dovere di amare ogni uomo in quanto uomo, vale in
nell’amore non come dovere ma come predilezione. Nell’amore come predilezione non si può
istituire l’amore, l’amore non può essere preteso. Qui si coglie l’elemento di opposizione con il
diritto, infatti nel diritto è invece possibile pretendere i contenuti della relazione giuridica che
sono stati convenuti.
C’è però poi anche un momento di analogia, di forte connessione: nella relazione amorosa non
appena qualcuno entra in un rapporto amoroso con l’altro finisce per lasciare la condizione di piena
arbitrarietà (quando si ama realmente qualcuno l’arbitrarietà cessa, viene ad essere confinata),
perché in ogni gesto di amore predilezione (amore selettivo) compare subito inevitabilmente la
promessa di una durata immanente alla relazione d’amore quale momento essenziale, ovvero un
limite all’arbitrarietà, una relazione che non si pensa poterla spegnere. Questo momento della
durata rende vicino l’amore con il diritto. Certo la differenza resta: anche il diritto conferisce
durata alla relazione, ma consente poi che la durata possa essere pretesa, mentre nell’amore
non si può pretendere nulla. E qui compare la distinzione principale (vedi Luhmann) tra le
aspettative cognitive e le aspettative normative. Le aspettative cognitive sono proprie della
relazione d’amore, che certo nel suo sorgere ha questo momento della durata, ma poi è lasciata
questa relazione allo stare a vedere – che ne è dell’intensità della relazione - al conoscere che ne è
della durata dell’amore (in questo sta l’aspettativa cognitiva, non c’è una garanzia che possa essere
pretesa).
Tutt’altro si ha nella aspettativa normativa, qui non si sta semplicemente a vedere, non si è
abbandonati a ciò che ne sarà della relazione (non si sta ad attendere se la relazione si intensifica o
si affievolisce). Nell’aspettativa normativa si passa dal piano dell’affettività e dell’amore al piano
della giuridicità e delle norme istituite: il singolo è liberato dallo stare a vedere da questa
angoscia del costante vedersi sorpreso dagli accadimenti, ma ha la certezza garantita dal
diritto che ciò che è stato posto in essere nella relazione tra i due soggetti di diritto secondo le
forme e la sostanza della giuridicità avrà concretizzazione. E qualora una delle parti non volesse
dare concretezza a quanto è stato posto insieme in un libero convenire, il soggetto che ha questa
delusione potrà pretendere controfattualmente l’intervento del terzo giudice che restauri il contenuto
della relazione e l’intervento del terzo polizia che concretizzi la relazione prestabilita.
La pretesa è esclusiva della giuridicità, che non appartiene all’amore ma che non appartiene
neanche alla relazione economica, dove non si può pretendere l’esecuzione contro fattuale, perché
se la relazione resta nell’ambito dell’economia e non c’è l’intervento essenziale della giuridicità e
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delle tre figure della terzietà giuridica sino all’intervento del terzo polizia, non ci sarà nessuna reale
concretizzazione, si sarà ancora una volta lasciati allo spazio delle aspettative cognitive.
L’analisi della differenza dei fenomeni dell’amore e del diritto porta a riprendere un passo di
“Essere e tempo” dove Heidegger riprende Scheler e gli riconosce di aver diretto la sua attenzione
sulle connessioni che da una parte legano e dall’altra distinguono gli atti rappresentativi e gli atti
interessativi. Questo riferimento è fatto perché il diritto vive di questa connessione: gli atti
rappresentativi sono quegli atti che consistono nella formulazione logica di una enunciazione
normativa, possono essere ritenuti propri della rappresentazione che si da della teoria generale del
diritto (nei quali il logos è scisso dal pathos); gli atti interessativi aprono uno spazio che è
essenziale e che considera la centralità della dimensione del pathos. Mentre negli atti
rappresentativi si ha una costruzione logico – formale senza alcuna partecipazione affettiva, negli
atti interessativi si ha invece l’aprirsi di uno spazio dove ognuno avverte che ne và del se stesso,
dell’io e del se stesso dell’altro, che è sempre in gioco questa soggettività, che vi è l’avvertire che vi
è una relazione che si schiude con questa dimensione che è l’apertura affettiva.
Qualora si dovesse pensare che si possa incontrare il diritto nella sola dimensione logicoconcettuale degli atti rappresentativi si dovrebbe concludere che si potrebbe incontrare il diritto
nella dimensione tecnica che è propria oggi delle scienze del reale, e dunque che il diritto sia
trattato da un funzionario delle norme che svolga questa funzione di dare corso a ciò che può essere
sistemato nell’ambito giuridico in modo formale rispondente alla logica che costruisce una sorta di
pulizia concettuale. Qui non c’è alcun interesse alla dimensione interessativa, degli atti
interessativi , dove quando si nomina il diritto si mette in gioco non qualcosa, ma in gioco c’è
qualcuno. Questo vuol dire che ne va di quel se stesso, ma questo, degli atti interessativi, è un
itinerario che si apre la dimensione della percezione affettiva, dove ci si avvede che nominando il
diritto si nomina la verità. Si tratta di una particolare qualificazione della verità, cioè la verità che
è accessibile alla condizione finita dell’uomo; quando si nomina il diritto si nomina la verità
intesa come la qualità della relazione tra i soggetti parlanti, verità che consiste che si
concretizza nella qualità del relazionarsi degli uomini. Si nomina una verità non scientifica.
Dunque il giusto sollecita subito l’attenzione al vero ed il vero sollecita l’attenzione a che la
realizzazione di ciò che è vero si ha nella qualità con cui ci si rivolge agli altri, che ha il suo
modello, non secondario, nella relazione giuridica disciplinata dalla terzietà del diritto. Terzietà che
garantisce una condizione di non sproporzione tra i soggetti, una uguaglianza non quantificabile in
qualche cosa che può essere comprato, ma in qualche cosa che è senza prezzo; l’uguaglianza della
dignità dell’uomo.
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Scheler e Lacan distinguono tra appetire qualcosa e impegnarsi per un valore. L’appetire si orienta verso una entità
che è capace di saziarlo e che, una volta compiuta questa funzione, non costituisce più un tema in grado di attivare la
loro soggettività, anzi li annoia. Il valore invece è apprezzato in quanto tale e non perché può essere usato per
spegnere una attesa consumatoria. Il diritto viene istituito perché consiste in un valore che non si limita a saziare la
momentaneità di un appetire, ma dura nell’orientare l’esercizio della soggettività e nel disciplinare quegli effetti del
coesistere che incidono nella qualità delle relazioni intersoggetive. Il diritto conferisce alla relazione una formatività
nella durata.
Nel descrivere l’opera del terzo altro si prende atto che tra sapere e decidere c’è un salto che si impone come
necessario, anche se prima di prendere la decisione è opportuno sapere quanto più e meglio possibile. Il termine salto
nomina il darsi dello spazio aperto dell’arte del giurista, che colma il vuoto tra generalità/astrattezza delle norme e la
singolarità/concretezza del caso da trattare. Non c’è salto nelle fasi di svolgimento della tecnica impiegata dal
funzionario delle norme, che si limita ad eseguire il flusso delle fasi sistemico-fattuali.
Nietzsche sostiene che la giustizia diviene la giustificazione, a posteriori, della forza di chi ha vinto perché più forte.
Il giudizio giuridico non sarebbe terzo imparziale, ma enuncerebbe la attualità di una parte vincente senza perché e
senza scopi. Segue che la decisione delle controversie sarebbe un evento de soggettivato, innocente, del nichilismo
giuridico perfetto, che utilizza la forma informe di una legalità contenitore usabile per qualsivoglia contenuto delle
norme.
Quando il coesistere nella giuridicità viene esaurito nei due poli del legale e del non legale, segue che si afferma un
nomos impersonale. Soltanto nella priorità esistenziale dell’ordine del giusto e non giusto diviene centrale il
riferimento al se stesso nell’interezza della sua personalità, illuminata nel reciproco alimentarsi del logos e del
pathos.
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Lezione 19: La priorità della parola sui numeri. Convenire essenziale e convenire funzionale
Nella descrizione fenomenologica dell’esperienza giuridica, il saper fare si presenta nella struttura
del come fare per, dove il ‘come’ enuncia le operazioni del convenire funzionale in un per
qualcosa, perseguito dalle norme, ed il ‘per’ enuncia il convenire essenziale nel per se stesso,
custodito dal diritto, che garantisce la priorità regolativa del ‘per’(scopi) sul ‘come’(mezzi) e
dunque del ‘giusto’ sul ‘legale’. La priorità così nominata è analoga a quella della parola sui
numeri, che non possono enunciare una creazione di senso, originale ed evocante, propria dell’arte
ermeneutica del giurista.
Nella descrizione fenomenologica dell’esperienza giuridica, si evidenzia la distinzione del saper
fare dal come fare per. Questa distinzione è principale perché nel saper fare compaiono soltanto
due elementi che costituiscono questa espressione: il sapere (ovvero l’acquisizione di una qualche
modalità di sapere) e poi l’adattamento di questo sapere nella prassi che lo concretizza, ovvero
un saper fare.
Nel come fare per compaiono tre elementi, non compaiono soltanto un fare, ma un come fare per.
Il come indica le operazioni che sono formative di un convenire che interessa i soggetti della
relazione giuridica e li interessa in un convergere della volontà che è libera verso un per qualcosa. Il
come nomina le operazioni che individuano la peculiarità di una definita relazione giuridica.
Accanto al come ed al fare, il terzo elemento, il per, qui nomina un convenire dove è impegnata la
scelta del se stesso di ognuna delle parti, cioè lo scegliersi libero di una parte che matura con
un’altra parte, dunque nella intersoggettività dei soggetti di diritto fa compiere un convenire che è
essenziale, perché non è in gioco il per questo o il per quel contenuto, ma il per se stessi, perché è in
gioco la qualità della interpretazione della soggettività di ciascuno, ed è in gioco la qualità
attraverso la quale si stabilisce una relazione con gli altri che viene ad essere definita
dall’appartenere ai due poli di un’alternativa tra una relazione di rispetto dell’altro soggetto di
diritto e una relazione di indifferenza e, nella sostanza, di violenza verso l’altro soggetto di diritto.
Dunque ogni volta che si descrive l’esperienza giuridica si presuppone una relazione tra soggetti: in
questa relazione inizialmente ci si può limitare a cogliere un saper fare, ma un approfondimento
descrittivo coglie che nella relazione giuridica non c’è solo un saper fare, ma è in gioco un
come fare per, dove il per , al di là delle operazioni che costituiscono le peculiarità della relazione
giuridica (una compravendita, un contratto di affitto), è in gioco il per sé stessi. Dunque compaiono
due forme del convenire, un convenire che è funzionale, ovvero è un convenire che si esaurisce
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nel perseguire il raggiungimento di un per qualcosa, e un convenire che invece è essenziale, che
non si esaurisce nella funzionalità del raggiungimento di un qualcosa ma che implica e coinvolge
questa centralità così essenziale nella relazione giuridica, che è la centralità del rischio della scelta
del libero esercitare la soggettività dei soggetti nel relazionarsi del diritto.
Questa descrizione incontra attualmente una tendenza che è propria della cultura contemporanea e
che ha un’espressione in un autore, Dennett, che dà una spiegazione scientifica della libertà, e
quindi verso un archiviare il convenire essenziale che interessa la soggettività dei singoli,
rendendolo secondario (marginale) rispetto al convenire funzionale, che interessa il continuo
accrescimento del sistema sociale principale della contemporaneità che è il sistema del
fondamentalismo funzionale.
In questa direzione Natalino Irti, civilista contemporaneo (Nichilismo giuridico, 2004), ritiene
essere ormai tramontata la fase umanistica, essendosi aperta una fase tecno-funzionale che è
propria dell’affermarsi del fondamentalismo funzionale, anche se nessuno però ardisce di
dichiararlo esplicitamente. Irti ritiene che il linguaggio della filosofia idealistica ha ceduto il
posto al linguaggio della tecno-economia. Il risultato è che ciò comporta una trasformazione della
stessa università che diventa un saper fare, un sapere tecnico mentre viene rimosso il momento del
per del come saper fare per, ovvero viene rimosso il per del se stesso.
Attualmente invece la stessa filosofia del diritto, secondo Irti, dovrebbe convertirsi in una
metodologia dei saperi speciali; questa posizione di Irti non conclude con l’affermare la
principalità del sistema del fondamentalismo funzionale, esplicitamente non trae le conclusioni,
ma dice comunque che la filosofia del diritto è avviata a spegnersi, in quanto avviata ad una
conversione funzionale, una filosofia che diverrebbe una metodologia dei diversi saperi speciali.
Contrariamente all’indirizzo di Irti, il filosofo francese Derrida sostiene che all’università spetta il
compito di mantenere viva e desta la libertà incondizionata di interrogazione. All’università
non resta solo il compito di formazione scientifica, ma alla università spetta il compito di porsi gli
interrogativi sulle questioni essenziali in un itinerario che è proprio del diritto alla filosofia, non è
dissociabile dalla democrazia a venire. Se si rinuncia al diritto alla filosofia si mette a rischio la
stessa struttura del vivere democratico.
Analizzando la qualità dei poteri statali, economici,
mediatici, e anche religiosi e generalmente culturali emerge un principio di resistenza che è un
diritto che insieme all’università stessa dovrebbe riflettere ed anzi portare a proporre nuovi studi
umanistici che pongano delle barriere alle invasioni dei poteri summenzionati, che diventano
invasivi e violenti verso la qualità della coesistenza del singolo.
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La ricerca di questi nuovi studi umanistici consentirebbe, secondo Derrida, di superare l’ordine del
semplice mestiere cioè di liberarsi dall’asservimento al puro sapere tecnico scientifico verso un
impegno ad esercitare ancora con consapevolezza la responsabilità. Ciò che sorgerebbe sarebbe un
diritto alla filosofia del diritto (Derrida) e non una emarginazione della filosofia del diritto al
servizio dei molti saperi speciali.
Quando si discute di questa diversa lettura dell’università, si discute ancora una volta delle modalità
in cui l’esistenza del singolo si concretizza entrando in relazione con l’esistenza dell’altro singolo,
si discute cioè della discorsività che interviene tra i soggetti di diritto: si riprende ancora una volta
a descrivere il logos. Il logos apre a questa attenzione al per, all’attenzione alla qualità dei
soggetti che entrano in una relazione discorsiva, avendo sempre presente che all’interno di una
relazione discorsiva il rischio è che qualcuno si veda togliere la parola, si veda cioè svuotato il
diritto primo a enunciare la formazione della sua identità esistenziale. Quando questo per, questo
per se stessi (che è poi il contenuto che costituisce il diritto primo alla formazione del per se stesso
e dunque dell’identità esistenziale) viene sostituito da un semplice saper fare, quel che emerge è il
come fare, ovvero l’apprendimento tecnico scientifico delle diverse modalità di intervenire nella
manipolazione della realtà. Quando questo itinerario si intensifica si è nella condizione di emersione
di una bio-info-sfera, ovvero di una sfera sociale che vede il comporsi di un elemento biologico ed
di un sistema informatico. Quando ciò accade, per quel che riguarda il diritto, diviene sempre meno
intensa la questione sul giusto, sempre più esclusiva diventa invece la questione sul legale. Ci si
interroga sul come fare funzionare l’ordine logico-formale, luogo tecnico – ovvero di un logos che
ha assunto i tratti della tecnica – dove la formalità dei contenuti della legalità non è più misurata
dall’ordine prioritario esistenzialmente primo del giusto.
Si ha dunque l’affermarsi di una struttura dove la relazione intersoggettiva, la qualità stessa delle
istituzioni finiscono per essere dominati dal procedere tecno-funzionale della legalità, di una
legalità cioè che non si interroga più sulla giustizia. Ma se una legalità rimane assolutizzata nel suo
isolamento, non più posta in questione dalle domane e dagli interrogativi sul giusto, è una legalità
che non incontra più la condizione peculiare della libertà dell’uomo: la libertà diventa qualcosa che
non è più nel centro del fenomeno diritto, è evanescente, diventa qualcosa che tende a trovare una
spiegazione tecno-scientifica e che se oggi si continua a chiamare libertà è perché la spiegazione
tecno-scientifica ancora non si è trovata; ma sempre con maggiore disinteressi si nomina ciò che è
proprio della libertà, dimenticando che anche se l’uomo non vuole discutere la propria differenza
con gli animali ciò che si coglie è comunque la sua libertà, che non potrà mai essere
concettualizzata.
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In proposito Fabro (filosofo italiano che ha introdotto in Italia l’esistenzialismo di Kirkegaard, ed
anche Heiddeger) afferma che l’uomo comincia ad esercitare la libertà, ad essere libero prima
ancora di averne avuto un concetto; avere la libertà non dipende dal concetto che ne abbiamo.
E a modo suo Sartre dirà: l’uomo lo sappia oppure no, lo voglia o no, scelga qualsiasi modalità di
esistenza, rimane con questa condanna paradossale ad essere libero.
Il passaggio dalla filosofia alle tecno-scienze, dalla filosofia del diritto alle teorie generali del diritto
che si realizzano come strutturazioni delle tecno-norme, sono passaggi appunto che si conformano
sempre più ad un processo che caratterizza la condizione contemporanea, ad un processo che vede
un ibridarsi del biologico con il macchinale; in questo ibridarsi dei sistemi biologici con i sistemi
macchinali non solo la libertà perde la sua posizione prioritaria, ma nella stessa analisi delle
relazioni umane divengono centrali i fini e marginali gli scopi, e analogamente nella formazione del
giurista si tende a privilegiare i fini e a emarginare gli scopi.
Perché la distinzione sulla quale Scheler torna più volte, ovvero la distinzione che separa i fini
dagli scopi, consiste in questo: i fini sono in tutto ciò che è, perché tutto ciò che è persegue e
concretizza dei fini, ad es. una reazione chimica ha dei fini, persegue ciò che è proprio di quei
processi chimici che concretizzano alcuni fini che possono essere descritti nelle formule che
enunciano i fenomeni chimici, e lo stesso accade nei processi biologici e nei processi informatici,
dove non ci si interroga sugli scopi, ovvero si tralascia di considerare che il fine non coinvolge la
responsabilità dell’essere liberi. Il fine, appartenendo alle macchine, alle cose, agli animali, non
mette in gioco la responsabilità che costituisce il nucleo della vita del diritto, riattivato ogni volta
dal concetto di scopo, proprio perché lo scopo comporta invece uno scegliersi del se stesso nella
sua relazione con gli altri.
Quando si tralasciano gli scopi finisce per diventare sempre meno rilevante il concetto
dell’interpretazione del diritto perché l’ermeneutica c’è non per i fini delle cose, degli animali e
delle macchine, ma per gli scopi. Quando l’attività dell’interpretazione lascia il posto allo scorrere
funzionale di fini, si afferma il modello principale della divisione del lavoro. Questo modello
appartiene da sempre all’umanità ma nella condizione contemporanea, a partire dall’età industriale,
ma soprattutto oggi, il modello della divisione del lavoro diventa il modello gerarchizzante tutti gli
altri modelli delle relazioni sociali, perché il modello del lavoro punta alla più intensa funzionalità,
ovvero ad una produzione sempre crescente quale ne sia il costo in termini di qualità dell’esistenza
del singolo e alla qualità della vita nelle istituzioni dei sistemi sociali. Se il modello unico diventa
quello della divisione del lavoro, la legge unica diventa quella del fondamentalismo funzionale. La
divisione del lavoro tratta l’uomo solamente nei suoi frammenti, smembra l’unità esistenziale del
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singolo, della sua soggettività, che viene smembrata nelle diverse regioni dove interviene quella
singola organizzazione del lavoro secondo il modello principale della divisione del lavoro. Qui si
spezza quel legame forte che appartiene alla realtà del diritto, cioè il legame tra il logos, il nomos e
il pathos, perché la divisione del lavoro non ha nulla che possa rinviare alla dimensione del pathos,
che è l’apertura affettiva, è l’impossibilità dell’uomo di essere indifferente alla qualità
dell’esistenza degli altri. Questa dimensione del pathos viene rimossa nella divisione principale
che organizza la divisione del lavoro e che diventa il modello unico per ogni altra forma di vita dei
molti sistemi sociali, compreso anche il sistema diritto.
Eliminata la dimensione del pathos, il rischio è che si incontri l’uomo dimenticando ciò che
costituisce la sua differenza ontologica, ciò che distingue l’essere dell’uomo dalle altre modalità di
essere, ovvero la differenza tra l’uomo e gli altri viventi. C’è un plus esistenziale nell’uomo rispetto
agli altri viventi e su questo plus nasce il diritto.
Dice esplicitamente Jaspers: l’animale come mero esserci non è né perduto, ma non è neanche mai
vuoto, non è nullo, non è perplesso, poiché non ha la possibilità della scelta, l’animale è soltanto ciò
che è. All’animale non appartiene nulla che è proprio del pathos, dell’apertura affettiva. All’uomo
appartiene sempre il sentirsi sempre preso da ciò che comporta la scelta, e la scelta comporta il
passaggio dai fini agli scopi, che sono espressione dello scegliersi dell’uomo sempre avendo
attenzione a che la sua scelta ha effetti che ricadono inevitabilmente sulla qualità della vita degli
altri singoli soggetti esistenti, perché il mondo è uno, perché gli effetti di una scelta non hanno
confini, non sono prevedibili, gli effetti della scelta di un singolo non sono prevedibili nello spazio,
nel tempo e nella qualità della vita degli altri. E dunque la scelta del singolo soggetto apre il terreno
degli scopi, gli scopi aprono l’attenzione ad un’aspettativa che è giuridica; perché la scelta degli
scopi è una scelta responsabile, e dunque attende (attraverso delle norme giuridiche positive
disciplinanti gli effetti degli scopi che sono scelti) che si concretizzi nell’istituzione di norme
giuridiche che orientano secondo la ragione giuridica l’incidere dell’aprirsi degli scopi in un
singolo quanto agli effetti che l’apertura di questi scopi possono avere sulla qualità della vita degli
altri, per quanto attiene alla qualità dell’ambiente, la qualità della vita dell’uomo nella sua
quotidianità.
Tutto questo chiede la presenza del diritto alla filosofia, ovvero il diritto alla filosofia del diritto, per
analizzare la qualità dei contenuti delle norme che devono essere selezionate per far si che la scelta
degli scopi da parte di un singolo uomo o di gruppi sociali non abbia una sequenza di effetti che
possa essere distruttiva sulla qualità della vita degli altri. Questa essenzialità al diritto alla filosofia,
e quindi alla filosofia del diritto, si mostra allora a non essere riducibile né alla teoria generale del
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diritto, né alla sociologia del diritto. Questo perché la teoria generale del diritto si limita ad una
sistemazione logico-formale dell’ordinamento giuridico definito, ma non ha gli interrogativi sulla
qualità della relazione del singolo con gli altri, non ha gli interrogativi derivanti dal questionare
filosofico e analogamente la sociologia del diritto si interessa di analizzare il divario fra le norme
vigenti e quel che accade quotidianamente nella prassi. Ma la sociologia del diritto si ferma però a
questa analisi del divario. Invece è compito della filosofia del diritto mettere in questione in modo
incondizionato gli interrogativi sulla qualità della disciplina, della selezione degli scopi nel
coesistere della vita di relazione.
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Lezione 20: Il diritto come strumento tecnico delle operazioni del Nessuno
Ambientata nei modelli del linguaggio numerico, la quotidianità contemporanea è qualificata dalla
tendenziale ibridazione tra l’intelligenza biologica e l’intelligenza artificiale. Tutto diviene merce
bio macchinale calcolabile nel dispiegarsi liquido dell’avere=potere, operante nel ‘monetario’
dominato dal ‘finanziario’. Trattato da una ermeneutica che perde la dimensione esclusivamente
umana dell’arte, anche il diritto si trasforma in strumento tecnico delle operazioni del Nessuno,
figura omogenea al post umanesimo del nichilismo giuridico ‘perfetto’.
