TESI 1 – RAPPORTO TRA TEORIA GENERALE DEL DIRITTO E FILOSOFIA DEL DIRITTO Una filosofia che non pensa il nomos (giustizia/norme-diritto) delle relazioni tra gli uomini si spegna, perché non si apre al logos (verità/linguaggio-discorso), illuminato dalle domande dei singoli, che si possono formare e svolgere soli in un dire intersoggettivo disciplinato dal nomos. Residua un dire narcisistico, individuale o collettivo, incapace di aprire interrogativi ed ipotesi di ricerca di senso, attivabili solo dal dire-dirsi nella reciprocità delle relazioni di riconoscimento incondizionato ed universale tra gli uomini, che sono custodite nel nomos. Senza il pensarecoesistere nel diritto, il pensiero filosofico si dissolve. La prima del tesi del corso di filosofia del diritto riguarda i rapporti fra la teoria generale del diritto e la filosofia del diritto. Per distinguere questi due itinerari è necessario tornare all’inizio del pensiero occidentale, all’inizio del pensiero filosofico, così come compare nei primi momenti della cultura greca dove viene discussa la distinzione ed il legame tra il logos ed il nomos. Il logos consiste nel linguaggio che è esclusivo degli uomini. Soltanto gli uomini hanno la capacità di esercitare un linguaggio. Il nomos riguarda la disciplina dei rapporto tra i soggetti.. Tornando alla differenza tra teoria generale del diritto e filosofia del diritto, si può dire che sono possibili due tipi di legami: legare in modo da impiegare una tecnica, la tecnica dei nodi, nell’esempio utilizzato da Legendre (filosofo contemporaneo francese) (tori legati per le corna), è un legame funzionale, destinato a far funzionare le operazioni, un legame per qualcosa che mette in primo piano il qualcosa ed in secondo piano gli uomini; E’ un legame tipico dei sistemi biologici si limita a funzionare perché sia conservata quella specie biologica. Nei sistemi biologici si presenta sempre ed esclusivamente soltanto una successione di informazioni vitali. Questo tipo di legame è quello della tecnica del funzionamento sistemico delle norme giuridiche. Questo legame tecnico funzionale si dispiega nei modelli di un linguaggio numerico, che tende a svuotare il diritto dalla sua specificità, trasformandolo in una delle tecniche della prassi manageriale, orientata dal funzionalismo gestionario; il legare che nasce con le parole, ed è il legame che gli uomini stabiliscono tra loro incontrandosi nel reciproco rapporto, nella reciproca relazione, di riconoscimento. Qui il modello non è quello di un legame tecnico ma è un modello di un legame che impegna l’arte 1 esclusivamente umana dell’istituire le norme giuridiche, di interpretare le norme di diritto. Si tratta di un legame esistenziale. E’un legame che appartiene al linguaggio disnumerico, non padroneggiabile dalla attualità vincente del mercato, in quanto la parola è polisensa, dice oltre quel che dice ed esige l’interpretazione giuridica. Il legare con le parole è formato ogni volta nella pienezza della lingua, che non è frammento settorializzabile dell’uomo, ma presenta il parlante nella sua unità esistenziale, l’io. Legare con le parole si può esemplificare pensando alla promessa, al promettere. Nietzsche dice che soltanto l’uomo è in grado di promettere e promettere vuol dire stabilire un legame che nasce con le parole, che viene istituito con le parole. Diversamente dal legame biologico, l’esercizio della soggettività da parte dell’uomo ovvero della sua inscrizione di senso nell’esistere con gli altri, non ha alle spalle una spiegazione scientifica. Il parlante si pone delle domande sul senso della vita oltre le operazioni biologiche: i sistemi biologici non istituiscono norme giuridiche, né si avvalgono al terzo-Altro, il giudice, con procedure istituite (penali, civili) differenziate rispetto al procedere naturalistico che continua le forme di vita, prive di un linguaggio svolto nella creatività del discorso intersoggettivo e triale. Tornando all’inizio di questa prima tesi bisogna considerare che nella realtà contemporanea, nelle realtà culturale contemporanea, si afferma tendenzialmente sempre più una direzione che ritiene di poter dare una spiegazione dell’uomo così come si dà un spiegazione dei sistemi biologici. La cultura contemporanea tende ad eclissare questa dimensione non spiegabile scientificamente dell’uomo, tende anzi a dare spiegazioni scientifiche alla stessa attività di produzione delle norme (attività legislativa), e la stessa attività dell’applicazione delle norme (attività giurisdizionale). L’italiano Esposito, nel suo dialogare con il francese Nancy, sostiene che “la libertà non è un diritto, ma soltanto un’esperienza” ovvero una delle innumerevoli modalità in cui può manifestarsi il senso. Quando si afferma questo convincimento che dell’uomo si può dare un spiegazione scientifica si afferma un itinerario che consapevolmente o meno finisce per aprire la via al nichilismo in generale ed al nichilismo giuridico. Se si pretende di spiegare la libertà degli uomini, se si pretende di spiegare la produzione delle norme che disciplinano la libertà degli uomini che sono in relazione, si finisce per dover affermare che la libertà è un nulla. La libertà è ciò che non si spiega, è ciò che stupisce, che non si lascia anticipare. Essa è ciò che, come coglie Aristotele, genera questo senso di meraviglia, di stupore, di sorpresa, proprio perché l’uomo nell’esercitare la sua libertà mostra il non essere oggettivabile 2 Le controversie costituiscono il materiale della esperienza giuridica: c’è diritto perché ci sono o ci possono essere delle controversie, ma le controversie che interessano il diritto non sono i conflitti vitali dei sistemi biologici. Nell’ordine biologico i conflitti vitali sono decisi dall’essere più forte, dall’avere più vita dell’elemento che entra in conflitto vitale con un altro elemento. Il diritto invece lascia apparire delle controversie che sono delle controversie di senso, ovvero sono delle controversie che riguardano il modo in cui ogni singolo uomo legge la sua presenza nel mondo che è condiviso con gli altri uomini, ha una sua lettura, ha una sua interpretazione del trovarsi nel mondo. I conflitti di interpretazioni chiedono di non essere risolti dalla legge del più forte, come avviene nei sistemi biologici, ma una soluzione del conflitto che è quella esclusiva della giuridicità ovvero appartiene ad una norma che è stata istituita avendo i caratteri della terzietà è sopra le parti. Dove c’è diritto c’è una relazione di riconoscimento, c’è il ritrovare se stesso nell’altro e dove c’è il riconoscimento c’è il superamento di un rapporto che è semplicemente di esclusione. L’uomo non si lascia incontrare nella forma di una oggettivazione che lo riduca ad un materiale vitale. L’uomo si lascia incontrare sempre nel suo essere capace di una soggettività creativa in un mondo, come ricorda Sartre, caratterizzato dalla penuria, ovvero da quella condizione dove non ce n’è abbastanza per tutte le possibili creazioni di senso di tutti gli uomini. Proprio per questo è indispensabile istituire una disciplina giuridica, volta a garantire alcune “esperienze” (per dirla con Esposito) e non altre. Secondo l’insegnamento di Sartre, la libertà non si lascia spiegare scientificamente: la libertà è sempre ciò che è ed anche ciò che non è, si presenta in una sua forma definita però ogni volta che si presenta in quella sua forma definita è già sempre oltre quella sua forma definita. Per questo l’uomo non è mai ciò che è. Secondo Sartre, nell’opera dell’essere nulla dell’uomo, si può dire che l’uomo non è mai ciò che è, è sempre ciò che non è. Per dire che l’uomo non è si afferma che l’uomo non è riducibile a nulla che si lasci incontrare attraverso un processo di oggettivazione tecno-scientifica. Dunque i tentativi di epurare, di emarginare la direzione interpretativa filosofica del diritto per lasciar essere soltanto la direzione che è propria di una tecnica di una scienza e di una tecnica del diritto, sono tentativi destinati a fallire perché non incontrano l’uomo poiché la qualità peculiare, ciò che distingue e differenzia l’uomo consiste appunto nella sua irriducibilità ad un oggetto che trovi una qualche sperimentazione scientifica. Roudinesco, una psicoanalista contemporaneo francese, dice che non c’è nulla di più distruttivo per un soggetto che l’essere ricondotto al suo sistema fisico-chimico perché in questo modo la soggettività viene cancellata, la libertà viene spenta, diventa nient’altro, secondo Roudinesco, che 3 un esercizio meccanico di una funzione vitale, ma questo, conclude la studiosa francese, porta alla vigilia di una nuova barbarie. Ecco che è opportuno considerare la distinzione che viene fatta più volte nel corso di questi ultimi decenni, viene ripresa in modo originale da più autori, viene ripresa soprattutto da Scheler che è un filosofo tedesco che si forma con Husserl ma che si allontana poi da Husserl che scrive nei primi decenni del novecento e che distingue con forza la società dalla comunità perché la società si costruisce secondo un modello che è vicino a quello dei sistemi biologici. Nella società prevale la dimensione del funzionalismo, prevale ciò che è proprio di una funzione ovvero di un “per qualcosa”, mentre nella comunità, scrive Scheler che quel che è essenziale è un insieme vissuto direttamente da tutti i suoi membri. In modo fondamentale, Heidegger, che è il pensatore contemporaneo di maggiore vigore speculativo, dice che all’uomo appartiene questa dimensione centrale dell’esistere come mortale, ovvero dell’avere nella sua esistenza la questione del senso della morte la quale implica una forma di coesistenza che è possibile, che si possa comunicare, che si possa compartecipare, che possa trovare delle forme coesistenziali nel modello della comunità. Nel modello della società invece la morte diventa un fatto privo di rilievo, è qualche cosa che disturba il funzionamento del produrre il consumo, è un incidente che viene calcolato tra i tanti altri incidenti ma non ha un rilievo esistenziale. La scienza conosce, tornando ad Heidegger, il fatto della morte, la tecnica lo tratta, ma entrambi non riescono ad accedere al senso di ciò che significa esistere come mortali. Esistere come mortali significa esistere in un condizione dove si ha la consapevolezza di esistere con gli altri non avendo un dominio integrale del proprio esistere: questa consapevolezza porta a far luce sul nomos, ovvero sulle regole: chi non può tutto, e dunque non può avere un dominio integrale sulla sua vita non ha un sapere totale poiché la morte rimane un mistero non può tutto sugli altri. Heidegger precisa che la teoria del reale nel pensiero moderno, a differenza del pensiero greco dove la teoria del reale aveva una capacità di disvelare la verità, nella condizione contemporanea invece le teorie del reale finiscono per funzionare come delle operazioni che esigono di avere una incidenza tale da frammentare l’Io, da ridurre l’unità dell’Io in molti frammenti. Dunque le teorie del reale, e dunque la stessa teoria generale del diritto che non entra in dialogo con una filosofia del diritto, incontra l’uomo come se lo potesse incontrare in un suo frammento, lo incontra come l’uomo che è l’uomo del diritto, del fenomeno diritto, quasi che si potesse mettere a parte, separarlo radicalmente dagli altri frammenti di uomo: quello della vita affettiva, l’uomo della vita artistica, l’uomo che esercita la propria attività di ricerca e di creazione di un senso. Dunque le teorie del reale, la teoria generale del diritto come una delle teorie del reale finiscono per 4 comportare una sorta di declino, di caduta del pensiero giuridico perché esigono che l’uomo sia incontrato in diversi frammenti, che l’uomo del diritto possa essere incontrato come una parte dell’essere uomo. Invece la filosofia del diritto sollecita a pensare che ogni volta che ogni volta che un insieme di norme istituite incontra l’uomo, lo incontra nella sua interezza, lo incontra proprio per questo nella sua responsabilità, come colui che risponde della sua soggettività. Il nichilismo diventa un nichilismo giuridico quando spezza questo ponte essenziale fra una teoria generale del diritto ed una filosofia del diritto, ovvero quando spezza questo ponte essenziale fra incontrare l’uomo anche nelle sue distinte, diversificate presentazioni particolari che sono quelle trattate dalle diverse scienze, ed invece incontrarlo nella unità, nella sua esistenza che non può essere frammentata perché sempre ripropone, tornando a destare ciò che è proprio dell’inizio della filosofia, ovvero la meraviglia e lo stupore, perché appunto ripropone questa unità non anticipabile di un soggetto creatore che però esistendo in un mondo dove non ce n’è abbastanza per tutti entra in conflitto, entra in una coesistenza che è attraversata dallo stato di penuria e dunque chiede la disciplina giuridica, ricordando però che la giuridicità è sempre tale se ha i tratti che sono propri di una regola terza e non di una regola di parte. Fenomenologia, nel pensiero di Heidegger, è la ricerca di ciò che innanzitutto e per lo più non si manifesta, ciò che è nascosto ma esprime il senso ed il fondamento della cosa, diversa da ciò che si lascia mostrare della cosa stessa. 5 TESI 2 – L’ORDINE SIMBOLICO: TRIALITA’ DEL LINGUAGGIO (LOGOS) E TERZIETA’ GIURIDICA (NOMOS) La trialità del logos si dispiega nell’”ordine simbolico” dove i soggetti parlanti prendono e destinano la parola ipotizzante, tenendosi in un luogo terzo, che non è di un singolo, ne di una qualsiasi altra entità. Qui si apre il darsi inevitabile delle controversie tra gli uomini, alimentate dalla condizione di penuria del mondo e regolate alla terzietà del nomos (filosofia del diritto), secondo la principalità del modello relazionale della filiazione, esclusivamente umano e non riducibile in quello biologico della riproduzione animale (Tecno Scienza del bio-diritto). Trialità del logos: i soggetti prendono la parola a partire da un luogo terzo, da un luogo che non è né il luogo di chi prende la parola, né il luogo di quanti sono gli interlocutori, i destinatari di questo prendere la parola. Tra i soggetti di una relazione comunicativa c’è questo spazio terzo, non padroneggiabile con la forza, dove ognuno prende la parola e la ridestina. A garanzia di questo spazio è posta la terzietà del nomos: il diritto, dunque le norme giuridiche vigenti in un tempo in un luogo, operano in modo tale che ognuno possa esercitare questo diritto primo, prendere la parola ovvero dire se stesso, partecipare a ciò che appartiene alla coesistenza. Nessuno può impedire che ognuno nella sua struttura esistenziale concepisca una comunicazione la faccia transitare agli altri nei modi e nei tempi che sono propri di ogni forma che ricostituisce una relazione caratterizzata dal reciproco riconoscimento. L’impiego del termine soggetto, come viene sostenuto da Derrida, non è confondibile con la sostanza della struttura delle cose. L’uomo è titolare di diritti perché non è una cosa, è titolare di una soggettività giuridica perché è soggetto ed è soggetto perché la sua struttura non coincide mai con una nessuna sostanza definita, non ha una possibile conformazione di tipo sostanzialistico. Derrida sostiene che bisogna sempre tornare a criticare ogni visione del soggetto ritenuto come sostanza identica a se stessa. Perché se si dovesse ritenere che il soggetto, l’uomo, colui che parla, come una sostanza identica a se stessa, si finirebbe per dire che questo soggetto non è aperto alla creazione del suo discorso, non è aperto a creare un senso ed a iscriverlo nel mondo condiviso con gli altri. Derrida insiste in una critica di ogni forma sostanzialistica di riduzione dell’uomo a sostanza così come sono riducibili le cose a sostanza. L’uomo non è una cosa, non è un semplice vivente perché non è oggettivabile in nessuna sostanza, la supera sempre, c’è sempre nella manifestazione di ogni singolo uomo di un plus che eccede qualsiasi confine in una possibile sostanza definita e proprio in questo plus compare l’inesauribile esercizio del diritto da parte dell’uomo, del diritto a formare la sua identità. L’identità che però è un’identità esistenziale, quindi non è una identità data una volta per sempre. 6 Il diritto garantisce che l’uomo costruisca una identità che non è mai ultima, che non è mai definitiva, che è sempre da riprendere nel lavoro continuo della comunicazione discorsiva con gli altri uomini. Diversamente da Derrida, Roberto Esposito che ha colloquiato in un volume con Nancy, arriva ad affermare che la libertà non è nient’altro che una esperienza. Quindi la libertà non sarebbe un diritto ma nient’altro che una esperienza perché la stessa questione del senso è una esperienza. La questione del senso viene presentata in modo paradossale da Esposito in “libertà in comune”, che afferma che “ogni senso è libero di essere uno degli infiniti sensi in cui è esploso il senso” e dunque non può essere qualcosa che costituisce il contenuto dell’esercizio di un diritto incondizionato di ogni singolo uomo. Se è soltanto l’esplosione il senso non c’è che da stare a vedere ciò che si afferma, non c’è che da rassegnarsi a prendere atto di ciò che essendo vincente si afferma su altre forme, su altri tentativi di far emergere un senso invece che in un altro, e di farlo emergere tramite alcuni uomini invece che attraverso altri uomini. Nel sostenere questo Esposito non tiene conto che il modo in cui si descrive questa esplosione di senso non è indifferente: non si stratta soltanto di un gioco, non è un fenomeno ludico di tipo vitalistico come si può osservare negli altri animali. Gli effetti possono essere radicalmente opposti, si può dire che in base al modo in cui è esploso il senso, si potranno avere delle forme di coesistenza che sono nettamente diverse. Si potrà avere l’affermarsi dei crimini contro l’umanità che è una direzione in cui il senso è esploso, oppure si può avere invece una mondializzazione dei diritti dell’uomo. Dunque non si può condividere la posizione di Esposito e di Nancy che vedono nella questione del senso soltanto un giuoco che registra questo formarsi di modalità sempre distinte, sempre difforme del senso, che finiscono per dar vita poi a delle forme diverse di organizzazione della stessa vita quotidiana, della stessa vita pubblica, delle stesse istituzioni anche giuridiche. Non si può condividere che sia solo questo perché si dovrebbe allora concludere che le istituzioni giuridiche in modo indifferente possano essere il luogo dove si praticano dei crimini contro l’umanità come accade nei sistemi dittatoriali, o invece siano le istituzioni giuridiche quei luoghi che sono destinate a garantire la mondializzazione dei diritti dell’uomo. Il termine soggetto nel pensiero moderno, soprattutto dopo che Freud ha dato attenzione all’inconscio, ha una valenza diversa da quella che ha avuta nella storia del pensiero filosofico precedente. Con Freud si prende atto che il soggetto è sia l’autore di ciò che dice, ma è anche colui che è sempre attraversato da ciò che non dice, e questo non è senza rilievo nella vita del diritto (nel diritto penale il soggetto, l’autore di un delitto, è incontrato nella sua soggettività non soltanto se viene incontrato nell’essere il portatore di ciò che dice ma se si riesce a svelare ciò che gli appartiene pur non essendo mai stato posto in parole, ciò che gli appartiene perché è la sua dimensione inconscia). 7 Con Freud diventa difficile incontrare in modo critico la soggettività dell’altro che è certamente l’autore, colui che è responsabile delle scelte che compie, delle azioni che pone in essere, delle condotte che decide di assumere, di perseguire, di realizzare, ma è anche colui che è attraversato da questo mondo dell’inconscio: il giurista non può non entrare anche in rapporto con questa dimensione. Si torna ad affermare ciò che in modo efficace si era già letto in Sartre, ovvero che la condizione esistenziale dell’uomo che non è soltanto la sostanza ma è anche ciò che l’uomo non è, non è soltanto la coscienza consapevole che esercita ma è anche la dimensione dell’inconscio che gli appartiene. Nella scoperta freudiana assume rilevanza la compresenza del detto e del non detto, di ciò che è patrimonio della coscienza dell’uomo e di ciò che appartiene invece al suo inconscio, proprio in questa duplicità di dimensioni si chiarisce lo spazio iniziale del diritto. Kierkegaard L’uomo vive, coesiste con gli altri avendo istituito delle norme, ma è possibile che abbia istituito delle norme perché nell’uomo la struttura temporale è profondamente diversa dagli altri viventi non umani, dai singoli oggetti. Secondo Kierkegaard (filosofo che dà il via all’esistenzialismo come critica di ogni visione sistemica del sapere, che ha trovato nell’idealismo tedesco il suo compimento) la dimensione temporale dell’uomo non è il rapporto ma è il rapporto che si mette in rapporto con se stesso. Egli sollecita a pensare che la struttura temporale dell’uomo è quella della doppia contemporaneità, ovvero l’uomo è contemporaneo con gli oggetti che lo circondano, però è poi contemporaneo a questa contemporaneità, ovvero ha la coscienza della sua esistenza. Tra la prima contemporaneità e l’essere contemporaneo a questa contemporaneità, vi è lo spazio della libertà, dove l’uomo nell’essere contemporaneo verso gli elementi che lo ambientano, stabilisce delle direzioni di senso, stabilisce degli orientamenti, formula dei progetti di mondo. Freud, sul tema, ha affermato che il soggetto è caratterizzato dalla presenza a se stesso e dalla coscienza della sua esistenza. Tutto questo costituisce l’inizio delle questioni del diritto, costituisce l’inizio della questione del perché nasce il diritto. Il diritto nasce perché non è anticipabile il modo in cui l’uomo nella seconda dimensione della contemporaneità si farà contemporaneo agli elementi che lo ambientano. E non essendo tutto questo anticipabile non può essere oggetto di conoscenza scientifica, ovvero dalle discipline che studiano la vita nei viventi non umani che sono tutti integralmente anticipabili nelle loro manifestazioni vitali. Il diritto si istituisce quindi in questo spazio che è proprio della temporalità dell’uomo, che è situato tra la prima contemporaneità, l’essere in una condizione di simultaneità con gli elementi che ci ambientano, e l’essere poi simultanei verso questa simultaneità, ovvero compiere un’opera di riflessione, compiere un’opera che è quella propria del progettare ed è nel progettare, nel creare un itinerario nuovo che viene ad essere il risultato di una relazione che interessa gli uomini in un 8 rapporto comunicativo, dove il comunicare non è l’informare con comunicazioni vitali che appartengono agli altri animali, ma l’interrogarsi sul perché, sul senso di ogni uomo nella sua esistenza e sulla sua esistenza condivisa con gli altri e sul senso delle regole che disciplinano questa coesistenza: nel compiere quest’opera di riflessione, compie l’opera che è tale da manifestare la sua struttura temporale che è questa della doppia contemporaneità. L’apertura di senso del soggetto entra in rapporto con quelle degli altri, producendo le controversie che generano la genesi fenomenologica del diritto, che opera mediante il terzo Altro come disciplina delle polte possibili inscrizioni di senso che, essendo diversificate in un mondo caratterizzato dalla penuria, sono destinate ad escludersi in un mondo condiviso nel quale non tutte le ipotesi di senso dei parlanti possono realizzarsi: Tutto ciò che ha a che fare con il diritto, dice un giurista francese Ost, ha a che fare con la dimensione principale della temporalità che è la promessa, ovvero il futuro. Il futuro è dunque la dimensione principale del diritto, che è una dimensione cha appartiene esclusivamente agli uomini. Gli animali hanno un poi, hanno un ciò che accade dopo, ma non hanno nulla a che fare con il futuro. Il futuro è lo scegliere un progetto, secondo Heidegger, è l’infuturarsi, che vuol dire compiere una scelta nel progettare un’esistenza che è sempre condivisa con gli altri in un mondo sempre avvolto da questa condizione dove non ce n’è abbastanza per tutti e dunque dove è indispensabile l’intervento di una disciplina giuridica. Il diritto costituisce la regola terza che contempla la possibilità che coesistano il mio ed il tuo senza la violenza di ciò che è più forte dell’uno sull’altro. L’io non è anticipabile da alcuna conoscenza oggettivante: le teorie del reale tendono a settorializzare l’uomo dissolvendolo nelle molte regioni sistemiche che costituiscono i distretti di tali teorie (economia, politica, etc). Ogni teroria-scienza non incontra l’io integrale dell’uomo, ma un uomo frammentato, scisso come avviene nel caso delle tecno-norme di una scienza giuridica senza giurista. I viventi non umani, gli animali, sono attraversati da una evoluzione biologica che accade, ma non comporta una partecipazione consapevole e responsabile, un intepretarsi dei viventi nella la prospettiva della creazione di senso, che invece è nucleo delle formazioni storiche che ambientano le istituzioni giuridiche. Le regole dello stato civile possono essere osservate e descritte nel coesistere dei parlanti ma non nel vivere insieme degli animali. Nella coesistenza dei soggetti parlanti le regole non sono prodotte ed applicate dalle operazioni di un saper fare tipico del tecnico delle norme. 