La quotidianità contemporanea è qualificata dalla tendenziale ibridazione tra l’intelligenza
biologica e l’intelligenza artificiale; questa tendenza riguarda il diritto perché in modo non
secondario è l’aprirsi di una via che cerca di costruire una ingegnerizzazione sempre più marcata
della giuridicità.
Questo col convincimento che quanto più si riesce ad intervenire con la
modulazione scientifica del diritto, tanto più il risultato è positivo. Dunque la discussione della
realtà contemporanea del diritto è una discussione che incontra questo processo di ibridazione
formativo della bio info sfera; una sfera dove si compongono il biologico e l’informatica, ovvero il
macchinale.
Al comunicare nel discorso giuridico dei soggetti, al comunicare del logos, si sostituisce il
computare in una forma definita di numerazione. Questa trasformazione è proprio il tentativo
della ingegnerizzazione del diritto.
Questo passaggio deve essere consapevole, nel senso che in tal modo si può minare la singolarità
del parlante, la stessa struttura dei diversi sistemi sociali: i processi di ingegnerizzazione non
incontrano più l’uomo, perché l’uomo, come viene detto dalla Roudinesco non è né misurabile, né
quantificabile quindi non può essere quindi incontrato negli aspetti della propria vita da alcun
procedere ingegnerizzante. L’uomo è portatore della libertà: un altro filosofo contemporaneo Nancy
dice – in questo caso in senso positivo - che la singolarità dell’uomo è portatrice di una uguaglianza
che è tale da essere incommensurabile; ovvero l’uguaglianza delle singolarità esistenziali è sì
l’uguaglianza dei diversi soggetti ma è anche una uguaglianza che ha la sua realtà storica
nell’essere mai
misurabile.
Non c’è nessun metro che possa ingegnerizzare i modi di
manifestazione della libertà che hanno rilievo giuridico.
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Quello che segna un allontanamento dal logos, ovvero dal comunicare nel discorso, è un accedere
sempre più al computare in una definita forma di numerazione. La numerazione attualmente
vincente è la numerazione del linguaggio dei prezzi, cioè la numerazione del mercato, nelle due
modalità del mercato, del monetario e del finanziario, e quest’ultimo finisce per essere dominante
sul monetario, così che si può dire che la realtà contemporanea è dominata da un discorso di tipo
numerico, e principalmente dal finanziario, che interviene e incide sul discorso monetario: è una
realtà sottoposta ad un processo costituito da un duplice annichilire. Il finanziario annichilisce
due volte, perché annichilisce il monetario. Il monetario rende nullo tutto ciò che è nella sua
specificità. Tutto può essere reso indistinto in un unicum monetario. Il monetario cancella la
peculiarità di ciò che viene trattato dalla singola moneta, perché la moneta tratta allo stesso modo le
cose più diverse. Il finanziario annichilisce il monetario perché a sua volta interviene in modo tale
da incidere, manipolando il monetario, e dunque annichilendolo e così mostrando che l’ordine del
finanziario è un processo di duplice intervento annichilente.
Questo è quel che lo stesso Derrida coglie nel dire che la velocità delle comunicazioni in borsa è
tale nella realtà contemporanea che le condizioni del mercato finanziario possono cambiare in una
frazione di secondo.
Quindi la progressione dal monetario al finanziario qualifica la realtà contemporanea nel
processo di dematerializzazione dei beni.
Il monetario dematerializza i beni, il finanziario
dematerializza il monetario. E’ dunque un duplice procedere dematerializzante. Seguendo lo stesso
itinerario anche gli spazi cartacei, le entità materiali, vengono dematerializzati nei mini spazi
immateriali: è questo un procedere che è reso possibile da un continuo intensificarsi della
spiegazione scientifica di ciò che è nel modo dell’uomo, che avvia alla
dimensione della
virtualità, ciò che viene spiegato scientificamente può essere riprodotto fuori dallo spazio specifico
che gli appartiene, cioè può essere reso una entità virtuale, e quindi situato nei mini spazi dei
sistemi informatici, che dematerializzano le entità che da sempre hanno occupato gli spazi sociali
degli uomini.
Ma la spiegazione scientifica non si limita solo ad accelerare il passaggio dal monetario al
finanziario, al transitare dal reale al virtuale, a rendere praticabile la riproduzione del reale nei mini
spazi virtuali salvata dalla c.d. intelligenza artificiale, ma ha anche un suo incidere esistenziale,
che tocca la qualità della vita dell’uomo, la sua stessa corporeità. E’ appunto significativo che
Dennett, questo studioso dell’evoluzione della libertà, dice che finalmente nella condizione
contemporanea l’uomo avrebbe abbandonato questa visione dell’uomo come portatore di una
anima; un’anima che abita e controlla il suo corpo materiale. La spiegazione scientifica avrebbe
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abbandonato questi concetti.
L’anima non conferisce senso e spiritualità al corpo umano.
Ognuno di noi oggi si spiega nel suo essere composto soltanto di operazioni robotiche, dunque non
pensanti, non legate alla dimensione dell’anima. Non avremmo nessun ingrediente non fisico.
Peraltro risponde Derrida in maniera critica, dovremmo allora concludere che residuano soltanto
gli elementi di una condizione post umana.
Il post umanesimo consisterebbe proprio in questo, non residua nulla che non sia fisico, che non
abbia un funzionamento non robotico.
In maniera critica dovremmo dire che il mondo contemporaneo post umano lascerebbe spazio
solamente a due grandi ordini: da un lato ci sarebbe lo spazio dei computer e dell’intelligenza
artificiale che si troverebbero a sostituire il pensiero, dall’altro ci sarebbero solo processi di tipo
cognitivo che però avrebbero soltanto elementi e strutture che sono quelle propri di una attività
puramente fisiologica e biologica.
In tutto questo il diritto sarebbe niente altro che un sistema strumentale, una memoria
organizzativa (Luhmann), che nulla ha a che fare con la struttura della memoria personale. Il
diritto diventerebbe una merce tra le altre, una merce nel self service del mercato mondiale, quindi
si può fare shopping del diritto che più conviene. Così anche l’amicizia diventa una merce, il grande
mercato mondiale trasforma la relazione amicale un modo per avere una qualche forma di pseudo
discorsività nelle reti telematiche (chattare non è avere amicizia, che invece impegna e non può
essere spenta spegnendo la connessione ad internet). Del pathos, della condizione affettiva dell’io
profondo, viene custodito nulla, perché il pathos non si lascia commercializzare, non è il sentire bio
macchinale, il sentire di una telecamera, ma è quel profondo avvertire del se stesso che entra in
empatia con gli altri stabilendo quelle relazioni intersoggettive dove un posto centrale ha la
relazione giuridica.
E nel ridurre il diritto a self-service, l’amicizia, la predilezione, l’amore si tralascia ciò che Scheler
ha messo in luce affermando la differenza profonda tra il sentire biologico e l’avvertire il valore
in senso assiologico.
Nel rapportare la percezione affettiva e patetica (il pathos) al quid di
eventuali oggetti (ovvero come si avvertono gli eventuali oggetti di una rappresentazione) – nel
compiere cioè questa connessione tra la percezione affettiva e gli oggetti di una rappresentazione si deve affermare che i valori (assiologici) vengono prima, vengono percepiti anteriormente; i
valori assiologici non consistono in ciò che è proprio del sentire bio macchinale, i valori
assiologici, e quindi: il giusto come misura del legale, la giustizia come criterio selettivo dei
contenuti della legalità, non è qualcosa che può essere trattato attraverso lo stesso procedimento
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che è impiegato nel descrivere le modalità in cui interviene il sentire dei sensori delle macchine
intelligenti.
Il senso esistenziale del diritto si pone oggi come compito, come ricerca di quei confini che
limitano, che non consentono la integrale monetizzabilità dell’uomo, che tutto ciò che appartiene
all’uomo possa essere trattato come una cosa di valore (è una merce) e non come un valore
esistenziale.
Ci si chiede che cos’è che nell’uomo non ha prezzo, che cos’è che il diritto deve custodire come
non monetizzabile; le risposte vengono dalla analisi della teoria della disciplina giuridica del lavoro,
dalla analisi del diritto del lavoro: l’uomo non vi può comparire semplicemente come una unità di
conto, soltanto come una memoria organizzativa; l’uomo vi è presente con la sua ricchezza
esistenziale, con il suo essere portatore di una memoria personale. Il diritto dell’ambiente, il
diritto dell’infanzia Non si può cancellare la soggettività dell’uomo.
Sostiene la psicoanalista francese Roudinesco che oggi si constata questa tendenza ad affidarsi
volontariamente alle sostanze chimiche piuttosto che parlare delle sofferenze interiori, a trovare
subito un rimedio farmacologico a questo disagio, a trattare l’angoscia dell’io profondo con
l’intervento di elementi che possono manipolare l’uomo al fine di restituirlo alla sua efficacia
mercantile. Questo affidarsi solo a sostanze farmacologiche per rientrare con una spendibilità
dell’esistenza nel solo grande sistema del mercato del fondamentalismo funzionale, rimuove
l’itinerario aperto da Freud della comunicazione psicoanalitica e della discorsività terapeutica (che
ha un antecedente con Socrate, con la consapevolezza che nel dialogo il soggetto riacquista la
liberazione dal suo essere caduto in momenti di stagnazione e di sofferenza del suo io, riacquista la
possibilità di essere se stesso in modo pieno, uscendo dalla condizione di angoscia).
Oggi il diritto deve ricercare e porre i limiti al trattamento manipolatorio dell’uomo, alla sua
immissione tra tanti canali mercantili.
Il diritto deve conservare il diritto primo dell’uomo, ovvero il diritto ad essere soggetto, il diritto
alla parola, alla relazione con gli altri.
La parola non è il segno univoco degli animali, delle macchine, dell’informatica.
La parola dell’uomo porta un senso, la parola è polisensa, apre la questione del significare, del
senso e del nesso che lega il diritto e l’arte dell’interpretazione.
Gli animali hanno solamente la vista. L’opera dell’interprete è come lo sguardo che cerca il senso
nel testo delle norme, ovvero la ricerca del giusto nel legale. Lo sguardo contiene un plus rispetto
alla vista, è esclusivo dell’uomo. E così anche il diritto è esclusivo dell’uomo.
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Lezione 21: Il terzo giudice e l'arte del diritto
Il giudizio del terzo altro considera, analizza e valuta la soggettività dei parlanti, non gli
accadimenti dei viventi e le operazioni delle macchine. Il giurista sollecita il filosofo a prendere
atto che l’uomo non è un insieme fattuale di operazioni cerebrali ‘innocenti, ma un ‘io’, soggetto
della libertà e della responsabilità, che conferiscono senso alle istituzioni giuridiche. Il ‘Palazzo di
giustizia’ non è destinato né alle patologie del ‘vitale’, né ai guasti del ‘meccanico’; è il luogo
dell’arte del diritto che incontra i soggetti della parola, mai trattabili dalle tecno scienze, perché il
dire è irriducibile nel numerare.
Nella descrizione del diritto come fenomeno separato e distinto dagli altri fenomeni sociali, un
passaggio inevitabile è compiere una analisi che distingue una genesi fenomenologica del diritto da
una genesi fattuale del diritto.
La genesi fenomenologica si preoccupa di cogliere quali siano gli elementi che individuano la
peculiarità del diritto, che sono tali perché sono esclusivamente propri del diritto e quindi che non
sono peculiari degli altri fenomeni sociali.
Nella genesi fattuale del diritto la preoccupazione è quella di cogliere che cosa fattualmente porta
alla formazione e quindi alla diversa modalità storica di incidere del diritto. La genesi fattuale è
una descrizione del formarsi storico di un ordinamento giuridico.
La differenza tra le due genesi costituisce un momento centrale della filosofia del diritto perché è
proprio facendo questa distinzione che si evita di ridurre il diritto soltanto ad essere inteso come il
prodotto dei fatti, e quindi ad essere inteso come quel fatto che ha vinto su altri fatti.
Tale distinzione porta a considerare anche che il terzo giudice – così come viene incontrato dalla
genesi fenomenologica del diritto - non si limita a cogliere l’uomo come se fosse un insieme di
operazioni cerebrali (attività sinaptiche), come se fosse un sistema neurobiologico e dunque
come se fosse innocente, ma lo incontra nella sua responsabilità, nell’esercizio della sua libertà
di soggetto che fa delle scelte e che quindi lo rendono responsabile.
La genesi fenomenologica si centra nella ricerca del senso del diritto e del senso delle condotte
del soggetto di diritto, mentre la genesi fattuale si limita a cogliere una sorta di cronologia dei fatti
che hanno portato all’affermarsi di un ordinamento giuridico ed anche a una successione di eventi
che nelle condotte dell’uomo lo hanno portato a compiere alcuni atti invece di altri, quasi che questi
atti fossero da ritenere compiuti per dei processi che sono tra quelli indagati dalla neurobiologia;
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dunque atti che accadono nella geografia cerebrale del singolo uomo ma non gli appartengono, non
gli sono imputabili, non afferiscono alla sua responsabilità.
Il palazzo di giustizia non è il luogo destinato alle patologie dell’ordine vitale (neurobiologico) delle
attività sinaptiche, non è il luogo destinato a riparare i guasti di un procedere affine a quello
dell’intelligenza artificiale. Il palazzo di giustizia è il luogo dove un soggetto, il terzo altro del
diritto incontra un altro soggetto, il soggetto del diritto che è presente (davanti al terzo del diritto)
con la sua responsabile libertà e con le condotte che ha scelto – che ha posto in essere - ed i cui
effetti sono transitati negli altri uomini che dunque ne chiedono una valutazione che non è
semplicemente di ordine fisiologico o macchinale. Il terzo altro del giudizio, il giudice, colui che
pronuncia poi la sentenza, non è semplicemente un tecnico delle operazioni neurobiologiche,
non è colui che interviene sui guasti dell’intelligenza artificiale.
Si ripropone la tesi centrale del corso: connessione tra il diritto ed il linguaggio che è discorso.
Tale connessione si svolge nella differenza nomologica (propria del nomos) – ovvero la differenza
tra le norme e il diritto – e nella differenza logologica (propria del logos) - ovvero la differenza che
appartiene al logos e che presenta volta per volta la distinzione tra il reale e il senso del reale. Come
nel nomos c’è questa scissione tra le norme che sono enunciate e il diritto che non trova mai questa
enunciazione scientificamente definitiva così parimenti nella differenza logologica c’è questa
scissione tra il reale e il senso del reale, distinzione che chiede sempre l’opera creativa del terzo
giudice, creativa non nel senso dell’arbitrarietà, ma creativa nella ricerca del senso del reale:
quest’opera dell’interpretazione è l’opera ermeneutica, è il compito che appartiene alla soggettività
del terzo giudice, è l’attività interpretativa che non può essere affidata a un software, perché in
questa attività interpretativa compare ciò che, per usare un termine del filosofo Jaspers, è proprio
della cifra. La cifra è ciò che presenta una verità ma la presenta nel suo non essere una verità
indagabile con gli strumenti della tecnica e della scienza.
La cifra chiama alla soggettività responsabile dell’opera dell’interpretazione, la cifra chiede di
essere posta in enunciati che volta per volta sono gli enunciati posti dal terzo giudice
nell’interpretare che compie in questo spazio cifrato, dove la cifra nomina ciò che impegna il terzo
in un terreno che non può essere lasciato alla indagine scientifica ma chiede l’arte, l’arte
dell’interpretazione. Questo perché nell’opera del terzo giudice si è sempre esposti a questa pretesa
veritativa che riguarda il diritto, e questo perché – come osserva il filosofo francese Ost - la prima
forma del tempo giuridico è quella della memoria.
Nominando la questione della memoria si nomina la dimensione veritativa della memoria. La
dimensione veritativa della memoria espone a ciò che è esclusivo dell’uomo: soltanto l’uomo nella
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esperienza giuridica viene chiamato a testimoniare, a giurare. Ed è per questo che il grande
filosofo francese Derrida tiene per dodici anni un seminario che ha come tema le questioni di
responsabilità (per analizzare il rispondere davanti a qualcuno, giuridicamente davanti al terzo
altro, il rispondere di condotte che sono state scelte e fatte proprie con l’esercizio di una libertà delle
quali si è responsabili) e si analizza che significa il rispondere di sé. Queste questioni sono assenti
nelle memorie proprie dell’intelligenza artificiali (il piano macchinale) e nelle memorie biologiche
(piano vitale); i piani del vitale e quelli del macchinale non sono né veri né falsi. Non sono tali da
poter essere imputabili davanti al terzo altro. L’imputabilità ha a che fare da subito con la libertà e
questo richiama l’esistenzialismo di Kierkegaard, tradotto da Fabro, che dice che la libertà è quel
che si fa storia di sé stessi e può sia legare ma può portare anche alla perdita della stessa libertà. La
libertà può impegnare la libertà ma può anche dissolvere la libertà: Fabro appunto dice che la
libertà si afferma soltanto mediante l’io. La libertà attua la libertà rischiando la libertà stessa.
La libertà e l’io sono come il concavo ed il convesso, si costruiscono e si presentano nel
crescere essendo l’uno per l’altro; in questo spazio si presenta ciò che è proprio della
responsabilità. Dicendo questo si dice, così come si legge in Scheler, che nessuna memoria
specifica si ha nel non umano, che trascenda la stretta dipendenza dei suoi stati biologici o
macchinali dall’insieme dei suoi antecedenti. Nell’ordine vitale e macchinale non si ha nulla che
trascenda nei movimenti della libertà l’esercizio della libertà dai suoi stati antecedenti: negli stati
biologici o macchinali tutto ciò che avviene, avviene sempre con un nesso di causalità con i gli stati
antecedenti e dunque negli stati biologici e macchinali non vi è responsabilità, vi è anzi una
condizione di semplice di dipendenza causale, manca qualsiasi interesse alla ricerca di una
dimensione veritativa di ciò che accade. Manca nel biologico e nel macchinale l’interrogarsi su
questa dimensione veritativa, che invece compare non appena compare ciò che riguarda la libertà e
che impegna l’opera del terzo giudice nel compito interpretativo. Però non appena si fa riferimento
all’ermeneutica si aprono degli interrogativi, delle domande delle possibili modalità di leggere
questo intervenire che è proprio dell’opera ermeneutica. Proprio Pareyson (verità ed
interpretazione) lascia emergere delle questioni che chiedono di essere discusse: il principio
fondamentale
dell’ermeneutica
è
che
l’unica
conoscenza
adeguata
della
verità
è
l’interpretazione. La sola conoscenza adeguata della verità transita nel lavoro interpretativo,
ovvero la verità è accessibile in molti modi, ma nessuno di questi molti modi è privilegiato
rispetto ad altri. Non c’è una unica interpretazione.
Per la certezza e la struttura del diritto questa affermazione pone delle questioni.
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C’è un rapporto originario tra libertà ed il nulla; conclude Payreson, il nulla non è periferico,
ma è centrale e profondo perché la nascita della libertà positiva è legata al contatto originario
tra libertà ed il nulla.
Tutto questo riguarda il diritto perché la libertà può aprire ciò che ha a che fare con la
responsabilità, che è rilevante nel diritto e nell’opera del terzo giudice.
La libertà è
giuridicamente rilevante perché non ha una causa, perché se avesse una causa non avrebbe a
che fare con la responsabilità e quindi non sarebbe giuridicamente significativa. Questo
significato del contatto con il nulla, non può essere inteso come il nulla che permetta una libertà
arbitraria. Gli itinerari della libertà non sono arbitrari, hanno una valutazione perché la libertà deve
rispettare gli altri cioè essere giuridicamente positiva, non è indifferente ciò che la libertà compie, la
libertà non rimane nella indifferenza del nulla. La libertà non è dispersa e dissolta nel nulla. Questa
non indifferenza dei cammini della libertà viene sollecitata dallo stesso Scheler, affermando che
l’uomo non comincia ad esercitare la libertà permanendo nella sua indifferenza nel nulla, ma anzi
ciò che affettivamente il singolo percepisce e quindi ciò che in concreto nell’esercitare la libertà
nell’amare o nell’odiare l’altro non hanno un contenuto che sia indifferente, anzi hanno un
contenuto a priori specifico, che non è disponibile. Non c’è nella libertà questo spazio
indifferenziato nel nulla, c’è una condizione di responsabilità verso i poli opposti che sono scelti
nella libertà e negli esiti opposti che poi ricadono sulla qualità della vita degli altri.
Non è dunque indifferente – tornando alla tesi di Payreson - questa o quella interpretazione della
libertà, anzi secondo una o un’altra interpretazione della libertà si potrà costruire una vita giuridica
dove viene garantita la qualità della relazione con gli altri oppure si potrà produrre invece una sorta
di ordinamento giuridico dove diventa indifferente la qualità della relazione con gli altri e dove
dunque sarà lasciato alla genesi fattuale delle norme, al fatto che è più forte economicamente.
Dunque è proprio il fenomeno diritto, quindi il giurista che oggi svela al filosofo, alla filosofia del
diritto che l’essere uomo non è semplicemente la riduzione ad un essere vitale, essere uomo non è
soltanto ciò che può essere descritto dalla neurobiologia che indaga le operazioni cerebrali
determinate da cause che sono ambientate in casi e che quindi non schiudono la responsabilità del
singolo. E’ il giurista che svela al filosofo che il momento della imputabilità è il momento della
responsabilità, che pone luce il momento della libertà, una libertà che non si lascia spiegare
scientificamente.
Tutto ciò è quel che si ha verso un diritto debole e si ha quando ci si limita a cogliere una genesi
fattuale del diritto, quando ci si limita a fare una cronologia degli eventi e quindi si lascia essere un
evento dopo l’altro senza discriminare qualitativamente, si lascia avere – perché per quel che
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riguarda il diritto - che alcuni contenuti sono assegnati al polo del legale e altri contenuti sono
assegnati al polo del non legale, due poli che sono semplicemente funzionali in quanto si registra
solo un funzionamento vincente nelle controversie che pongono un uomo davanti ad un altro uomo.
Non c’è nulla qui se tutto si risolve nella opposizione tra il legale e il non legale, non c’è nulla della
pretesa veritativa poiché questa è simultaneamente quella pretesa che si interroga sul giusto e sul
non giusto, e ponendosi questa domanda si pone la domanda sul come selezionare secondo giustizia
quel che appartiene alla legalità, mostrando così che la legalità che non è misurata dalla giustizia
è una formula vuota, è un contenitore dove tutto può essere contenuto, secondo questo
compiacimento di un pensiero debole di una giustizia debole.
Ma un pensiero e una giustizia debole possono essere costruite soltanto sull’assunto - che
difficilmente può essere sostenuto e posto come l’asse portante delle istituzioni giuridiche - che
Jankelevitch nel suo lavoro tradotto in italiano e pubblicato con “Ironia” dice essere quell’assunto
secondo cui “il primo diritto fu una violenza che ebbe fortuna”: tale assunto significa sostenere
una genesi fattuale del diritto, una cronaca della fattualità, prendere atto che il primo diritto non è
stato altro che un fatto affermatosi con violenza su altri fatti e ciò perché ha avuto più fortuna,
perché più forte, vincente, ma vincente senza nessuna ragione, senza nessuna argomentazione
dell’ordine del giusto, è vincente soltanto nella direzione di una semplice fenomenologia fattuale.
Lì dove dunque è stata obliata, posta in un angolo, rimossa e pertanto spenta quel che è la direzione
opposta, ovvero la fenomenologia non della fattualità, ma la fenomenologia che si occupa di
cogliere la genesi fenomenologica del diritto, che interrogandosi sulla prospettiva della genesi
fenomenologica del diritto si interroga sugli elementi del giusto che sono discriminanti quanto agli
elementi del legale. Ma questo cade quando si afferma il nichilismo giuridico e quando questo
nichilismo diventa perfetto e compiuto.
Questo è ciò che invita a pensare Jaspers nel suo lavoro su Nietzsche, che insieme ad Heidegger
rappresentano gli unici due filosofi che meritano una attenzione nell’incontro con Nietzsche.
Jaspers, nel suo lavoro dice che in Nietzsche c’è un duplice significato del diritto: in una prima
accezione il diritto viene inteso come il dominio di aspirazioni dei mediocri - sarebbe ciò che
causa, ciò che genera il diritto – che si concretizzano in un infinito produrre leggi senza che questa
produzione inesauribile delle leggi abbia all’origine una ragione giuridica, sono volta per volta la
semplice reazione a ciò che fattualmente si presenta, ad una attualità che emerge e che vince con
questo self service normativo. In una seconda accezione invece il diritto diventa nient’altro che un
insieme di garanzie che non hanno a che fare coi mediocri ma anzi sono le garanzie date ai
creatori; il diritto sarebbe questa cornice di garanzie giuridiche che vengono date a questa sorta di
100
razza dei creatori che in Nietzche sono i vincenti; il diritto serve i creatori, i vincenti, perché gli
uomini sono disuguali e i creatori delle norme sono gli uomini biologicamente più forti.
Dunque se gli uomini sono disuguali, dice Jaspers, bisogna prendere atto che non ci sono diritti
umani, non c’è alcun diritto incondizionato dell’uomo in quanto uomo, ma c’è soltanto un tipo di
uomo che di fatto ha potere, che biologicamente è vincente, che è economicamente vincente, che
oggi diremmo che nell’ibridazione tra il biologico e il macchinale risulta essere vincente. I creatori
sono i più forti, coloro che stabiliscono una gerarchia dei vincenti, che impone tale gerarchia agli
esecutori.
Quindi il diritto non sarebbe il diritto degli uomini, il diritto che si concretizza nel
riaffermare, custodire e garantire l’uguaglianza tra gli uomini, ma il diritto si limiterebbe a
prendere atto – secondo questa genesi fattuale del diritto che tralascia la genesi
fenomenologica del diritto - che alcuni sono gerarchicamente più, che si impongono agli altri
che sono gerarchicamente meno e dunque sarebbe la legalizzazione di questa sproporzione.
A questa lettura della genesi fattuale del diritto si oppone la lettura della genesi fenomenologica
del diritto, che non si limita a cogliere il diritto come fatto di violenza che ha avuto fortuna, ma
cerca nel diritto quello che distingue il diritto dagli altri fenomeni sociali.
Nella genesi
fenomenologica del diritto, si vede il diritto strutturato come il linguaggio, che è discorso, cioè
relazioni di parlanti strutturati dall’uguaglianza e non di sproporzione che hanno uguale diritto nel
prendere la parola in un luogo che è terzo; così il diritto è la relazione tra parlanti strutturata
dal rapporto di uguaglianza, e non di sproporzione, tra soggetti di diritto che hanno custodita
questa soggettività giuridica in un luogo terzo che è quello della terzietà formativa e
differenziante il fenomeno diritto rispetto agli altri fenomeni.
101
Lezione 22: La genesi fattuale e la genesi fenomenologica del diritto
Le domande sulle ‘situazioni limite’ del pensiero giuridico - pena di morte, guerra, ecc. - chiedono
di interrogarsi su questioni non confinabili in una genesi fattuale del diritto (Teoria generale del
diritto), che ratifica l’identificazione dei contenuti delle norme con la forza di chi legifera. Sono
domande che sollecitano a pensare la genesi fenomenologica del diritto (Filosofia del diritto),
mostrando che non è senza effetti coesistenziali la distinzione tra il rispetto del prendere la parola
nella democrazia e la violenza che impone un silenzio assoggettante nella dittatura, togliendo la
parola e trasformando il creare con l’eseguire.
La distinzione che si è fatta tra una genesi fattuale del diritto (che appartiene alla teoria generale
del diritto) e una genesi fenomenologica del diritto (che invece è propria della filosofia del diritto),
torna ad essere essenziale quando si incontrano le c.d. situazioni limite del pensiero e
dell’esperienza giuridica. Il concetto di situazione limite è proprio di Jaspers, e incontra quelle
realtà dell’esistenza e della coesistenza che costituiscono quei momenti che non hanno un
ulteriore momento; costituiscono delle condizioni della situazione umana dove non c’è un oltre e
che dunque attendono una discussione che sia essenziale, che metta cioè in questione i principi
primi della riflessione filosofica.
Per quanto attiene il diritto una di queste situazioni limite è quella della pena di morte e l’altra può
essere quella che discute la qualificazione giuridica della guerra.
Queste situazioni limite sono tali da eccedere ogni possibile orizzonte che si limiti in una genesi
fattuale del diritto. Implicano subito il riferimento ad una analisi che è quella propria della
filosofia del diritto, impegnano gli strumenti specifici della elaborazione filosofica della
giuridicità.
Lasciando quindi l’orizzonte della genesi fattuale del diritto, si torna quindi ad avere come asse di
riferimento la tesi principale della filosofia del diritto, segnatamente il pensiero di Hegel sul
diritto: il diritto non è il fatto ma è il superamento del fatto che esclude.
Nell’enunciare questo Hegel invita a non confinarsi ad una genesi fattuale del diritto, chiede di
cogliere che il diritto non è il fatto, perché il fatto esclude, impedisce la manifestazione della
libertà (intesa come spirito). Il diritto è il superamento del fatto, dell’esclusione, mentre quando il
diritto si lascia coincidere con gli eventi della fattualità, si lascia coincidere con una sorta di
sperimentazione dei fatti, si afferma qui quel che esplicitamente può essere nominato il nichilismo
giuridico perfetto. Perché nel nichilismo giuridico perfetto il diritto diventa la sperimentazione
102
tecno-funzionale delle molte attività praticate in una scienza che ha la sua essenza nella tecnica, il
diritto dimentica in tal modo la opposizione tra ciò che appartiene ai poli del legale-non legale e ai
poli del giusto-non giusto. Se oggi il diritto coincide con il sistema del fondamentalismo funzionale,
con la sperimentazione delle tecno- scienze, secondo quell’itinerario che risponde solo al funzionare
più dei molti sistemi sociali, se questa sperimentazione si concretizza in tal modo, allora tutto è
lasciato nella formula vuota della legalità senza giustizia, nulla ha un confine nella dimensione
veritativa che apre gli interrogativi sul giusto operando che il giusto sia il criterio selettivo del
legale, tutto si concretizza solo nello stare a vedere. Ma in questa situazione diventa senza senso
continuare a parlare del c.d. “processo giusto”, diventando senza senso le considerazioni che i
giuristi fanno ogni volta che colgono l’opposizione tra il giusto processo e la tortura, opposizione
dove c’è uno spazio occupato da una quantità di qualificazioni sia dei contenuti positivi del diritto
sia delle modalità procedurali dell’amministrazione della giustizia che sono tali da poter essere
volta per volta sempre più vicini o al processo giusto o alla tortura.
Ma anche attualmente, con l’affermarsi del nichilismo giuridico, non si riesce a trovare un giurista
che abbia un volto capace di potersi presentare agli altri affermando semplicemente che non c’è
nessuna attenzione al processo giusto, per affermare la sua indifferenza rispetto alle pretese di
uguaglianza, che l’uguaglianza degli uomini è qualche cosa che nella vita del diritto può essere
tralasciato. Nessuno esibisce nella cultura giuridica questo fare cinico che si limiti a constatare che
la sola regola è quella del funzionare più. Nessuno rinuncia a riprendere la centralità del principio
di uguaglianza, che costituisce la struttura di riconoscimento tra gli uomini, intesa come relazione
giuridica fondamentale. Il riferimento al principio di uguaglianza è storicamente cangiante,
storicamente acquista forme diverse.
Derrida dice che attualmente il principio di uguaglianza porta a misurarsi con l’urgenza del
riconoscimento dei diritti delle donne e dunque di superare la disuguaglianza tra i sessi, nell’accesso
al lavoro, alla responsabilità che sono proprie dell’esercizio dei poteri delle istituzioni. Ed ancora,
per Derrida, questa ripresa del principio di uguaglianza è ciò che orienta il diritto al lavoro, il diritto
dell’infanzia, la non discriminazione tra le diverse condizioni dell’infanzia, a seconda dell’area
geografica di permanenza.
Anche nel permanere di una prospettiva del nichilismo giuridico, è difficile che il giurista
mostri una sorta di indifferenza verso i crimini contro l’umanità. Diventa difficile che il
giurista non lasci l’abito del tecnico delle norme per indossare quello proprio dell’uomo
giurista per discutere secondo la ragione giuridica quel che appartiene ad un’analisi che
ponga in essere una critica nei confronti dei crimini contro l’umanità
103
Questi crimini non possono essere incontrati dal tecnico delle norme, perché ha un procedere che è
settorializzante e quindi non incontra l’interezza dell’umanità. E’ difficile che un giudice non esca
dalla veste di tecnico delle norme per vedere la situazione come uomo.
Il riferimento all’uomo nella sua interezza viene posto in opera dal giurista uomo, che porta in gioco
l’interezza della sua soggettività attraverso la fedeltà alle norme ma anche la responsabilità e la
libertà nell’interpretazione delle norme, che porta cioè in gioco la ricerca del giusto nel legale,
compito questo che appartiene al giurista uomo e non dal tecnico delle norme; quest’ultimo non
incontrerà mai ciò che ha a che fare con l’umanità e quindi con i crimini contro l’umanità, perché
l’umanità non è mai un frammento, un frammento tecnico-funzionale dell’uomo. Quando si
nominano tutte le questioni che hanno attualmente a che fare con gli organismi giuridici
internazionali contro i crimini contro l’umanità, certo non si nomina uno spazio limitato dell’uomo,
perché l’umanità investe l’interezza dell’essere uomo, non un suo frammento settorializzabile.
Questa dimensione dell’essere uomo è una dimensione essenziale del procedere del giurista. Lo si
vede nella discussione della pena di morte, situazione limite dove si mette in gioco la centralità
delle questioni principali del diritto.
In questa discussione, come dice Derrida, non ci si può rifare ad argomenti di tipo tecnico o ad
argomentazioni che hanno il procedere proprio dell’attività settorializzante della scienza. Secondo il
filosofo francese, quando si vuole argomentare l’abolizione della pena di morte in modo consistente
bisogna fare riferimento a principi incondizionati, al di la delle stesse questioni di finalità o di
esemplarità o di utilità, addirittura al di la di un diritto alla vita da mettere al riparo da un possibile
ritorno alla pena di morte: cioè bisogna fare riferimento non a questioni utilitaristiche per
perseguire nell’immediato un qualche aggiustamento utilitaristico che consentirebbe di superare
questo fatto che contraddistingue la negazione della civiltà giuridica che è la pena di morte, ma
bisogna ricercare dei principi incondizionati, che è la ricerca alla descrizione dell’analisi
dell’interezza dell’uomo e che poi è il compito della filosofia del diritto.
L’argomentazione che porta alla cancellazione della pena di morte si muove nel distinguere le
molte modalità del sapere che l’uomo riesce ad illuminare. In modo coerente si potrebbe dare la
pena di morte se si disponesse di un sapere totale. Soltanto chi presuppone di sapere tutto può
pensare di poter infliggere la pena di morte, dunque di consegnare ad una fine irreversibile un
uomo. Ma il sapere totale è estraneo alla condizione esistenziale dell’uomo. L’uomo si trova
sempre in un sapere che è un sapere parziale, si trova sempre ad avere a che fare con un sapere che
non ha una formulazione ultima, è sempre un sapere aperto ad altre possibili interpretazioni.
E’ un sapere sempre aperto alla possibilità che gli uomini istituiscano delle altre forme di vita
104
giuridica e che nell’istituire questa seconda vita (che è la vita del diritto) si situino al di là di un
sapere che storicamente si è dato e che compare dunque sempre (comparendo nella storia) come un
sapere parziale. Chi sa parzialmente non può disporre totalmente dell’altro, non potrà mai dare
argomenti sufficienti affinché sia inflitta la pena di morte.
Un sapere totale sarebbe la negazione stessa della libertà. E dunque la negazione della libertà
porterebbe all’insignificanza della sentenza che emette la pena di morte perché non sarebbe una
sentenza emessa con responsabilità perché costruita sulla libertà, ma sarebbe una sentenza che si
limita a realizzare ciò che è al di fuori della libertà e della responsabilità (ovvero un sapere totale)
Il sapere totale è la spiegazione della libertà, non lascia spazio alla interpretazione, all’attività del
terzo giudice imparziale e disinteressato, colui che esercita una responsabilità che non gli viene
svuotata da un sapere scientifico ovvero da un sapere totale. L’esercizio del terzo giudice in queste
situazioni limite del diritto è l’esercizio di una soggettività che è tale perché si muove nell’ambito di
un sapere parziale. Attualmente nella condizione contemporanea, il sapere parziale, che è proprio
del sapere che appartiene alla filosofia, diventa sempre più un sapere di tipo logo-tecnico, perché
il logos finisce per avere i tratti della tecnica. Ma il logos però è lo spazio della dialogicità, cioè lo
spazio dove i soggetti si incontrano in una discorsività comunicativa che avviene in uno spazio
terzo. Quando c’è un discorso tra l’uno e l’altro dei soggetti parlanti questo discorso si situa ogni
volta in uno spazio terzo che non è disponibile (né da me né dall’altro), ed è per questo che quando
si è in questo spazio che è il reciproco ascoltarsi, non si è nella logo tecnica, si è nello spazio
della pienezza del logos che non può assumere i tratti della tecnica. La tecnica non ascolta, ma
manipola. La tecnica non entra in una discorsività comunicativa ma interviene con un incidere
manipolatorio, intervenendo in tal modo sugli altri come una forma che chiude l’ascolto agli altri; la
tecnica è interessata ad intervenire sull’essere degli altri ma non ad ascoltare il dirsi degli altri e
quindi a rispettare i diritti incondizionati degli altri.
La distinzione tra il sapere parziale e il sapere totale è una distinzione dunque essenziale: vi è
ancora la pienezza del fenomeno diritto se si rimane all’interno del sapere parziale, si cade invece
nella negazione della peculiarità del fenomeno diritto se si è avvolti dalla presunzione di un sapere
totale. Quando avviene questo l’amministrazione della giustizia perde i suoi tratti costitutivi, ossia
scivola verso cadute che sono quelle di una giustizia mediatica, la giustizia spettacolo; una
giustizia che ritiene che la giustizia si amministri come si amministra il gioco, che è innocente,
senza senso e senza scopo, se non quello della consumazione del trascorre dei momenti del giocare
e dello spettacolo. Una giustizia consumatoria è una giustizia innocente, ovvero irresponsabile.
105
Quindi nello spostamento dall’arte, sapere parziale, alla tecnica, presunto sapere totale, si ha uno
spostamento che porta a che la giustizia diventi innocente, irresponsabile, come il tecnico che si
limita ad eseguire, ma non ha una responsabilità; se resta un tecnico opera concretizzando i processi
che sono propri di quel fare tecnico, secondo un come ovvero una successione di operazioni, ma
non si interrogherà più sul senso, gli scopi delle operazioni, non eccederà la funzionalità tecnica per
aprirsi agli interrogativi che investono la libertà e la responsabilità del relazionarsi degli uomini
nelle relazioni giuridiche.
La libertà in questo contesto diventa un gioco essa stessa, diventa un semplice evento, così come la
giustizia diventa spettacolo, diventa mediatica, che si consuma e si vende.
La tesi che viene espressa dal filosofo francese contemporaneo Nancy è questa: la libertà si
presenta nel suo sorgere improvviso ed inassegnabile. E’ quella libertà che consiste nel crearsi
dello spazio del gioco, nella possibilità che sopraggiunga una singolarità irriducibile. E’ quel che mi
accade non quel che scelgo con responsabilità. E’ quel che accade dello spazio del gioco. La libertà
è libera non in quanto dotata di un potere di autonomia, che però la rende responsabile, ma la libertà
è un gioco che sopraggiunge in uno spazio libero.
Ma allora volta per volta la libertà avverte di essere irresponsabile; sopraggiungere in uno spazio
libero significa non rispondere di A davanti a chi, significa trovarsi esposti in questo gioco che è la
successione dei momenti di un accadere dopo un altro accadere secondo un gioco innocente.
La libertà non è una combinatoria di traiettorie di eventi che accadono senza uno scegliersi
argomentato, non è indifferente, aperta ad ogni contenuto.
Nancy - dopo aver affermato che la libertà è semplicemente il trovarsi in uno spazio libero –
argomenta poi come segue sul concetto di giustizia:
la giustizia risiede unicamente nella
decisione, che ogni volta viene rinnovata, di ricusare la validità vigente o acquisita della giusta
misura; la giustizia consiste nel dire di no alla ricerca di una giusta misura. Analogamente
come la libertà è divenuta il trovarsi in uno spazio libero, la giustizia diviene il trovarsi nella
negazione di una qualunque ricerca di una misura giusta, perché la giustizia consiste nel trovarsi
nell’incommensurabile. La verità diverrebbe soltanto il prendere atto dell’incommensurabile
ovvero la negazione di ogni possibile misura.
La negazione di ogni possibile misura è immediatamente la negazione di ogni distinzione tra i
contenuti delle norme positive. La giustizia si trova nella indifferenza tra le molte possibili misure.
Vuol dire che si afferma la misura legale, ma che è legale perché ha vinto, che è quell’atto di
violenza che ha avuto fortuna, vincente rispetto ad altri atti possibili.
106
Ma se la giustizia è solo questa innocenza fattuale allora la giustizia coincide con il fatto che vince,
quindi sarà una giustizia che viene trovata solo in una genesi fattuale del diritto, ovvero la
semplice constatazione del fatto che funziona di più, più forte, la funzionalità che vince. Il giurista
diventa un tecnico idraulico, perché la giuridicità diventa liquida, per usare una metafora. La
giuridicità diventa liquida perché diventa un semplice fluire di fatti che non hanno alcuna
coscienza riflessa, che non si interrogano sulla qualità dei fatti, così da far diventare la
giustizia una giustizia liquida ovvero senza una forma, senza un perché, senza uno scopo,
ovvero la pienezza del nichilismo giuridico.
107
Lezione 23: Il Diritto alla Filosofia del Diritto: oltre il nulla dei diritti dell'uomo
I concetti fondamentali delle scienze sistemano con metodo le diverse regioni del
conoscere=sperimentare. I concetti fondamentali della Filosofia del diritto discutono l’io, nel suo
relazionarsi agli altri rapportandosi al mondo; analizzano gli scopi delle istituzioni e delle norme
che ne disciplinano la concretizzazione, secondo valori che orientano il volere. L’espressione ‘Dio
è morto’ nomina l’‘inversione dei valori’, afferma il nulla dei diritti incondizionati dell’uomo. Le
relazioni scorrono così nella contingenza liquida, senza una direzione di senso oltre il non senso
della forza del più forte, decisa dalla legge, senza terzietà, del mercato che tratta anche l’uomo
come una ‘unità di conto’. Il superamento di questo esito è aperto dal Diritto alla Filosofia del
diritto.
Nella analisi filosofica del diritto, compare una trattazione dei concetti giuridici fondamentali, così
come sono propri nel diritto e così come invece sono propri nelle scienze: compare la esigenza di
distinguere i concetti così come sono applicati dalla scienza e così come invece sono applicati dalla
filosofia del diritto, che si pone domande sul senso esistenziale.
In questa discussione risultano fondamentali due lavori: un primo riferimento è a Irti che nella
“Polemica sui concetti giuridici” ripropone una discussione sui concetti in generale, e su quelli
giuridici in particolare, così come si era data nel 1935-1945; l’altro riferimento sono i lavori di
Heidegger sui concetti fondamentali del pensiero proposti in una serie di seminari tenuti negli
anni tra il 1937 e il 1944.
La prima attenzione viene data ai concetti fondamentali delle scienze, che sono quei concetti che
individuano le diversi regioni del conoscere, le diverse regioni dell’attività di sperimentazione, e le
individuano con un metodo che volta per volta è il metodo della ricerca scientifica e della
sperimentazione scientifica di quella singola area.
Invece, i concetti fondamentali della filosofia del diritto sono i concetti che discutono l’io nel
relazionarsi agli altri soggetti di diritto nella storia delle istituzioni giuridiche.
Il rinvio a questi due momenti dei concetti giuridici e dei concetti filosofici è dato dalla necessità di
procedere con una chiarificazione del fenomeno diritto in ciò che lo distingue dagli altri fenomeni
ma anche in ciò che lo individua nella condizione contemporanea. Non è ragionevole procedere ad
alcuna presentazione del diritto senza precisare la qualificazione attuale dell’ambientazione del
diritto, senza interrogarsi e individuare le forme storiche che distinguono e definiscono il diritto.
108
Nel fare questo lavoro si incontra il tema dei concetti, così come vengono riproposti da Heidegger,
che definisce concetti fondamentali quelli che indicano una rappresentazione generale di un
ambito definito delle scienze, gli elementi formativi di una certa area trattata dalla singola scienza.
Ad es. nella scienza biologica i concetti fondamentali-generali sono quelli che si riferiscono al
concetto di vitalità, all’accrescimento delle forme di vita (quindi la biologia si giova dei due
concetti del vitale e del crescere). Per la scienza medica un concetto fondamentale è la fisiologia,
ovvero un modo di funzionare proprio di un corretto processo, ed accanto al concetto di fisiologia
per opposto appare il concetto di patologia.
Anche la scienza del diritto ha i suoi concetti fondamentali che per Heidegger sono i concetti di
verità e di diritto : non appena la scienza giuridica comincia ad operare inevitabilmente, secondo il
filosofo tedesco, tratterà questi due concetti di diritto e verità.
Il procedere di una singola scienza, e quindi anche la scienza del diritto, si serve di questi concetti
che sono una rappresentazione generale di un ambito definito, e come tale quel singolo concetto ha
senso nel proprio ambito definito. Ad esempio si è appena detto che la scienza del diritto non
appena comincia ad operare incontra il concetto di verità, che però non è lo stesso concetto valido
per la matematica e l’informatica, ma è un concetto che fa riferimento alle condotte degli uomini
che sono giuridicamente rilevanti.
Dunque analizzando le differenze fra concetti fondamentali della scienza e concetti fondamentali
del pensiero filosofico si rileva che l’elemento distintivo dei concetti fondamentali del pensiero
filosofico, e quindi anche di quello giuridico, specie della filosofia del diritto, trattano l’io, il sé
stesso e l’uomo nella sua peculiarità di soggetto di diritto nel suo rapportarsi con il sistema
normativo valido in quel luogo e in quel tempo. Il soggetto di diritto che risponde di; per questo
vi è una attenzione al suo io.
Passando dai concetti generali delle scienze ai concetti fondamentali della filosofia del diritto viene
quindi in gioco la centralità dell’io, dunque della libertà, perché l’io ha un rilievo in quanto io
libero, che risponde delle sue condotte. Quindi si coglie che nella filosofia del diritto centrale è
questo riferirsi all’io e a questa concezione della libertà.
Però nella condizione contemporanea, tale concetto principale della filosofia del diritto (che
incontra l’io e la libertà) viene ad essere investito, trasformato dal processo di secolarizzazione del
mondo, ovvero anche i concetti cambiano e subiscono l’evolversi delle condizioni storiche.
Questo processo, nella stessa prospettiva di Nietzsche, viene spiegato nel passaggio da un Dio
creatore alla tecnica degli uomini, cioè un passaggio al dominio della tecnica che diventa
109
tecnologia, ovvero una manipolazione della realtà che incontra secondo una sistemazione
logica, che non è la logica del logos, discorso, ma la logica della manipolazione. Dunque i
concetti giuridici subiscono questo processo di secolarizzazione, segnando il passaggio dalla figura
del Dio creatore al dominio della tecnica, che segna il progressivo trasformarsi dello stesso
concetto di idea in generale, e dell’idea di giustizia in particolare. Ciò che si trasforma è il
concetto di idea in itinerario del procedere occidentale che va da Platone fino alla condizione
contemporanea.