9 TESI 3 – GUSTIZIA E LEGALITA’: L’ARTE DEL GIURISTA L’arte del giurista non si esaurisce nel servire una forma vuota che è legge a se stessa:la legalità (Teoria generale del diritto) senza la giustizia (filosofia del diritto). Nella situazione contemporanea, l’opera della ragione giuridica è impegnata nell’illuminare la differenza tra l’umanesimo del diritto ed il post-umanesimo delle norme, costitutivo oggi delle diverse figure di funzionario-tecnico del “sistema normativo”, concepito come sistema di funzione , desoggettivato ed indifferente alla qualità del relazionarsi nel rispetto o nella violenza dell’altro. Il metodo trionfa sulla scienza quando si afferma un itinerario dove il solo metro è la precalcolabilità di ciò che viene trattato. L’uomo ritarda e devia il trionfo del metodo sulla scienza perché, con il suo esistere nell’ascolto artistico, disnumerico e disfunzionale, lascia presentarsi ancora ciò che non si lascia calcolare nell’anticipazione di quel che è calcolabile impiegando un definita metodologia. Il senso della Teoria del diritto si illumina nella differenza-di-senso nei confronti degli oggetti della teoria dell’economia, della politica. Le parole del diritto nascono dal silenzio creativo sulle parole dell’economia, della politica, è solo quel silenzio che consente di nominare il diritto, differenziandolo nella sua direzione fenomenologica. Il silenzio, così come definito da Platone, incide come la luce: il silenzio non si sente e non si legge, ma rende possibile l’ascoltare-comprendere; la luce non si vede, ma è condizione del poter guardare. Il silenzio è la preparazione responsabile delle parole da enunciare. Il “pensiero preparatorio” sollecita lo scegliersi dei parlanti nell’istituire il futuro, che non va confuso con l’accadere poi di una commistione fattuale ed a-soggettiva. Ciò, cioè il semplice accadere-poi si afferma nel nichilismo giuridico perfetto, condizione del post-umanesimo compiuto. L’umanesimo, nella prospettiva di Jaspers, afferma cha appartiene all’ uomo l’esercizio responsabile della libertà, nella condizione contemporanea, però, lo sviluppo delle tecno-scienze costringe ogni esistente in itinerari dove solo chi è capace di una competenza specializzata può oggi produrre qualcosa di significativo. La condizione per umanesimo futuro è l’infinito affaticarsi intorno all’assimilazione e al controllo della tecnica. In questo “affaticarsi” emerge il compito esistenziale del diritto nel disciplinare gli effetti delle tecno-scienze, che incidono sulla qualità del poter essere liberi in un mondo condiviso. Del resto l’estensione del dominio della tecnica non ha confini, coincide con l’attuale processo di globalizzazione del mercato, così che oggi è divenuto impossibile emigrare in altre terre per fondarvi un’altra migliore comunità. 10 Jasper osserva che molte civiltà sono tramontate e l’umanità è minacciata nella sua totalità e che tale minaccia è avvertita più acutamente di sempre e che,nella sua virulenza, non coinvolge più soltanto i beni della vita, ma lo stesso essere uomo. Si aprono in questo modo gli itinerari di un oscurasi dell’ umanità nel post-umanesimo. L’umanesimo non è la causa della libertà né il suo fine ultimo, ma ne costituisce lo spazio spirituale. La libertà non è mai l’oggetto di un sapere totale che spieghi i nessi causali e casuali, ma si chiarisce sempre in sapere parziale. Heidegger non condivide la tesi di Nietzsche, secondo il quale ciò che caratterizza il XIX secolo non è la vittoria della scienza, ma il trionfo del metodo scientifico sulla scienza. Heidegger infatti sostiene che per metodo si intende la totale calcolabilità di tutto ciò che si rende necessario e dimostrabile nell’esperimento. In questo senso, il metodo è un trionfo anche sull’uomo, che diventa solo uno tra i materiali pre-calcolabili, così d affermarsi il convincimento che l’uomo rappresenta ancora un fattore di disturbo. Crea disturbo l’apparentemente libero pianificare e fare dell’uomo. L’uomo infatti devia il trionfo del metodo sulla scienza perché con il suo ec-esistere artistico, disnumerico e disfunzionale , si presenta ancora come ciò che non si lascia calcolare. Si descrive così la dimensione artistica dell’opera del linguaggio –discorso, della parola rinviante che eccede il successo sistematico fattuale dei linguaggi numerici, usati nelle tecno-scienze. La discussione della condizione contemporanea può progredire con la critica di Nancy che sostiene che la libertà è un fatto, cioè una libertà fittizia, consistente nel suo stesso farsi,senza alcuna regola. Le tesi di Nancy però non considerano il peculiare incidere della “formatività”sulla condizione dell’essere liberi, che nasce e si costudisce nel medio della trialità (logos)-terzietà (nomos) e dunque nel reciproco chiarirsi del linguaggio-discorso e della struttura del diritto. La teoria della formatività si deve analizzare, riferendola: 1) alle modalità peculiari dell’arte pura, poetica, musicale; 2) agli elementi costitutivi dell’arte istituire-applicare il diritto . Nell’arte pura l’opera riuscita non ha altro titolo per offrirsi al riconoscimento che l’essere riuscita. Fuori dall’arte pura, quindi essenzialmente l’arte del diritto, la riuscita è misurata dalla corrispondenza dei fenomeni sociali agli scopi che li specificano. Tali scopi non possono essere confusi né con una creatività assoluta del singolo artista (eccezione) né con l’occasionalità di ciò che accade (casualità). Nelle istituzioni radicate dell’arte del diritto, gli uomini si relazionano giuridicamente solo in quanto conoscono già la norma istituita che precede e disciplina i loro atti e che conferisce ad essi una forma certa. 11 Il giurista,diversamente dall’artista dell’arte pura non opera con una forma che è legge a sé stessa. Opera invece con una forma che ha la sua Legge nella specificità della differenziazione del fenomeno diritto degli altri fenomeni sociali. La libertà non è un fatto innocente, senza l’unità-differenza delle dimensioni temporali-passato, presente e futuro- non si svuota nel declino nichilistico del senso, è l’esercizio della responsabilità che memora il passato e, nel presente, progetta il futuro del mondo con-diviso e disciplinato dall’ortonomia del diritto dell’uomo, che conferisce senso esistenziale all’ incidere delle norme giuridiche nelle relazioni tra gli uomini. 12 TESI 4 – ISTITUIRE IL DIRITTO: OLTRE LA SISTEMAZIONE LOGICO-FORMALE DELLE NORMA La “teoria del diritto” tratta la sistemazione logico-formale delle norme; non dice nulla sul senso esistenziale del diritto, perché non pensa l’”ordine simbolico”, che, distinto dall’”ordine cosale”, sostenta la dimensione contro fattuale della terzietà giuridica, imparziale e disinteressata, nell’opera d’arte di istituire le norme (terzo legislatore) e dell’enunciare il giudizio (terzo giudice), garantito dalla forza (terzo polizia). Nella discussione del rapporto tra teoria generale del diritto e la filosofia del diritto è essenziale cogliere il confine tra l’ordine delle cose (cosale) e l’ordine simbolico che alimenta la giuridicità. L’ordine cosale è l’ordine di tutto ciò che si lascia oggettivare, contare, di una tecnica. Il metodo si tecnicizza e domina la scienza (Nietsche). L’ordine delle relazioni tra i soggetti di diritto (simbolico) si forma in modo continuo ed inesauribile tipico del modo di incedere dell’uomo. Viene oggettivato un insieme di entità di oggetti, dopodiché questi elementi ricevono un senso nuovo che viene inscritto attraverso l’opera di istituire una seconda vita, la vita delle istituzioni. L’ordine simbolico risulta dall’attività dell’istituire che costituisce la base delle istituzioni giuridiche. L’istituire le norme da pare del legislatore terzo, enunciare le sentenze da parte del giudice terzo con la garanzia della forza da parte delle forze di polizia terze. Tre qualificazioni dell’essere terzo, che sono un tutt’uno e che formano un ordine simbolico, nel quale i tre elementi dell’essere terzo sono funzionali l’uno all’altro. Il riferimento principale è alla vita di relazione. Ficht dice che l’uomo è tale solo se ci sono gli altri uomini e se non è oppresso dagli altri uomini, se è in una relazione distintiva del relazionarsi giuridico. Quando si riprende la tesi di Ficht (l’uomo diventa uomo solo con altri uomini) si fa riferimento a quanto scrive attualmente Nancy dell’uomo ““Ogni ego sum è un ego cum” ogni io sono è un io con. E’ un uomo singolare plurale. L’uomo è singolare ma la singolarità della sua identità attiene ad una singolarità che è tale nella pluralità. Nancy nell’affermare ciò non si ferma nel descrivere che appartiene alla struttura dell’uomo la dimensione fondamentale del pathos, ovvero del sentire originario, che è un sentire che eccede la dimensione biologica. L’uomo forma la propria identità attraverso le identità degli altri con un processo che non si ferma mai. Il diritto garantisce che ognuno possa essere singolare (dire se stesso, prendere la parola). Questa dimensione “patetico-affettivo”. Il pathos è la dimensione base, originaria, costitutiva della peculiarità dell’essere uomo, è il sentire che appartiene solo all’uomo perché solo in esso c’è il sentire che ne va di se stesso. L’uomo non si limita ad essere un fatto, l’accadere di qualche cosa: nell’uomo c’è qualcosa che eccede, che è l’avvertire che è in 13 gioco il suo sé stesso. E che quindi è in gioco il suo sé stesso in un ordine che è l’ordine simbolico, l’ordine che nasce nelle forme storiche, che come tutti gli ordini simbolici acquista la modalità che è propria della storicità. Il linguaggio che riguarda il diritto è un “linguaggio–discorso”, che ha una disciplina che viene formata di volta in volta, in quel luogo, tempo, modo di relazionarsi. E’ un modo che è stato istituito e così sono state istituite le norme che lo disciplinano, che essendo state istituite chiedono un lavoro interpretativo. Il linguaggio degli altri viventi, informazionale, non richiede di essere istituito, interpretato, non esige l’opera d’arte dell’interpretazione, che è opera centrale del diritto. Il diritto è il diritto incontrato dalla filosofia del diritto, ed interessa l’esistente nella sua differenza fenomenologica rispetto alle altre forme di vita. Non ci sono norme che nella vita degli uomini. Le norme sono solo istituite. Norme non si danno in nessun altro ambito del non umano. La contrapposizione tra mondo delle tecniche e della filosofia, nel mondo attuale, si manifesta nel cercare di sostituire il mondo incerto della filosofica con la certezza del mondo scientifico e tecnico: però questa certezza che si ritiene di poter guadagnare ha un costo altissimo, in quanto comporta la negazione della soggettività dell’uomo. La soggettività non si lascia accertare, essere messo in regole certe. Haidegger dice che la scienza non pensa, ovvero la fisica non può affermare nulla sulla fisica, su sé stessa, non si può dire cos’è la matematica con un calcolo matematico. Le scienze secondo Heidegger non sono in grado di rappresentare sé stesse come scienze, con i mezzi della loro tecnica. Ogni scienza è già chiusa nel suo settore, come è chiusa la stessa intelligenza artificiale (Harel, non si può computare la computazione, i computer non sono in grado di dire qual è il senso della computazione, in che modo incide nell’esistenza dell’uomo la computazione). Heidegger dice che viene rimosso il problema del senso. Ogni scienza tanto più progredisce tanto più dà compimento di un metodo, tanto più rimuove le domande sul senso. Le questioni che investono il diritto sono sempre questioni sul senso. Non ci sono controversie numeriche o vitali, non vi sono contrapposizioni su diverse modalità di vita, si hanno contrapposizioni tra diverse interpretazioni del senso che risponde alla domanda “che ne è di me stesso?”. Questo tipo di domanda è costitutivo dell’uomo nell’avere a che fare con gli altri uomini e costituisce le controversie giuridiche come controversie di senso. Quando si ritiene che le controversie tra gli uomini non sono controversie di senso, cioè non sono tali da incontrare il terzo legislatore, per essere incontrato scientificamente, non si incontra più nulla dell’uomo, anzi si incontra il nulla dell’uomo, si incontra la riduzione dell’uomo sul piano del nichilismo perfetto (Nietsche). Quando si persegue il convincimento di poter dire i fenomeni della giuridicità secondo lo schema normativo delle teorie del reale, allora si dicono le norme, destinate ai frammenti di io , ma non si dice il diritto, che è riferibile unicamente all’unità esistenziale dell’io. La teoria generale del diritto dice solo la funzionalità sistemica delle norma nelle tante partizioni e sottopartizioni dei sistemi normativi vigenti, non pensa il senso del diritto nel nesso uomo-diritto e dunque enuncia una sistemazione di modelli di norme senza questionarne il senso nella differenza nomologica dirittonorme che costituisce l’orizzonte della filosofia del diritto. 14 Il solo titolare del diritto, di una pretesa giuridica rivolta al terzo altro, una pretesa a non essere usato nell’esecuzione di una tecnica, il solo titolare è l’uomo che pretende di manifestare il suo essere diverso rispetto a qualunque altro e questo comunica ogni volta che va valere uno dei suoi diritti fondamentali ma anche ogni volta che fa valere un diritto che è contenuto in qualche enunciato normativo. Sempre diventa essenziale un rinvio al ripristino la condizione differenziale dell’uomo, l’aspettativa dell’uomo di essere incontrato dal terzo attraverso l’arte del diritto e non da un tecnico delle norme. Il palazzo di giustizia non è un’officina che ripara guasti, è un luogo dove si ricerca il giusto nel legale. Ciò consente a Scheler (autore del pensiero tedesco moderno, primi decenni del 900, che si forma con Husserl, dando avvio ad una fenomenologia dell’uomo e del diritto) di affermare che “per quale altro motivo noi non ci attendiamo mai che gli animali possano obbedire alle leggi, alle leggi morali, giuridiche? E perché non ce lo attendiamo dalle macchine, neanche da quelle intelligenti? Perché né animali né le macchine si trovano mai davanti all’alternativa tra violare o rispettare una norma. La macchina ha un guasto, ma non compie gesti di violazione delle regole che sovrintendono al suo funzionamento. I concetti di giusto e bene e rispetto si oppongono al concetto di non giusto e di male e di non rispetto attengono ad una condizione che attiene ad una alternativa aperta che necessita di una disciplina, la disciplina giuridica. Negli uomini non c’è mai coincidenza tra le norme che sono istituite e le loro condotte: c’è sempre uno spazio, un vuoto, che lascia aperto all’uomo la scelta tra rispettare la legge istituita e non rispettarle. Il diritto rispetta la struttura delle relazioni tra gli uomini se rispetta le modalità attraverso le quali il diritto per incontrare gli altri ricrea di continuo la dimensione artistica, che è capace di incontrare la soggettività nelle sue dimensioni mai anticipate, mai riproducibili. Non ci sono scienze che possono riprodurre o anticipare la condotta degli uomini. L’uomo ha l’aspettativa a trovare una garanzia nel diritto affinché il suo desiderio non sia confuso e svuotato nelle modalità animali. Ciò che inquieta nel mondo moderno è che la cosiddetta fabbrica dell’uomo occidentale, per usare una frase di Legendre, è una fabbrica che ritiene di potere sempre di anticipare sempre l’opera di fabbricare l’uomo, del costruirlo come consumatore, pretendendo di ridurlo ad uno solo degli elementi del sistema dell’economia. Ma l’uomo è una bestia avida portatrice di una voglia di infrangere la possibilità di essere costretto nella condizione di consumatore costruito dalla fabbrica dell’occidente, chiede che la sua condizione gli sia garantita dal diritto e consista nel contenuto primo delle norme giuridiche e delle pretese giuridiche che rivolge al terzo nella consapevolezza di rivolgersi ad un terzo che è tale in quanto imparziale e disinteressato. La comunicazione, luogo del destinare-ricevere la libertà che è dire-dirsi nelle parole, è già il relazionarsi nella struttura e nelle leggi non disponibili del linguaggio-discorso, così che la libertà dei parlanti non è coesistibile fuori da leggi non disponibili, non è dunque senza leggi, ovvero 15 non una modalità di autolegislazione fattizia, consistente in una forma, pura e vuota, di un accadere aperto a tutti i possibili contenuti che si affermano perché di fatto vincono ed emergono. L’uomo esercita la libertà ma non dispone del trovarsi in essa o fuori di essa. Il diritto dell’uomo corrisponde al rispetto del soggetto parlante, mentre trattare ed usare l’esistente come un vivente-parlato corrisponde al diritto nell’uomo. Nelle aule di giustizia viene discusso il diritto dell’uomo, non il diritto nell’uomo, non vi entrano né le nude norme né i nudi fatti costituenti la “libertà fattizia” senza un chi responsabile del suo scegliersi. La filosofia del diritto sollecita le domande sul senso del legame tra la giuridicità, l’interezza dell’uomo e l’opera d’arte del giurista (Carnelutti), che consiste nell’istituire, interpretare e nell’applicare le norme. L’osservazione e l’analisi del soggetto parlante mostrano che fenomenologicamente si incontra prima l’uomo, “chi” del logos, nella trialità del linguaggio discorso connessa alla terzietà del nomos che disciplina (giusto/non giusto) il prendere-destinare la parola in uno spazio logico-esistenziale non padroneggiabile da qualcuno escludente l’altro. Solo poi si incontrano le norme istituite, costitutive di un ordine giuridico positivo (legale/non legale) storicamente individuato. Le leggi dei viventi non umani risultano da un divenire integralmente coincidente con l’evoluzione, priva della coalescenza di logos, pathos e nomos, che formano e differenziano la storia. 16 TESI 5 – CONVENZIONE FUNZIONALE E RELAZIONE GIURIDICA: IL SENSO GIURIDICO La Teoria tratta le norme nella prospettiva delle convenzioni funzionali (numerare il per-qualcosa). La filosofia pensa il diritto nelle convenzioni essenziali (il dire per se stesso); discute l’istituzione delle forme ortonome della relazione giuridica che, in una duplice e connessa direzione, tolgono dall’in-forme, senza un senso e liberano dall’assoggettamento alle forme imposte dalla attualità vincente del più forte, che oggi consiste nel funzionare-più del Nessuno, nucleo del fondamentalismo funzionale. La lezione discute il rapporto tra convenzione ed il diritto, intendendo per convenzione ciò che costituisce l’incontro tra due volontà che convengono. Si ha una modalità del convenire funzionale e del convenire essenziale. La prima riguarda le forme e i contenuti e gli itinerari con cui due soggetti convengono su qualcosa di definito, per qualcosa, come nel contratto. La convenzione essenziale consiste nel convenire iniziale per se stessi, ovvero in quel convenire che manifesta uno scegliersi del singolo soggetto e dell’altro singolo soggetto ed attiene alla priorità giuridica dell’io, al suo non asservimento né agli altri, né all’asservimento al successo del mercato o di definite operazioni funzionali ad un per qualcosa. Ogni relazione si stabilisce in un convenire per qualcosa, ma che all’inizio ha un convenire per se stesso. Il convenire su qualcosa che tralascia il per se stesso: si conviene su qualcosa che non muove dal convenire per se stesso. Il convenire funzionale si configura in un ruolo (venditore etc), mentre il convenire essenziale eccede ogni ruolo, ma costituisce il senso del convenire di un uomo con un altro uomo, e costituisce un esercizio della propria libertà. Il convenire essenziale è alla genesi di ogni convenire funzionale. La convenzione funzionale è fenomenologicamente omogenea alla giuridicità (è giusta) quando viene radicata e misurata nella convenzione essenziale. Nancy dice che si ha nel convenire l’apertura di uno spazio libero del senso, dove compare l’io come soggetto di diritto nella sua unità esistenziale. Il convenire essenziale dove compare il soggetto nella sua unità non divisa, l’io. 17 Nello spazio custodito dalla giuridicità si ritrovano di continuo le due modalità che l’uomo stabilisce con il senso ovvero la differenza di senso ed il rinvio di senso. Differenza di senso perché ogni senso è tale perché diverso da ogni altro senso, che non può essere fungibile con altri sensi. E’ un senso che appartiene ad un uomo in quanto libero di far rinvio ad altre scelte, che lascia libero l’uomo di scegliere altre modalità di senso. Nel futuro le modalità non scelte potranno divenire scelte dall’uomo. Le controversie giuridiche sono controversie di senso, che mostrano come il diritto non sia riducibile ai modelli dei sistemi biologici. Luhmann (autore della sociologia e della filosofia, un pensatore universale) nella sua opera costruisce il sistema diritto partendo dal modello di sistemi biologici. Luhmann ritiene che i sistemi sociali abbiano come possibili modelli sistemi biologici. Per questa direzione si ha che la convenzione tende a scivolare verso una semplice convenzione funzionale in quanto nei sistemi biologici si ha un convenire perché si ha un continuare delle memorie di quel sistema biologico. Nel sistema biologico non si aprono conflitti di senso. Scivolando verso un sistema delle teorie del reale, si apre la strada ad un sistema di norme che opera come un sistema immunitario, indifferente alla qualità esistenziale del relazionarsi secondo i due poli opposti del giusto (reciprocità del riconoscimento) non