Per questo Heidegger in questi seminari (1937-44) sostiene che l’idea diviene quella condizione
che rende possibile ogni pensare, ogni rappresentare, ogni agire, l’idea diventa dunque
l’essere in quanto tale, intendendo che questo processo (che va da Platone alla situazione
contemporanea) in Nietzsche finisce con il coincidere soltanto con la volontà di potenza.
Dunque l’idea si trasforma in una condizione, in un punto di vista, una prospettiva che rende
possibile questo crescere della volontà di potenza; l’idea non è il luogo della verità, ma
svuotandosi del contenuto della idealità, diventa un apparato logico e strumentale per il
crescere di questa volontà di potenza.
La volontà di potenza trasforma l’idea in un punto di vista, uno strumento logico che consente il
passaggio dall’affermazione di Dio alla formula che Dio è morto, considerando che con tale
passaggio si ha il comunicare che finisce la distinzione fra il sensibile e il sovrasensibile , ovvero
è morto tutto ciò che è sovrasensibile, esiste solo ciò che è sensibile, cioè vive solo ciò che è forte,
vincente. Dunque l’idea diventa ciò che non è vero né falso, ciò che è non è giusto né giusto, non
c’è più un’idea di giustizia. Si è al di là del bene e del giusto.
Si ha così una inversione dei valori proposta con il messaggio: Dio è morto. Con questa
affermazione si dice anche che l’idea di giustizia si è estinta. Si è soltanto nell’ordine del legale
ed il legale è semplicemente ciò che si è trasformato dell’idea, un apparato strumentale
all’accrescimento della volontà che è più potente.
Proprio nell’analizzare queste tesi, sorge la necessità, sollevata soprattutto da Derrida, di un
impegno filosofico di contrasto a questo svuotamento, a questa indifferenza; Derrida ci dice “un
diritto alla filosofia del diritto”, questo perché è necessario un ritornare al riferimento all’io.
Nel processo di globalizzazione, molto invasivo e veloce, è necessaria una attenzione ai concetti
fondamentali della filosofia.
Privilegiando il solo funzionare più ne consegue una indifferenza alla qualità della relazione tra un
soggetto di diritto e un altro soggetto di diritto che chiede che si torni a considerare ciò che è
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proprio dei concetti della filosofia al di là dei concetti della scienza, cioè ciò che comporta il
riferimento all’io, concetto che non si lascia indagare da nessuna scienza. Si fa ingresso nel terreno
della filosofia del diritto e dunque torna questa urgenza speculativa ad incontrare i concetti
fondamentali del pensiero, a non lasciarli svuotare e dominare dai concetti fondamentali della
scienza che si svela avere una essenza tecnica.
Questo ritorno porta anche ad interrogarsi diversamente sul processo di globalizzazione, sugli
accadimenti che appartengono all’affermazione del mercato globale. In tale processo non sono
espulsi i concetti giuridici, i concetti propri della filosofia del diritto: quindi i concetti del rapporto
di sé all’altro, dell’avere una proprietà, la mia proprietà che pone confini al bene per evitarne
l’appropriazione da parte dell’altro. Torna a comparire un interrogarsi sui concetti di ciò che è
proprio, che è mio, di ciò che confina il mio dal tuo, di ciò che separa la proprietà dal semplice uso
indifferenziato e giuridicamente non disciplinato, di ciò che appartiene a nessuno. Si ha nel
processo di globalizzazione il ritorno a concetti centrali del pensiero giuridico, quindi anche della
filosofia del diritto, che mettono in discussione l’io e la libertà. Questo chiarisce il legame tra la
globalizzazione e il processo costante e progressivo che tende a dare una spiegazione scientifica
dell’uomo e della stessa libertà dell’uomo.
Il processo di globalizzazione procede in modo così veloce proprio perché si basa sul
convincimento che si può raggiungere una definitiva spiegazione scientifica dell’uomo e quindi
anche la possibilità di mettere l’uomo in conto, ovvero di considerarlo come una unità di conto:
ciò che può essere spiegato totalmente può essere trattato come un oggetto, può essere posto in un
mercato. Attualmente questa spiegazione scientifica della libertà diventa sempre più invasiva e
rende sempre più esteso il considerare che l’uomo possa essere posto come un oggetto tra gli altri
oggetti e come gli altri oggetti posto nel grande conto, una sorta di sommatoria degli elementi che
costituiscono il sistema del fondamentalismo funzionale.
Dunque la globalizzazione si lega alla spiegazione scientifica dell’uomo, che diventa un bene tra gli
altri beni, valutato come un quantum monetario, circola nei canali mercantili, entra nello stesso
processo di globalizzazione. Però entrando nel processo di globalizzazione, la condizione dell’uomo
così configurata svela che non appartiene né è ciò che costituisce il godimento del singolo uomo;
perché la spiegazione scientifica dell’uomo, che spiega la globalizzazione, non ha una origine
scientifica ma
è extrascientifica.
Cioè il trattare l’uomo come un oggetto, che qualifica la
condizione contemporanea, è qualcosa che non ha origine nell’umanità. E’ un processo che arriva a
considerare l’uomo come un oggetto di scienza, rendendolo in tal modo omogeneo
all’accrescimento della volontà. Si tratta non della volontà esistenziale, ma secondo Nietzsche, è
111
la volontà delle energie dell’uomo,cioè è un processo di tipo biologico. Un uomo è integralmente
spiegato scientificamente.
Ha una ragione dell’interpretarsi dell’uomo, dove l’uomo vuole
conoscere e possedere integralmente se stesso, punta ad avere una padronanza totale del suo
stesso io. Questo voler essere padrone totale di se stesso, volersi integralmente, è il volere inteso
come comando. Essere signore totale del volere comporta anche avere la padronanza totale del
comando e quindi bisognerà cancellare ciò che costituisce un limite a padroneggiare il
comando. Questo limite è la permanenza della soggettività. Finché c’è un io, un uomo, un
soggetto responsabile, giuridicamente imputabile della sua volontà e del comando di questa sua
volontà, si dovrà dire che questo io certo non è totalmente padrone della sua volontà: è padrone
delle scelte che compie nell’ambito di questa sua volontà ma non ne è il padrone assoluto, perché
l’uomo possa porsi in questa condizione (il Super Uomo), ovvero in uno stato di signoria assoluta
della sua volontà, deve anche cancellare il suo essere il soggetto del comando, la sua stessa
soggettività. Finché io devo aver a che fare con il mio io ne sono limitato, perché ne devo tener
conto. Non sono dunque assolutamente signore e padrone di ciò che appartiene all’accrescimento
di una volontà che diventa sempre più potente: per il potenziarsi della volontà, questa deve
eliminare il soggetto che comanda, deve diventare cioè oltre soggettiva. La volontà dovrà essere
questa condizione post umana, che costituisce il crescersi e il potenziarsi della volontà di nessuno,
nel caos della necessità. Per puntare ad una spiegazione scientifica del se stesso l’uomo dovrà
padroneggiare la sua volontà per essere signore scientificamente del suo io, cancellando la sua
soggettività: non avverte più il fare i conti con se stesso. Si afferma la volontà del nessuno nel caos
della necessità.
Nel maturare l’inversione di valori pensata da Nietzsche il comandare consiste pertanto nell’avviare
e marcare l’itinerario dell’oltre soggetto, oggi fattosi concreto nell’uomo post-umanesimo, dove
l’arte è senza artista e la scienza giuridica è senza giurista poiché queste due regioni si sono
strutturate nella progressiva rimozione di una soggettività esercitata da chi risponde-di-a, dunque
pure della soggettività dell’artista, che risponde del bello, e della soggettività del giurista, che
risponde alla ricerca del giusto e del legale. Si assiste ad una inversione del valore del diritto, nel
quale il sistema normativo diventa un sistema immunitario, modellato secondo le operazioni dei
sistemi biologici, in cui l’arte è sostituita dalla tecnica dell’uomo-software.
Scheler: in Nietzsche non ci sono fenomeni morali, ma ci sono soltanto interpretazioni morali di
fenomeni morali. Queste interpretazioni morali di fenomeni morali sono esse stesse extra morali,
ovvero sono soltanto di natura biologica.
112
Non ci sono fenomeni giuridici, ma ci sono soltanto interpretazioni di fenomeni giuridici, e queste
interpretazioni giuridiche di fenomeni giuridici sono esse stesse delle interpretazioni
extragiuridiche, ovvero sono interpretazioni da riferire al nessuno della vita, all’essere uguale
divenire, al caos che si intreccia con la necessità lasciando presentarsi una scienza che si limita alla
constatazione di una combinatoria che non è imputabile ad un singolo e neanche ad un insieme di
singoli, ma è soltanto l’essersi dato di un accadimento invece di un altro accadimento.
113
Lezione 24: 'Inversione dei valori' e 'nichilismo giuridico'
Nell’‘inversione dei valori’ perseguita da Nietzsche, il nichilismo giuridico è la negazione delle
regole che precedono le condotte, perché regola e regolato coincidono ora nell’essere=divenire del
Nulla e dunque il diritto non viene né violato, né rispettato, ma è l’Accadere senza un senso. È
‘giusto’ ciò che ha già fattualmente vinto. Negato il legame tra la verità(logos) e la
giustizia(nomos), le espressioni ‘giusto processo’, ‘gradi di giudizio’, ‘errore giudiziario’, ecc.
perdono ogni significato. La spiegazione scientifica dell’uomo ed il nichilismo ‘perfetto’ si
alimentano reciprocamente e si concretizzano oggi nell’usare il diritto come sistema immunitario
del fondamentalismo funzionale, orientato dal mercato.
Nella descrizione che Nietzsche fa della morte di Dio e quindi dell’”inversione dei valori” (nella
morte di Dio), si apre l’itinerario per una coerente concretizzazione del nichilismo giuridico,
itinerario che muove attraverso una serie di fasi, dove i passaggi centrali sono la negazione della
distinzione tra la regola e del regolato perché nel nichilismo giuridico regola e regolato finiscono
per essere coincidenti. Si afferma il nichilismo ( e quindi non c’è né un perché né uno scopo) ma
c’è soltanto l’essere che è uguale al divenire, anzi uguale al vivere. Ciò proprio perché cade la
distinzione tra regola ed il regolato, distinzione che è esclusiva dell’uomo; nella vita dei non
umani e nel funzionamento delle c.d. macchine intelligenti, non c’è alcuna distinzione tra regola e
regolato, c’è sempre perfetta coincidenza. Il nichilismo giuridico è proprio la negazione di questa
differenza tra regola e regolato, e dunque si è sempre innocenti, si è sempre irresponsabili, a dover
rispondere DI davanti a qualcuno.
Questo negare la differenza tra la regola e il regolato porta al costituirsi di un passaggio
fondamentale, cioè il passaggio dal diritto dell’uomo al diritto nell’uomo. Così come ci sono le
leggi nelle cose ma non ci sono le norme delle cose, così anche nel nichilismo giuridico si ha
soltanto un diritto nell’uomo (ovvero un insieme di operazioni giuridiche che funzionano
nell’uomo) e non il diritto dell’uomo. Il diritto non è il contenuto di ciò che è preteso dal singolo
soggetto, ma è ciò che accade negli uomini. Per questo si ha nichilismo perché si ha soltanto una
constatazione di vicende operazionali, di accadimenti. C’è un darsi di alcune leggi che funzionano
nei viventi e nelle macchine, ma non c’è il diritto dell’uomo, quel diritto che l’uomo pretende
perché nel suo relazionarsi con gli altri permane sempre la scissione tra la regola e il regolato, cioè
tra il principio giuridico che qualifica l’uomo nelle sue condotte e le sue condotte che sono scelte,
definite conformi o no a giustizia, conformi o no ai principi giuridici.
Per Heidegger il capovolgimento dei valori di Nietzsche ha questo ragionamento. Perché i valori
della giustizia, della relazione di riconoscimento, del rispetto giuridico dell’altro, della proprietà
114
dell’altro, che sono sempre comparsi nella storia del pensiero giuridico, dovrebbero continuare ad
esserci? Questi valori, dice Nietzsche, a che cosa servono se non garantiscono la certezza, se non
garantiscono con certezza sia la via sia i mezzi per realizzare ciò che è il loro stesso contenuto. In
fondo questi valori se continuano a permanere nell’ambito della differenza tra la regola e il regolato,
questi valori non hanno mai la certezza della loro realizzazione, rimarrà sempre possibile che si
affermi un valore e che poi il valore così affermato non trovi nessuna certezza, anzi trovi la sua
stessa negazione nella realtà del coesistere degli uomini. Ma se non ha certezza un valore allora
appunto dice Nieztsche a cosa servono i valori? La risposta è che i valori non servono a nulla e
quindi vanno capovolti; il capovolgimento porta a considerare che non c’è più nessuna distinzione
fra scopi e mezzi, fra fini e strumenti, tra la regola ed il regolato. C’è soltanto questa fluidità
dell’accadere degli eventi che interessano la coesistenza degli uomini. I valori sono criticati da
Nietzsche perché nella loro struttura non hanno la certezza del loro concretizzarsi, lasciano sempre
apparire questa scissione fra ciò che è una regola e un principio, e ciò che è l’insieme delle condotte
che ricevono qualificazione da questo principio, ma permanendo questa scissione i valori sono
lasciati a loro stessi, a non potersi realizzare, dunque non garantendo la certezza vanno capovolti. I
valori affermati nella vita concreta del diritto diventano semplicemente una prospettiva, ovvero un
punto di vista; il valore diventa lo stesso identificarsi tra scopo e mezzo, la non scissione tra scopo e
mezzo, il valore diventa il fluire di ciò che si afferma. E ciò che si afferma, una volta che si è
affermato è ciò che è accaduto, ed essendo già accaduto il diritto non ha che da constatarlo,
non ha che da nominarlo. Dunque in questo capovolgimento dei valori il diritto diventa la
legalità, la legalità che è soltanto il mettere in espressioni scritte o orali ciò che è già accaduto;
ciò che ha già vinto, ciò che è certo perché già si è dato. I valori sono pertanto delle prospettive,
degli strumenti, dei punti di vista che si coappartengono al procedere stesso dell’essere uguale al
divenire, sono quei fatti che si sono già dati e che essendosi già dati sono dunque già avvenuti e
quindi si sono già imposti e questo essersi imposti è diventato il contenuto della legalità vigente.
Per quanto riguarda anche i concetti fondamentali che vengono pensati nella filosofia del diritto
contemporaneo si ha un capovolgimento totale del concetto di giustizia: in questa visione la giusti
zia non è più l’insieme dei principi e dei valori che precedono e qualificano le azioni e le condotte
degli uomini al di là del loro avere o non avere successo; la giustizia è l’insieme dei principi e delle
valutazioni che dicono ciò che appartiene al giusto, ciò che appartiene al modello principale della
relazione giuridica giusta che è una relazione di riconoscimento reciproco incondizionato ed
universale, che poi si concretizza nei molti itinerari. La giustizia diventa invece la giustificazione,
ciò che prende atto, osserva quanto è già accaduto. Arriva sempre a cose già fatte. Non si può
115
pretendere la giustizia, ma si può soltanto eseguire ciò che avendo già vinto si è affermato, e viene
constatato e trova una formulazione nelle espressioni costitutive la legalità.
La giustizia non è più quel che precede le condotte e quel che viene dopo i conflitti fra gli
uomini. E’ ciò che giustifica, ovvero esprime in formule, le operazioni che hanno vinto;
attualmente mette in formule ciò che funziona di più. Sono le formule della legalità, che sono
le formule che hanno avuto successo, che funzionano meglio. Siamo nel sistema del
fondamentalismo funzionale. Questo sistema è la cancellazione dei diritti della soggettività, è la
cancellazione dei diritti soggettivi; se la giustizia diventa giustificazione si limita, quindi,
semplicemente a prendere atto di ciò che ha avuto successo, di ciò che è tale perché volta per
volta nella combinatoria dei fatti è riuscito ad emergere con assoluta indifferenza verso un
diritto soggettivo incondizionato e universale appartenente alla struttura dell’uomo in quanto
uomo. Non c’è più in questo passaggio, costituito dall’inversione dei valori e dal trasmutarsi della
giustizia in giustificazione, nessuna possibilità di nominare la garanzia dei diritti soggettivi
dell’uomo in quanto uomo, si danno soltanto strumenti della legalità, ma sono a vantaggio di chi?
Sempre più nella condizione della società contemporanea cresce una civiltà de-soggettivizzata,
senza un volto, senza attenzione alla singolarità alla infungibilità del volto di un singolo; tutto
questo cresce perché il sistema del fondamentalismo funzionale non appartiene ad alcun uomo, non
è nel potere di nessun uomo ma neanche di un gruppo di uomini il sistema del fondamentalismo
funzionale che, sembrerebbe paradossale, è di nessuno, nel senso che non appartiene agli uomini in
quanto uomini; appartiene agli accadimenti che finiscono per usare gli uomini, appartiene a questo
continuo fluire delle vicende dell’essere che è divenuto uguale al divenire, divenire che consuma
tutto ciò che appartiene alla singolarità di ogni soggetto.
Consuma lo stesso concetto di libertà, che finisce per essere cancellato, come dice esplicitamente
Dennett, che riferendosi all’inversione dei valori e alla spiegazione scientifica dell’uomo dice: “ la
libertà è soltanto un vero e proprio museo degli orrori”, un qualcosa che va definitivamente
dimenticato; museo degli orrori in senso logico, perché tutto ciò che è stato nominato con il
termine libertà non è stato spiegato scientificamente; ma una volta ricevuta una spiegazione
scientifica la libertà si spegne, cade, diventa semplicemente una favola che gli uomini hanno
raccontato, ma che ha consumato gli uomini stessi, secondo la prospettiva di Nietzsche. E però
se questa è la condizione contemporanea diventa sempre più difficile riferirsi al fenomeno diritto,
alla sua peculiarità, se non c’è libertà, se la libertà si lascia spiegare, se la libertà è stata una favola
raccontata a vantaggio dell’accrescimento della volontà di volontà. Se ciò è vero allora il diritto
non ha senso di essere, perché senza la struttura esistenziale della libertà mai scientificamente
116
spiegabile, viene meno il momento dell’imputabilità, della responsabilità, viene meno qualsiasi
ragione per entrare in un palazzo di giustizia. Senza libertà non c’è ragione perché un uomo entri
nel palazzo di giustizia e si presenti davanti ad un terzo per attendere un giudizio giuridico, senza
libertà il palazzo di giustizia non è più il luogo dell’arte e dell’interpretazione giuridica, ma diventa
uno spazio dove sistemare disfunzioni fisiologiche relative all’ordine dei sistemi biologici o alcuni
guasti dell’ordine dei sistemi dell’intelligenza artificiale. Si cancella così l’imputabilità e la
responsabilità e in tal modo il diritto: in tal caso però in questo palazzo di giustizia si prende atto
che la libertà è tutt’altra cosa da quella che l’uomo continua a pensare ogni volta che incontra se
stesso o gli altri e mette in discussione la qualità della relazione con gli altri.
Ma se la libertà è spiegata, se il diritto diventa inutile e senza senso, si dimentica, come dice Fabro,
che la libertà per definizione è ciò che non si può anticipare. Non si può ridurre la libertà a
certezza e perdere quindi l’impegno per la libertà. Ridurre la libertà a un processo certo è trovarsi
davanti all’insignificanza della libertà. Che la libertà non si può anticipare significa che la
libertà non può essere posta in un sistema di tipo funzionale. Nella condizione contemporanea
significa che la libertà non può essere posta in uno dei sistemi funzionali che sono gerarchizzati dal
sistema mercato, che funziona perché è il luogo della produzione del consumatore, che
costituisce una modalità di anticipare la libertà; intanto il mercato è il sistema che domina gli altri
sistemi sociali perché è quel sistema dove si produce la figura del consumatore, che è un modo di
produrre la libertà, e in questo senso la libertà si lascia pertanto anticipare e lasciandosi anticipare
non ha niente a che vedere con la libertà, perché viene ridotta a certezza da una programmazione
volta appunto a produrre la figura del consumatore (libertà ridotta a certezza delle operazioni
produttive).
La libertà che riguarda il diritto è il trovarsi sospesi davanti al dire sì o no, è il trovarsi non
anticipabile nello scegliere una condotta invece di un’altra, nel compiere con lealtà il formarsi
di una convenzione tra gli uomini oppure l’essere sleali nel formarsi di un convenire tra gli
uomini. ma in queste alternative è in gioco ciò che non si lascia anticipare, cioè l’oscillare tra la
verità e la falsità. La libertà divenuta anticipabile – uno tra gli elementi che servono ad una efficace
produzione del consumatore - serve a questa nuova figura di uomo emergente, che nella stessa
direzione di Dennett, viene descritto come un informivoro biologico, cioè un informivero più
rispetto a tutti gli altri informivori biologici; tutti gli animali nella loro struttura sono caratterizzati
dall’essere degli enti informivori, ovvero dall’assimilare delle informazioni. A differenza degli enti
non umani, l’uomo sarebbe un vivente più sviluppato, un informivero più, un ente con una struttura
informazionale più efficiente, più funzionale, più accresciuta. Però in questo spazio dove risiede
117
l’uomo come ente informivero cade anche la progressiva assimilazione dell’uomo verso gli altri enti
informivori, in particolare verso gli infoggetti, ovvero le macchine intelligenti, anch’esse fuori dalla
libertà.
Il giudizio può essere emesso soltanto da un uomo perché solo l’uomo può incontrare la soggettività
di un altro uomo, solo l’uomo può cogliere gli elementi essenziali dell’uomo che lo costituiscono
nell’esercizio della sua libertà e quindi a lui imputabile.
Però nella condizione contemporanea si scivola in questo momento centrale della libertà che è il
momento iniziante il diritto, iniziante l’intera vicenda della giuridicità.
Non a caso Nancy, nella sua opera “L’esperienza della libertà”, dice che la libertà è senza un chi,
forse è nient’altro che una entità informivora, più complessa di altre entità informivore come ad
esempio le entità dei viventi non umani. La libertà non è regolata da alcuna legislazione, non si
basa sul alcun diritto, ma semplicemente è questa forma di evento che è un diritto senza diritto, per
cui occorre intendere la libertà come fatto. La libertà è la pretesa funzionale propria dei sistemi
biologici e macchinali, a funzionare più, pretesa però non disciplinata.
Non c’è un diritto a
selezionare quali siano i contenuti di questa pretesa giuridica, di quando si pretende la garanzia
giuridica della libertà: la libertà non è altro che un fatto, distaccato anche dal proprio stesso evento,
non la si può fissare in nessun accadimento. “La libertà è il taglio nel tempo, è il salto nel tempo.”
La libertà è questa sorta di miraggio, che compare senza uno scopo, senza un perché, è ciò, come
diceva già Nietzsche e poi Heidegger, che si dà nella combinatoria tra il caos e la contingenza della
necessità, ovvero delle cause. Quando si combina ciò che è occasionale e ciò che è necessario, non
c’è nulla cha abbia una ragione. Perché caos e contingenza svuotano ogni ragione: tutto accade
senza uno scopo, senza un perché, si dà perché di fatto accade. La libertà sarebbe allora nient’altro
che questo darsi di un evento che si stacca anche dal suo stesso avvenire dal suo stesso accadere. Si
apre un itinerario senza uno scopo verso un altro possibile accadimento: cioè si afferma la fine
della questione del senso.
Rimane una utilizzazione del termine senso che si riferisce al sistema del fondamentalismo
funzionale, laddove ciò che accade avviene dal porre in essere un insieme ma senza alcun
riferimento responsabile e giuridicamente imputabile ad alcuna libertà, quando si dice tutto questo
si dice, certo, che è un funzionamento di un senso, nel senso che funziona un assemblaggio di
accadimenti, funziona un combinarsi di insiemi di elementi. Ma che si dia un funzionamento di un
senso non significa che abbia un qualche senso il funzionamento. Il diritto non ha dunque come
sistema nessun senso, ma c’è solamente il funzionamento del senso delle operazioni giuridiche,
ovvero dell’efficacia del funzionare delle operazioni che appartengono all’ordine del legale, ma
118
manca alcun interrogativo sul senso del funzionamento del legale, su ciò che è giusto nel
funzionamento del legale.
Si afferma quindi quello che è già anticipato profeticamente nella filosofia di Nietzsche, ossia
volere è voler essere signore. Il volere vuole solo il suo volere, …..vuole il suo volere più
forte…, vuole soltanto potenza, ma la potenza è potenza solo fin quando è concepita nella
esclusiva direzione dell’accrescimento della potenza stessa. E dunque rimane soltanto questa
celebrazione di un volere di un’efficienza, che però non possono appartenere a nessuno, non
possono essere tali da poter essere riferiti ad una libertà, perché se fossero riferite – la potenza e il
volere – ad una libertà sarebbero riferite ad un soggetto, ma se fossero riferite ad un soggetto
sarebbero riferite ad una entità che dura, perché il soggetto dura, ma se il soggetto dura è un
ostacolo all’accrescimento assoluto della volontà, il soggetto e lo stesso io si deve spegnere, deve
lasciare spazio negando la stessa struttura dell’io all’insieme degli accadimenti che attraversano la
condizione umana.
Non dunque il diritto dell’uomo inteso come il diritto del soggetto, ma il legale nell’uomo avvero
l’accadere dell’insieme delle operazioni giuridiche che si servono dell’uomo come uno spazio dove
poter trovare la loro realtà.
Si torna così all’affermazione centrale della lettura del nichilismo giuridico, lettura rivolta alla
descrizione della condizione contemporanea, dove si afferma il sistema del fondamentalismo
funzionale che pretende che la funzione della funzione è la funzione (Luhmann): quindi nessuna
attenzione può essere data ai diritti incondizionati dell’uomo, nessuna garanzia può essere data alla
libertà del singolo che entra in contatto con la libertà di altri singoli. Si possono dare soltanto nomi
giuridici, strumentazioni legali, strutturate in forma logico formale, che possano servire come
condizioni di accrescimento e di potenziamento del funzionare più, che però non appartiene a
qualcuno, ma è di nessuno. In questa prospettiva si ha il passaggio dal diritto dell’uomo, che è di
qualcuno, al diritto nell’uomo, che è di nessuno. Si ha la teorizzazione del nichilismo giuridico
perfetto; si ha il compimento del nichilismo giuridico perfetto nelle modalità attuali del
fondamentalismo funzionale (ovviamente non presenti ai tempi di Nietzsche).
La negazione della soggettività e lo svuotamento della questione del senso costituiscono la tesi
principale di questo studio: la spiegazione scientifica dell’uomo (neurobiologia-intelligenza
artificiale) ed il nichilismo (libertà=nulla di senso) si concretizzano attualmente nel nichilismo
giuridico perfetto, che usa il diritto come apparato immunitario del fondamentalismo funzionale,
circolarmente effeto e causa del Mercato=potere.
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120
Lezione 25: La funzione del diritto come sistema: il self-service del diritto
Nella situazione contemporanea, la forza più si specifica nel funzionare più ed i nuovi valori, che
Nietzsche ‘inverte’, diventano quelli che consistono solo nel successo contingente necessario della
loro concretizzazione sistemico funzionale. Questo esito trova espressione nella tesi di Luhmann ‘la
funzione della funzione è la funzione’, che nientifica la prospettiva del pensiero, connessa al libero
donare perché consiste nel prendersi, con gli altri, un gratuito, disfunzionale intervallo di senso,
creativo e non producibile nel mercato. Attualmente nel funzionare più dei canali mercantili viene
esposto anche il self service di un diritto prodotto e consumato tra le merci post umane del
nichilismo ‘perfetto’.
L’interpretazione filosofica del diritto è un lavoro che per un verso coglie gli aspetti peculiari di
questo fenomeno, che sono elementi che non hanno una struttura storica, ovvero sono degli
elementi che fenomenologicamente distinguono il fenomeno diritto dagli altri fenomeni. Dall’altro
verso questa opera di interpretazione filosofica del diritto coglie questo fenomeno, avendone
descritto gli elementi che lo differenziano dagli altri fenomeni, lo coglie nella sua storicità, ovvero
nomina il diritto avendo attenzione a che ne è della giuridicità nella condizione storica
contemporanea.
Proprio nell’attenzione alla contemporaneità si coglie questa tendenza a che il pensiero giuridico
diventi sempre più soltanto un pensiero funzionale: emerge la funzionalità nel pensiero giuridico
e perde quei caratteri che sono propri del pensiero in generale.
Il filosofo contemporaneo francese Nancy ricorda che il pensiero ha sempre una struttura che è
quella della gratuità donativa. Il pensiero, essendo nel suo sorgere legato alla ricerca del senso è
anche connesso a donare quel che è il risultato, a donare la presentazione della ricerca del senso.
Il pensiero giuridico ha questa struttura donativa; attualmente vi è invece la tendenza a rimuovere
la gratuità del pensiero perché si afferma la dimensione funzionale della giuridicità. Il diritto
non viene più proposto nella struttura che appartiene e che distingue il pensiero, ma viene proposto
in una sorta di self service normativo, laddove in quella singola contingenza storica si prendono
gli elementi che servono per far funzionare meglio la realtà, l’insieme delle operazioni
giuridiche.
Questa caduta del donare del pensiero nel self-service normativo torna a far emergere la
opportunità di ripensare quel che lega la verità e l’arte nel diritto.
121
Nel lavoro di Heidegger (seminari del 37 e del 44) sull’interpretazione di Nietzsche, si rileva come
la verità e l’arte siano i valori più alti perché servono al mantenimento del continuo
accrescersi della stessa volontà di potenza. L’arte apre all’uomo la possibilità di
accrescimento della vita – così dice Heidegger leggendo Nietzsche – l’arte avrebbe una capacità
esclusiva di schiudere all’uomo un accrescimento dell’intensità della vita; dunque sarebbe l’arte
un valore più alto della verità.
Perché la verità si limiterebbe a dire quella che è una
condizione statica della vita, mentre l’arte aprirebbe itinerari altri, dei cammini che
consentirebbero di accrescere la dimensione più vitale della vita, al di la del semplice enunciare
statico di quello che è la vita.
Ed è per questo che lo stesso Nietzsche finisce per dire che noi abbiamo l’arte per non perire a
causa della verità. Dice Nietzsche che gli uomini si giovano dell’arte per non perire a causa della
verità, ovvero per non spegnersi nel ripetere ciò che la verità enuncia. L’arte sarebbe questo oltre
rispetto alla libertà, perché in grado di liberare delle forze essenziali che permettono di schiudere
nuovi cammini, intraprendendo l’apertura alla sensibilità, all’ebbrezza, alla sovrabbondanza
animale. Sono queste tre chiavi che permetto no di liberare delle forze che vanno oltre la semplice
staticità di ciò che è vero.
L’eccedere dell’arte rispetto alla libertà porta ad avere una sorta di continuo riprodursi di strumenti
che servono ai cammini dell’arte, e per tale via ad aprire un potenziarsi del vivere che è il terreno
dove la volontà riesce a diventare più forte: l’arte aprirebbe l’equivalenza tra il vivere e una volontà
che accresce la sua stessa potenza. Ma in questo itinerario l’arte finisce per dimenticare quel che
sarebbe del soggetto dell’arte, si comincia cioè ad affermare, nella direzione di Nietzsche un’arte
senza artista, che serve ad accrescere la potenza stessa della volontà senza avere riguardo alla
creatività del singolo artista, alla soggettività di quel singolo uomo che ricerca la creazione di senso
e così attiva l’opera che è peculiare dell’arte.
Ma attualmente l’arte non serve solo ad accrescere la potenza della volontà, attualmente l’arte si
macchinalizza, perde la sua struttura creativa ed acquista una struttura strumentale, l’arte serve a
potenziare non tanto ciò che ha più vita ma a potenziare ciò che funziona in modo più forte.
Serve a far crescere il sistema del fondamentalismo funzionale, che tutto ingloba, che tutto
gerarchizza.
Nel procedere oggettivante delle tecno scienze si dei programmi che producono altri
programmi, che accadono nelle c.d. macchine intelligenti, che sono indifferenti alla presenza
di un soggetto ovvero di un autore, che sono indifferenti alla presenza di un chi di un uomo
che sia colui che ne produce la scelta, i programmi che producono programmi non
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appartengono a nessuno, appartengono a questa civiltà che è sempre più una società senza
volto. Ma questi programmi sono il modello che rappresenta il riferimento delle diverse scienze,
che si preoccupano di un funzionamento più efficace ma non si interrogano più sul senso del
funzionamento: così cresce la biologia, come una delle tecno-scienze, e con il crescere di tale
scienza non ci si interroga più sul senso della vita, in quanto la biologia si confina nel descrivere i
fenomeni vitali ma certo non si dà delle domande sul senso della vita, perché solo chiudendosi alle
domande sul senso della vita può crescere come una delle tante scienze che sono al servizio del
fondamentalismo funzionale. La stessa scienza giuridica non si interroga sul senso del diritto,
continua ad avere a che fare con la verità e la giuridicità, che però diventano strumenti, modalità
tecno-funzionali di ciò che serve al funzionamento efficace delle operazioni giuridiche ma non si
apre alcuna domanda sul senso del diritto.
Dunque, così come aveva profetizzato Nietzsche, il diritto diventa un’arte senza giurista, che è
un’arte senza artista, perché la permanenza di un artista costituirebbe un limite in questo
progressivo tendere al potenziarsi della volontà di volontà, sarebbe un confine, sarebbe un
fissare una durata e dunque un ostacolo all’accrescimento inesauribile senza autore, senza
volto della stessa volontà di potenza.
Così come un’arte senza artista serve ad accrescere la volontà di volontà, così parimenti si ha una
scienza giuridica senza giurista. Perché la permanenza di un giurista significherebbe la
permanenza di una soggettività e la soggettività ha come sua struttura temporale la durata.
Ma ciò che dura ostacola il divenire inesauribile, il divenire che è uguale all’essere. La
permanenza di un giurista significherebbe la permanenza di una soggettività che si pone
domande sul senso del diritto, ostacolando in tal modo questo accrescimento del potere, della
volontà di potenza che non appartiene a nessuno: né ai soggetti di diritto né ai giuristi in quanto
soggetti. Si accresce questa potenza della volontà giovandosi anche della scienza giuridica, avendo
però spogliato la scienza giuridica sia del giurista, che ha una sua soggettività, sia di un riferimento
ai soggetti di diritto, cioè agli uomini in quanto portatori di diritti che sono incondizionati. Si
avrebbe soltanto un crescere dei fatti vincenti, ovvero si avrebbe una compiuta inversione dei
valori. Nella costruzione di Nietzsche i valori classici sono stati cancellati, perché non garantivano
la certezza della loro realizzazione, si misuravano sempre poi con la risposta della libertà dell’uomo
in termini di loro realizzazione o meno. E’ per questo Nietzsche l’inverte, perché ciò che ora
costituisce il valore è l’affermarsi stesso di ciò che accade, che accade perché selettivamente
emerge nel suo essere portatore di una capacità e di un funzionamento più efficace.
123
Dunque l’arte diventa l’arte senza artista che prepara il modello di una scienza giuridica
senza giurista, scienza dove emerge la nuova figura del tecnico delle norme che viene a
sostituirsi al giurista.
Nella scienza giuridica del sistema del fondamentalismo funzionale, nell’inversione dei valori
classici, viene cancellato anche il concetto fondamentale del diritto che è la terzietà. La terzietà
è imparziale, è disinteressata e quindi non è neanche dalla parte del funzionare più efficace dei
molti sistemi sociali. Essendo imparziale e disinteressata non è al servizio del sistema oggi
dominante che è quello economico e del mercato, che a sua volta si inscrive nel sistema del
fondamentalismo funzionale. La terzietà non è un apparato al servizio del funzionare più efficace.
La terzietà dice la connessione tra la verità e la giustizia garantendo il rispetto dei soggetti delle
relazioni giuridiche, perché custodisce i soggetti del diritto nel loro non essere riducibili a delle
unità di conto, così come invece chiede il sistema del mercato e il sistema del fondamentalismo
funzionale.
Invece, come già anticipato da Nietzsche, apparterrà alla giustizia, divenuta una giustificazione e
semplicemente lo stare a vedere ciò che si afferma nei fatti, il trattare ciò che incontra nella scala
dei numeri e delle misure svuotando l’uomo della sua soggettività. Nella profezia di Nietzsche si
dice che il diritto diverrà un bio-diritto, modellato dai sistemi biologici. Attualmente il bio-diritto
è sempre più ibridato con i sistemi dell’intelligenza artificiale, e in questo processo ibridativo il biodiritto diventa un diritto bio-informazionale, ovvero un diritto che ha una componente modellata
nell’ordine biologico ed una componente che è modellata nell’ordine informazionale tipico
dell’intelligenza artificiale. Ma entrambi i due piani, del biologico e dell’informazionale, sono dei
piani dove dell’uomo tutto si lascia ridurre in un quantum, tutto si lascia numerare, tutto si lascia
essere in un sistema di funzione dove il diritto è un self service posto in un linguaggio di tipo
numerico, perché prende ciò che nella riduzione alla strumentalità del diritto serve a
potenziare il sistema del fondamentalismo funzionale.
In un linguaggio di tipo numerico non c’è spazio più per il silenzio, dopo un numero ne viene subito
un altro, non c’è spazio per nessuna riflessione. Nel linguaggio numerico digitale non c’è margine
per l’attesa creativa che è propria del soggetto parlante, cioè l’attesa che appartiene al silenzio,
perché nel silenzio c’è una crescita della ricerca del senso. Ma il silenzio non si dà in nessuna
successione numerica, vi è una continuazione senza intervalli, senza silenzi e quindi si ha assenza
della stessa libertà, perché la libertà sorge proprio in questo intervallo del silenzio, dove il
silenzio si pone la questione del dubbio e del domandarsi perché in modo diverso sceglierà poi
come orientare le sue condotte. Sceglierà come mettere insieme con gli altri una formazione di
124
coesistenza che sarà ambientata nelle istituzioni giuridiche: le istituzioni giuridiche nascono da
questo silenzio, da questo intervallo che è assente nei linguaggi numerici di ogni genere, ed è
assente nel linguaggio numerico digitale dell’intelligenza artificiale. Nello spazio del silenzio nasce
l’opera dell’istituire, che abbia vita la seconda vita, che è una vita al di là di ciò che vive nell’ordine
del biologico non umano e di ciò che funziona nell’ordine macchinale trattato dall’intelligenza
artificiale. Istituire una seconda vita è istituire la vita del diritto, che è principalmente ciò che
conferisce un senso alle aspettative e alla ricerca della significatività del futuro.
Nella tendenza contemporanea il valore del diritto è situato nella struttura del mercato dei prezzi,
configurato da una dimensione del quantum, dove ciò che ha un senso (in senso solo funzionale e
non esistenziale) è la dimensione procedurale del diritto. A differenza della dimensione selettiva
dei contenuti, a differenza dell’arte della ragione giuridica che è preoccupata di incontrare la qualità
delle relazioni degli uomini (sempre esposta fra questi due poli fondamentali in opposizione che
sono il rispetto verso l’altro o la violenza verso l’altro) , la dimensione procedurale non si occupa
della qualità della selezione dei contenuti, di ciò che disciplina la relazione tra i soggetti, ma
interviene come un insieme di strumenti, come ciò che si può prelevare da questo self service
normativo per far funzionare in modo più efficace le operazioni dei molti sistemi di funzione. Si
tralascia quindi la dimensione sostanziale legata all’esistenza del soggetto di diritto, l’elemento
costitutivo della polis, nel concetto greco iniziale, definito da Fink il luogo del sapere discorsivo,
di un linguaggio che si mantiene sempre nella trialità del discorso, di un discorso dove ogni parlante
è garantito nel suo poter prendere una parola che è originale e creativa. Ma questa dimensione della
polis come luogo del sapere che custodisce la trialità della discorsività comunicativa, si allontana
sempre più dalla struttura contemporanea per lasciare emergere invece la dimensione della scienza
giuridica senza giurista, dove è assente il giurista uomo, che è impegnato nella argomentazione e
nella interpretazione che si radicano nella trialità dell’uomo sempre certo avendo attenzione alla
terzietà del nomos.
La scienza giuridica diventa scienza giuridica senza giurista e dove ha rilievo solo il polo del legale
opposto al polo del non legale: il diritto diventa un self-service normativo, dove volta per volta si
usano gli strumenti del legale che servono a far funzionare in modo più efficace le operazioni dei
molti sistemi sociali, il tutto nella indifferenza per il costo esistenziale del successo delle operazioni
dei molti sistemi sociali (senza avere attenzione ai diritti dell’infanzia, senza alcun riferimento in
questo sistema mercantile al darsi o non darsi dei diritti dell’uomo che nella globalizzazione del
mercato diventa un disturbo, solo un rallentamento alla velocità degli scambi). Il diritto finisce però
per essere al servizio dei sistemi senza alcun riferimento alla soggettività degli uomini.
125
Tutto questo non vuol dire che si deve dire no alla scienza e alla tecnica nella critica al sistema del
fondamentalismo funzionale, ma la domanda che si deve porre il filosofo riguarda il rapporto con le
norme giuridiche che garantiscono la qualità della relazione tra gli uomini che non si lasciano
semplicemente servire il sistema del fondamentalismo funzionale. Si deve certamente dire sì alla
tecnica, alla tecnologia, alle scienze, al progresso scientifico e tecnologico, ai sistemi informatici,
all’intelligenza artificiale, se questo insieme di elementi, di apparati cognitivi, scientifici e tecnici
siano asserviti alla non assoggettabilità dell’uomo ad un semplice funzionamento tecno-scientifico.
La giustizia non può servire semplicemente alla sicurezza e certezza del funzionamento del
mercato o del fondamentalismo funzionale.
La giustizia deve essere orientata a custodire l’uomo nella sua irriducibilità ad essere una
merce tra le altre, ad essere un oggetto usato e consumato come gli altri oggetti. Uomo
pensatore e non uomo semplice consumatore. L’antropologia attualmente respirata nella
cultura contemporanea è quella che si regge in questa formula: “emo ergo sum”, ovvero
compro dunque sono, non si tratta più di dire con Cartesi “cogito ergo sum” (penso dunque
sono), ma si tratta ormai di praticare nell’assenza di qualunque valutazione della soggettività,
che ognuno è soltanto se compra, se si lascia plasmare dall’attività produttiva che
costantemente configura l’uomo semplicemente come un consumatore giovandosi del diritto
come un semplice self service normativo indifferente agli interrogativi sul senso esistenziale
dell’uomo.
Trascurata la priorità del giusto/non giusto a favore del legale/non legale, quello che opera è il
tecnico delle norme, non più giurista e non ancora software. Non è più giurista perché non compie
una opera d’arte secondo i concetti fondamentali del pensiero, che enunciano e discutono il
rapporto dell’uomo verso le forme storiche del diritto positivo, interrogandosi sul giusto. Non è
ancora software perché continua a ragionare con i concetti fondamentali delle teorie del reale e
quindi non è ancora configurato dalla dimensione del linguaggio numerico digitale. E’ una
intelligenza a-giuridica, come lo è la prassi del tecnico delle norme, che troverà il suo compimento
quando diverrà un software.
126
Lezione 26: La libertà del soggetto di diritto, oltre gli enunciati della legalità
I concetti giuridici fondamentali di ‘giusto’ ed ‘ingiusto’ non coincidono con quelli di ‘verificato’ e
‘non verificato’, usati nelle tecno scienze. Il temine ‘giusto’ nomina una qualificazione del
relazionarsi che rimane sottratta ai modelli conoscitivi dei processi vitali; impegna l’arte del
giurista, oltre la tecnica dei ‘sistemi di funzione’. La libertà del soggetto di diritto è considerata
dalla giustizia che eccede gli enunciati della legalità; la libertà non è una operazione
scientificamente ‘verificata’ riducibile in un accadimento bio macchinale ‘innocente’, privo di
pathos e senza un ‘sé’ imputabile davanti al terzo Altro; neppure è un ‘valore sintomo’ dei sistemi
vitali che eseguono leggi, ma non esercitano la pretesa di diritti.
Nella scienza giuridica diritto e verità sono concetti fondamentali che, letti nella direzione di
Nietzsche diventano valori capovolti, ovvero punti di vista, funzioni della conservazione di uno
stadio della vita-forza, destinato all’accrescimento della volontà di potenza nel suo
divenire=essere=vivere.
La discussione sull’arte e il diritto comporta un inevitabile riferimento al rapporto tra la tecnica e
il diritto e questo perché i concetti giuridici fondamentali di giusto ed ingiusto, che non sono
ineliminabili nel lessico giuridico né nella dottrina del diritto né nella esperienza quotidiana della
giuridicità, non coincidono mai con quelli di ‘verificato’ e ‘non verificato’, usati nelle tecno
scienze (Scheler).
Ciò che non è verificato è detto tale perché tecnicamente, sperimentalmente non è verificato.
I concetti di giusto ed ingiusto si radicano, si alimentano costantemente alla dimensione della
libertà, che non è una operazione che può essere verificata in modo scientifico. La libertà non
può essere incontrata da nessuna tecnica che la possa quantificare e trattare come si trattano gli altri
oggetti manipolati dalle tecniche, ma la libertà chiede la dimensione propria dell’arte; l’arte è
evocante, dice al di là di ciò che dice. L’arte dunque incontra la libertà, che è sempre sia la libertà
che si manifesta, ma sempre simultaneamente è anche la possibilità che la libertà così come si
manifesta possa essere orientata a situarsi in un futuro che ha una configurazione diversa: la libertà
così come viene esercitata nel presente è sempre incontrata dal soggetto che la esercita nel
significato che questo soggetto vorrà darle nel futuro. La libertà è ciò che si manifesta ma
simultaneamente è anche ciò che può situarsi in un futuro che ne dia una configurazione diversa. E
dunque essendo la libertà situata sempre principalmente in questa dimensione del futuro non può
127
coincidere con ciò che è verificabile o non verificabile, perché il futuro è tale in quanto non si lascia
anticipare. Il futuro della libertà non è qualche cosa che ancora non si conosce e che forse una
attività cognitiva di tipo tecnico o scientifico potrebbe completamente esaurire portandolo ad un
sapere totale: la libertà è ciò che si sottrae ad ogni sapere anticipatorio, è ciò che costruisce una
dimensione originale, creativamente nuova e solo per questo la libertà ha un rilievo giuridico, solo
per questo la libertà, nel suo essere non anticipabile, consente di nominare i concetti di
responsabilità e di imputabilità.
Si deve allora tornare ancora - discutendo come i concetti di giusto e non giusto non siano riducibili
ai concetti di verificato e non verificato e come non siano quindi semplicemente riducibili agli
enunciati che si lasciano verificare nell’ordine della legalità - a questa affermazione di Heidegger:
nella scienza giuridica diritto e verità sono concetti fondamentali.
Diritto e verità sono concetti fondamentali perché fanno riferimento a dei valori, che impegnano la
esistenza del singolo, la dimensione esistenziale del se stesso e dunque si sottraggono i valori ad
ogni verifica di tipo tecno-scientifico, non c’è nessun laboratorio che possa pronunciarsi sulla
consistenza tecno-scientifica dei un valore, non ci sono operazioni di tipo statistico o numerico che
possano pronunciarsi sui valori.