giusto (unidirezionalità dell’esclusione) e confinato alla vuota forma del codice binario del legale/non legale capace di avere come suo contenuto qualsiasi fatto normativizzato (razzista, fondamentalista, etc). L’esistenza dell’uomo è un plus, non si lascia confinare nel sistema biologico. L’incontro tra gli uomini avviene in un mondo caratterizzato dalla penuria, in cui non tutte le modalità di senso possono realizzarsi (Sartre). Se tutte le modalità di senso potessero tutte trovare concretizzazione nel mondo non nascerebbe nessuna questione che dà origine alla giuridicità. La disciplina nasce dal fatto che non tutte le modalità di senso possono concretizzarsi. Nei conflitti biologici si danno domande sul fisiologico e sul patologico, non sul senso. L’uomo si interroga sulla propria esistenza, costruisce una identità non confondibile: nel sistema umano non si danno domande su funzionamento e patologia, ma si danno questione del giusto che si oppone al non giusto, si dà tutto ciò che è proprio delle scienze umane e storiche (Croce) che non sono esatte. Le scienze storiche umane non sono esatte perché non hanno nessuna possibile presentazione di tipo rigorosamente scientifico. Il filosofo francese contemporaneo Ost dice che la modernità giuridica (costituzione, legge, trattato, contratto), centrata sulla soggettività creativa del futuro che va oltre 18 l’accadere necessario-contingente delle memorie naturalistiche, si pensa nella forma nel nucleo della promessa, ovvero sulla formazione giuridicamente convenuta del futuro, che è il convenire essenziale delle libertà umane su un qualcosa di definito ovvero su un convenire funzionale. In questa definizione giuridica del futuro si pongono questioni che si interrogano sui contenuti che deve assumere la promessa, perché non tutte le promesse hanno caratteri di giuridicità (la promessa di uccidere, etc). E’ essenziale che compaiono delle riflessioni proprie della filosofia del diritto relative alla selezione dei contenuti della promessa, per dire sì a determinati contenuti e no ad altri. La piena giuridicità dei contenuti della promessa è radicata nella specificità fenomenologica del diritto, messa in opera dall’arte del giurista, che custodisce l’unità del sé stesso, nel suo relazionarsi con gli altri nel medio del terzo Altro La promessa ha i tratti della giuridicità perché è disciplinata dai contenuti delle norme selezionati ed istituiti dal terzo-Altro (terzietà nomos, trialità logos): tale regola vale sia per la relazione giuridica, sia per la relazione discorsiva. Si conferma pertanto il legame tra diritto (nomos) e linguaggio-discorso (logos). L’opera di selezione dei contenuti normativi della relazione giuridica ha la medesima struttura dell’opera selettiva dei contenuti comunicativi della relazione discorsiva, ovvero l’opera che si costruisce nel reciproco riconoscimento dei parlanti nel medio della trialità del logos. Così come la discorsività non può avere nel suo contenuto il toglier la parola all’altro (per mantenere la sua struttura la discorsività deve mantenere la relazione che è comunicativa solo se è di riconoscimento tra i soggetti che parlano) , così anche la relazione giuridica non può avere ogni contenuto (se ha un contenuto violento, se non riconosce la soggettività dell’altro, si nega come relazione giuridica). Il convenire ha una struttura giuridica se ha la struttura che ripropone l’attraversarsi costante di logos e nomos. Ciò spiega perché il convenire per se stessi è la regola del convenire per qualcosa, in quanto mantenendo questa regola del convenire per se stessi si selezionano i contenuti del convenire su qualcosa. Così si afferma che il diritto conferisce una forma alle relazioni tra gli uomini, che è una forma che non è aperta a tutti i contenuti. Si dice pertanto che il diritto conferisce una formatività alle relazioni tra gli uomini, cioè toglie le relazioni dall’informe, assegnando una durata alle relazioni. Le relazioni giuridiche ricevendo una forma sono tolte dall’occasionalità dell’accadere, ricevendo una certezza della relazione nel futuro. Così facendo si garantisce la liberazione dalla violenza contro giuridica della forza del più forte e dunque viene custodito il 19 convenire per se stessi (giustizia) come misura-regola del convenire per qualcosa (legalità) che qualcuno potrebbe voler imporre ad un altro escludendolo. Il diritto mostra come una forma che viene data alle relazioni è diversa da quelle data alle altre entità naturali, che è già data dalla struttura naturale. Nella relazione tra gli uomini le forme sono istituite, sono una forma storica e non coincidono più con la condizione naturalistica. Il diritto così istituito dà origine a qualcosa che a che fare con la creatività originale, diversamente dai soggetti biologici che non hanno caratteri di creatività. E’ semplicemente l’esecuzione delle regole della natura. Istituire significa (Legendre) dar vita ad una seconda vita nella quale viene deciso insieme un diverso modo di inscrivere un senso. Negli uomini la struttura specifica della relazione giuridica ha il suo modello nel “debito simbolico”, come detto da Lacan, cioè ciò che da vita all’istituire una forma diversa da quella semplicemente naturalistica. Il debito che è detto simbolico perché non è mai saldabile. E’ il debito dove tutto ciò che si conviene tra gli uomini, che da vita al convenire giuridico, impegnando la libertà degli uomini impegna il dovere ogni uomo la sua libertà anche agli altri uomini. Il debito segnico nomina ciò che è proprio del vivente non umano. Qui ogni vivente deve qualcosa a qualche altro: si tratta di un debito segnico, che il vivente ha sperimentato essere proprio del mondo biologico. Non ha a che vedere con l’opera d’arte che è la formazione delle regole della relazione intersoggettiva. 20 Lezione 6 - La forma del diritto e la formalità dell'arte La Filosofia mostra come la formatività dell’arte strutturi la forma giuridica, che è tale perché non è vuota, ma seleziona i contenuti delle norme secondo il senso del relazionarsi nell’ortonomia, distinta da una autonomia arbitraria (contingenza) e da una eteronomia della forza (necessità). La Teoria enuncia una ‘formatività’ solo sistemica, funzionale ma indifferente al senso esistenziale dei contenuti delle norme, usabili così per legalizzare ogni tipo di relazione: dalla reciprocità del riconoscimento alla sproporzione dell’escludere. La formatività del diritto è l’incidere della forma nelle relazioni. La fenomenologia del diritto è la descrizione (Heidegger) del fenomeno cogliendo ciò che innanzitutto e per lo più non si manifesta ma ne costiuisce il senso ed il fondamento. Sartre diceva che la legge è quello che mi lega e frena. Il lavoro fenomenologico dimostra che il diritto però, non è un limite, ma è ciò garantisce la qualità della relazione coesistenziale dando forma alla relazione. Infatti il diritto, come l’arte, ha un incidere che è formativo, di creazione di forma. La forma presentata del diritto è analoga alla forma dell’arte, ha i suoi caratteri e tratti peculiari. Il diritto incidendo come forma, forma la libertà ai soggetti che coesistono. Il diritto conferisce una forma alle relazioni degli uomini, alla loro libertà. Nancy interpreta la libertà, sostenendo che questa non è data da nessuna altra parte, la libertà è tale perché non ha nessuna determinazione: ha manifestazione nella stessa manifestazione di libertà. Ma se la libertà è la possibilità dove tutto è possibile, significa che è un contenitore dove possono essere posti tutti i possibili opposti contenuti. Nancy poi avverte anche che la mia libertà non comincia dove finisce libertà dell’altro, ma comincia dove comincia la libertà dell’altro. La mia libertà deve trovare l’essenziale sollecitazione nella libertà dell’altro. Posso diventare uomo solamente con altri uomini, solo se ricevo sollecitazioni dall’altro. La scienza giuridica contemporanea, come dice IRTI, porta invece a dire che la norma è per il giurista il luogo di partenza della sua indagine ma anche il luogo di arrivo: la formatività del diritto è quindi tutta racchiusa nei testi delle norme vigenti. Si tralascia così che le norme sono incontrate ogni volta secondo le due direzioni essenziali ed aperte, ovvero la differenza di senso ed il rinvio di senso. Le norme costituirebbero un cerchio chiuso dove la coscienza del giurista non viene impegnata e ci si deve attenere strettamente alla norma. La scienza giuridica è vista dall’autor come scienza di secondo grado, considerata un sapere che ha come oggetto un sapere che è già stato 21 posto, un sistema di norme mai ripreso ed interpretato nella priorità fenomenologica del giusto (convenire per se stessi) sul legale (convenire per qualcosa). Il giurista deve agire nella libera opera ermeneutica di interpretazione, impegnando il giurista nel passaggio dalla norma astratta alla decisione del caso concreto. In questo passaggio vi è un vuoto, che si può definire il rinvio alla questione del senso del diritto, che comporta che la forma giuridica non è aperta ad ogni contenuto. Il giurista deve ricercare il giusto nel legale. Il giurista deve avere una attenzione creativa alla peculiarità del caso. Il diritto ha una forma formante, selettiva, perché non incontra tutti i possibili contenuti come fossero tutti possibili. Il giurista deve ricercare il giusto nel legale, si deve interrogare quali siano i contenuti che hanno i caratteri della giuridicità. La forma del diritto non è simile alla forma che si ha in natura, alle leggi della natura, puramente biologiche, dove la forma più forte o più efficiente è la forma che vince. Nel diritto non è così, la forma giuridica non è aperta ad ogni contenuto: se fosse così, pur sorgendo per dare una forma di giuridicità, potrebbe assumere anche contenuti di antigiuridicità, confondendo la violenza con il rispetto dell’altro; inscriverebbe alcuni comportamenti giusti ed altri non giusti. La giuridicità è una forma formante, non aperta a tutti i contenuti, discrimina sui contenuti, alcuni ascrivendoli al posto del giusto, altri al polo del non giusto. La forma che non è selettiva, formante, che confonde i contenuti della legalità fa scivolare la soggettività dell’uomo nella sua negazione. La soggettività c’è perché quando la si esercita si avverte che nell’uomo qualcosa dipende da lui, l’uomo può decidere di sé. Questo decidere di sé è inaccessibile a qualsiasi spiegazione scientifica (Jaspers). La decisione appartiene all’uomo perché apre la dimensione della possibilità, da non confondere con l’eventualità. La possibilità impegna il decidere del se stesso, l’eventualità si limita a registrare ciò che accade. La possibilità è l’esercizio della possibilità, nello scegliere esercita la responsabilità e pertanto è imputabile delle sue scelte. In altre direzioni il giurista non ricerca il giusto nel legale, non si fa più domande sul contenuto del diritto, ma scivola verso lo spegnersi della soggettività responsabile. Nietzsche parla di arte senza artista, un’arte che segnala il semplice accadere delle forme che vincono su altre forme, nel quale si prende semplicemente atto del primeggiare di alcune forme sulle altre, ma scompare la soggettività dell’artista, che diventa innocente come un bambino. Nietzsche lo dice per l’arte che descrive il superuomo non è un uomo più forte, ma è un post uomo, un uomo che non è più soggetto, che ha spento la significatività del giusto e dell’ingiusto, tra il bene ed il male, limitando le proprie domande in un nichilismo dove non c’è più spazio per il senso per alcun perché, dove vi è il nulla; il nichilismo, un’arte senza artista. 22 Scienza giuridica senza giurista significa una scienza che non impegna la soggettività del giurista davanti ad una formatività selettiva, formante, che seleziona i contenuti, ma una scienza sformante, che prevede la occasionalità di una forma, che viene un momento dopo l’altra, e che non avendo forma definita è senza forma. Nietzsche dice che l’essere è uguale al divenire, ovvero la forma è uguale all’assenza di forma. La scienza giuridica senza giurista pensa che la scienza giuridica si possa costruire modellandosi secondo le altre scienze, liberando il giurista dalle domande proprie del pensiero filosofico, senso della giuridicità, dell’arte dell’interpretare per appropriarsi dell’itinerario scientifico. Questo itinerario che rinuncia al giurista come artista della ragione per costruire un tecnico delle norme. Un tentativo di dare certezza alle relazioni giuridiche che però nega la soggettività degli uomini. La scienza non pensa, dice Heidegger, perché la scienza non si interroga sulla propria essenza, non è in grado di definire stessa. La scienza giuridica non si interroga sul diritto dell’uomo; ma è un diritto nell’uomo, che si limita al funzionamento tecnico delle norme che non incontrano più il soggetto; diventa un luogo privo di soggettività. Luhmann (Teoria dei sistemi sociali) dice che il diritto diventa un sistema immunitario al servizio del sistema mercato. Nella biologia c’è l’apparato immunitario che garantisce il continuare della vita: in quest’ottica il diritto svolge una funzione strumentale, è una tecnica funzionale al mercato ed all’economia. In quest’ottica non ha più senso l’ermeneutica (Heidegger) che ha la sua dimensione principale nel futuro (“un presente sa essere di volta in volta futuro”). L’interprete passa dalla norma astratta al fatto singolo incontrando proprio quell’esistente nella sua soggettività. L’uomo entra nel palazzo di giustizia alla ricerca di che ne sarà del suo futuro. 23 Lezione 7 - Il nichilismo giuridico perfetto: la norma ambientata nel nulla Il nichilismo giuridico ‘perfetto’ tratta le norme con altre norme, si conforma al non-senso della contingenza che le produce e vi immette un contenuto qualsiasi. Il giurista diviene un nichilista quando nega il diritto (‘giusto’) come ragione-misura delle norme (‘legale’); registra senza pathos il nudo accadere delle norme e considera quel che viene nominato con il concetto del diritto solamente un sintomo dell’essere=divenire, ambientato nel nulla. La discussione sul nichilismo giuridico necessita la chiarificazione nel fondamentalismo funzionale. Il nichilismo giuridico diventa perfetto quando si afferma il sistema del fondamentalismo funzionale che ha una chiarificazione nella tesi di Luhmann, che sostiene che la funzione della funzione è solo la funzione. Ogni sistema sociale (diritto, economia, religione, amore) ha una sua funzione, ed ogni operazione è finalizzata al compimento della sua funzione. Non vi è nessuna apertura alla considerazione dell’uomo, alle relazioni tra gli uomini, al senso delle azioni; l’uomo viene quindi ad essere situato nel nulla, viene considerato un nulla. Il nulla, ovvero il nichilismo si concretizza quando i molti sistemi sociali hanno solo la preoccupazione al loro stesso accrescimento. Per quanto attiene al sistema diritto si attua il nichilismo giuridico quando si trattano le norme con altre norme e non si considera il contenuto delle norme. Questo è il diritto figlio del fondamentalismo funzionale, che non si interroga sulla misura e sul contenuto delle norme, sul giusto e sull’ingiusto, ma si limita al legale. Il diritto diventa un sintomo, un sintomo di ciò che funziona più, indipendentemente dal contenuto delle norme. Nel fondamentalismo giuridico la decisione del giudice si limita ad essere una decisione sistemica, che si limita a registrare senza partecipazione critica, riflessione filosofica sul giusto e l’ingiusto, il dare o toglier la parola, senza una piena terzietà che consideri la singolarità dei soggetti e delle loro relazioni, ed il senso dei comportamenti del soggetto. Si limita a mettere in parole ciò che di fatto ha vinto in quanto è più forte. E’ questa la prospettiva ipotizzata da Nietzsche: Dio è morto, ovvero Dio è morto perché sono stati cancellati i valori del pensiero classico occidentale, dove si è sempre distinto il giusto e l’ingiusto; si è al di là del bene e del male e del giusto e dell’ingiusto. Si è abbandonati a quel che accade, che accade perché emerge sugli altri modi di accadere. 24 In questa affermazione di DIO E’ MORTO vi è però una contraddizione. Se sono stati gli uomini a uccidere Dio, quindi a cancellare i valori classici, impegnandosi in un impegno di manifestare la loro soggettività. Solamente dopo hanno cancellato anche la loro soggettività. Perché si dice di essere al di là del giusto e dell’ingiusto, al di là della soggettività si ha uno svuotamento della soggettività. Si chiede il massimo delle energie del soggetto per negare il soggetto. Negli ordinamenti giuridici, in quanto sistemi funzionali di norme, possono operare solo delle forme vuote, un nihil colmato operazionalmente dai due poli: il legale ed il non legale, determinati nei loro contenuti dai fatti attualmente vincenti nel sistema del fondamentalismo funzionale. I filosofi maggiori interpreti di Nietzsche sono Heidegger e Jaspers. Per Heidegger il nichilismo si viene compiendo attraverso il passaggio dal mondo greco, ovvero dall’idea di Platone, al mondo moderno, ovvero al concetto di cogito di Cartesio (l'uomo riscopre la sua esistenza nell'esercizio del dubbio. Cogito ergo sum: dal momento che è propria dell'uomo la facoltà di dubitare, l'uomo esiste). Il nichilismo secondo Heidegger si forma passando dall’idea di disvelamento della verità di Platone al concetto di Cartesio di considerare vero non ciò che è portato dal nascosto alla luce, ma l’idea che diventa certa modellata sulla certezza scientifica, vicina al linguaggio numerico delle scienze. Con Cartesio diventa vero ciò che viene posto vicino ad un linguaggio numerico delle scienze, secondo il modello della matematica, della certezza. Quindi i valori diventano un nulla, secondo Heidegger, perché i valori non possono essere accomunati ai numeri delle scienze. I valori nel pensiero classico aprono delle linee guide, ma non possono essere situati nel mondo scientifico, perché i valori riguardano la soggettività dell’uomo. Quindi l’uccisione di Dio, dice Heidegger, consiste nella posizione dell’idea come oggetto per il soggetto ovvero il tralasciare l’apertura per lo svelamento della verità che non è mai ultima a favore della certezza di un oggetto sperimentato scientificamente, raggiunto attraverso modelli matematici. Nietzsche dice che nazionale ed internazionale sono categorie dell’umanità che si sono date sinora, ma che hanno poco senso. Queste categorie hanno un significato per l’uomo inteso per un soggetto che esercita la soggettività nella cultura di un luogo, nella relazione tra le culture, che necessitano di una disciplina giuridica che le regolamenti. Oggi internazionale e nazionale è solo lo spazio dell’unico terreno che è il mercato globale. Abbiamo una sola globalizzazione relativa al mercato che cancella l’attenzione delle peculiarità delle culture dei luoghi. La società diviene di massa, anonima, di una massa che appartiene ai canali del mercato globale. 25 Il concetto Dio è morto ha anche il significato della cancellazione delle differenze esistenziale dei molti luoghi abitati dagli uomini nella terra. Jaspers dice che ormai non hanno più valore le affermazioni storiche filosofiche sulle differenze culturali, sul sapere che metta in questione l’uomo in ogni terra abitata, che essendo uomo realizza sé stesso nelle diverse culture rimanendo soggetto di diritti che gli appartengono come uomo indipendentemente della razza. Secondo Jaspers l’attenzione a questioni filosofiche che mettono l’attenzione sull’uomo in quanto uomo, perché ormai nulla è un sapere che meriti una attenzione. Con l’affermazione del nichilismo non vi è più u senso, un perché, che necessiti un sapere sull’uomo. Vi è una contraddizione del nichilismo giuridico, perché il nichilismo dovrà continuare ad affermare un pathos, un impegno che richiede molte energie, una partecipazione affettiva, magari solo per affermare l’inversione dei valori, per cancellarli. Il nichilismo però afferma che non c’è alcun senso, alcun perché. Il pathos testimonia l’esistenza di una partecipazione, mentre la fine del senso testimonia la fine di ogni partecipazione che abbia un pathos, condannando l’uomo ad un semplice stare a vedere. In Nietzsche questo gioco appartiene solo all’innocenza del bambino che guarda una ruota che gira da sola senza un perché, senza un pathos, un senso, con l’uomo che sta a vedere con indifferenza lo scivolare degli eventi, senza un alto ed un basso, un giusto ed un ingiusto. C’è ancora un giusto e un ingiusto, un alto e un basso? Che diviene la giustizia una volta che si è al di là del giusto e dell’ingiusto? Secondo Heiddeger nell’interpretare il percorso di Nietzsche dice che nel nichilismo la giustizia diventa la giustificazione. La giustizia lascia il giusto e l’ingiusto e la relativa libertà di scelta dell’uomo con le relative conseguenze, ovvero ciò che guida le scelte degli uomini. Si passa alla giustificazione, cioè che segue i fatti già avvenuti, ne prende atto, ovvero si da il via al processo di legalizzazione, la forza che ha vinto diventa il contenuto delle norme, la legalizzazione. Jaspers dice che la giustizia non è più quella per cui l’uomo lotta ed aspira: l’essenza della ricerca della verità delle relazioni tra gli uomini. La giustizia diventa l’essenza delle cose nel loro accadere. Dice in modo diverso ciò che Heiddeger dice parlando di giustificazione, cioè il diritto non è più ciò che orienta il soggetto nella scelta tra il giusto e l’ingiusto, ma viene a prendere atto i fatti come sono accaduti, della forza che ha vinto. Il tentativo di umanizzare il mondo del superuomo, nel senso del tentativo dell’uomo di divenire padrone del mondo attraverso la certezza dell’idea matematica, non tanto mediante la sostituzione dell’uomo a Dio (nichilismo imperfetto), ma la costruzione del mondo attraverso l’inversione dei valori, ovvero secondo l’abbandonarsi alla volontà di potenza che pone i valori solo come punti di 26 vista del suo stesso accrescimento perfetto (nichilismo perfetto). L’uomo deve tuttavia poi rendersi conto che il mondo è diventato il padrone dell’uomo, cancellando anche i suoi diritti non disponibili. Il mondo non è un luogo padroneggiato, ma privandolo della dimensione giuridica, cancellando le dimensioni non disponibili dei diritti dell’uomo, il mondo diventa un luogo dove accadono gli elementi vincenti. Nella prospettiva di Nietzsche (1995) il diritto “è la funzione di una potenza reggente ad ampio raggio, che vede al di la delle ristrette prospettive del bene e del male, ed è tale da costituire un orizzonte che è più ampio del vantaggio del conservare qualcosa di questa o di quella persona”. La giustizia non appartiene più a nessuna persona,ogni uomo non riesce a confinarla. Il diritto appartiene al padroneggiamento degli eventi per come si manifestano. Si ha il permanere di un “Nessuno”, che può essere il nome da dare agli eventi nei confronti dei quali l’uomo non ha alcun diritto, alcun potere. L’immagine del superuomo svela dunque il suo compimento nel postuomo, nella fine dell’uomo, comportando una radicale trasformazione del fenomeno della giuridicità. L’uomo, il soggetto di diritto, diviene oggetto delle norme; così matura la progressione verso il nichilismo giuridico perfetto, ovvero verso un apparato normativo strumentale alla forza che funziona di più. Si danno solo norme trattate con altre norme, che usano l’uomo per il crescere della volontà di potenza del Nessuno e mai rinviano al diritto dell’uomo, alla giustizia illuminata dalla ragione giuridica (terzietà del nomos), che è strutturata come la ragione dialogica (trialità del logos). Jaspers mostra che in Nietzsche dice che “le categorie del pensiero sono delle illusioni necessarie alla vita”, ma sono uno strumento di cui la vita si serve per mantenere in essere se stessa. Anche la categorie del pensiero giuridico sono state illusioni così come le categorie che distinguono il giusto dal legale (ciò che è giusto perché è giusto nei contenuti che si riferiscono alla struttura dell’uomo e ciò che è legale perché posto da chi ha avuto più forza) diventano una illusione. Il diritto sembrerebbe essere solo un sintomo della forza, che non appartiene a nessuno, che di volta in volta sembra appartenere a chi è più forte, ma che poi svuota anche questo qualcuno. La coerenza del nichilismo vuole lo spegnimento della soggettività e la cancellazione di ogni manifestazione di ogni uomo, anche in quelle manifestazioni di chi ha esercitato una forza più forte di altri. Dal libro 27 La frase “Dio è morto” rappresenta l’itinarario del nichilismo perfetto e ha il suo nucleo nel rapporto tra la “volontà di potenza” e “l’eterno ritorno all’uguale”. Nella prima parte di questo rapporto si costruisce il voler essere padroni di se stessi, perseguito mediante la negazione della responsabilità esercitata nelle distinte, non uguali, dimensioni temporali. La figura del soggetto responsabile è cancellata dall’eterno ritorno all’uguale, che rende gli uomini indifferenti verso l’esistere nel presente, lo scegliere il futuro, assumendosene il rischio e la responsabilità. Si annuncia che il nichilismo giuridico perfetto consiste nel trattare le norme mediante altre norme, non pensando il diritto come ragione e senso di ogni norma. Qualsiasi discussione sul nichilismo giuridico non può evitare di prendere atto che, cos’ come l’orizzonte generale del nichilismo consiste nel ridurre l’essere negli enti, analogamente la peculiarità del nichilismo giuridico matura con la riduzione del diritto nelle norme, è l’usare la tecnica delle norme senza impegnarsi nell’arte del diritto. Differenza nomologica= differenza norme/diritto Differenza ontologica= differenza ente/essere Differenza logologica= differenza significato/significante Nel pensare il nichilismo giuridico perfetto secondo Heiddeger si conferma la negazione della differenza tra le norme (ordine del legale) ed il diritto (ordine del giusto). In tale dimensione la relazione giuridica viene decisa dalla forza più forte, confinata nella dualità (io o lui) ma mai regolata dal terzo altro. 28 Lezione 8 - Unità scissione tra il 'legale' e il 'giusto': la differenza nomologica Il compimento del nichilismo giuridico consiste nel negare l’unità-scissione tra il ‘legale’ ed il ‘giusto’, dunque nel rimuovere l’essenzialità della ‘differenza nomologica’ (Filosofia del diritto), che nomina la coappartenenza e la distinzione, non cancellabili, tra le norme ed il diritto, nella ripresa del pensiero sulla ‘differenza ontologica’(Filosofia) tra gli enti e l’essere. Dove vi è il nichilismo giuridico le norme sono trattate soltanto da altre norme: si afferma insomma una autosufficienza del legale, come se il lavoro interpretativo per passare dalla norma astratta alla decisione il giudice potesse non riferirsi al diritto, all’insieme del sapere giuridico che trova espressione nel diritto. Il diritto non si può dire compiutamente, come possono essere dette le norme, né l’uomo si lascia dire compiutamente ed integralmente: chi ha questa pretesa svuota l’uomo della sua soggettività. L’uomo non è mai qualcosa di precalcolabile e così analogamente il diritto perché riguarda eventi non preventivabili, non sono l’esecuzione di cose oggettivabili.. Il nichilismo giuridico non si impegna a cercare il senso delle norme nel diritto, ovvero il giusto nel legale, ma si compiace di questa sua autosufficienza e si limita a cercare il legale nel legale, rinunciando così all’opera interpretativa che chiede sempre il rinvio al senso della ragione giuridica della norma nell’essere aperta al diritto. Nel nichilismo giuridico l’operatore delle norme non è più il giurista artista della ragione, ma il tecnico delle norme. Si nega la differenza nomologica, ovvero la differenza tra il diritto e le leggi. Il giurista rimane costantemente esposto alla differenza tra norme e diritto, alla unità/scissione tra norme e diritto. Heidegger insiste sulla differenza ontologica, ovvero tra l’ente e l’essere. Gli enti non sono l’essere e l’essere non può essere concepito a partire dagli enti. Gli enti sono le presenze definite, confinate in una forma. L’essere è il presentarsi dei diversi enti; l’essere non si lascia mai chiudere in una forma, non ha mai una enunciazione definita. Il disvelamento, il passaggio da ciò che è nascosto a ciò che è conosciuto dei classici, viene lasciato a favore degli enti nel pensiero occidentale. Ma se l’uomo non si interroga più sul presentarsi sul soggetto e si ferma all’ente, si perde il senso dei diritto. Abbandonando la differenza nomologica si è avviata al configurazione scientifica del mondo moderno (Heiddeger). La tecnica diventerà progressivamente l’essenza della scienza, ovvero viene sempre meno a trovare spazio l’aspettativa a conoscere, l’atteggiamento contemplativo. Non la ricerca della verità ma la costruzione di una 29 capacità a manipolare ad elaborare in modo efficiente ed efficace degli enti e degli uomini considerati enti tra gli altri enti e per questo vincente. L’itinerario della ricerca della verità viene variata in una ricerca dell’efficienza. Questo porta, secondo Heiddeger, l’uomo a non pensare, a non interrogarsi sul senso, limitandosi all’intervento tecnico. Ecco perché si è detto che la scienza non pensa, ma è solamente un insieme di operazioni tecniche efficienti. Analogamente non si domanda che cos’è il diritto, non ci si interroga sul giusto, ma ci si interroga solamente se le norme siano efficaci, con il solo riferimento ad altre norme. Vi è una legalità indifferenza alla giustizia, che quindi può legalizzare tutto, dalla schiavitù al razzismo. Heidegger critica questo scivolamento dall’idea occidentale platonica della ricerca della verità (lo svelamento) alla semplice manipolazione tecnica, che si assolutizza. Tuttavia in Heidegger però non è pensata la centralità del diritto. Non compare alcuna riflessione su come il logos (luogo che custodisce l’uomo soggetto parlante) sia custodito dal nomos (il diritto). Per Heidegger il concetto di libertà è solamente un eventarsi dell’uomo, ovvero libertà semplice scorrere di eventi. In Heiddeger, proprio perché non è centrale il pensiero sul diritto, non ci si interroga sulla libertà che non sia un semplice evento. Non si interroga sulla differenza degli effetti della liberta sugli uomini e tra altri uomini. Non c’è alcuna attenzione sulla molteplicità della libertà di comportamento delle relazioni tra gli uomini. Eventi che non hanno una disciplina giuridica. La libertà diventa in Nancy una libertà fattizia, che il suo stesso accadere, senza regole perché è regola a se stessa. Se la libertà viene intesa come un succedersi di eventi che accadono, non può avere regole perché è essa stessa a regolarsi. Questo chiarisce perché una siffatta concezione della libertà non incontra mai le domande sul diritto, non si interroga sulla genesi fenomenologica e sull’uso esisenziale del diritto La libertà diventa paradossalmente una sorta di proprietà dell’uomo, che l’uomo si trova ad avere ma sulla quale non si fa delle domande; la libertà non impegnerebbe la responsabilità, a scegliere per il giusto o l’ingiusto. In questo modo le forme lasciano spazio allo scorrere di altre forme, lasciando spazio all’informe, lasciando spazio all’entrare dell’ingiusto al posto del giusto. Situato nel campo del diritto segna come le condotte dell’uomo appartengono solo al legale e al non legale, che sono solo eventi: ora accade l’uno, ora l’altro, a seconda dei rapporti di forza. L’ingiusto può diventare legale, perché non c’è una riflessione sulla qualità di libertà, che in questo caso non impegnerebbe l’uomo alla responsabilità sulla scelta del giusto e l’ingiusto. 30 Per il giurista è necessario interrogarsi sulla differenza tra la presenza ed il presentarsi. La differenza va interrogata (che effetto esistenziale ha la distinzione, la successione di eventi, in che modo può costruire una società) Oggi tra i molti sistemi sociali, si vede il dominio del sistema mercato, quale subsistema del sistema economia (Luhmann – Teoria dei sistemi sociali). Il sistema mercato si impone sugli altri sistemi ed anche sul sistema diritto, imponendo orientamenti anche agli altri sistemi. Il diritto diventa uno strumento del mercato, delle operazioni mercantili. Il denaro è il significante più annichilente ogni significazione. (Lacan). Si torna a cogliere la distinzione tra il significato ed il significante. Il significato consiste nell’enunciare semplicemente ciò che enuncia ovvero è solamente un enunciato definito. Il significante è l’aprirsi di un rinvio alla ricerca del senso di un oltre di ciò che è stato enunciato. Nella tesi di Lacan viene detto che il danaro è un significante ovvero dice un enunciato ma lo dice in modo tale da non essere confinato in quell’enunciato. Il denaro è quindi non solo un significato ma un significante, perché è in grado di nominare molti oggetti oltre quei singoli significati. 10 dollari dicono alcuni oggetti e parimenti altri oggetti. La stessa somma di denaro domina molte cose, che vengono rese fungibili dal quantum del denaro. Il danaro monetizza le cose e le rende un nulla, con un passaggio tipico del nichilismo. Tutto ha un prezzo, nulla è in sé qualcosa. Tutto è un nulla. Il potere nientificante del denaro (Heiddeger). Questa tesi che segna la principalità del denaro ed il suo potere nientificante impone al diritto di porsi delle domande. La filosofia del diritto interroga la scienza del diritto, la sociologia del diritto e ne evidenzia i limiti della commercializzazione dell’uomo, della monetizzazione dell’uomo. Ci sono dei limiti del potere del denaro? Se ci si pongono queste domande si comincia ad uscire dal nichilismo. Ciò che non può essere nientizzato quantificandolo nel denaro è l’uomo in quanto soggetto di diritti; i diritti dell’uomo non sono monetizzabili. Queste sono le domande sui rapporti tra il diritto e l’economia, tra il diritto ed il mercato. Il diritto è uno strumento del mercato o deve mettere dei limiti al mercato, affermando così che l’uomo non è una merce? Ponendosi le domande tra diritto e mercato/economia, ci si interroga se ci sono gerarchie tra i sistemi sociali. Nella teoria di Luhmann (che trae la sua tesi da due biologi, Varela e Maturana) si dice che non vi è alcuna gerarchia tra i vari sistemi, ad esempio tra il sistema mercato ed il sistema diritto. Si afferma quindi che a seconda del tempo ad esempio per un certo periodo il sistema religione ha prevalso sul sistema diritto e che oggi il sistema mercato prevale sul sistema diritto. Se si lasca 31 senza gerarchia i sistemi, allora si apre la strada che porta il diritto ad essere asservito al sistema sociale vincente. Ma se il diritto non ha alcun contenuto, essendo asservito agli altri sistemi, il diritto ha semplicemente la funzione di sistema immunitario. Il sistema immunitario garantisce il funzionamento degli altri organi. Il diritto analogamente in sé non ha uno scopo, ma si limita a garantire, a regolare il funzionamento degli altri sistemi sociali. Il diritto non ha quindi alcun contenuto: non c’è alcun diritto dell’uomo, all’uomo accade di avere una condizione imposto in modo eteronomi di alcuni sistemi rispetto ad altri sistemi: il nichilismo giuridico perfetto. 32 Lezione 9 - Il caos della necessità: il diritto tra funzione e giustizia Il nichilismo giuridico “perfetto” si concretizza nella formazione di un funzionario delle norme, confinato in una coscienza spettatrice del gioco innocente degli accadimenti generati dal caos della necessità. La giustizia, che qualifica e precede le condotte dei soggetti del linguaggio-discorso, si trasmuta così nella giustificazione (Nietzsche), esaurita in uno “stare a vedere”, che è un eseguire accadere-accaduto dei fatti vincenti, sia che riconoscano l’altro nell’essere-uomo, sia che gli neghino il riconoscimento, escludendolo. In Heidegger si constata che solo l’uomo attiva domande sull’essere, ma non ci si domanda perché gli effetti del mettere in questione la differenza essere-enti non appartengano anche alle operazioni degli animali, dei vegetali e del non –umano in generale. Non porsi queste domande conduce a non pensare la differenza radicale tra quel che è proprio del diritto e dell’uomo e quel che accade nel non-umano e nelle sue leggi non istituite. Non si analizza che l’uomo è colui che esiste sempre coesistendo con i soggetti parlanti, che ipotizzano i contenuti del diritto, selezionandoli secondo la peculiarità della ragione giuridica e ponendoli nelle forme storiche delle norme vigenti. Il parlante infatti non dispone né delle leggi né del linguaggio. Il parlante può avviare una modalità del comunicare che si svolge in un discorso senza senso, perché viene esercitato senza le leggi del linguaggio; allo stesso modo invece di rispettare l’esistenza umana, la può trattare in modalità violente, perché non disciplinate dalla terzietà del diritto. Ne segue che l’opera istitutiva delle norme può produrre anche l’assoggettamento di alcuni uomini ad altri uomini, può generare lo svuotamento dei diritti dell’uomo. Per Heidegger l’essenza dell’uomo costituisce il luogo del presentarsi dell’essere, manifesta il divenire insicuro dell’uomo. L’uomo, fattosi insicuro, tende alla sicurezza rifugiandosi nell’ente, trovandosi tuttavia nella condizione di essere asservito all’ente. L’uomo ed il giurista che non si aprono alla differenza tra l’ente e l’essere (differenza ontologica), tra le norme ed il diritto (differena nomologica) vengono configurati come tecnici delle norme necessarie per la sicurezza ed il successo della manipolazione dell’ente, secondo le teorie-scienze del reale, che rimuovono le diverse prospettive della questione dell’essere. Pertanto l’ente in quanto tale appare come la volontà di potenza, che costituisce la soggettività moderna. 33 Le operazioni di una tale giustificazione calcolante sono eseguite esclusivamente nel dominio di una visione procedurale del diritto. Le procedure giuridiche funzionano ora nel loro continuo flessibile adeguarsi a ciò che ha successo nell’essere prodotto e dominato da una soggettività che però finisce per essere asservita agli oggetti che manipola,perché perde la possibilità di divergere dall’unica dimensione che residua, quella del conoscere-calcolare la loro oggettività In questo esito il nichilismo mostra solo tratti distruttivi. La qualità di questo incidere del nichilismo viene segnata anche dall’emergere della storiografia, che avanza la pretesa di essere la rappresentazione determinante della storia, prende il passato o lo spiega nella sua genesi come una connessione causale, tralasciando di domandarsi cosa sia la storia. La scienza della storia scivola verso i giornalismo ovvero verso la cronologia della quotidianità che si lascia consumare nei canali commercializzanti dei mass media. Allo stesso modo il pensiero del giurista scivola verso le tecniche della normatività, che diventa un efficace strumentario, che si può trattare secondo la spiegazione prodotta da una scienza giuridica senza giurista, modellata secondo l’ingegnerizzazione delle norme. Allo stesso modo nell’intepretazione degli eventi storici viene eseguita una scienza della storia senza lo storico, poiché questa figura scivola in quella del giornalista che presenta un’immagine cronologica dei fatti storici, ma non si chiede che cosa sia la storia. Secondo Heidegger la condizione attuale è qualificata dal dominio del giornalismo e della pubblicità, che sono modalità nelle quali è rimosso l’essere e diviene imprigionante l’attenzione agli enti commercializzanti nei canali dei mass media, che si mantengono in vita con la pubblicità delle merci. In questo muovere dall’ente, commercializzato mediante le tecniche pubblicitarie, l’essere viene rimosso e si consolida il nichilismo, che trasmuta la comunicazione della verità nella vendita delle notizie. Nell’epoca moderna e contemporanea emerge una condizione ambigua, perché qualificata: 1) da una parte, è uno stato privo della necessità dell’essere che libera dal rimanere presi-tragli-oggetti (velatezza dell’essere); 2) dall’altra è uno stato colmo della necessità invasiva, propria degli enti, degli oggetti del produrre consumare che imprigionano l’uomo nel successo delle tecniche usate dai massmedia e dalla pubblicità. 34 L’oscurarsi della differenza tra l’ente e l’essere produce certo uno stato del mondo dove la condizione di spaesatezza dell’uomo rispetto alla sua essenza viene rimpiazzata con l’instaurazione della conquista della terra, con la parvenza che l’uomo, liberato nella sua umanità, abbia assunto in suo potere l’ordinamento dell’universo. Le qualificazione della necessità sono diverse ed opposte: 1) vi è una necessità che consiste nel venire asserviti al trovarsi quotidianamente presi-tra-glienti 2) una necessità che svolge un’opera di liberazione (svelamento dell’essere). Nell’analisi della giuridicità analogamente il muovere da alcuni sistemi di norme per volgersi ad altri complessi normativi situa l’uomo nel cerchio captativi dell’essere-preso-tra-le-norme, così da non poter mai aprire le domande sul diritto, destinato ad un funzionamento del sociale che è stato privato di senso esistenziale e dunque senza senso. 35 Lezione 10 L'essenza del nichilismo: il fondamentalismo funzionale L’essenza del nichilismo si concretizza attualmente nel Sistema del fondamentalismo funzionale, che si afferma sostituendo, alle domande sul senso del futuro scelto, il calcolo monetizzante delle operazioni sistemiche, determinate l’una dopo l’altra dai fatti che hanno successo mercantile e producono una ‘decisione’ che è del Nessuno e dunque ‘funziona’ senza autori, né scopi, né senso. È una ‘decisione’ che ha potenza perché, nel suo immediato presentarsi nella ‘società complessa’ non si lascia contrastare, essendo priva di una genesi e di un volto individuabili. Le analisi di Heiddeger sul nichilismo ricevono una chiarificazione dalle tesi di Luhmann che discutono il concetto di decisione, sollecitando a considerare anche i concetti di scelta e di responsabilità, formativi del diritto, descrivibile come sistema distinto dagli altri sistemi sociali. La decisione è un concetto che implica il riferimento alla responsabilità di chi decide, comporta il rinvio agli argomenti che costituiscono la qualità della decisione, la conformità della decisione a delle norme, la conformità della decisione ai riferimenti che dalle norme vigenti aprono al questionare sulla ricerca del giusto nel legale. Aprono quindi al complesso dell’attività ermeneutica interpretativa, che è una attività che porta a pienezza il decidere nel diritto. Luhmann (descrive nelle sue opere i due fenomeni dell’economia e del diritto) sostiene che nell’economia della società il momento centrale è il momento del saldo, del pagamento; l’economia si regge sul momento del pagamento (senza il quale gli altri piani dell’economia sarebbero inutili ad es. produrre o fare pubblicità se poi non si concretizzasse il pagamento). Analogamente nel diritto si dice che il momento centrale è quello della decisione del terzo giudice. Se non ci fosse questo momento le attività del legislatore e della forza di polizia sarebbero delle operazioni private, come l’esperto che dà consigli, non ci sarebbe la certezza della concretezza, poi garantita dal terzo polizia. E’ solo il momento del terzo giudice poi garantito dal terzo polizia che dà realtà al sistema del diritto. Che ne è della struttura della decisione in generale e, in particolare, della decisione del terzo giudice nella società contemporanea? La decisione è un concetto che fa riferimento alla scelta, si decide dopo aver compiuto un’opera selettiva. La decisione giuridica è tale se comporta poi la responsabilità, cioè ciò che costruisce la struttura del diritto nei vari gradi di giudizio della decisione. 36 Luhmann mette in discussione il concetto di decisione secondo la sua teoria generale dei sistemi, costruita sul concetto principale di tale teoria: la funzione della funzione è solo la funzione. Dire che la teoria generale dei sistemi ha il suo asse nella suddetta tesi, vuol dire che non c’è nulla oltre il semplice funzionare: vi è quindi solo il funzionalismo che configura il sistema del fondamentalismo funzionale. Soltanto la fluidità lascia emergere alcune forme invece di altre solo perché sono più, perché vincenti, ma senza un perché, senza una domanda sul senso. Dunque il nichilismo diventa il Fondamentalismo funzionale, una modernità liquida, trasformando alcuni concetti fondamentali del sistema giuridico, quali quello di partecipazione e di organizzazione. La partecipazione in Luhmann non ha più quel significato, quel pathos, che doveva indicare come si diventa uomini e come gli uomini dovevano essere trattati da uomini. Il concetto della partecipazione per Luhmann non ha più riferimento al valore dell’uomo, ma deve solo chiedersi come si possono raggiungere i migliori risultati possibili: la partecipazione è soltanto funzionale. La partecipazione giuridica, prendere parte all’organizzazione giuridica, non significa più cercare di avvicinare la soluzione migliore per la qualità delle relazioni giuridiche tra gli uomini, la ricerca del giusto nel legale, ma cercare la soluzione migliore dal punto di vista del fondamentalismo funzionale, ovvero una soluzione funzionale e coerente alle norme, al legale; senza interrogarsi se corrisponda alla soluzione più giusta. Un diritto che accade nell’uomo – che usa l’uomo - ma che non ha nulla a che vedere con il diritto dell’uomo. Si trasforma anche il concetto di organizzazione. Diventa ciò che è richiesto dalla non conoscenza del futuro (essendo non precalcolabile non anticipabile), deve soltanto concretizzarsi per costituire il successo delle operazioni dei sistemi, per garantire la velocità del combinarsi delle molte operazioni dei sistemi. L’organizzazione deve essere ciò che tratta l’incertezza. Significa trattare l’incertezza non con riguardo alla qualità delle relazioni giuridiche tra gli uomini, ma con riguardo al successo delle molte operazioni dei diversi sistemi sociali, tra i quali oggi quello dominante risulta essere proprio il sistema del mercato che orienta e condiziona gli altri sistemi sociali e dunque anche il sistema diritto. Si ha quindi una organizzazione non è interessata ad un concetto di ordine giuridico che ha al suo centro il rispetto della condizione umana, la custodia della dignità dell’uomo, ma è interessata solo a custodire un’efficace funzionamento delle operazioni dei molti sistemi, che non hanno un volto, non hanno riferimento all’esercizio della soggettività, che sono il fluire liquido delle diverse funzioni dei diversi sistemi. Si tratta di qualcosa che si allontana dal concetto classico di ordine giuridico. 