Come dice Scheler, “i valori non sono il prodotto dell’intelletto”, così come non sono prodotto
dell’intelletto neanche i principi della logica, quale il principio di non contraddizione, che consente
una comunicazione tra i soggetti parlanti ed evita di dare semplicemente corso a delle fughe di idee
prive di una coerenza logica. Non sono prodotto dell’intelletto i valori che sono i riferimenti
selettivi per nominare ciò che appartiene al diritto dell’uomo e per nominare ciò che è
estraneo al diritto dell’uomo. I valori non sono dei prodotti che possono risultare da un’attività
costruttiva del fare dell’uomo, non sono i risultati della prassi dell’uomo, ma sono ciò che orientano
e qualificano sia la produzione sia la prassi degli uomini.
Sempre Scheler continua: se non si conoscono valori più elevati di quelli biologici si deve allora
caratterizzare l’uomo - con o senza civiltà - come l’animale che si è ammalato. Quindi il pensiero
dell’uomo e quindi anche lo stesso pensiero giuridico si rivelerebbe essere – conclude Scheler –
nient’altro che una manifestazione di questa malattia. Ciò perché quello che differenzia l’uomo
dall’animale è il porsi il dubbio, il porsi la questione, il questionare, l’interrogarsi. Per quel che
attiene appunto al diritto, è il questionare su quali siano i contenuti che possano essere fatti
appartenere alla vita delle istituzioni giuridiche, ovvero a questa seconda vita cui costantemente la
coesistenza degli uomini dà linfa, dà consistenza. Per una visione biologistica, il dubbio,
l’interrogarsi sul senso, ma anche per una visione di tipo macchinale, il dubbio e l’interrogativo
128
sarebbero una condizione di cattivo funzionamento, un ostacolo alla certezza e all’efficacia del
funzionare, perché il dubbio lascerebbe apparire una domanda che porrebbe in discussione questo
accrescimento costante delle funzioni dei molti sistemi sociali.
Attualmente nei sistemi sociali – essendo tutti modelli governati dal sistema del fondamentalismo
funzionale - comanda ciò che vince in questo ordine bio-informazionale, comanda ciò che vince
perché ha più forza. La tecnica vuole dominare i fenomeni che incontra, per trattarli come
materiale del suo stesso accrescimento per un migliore funzionamento; l’arte li vuole interpretare,
per mostrarne il senso che si schiude, per aprire rinvii ad altre possibili creazioni di senso.
Dunque l’alternativa è tra tecnica e arte del diritto, tra una tecnica che incontra l’uomo per
dominarlo come uno tra i molti elementi dei materiali che vengono elaborati tecnicamente in
opposizione all’arte che incontra invece l’uomo nello schiudersi della sua soggettività aperta
ad un futuro che non si lascia anticipare, il futuro del costante istituire un senso nuovo, di un
interrogarsi nel cercare il senso del diritto.
Ma il senso del diritto si spegne e si afferma soltanto l’operatività funzionale delle norme, si spegne
quindi il concetto di differenza nomologica che tiene insieme il senso del diritto e l’attività
cognitiva delle norme: questa struttura che lega norma e diritto si spegne perché nominando il
diritto si torna a nominare inevitabilmente la questione del senso, mentre la questione del senso
disturba l’efficienza tecnica che non consente intervalli questionanti dove si possano aprire degli
interrogativi, ma chiede sempre questo succedersi continuo di un operazione dopo un'altra nel
lasciare ciò che funzione di più.
Nietzsche aveva intuito questo cadere dell’arte verso la tecnica, lasciando intravvedere il darsi di
un’arte senza artista, che finisce per coincidere con ciò che accade senza la soggettività evocante
dell’artista, dell’autore dell’opera d’arte. Oggi lasciare accadere ciò che accade è quanto appartiene
allo scorrere del funzionamento dei fenomeni vitali, bio- macchinali, sempre più risultanti dalla
ibridazione tra i sistemi biologici e i sistemi informatici, che lasciano apparire il diritto come un
sistema di norme strutturato secondo un modello bio-informazionale.
Come conseguenza parallela all’arte senza artista, una scienza giuridica senza giurista.
Jaspers dice che Nietzsche trova in tutti i fenomeni – quindi anche in quelli giuridici - quale
fondamento ultimo, la volontà di potenza, e tutte le volte che perviene al fondamento delle cose –
che spiegherebbe tutto ciò che accade nel mondo - questo non sarebbe nient’altro che questo
accrescimento della volontà vitale nella molteplicità delle sue forme, sarebbe nient’altro che
l’accrescimento di ciò che si manifesta essere più rispetto a ciò che si manifesta essere meno.
129
Ma in questo itinerario la libertà è destinata ad essere lasciata fuori, ad essere svuotata, perché la
libertà è disfunzionale, la libertà è gratuita, non viene esercitata per un qualcosa, non ha un
prezzo, non rientra in questa filosofia dell’emo ergo sum. La libertà è tale perché dice no all’uomo
come semplice acquirente di merci, mostrando di prendere distanza dai semplici sistemi di
funzione, dal semplice accadere nell’ordine biologico o nell’ordine bioinformazionale.
Nella cultura contemporanea il riferimento è a Nancy, che evidenzia la attuale tendenza ad una
trasformazione radicale del concetto di libertà ed anche quindi del diritto. Significativa è la
definizione che dà Nancy della libertà nella traduzione italiana del suo libro “L’esperienza della
libertà”, dove dice:“la libertà si precede e si succede, la libertà si sorprende.” Vuol dire che la
libertà è semplicemente questo accadere di qualcosa che acquista i tratti delle condotte
umane, ma che non appartiene ad uno scegliersi dell’uomo, quindi dove non risulta
giuridicamente responsabile, imputabile giuridicamente.
Se la libertà è soltanto questo sorprendersi, questo trovarsi in uno spazio discontinuante, questo
trovarsi in uno spazio libero, allora la libertà non lascia molto spazio al darsi del diritto. La libertà
coincide con la condizione di innocenza dell’uomo, coincide con un vagabondare del soggetto che è
irresponsabile. Se la libertà è soltanto questo trovarsi in spazi nuovi, e detti impropriamente liberi,
ma che non hanno a monte alcuna scelta, se la libertà è soltanto questo la libertà non lascia spazio
per il darsi neppure per una scienza del diritto, certo neppure di una filosofia del diritto. Questa
libertà avrebbe a che fare con un completo trasformarsi del concetto di decisione. La libertà ha un
rilievo per la giuridicità perché con il nominare del concetto di libertà si fa riferimento essenziale al
nominare il concetto di decisione, di cui si risponde davanti all’altro e davanti al terzo giudice.
Ma con il trasformarsi della libertà si arriva allo svuotamento della decisione.
Per Nancy invece la decisione non è la scelta di una condotta di vita, ma è invece l’accesso al
lasciar essere. Lasciar essere è ciò che accade, non chiedendosi neppure se la libertà consiste in una
decisione che a sua volta si concretizza in un semplice lasciar essere, una decisione che non si
chiede che significa, non si ha alcuna questione, neppure che cosa significhi rispettare gli altri o
rispettare se stessi. Se la trasformazione della libertà porta allo svuotamento della decisione non
lasciandola essere ciò che nel pensiero classico si è sempre detto, ovvero una scelta responsabile di
cui si risponde, non c’è altra possibilità che lo stare a vedere ciò che accade: ma nello stare a
vedere ciò che accade non ci sono più domande su diritti e su doveri. C’è soltanto il prendere
atto di che volta per volta si viene affermando. E prendendo atto di ciò che si viene affermando
si prende atto che oggi si afferma con forza sempre maggiore il sistema del fondamentalismo
funzionale, che non lascia nessun margine a questioni che si possano interrogare sulla qualità del
130
rispetto degli altri, su che significa rispettare se stessi, su che significhi affermare alcuni diritto e
alcuni doveri, il sistema del fondamentalismo funzionale tratta tutti questi concetti solo come degli
strumenti, delle tecniche, mai più avvicinati dall’arte dalla ragione del giurista (artista della
ragione), ma semplicemente manipolati da una tecnica che tratta questi concetti perché possa essere
maggiormente funzionale questo sistema del fondamentalismo delle funzioni perché in estrema
sintesi si possa affermare, come già detto da Lhumann, che la funzione della funzione è soltanto la
funzione: cioè l’unico metro consiste nel semplice scorrere di un funzionamento di un qualche
accadere di un qualche sistema di operazioni (del mercato, della politica, dei mezzi di
comunicazioni di massa).
Si ha soltanto il presentarsi di una libertà che è un evento, un evento che è innocente, che non ha
nessuna possibile riferibilità ai concetti della giustizia, alla distinzione tra ciò che è giusto e ciò che
è ingiusto, a ciò che appartiene all’esercizio di una responsabilità e ciò che è proprio semplicemente
di una innocenza che non risponde mai del suo accadere.
Si immagina una diversa e più marcata figura di uomo, dove ci sia uno spazio di un io con una zona
franca, dove nulla compare dei problemi dell’io, caratterizzata da un io senza decisione, senza
responsabilità, un io che non ha a che fare con gli interrogativi sul darsi dei contenuti principali dei
diritti e dei doveri non disponibili, si ha soltanto un residuo permanere del termine senso, che non
va mai oltre il funzionamento di qualche insieme di operazioni, non si danno mai degli scopi che
eccedono dei fini, si danno solo i fini che appartengono al funzionamento efficaci di un insieme di
operazioni, che sono operazioni finalizzate al funzionamento di un certo sistema sociale. Vengono
rimosse le domande sugli scopi, viene rimossa la discorsività tra gli uomini sull’istituire gli scopi
che danno vita alle forme storiche della seconda vita, della vita che viene istituita. Si ha questo
affermarsi di una successione di fini, senza interrogativi sugli scopi, si ha una condizione fluida che
equivale all’accadere, l’umanità si spoglia di un volto individuale di una soggettività giuridica che
appartiene al singolo nella sua unicità e diventa questa fluidità informe, diventa una giuridicità
liquida (aggettivo di Bhaumann, nel senso che la giuridicità scorre, fluisce senza scopi e senza
perché).
Questa giuridicità appartiene all’affermarsi del nichilismo giuridico nel suo compimento, che oggi
registra questa inversione di gerarchia tra tre figure del sé, ossia:

il sé sinaptico, il sé delle attività delle sinapsi, ovvero dei processi delle diverse regioni
della massa cerebrale; il sé sinaptico è il sé che ha una spiegazione scientifica e che ha una
sperimentazione da parte della neurobiologia. Questo sé archivia definitivamente la libertà,
in quanto se la libertà viene spiegata solo scientificamente, la libertà non ha nessun motivo
131
di essere nominata, perché la libertà c’è se non ha spiegazione; ma cadendo il se nel sé
sinaptico cade anche l’imputabilità dell’uomo cade anche il rilievo giuridico della
responsabilità dell’uomo.

il sé sinaptico dei neuroni convive con la figura del sé informazionale , il sé questa volta
degli elettroni, ovvero dei processi delle c.d. macchine intelligenti, dove opera l’intelligenza
artificiale. Così come il sé dei neuroni è privo di responsabilità e di libertà, è giuridicamente
irrilevante, così il sé degli elettroni, ovvero dell’intelligenza artificiale non si presenterà mai
in un spazio simbolicamente nominato come il palazzo di giustizia, in un dibattimento che
accade per cercare la giustizia nella legalità, il diritto nelle norme.

il sé esistenziale,
che oggi si chiede invece di incontrare, sia pure mantenendo gli
strumenti irrinunciabili dell’intelligenza artificiale. Si chiede cioè che intervenga la
dimensione dell’arte, dell’arte del giurista uomo, che potrà incontrare al di là del sé dei
neuroni, del sé degli elettroni, il sé esistenziale, cioè quel volto, quella storia, quella vita,
quell’esistenza che hanno avuto condotte capaci di incidere con effetti sugli altri e fatto
nascere delle controversie giuridiche che sono controversie di senso, controversie sul
diverso modo di scegliersi nelle singole decisioni da parte di ogni singolo uomo.
Dunque si afferma un’attenzione al sé esistenziale, ad una struttura delle controversie che
riguardano il giurista che sono controversie di senso, non sono disfunzioni nell’ordine
biologico né guasti nell’ordine macchinale. Il rischio nella condizione della cultura giuridica
contemporanea è che non si abbia abbastanza attenzione critica al riaccendere la luce sul
sé esistenziale nel suo essere non riducibile né al sé dei neuroni, i sistemi biologici o
neurobiologici, né al sé degli elettroni dei sistemi informatici, dell’intelligenza artificiale, o
ad una loro ibridazione.
132
Lezione 27: Nichilismo e post-umanesimo.
La ‘biologia’ della volontà di potenza tende a trasmutarsi ora nei programmi bio informazionali,
produttivi di altri programmi, flessibili riguardo all’essere=divenire della bio info sfera. Il
nichilismo si compie così nel post umanesimo; i concetti giuridici ricevono una efficacia tecno
operazionale, privata dell’arte del giurista, che illumina le domande sulla verità=qualità nelle
istituzioni giuridiche. In questo esito, la giustizia non regola le condotte, non le forma, ma si
conforma alla fattualità vincente. Soggetto e diritto non sono però ‘sistemi di funzione’ dei fatti,
perché la soggettività è disfunzionale ed il diritto è controfattuale.
La filosofia del diritto propone inevitabilmente una antropologia giuridica, ovvero propone una
visione dell’uomo che viene letta, interpretata, proposta nella prospettiva della giuridicità.
Nella condizione contemporanea l’antropologia giuridica è tendenzialmente costruita secondo i
modelli di un bio-diritto, ovvero di un diritto modellato secondo la biologia. Questa visione del
diritto, centrato sulla volontà di potenza, torna a riprendere le posizioni di Nietzsche. Rispetto alle
condizioni storiche in cui si collocano le teorie di Nietzsche, nella condizione attuale, questo biodiritto si trasforma in un diritto che è modellato non solo sui sistemi biologici ma anche sugli
elementi formativi dei sistemi informatici. Quindi l’antropologia del diritto contemporanea è
un’antropologia in cui l’uomo è quello scenario dove si concretizzano i programmi che producono
altri programmi. Si ha dunque un diritto che viene costruito secondo i modelli dominanti
dell’intelligenza artificiale che portano ad avere una scienza giuridica senza giurista, dove sempre
più il giurista viene sostituito dal tecnico delle norme destinato poi a lasciare il posto ad un
software, ovvero ad un prodotto della intelligenza artificiale. Questo vien detto non per ripudiare
l’utilizzo di modelli dell’intelligenza artificiale ma per non assoggettarsi ad essi.
Infatti la giustizia tende a trasformarsi in un procedere operazionale che si limita a conformarsi al
funzionamento più efficace; se sono assunti i modelli dell’intelligenza artificiale che si sostituiscono
ai modelli della intelligenza biologica, l’esito coerente è appunto che la giustizia non incontra più
l’uomo, non garantisce più l’uomo in quanto uomo, ma si conforma al funzionamento più efficace
di ciò che è di fatto funzionante con maggiore intensità. Non si ha allora la soggettività come centro
di riferimento delle considerazioni sul diritto, ma si ha un’attenzione a conformare gli strumenti
della giuridicità a ciò che è dominante nelle operazioni della fattualità. Ma se la giustizia e il diritto
si conformano alle operazioni che sono fattualmente più efficaci, funzionalmente più produttive, si
tralascia di considerare che nella genesi fenomenologica del diritto, ovvero quando si coglie
descrittivamente che cos’è che distingue il diritto dagli altri fenomeni, si coglie il diritto nel
133
presentare un suo incidere che è controfattuale, che non è la semplice adeguazione a ciò che è
di fatto funzionante di più (alla attualità, dei sistemi biologici o informatici).
Si torna a chiedersi se la libertà è un accadere, un’operazione vitale senza pathos, è l’accadere di un
evento nel vivente uomo o c’è qualcosa in più. La libertà è il momento iniziante il fenomeno
diritto, nel suo differenziarsi dagli altri fenomeni, perchè il diritto è controfattuale, in quanto
contro quei fatti che costituiscono una negazione, una violenza, della libertà, che tendono a
spegnere l’esercizio della libertà che costituisce il diritto principale dell’essere soggetto; il diritto
interviene appunto controfattualmente per garantire la custodia dell’esercizio del diritto di libertà.
Nei viventi non umani (gli animali) il pathos è spiegabile secondo i sistemi biologici come una
successione di operazioni dell’ordine biologico, mentre negli uomini il pathos si sottrae ad ogni
spiegazione scientifica, il pathos si connette a ciò che eccede alla scienza e la tecnica.
Il pathos è esclusivo dell’uomo, il pathos è quel sentire dell’io profondo che avverte che ne và di
se stesso, nel suo relazionarsi con gli altri.
Dal punto di vista del diritto questo pathos avverte che ne và di stesso nel suo relazionarsi
giuridico con la libertà degli altri. Si ripresenta di continuo questo spazio dell’io sempre sottratto
ad ogni tentativo di indagine, di descrizione e di riproduzione tecno scientifica.
Con il procedere dell’inversione dei valori, sia ha invece che il valore più alto non è la libertà,
non è la soggettività, non è la creazione di senso che l’uomo mette insieme con gli altri uomini
nel portare a concretezza l’istituzione della seconda vita, principalmente la vita delle
istituzioni giuridiche, che è la civiltà. Nell’inversione dei valori il valore più alto diventa il
danaro. Un valore senza pathos, senza alcuna apertura affettiva (in quanto non è
quantificabile). Tutto diventa un nulla, perché tutto può essere nientificato dal valore danaro,
tutto può essere quantificato, posto in vendita, monetizzato dal valore danaro. Il valore denaro
costituisce l’architettura del sistema mercato che è il sistema gerarchizzante gli altri sistemi sociali,
fino a far considerare che il sistema diritto sia un sistema strumentale a far funzionare i vari sistemi
nell’ordine dato dal sistema dominante che è il sistema mercato. In questa prospettiva nullificante si
ha il darsi progressivo di un continuo accrescimento e concretizzazione del nichilismo giuridico
perfetto.
Si torna così alla tesi di Nietzsche che vede la vita come una entità che pone valori, ma che di
per sé non ha un valore, è semplicemente un’entità ponente valori e i valori sono nient’altro
che delle operazioni poste in essere per il continuarsi di una vita che non ha valore perché è
senza un senso, senza un perché. Viene vissuta ma non ha nessuna significazione per la
134
soggettività. Il valore primo diventa quindi quello espresso nel quantum, del linguaggio dei
prezzi, la struttura di funzionamento del sistema del fondamentalismo funzionale e in questo
itinerario anche la verità diventa un valore, un valore nella inversione dei valori.
Ciò comporta che la verità è semplicemente un tener per vero, è un assumere come vero un
itinerario che serve per il funzionare dei vari sistemi di funzione. Ma questa verità è
semplicemente un tener per vero significa che non si dà una verità ma soltanto una finzione della
verità. Quindi cade l’equivalenza fondamentale per il diritto tra verità e qualità della relazione tra i
soggetti che si pongono in un relazionarsi giuridico. Qui si dice che la verità non è semplicemente
un tener per vero, una finzione, ma consiste nella qualità della relazione tra i soggetti di diritto,
dove il diritto custodisce costantemente i diritti primi incondizionati dell’essere uomo,
prioritariamente il diritto a prendere la parola, a costruire con gli altri quella seconda vita che è la
civiltà, che è una vita che eccede la semplice condizione naturalistica di ciò che vive. La verità
invece nel procedere del nichilismo giuridico perfetto diventa un tener per vero, un adeguarsi a ciò
che volta per volta muta, diventa un conformarsi a ciò che volta per volta si afferma, divenendo
flessibile ad una mutevolezza sempre in divenire.
Appartiene infatti ad uno dei tratti principali del senso esistenziale del diritto, il liberare
dell’angoscia della mutevolezza, il liberare dall’improvviso, perché l’improvviso angoscia. Perché
il mutare improvviso della volontà degli altri, di ciò che si era convenuto liberamente con gli altri,
l’essere lasciati abbandonati alla mutevolezza degli atteggiamenti degli altri, è essere abbandonati e
assoggettati agli altri, quindi essere costretti nella impossibilità di proporre e di presentare un
progetto.
Il diritto invece libera da questo improvviso mutare del volere degli altri, garantisce durata alla
relazione con gli altri, consentendo alla libertà di potersi inscrivere concretamente nel mondo,
consente di non sentirsi abbandonati ad una condizione in cui di fatto si è costretti a divenire, senza
una scelta libera, senza un progetto che possa durare. Senza il durare, si legge in modo forte in
Kierkegaard, si è abbandonati a questa che è la malattia mortale, la disperazione. La disperazione
davanti alla mutevolezza mai disciplinata dalle regole della giuridicità. La mutevolezza appartiene
invece a questo processo di spogliazione dell’uomo della sua soggettività.
Nietzsche dice con forza che l’arte diventa senza artista, lascia intravvedere dunque che
parallelamente la scienza
giuridica diventa senza giurista. Infatti sia l’arte che la scienza
giuridica sono privati della dimensione della durata, perché il durare è formativo della
soggettività e la soggettività è formativa dell’autore dell’opera d’arte e dell’autore della scienza
giuridica, cioè di chi costruisce con una soggettività responsabile la dottrina del diritto. La
135
mutevolezza nella sua integralità chiede che non ci sia nulla di permanente, chiede che non si abbia
alcuna dimensione propria del durare, e dunque potenzia questo costante conformarsi alla
mutevolezza della contingenza; l’affermarsi di questo essere che è uguale al divenire, che
costituisce ciò che è proprio del nulla nella sua continua trasformazione.
Si ha così questo passaggio da una tensione dell’arte e della ragione giuridica che incontra la libertà
del soggetto di diritto nel suo progettarsi, garantito nella sua durata dalle norme di diritto, alla
mutevolezza, al dominio dell’impermanente per usare la terminologia di Nietzsche, ovvero ciò
che non dura, ciò che è in uno stato continuo di mutevolezza.
Oggi, nella società complessa, l’impermanente è sinonimo di flessibilità, una flessibilità continua
che forma ed esige la condizione contemporanea. Infatti i tratti nuovi distintivi che compaiono nella
società contemporanea, differenziando la forma storica attuale dalle forme storiche precedenti, sono
dati dalla quantità e dalla velocità delle informazioni. La società attuale è una società complessa
perché la quantità e la velocità dei dati delle informazioni sono tali da attraversarsi, da comporsi e
da combinarsi con una mole che non è trattabile né nella quantità né nella velocità dal singolo
uomo, dal sistema neurobiologico del singolo individuo e neanche da un gruppo di individui, ma
chiede un trattamento che inevitabilmente è di tipo macchinale, richiede cioè l’intervento
dell’intelligenza artificiale. Questo richiede che la società complessa sia ambientata in questa
architettura che è propria della bio-info-sfera, in una commistione continua che è propria della
biologia, della neurologia e dell’intelligenza artificiale.
Per comprendere che cosa si trova davanti il giurista nella condizione contemporanea, per
comprenderlo senza dogmi bisogna prendere atto che il lessico di Nietzsche oggi non ha più la sua
ambientazione nell’ordine del tragico che appartiene alla dimensione del c.d. super uomo, alla
figura disperata e disperante di questo super uomo, ma appartiene invece alla bio-info-sfera.