37 Tale distanziarsi dal concetto di ordine giuridico si trova in in Luhmann, che afferma – all’interno della sua costruzione dei sistemi sociali - che le diverse organizzazioni non sono orientate allo scopo ma sono organizzazioni che cercano uno scopo. Le prime hanno come criterio del loro orientamento la giustizia degli scopi, cioè organizzazioni che nel loro operare assumono come principi del loro orientamento quei principi che sono omogenei al perseguire gli scopi, e lo scopo principale nella giuridicità è la ricerca del giusto nel legale . L’organizzazione oggi è invece del secondo tipo, cioè un’organizzazione che cerca uno scopo, perché costantemente si adatta a quel che accade; è una organizzazione costantemente in formazione, caratterizzata da un fluire liquido, dove lo scopo è quel che volta per volta guadagna una forma e si afferma ma non è ciò che orienta e precede l’organizzazione (cercare uno scopo è il flessibile adeguarsi a cioè che emerge all’accaduto). Nel trasformarsi dell’organizzazione Luhmann afferma che cambia anche il rapporto, cioè la distinzione tra scopi (fini) e mezzi, in quanto questa distinzione serve solo per assumere una forma che possa essere presentata come una forma razionale. Dunque non ci sono degli scopi che precedono i mezzi, ma c’è un continuum indistinto tra scopi e mezzi, una sorta di liquidità che rende indifferenziati gli scopi e i mezzi perché l’eventuale distinzione tra scopi e mezzi serve soltanto a che si possa dare una sorta di presentazione razionale a quel che accade, perché si possa continuare a comunicare una qualche modalità razionale di ciò che accade, anche se ciò che accade è senza scopo e privo di senso come vuole il nichilismo di Nietzsche che ha la sua pienezza nel fondamentalismo funzionale. Viene meno la stessa distinzione tra l’osservare una realtà e poi l’assumere un orientamento che conferisce una direzione, perché ci si limita ad adeguarsi all’accadere che si afferma, a constatare ciò che è già accaduto, cosi che la razionalità non precede l’accadere ma consiste semplicemente nel metterlo in informazioni (cioè in parole che informano accrescendo così il continuo potenziarsi delle funzioni dei diversi sistemi). Cambia il concetto di organizzazione, il rapporto tra scopi e fini: ma cambia anche il diritto, che diventa semplicemente uno dei settori dell’organizzazione, perché è solamente un sistema immunitario, che garantisce il funzionamento efficace delle molte operazioni delle diverse funzioni che individuano i vari sistemi sociali. Il pensiero di Luhmann porta a compimento il nichilismo, che con lui assume la sua espressione più compiuta proprio nel fondamentalismo funzionale: non c’è nulla oltre la funzione del sistema, non c’è qualcosa che possa essere ancora nominato come incondizionato. L’insieme dei concetti 38 riconducibili all’io, all’uomo, alla soggettività, alla relazione intersoggettiva finisce per cadere: secondo Luhmann tali concetti si sono retti sull’equivoco del paradosso, ovvero sulla pretesa di poter lavorare nel superamento del paradosso. Tutta l’opera di Luhmann annuncia che è fallito il lavorare senza paradossi, perché dietro ogni descrizione che appartiene a ciascun sistema sociale è inevitabile che si manifestano dei paradossi. Perché da una parte tutte le osservazioni e tutte le descrizioni, secondo Luhmann, sono costrette a distinguere ciò indicano, ma nel fare ciò – cioè nell’osservare e descrivere gli elementi – gli uomini sono costretti a distinguere ciò che implicano descrizioni e osservazioni mentre esse stesse non possono figurare nella distinzione. Il paradosso consiste nel fatto che in ogni sistema l’uomo nel momento in cui descrive compie delle distinzioni, ma poi questa distinzioni finiscono per non venire descritta (questo è il paradosso, la lacuna fondamentale, ciò che viene ad inficiare il pensiero classico dell’osservare e del distinguere, paradosso che costituisce la struttura profonda dell’essere, dell’io che è sempre eccedente ogni funzione; l’uomo parla ma la struttura delle parole conferma che l’io non si lascia mai dire, si sottrae. Ma è proprio questa struttura – che Lumhan descrive negativamente come un paradosso - è la struttura positiva della soggettività giuridica dell’uomo, che si presenta davanti al terzo giudice che emetterà un giudizio come un io che non si dissolve nelle condotte che ha compiuto ma ne è responsabile, ha una soggettività giuridica, e per questo in attesa del giudizio. “La decisione prima della decisione è diversa da quella dopo la decisione e mentre si decide (simultaneamente) non è affatto possibile osservarla. La decisione allora è un paradosso: la stessa cosa e non la stessa cosa”. L’eccedere dell’io rispetto alle condotte lascia trasparire la libertà che ne determina la responsabilità. In questo eccedere dell’io compare la libertà, compare la condizione temporale dell’uomo: l’uomo ha la doppia contemporaneità, uno spazio costituito da ciò che descrive e ciò che osserva e nell’intervallo tra la prima e la seconda contemporaneità c’è la libertà. Quel che con Lumhan compare come paradosso inaccettabile è invece semplicemente nel profondo la condizione temporale dell’uomo ( responsabilità giuridica e soggetto di diritto). Jasper legge in questo spazio descritto come doppia contemporaneità che la coscienza non si esaurisce semplicemente in un dirigersi verso gli oggetti, ma la coscienza riflette su se stessa, cioè non è solo coscienza ma è anche autocoscienza, non è solo l’io dell’osservare e del descrivere ma è anche l’io che è cosciente dell’avere osservato e dell’avere descritto; l’io penso è l’io penso che penso, che coincidono in modo paradossale per Lumhan mentre per Jasper sono un due (un uno e un due), coesistono in uno spazio che è lo spazio della dignità, del soggetto di diritto, spazio posto invece in un piano marginale da Lumhan secondo l’approccio del nichilismo. 39 Nietzsche: la vita è soltanto la vita, non vi è null’altro che l’ordine della potenza nel nominare le modalità della vita, non c’è il giusto né il non giusto, si è al di là del bene e del male, al di là della giustizia e della ingiustizia, come in tutti i sistemi biologici. Luhmann trasferisce la costruzione della teoria dei sistemi biologici dei biologi sudamericani Varela e Maturana nella sua opera sulla teoria dei sistemi sociali. Come nei sistemi biologici non ci sono spazi per le domande sul giusto così finirà anche per i sistemi sociali, che avranno modo di accrescere solo il loro funzionamento in maniera analoga ai sistemi biologici che accrescono solo la continuazione della loro vita. Luhmann descrive la formazione dei sistemi sociali a partire dai sistemi biologici attraverso un passaggio fondamentale per la teoria dei sistemi: ogni sistema si forma perché una funzione lo individua (per il sistema diritto è la funzione immunitaria) e lo distingue dall’ambiente (spazio indistinto da dove emerge il sistema guadagnandosi una forma togliendosi dall’informa: le forme di vita si sono tolte progressivamente da una condizione indistinta specificandosi come altre forme di vita). I paradossi: l’uomo avendo a che fare in ogni sistema, compie una opera di osservazione e di descrizione, ma in questa opera compie le distinzioni che poi però finiscono nel non poter essere descritte. Paradosso dell’osservare e del distinguere costituisce la struttura profonda dell’io, che è sempre oltre ogni lettura sistemica; l’io non si lascia mai dire. L’uomo parla, è discorso, ma l’io non si lascia mai dire, sembra un paradosso, ma è l’essenza della soggettività. Jaspers dice che la coscienza non si esaurisce in un dirigersi verso gli oggetti, ma la coscienza riflette su se stessa. E’ coscienza ed autocoscienza. Non è soltanto l’io dell’osservare e del descrivere ma è anche l’io che è cosciente di aver osservato e descritto. Io penso, io penso che penso. Uno non è come uno ma è come un due che però rimane un uno unico. Per Luhmann ogni sistema si forma perché una funzione lo individua, lo distingue dall’ambiente, dall’informe. Il diritto viene ad esistenza per una funzione di anticorpo. Il diritto ha due passaggi fondamentali: una apertura informativa agli altri sistemi, una acquisizione di informazioni (si aprono agli altri sistemi e acquisiscono dei dati) e poi il passaggio di una chiusura organizzativa ed operativa. I dati acquisiti vengono trattati secondo un codice selettivo binario per lo svolgimento della funzione. Nel caso del diritto il codice binario è quello del legale-non legale. Così il sistema diritto si apre agli altri sistemi, acquista dei dati, tratta tali dati attraverso il codice legale-non legale, e poi conclude le proprie operazioni che portano a concretizzare la chiusura operativa. Ma il codice è un codice formale (perché è un codice funzionale) che non si interroga sul senso esistenziale dei contenuti; in particolare il codice binario del diritto non sarà un codice giusto40 non giusto perché non si interrogherà mai sulla ricerca del giusto nel legale ma si limiterà ad assegnare al legale le operazioni che sono negli altri sistemi di fatto vincenti, ne prenderà atto e li metterà nel piano del legale e metterà nel piano del non legale le operazioni che sono perdenti, così come avviene nei sistemi biologici. Ma in questa visione che traspone la struttura dei sistemi biologici nei sistemi sociali il diritto perde ogni suo senso esistenziale, perde la domanda sul perché, sul senso del giusto, si limita a procedere ad una sistemazione solamente funzionale dei contenuti che servono all’accrescimento delle molte funzioni, il diritto opera come un sistema immunitario che serve gli altri sistemi nell’assoluto disinteresse verso la qualità degli uomini e delle relazioni tra gli uomini. 41 Lezione 11 'Memoria personale e memoria sistemica': il fondamentalismo funzionale Il fondamentalismo funzionale trasforma la ‘memoria personale’ in una ‘memoria sistemica’; così le memorie del ‘giuridico’ - norme, giurisprudenza, ecc. - non impegnano il giurista-uomo sulla qualità del coesistere nel diritto, ma riguardano il funzionario delle tecno-norme quanto all’efficienza di ‘decisioni’ determinate dalle fasi asoggettive di una evoluzione modellata nell’ordine di un bio-diritto. Si produce la nientificazione dei soggetti di diritto, tali solo in quanto soggetti di storia e non oggetti dell’evoluzione, che mai ha presentato alcunché dei fenomeni della giuridicità. La storia del diritto eccede la cronologia dell’evoluzione biologica di una specie di viventi. Nella discussione del diritto nella condizione contemporanea occorre far riferimento al nichilismo giuridico. Se si vuole parlare del diritto incontrando la realtà contemporanea bisogna fare una riflessione sul diritto caratterizzato dal nichilismo giuridico che sono attualmente in progressivo concretizzarsi nel sistema del fondamentalismo funzionale. L’annuncio di Nietzsche sul nichilismo oggi diventa sempre più concreto con l’affermarsi del sistema del fondamentalismo funzionale. In questo contesto, afferma Luhmann (teoria dei sistemi sociali) anche il concetto di memoria cambia significato, tende a trasformarsi da memoria personale a memoria sistemica. Conseguentemente si ha la trasformazione dal giurista uomo al funzionario delle tecno-norme. Il nichilismo trova così il suo compimento: nel nichilismo giuridico non interessa più la storia del pensiero giuridico, ma solamente la continua trasformazione asservita al funzionamento dei sistemi al fine dell’efficacia delle operazioni giuridiche (senza alcun riferimento ai diritti fondamentali dell’uomo, alla dignità dell’uomo quale concetto centrale della giuridicità). La teoria generale avvia questo trasformarsi del diritto sempre nel tenere in chiaro che ogni sistema, quindi anche il sistema diritto, funziona in due fasi: apertura informativa e chiusura operativa. Sono momenti essenziali che servono a far sì che il diritto custodisca la sua funzione, ovvero secondo la teoria dei sistemi di Luhmann conservare la auto poiesi delle operazioni del singoli sistema (secondo Maturana un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce) ovvero la conservazioni delle operazioni del sistema, 42 che conservando la sua differenza continua ad esistere. Il singolo sistema continua ad esistere se la sua auto poiesi viene custodita. Il sistema non cade, non si annulla nell’ambiente, conserva la sua differenza sistemica: si tratta, cioè di un processo che vede una sorta – così dice Luhmann – di rientro della distinzione tra il sistema e l’ambiente nel sistema stesso; ovvero il sistema diritto si distingue dagli altri sistemi perché custodisce la sua funzione specifica, fa rientrare in ogni sua fase. La funzione specifica del diritto è quella di operare come un sistema immunitario, ha attenzione alla conservazione della vita degli altri sistemi: è un apparato immunitario (è uno strumento principale dell’economia del mercato). Il sistema diritto non è posto davanti alla scelta giusto-non giusto, ma sovrintende solo al funzionamento degli altri sistemi. Nel far questo sembrerebbe che il sistema del diritto sia vicino alla coscienza dell’uomo: non c’è questa similitudine con la coscienza. Il sistema non ha una coscienza, non ha neppure quello che è proprio della coscienza. Si tratta di una analisi che non può essere certo avvicinata a quella della doppia contemporaneità nella quale compaiono la coscienza, l’io, il se stesso, la libertà e la responsabilità. Essere contemporaneo agli ambienti, agli elementi che lo ambientano, alle cose che lo circondano ma essere anche contemporaneo a questa contemporaneità. In questo intervallo tra queste contemporaneità compare ciò che non compare nella vita dei sistemi, ovvero compare l’io, la coscienza, compare ciò che è esclusivo dell’uomo. I sistemi non lasciano apparire nulla della doppia contemporaneità, né della responsabilità, niente di ciò che ha a che fare con l’attivarsi della coscienza. Luhmann invece distingue tra macchina banale e macchina non banale (il sistema diritto è una macchina non banale). Per Luhmann sono banali le macchine prive di auto-osservazione, che compiono solamente delle funzioni immesse dall’esterno (producono secondo delle sollecitazioni con gli stessi risultati). Le macchine capaci di auto-osservarsi sono macchine non banali; sembrano compiere dei processi propri della coscienza, ma non hanno nulla della struttura della coscienza. Sono in grado di auto aggiustarsi ovvero sono fluide e flessibili con la realtà che muta e che mutando esige anche un loro stesso mutamento. Per Luhmann sono macchine non banali le macchine storiche, i sistemi sociali; le macchine banali sono tutte le altre macchine che non mostrano una flessibilità adattativa. I sistemi, in quanto macchine non banali, compensano secondo Luhmann la propria chiusura operativa con l’autoosservazione. Nella macchina non banale del sistema diritto, la decisione – emessa dal terzo giudice - (per Luhmann) ha un significato diverso dal significato attribuitole dal pensiero classico fino a prima dell’affermarsi del nichilismo e del fondamentalismo funzionale che si fonda sull’assunto che “la 43 funzione della funzione è solo la funzione”. La decisione dunque non persegue uno scopo (che implicherebbe una scelta, che richiama ad una coscienza, alla libertà umana), ma ha soltanto dei fini (che si trovano anche nell’intelligenza artificiale, ripetizione di un insieme di operazioni). Si torna a riprendere questa attenzione alle memorie esclusive degli uomini che hanno un centrale riferimento alla selezione degli scopi in contrapposizione alle memorie del non umano delle macchine non banali che non hanno una presenza che sceglie e che seleziona gli scopi ma che si limita solo a perseguire dei fini (le memorie del non umano hanno esclusivamente fini, non scopi, i fini sono la ripetizione di un insieme di operazioni che volta per volta si riproducono senza che intervenga la coscienza della responsabilità del terzo giudice). La memoria personale si trasforma così in una memoria organizzativa: si eclissa sempre più la presenza essenziale di una soggettività libera e responsabile (per il terzo giudice). Per Luhmann la decisione in una macchina non banale come il sistema diritto è un insieme di attività che lascia apparire la decisione ma attribuisce a tale parola un significato completamente diverso rispetto all’affermazione del nichilismo giuridico. Nei sistemi come il diritto non compaiono gli scopi, che comporterebbe la presenza di una soggettività che sceglie: nelle macchine non banali non ci sono scopi, ma solamente fini. Le memorie degli uomini hanno centrale riferimento alle selezioni degli scopi, diversamente dalle altre del non umano che hanno solo fini, che sono ripetizione di un insieme di operazioni che si riproducono senza che intervenga la coscienza per la responsabilità. In Luhmann la differenza tra sistema ed ambiente viene copiata all’interno del sistema perché orienta, ripetendole con flessibili autosservazioni funzionalmente specifiche delle memorie di quel singolo sistema: non si apre però lo spazio terzo, costitutivo della trialità del logos dove la libertà del parlante si lega al senso del diritto, nomos dell’uomo e non solo apparato del funzionamento strumentale delle norme dell’uomo. Luhmann dice che uno dei compiti dei sistemi è trasformare una memoria personale in una memoria organizzativa, che significa eclissare sempre più la presenza anche nel terzo giudice della soggettività libera e responsabile, rimuovendo anche in chi si trova davanti al terzo giudice la memoria personale, lasciando spazio solo alle memorie organizzative, ovvero ciò che chiede ogni volta la vita dei sistemi, che non ha soggettività e può continuare a funzionare anche sacrificando la qualità della soggettività, la condizione e il riconoscimento dell’io. Luhmann: nelle società antiche l’uomo viveva in economie domestiche e si moriva nello stesso luogo in cui si era vissuti, mentre nelle organizzazioni moderne non si muore (è un paradosso, 44 perché gli uomini continuano a morire) . E’ questo un paradosso che significa che la morte non ha più un rilievo esistenziale, è soltanto un evento tra gli altri eventi, viene trattato nell’organizzazione come nient’altro che un incidente. Dunque l’uomo non è più l’unico soggetto ad avere il senso della morte, e di conseguenza anche il senso della responsabilità. Altro paradosso di Luhmann: le persone non pensano. Attualmente, secondo la teoria dei sistemi sociali, gli uomini sono costruzioni della società a fini della società stessa. Gli uomini devono il loro io soltanto al continuarsi dei sistemi sociali. Essendo prodotti dei sistemi sociali, gli individui non sono portatori di libertà, ma sono solo dei luoghi di transito delle molte informazioni che provengono dai vari sistemi (politica, economia) che si incrociano. L’uomo essendo solamente un luogo di transito, non ha nessuna responsabilità, nessuna soggettività, l’uomo non dice niente di se stesso, e quindi non ha nessuna responsabilità ed è per questo che, come dice Nietzsche, è innocente. Cadrebbe la differenza tra l’uomo e l’animale, la differenza tra il diritto e le leggi biologiche. Ma è il pensiero che distingue l’uomo dagli altri viventi non umani. L’uomo è soggetto di diritto in quanto soggetto di pensiero e per questo capace di compiere delle scelte, e poi di emettere delle decisioni e quindi di assumersi delle responsabilità. Il pensiero non ha una spiegazione scientifica, l’arte non ha nessuna spiegazione, l’arte è extra sistemica, non si lascia precalcolare. Per Luhmann però vi è stata una sovravvalutazione del pensiero umano (che consiste nell’affermare che il pensiero non ha una spiegazione scientifica) ed anche l’arte non è altro che uno dei sistemi. Luhmann nel sostenere questa tesi finisce per oscurare quello che è proprio dell’arte, che è oltre ad una qualsiasi funzione, l’arte evoca domande, fa pensare al di là delle sue forme, torna agli interrogativi della condizione umana. Per far ciò Luhmann deve cancellare la caratteristica precipua dell’arte, ovvero la extrasistematicità, la sua irriducibilità ad una funzione. La decisione è una scelta responsabile argomentata con una ragione sufficiente dal terzo giudice che emette la sentenza o che cosa diventa la decisione in Luhmann? Per Luhmann la decisione sarebbe un paradosso: “i paradossi decisionali sono indecidibili perché ogni decisione contiene il suo contrario”. La teoria della decisione opera seguendo la scelta. Si fa ricorso alla scelta che è nient’altro che ciò che manca, ovvero una semplice operazione che non si lascia osservare. Luhmann ritiene che la decisione essendo un paradosso è nient’altro che il luogo ove si affermano i fatti vincenti degli altri sistemi, quelli che vincono. Per questo l’uomo non esercita una libertà di scelta, perché le operazioni di decisione non si lasciano osservare; se si facesse questo tentativo di osservare le operazioni del decidere si incorrerebbe in un processo 45 infinito di altre operazioni che pretenderebbero di osservare il loro stesso porsi in operazioni. Questo processo sarebbe infinito e quindi impossibile e per questo per Luhmann la decisione sarebbe da scartare; al posto si prende atto che l’uomo non decide, che il terzo giudice non emette alcuna sentenza secondo una fedeltà alle norme ed una libertà nell’interpretarle, ma la emette enunciando ciò che è una composizione volta per volta vincente dei diversi dati e delle diverse informazioni dei vari sistemi sociali. La decisione è il luogo dove si affermano i fatti vincenti degli altri sistemi, anche se chiamato dall’uomo decisione o anche sentenza. In Luhmann la decisione e la scelta non sono la manifestazione della soggettività libera e non fungibile del soggetto parlante, esercitata anche dal terzo giudice, ma prendono il posto del paradosso, ovvero del fatto che le operazioni dell’osservazione, e quindi lo stesso osservatore che “sceglie e decide”, non sono osservabili negli atti dell’osservare. Quel che sfugge all’essere osservato non si lascia spiegare e si ritiene che non dica nulla, sia nulla. In sintesi, la decisione sarebbe un paradosso e in quanto un paradosso sarebbe da scartare, perché le operazioni del decidere non si lascerebbero osservare, perché ogniqualvolta si provasse ad osservare tali operazioni si incorrerebbe in un processo infinito di altre operazioni che pretenderebbero di osservare il loro stesso porsi in operazioni, quindi si scarta la responsabilità della decisione e al posto della decisione si prende atto che il giudice non decide e al posto della sentenza enuncia una posizione di volta in volta vincente dei diversi sistemi sociali. 46 Lezione 12 Il giudizio giuridico tra terzietà e nichilismo Nell’opera del terzo-giudice, la trasformazione delle ‘memorie personali’ in ‘memorie sistemiche’ configura il nichilismo della sua ‘decisione’, che viene formulata mediante il passaggio da una ‘contingenza aperta’ ad una ‘contingenza chiusa’, produttiva dell’enunciato del giudizio giuridico, divenuto omogeneo alle operazioni della tecnica ed estraneo alla formatività dell’arte. Il giudice configurato dal nichilismo ‘perfetto’ permane confinato nell’assolutezza di una condizione contingente, senza senso, che ha la sua struttura nel paradosso comunicato con l’espressione ‘caos della necessità’. Nel descrivere il concetto di decisione enunciata dal terzo giudice, il processo di concretizzazione del nichilismo nel sistema del fondamentalismo funzionale - ovvero un funzionare che non si interroga sul senso - va analizzato alla luce della visione di Luhmann della decisione quale complesso delle operazioni che portano al passaggio da una contingenza aperta a contingenza chiusa. La contingenza è aperta quando ancora il sistema diritto si apre agli altri sistemi ed acquisisce dei dati, che sono ancora in uno stato di indifferenziazione, ovvero ogni dato vale l’altro, non vi è una gerarchia funzionale tra un dato e l’altro. Poi il diritto, quale sistema sociale, tratta questi dati nel suo interno e si verifica il passaggio da una contingenza aperta ad un contingenza chiusa. Questo è quello che compie il terzo giudice nell’enunciare la sentenza. Ma è una decisione che rimane nella sola contingenza: non è cioè una decisione che viene assunta secondo la ricerca del giusto, avendo attenzione al rispetto dei diritti fondamentali inviolabili dell’uomo. Dall’esterno gli altri sistemi (soprattutto il sistema dominante che è il mercato) con le loro operazioni immettono dei dati, impongono un orientamento, ma che rimangono nella contingenza (non ha una ragione giuridica). La decisione con il chiudersi si danno dei nomi e si mettono in parole questi dati; la contingenza rimane chiusa ma rimane chiusa nella contingenza, senza una ragione giuridica. Il diritto ha funzionato così come sistema immunitario degli altri sistemi sociali; ha catalogato certi dati al polo del legale e gli altri dati acquisiti al polo del non legale, facendo una fredda operazione scientifica, matematica. La decisione del terzo Altro è legale ma rimane indifferente alla ricerca del giusto. Secondo Luhmann infatti la decisione è un paradosso, perché il terzo giudice non la può osservare e pertanto non è compiuta con responsabilità, con libertà nell’interpretazione. Le operazioni del decidere aprono il tentativo sempre fallito di osservare le operazioni dell’osservare. 47 Proprio perché le operazioni del decidere non si lasciano osservare, per Luhmann è un paradosso, ma invece proprio perché non si lasciano oggettivare sono decisioni dell’io, dell’uomo, che è soggetto e che non si lascia mai trattare come oggetto. Non si lascia oggettivare la terzietà giuridica, non è materiale di osservazione scientifica e dunque è un paradosso, perché le operazioni del decidere non si lasciano osservare e come paradosso va scartato. Ma questo ha alle spalle una visione dell’uomo lontana da quella occidentale che troviamo nella definizione data da Heiddeger: “l’uomo è tale in quanto è tratto nel movimento del sottrarsi, è in marcia verso questo, è colui che indica il sottrarsi stesso”; cioè l’uomo è quel che è perché è un soggetto, è un io che non si lascia mai oggettivare, si sottrae continuamente da tale oggettivizzazione. Luhmann nel negare tale struttura deve innanzitutto modificare il lessico giuridico della decisione, della responsabilità e della imputabilità. Luhmann per la decisione fa l’analogia con il tempo: anche il tempo è un paradosso; il tempo nel tempo è lo stesso tempo ma contemporaneamente nel tempo il tempo è un che di diverso, è un divenire. Per Luhmann la decisione è un evento comunicativo e non un qualcosa che ha luogo nella testa di un individuo. In concreto Luhmann dice che la decisione è un evento (che succede autonomamente) e che è comunicativo (non perché appartenga alla comunicazione, perché per Luhmann la comunicazione è informazione) perché si dà per il darsi delle molte informazioni, che si combinano, che si attraversano in questo luogo che è la terzietà del giudice, ovvero un evento informazionale. Non è nella testa di un terzo (non è imputabile alla soggettività responsabile del terzo giudice) significa che non appartiene alle scelte del terzo, non gli è riferibile, non è opera di una sua selezione, non è imputabile alla soggettività responsabile del terzo giudice. Luhmann dice ancora che la decisione è possibile solo perché il futuro è ancora indeterminato, sconosciuto: in questo consiste la responsabilità. La decisione e la responsabilità sono state intese sinora, ma non correttamente secondo Luhman, solo per qualcosa che ancora non è conosciuto dall’uomo pienamente. Se l’uomo conoscesse tutto non avrebbe nulla da decidere, non avrebbe alcuna responsabilità. Una tesi opposta a quella di Luhmann è quella di Jaspers che dice “mi accerto del fatto che qualcosa alla fine dipende solo da me, là io decido cosa sono”. Certo l’uomo può pensare di progredire nel conoscere, crescere verso un sapere compiuto, però tutto questo non lascerà cancellare la dimensione dell’io; anche davanti ad un sapere compiuto, l’uomo potrà dire di no, rimarrà sempre libero, rimarrà sempre l’essenzialità dell’io. Anche la conoscenza scientifica integrale non potrà impartire comandi sugli aspetti affettivi propri dell’uomo. Il concetto di 48 orientamento allo scopo viene sostituito da Luhmann con il concetto di assorbimento dell’incertezza. Nella descrizione di Luhmann rimane assente l’apertura affettiva dell’uomo e dunque rimangono assenti gli a priori dell’intenzionalità affettiva (l’uomo proverà sempre amore o odio, partecipazione o indifferenza, a priori non sono disponibili da parte della scienza), gli a priori dell’intenzionalità cognitiva (rimarrà sempre il principio di non contraddizione, etc, l’uomo non avrà mai la disponibilità della fase iniziale dell’attività cognitiva), e infine degli apriori dell’intenzionalità giuridica (l’uomo non potrà avere la disponibilità tra ciò che oppone il giusto e l’ingiusto opposizione giusto=riconoscimento, ingiusto=esclusione). Questi tre piani del pathos (apertura e intenzionalità affettiva), del logos (apertura e intenzionalità cognitiva) e del nomos (apertura e intenzionalità giuridica) non sono tre sistemi, non possono essere concepiti come se fossero tre sistemi, non sono separabili, nell’uomo costituiscono un plesso unitario. Per usare una metafora di Lacan, sono come tre anelli di corda uniti da un nodo (che è il nodo borromeo di Lacan) fatto in modo tale che se si taglia o si scioglie uno dei tre anelli si perdono anche gli altri due. Si hanno quindi tre dimensioni dell’esistenzialità non scindibili, unite appunto da questa metafora del nodo borromeo: il cadere di una segna anche il cadere delle altre. Quando questo avviene è che l’uomo non è più soggetto di scopi ma è un portatore di fini ovvero di operazioni che sono contenute nelle memorie di un qualche sistema. L’uomo non è solo un portatore di fini (i fini non sono scelti ma trovati), ma di scopi. (Scheler distingue tra scopi che sono cercati, scelti, appartengono all’unità dell’io costituito dalle tre dimensioni del pathos, del logos e del nomos, ed i fini che sono trovati). Se la decisione è un paradosso (come per Luhmann), la decisione non è assunta dal terzo giudice nella sua dimensione unitaria, di pathos, nomos e logos, ma è un qualcosa che accade, ma non è assunta nella dimensione unitaria di pathos, logos e nomos. Per Luhmann gli scopi non sono altro che dei disagi, che l’uomo ha chiamato scopi. Non sono fattori motivazionali, sono piuttosto dei disagi che vengono situati nel futuro, che permettono di agganciare alcune operazioni di un sistema ad altre operazioni di un altro sistema. Gli scopi sono dei disagi nel senso che sono un funzionamento non perfettamente efficiente di un qualche sistema sociale. Gli scopi si degradano e diventano fini perché sono quelle condizioni di disagio che vengono poi superate dalle operazioni vincenti nei molti sistemi sociali. 49 Dunque, dice Luhmann, la decisione prima della decisione è diversa da quella che è, e mentre si decide non è affatto possibile osservarla. La decisione del terzo giudice allora è un paradosso, perché non è mai possibile osservarla: è un po’ come il tempo, dice sempre Luhmann, c’è una sorta di analogia tra il tempo e la decisione, anche il tempo è un paradosso, perché il tempo nel tempo è lo stesso tempo e però contemporaneamente nel tempo il tempo è diverso è un diverso (il tempo è lo stesso e contemporaneamente non è lo stesso tempo). Questa descrizione del paradosso della decisione e del paradosso del tempo porta che si tralasci la questione del soggetto del decidere e anche del soggetto del tempo; ciò fa si che si tralasci la soggettività giuridica, sia come soggettività del terzo sia come soggettività del soggetto di diritto. Tralasciare la questione del tempo significa non interrogarsi sul futuro nell’esistenza dell’uomo, ma semplicemente vederlo sostituirsi da un dopo, una successione di momenti che accadono: ma non è il futuro, ritenuto invece una scelta responsabile, un progetto compiuto assumendosi un rischio e la responsabilità della scelta. Dunque la decisione e il tempo sono dei paradossi, vengono quindi svuotati dell’intensità attribuita dal pensiero giuridico classico. La decisione ed il tempo diventano una sorta di passaggio verso un lavoro per assorbire l’incertezza: il concetto di orientamento allo scopo (pensiero classico) viene sostituito con il concetto di assorbimento dell’incertezza. Questo è il momento centrale delle tesi di Luhmann: il futuro non interessa, non responsabilizza il soggetto che dovrebbe sceglierlo, non impegna la libertà, si passa da una memoria personale ad una memoria organizzativa, perché il futuro viene ad essere solo quel che consiste nell’assorbire la condizione di incertezza, ovvero l’assimilare in modo sistemico l’incertezza, il trattarla in modo tale che i sistemi continuino a funzionare efficientemente, per cercare la produttività della relazione intersoggettiva senza guardare alla qualità dell’esistenza dell’uomo. Le tesi di Luhmann sulla decisione sostengono che la responsabilità si darebbe soltanto perché l’uomo tratta qualcosa di non pienamente conoscibile in una definita condizione del sapere. La responsabilità consisterebbe pertanto nel non poter raggiungere i livelli di conoscenza e della speciazione propri della scienza, quanto ai rapporti tra l’uomo e le entità che egli incontra e tratta. Se tali livelli di conoscenza fossero raggiungibili l’uomo sarebbe innocente, perché pienamente dispiegato nel funzionamento delle operazioni dei sistemi. Luhmann sostiene che la responsabilità non sorge perché l’uomo non è esposto al poter scegliere diverse gradazioni dei due poli opposti che costituiscono i modelli principali dell’esistere in relazione con gli altri: il polo del rispetto e quello della violenza. 50 Uscendo dalla costruzione di Luhmann la responsabilità nasce non perché non sono ancora conosciuti scientificamente il rispetto e la violenza, ma perché l’uomo pur conoscendo le due dimensioni, esercita e manifesta la sua libertà rendendosi responsabile della sua decisione nel rispettare l’altro oppure nell’usargli violenza. Luhmann dice nel caso di una informazione completa nessuna decisione potrebbe essere riconoscibile come decisione, ovvero non ci sarebbe un problema di decisione, ma neanche un problema di linguaggio. Se l’informazione non chiedesse all’uomo il senso dell’operazione e si esaurisse nel sistema funzionale, e l’uomo non fosse chiamato a descrivere il senso, verrebbe meno il linguaggio perché non ci sarebbe nulla da dire. Nella teoria dei sistemi il linguaggio non è il linguaggio di un soggetto ma sarebbe solo il linguaggio del linguaggio, ovvero il succedersi delle operazioni dei vari sistemi, una dopo l’altra. Ma il linguaggio pieno che investe la responsabilità del soggetto parlante è un linguaggio che si domanda sugli eventi dei sistemi, che si trova sempre chiamato ad una condizione che avverte la responsabilità di sceglier un orientamento piuttosto che un altro. I parlanti non si limitano a mettere in parole ciò che accade (i parlanti non diventano parlati), ma dicono le loro ipotesi, prendono distanza da ciò che viene enunciato perché subito vede l’aprirsi di altre ipotesi, vede apparire subito la possibilità che altri soggetti parlanti abbiano altre interpretazioni. Il parlante – che non è semplicemente un parlante parlato dagli accadimenti che dentro lo attraversano - vede nella comunicazione con gli altri il suo ipotizzare, che è tale perché ascolta e coglie nell’ascoltare le ipotesi degli altri vede emergere i diversi possibili conflitti di sensi (avverte che si danno delle controversie che esigono la centralità del diritto, della terzietà giuridica, che non si limiti ad essere semplicemente un luogo dove si sta a vedere la combinatoria delle operazioni dei diversi sistemi, ma anzi una terzietà giuridica che modo imparziale e disinteressato garantisca in ogni soggetto sia il ruolo - che quel soggetto ha in quella relazione giuridica - sia la sua originalità, garantisca dunque sia il suo essere un esso (ossia il suo ruolo) sia l’essere un tu (e dunque qualcosa che non si lascia mai consumare in un ruolo). Soltanto nella custodia di queste due dimensioni dell’essere e del tu il terzo imparziale e disinteressato garantisce la soggettività giuridica e garantisce il diritto come fenomeno esistenzialmente rilevante perché legato alle controversie giuridiche. Nella teoria dei sistemi sociali di Luhmann la decisione potrebbe diventare un semplice stare a vedere il succedersi delle operazioni vincenti. Luhmann dice che le decisioni sono eventi che si orientano in modo autoreferenziale, che hanno un fondamento paradossale, si limitano a far si che si passi da una contingenza aperta (dove i dati hanno ancora una consistenza indifferenziata) ad una contingenza chiusa (dove i dati hanno assunto una configurazione); però in questo passaggio si è 51 rimasti nella contingenza e rimanendo nella contingenza non si è fatto attenzione ai diritti fondamentali della libertà. Luhmann dice che i diritti fondamentali alla libertà ed all’uguaglianza simbolizzano una sorta di forma di inclusione degli individui nella società di tutti gli individui in quanto individui, ovvero dice che gli individui sono degli elementi inclusi in una organizzazione che serve all’organizzazione stessa; con il dire che gli individui sono inclusi si dice tutt’altra cosa dal dire che gli individui sono riconosciuti nella società in quanto portatori di una soggettività giuridica. L’inclusione è uno svuotamento della originalità dell’uomo. Tutt’altra cosa dice invece il rispetto dei diritti fondamentali degli individui alla libertà e all’uguaglianza intesi non come inclusione in qualche funzionamento sistemico ma come riconoscimento disfunzionale della dignità dell’uomo e della qualità della relazione dell’uomo in quanto portatori di una soggettività giuridica. 52 Lezione 13: Formazione del giurista o addestramento del tecnico delle norme? La formazione del giurista è ambientata nello spazio dell’arte, pensato dalla Filosofia. L’addestramento del tecnico delle norme è perseguito seguendo il modello delle Teorie del reale. L’ingegnerizzazione post-umana di una ‘scienza giuridica senza giurista’ tratta, nel linguaggio numerico, il cosiddetto diritto ‘contingente=fattuale’ e non il diritto ‘incondizionato=controfattuale’, che viene espresso nel linguaggio evocante dell’ermeneuta, l’‘artista della ragione’. Nella condizione contemporanea la formazione del giurista porta a distinguere due possibili vie rispettivamente per la formazione della personalità e poi dell’opera che il giurista pone in essere nella concretezza dell’esperienza giuridica: da una parte si può avere un formarsi del giurista che si modella secondo lo spazio dell’arte (artista), così come si chiede nella direzione del pensiero classico (diritto come arte); dall’altra via (secondo il modello delle teorie del reale) abbiamo invece lo scivolare della formazione del giurista come tecnico delle norme che si limita ad assistere, ad assecondare il funzionamento delle operazioni vincenti nei vari sistemi sociali. In queste due formazioni si incontra il problema della qualità del linguaggio del giurista. Uno dei contributi principali moderni del linguaggio proviene dal pensiero moderno di Derrida (che si deve a Freud) e che consiste in un evento incancellabile, che segna lo spazio in cui ci troviamo sia a vivere, sia a pensare, sia a lavorare, sia ad insegnare; ci si trova in un confine osmotico e permeabile e che permette ma anche impedisce lo scambio tra psicoanalisi e diritto, permette ma anche mette in discussione tutti quegli interrogativi sul diritto a partire da questo contributo che viene dalla psicoanalisi di Freud. Attraverso l’attenzione all’inconscio di Freud si coglie che il linguaggio (come dirà Merleau-Ponty) è indiretto, “è silenzio”, ovvero è allusivo, intendendo così dire che il linguaggio è permeato dal silenzio perché risente dell’inconscio, il linguaggio del giurista è attraversato dagli effetti dell’inconscio. L’inconscio è un silenzio che prepara il senso delle parole che vengono enunciate. Tutto questo interessa la formazione del giurista, soprattutto l’alternativa di un giurista che si fonda secondo l’arte, perché riguarda il lavoro dell’interpretazione. Il lavoro dell’interpretazione sarà chiamato a compierlo sia il giurista che si forma secondo il modello dell’arte sia quello che si forma secondo il modello della tecnica. Sarà inevitabile che qualsiasi operatore del diritto si trovi di fronte a degli enunciati normativi e quindi davanti agli effetti del linguaggio, che sono simili agli effetti dell’arte, aprono degli spazi nei quali l’operatore del diritto deve spendere la propria 53 responsabilità nel lavoro interpretativo. La tecnica non è in grado di affacciarsi a ciò che è strutturalmente disfunzionale, come è proprio dell’arte e l’interpretazione che compie il giurista è arte, ha i tratti della disfunzionalità dell’arte, ha gli elementi propri del pensiero in quanto tale e, come dice Heidegger, la scienza e la tecnica non pensano. Nancy nel volume “L’esperienza della libertà” dice “il pensiero prodiga (ovvero dona: il pensiero è donativo) ciò che pensa prendendo distanze dal calcolo” e il pensiero fa questo a dispetto dei vantaggi che immancabilmente potrebbero conseguire sia per il soggetto che pensa sia per l’economia del suo discorso e del discorso che appartiene ad una società strutturata secondo la teoria dei sistemi sociali. Anche l’interpretazione ha questa struttura del donare, che appartiene anche al lavoro interpretativo del giurista, che è sempre la ricerca del giusto nel legale; è sempre il colmamento di quel vuoto tra la norma astratta e la situazione concreta che il giurista compie attraverso l’arte dell’interpretazione, che compie in modo donativo se ha la stessa struttura che Nancy dice essere propria del pensiero, ovvero quello dell’essere – come il pensiero - un pensiero prodigo; l’interpretazione del giurista dona il garantire il se stesso (del soggetto di diritto) nel suo poter essere. L’operatore del diritto (il terzo giudice in modo centrale) nell’opera dell’interpretazione compie un lavoro che è vicino al lavoro dell’arte, che ha la struttura del pensiero, è un lavoro donativo gratuito, che non può essere lasciato all’efficienza funzionalistica delle tecno-scienze. Perché al centro del diritto vi è l’incontro con l’uomo, al centro dell’incontro del terzo giudice con il soggetto del diritto, vi è l’incontro del soggetto del diritto in quanto portatore di un se stesso che è tale perché è soggetto del suo futuro del suo poter essere. L’interpretazione giuridica guarda alla concretezza della situazione che viene posta in giudizio, avendo però uno sguardo aperto al soggetto di diritto alla soggettività degli attori della controversia giuridica rispettando il loro futuro, e ciò può essere fatto solo donando aprendo ciò che non è determinato. Il dono consiste nell’aprire un itinerario dove l’altro può trovare la sua libertà; il tecnico delle norme indica solamente un itinerario che è già preformato. Quando si lascia la dimensione dell’arte e si lascia l’attenzione all’inconscio, al processo interpretativo, si cade nel fondamentalismo del detto, si incorre così nella pretesa impossibile di poter esaurire la giuridicità degli enunciati normativi; come ogni detto anche il detto delle norme se viene isolato nella sua presunta letteralità e nella sua presunta sufficienza della letteralità diventa un fondamentalismo, non è più in grado di ascoltare l’altro, di dare rispetto al soggetto di diritto ma lo tratta come si trattano le cose lo manipolano come la scienza tratta gli oggetti. 54 Non appena si svela che l’opera dell’interpretazione è essenziale nell’attività del giurista, questa attività si situa in una precisa qualificazione del sapere, è situata nella qualificazione del sapere che è in grado di togliersi dai fondamentalismo del detto, dalle presunte autosufficienze delle chiusure all’interno degli enunciati normativi, si esce cioè dalla presunzione che si possa avere il sapere totale (sia pure un sapere costituito dalla sufficienza della legalità), ovvero il ritenere sufficiente il conoscere e l’enunciare la legalità che si afferma quando si del concretizza verso i soggetti di diritto con la violenza di un fondamentalismo. La struttura del diritto è invece quella del sapere parziale: il diritto è una relazione di riconoscimento, quindi ha la qualità del sapere parziale, spazio dove nessuno ha la pretesa di enunciare un sapere ultimo scientificamente esatto. Il sapere totale è un sapere che tende ad essere modellato secondo la compiutezza del linguaggio numerico mentre il sapere parziale volta per volta si ricrea, riacquista la sua struttura modellandosi secondo il linguaggio dell’arte che è un linguaggio evocante; il sapere numerico è il sapere della scienza e la scienza tratta fenomeni che sono riproducibili, cioè fenomeni che possono essere situati in forme modellate secondo il linguaggio numerico; la verità scientifica ha una presentazione univoca (non ci sono due verità scientifiche che riguardano lo stesso oggetto), ha una unica formulazione, non si presenta mai il lavoro dell’interpretazione. Tale opera di interpretazione si chiede sempre nel lavoro del giurista, diventando centrale nella sua formazione. Il diritto ha tra i suoi compiti essenziali, il compito di conferire una forma alle relazioni, ovvero definire secondo tipologie (enunciate con rigore) le qualificazioni delle condotte, le relazioni: il relazionarsi in genere, divenendo giuridico, si toglie dall’informe, esce dall’informe, dall’incerto, perché solo il diritto garantisce la certezza (la certezza è garantita dal diritto perché il diritto conferisce quella specifica forma a quella modalità di relazionarsi degli uomini). Questa forma che il diritto conferisce alle relazioni dei parlanti è un riferimento, dà certezza, ma non è sottratta all’opera dell’interpretazione. La forma appartiene all’arte, la forma appartiene al diritto; “la forma è di per sé interpretabile ed interpretanda: suo carattere intrinseco è di richiedere interpretazione e al tempo stesso stimolarla.” Ogni forma è da interpretare. (Pareyson) Si chiede pertanto che ogni relazione giuridica sia interpretata. Il giurista, nel suo lavoro interpretativo, da un lato deve mantenere fedeltà all’enunciato normativo, dall’altra deve parimenti avere un esercizio responsabile della sua libertà nell’opera dell’interpretazione. La libertà dell’interprete non è il luogo ove tutto è possibile, non è la omnieventualità; non è la possibilità di ogni possibilità. Per chiarire tale concetto bisogna fare riferimento a una tesi che invece nega questa struttura di una libertà dove tutto sia possibile. 