Qui la volontà di potenza si trasforma, diventa il potere di autoadattamento, dei programmi che
producono programmi e che potenziano il funzionare più. Perché il comandare non è più il
comandare di chi è più forte, ma il comandare si trasforma nel monitorare, il calcolare, il
programmare che appartengono ad un nessuno. Questi tre ordini del calcolare, del monitorare e del
programmare, si intersecano ogni volta non appartenendo a qualcuno, essendo in questo immenso
nessuno che costituisce il sistema del fondamentalismo funzionale. Questo nessuno così descritto
come nucleo del sistema del fondamentalismo funzionale è il nuovo signore senza volto della
condizione propria della società complessa. Tutto ciò ha degli effetti propri nella descrizione e
nella stessa vita del diritto. Gli effetti consistono nel passaggio dagli effetti fondamentali come
pensati nell’ordine tradizionale della stessa scienza greca che sono propri del concetto del pensiero,
136
ai concetti fondamentali che sono propri della tecnica che diventa l’essenza della scienza. Si ha
dunque questo passaggio dai concetti fondamentali del pensiero, ovvero quei concetti dove l’uomo
è incontrato nel suo avere un rapporto con i sistemi sociali, ai concetti fondamentali delle tecnoscienze, dove non si ha nessun incontro con l’uomo, ma si ha soltanto un funzionamento efficace
dei sistemi sociali, come sistemi di funzioni, ovvero sistemi che volta per volta mettono in concreto
nelle forme mondane una specifica funzione: la funzione dell’economia, dei mezzi di
comunicazione di massa, della politica. Il diritto rispetto a questi sistemi si limita a garantire un
funzionamento efficace, si limita ad essere un sistema immunitario di questi altri sistemi
sociali.
Si ha dunque che l’arte dell’interpretazione, che costituisce uno dei momenti centrali dell’attività
del giurista si trasforma in una tecnica, che è rivolta ad assorbire il rischio nella semplificazione
della complessità. Si ha quindi questo passaggio:
dalla dimensione artistica e estetica della ragione giuridica
(artistica ed estetica perché la ragione giuridica ha avuto nel pensiero classico, e tuttora ha nella
condizione contemporaneo, questa attenzione ad incontrare la soggettività dell’altro, perché soltanto
il giurista in quanto artista può incontrare la soggettività dell’altro che ha una dimensione artistica,
perché la soggettività è sempre creatrice di un senso, quando sceglie delle condotte, quando pone in
essere nella relazione intersoggettiva i progetti sceglie, e nello scegliere si sceglie, e nel compiere
questa opera pone in essere una creazione di senso)
Vs/ tecnica che viene usata per assorbire il rischio
cioè il rischio che si dà nella inevitabile semplificazione della complessità. Su questo le analisi di
Lhumann sono le più significative ed essenziali: la società complessa si forma e subito richiede una
semplificazione, perché non potrebbe continuare ad essere quella che è se non procedesse ad una
semplificazione, ma deve assorbirne il rischio, costituito dall’arresto della crescita dei processi che
costituiscono la genesi continua della complessità, necessaria per la stessa continuazione della vita.
Si tratta di ciò che molto schiettamente dice Jaspers: non si deve dire di no alla scienza, alla
tecnica, né alla formazione continua della complessità, ma non ci si può assoggettare alla
complessità, non si può privare l’uomo dei suoi diritti incondizionati. L’uomo deve poter
esercitare la sua creazione di senso.
Si ha quindi un processo costante di accelerazione della complessità e del mutamento, che porta ad
una trasformazione di uno degli elementi fondamentali nella vita del diritto: porta la sostituizione
della imputabilità che si riferisce al soggetto di diritto con la finzione giuridica o normativa del
137
centro di imputazione. L’imputabilità è nominabile come tale se si riferisce ad un soggetto che
compie delle scelte nella sua libertà e per questo risponde davanti agli altri e davanti al terzo
giudice. L’imputabilità è l’esercizio della soggettività libera e creativa, non anticipabile. Ma la
complessità non richiede la soggettività, viene sostituita da un centro di imputazione , che non
appartiene alla soggettività, quei centri di imputazione che costituiscono i luoghi sistemici delle
operazioni dei sistemi sociali dove si può riferire l’accadere delle combinatorie tra le molte
operazioni dei molti sistemi sociali. Questo richiede una trasformazione anche della durata della
memoria, che è propria della memoria dell’uomo, nella durata della memoria non umana; la durata
della memoria della soggettività è la durata di una memoria che mette in gioco costantemente se
stesso, che nel memorare apre un rapporto, l’avere a che fare con se stesso avendo una relazione
con gli altri; questa è la durata della memoria umana, mentre quella non umana è la ripetizione
sistemica di programmi biologici, se si resta nell’ordine del vitale, o informatici, se si fa riferimento
all’ordine dell’intelligenza artificiale, o se si ha attenzione alla complessità della condizione
contemporanea, è la durata della bio-info-sfera dove si ha l’ibridarsi di entrambi gli ordini,
biologico e informatico.
Si ha quindi una trasformazione della scienza giuridica che vede l’oblio del giurista in quanto uomo,
sostituito dal giurista come apparato bio macchinale che opera nel monitorare e nel calcolare quel
che sono le operazioni dei molti sistemi sociali; in linea con le profezie di Nietzsche, si ha che il
permanente, e quindi la durata, dunque la soggettività che è tale soltanto perché è temporalmente la
durata della soggettività diventa l’impermanente, diventa il continuo divenire che assorbe l’essere,
facendosi causa di una rapida usurabilità. Del resto la società complessa si dà perché sempre più
rapida è l’usurabilità dei suoi elementi, ma ciò chiede che il giurista si trasformi in un tecnico delle
norme interessato ad assecondare l’usurabilità sempre più rapida degli elementi relazionali della
società complessa.
138
Lezione 28: Diritto soggetto parola: le controversie di senso.
Il diritto è presente unicamente nel soggetto della parola, che esercita la pretesa giuridica
rivolgendola al terzo Altro giudice; è assente nei viventi non umani e nelle entità macchinali, privi
di norme e di procedure, istituite dal terzo Altro legislatore nel medio delle relazioni comunicative.
Negli uomini, soggetti parlanti, si manifesta essenziale la coalescenza del linguaggio discorso e del
diritto. Quando il linguaggio ‘simbolico’ delle parole, genesi delle controversie di senso, si
trasmuta nel linguaggio ‘segnico’, che ‘funziona’ nei conflitti vitali e nelle operazioni macchinali,
allora il nichilismo giuridico può divenire ‘perfetto’, post umano.
La tesi centrale di questo corso è che il diritto è strutturato come il linguaggio che è discorso (vedi
prima tesi); è coessenziale il logos al nomos ed il nomos al logos.
C’è diritto lì dove c’è l’esercizio della parola, che si comunica che si destina all’altro, non è
riducibile ad una sorta di messaggio di tipo informazionale o di tipo bio-informazionale. Questi
sono messaggi numerici, dove non compare nulla della parola che è invece disnumerica, dice
sempre un qualcosa di più del proprio enunciato (evocativa). Il numero tre può essere riferito ad
una molteplicità di enti però sempre e soltanto dice che si tratta di tre enti: 1, 2, 3 e non dice altro
oltre a questa quantificazione numerica (Scheler).
La parola invece nell’essere enunciata sollecita in chi l’ascolta una pluralità di interpretazioni,
un molteplicità di schiudersi di direzioni di senso e laddove ci sono controversie di senso nasce
il fenomeno diritto. Quando invece il linguaggio discorso, che è un linguaggio simbolico,
diventa invece un linguaggio segnico allora il diritto si svuota e viene sostituito da altri
fenomeni.
Il linguaggio discorso è un linguaggio simbolico, simbolico perché l’ordine simbolico è
quell’ordine dove sempre compare una molteplicità di possibili interpretazioni, dove interviene
il procedere che è proprio della metafora ed anche dell’attività metonimica: la metafora
sostituisce un senso con un altro senso, il processo metonimico nomina invece questo continuo
rinviare da un senso enunciato ad un senso enunciabile possibile. Quando si lascia il linguaggio
dell’ordine simbolico e si cade nel linguaggio dell’ordine segnico non si danno conflitti di senso,
non si dà nulla del diritto, dell’arte del giurista uomo, si hanno soltanto dei conflitti vitali o delle
disfunzioni nell’ordine delle operazioni dei diversi sistemi.
139
Nella situazione contemporanea ciò che è proprio dell’ordine simbolico, quindi della parola, ciò che
ogni colta che la parola viene ad evocare, cioè la ricerca e la creazione di senso, tutto ciò cade:
accade ciò che
Jaspers dice, leggendo Nietzsche, e cioè che tutti gli ideali dell’uomo sono
tramontati, l’uomo vuole rigettare la morale, abbandona la ragione e l’umanità. Jaspers vede
nella verità una menzogna universale, nella filosofia finora esistita un continuo inganno e nel
cristianesimo vede una vittoria dei mal riusciti, dei deboli, degli inetti, ovvero dei perdenti nella
scala dei numeri della forza, che invece nell’inversione dei valori, nella condizione del nichilismo
perfetto, nella cancellazione stessa del linguaggio discorso della parola, e quindi nel cadere nel
linguaggio segnico dei messaggi funzionali, registra l’affermarsi di chi funziona più, di chi è più
forte, di chi ha potere. Si stabilisce in questa condizione senza consapevolezza e senza scelta, di
fatto si afferma un continuum tra gli ordini degli elettroni e l’ordine dei neuroni, tra l’intelligenza
biologica e l’intelligenza informatica, ovvero l’intelligenza artificiale: questo porta a che non si
colga più ciò che è specifico dell’uomo, che è soggetto di diritto proprio per questo discontinuare
ogni procedere in un susseguirsi di operazioni efficaci tra il neurobiologico e il macchinale o
semplicemente tra le diverse operazioni vitali così come si dava al tempo di Nietzsche. Cade quindi
questa discontinuità, che costituisce lo spazio dell’uomo e dello stesso diritto come disciplina del
discontinuare che appartiene all’uomo: il diritto ha la sua genesi appunto in questo momento in cui
si affaccia la peculiarità esclusiva dell’uomo, che è discontinua e che eccede la vita e che nella
ricerca e nella creazione di senso eccedendo la vita pone la essenzialità e l’attesa di una disciplina
della seconda vita che nasce, una vita oltre biologica, oltre funzionale, una vita creativa e
discontinuante i sistemi e le memorie di funzionamento.
Derrida, questa volta lascia invece intendere che questo concetto di discontinuità – che egli nomina
di iato, di vuoto, è presente anche nello stesso ambito delle possibilità biologiche. Dunque ci
sarebbe un discontinuare nello stesso orizzonte che è proprio della biologia, della funzionalità. Ma
prese alla lettera queste affermazioni di Derrida non convincono perché nel procedere biologico non
c’è un discontinuare; quando un discontinuare, ovvero l’apparire di questo spazio che non esegue
un programma già dato, nello stesso ordine biologico tale spazio corrisponde a quello della
patologia mentre nell’ordine del macchinale potrebbe essere nominato come guasto. Ma nulla di
tutto questo può comparire in una aula di giustizia, non ci possono essere degli attori bio
macchinali. Soltanto l’uomo nel discontinuare le sue memorie bio macchinali è responsabile, è
soggetto di diritto e come tale ha cittadinanza per entrare in una aula di tribunale come attore. Se si
dovessero estinguere le strutture giuridiche anche dell’uomo, si avrebbe il cadere della stessa
giuridicità, per effetto della scissione tra il procedere e le procedure. Infatti ciò che è proprio del
diritto è questa separazione tra il procedere e le procedure: le procedure sono istituite, il procedere
140
della attualità biologica, della attualità macchinale è il procedere stesso e basta, ma non è un
procedere che simultaneamente ha un rinvio a delle procedure; ogni volta che funziona
un’operazione biologica o un’operazione macchinale funziona nell’essere un tutt’uno con il suo
stesso funzionare, dunque in un procedere che non è disciplinato da procedure. L’istituzione delle
procedure giuridiche appartiene esclusivamente all’uomo, che ogni volta nel manifestare il suo
eccedere i semplici sistemi di funzione pone dei problemi, delle questioni che esigono l’istituzione
di procedure per disciplinare questi spazi che nascono con l’esercizio disfunzionale della
soggettività degli uomini.
Nella condizione contemporanea si è detto che la complessità della società chiede che la dimensione
dell’imputabilità sia sostituita da una dimensione che è propria del centro di imputazione: la
complessità può accrescersi nel suo funzionamento, nella sua struttura, se emargina ciò che è
proprio dell’imputabilità, perché l’imputabilità nomina la soggettività e la soggettività nomina ciò
che non si lascia anticipare, ma ciò che si lascia anticipare non può essere anticipato, non può essre
monitorato, né calcolato e né programmato, rendendo complessa paradossalmente la stessa vita
della società complessa. Ecco che appunto l’imputabilità diventa un centro di imputazione, che è
extra umano: ad es.: la pioggia ha un centro di imputazione nelle formazioni nuvolose, nella qualità
e nella struttura di queste formazioni nuvolose, ma certo queste formazioni nuvolose non
costituiscono delle soggettività imputabili, sono dei centri di imputazione. Si può imputare la
pioggia a quel tipo di formazioni nuvolose intendendole come dei centri di imputazione, ma non
come delle modalità di esercizio della soggettività, in quanto le nuvole sono prive di soggettività, di
responsabilità anche se hanno causato delle inondazioni, dei disastri.
Così come si dà questo procedere dall’imputabilità, ovvero soggettività, ad una imputazione, ovvero
non soggettività, si ha anche un tendenziale ritenere che lo stesso soggetto di diritto possa
progressivamente obliato ed essere posto nella condizione di venire obliato, dimenticato dalla storia.
Si potrebbe, dice Derrida , nell’analizzare la condizione contemporanea senza prendere una
posizione precisa, constatare che ben presto viene meno il soggetto, mentre verrebbe preservato
esclusivamente il soggetto giuridico: la soggettività potrebbe cioè scomparire con il progredire
della spiegazione scientifica e con essa potrebbe scomparire la libertà, e rimarrebbe soltanto il
soggetto giuridico, in quanto soggetto privo di emozioni, di desideri, soprattutto privo di inconscio;
ma il permanere di questo soggetto giuridico sradicato dalla soggettività sarebbe il darsi di una
finzione giuridica che è funzionale al procedere del sistema diritto come un sistema
strumentalmente servile agli altri sistemi sociali, che non custodisce l’uomo in quanto uomo ma, ma
le operazioni dei sistemi in quanto sistemi di funzione.
141
Permarrebbe dunque soltanto il soggetto giuridico come una finzione, che è una finzione giuridica
funzionale e che però nell’essere tale questo soggetto giuridico manifesta la sua contraddittorietà:
perché è si detto un soggetto giuridico, che essendo ritenuto una funzione svolge un compito
funzionale, però è contraddittorio perché è un soggetto nominato come tale ma non esercita la
soggettività, non è mai il soggetto che è un chi, un’autore dell’esercizio della sua soggettività, e
dunque la espressione soggetto giuridico intesa come una finzione è una espressione contraddittoria
che ha rilievo soltanto per il funzionamento del diritto, così come è contraddittoria la dimensione
dell’inconscio e gli effetti dell’inconscio ogniqualvolta che non si riferiscono al conscio. Dunque è
contraddittorio il permanere di un soggetto di diritto una volta cancellata la soggettività,
perché il permanere di questa finzione che è il soggetto di diritto è contraddittoria allo stesso
modo se permanesse questa attenzione all’inconscio avendo cancellato il conscio.
Per usare un’espressione di Lacan, pensatore essenziale francese, psicanalista ma filosofo,
“l’inconscio è un sapere che non si sa”, che ha una ragione di essere soltanto nel quadro di un
sapere che si sa, ovvero nel quadro del conscio. L’inconscio è questo sentirsi in qualche modo
estranei a se stessi, ma che è simultaneamente un avvertire se stessi come non estranei.
Dunque c’è un soggetto di diritto se c’è soggettività così come c’è la dimensione dell’inconscio se
c’è la dimensione del conscio: si afferma questo perché nella condizione contemporanea c’è una
tendenza ad incontrare l’uomo solo in una prospettiva funzionale, dove cade la dimensione dell’arte
che incontra l’uomo, nella sua soggettività che è tale perché è disfunzionale; se la soggettività fosse
soltanto funzionale non sarebbe soggettività, sarebbe solo l’esecuzione di funzioni. Ma caduta la
soggettività cade l’arte della ragione giuridica, non si incontra più attraverso l’arte del giurista il
soggetto nella sua peculiare soggettività, lo si incontra soltanto come una finzione, lo si incontra e
lo si nomina come soggetto di diritto, ma è una finzione che ha un fine solo funzionale. Ma cadendo
l’arte del giurista cade ciò che appartiene all’arte del giurista, cioè la sua opera di interpretazione:
il giurista è tale ed è insostituibile da qualsiasi procedere di tipo bio macchinale, anche se si
gioverà dei software, perché il giurista eserciterà sempre l’arte dell’interpretazione.
L’arte dell’interpretazione del giurista è un’attività ineliminabile nella vita del diritto, perché
è quell’opera che compie il passaggio dalla norma istituita, che è astratta e generale, alla
singolarità del caso che è concreto, e questo accade sia che ci riferisca al diritto codificato sia
che ci riferisca al diritto giurisprudenziale, si tratta sempre di far riferimento a dei principi
che sono astratti, che nel passaggio dalla loro struttura astratta alla loro concretizzazione
necessitano del lavoro interpretativo.
142
Ed è per questo che Ost, un giurista e un filosofo francese del diritto contemporaneo afferma che
ognuno sa che qualsiasi testo scritto, sia giuridico e non, si interpreta e sa come le interpretazioni
siano creatrici; la teoria del linguaggio ha mostrato l’ineluttabilità dell’interpretazione, il linguaggio
non può essere mai tradotto in numeri, che non necessiterebbero di interpretazione. La teoria del
diritto ha preso atto del carattere normativo della produzione giurisprudenziale (ovvero la
produzione dei giudizi; l’emissione delle sentenze sono fonte di una genesi normativa). Tutto
questo avviene nel medio della interpretazione, che non è mai l’esecuzione di un programma
numerico. L’interprete dice ogni volta ciò che non è detto nel testo e nella stessa produzione
giurisprudenziale precedente, dice un qualche cosa in più, dice sempre oltre perché l’opera
dell’interpretazione viene messa nel linguaggio, nel linguaggio che è discorso è che è situato in
parole, le parole interpretano e si aprono all’interpretazione di altre parole, non sono riducibili nei
numeri, i numeri non interpretano ma dicono solo ciò che dicono.
L’opera d’arte, l’opera del giurista uomo, l’interpretazione è ineliminabile, nell’analisi, nella
decisione ovvero nel superamento delle controversie di senso, perché in tali controversie si presenta
la disciplina giuridica, ovvero la disciplina delle norme istituite, che è una disciplina che avviene in
un linguaggio giuridico situato in parole; invece nell’ordine del non umano non si hanno
controversie di senso, ma si hanno soltanto delle forme, delle modalità di conflitti vitali, delle
disfunzioni macchinali, dove del diritto non c’è nulla, ma ci sono semplicemente le leggi dei sistemi
biologici e dei sistemi informatici che non funzionano, che non hanno uno svolgimento fisiologico,
presentano dunque dei guasti, ma non c’è niente dell’arte dell’interpretazione nell’affrontare le
patologie dell’ordine biologico e del malfunzionamento dei sistemi informatici. Si ha soltanto un
intervento che riavvia la fisiologia del funzionare.
La libertà e la soggettività sono invece disfunzionali, chiedono di essere incontrati non con delle
tecniche ma con l’arte, e se dovessero invece residuare solo modalità di conflitti funzionali allora si
ripropone ciò che è stato anticipato da Nietzsche: la soluzione avverrebbe esclusivamente
nell’ordine dei numeri, ovvero nell’ordine dei numeri che misurano le forze, ma questa soluzione
dei conflitti funzionali non chiederebbe nulla della terzietà giuridica, nelle tre figure della terzietà
(terzo legislatore, terzo giudice e terzo polizia).
Se si analizza la condizione contemporanea e lo scivolamento dalla imputabilità, che rinvia alla
soggettività, all’imputazione, che semplicemente accade nell’ordine del funzionamento sistemico,
se si coglie questa condizione contemporanea si ripropone una domanda, posta con forza dallo
stesso Heidegger, sulla relazione tra la filosofia e la scienza, tra filosofia del diritto e scienza del
143
diritto (teoria generale del diritto): la filosofia è una scienza tra le altre? Oppure la filosofia possiede
un rango più alto? Che cosa è che distingue la filosofia dalla scienza?
Che cos’è nella vita quotidiana del diritto fa emergere la centralità della dimensione filosofica
nel non essere riducibile alla dimensione tecno scientifica?
La risposta a tale domanda viene dal considerare che le scienze (quindi anche la scienza del
diritto) lavorano con dei concetti che sono delle rappresentazioni generali degli ambiti definiti
di quel certo settore scientifico (procedono quindi con concetti che sono propri della scienza
dell’economia, della scienza del diritto..) a differenza della filosofia che procede con dei concetti
che non sono delle rappresentazioni che individuano un certo settore scientifico: la filosofia
procede con concetti fondamentali che mettono in questione ogni volta il che ne è del se stesso
nell’aver a che fare con i diversi settori trattati dalle molte scienze, riaprendo la domanda che ne
è del se stesso nel suo coesistere con gli altri uomini.
In proposito Heidegger torna a pronunciarsi nel dire che nessuna scienza può dire nulla sulla sua
essenza: la fisica non potrà mai dire che cos’è la fisica, così la scienza del diritto non potrà mai dire
che cosa è il diritto. Nessuna scienza può dire che cos’è il suo ambito specifico: la medicina non
potrà mai dire nulla su che cos’è il vitale, lavorerà sulle operazioni vitali, ma non si pronuncerà mai
sul senso della vita.
Questo viene confermato da studiosi dell’intelligenza artificiale, come Harel, che nel suo lavoro
Computer a responsabilità limitata dice con forza che “non si può computare la computazione”,
ovvero che permanendo all’interno delle scienze dei numeri non si può avere nulla che possa
consentire di computare la computazione, che “i numeri non dicono nulla sui numeri e certo
meno di nulla sulle parole..”. Per quel che ci è vicino allora possiamo dire che le norme non
possono dire nulla sui contenuti delle norme, cioè la scienza giuridica non dice niente sul diritto,
che invece apre sempre questo spazio essenziale della filosofia del diritto che si pronuncia su che
cosa è il diritto e interrogandosi sul diritto si viene ad interrogarsi sul senso dello norme e
compiendo quest’opera avvia la formazione del giurista, che non è il tecnico delle norme, ma è per
tornare alla definizione di Legendre, l’artista della ragione che cerca, attraverso la dimensione
dell’arte, il giusto nel legale, e cercando il giusto nel legale concilia le due dimensioni essenziali
della vita del diritto: la ricerca della verità della relazione giuridica, la dimensione del giusto,
intendendo per verità la qualità della relazione tra i soggetti di diritto, con la dimensione della
legalità, che custodisce la certezza delle norme, custodisce la certezza della vita del diritto non
lasciandola all’arbitrio del sentire dell’uno o dell’altro giurista, secondo il suo semplice accadere
144
emozionale o il semplice accadere di una ragione che non ha i tratti dell’universalità propria della
ragione giuridica.
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Lezione 29: Il diritto tra istituire e interpretare. L'arte del giurista
Il giurista opera nel medio del suo originale e creativo rapportarsi agli elementi dell’esperienza
giuridica e, come l’artista, si forma aprendosi alle questioni sul senso, oltre ogni operazione
sistemica delle tecno scienze. La normatività giuridica non ha una spiegazione scientifica, né si
esaurisce in una prassi tecnica; riguarda la soggettività non oggettivabile in alcuna
sperimentazione di laboratorio. Nell’istituire e nell’interpretare le norme, il giurista non si modella
secondo l'inversione dei valori annunciata da Nietzsche, che sostiene la negazione ‘scientifica’ del
soggetto, dissolto nell’oltre soggetto, il super uomo svelatosi ora un post uomo.