55 Infatti Nancy ha una tesi opposta che ritiene la libertà sia un evento dove accade qualsiasi contenuto: dice Nancy libertà uguale il niente, quindi la libertà è aperta ad ogni itinerario. La libertà è il niente sorpreso nella sua folgorazione, evento di una folgorazione che sorprende, è un evento dove ogni contenuto è possibile, diventa un contenitore che può accettare qualsiasi qualificazione delle condotte del se stesso e degli altri. La libertà non riposa né nella indipendenza né nella necessità, non è né spontanea e neanche è imposta, è null’altro che una semplice folgorazione (il semplice trovarsi davanti all’accadere di un evento). Libertà è trovarsi davanti all’accadere di un accadimento, lo stare a vedere innocente (una folgorazione) il succedersi queste folgorazioni. Se fosse così però la libertà finirebbe per essere confusa con una condizione dove l’uomo vive in uno stato di indifferenza, di innocenza e di irresponsabilità sia giuridica che morale, che appartiene alle macchine ed agli animali, non all’uomo. L’uomo soggetto ha una sua storia (che esige soggettività, la storia si lascia interpretare come si lascia interpretare la storia del diritto), non è l’oggetto di una evoluzione come le macchine e gli animali. C’è una differenza incolmabile tra la storia e l’evoluzione, che è priva di soggettività e si lascia conoscere scientificamente ma non interpretare. Dunque il diritto chiede l’arte dell’interpretare, l’interpretare non è da confondere con il nulla perché l’interpretare esige fedeltà al testo che si interpreta ed esige certo libertà, ma la libertà che esige non è questo evento che sorprende e che è un possibile contenuto di ogni qualsiasi qualificazione: la libertà non è lasciata scivolare verso l’indistinto, non è un nulla ma è il ritrovarsi costantemente nell’esercizio della responsabilità. La libertà c’è perché appartiene a qualcuno: la libertà di un singolo è la formulazione di una ipotesi interpretativa, che può essere tale solo se ci sono altre ipotesi. L’ipotesi non è possibile se è slegata dal rinvio ad altre ipotesi di senso. Affinché un’ipotesi possa appartenere ad un io deve entrare in comparazione con un’ipotesi degli altri: solo quando si ascolta, ovvero si fa opera di comparazione con le ipotesi di altri, solo allora si ha consapevolezza che la propria è una ipotesi, solo allora si ha libertà. Finché non c’è dunque una pluralità di ipotesi quel che io enuncio potrebbe essere semplicemente qualcosa che accade per caso o per necessità, lo svolgimento di una legge biologica che porta ad enunciare ciò che si ritiene essere un ipotesi. Sarà veramente un’ipotesi solo quando sarà stata comparata con le ipotesi degli altri; solo allora si avvertirà che il riferirsi dell’uomo a ciò che incontra, il riferirsi del terzo giudice alle norme è un lavoro interpretativo che non può pretendere di essere un’ipotesi interpretativa se non prende atto che il suo è un sapere parziale, e proprio perché sapere parziale e non totale richiede la pluralità dei gradi di giudizio, ciò che la storia del diritto ha portato alla costruzione della pluralità dei gradi di giudizio. 56 Gli uomini ipotizzano perché discorrono, comunicano, in uno spazio terzo, quello dello logos e del nomos, che nessuno può padroneggiare . Non tutte le possibili interpretazioni saranno equivalenti: alcune avranno i tratti della giuridicità, ovvero espressione della ricerca del giusto nella legalità. Il diritto deve avere la modalità del riconoscimento e non dell’esclusione. Nella situazione contemporanea si prende atto che la tendenza è di modellare l’interpretazione secondo il modello della tecnica, trascurando l’arte: la tecnica modella l’interpretazione secondo come il mercato modella la tecnica. Se il dominio è del mercato si avrà allora un capovolgimento della visione classica, che distingue le cose di valore (beni che entrano nel mercato) che possono essere manipolati dalle tecniche, dai valori assiologici come la giustizia, la solidarietà, la partecipazione nell’ascoltare l’altro nella sua interezza. Ciò chiede di orientare la formazione del giurista: attualmente emergono problemi che il tecnico delle norme non può avvicinare. Scrive sempre Derridà: numerosi manoscritti rifiutati dagli editori in futuro (ormai nella nostra condizione contemporanea) verranno pubblicati sul Internet, soltanto delle analisi estremamente raffinate e comunque sempre discutibili consentiranno una vera e propria rielaborazione dell’intero ambito pubblico dell’editoria e del diritto, rielaborazione che però non sarà avvicinabile dal tecnico delle norme, chiederanno l’essenzialità dell’arte del giurista, formatosi secondo il modello specifico dello spazio disnumerico dell’arte. 57 Lezione 14: Il diritto strutturato come il linguaggio che è discorso. Le leggi - strutturali e non convenzionali - del linguaggio consentono di enunciare e comunicare le creazioni di senso, ma non sono create né dai parlanti, né dai linguisti. Le leggi delle cose, dei viventi e delle macchine sono scoperte ed enunciate dall’attività di ricerca delle scienze, ma non sono ‘istituite’ dagli scienziati; non si individuano legislatori nelle leggi della fisica, della chimica, della neurobiologia, ecc. Le norme giuridiche sono invece istituite, nella ripresa, storicamente sempre originale, del principio: il diritto(nomos) è strutturato come il linguaggio che è discorso(logos), illuminato dagli a priori dell’apertura affettiva(pathos). La discussione sull’opera dell’interprete torna inevitabilmente a descrivere il linguaggio degli uomini che ha una particolare struttura, certamente diverso dai messaggi linguistici dei non umani, che non hanno un linguaggio discorso, perché il discorso implica la formazione di ipotesi, quindi l’istituire una vita che è la vita delle istituzioni, una seconda vita dove principali sono le istituzioni giuridiche. Nei linguaggi dei non umani e dei sistemi informatici non compare nulla della discorsività, perché non compare questa seconda vita, propria dell’istituire appunto le istituzioni giuridiche. Ma nel discutere dell’interpretazione si prende atto che le leggi del linguaggio consentono alla discorsività degli uomini una creazione di senso, un discontinuare segnato appunto dal presentasi di un senso nuovo. Quando questo manca, quando non c’è creazione di senso, il linguaggio scivola nella noia, nella semplice informazione funzionale, non accade nulla, non si ha una creazione di senso, si ha un semplice transitare di informazioni che svolgono delle operazioni sistemiche ma che non implicano l’esercizio creativo della soggettività, e ciò che è proprio della creazione di senso. Il linguaggio discorso però consente una creazione di senso ma non consente però una creazione delle leggi del linguaggio che è discorso; l’uomo non ha la disponibilità delle leggi del linguaggio che è discorso, perché se avesse tale pretesa scivolerebbe verso un rischio che gradualmente si avvicina alla fuga delle parole, al disordine e al caos di un dire senza senso. Del resto lo scienziato è il chimico, il botanico, ma mai il legislatore delle leggi della scienza, della chimica o della botanica. Tutte queste leggi gli scienziati le enunciano, lavorano per portarle alla luce, ma non ne sono i legislatori delle leggi della chimica o della botanica, le scoprono. Parimenti gli uomini non sono i legislatori delle leggi del linguaggio, ma sono però i creatori del senso che viene comunicato con il linguaggio che è discorso e gli uomini sono i creatori anche delle norme giuridiche. Le norme giuridiche, dunque, sono norme istituite: gli uomini ne hanno una disponibilità, a differenza delle leggi della scienza, ed anche a differenza delle leggi del linguaggio; si può 58 convenire su alcune formulazioni linguistiche ma non si può disporre delle leggi profonde del linguaggio, non si può mai disporre della distinzione tra il significato e il significante.Non si può mai disporre di una legge fondamentale del linguaggio che vede nella parola un elemento che non è riducibile nel numero: l’uomo non ha questa disponibilità. L’uomo, pur non disponendo delle leggi del linguaggio che è discorso, ha la responsabilità di istituire (attraverso le leggi di un linguaggio che è discorso) le norme e di selezionare i contenuti delle norme giuridiche. Questa è la responsabilità esercitata dal terzo legislatore, cui segue poi la responsabilità del terzo giudice, che è l’interprete dell’opera del legislatore. Questa attività del terzo giurista non è riconducibile ai modelli della scienza, perché si tratta di un’opera ermeneutica non riconducibile al lavoro scientifico in quanto presuppone un lavoro di interpretazione che ha sempre a che fare con la soggettività. In proposito dice Pareyson: la personalità dell’interprete è una situazione invalicabile dalla quale egli non può uscire, perché nessuno può uscire da sé. Dunque l’interprete non può liberarsi dalla responsabilità dell’interpretazione, non può ritenere che possa essere sostituita dai modelli scientifici perché ciò richiederebbe all’interprete di uscire da se stesso per non essere più uomo ma un congegno di tipo macchinale. L’interpretazione non può essere lasciata all’intelligenza artificiale, perché in tal caso non incontrerebbe più la soggettività. Soltanto la soggettività del terzo giudice in quanto uomo può incontrare l’altro uomo nella sua soggettività. Solo se l’opera ermeneutica rimane nel campo dell’arte potrà incontrare la soggettività di chi entra in un palazzo di giustizia e peraltro si deve tener conto della tendenza dell’ingegnerizzazione del diritto che sembrerebbe rappresentare una maggiore certezza e imparzialità (il giudice sarebbe inevitabilmente parziale perché portatore di una personalità, di una storia personale e dei relativi limiti). Ma non è così perché il tecnico delle norme non è imparziale in quanto persegue solo l’efficienza funzionale, incontra il diritto che si svolge nell’uomo e quindi chiede esclusivamente il concretizzarsi delle operazioni del sistema diritto; il diritto invece che implica costantemente un riferimento alla pienezza dell’io alla pienezza dell’uomo non è il diritto nell’uomo ma è il diritto dell’uomo, che costituisce la misura dei contenuti delle operazioni giuridiche e chiede un incontro con la soggettività che non è accessibile a nessuna strumentazione biomacchinale. In tal senso ritorna la tesi di Jasper che dice che la coscienza si sottrae ad ogni considerazione oggettiva perché l’esistenza è ciò che non diventa mai oggetto (quel che avviene in un processo è sempre ciò che mette in gioco l’esistenza non gli oggetti o gli animali perché non sono imputabili, 59 perché i loro comportamenti sono costituiti dalle loro memorie biologiche o vegetali e dunque non costituiscono quel che invece è proprio dell’opera del terzo giudice, ovvero l’analisi della soggettività; pertanto l’analisi dell’esistenza rende impossibile l’intervento di un processo che renda tecnica la via del giudizio giuridico). A differenza degli animali, il percorso dell’uomo è quello di un libero continuo perfezionarsi che non ha mai un momento finale. E’ quel che Russeau afferma quando distingue l’uomo dagli animali: egli dice che nell’uomo la volontà parla ancora quando la natura tace (con ciò sottraendosi sempre al ruolo di servitore della funzione di un sistema, ed il giudice deve incontrare l’uomo tenendo presente di questa caratteristica). Nel giudizio entrano sempre gli uomini con le loro memorie esistenziali (non quelle biologiche dei non umani) che restano aperte alla creazione del futuro, a questo compito mai esaurito di perfezionarsi: ciò che è proprio del processo penale, riconosciuto anche dalla nostra costituzione, ovvero che la pena sia destinata al reinserimento del singolo nel complesso delle relazionalità sociali; solo questa è la ragione che conferisce alla pena un senso esistenziale e la distingue dalla quantificazione che è propria della vendetta animale). L’impegno di perfezionarsi che contraddistingue l’uomo chiede sempre al giudice di incontrare i soggetti che si presentano davanti ad un collegio giudicante, come colui che è il portatore di questo impegno inesauribile a ricostituire costantemente la propria identità esistenziale; cioè ricostituire costantemente l’impegno a perfezionarsi. Si rinuncia a questo impegno a perfezionarsi quando il soggetto è avvicinato dalla follia, dalla disperazione e pertanto diventa non più imputabile, non è più interlocutore del dibattimento. Pertanto il perfezionarsi degli uomini avviene in mondo che porta costantemente ad avere attenzione alla centralità esistenziale del diritto e del giudizio giuridico, perché il perfezionarsi avviene in un modo dove ci sono anche altri portatori della medesima istanza, in un modo – per tornare ad un’espressione di Sartre – caratterizzato dalla penuria, ovvero da quella condizione dove non ce n’è mai abbastanza per tutti, cioè che non tutte le possibile forme per raggiungere un perfezionarsi di ogni singolo. Dunque, poiché la formazione dell’identità di ognuno avviene in presenza della formazione dell’identità degli altri, ecco che nascono le controversie tra gli uomini e il diritto non può mai essere un fenomeno destinato all’estinzione contrariamente all’ipotesi profetizzata da Marx: il diritto non potrà mai estinguersi, perché il diritto si darà sempre finché si darà un soggetto che ipotizza, che ipotizza però non una dimensione collettiva e anonima priva di una soggettività originale, ma che ipotizza la sua non fungibile soggettività esistenziale. Ci saranno 60 dunque delle controversie di senso, che si presenteranno come la genesi del fenomeno diritto e della impossibile estinzione della giuridicità. Ma le controversie di senso che interessano il diritto sono quelle controversie che investono dei beni che per la loro struttura nell’esser goduti esigono una divisibilità: questo lo si legge in modo chiaro nell’analisi fenomenologica compiuta da Scheler: egli, nella sua analisi fenomenologica, dice che le contrapposizioni tra gli uomini sono da ricondurre ai c.d. beni materiali, ovvero a quelli che possono essere distribuiti in quanto vengono divisi, facendo sorgere il confine tra ciò che è mio e tuo, facendo sorgere ciò che è proprio della disciplina della proprietà (beni quindi che fanno sorgere i problemi che il diritto deve disciplinare ponendo dei limiti al mio che escluda il tuo). All’opposto ci sono gli altri beni (il bello, il vero) che non producono controversie che investono beni divisibili, perché il bello e il vero per il loro godimento la divisibilità non portano la partizione per i loro portatori e quindi non vi è necessità di norme giuridiche (as esempio l’ascolto di una musica, la contemplazione di un’opera d’arte). Si può dire, ricapitolando, che le controversie di senso sorgono e sono inevitabili perché gli uomini ipotizzano ed il loro ipotizzare accade in un mondo affetto dalla penuria: le controversie giuridiche sono quelle che trattano beni che per esser goduti comportano una divisibilità oppure una appropriazione che in quanto tale fa nascere il mio ed esige il confine dal tuo. In questa prospettiva si capisce che le norme giuridiche, nel disciplinare questo ordine di beni, comportano una forma nelle relazioni giuridiche, comportano delle tipologie definite nel modo in cui le controversie avvengono e poi trovano soluzione. Poiché della soluzione delle controversie di senso è la soluzione che il terzo giudice enuncerà essendo fedele al testo delle norme, che precede le condotte degli uomini e le qualifica. Se il testo delle norme dovesse essere successivo alle condotte queste non avrebbero possibilità di essere inscritte in una relazione certa. E’ la formatività giuridica che definisce e dunque confina le relazione e le rende certe definendole. Rendendole certe lascia sorgere la pretesa giuridica, che è una dimensione esclusivamente propria della giuridicità, non si può pretendere un sentimento oppure una invenzione tecnica. Posso invece pretendere quanto è divenuto contenuto delle norme giuridiche, che precedendo le condotte, e che disciplinano le controversie che volta per volta acquistano rilievo giuridico e che lo acquistano in quanto controversie di senso che gli uomini esistono in un mondo caratterizzato dalla dimensione della penuria della impossibilità che tutte le ipotesi di senso possano trovare una loro concretizzazione senza escludere tutte le altre ipotesi di tutti gli altri. 61 Dunque le norme giuridiche mostrano questa essenziale funzione nel disciplinare le controversie di senso e mostrano il loro nascere in quanto controversie di senso riproponendo l’omogeneità che lega il nomos e il logos: si torna dunque a dover filosoficamente argomentare che il diritto è strutturato come il linguaggio che è però discorso. Perché l’uomo parla, comunica, discute e nel comunicare mette in essere delle creazioni di senso però l’uomo non crea le leggi del linguaggio che struttura il discorso. L’uomo non può creare un inversione della parola verso la dimensione del numero. Parimenti l’uomo non crea neanche il giusto perché non dispone della differenza fra il giusto (che è il rispetto ed il riconoscimento dell’altro come soggetto del diritto a prendere la parola) ed il non giusto (che è l’escludere l’altro, il togliergli la parola). C’è dunque questa struttura di profonda analogia tra il logos (ovvero la parola, il discorso: l’uomo parla ma non dispone delle leggi del linguaggio) e il nomos ( l’uomo si trova ad avere davanti alla sua esistenza delle norme, però non dispone del giusto: nessun legislatore potrà cancellare la differenza fra il rispetto dell’altro e la violenza dell’altro, fra il riconoscerlo e l’escluderlo). Ma il nucleo che accomuna il logos e il nomos è questa relazione di riconoscimento, che viene ricordata in modo paradossale da Scheler a proposito della condizione che è propria del condannato, ovvero ancor prima di colui che è l’autore di un delitto: l’autore del danno o il reo del delitto di qualunque entità ha il diritto di essere riconosciuto come persona e dunque ha paradossalmente il diritto alla pena. Solo con la pena gli si riconosce la soggettività. Se non gli si dovesse riconoscere la pena, è come se lo si riconoscesse non imputabile, è come se lo si facesse cadere nella indifferenza tra l’innocenza e la responsabilità, come se lo si facesse cadere nella situazione dell’animale che non è mai responsabile dei suoi comportamenti. Il diritto alla pena (Scheler) potrebbe essere negato da chi volesse rendere l’uomo un mero oggetto nei loro provvedimenti cautelativi, se il terzo giudice finisse anziché pronunciare la sentenza si limitasse a trasmutare il processo nella semplice utilizzazione di alcuni provvedimenti cautelativi che consistono non nell’incontrare l’altro nella sua soggettività che ha scelto di usare violenza ad altri esistenti, ma nell’incontrarlo come un oggetto che può essere reso inoffensivo, confinato, togliendogli l’opportunità di incontrare gli altri. Quando questo avviene, quando si nega il riconoscimento, sia pure nella misura certo difficile da vivere che infligge una pena, si nega la soggettività giuridica, si finisce per trattare l’altro come un elemento che produce un disagio nei molti ingranaggi dei diversi sistemi sociali. Questo elemento che produce un disagio non è più incontrato come portatore della dignità umana ma semplicemente come quantificabile come una funzionalità sistema, come un quantum monetario. 62 Lezione 15: Istituire, interpretare ed applicare le norme: la dimensione dell'arte nel diritto, oltre il suo "funzionamento" Nell’istituire, interpretare ed applicare le norme, il giurista opera nella dimensione dell’arte, formativa di ogni modalità del linguaggio delle parole creative, origine anche del legame giuridico tra gli uomini. Quando le parole scivolano verso i numeri, si ha quel ‘funzionamento’ dei sistemi sociali dove il nichilismo progredisce verso il suo affermarsi come ‘fondamentalismo funzionale’, retto dal principio ‘la funzione della funzione è la funzione’, senza perché e senza senso. Il nichilismo può essere vissuto in un suo stadio ancora ‘imperfetto’, ‘non tragico’; può circolare come una merce culturale, esposta, tra le altre, nei canali mercantili dei mass media. La distinzione fondamentale nel descrivere la formazione e l’attività del giurista consiste nel riportare l’opera del giurista uomo ha due possibili itinerari: uno che si costruisce nel modello dell’arte e l’altro che si costruisce secondo il modello della tecnica. Questi due itinerari sono presenti da sempre nella storia del pensiero giuridico. Attualmente è divenuta più forte la presenza del modello tecnico-scientifico. Quando ci si riferisce all’opera del giurista ci si riferisce alle tre figure della terzietà giuridica, che costituiscono i tre spazi principali dell’intera esperienza giuridica, ovvero: 1. l’opera dell’istituire le norme, del terzo legislatore; 2. l’opera dell’interpretare ed applicare le norme, del terzo giudice; 3. l’opera dell’eseguire, del porre in concreto i due passaggi precedenti, del terzo polizia. Quelle tre figure della terzietà esigono un confronto tra l’attività della ragione artistica e l’opera della ragione tecnica. La peculiarità della condizione contemporanea emerge nella tendenza a proporre una spiegazione scientifica della libertà dell’uomo che il pensiero filosofico dei classici discute con il concetto di libero arbitrio. Ritenuta raggiunta la spiegazione della libertà, ne consegue che anche il diritto ed il linguaggio giuridico siano incontrati secondo modelli scientifici, principalmente dalla neurobiologia e dall’intelligenza artificiale. La maggiore presenza delle costruzioni fondate sul versante della tecnica dipende dal fatto che la scienza ritiene di proporre una spiegazione del libero arbitrio dell’uomo. Gli itinerari che ritengono di poter spiegare il libero arbitrio scientificamente sono sostanzialmente quello delle scienze neurobiologiche e quello delle attività che ruotano attorno all’intelligenza 63 artificiale. Questi due versanti avvengono oggi in un modo che si mostra costantemente proporsi in un processo ibridativo (neurobiologia e intelligenza artificiale sono in questo costante, reciproco cammino di ibridazione). In direzione esplicitamente vicina ad una spiegazione scientifica della libertà è un lavoro di Dennett (comparso in una traduzione italiana ne “L’evoluzione della libertà”, 2004); questo studioso ha questa tesi: l’atmosfera del libero arbitrio che avvolge tutto, che tutt’ora continua a conferire il potere che modella la vita, è composta da quelle azioni intenzionali che consentono di progettare, di sperare, di promettere (quindi la spiegazione del libero arbitrio, delle azioni intenzionali, che avviano i processi di progettazione, della promessa, a vedere l’individuo responsabile di una possibile azione), ma che ormai è in via di archiviazione. E’ possibile pensare di possedere una condizione umana dove forse è nominato il libero arbitrio, ma la situazione attuale della scienza ci permette di dire che non è stato altro che una ideologia che ha modellato la vita in questi millenni e l’ha forse anche accresciuta ma ormai possiamo farne a meno. Possiamo imparare a fare a meno di questo riferimento ideologico al libero arbitrio e quindi l’insieme delle interpretazioni dell’esperienza giuridica. La libertà, il libero arbitrio, secondo Dennett, sarebbe stato null’altro che un sintomo, uno dei fenomeni della stessa evoluzione biologica. Per Dennett non esiste un libero arbitrio che appartiene ad un soggetto che sceglie ed è libero e responsabile e quindi giuridicamente imputabile. La caduta dei questa