Compiuto l’itinerario delle 28 tesi, queste ultime due tesi discutono il rapporto tra filosofia e scienza
in generale per preparare poi alla discussione del nesso tra scienza del diritto e filosofia del diritto
Proprio per continuare questa prospettiva deve essere riproposta quella tesi che vede nella figura
del giurista la stessa natura dell’artista, perché sia il giurista sia l’artista si formano aprendosi alle
questioni sul senso: sia il giurista che l’artista avviano la loro opera in quell’itinerario che consiste
in un evocare i diversi rinvii di senso, e dunque le diverse modalità del mettere in questione la
centralità dell’interrogarsi sul senso. Certo il giurista lo fa in una direzione e l’artista lo fa in una
direzione che è distinta, ma entrambi tengono aperta la questione del senso. Questo procedere
rimane estraneo allo scienziato, ovvero a chi fa ricerca scientifica e dunque anche allo scienziato del
diritto.
Si torna ancora una volta a riferire la filosofia alla struttura della parola e la scienza alla struttura dei
numeri. In questa medesima direzione lo scienziato genetista italiano Boncinelli scrive: “il
linguaggio dei numeri si è strutturato come il linguaggio specifico delle scienze. Nel linguaggio
delle parole si hanno più di seimila lingue diverse che sono scritte in decine di alfabeti diversi”. Il
linguaggio delle parole comunica e lavora in un itinerario che è proprio del pensiero non
scientifico, perché è aperto al questionare sul che ne è del se stesso, il linguaggio delle parole è
un dire di se stessi con gli altri. Il linguaggio numerico è un linguaggio univoco, che si è
strutturato senza confini, senza regioni, senza differenziazioni geografiche mentre invece il
linguaggio delle parole, nel suo differenziarsi, nel suo partirsi sino a 6000 lingue, manifesta questo
centrarsi, che è essenziale, con il dire di se stesso, da parte del parlante, in un linguaggio che è un
dire con l’altro.
146
Questo tornare alla differenza tra la filosofia e scienza, e dunque tra la parola, che è il terreno della
filosofia, e la scienza, che è il terreno dei numeri, porta a considerare che la scienza non è oggetto
di alcuna trattazione scientifica.
Si torna così alla tesi di Heidegger: la scienza non è oggetto di trattazione di alcuna scienza.
Perché ogni scienza ha uno spazio che è definito da un considerare settorializzante, da un
considerare un ambito e non un altro ambito, da un considerare un territorio definito, ed incontra
l’uomo nelle sue diverse regionali manifestazioni. L’io indagato dalla medicina non è certo l’io
incontrato dal sapere filosofico: filosofia incontra l’io nella sua interezza, lo incontra in una
modalità che non può essere trattata secondo un procedere settorializzante come quello della
scienza.
Torna quindi l’analisi di Heidegger che dice che il vedere della scienza non è trattare da parte
dello scienziato con gli strumenti della scienza, e dunque la conseguenza è che il fisico non si
esprimerà mai su che cosa è la fisica, così come il matematico non dirà mai che cos’è la matematica
e lo storico non si chiederà mai che cos’è la storia. Tutte queste domande valicano i confini della
scienza, si aprono ad un interrogarsi che è quello filosofico, perché qui il terreno lavorato dalla
scienza viene posto in relazione con l’io, ovvero la soggettività che è sottratta all’indagine
scientifica.
Analogamente lo scienziato del diritto non incontrerà mai la domanda: che cos’è il diritto, non si
interrogherà mai sul senso esistenziale del diritto, non metterà mai in questione il rapporto fra il
diritto e l’uomo. Questo invece è il terreno che si apre con la filosofia del diritto, che incide nella
formazione del giurista, perché sollecita il giurista a domandarsi in ogni passo della sua attività a
riprendere l’interrogativo su quale è il rapporto tra l’ambito della scienza del diritto e l’io, in
relazione con altri soggetti e dunque si interrogherà sulla qualità della relazione giuridica. Certo
sempre avendo questo riferimento essenziale, Hiedegger, si può dire che lo scienziato può riflettere
sulla sua scienza e quindi anche lo scienziato del diritto può riflettere sulla scienza del diritto, ma
quando fa questo si trova al di là della semplice attività giuridica, comincia a compier un procedere
che è proprio quello della filosofia.
La filosofia del diritto rimette sempre in questione questa analisi che considera gli uomini nel
selezionare i contenuti delle norme, nel selezionare direzioni delle loro condotte, nell’avere
consapevolezza che in questa selezione si selezionano le norme che disciplinano le loro stesse
condotte, e in questo itinerario si è già in un ambito in cui il singolo uomo interpreta sé stesso, è il
modo in cui il singolo uomo incontra le interpretazioni degli altri uomini che interpretano il loro io:
in questo procedere si ha da una parte il sorgere delle controversie e dall’altra l’attesa giuridica di
147
queste controversie sulla molteplicità di interpretarsi dei diversi soggetti. Ma si è già così situati nel
questionare filosofico, è per questo che Scheler considera che se non si è in grado di addurre, di
descrivere e di argomentare da dove provengono quella norma, quello scopo e perché proprio quella
norma non sia una scelta arbitraria ma argomentata, quando non si è in grado di avvicinare
criticamente questo insieme di domande si rimane tagliati fuori dal lavoro essenziale che appartiene
alla filosofia del diritto. Si finisce semplicemente per essere abbandonati all’accadere delle norme
che si formano perché un potere, che è il potere un tempo più forte, le ha formate con quei contenuti
producendo quelle qualificazioni del relazionarsi tra i soggetti parlanti. Quando si cerca, al di là del
semplice constatare i contenuti delle norme, di riprendere, di tornare a pensare ai principi che hanno
portato a selezionare i contenuti di alcune norme invece di altre, si torna a situarsi in quell’ambito
dove compare la dimensione del pathos dell’uomo che è sempre legato al nomos.
Il pathos illumina queste due dimensioni: del logos, ovvero del discorso, e del nomos, ovvero
del diritto. Il pathos illumina queste due dimensioni perché dimostra che l’uomo non è
indifferente alla qualità del discorso, è preso, è pateticamente impegnato, non si limita a
constatare i contenuti normativi del discorso, non è indifferente alla qualità della relazione,
del discorso. L’uomo si apre a considerare i poli opposti che costituiscono sia la qualità di un
possibile discorso tra i parlanti sia la qualità di possibili norme di un ordinamento giuridico.
La filosofia torna a segnalare che in questa non indifferenza, si coglie il luogo degli a-priori del
pathos, degli a-priori dell’apertura affettiva, laddove compare che l’amare non può essere confuso
con l’odiare, che all’ascoltare l’altro – che è una dimensione analoga a quella dell’amare – non può
essere confusa con l’escludere l’altro, non ascoltandolo ed emarginandolo. Questa attenzione agli apriori della vita emotiva, del pathos, porta – con Scheler – all’analisi critica della ragione tecnoscientifica formulata nel prendere consapevolezza che l’intera vita dell’io, del se stesso, dell’uomo
non ha un decorso che possa essere descritto come il decorso di un insieme di accadimenti che sono
casualmente determinati, che si susseguono nell’uomo così come si susseguono eventi fisici, eventi
metereologici, senza che tutto ciò apra un senso, un interrogarsi sul senso, sullo scopo che distingue
il cammino della filosofia dal cammino della scienza.
Tuttavia la scienza del diritto, la teoria generale del diritto, continua ad operare nella condizione
contemporanea come se potesse non dialogare con la filosofia del diritto, come se potesse rimanere
in una condizione di autoreferenzialità, senza aprirsi alle questioni sul senso del diritto, sul senso
della ragione giuridica che disciplina la relazione tra i soggetti parlanti. Ma una teoria generale
che si chiude alla filosofia del diritto, che ritiene di poter permanere nella sua autoreferenzialità, è
una teoria generale che però continuerà ad esprimersi nel linguaggio, nel linguaggio delle parole,
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nel linguaggio che è discorso e, quindi, con consapevolezza o meno questi giuristi si troveranno
esposti alla struttura polisensa della parola: tutto ciò che viene situato in una qualsiasi direzione
della scienza giuridica vestita come teoria generale del diritto sarà sempre presentato nell’ambito
che è proprio di un linguaggio che è discorso, dunque sarà aperto ad una molteplicità di
interpretazioni. Il teorico generale del diritto, lo scienziato del diritto potrebbe ritenersi
sufficiente a se stesso e quindi porsi in una condizione di autoreferenzialità e di
autosufficienza se potesse situare ciò che dice nell’ordine dei numeri, se non dovesse
inevitabilmente invece esprimersi nel linguaggio delle parole, che invece riapre la molteplicità
delle interpretazioni. Riapre quel che è inevitabilmente l’opera formativa, costitutiva, del giurista,
cioè quell’opera del linguaggio che è discorso e che essendo tale sarà sempre un rapportarsi a,
sarà sempre un aprire degli intervalli e in questi intervalli lasciare apparire delle domande,
diversamente da quanto è proprio dello scienziato che ritiene di potersi chiudere nel suo specifico
linguaggio tecnico, modellato secondo il linguaggio dei numeri, in una condizione che non è di
rapportarsia ma di coinciderecon: le affermazioni del suo linguaggio scientifico, le presunte
verifiche tecno-scientifiche di ciò che appartiene alla vita della giuridicità e alla quotidianità del
diritto.
La filosofia non si spegne in un campo predefinito, in un vedere settorializzante, che attualmente ha
la sua espressione nel sistema del fondamentalismo funzionale. Occorre tornare a prendere
consapevolezza che la filosofia non offre le certezze dei numeri, le possibili verifiche di laboratorio
date dalle tecno-scienze, ma come si esprime Heidegger, la filosofia consiste in questa virtù che è il
girarsi e rigirarsi nelle questioni preliminari, che non vuol dire un non entrare nella realtà, ma vuol
dire un entrare nella peculiarità della condizione dell’uomo, nella inevitabile modalità con cui
l’uomo dice se stesso interpretando se stesso, chiedendosi che ne è del suo io relazionandosi con gli
altri. Quindi in questo girarsi e rigirarsi inteso come la virtù del sapere degli uomini, in questo
continuo lavoro speculativo, il singolo soggetto ma anche il singolo giurista uomo tornerà alle c.d.
questioni “preliminari”, preliminari perché appartengono ad un discorso che è preparatorio, nel
senso che apre una serie di sguardi critici sui dati che si offrono nella realtà, apre uno sguardo
critico che supera l’essere preso tra le cose o l’essere preso tra le norme per interrogarsi attraverso
le domande sul diritto, sulle norme. Dunque si torna a mettere in questione la differenza nomologica
che nella vita concreta del diritto nomina da una parte il polo della giuridicità – ovvero del diritto
che non si lascia mai indagare scientificamente in modo ultimo e definitivo, che non si lascia mai
situare in espressioni che sono verificabili in laboratorio - e dall’altro il polo delle norme.
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Il teorico generale del diritto riterrà di poter fare a meno del riferimento costante ed insuperabile
alla differenza nomologica, riterrà di poter trattare le norme con altre norme e riterrà così di dare
una costruzione logico-formale della giuridicità che finisce però con l’essere estranea alla modalità
di incidere del diritto nella qualità dell’esistenza del singolo e della coesistenza che viene giocata
nel medio della vita delle istituzioni giuridiche.
Però nei giuristi la tendenza è a tralasciare questo dialogo essenziale e insuperabile tra scienza
del diritto e filosofia del diritto, dialogo che mette in rapporto la conoscenza del legale – che
appartiene al teorico generale del diritto - con la ricerca del giusto – che è il questionare costante
del filosofo del diritto.
Il giurista attualmente ritiene di poter fare a meno di questo dialogo. Ad esempio nel suo scritto
“Nichilismo giuridico” il prof. Irti, civilista della facoltà di giurisprudenza de La Sapienza, dice
che i concetti della scienza giuridica vanno ricavati dal diritto positivo, ovvero vanno ricavati
dall’insieme delle norme che sono valide in quel tempo ed in quel luogo, questo perché egli ritiene
che l’oggetto della scienza giuridica è un dato, qualcosa che essa trova dinanzi a sé, qualcosa che è
stato posto ed imposto da altri, e che dunque è norma perché è stata imposta da altri. Si ribadisce
così che per il giurista la norma è al contempo il luogo di partenza e il luogo di arrivo della sua
attività di giurista. In questa chiusura, soltanto all’interno dell’insieme delle norme, e dunque
senza riferimento alla differenza nomologica tra le norme e il diritto, viene meno il questionare su
ciò che scinde le norme positive dal diritto, che non si lascia mai dire in nessun enunciato positivo,
perché volta per volta il diritto ripropone la struttura indicibile dell’uomo: nessun soggetto
responsabilmente può pretendere di dire integralmente l’uomo, perché chiunque avanzasse tale
pretesa dovrebbe aver compiuto un atto di violenza sull’uomo, perché lo priverebbe del diritto
fondamentale alla formazione della sua identità nel futuro, significherebbe anticipargli il futuro e
quindi negargli l’esercizio della sua soggettività libera, nella formazione della sua identità
esistenziale.
Dunque Irti in questa direzione, chiudendo la giuridicità nei confini delle norme, finisce per
proporre una sorta di eutanasia della filosofia del diritto e prende atto a suo avviso che il
linguaggio della filosofia sarebbe stato sostituito dal linguaggio della tecno-economia, con un diritto
che diventa strumentale della tecno-economia. Egli dovrebbe ormai chiedere all’università di
diventare una scuola del saper fare, dove verrebbe meno il per di questo saper fare, il saper fare
per mettendo in questione per quali scopi. Verrebbe bene con questa chiusura dell’interrogativo
sugli scopi ciò che è proprio della filosofia del diritto. Verrebbe meno ciò che lo stesso Derrida con
forza con vigore speculativo dice essere oggi ciò che si chiede alla cultura contemporanea ovvero
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un diritto alla filosofia del diritto, che si apre con l’aprirsi del linguaggio che è il discorso,
attraverso il quale anche la figura del giurista nichilista, consapevole o meno, compie l’opera della
filosofia, quando pensa e riflette sulla sua scienza e sulle sue affermazione. Questa opera del
filosofare si schiude all’impegno, al compito di aprirsi con consapevolezza sull’interrogarsi sul
senso dell’opera del giurista, che nel concretizzarsi acquista forme storiche aperte e costituite da
interrogativi sul senso che oltrepassano la semplice dimensione tecno-scientifica, la semplice
visione strumentale del diritto. Il senso eccede sempre l’orizzonte tecno-scientifico, perché se così
non fosse l’uomo cadrebbe in una sofferenza esistenziale profonda, uno stato di disperazione.
Peraltro ridurre il diritto ad un insieme di norme trattate con altre norme, ridurlo ad uno strumento
dell’economia e collocarlo in uno spazio dell’Università considerata solo come una scuola del
“saper fare” per riprendere l’espressione di Irti, significherebbe ridurre il diritto allo stato di puro
strumento.
Ma un giurista francese contemporaneo, studioso del Diritto del Lavoro, Alen Supiot afferma nel
suo libro Homo juridicus che quando il diritto è ridotto allo stato di puro strumento allora è
ridotto ad un apparato che serve ad una forza ma questo è il marchio distintivo di ogni
totalitarismo … Il diritto (nella società contemporanea) finirebbe per diventare una legge
unica che è la legge del mercato, la quale è la legge della lotta di tutti contro tutti. Ma in questa
condizione si ha l’affermarsi esclusivo della dimensione della dualità (come ambito delle relazioni
tra gli uomini), tutti contro tutti (legge del mercato), che cancella ed esclude la dimensione della
terzietà, cancella quello che è differenziante il diritto – ovvero la terzietà nelle tre figure del terzo
legislatore, terzo giudice e terzo polizia – figure imparziali e disinteressate che presentano ciò che è
proprio della giuridicità, mentre quel che si limita a denunciare una parte, ovvero la parte del
mercato, permane in una dualità, in un fatto che non è imparziale e disinteressato e dunque non ha
nulla a che fare con il diritto ma semplicemente si identifica con il fatto che occasionalmente, per
contingenza risulta essere il fatto vincente.
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Lezione 30: Unità dell'io e ordine simbolico: filosofia del diritto e ipotesi di senso.
La
filosofia
coglie
nell’unità
dell’io
anche
la
genesi
dell’intelligenza
artificiale
e
dell’ingegnerizzazione delle norme; l’io è autore dell’ordine simbolico, che rende possibile queste
due prospettive, assenti nel non umano. Il silenzio creativo sollecita l’apertura di senso dell’io,
preparatoria delle istituzioni giuridiche, radicate nel ‘simbolico’, non riducibile nel mercato,
perché, come l’evocare dell’arte, mai può divenire la proprietà di qualcuno. Le ipotesi di senso
generano le controversie tra i parlanti, disciplinate dalle norme giuridiche, che non consistono
nell’esecuzione di norme tecniche.
La filosofia del diritto distinta dalla scienza del diritto è discussa perché si vuol mostrare che anche
i c.d. prodotti della scienza come ad es. l’intelligenza artificiale, come l’ingegnerizzazione delle
norme, hanno una loro genesi immediata nella scienza, ma hanno il loro inizio in un ordine non
scientifico, ma simbolico. All’inizio vi è ciò che è proprio dell’ordine simbolico, ovvero aver
trattato un insieme di elementi resi oggettivi e poi averli avviati per un senso che viene scelto.
Quindi l’intelligenza artificiale, l’ingegnerizzazione del diritto, non casualmente accadono
nell’esistenza degli uomini: non c’è nulla di simile nel mondo del non umano, dove è
completamente assente quel che è proprio dell’ordine simbolico. L’ordine simbolico è quello che si
può cogliere nella struttura stessa della parola, la parola è già la vita stessa dell’ordine simbolico,
perché dice diversamente da ciò che è detto, avvia un ascolto e una possibile interpretazione che
sollecita a cogliere ciò che viene comunicato in un ascolto creativo, in una delle molteplici direzioni
della plurivocità stessa della parola, dunque anche i prodotti delle tecno-scienze sono itinerari che
hanno la loro origine in modo esclusivo nell’uomo, il solo in grado di compiere una creazione di
senso attraverso la parola, dando vita ad un ordine simbolico che dice diversamente dal reale.
Se si dovesse non considerare questo inizio delle stesse manifestazioni più appariscenti delle tecnoscienze (intelligenza artificiale e ingegnerizzazione del diritto) e cioè che anche questi esiti non
sono legati alla soggettività, si dovrebbe con progressiva accelerazione cancellare tutto ciò che è
legato alla soggettività, ovvero quelle opere della soggettività che hanno rilievo giuridico, si
dovrebbe cancellare ad esempio quanto appartiene al diritto d’autore che segnala una creazione di
senso esclusiva dell’uomo in quanto soggetto. Se si rende sempre meno significativa la presenza
della soggettività si dovrebbero anche trovare delle difficoltà nell’analizzare la condizione giuridica
del lavoratore, nella disciplina della vita del lavoratore. Se si rimane nell’ordine semplicemente
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della produzione del consumo - situata nell’ambito delle tecno-scienze – non si capisce perché si
dovrebbe disciplinare la qualità della vita del lavoro dell’uomo, che diventerebbe solo un elemento
di conto e la soggettività non avrebbe nessun’altra considerazione se non quella che viene
dall’analizzare se la qualità della vita del lavoratore accresce o meno la produzione. Cioè il metro
sarebbe soltanto quello che si ricava dall’efficienza del lavoratore, dal quantum della produzione
lavorativa, il metro non sarebbe l’uomo, perché se l’uomo non fosse irriducibile alle operazioni
delle tecno-scienze non ci sarebbe nessuna ragione per pretendere una disciplina giuridica della
qualità di vita del lavoratore; si avrebbe soltanto in una visione coerente della bio-economia
un’attenzione all’efficienza del processo bio-economico ma non comparirebbe nulla del senso
esistenziale della bio-economia. Quando questo compare, compare perché l’attenzione è data alla
soggettività
Alain Supiot: nei sistemi totalitari del XX secolo si ha uno slittamento del considerare l’uomo
con espressioni che sono una sorta di quantificazione, di oggettivazione, di uso e consumo
dell’uomo. Hitler aveva detto materiale umano, Stalin capitale umano.
“Nella realtà contemporanea tutto fa perdere alla legge la sua maestà, il suo valore”.
Il principio “pacta sunt servanda” costituisce il nucleo della cultura giuridica del contratto. Questo
principio ha la sua genesi in una visione ortonoma del diritto; non nella eteronomia del diritto o
nella autonomia del diritto. L’eteronomia dice quello che viene dall’esterno perché posto ed
imposto da qualcuno che ha più forza. L’autonomia nomina ciò che viene convenuto nel
semplice formarsi di un convenire comune, indifferente ai contenuti.
L’autonomia e
l’eteronomia sono aperte a qualsiasi contenuto. Brentano maestro di Husserl: Il diritto è
ortonomo perché si propone con la medesima struttura del linguaggio che è discorso. Una
costante interconnessione coessenziale tra il nomos ed il logos. Nella ortonomia si dice certo
che c’è un convenire, un contratto su un qualcosa, un pacta sunt servanda che è un convenire per
qualcosa; ma questo convenire funzionale ha la sua misura nell’essere un continuo riferimento al
convenire per se stessi. E’ la priorità del convenire per se stessi a dare ragione giuridica, a
selezionere il convenire per qualcosa.
L’ortonomia è il continuo ricrearsi del soggetto di diritto nel soggetto del discorso, e del
soggetto del discorso nel soggetto di diritto.
Si riprendere l’espressione di Legendre: il legare con le parole, il legame che riguarda gli uomini, ed
il legare per le corna, il legame subito dagli animali.
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Il principio pacta sunt servanda si riferisce al legare con le parole, alla sua radice ortonoma.
Significa riconoscersi con assoluta reciprocità come soggetti parlanti, riconoscersi in modo
universale ed incondizionato come soggetti della parola che enuncia il convergere comune, il
convenire su qualcosa che è misurato dalla priorità del convenire per se stessi, ovvero dal
mantenere una libertà che non viene ceduta ad un quantum manipolabile nell’ordine
monetario e finanziario.
Nella tendenza nichilista contemporanea il concetto giusto diventa tutto ciò che è tecnicamente
realizzato. Tutto ciò che può trovare una concretizzazione tecnica che ha successo nel
procedere tecnico, si ritiene che possa essere messo in espressioni legali, e queste espressioni
legali sono tali da assorbire ogni interrogativo su ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Una
equivalenza delle norme della tecnica con le norme giuridiche.
Cogev(?) pensatore francese: la terzietà è costituita dalla unità distinzione tra le tre figure del
terzo legislatore, del terzo giudice, del terzo polizia.
Che cos’è che distingue la terzietà delle norme giuridiche dalle regole di una organizzazione
criminale, che cos’è che distingue la figura del “padrino” dal terzo del diritto. La distinzione è che
nell’ordine della giuridicità, dell’ortonomia del diritto, è costante ed essenziale un rinvio alla
domanda sul senso coesistenziale delle regole, sul senso coesistenziale dell’opera della terzietà.
La domanda di senso è tale perché ascolta l’altro. L’organizzazione criminale non solo non
ascolta l’altro ma gli toglie con violenza la parola, impone l’omertà. Il legare con le corna è questa
forma di imposizione. Il legame delle parole appartiene alla relazione dei soggetti parlanti, che
scelgono liberamente e che orientano le loro scelte verso un qualche cosa di definito, verso un per
qualcosa.
Nel legare con le parole c’è l’istituire una relazione giuridica che nasce muovendo dalla
custodia che la terzietà garantisce dell’esercizio della libertà di una parte che incontra e
condivide l’esercizio della libertà di un’altra parte.
Il rischio della condizione attuale è che l’affermarsi del fondamentalismo funzionale come
sistema che gerarchizza ogni altro sistema, finisca per dissolvere, trasmutare il modello del
legare con le parole, che si regge ed invoca la libertà e la reciprocità nel convenire, con il
modello del legare con delle procedure tecniche che nessun riferimento fa né alla libertà, né al
convenire secondo uno scegliersi esistenziale.
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