costruzione farebbe cadere la distinzione anche tra l’evoluzione della natura (ascritto ad un processo non scelto) e la storia delle istituzioni (ovvero lo scegliersi degli uomini nelle diverse fasi delle loro diverse condizioni sociali). Con la caduta del libero arbitrio, ovvero con la spiegazione scientifica della libertà, evoluzione e storia finiscono per identificarsi: sono soltanto il processo che registra lo svolgersi del funzionamento dei sistemi, che hanno nel loro nucleo volta per volta una funzione. Queste considerazioni sono fatte dagli studiosi dell’intelligenza artificiale ma in modo forse più impegnativo dagli studiosi della neurologia: in questa disciplina il neurobiologo francese Changeux dice che appunto le scienze cognitive possono giovarsi di straordinari sviluppi e metodi che avrebbero aperto quello che mai prima si era reso accessibile all’umanità; avrebbero aperto una finestra scientifica sulla soggettività. Questo avrebbe portato ad aprire una sorte di luce sulla normatività. La spiegazione scientifica della libertà darebbe dunque una spiegazione scientifica della normatività, e questa spiegazione scientifica della normatività porterebbe a dover discutere oggi il darsi di tre modelli di quel che si è ritenuto essere il sé, ovvero il se stesso, l’io, il centro imputabile delle attività dell’uomo. Questo sé avrebbe oggi una serie di qualificazioni diverse: non sarebbe più il sé in modo greco, medievale, classico, il sé dell’uomo in quanto portatore di una dimensione che è quella dello 64 spirito, non sarebbe dunque il sé del profondo esistenziale, ma sarebbe il sé dei neuroni oppure il sé degli elettroni: il sé dei neuroni (parte spiegabile dalla prospettiva della neurobiologia) sarebbe questo centro di riferimento che costituisce il luogo dove nella massa cerebrale avvengono i diversi processi di combinazione delle molte attività delle sinapsi, ovvero di questi processi elementari e complessi che compongono per intero l’attività delle diverse regioni della geografia cerebrale. Accanto al sé dei neuroni rimarrebbe questo sé degli elettroni, luogo che è proprio dell’intelligenza artificiale dove i diversi programmi situati nelle diverse modalità di svolgimento dell’intelligenza artificiale lasciano sempre apparire ciò che sarebbe proprio di una macchina non banale. Dunque queste due configurazioni del sé residuali (dei neuroni e degli elettroni), una volta eliminato il sé esistenziale, sarebbero due figure proprie di una c.d. macchina non banale, perché capace di compiere un processo di auto osservazione, in grado di autoaggiustarsi, come dice Luhmann, mostrandosi capace di adattarsi agli elementi che incontra (flessibilità). Dunque la spiegazione scientifica del libero arbitrio e della libertà in generale comporterebbe che la scienza giuridica si avvii ad essere una scienza giuridica senza giurista, perché la finestra che la neurologia ibridandosi con l’intelligenza artificiale getta sulla attività di questa macchina non banale, che è il giurista, e getta sulla stessa produzione, sull’interpretazione e sull’esecuzione della normatività, l’insieme delle attività giuridiche risulterebbero nient’altro che dalla combinatoria dei neuroni e degli elettroni, poiché il processo è oggi costantemente in un accelerato ibridarsi dei sistemi biologici e dei sistemi informatici. Ma la spiegazione scientifica della libertà, la riduzione del libero arbitrio, la riduzione dell’attività del giurista che cessa di essere l’artista della ragione per farsi il funzionario, il tecnico dell’efficienza dei sistemi normativi porta che la combinatoria delle attività della esperienza che appartiene alla giuridicità non si distingue più dalla combinatoria degli elementi che mantengono in vita gli animali o i vegetali (Non ci sarebbe quindi alcuna differenza con la combinatoria che mantiene in vita gli animali, i vegetali e le macchine). Cancellato il libero arbitrio si guarda alle spalle la storia del pensiero giuridico e la storia delle attività di produzione delle norme e si vede che si è trattato di null’altro che di un sintomo dell’evoluzione dei sistemi biologici. L’attività della ragione giuridica si svelerebbe ora, con il fascino della luce della scienza, come nient’altro che un sintomo dell’evoluzione dei sistemi biologici che oggi si interseca con il crescere dell’efficienza e dell’incidere dei sistemi informatici. Dunque il cervello del giurista è riferito a queste tre figure della terzietà: il legislatore (ovvero colui che pone le norme), il terzo giudice (colui che pronuncia il giudizio) e il terzo polizia (ovvero colui che concretizza l’attività delle precedenti figure). L’attività di queste tre figure della terzietà 65 sarebbe altro che un’opera cerebrale: il cervello secerne pensiero come il fegato secerne bile (è un’espressione che esprime la psicoanalista vivente francese Roudinesco). Essendo spiegabile, l’attività di secrezione farebbe cadere la differenza fra uomo e ciò che non è umano: con il venir meno di tale distinzione cadrebbe anche la distinzione tra le leggi che sono trovate nel non umano e le norme che sono istituite nella società degli uomini. Questa differenza è sempre centrale, che da ragione del continuare a non essere cancellabile il fenomeno del diritto, e in generale delle istituzioni giuridiche. Se invece si cancella questa distinzione fra umano (libertà che è non spiegabile) e il non umano (operazioni che si lasciano spiegare scientificamente) si affermerebbe una sorte di nichilismo giuridico compiuto, perché non sarebbe più presente alcuna domanda sul senso dell’istituire le norme, sugli scopi che portano ad istituire, selezionare i contenuti di alcune norme invece di altre, non sarebbe più presente alcuna attenzione a considerare perché il singolo nell’esercitare la sua libertà compia una scelta che lo porta a rispettare l’altro o a usare violenza verso l’altro: non ci sarebbe più alcuna differenza tra ciò che accade (che appartiene all’ordine del non umano) e ciò che si sceglie (che appartiene all’ordine umano) e di conseguenza alcuna responsabilità. La spiegazione scientifica rende omogeneo l’umano e il non umano: si lascia cadere anche il concetto di responsabilità, l’uomo è innocente non giuridicamente responsabili, sono solo il luogo dove alcune cose accadono. Il diritto sarebbe lasciato a una condizione che in modo poetico Lucrezio definisce con il concetto di “clinamen” (gli atomi cadono, e cadendo rispettano alcune leggi che sono delle leggi necessarie, ma cadendo in modo inclinato si combinano secondo delle contingenze che sono assolutamente occasionali, casuali): si avrebbe cioè questa condizione di abbandono al non senso, mancherebbe una domanda e una risposta sul perché del contenuto delle norme, sul perché di alcune scelte delle condotte dei soggetti di diritto che sono davanti al giudice e ne attendono il giudizio quanto alle loro controversie, mancherebbe appunto ogni riferimento a domande e a risposte su questi modi del procedere dell’essere e si avrebbe solamente una combinatoria delle cause e dei casi. Si avrebbe il caos della necessità (formula che Heidegger riprende nel chiarire il concetto di nichilismo di Nietzsche: il nichilismo è questo caos della necessità). Caos (occasionalità dei casi) e necessità (svolgersi delle cause) sono due versanti opposti e in quanto tali cancellano ogni domanda sul senso, sul fine: ci si troverebbe davanti a questa sorta di in significatività, a ciò porterebbe la spiegazione scientifica della libertà dell’uomo. Un risultato immediato sarebbe quello di togliere al diritto l’elemento che ne rappresenta la sua genesi, cioè l’essere una risposta che custodisce il singolo uomini nella relazione con gli altri uomini davanti alla mutevolezza dell’improvviso del poi; le relazioni intersoggettive fra gli uomini, che sono dunque legali e giuste, sono custodite davanti alla mutevolezza del futuro dal diritto. Così cancellata la ragione della civiltà giuridica, orientata dal perseguire la liberazione dei parlanti 66 dall’angoscia dell’improvviso, da una mutevolezza che non è scelta mediante il partecipare alla formazione del giusto consenso dei soggetti. L’opera che libera dall’accadere dell’imporvvisonon deciso costituisce l’elemento peculiare del fenomeno diritto che conferisce durata alle forme di coesistenza dei soggetti. In un contesto così istituito i parlanti sono riconosciuti titolari della pretesa giuridica verso il terzo che, imparziale e disinteressato, garantisce la durata delle relazioni giuridicamente convenute, liberando quindi le parti dall’eventualità di una mutevolezza che è subita, perché viene arbitrariamente imposta dall’accadere della forza-più che, nel manifestarsi in alcuni uomini, ne esclude altri. Il diritto non è semplicemente prendere atto di quello che accade, ma è il garantire all’uomo la certezza del progetto che egli compie con altri uomini. Se viene meno la visione della libertà che non è spiegabile e del diritto come garanzia di una libertà che non è spiegabile, il risultato è che il diritto diventa nient’altro che uno dei molti sistemi di funzione (in quanto sistema di funzione sarebbe volto a tenere in vita gli altri sistemi sociali, assumendo contenuti imposti dai diversi modi di procedere degli altri sistemi sociali, quali il sistema del mercato, dell’economia ecc.., non ci sarebbe più attenzione al giusto nel legale, alla qualità della esistenza del singolo, delle relazioni intersoggettive, a ciò che accade rendendo indifferente la distinzione tra l’ascoltare l’altro o l’usare l’altro, tra l’accogliere l’altro o permanere in uno stato di indifferenza). La spiegazione scientifica del libero arbitro tende quindi a cancellare la differenza tra le leggi delle cose e il diritto degli uomini, tende a cancellare ciò che Scheler dice essere quell’impegno specifico dell’uomo che consiste nell’emancipazione esistenziale da tutto ciò che è organico, ovvero nell’emancipazione che l’uomo guadagna ogni volta dal trovarsi condizionato in norme naturalistiche e non in quelle istituite per degli scopi ch danno vita all’ordine simbolico della giuridicità che appartiene solo agli uomini. La spiegazione scientifica della libertà dunque segna la riduzione dell’uomo nello stesso modo di essere che è proprio degli animali e dei vegetali, segnando anche l’estinzione del diritto che diviene nient’altro che una tra le molte leggi che si affermano nei sistemi sociali secondo rapporti che sono di forza e non di attenzione alla ricerca del giusto. 67 Lezione 16: Il diritto senza pathos. Ascoltare/intendere l'altro della relazione Il tecnico delle norme non è più il giurista e non è ancora un software. In quanto uomo, custodisce l’affettività che apre all’ascolto dell’altro; come funzionario, la trasforma in un intendere l’altro. L’‘ascoltare’ rispetta il diritto dell’altro a dire se stesso; l’‘intendere’ calcola gli altri e privandoli dei diritti incondizionati - li usa in un nichilismo senza pathos e commercializzato nella cultura spettacolo del mercato. Il pathos è ‘sentire iniziante e non disponibile’, costituisce il senso e la finitudine della volontà, che dunque non dispone né della differenza tra odio e amore, tra non giusto e giusto(nomos), né del principio di non contraddizione (logos). La tesi 15 e la tesi 16 discutono sia la spiegazione scientifica dell’uomo e il suo esito nel nichilismo giuridico sia la peculiarità dell’opera del giurista nell’essere un’opera che ha analogia con la struttura dell’arte, perché ripropone sempre l’attività dell’interpretazione e questa ha la medesima struttura dell’arte. Ma queste due tesi portano innanzitutto ad affermare che esiste l’opera del diritto e quindi l’opera ermeneutica, in quanto l’esistenza dell’uomo non è la fisiologia della sua vita, intesa allo stesso modo degli altri viventi non umani; questo perché l’uomo esercita il linguaggio, che è discorso. Scheler dice che l’uomo si allontana dall’essere centro biologico come lo sono gli uomini, perché la parola dell’uomo mette a tema (interrogandosi) il proprio se stesso (La posizione dell’uomo nel cosmo) e per questo non coincide con il funzionamento dei suoi organi vitali. Per questo l’uomo può essere soggetto di attività che sono giuste o non giuste, l’uomo può violare le norme che sono state istituite, perché mettendo a tema se stesso con la parola apre una serie di itinerari di libertà, dove l’uomo può rispettare o violare le norme che sono state istituite: tutto ciò è assente nel mondo degli animali dove è assente uno spazio giuridico. Se si vuole, come nella profezia di Nietzsche, affermare una omogeneità di tutto ciò che è, affermare un nichilismo compiuto, allora si dovrà concludere che il diritto perde ogni senso, non ha più nessuna regione di essere. L’uomo si trova invece in quello spazio in cui si apre uno spazio per il diritto aprendo uno spazio di libertà, e nell’aprire lo spazio per la libertà apre le diverse possibili modalità di condotte verso gli altri. Questo perché nell’esercitare la parola si ha qualcosa di assolutamente diverso da quel che avviene nel cervello dell’animale non umano: qui, dice Scheler, si ha qualcosa che funziona e vive, ma l’animale in questo funzionare e vivere del suo cervello non diventa mai né uno psicologo né un fisiologo, cioè l’animale non elaborerà mai una dottrina che è propria delle scienze psicologiche o che è propria della fisiologia della vità, non darà mai un’interpretazione dei 68 fenomeni che sono propri della stessa vita. L’animale si limiterà a coincidere con il suo vivere, non darà mai un senso alla propria vita, non elaborerà mai una dottrina della propria esistenza. In modo essenziale si deve dire che l’uomo soltanto ha la doppia contemporaneità, mentre gli animali sono solo contemporanei con i processi vitali che mantengono la vita che li specifica. L’uomo invece è contemporaneo al funzionamento dei suoi organi, ma poi ha una seconda contemporaneità con la quale apre un’area dove si interroga sul senso, dove istituisce un ordine che non è quello che si trova ad avere assegnato dalle memorie biologiche e si presenta come un chi che è capace a violare o rispettare l’ordine istituito. Questa dimensione del senso si presenta sempre come ciò che appartiene alla differenza tra la parola e il numero. La parola è irriducibile la numero, non si lascia numerare, è polisensa, il numero è univoco la parola è evocante, schiude il poter esser, si apre alle interpretazioni. Quando si ritiene di poter ridurre il giurista ad un tecnico delle norme si ritiene di poter ridurre il giurista ad un linguaggio di tipo numerico. Quando questo avviene il giurista non avrà più alcuna possibilità di esercitare l’arte della ragione giuridica, che è l’arte stessa del linguaggio, è l’arte aperta alla struttura plurivoca della parola; il numero è univoco, si impone per essere ciò che è mentre la parola schiude il poter essere, le possibili interpretazioni e dunque la parola che riceve il contenuto delle norme, la parola che enuncia e scrive le norme è una parola che si offre ed esige anzi inevitabilmente questa opera che è specifica della interpretazione. Nel porsi l’interrogativo su che ne è del giurista nella condizione contemporanea, si è portati a prendere atto che attualmente il giurista contemporaneo è in una condizione difficile, si trova in uno stato di sospensione. Per un verso non è più l’artista della ragione e per un altro verso non è ancora però un software, un insieme tecnico di operazioni costruite secondo i sistemi dell’intelligenza artificiale. In estrema sintesi la condizione del giurista è questa: non è più un giurista, perché non è più aperto fra l’arte e l’estetica, ovvero la operazione specifica dell’interpretazione e però non è neppure un elaboratore. Questa condizione è quella che ci si trova a dover misurare nella quotidianità della giurisprudenza. Torna ancora una volta questa domanda: è’ possibile che il giurista artista della ragione lasci il posto al tecnico delle norme modellato secondo i sistemi propri dell’intelligenza artificiale? Se questo interrogativo permane, ci dobbiamo chiedere perché allora i processi si fanno solamente quando attori sono gli uomini. Perché non si processano le macchine intelligenti o gli animali? Perché dunque il processo giuridico ha solo gli uomini come attori? Secondo Scheler anche gli animali sono stati processati e sono stati regolarmente condannati a morte. Se però si considera più da vicino questi processi dove sono coinvolti agli animali, si scopre 69 che si tratta di situazioni che si sono verificate sempre sul presupposto che gli animali erano strutture umane nelle fattezze, si sono cioè processate le proiezioni proprie dell’uomo sugli animali e solo per questo è stato possibile processare gli animali. Né alcuna macchina intelligente è stata parte di un processo, né un animale può essere parte di un processo. Questo perché elemento essenziale del diritto è il momento di responsabilità e di imputabilità del soggetto, che sono radicate nella libertà ovvero nell’inspiegabilità tecnico scientifica delle condotte dell’uomo. L’uomo entra in un palazzo di giustiziai perché le sue condotte non hanno una spiegazione scientifica, ma sono l’esito di scelte libere: solo l’uomo è imputabile, solo l’uomo è responsabile e questa responsabilità è legata alla libertà dell’uomo, ovvero alla non spiegabilità tecno-scientifica della condotta dell’uomo. Le condotte a giudizio dell’uomo sono la conseguenza di scelte libere dell’uomo, per questo non scientificamente spiegabili. Continua Scheler dicendo che quando l’uomo si presenta con malattia che lo rende completamente invisibile quanto alla la sua personalità, ovvero si trovi in una condizione che oscura completamente la sua personalità allora non è più possibile emettere alcun giudizio sull’uomo, si ha cioè una sorta di caduta dell’uomo fuori dall’esercizio della sua libertà, una condizione patologica che rende anche l’uomo estraneo a qualsiasi presenza in ogni modalità della vita del diritto. Dunque il diritto appartiene esclusivamente agli uomini, in quanto gli uomini sono soggetti della parola e perché la parola ha questo annuncio di una sua struttura polisensa. L’uomo è un soggetto parlante, scrive delle parole, che non non sono dei numeri univoci, non si lasciano incontrare in una un’unica maniera, ma manifestano questa condizione aperta che è propria della condizione di non spiegabilità dell’uomo di essere una entità libera. Questa condizione fa sì che solo l’uomo, in quanto soggetto parlante, è soggetto di un diritto che è una realtà storica: il diritto non è mai dato una volta per sempre muta nella vita di un uomo una infinità di volte. Oggi più di prima le leggi che sono istituite invecchiano rapidissimamente, non appena sono state prodotte perché la velocità e la quantità degli elementi che investono una civiltà complessa come la civiltà contemporanea rende immediatamente usurata e vecchia e estranea alla vita reale una norma che è stata istituita. C’è dunque una presenza forte della storia nella vita del diritto, che oggi ha dei tempi sempre più veloci e però anche in questi tempi più veloci della storia e della società complessa in un processo di trasformazione veloce e mai anticipabile completamente, l’uomo è certo nella storia, l’uomo è soggetto di storia e, però, non si identifica con nessuna delle fasi storiche. Il diritto istituito, le norme prodotte invecchiano perché gli uomini non coincidono con le esigenze e con le selezioni dei contenuti delle norme che sono state prodotte, ma sono già in un futuro che 70 cominciano ad esistere come esigenza e richiesta di altra attività formativa, e dunque di altra successiva attività di interpretazione; c’è una presenza nella dimensione della storia del diritto di una non coincidenza dell’uomo con le contingenze storiche, così come l’uomo in quanto soggetto parlante non coincide con il linguaggio che pronuncia ma sempre lo eccede (ogni volta che esprime le parole è già oltre le espressioni che ha pronunciato) così l’uomo non coincide neppure con le produzioni normative che volta per volta sono quelle vigenti. Oggi la società complessa mostra come entità che la specifica questo stato di usurabilità sempre più crescente che chiede un impegno maggiore al giurista nell’essere aperto ad intervenire e ad incidere con quell’arte della ragione giuridica che non può essere sostituita con una tecnica del trattamento delle norme. Torna a questo riguardo la tesi centrale di Heidegger che afferma una descrizione che appare essere fuori dal buon senso, ma che poi si mostra essere invece più autentica ed esistenzialmente più rilevante del buon senso usato a buon mercato: si tratta della sua espressione verso la scienza espressa nell’assunto “la scienza non pensa”; perché la scienza si risolve ed è possibile che sia enunciata in formulazioni che hanno come loro modelli dei modelli numerici ed hanno una loro verifica in una riproducibilità in laboratorio della scoperta scientifica. Ecco l’origine dell’affermazione di Heidegger, perché il pensiero è un materiale che non si lascia trattare in nessun laboratorio, non è riproducibile, ed è ciò che riguarda le condotte degli uomini, il senso esistenziale delle relazioni giuridiche, è ciò che riguarda la formazione del decidersi nel convenire con altri uomini nel dar vita ad una convenzione. In questo processo del formare questo patrimonio, che risulta dal convergere delle soggettività non si ha nulla che possa essere riprodotto o trattabile in laboratorio dove si danno i processi delle tecnoscienze. Si chiederà ancora una volta l’arte della ragione, una ragione come arte e non come tecno scienza, si chiedere una ragione come arte perché si chiede una interpretazione. Un giurista civilista contemporaneo, Pietro Barcellona, dice che il problema dell’interpretazione è definibile come l’insieme dei procedimenti attraverso cui l’interprete colma (il giurista come artista della ragione) quel vuoto inevitabile fra diritto e realtà. Questo vuoto quando si afferma, come accade tendenzialmente oggi in modo sempre più invasivo, quando si afferma una spiegazione scientifica della libertà e dunque una spiegazione scientifica delle operazioni che riguardano i molti sistemi sociali, questo vuoto tra diritto e realta è un vuoto che si ritiene di cancellare, perché viene colmato dal procedere scientifico, si ritiene che questo vuoto si possa dare ancora perché non si è compiuta la spiegazione scientifica della normatività, perché non si è spiegata definitivamente la libertà, non ci si è liberati dal libero arbitrio e dunque si continua ancora 71 ad avere riferimento a questo spazio vuota fra il diritto e la realtà lo spazio dove sarebbe ancora in gioco la libera soggettività degli uomini. Una volta compiuto l’itinerario della spiegazione scientifica, una volta resi omogenei gli uomini al resto del non umano, il vuoto tra il diritto e la realtà è integralmente ormai cancellato e resta solo la fluidità del procedere delle tecno scienze che trattano le norme. Quando questo avviene si ha che l’interpretazione allora diventa inessenziale, perché l’interpretazione non è un processo necessario, e non è neanche un processo contingente (ovvero tale da dover essere ambientato nell’occasionalità dell’affermarsi dei molti casi). Tornando al nichilismo, l’interpretazione non ha nulla a che vedere con l’interpretazione che nomina il nichilismo: non a nulla a che vedere con il caos della necessità, ovvero con questo reciproco attraversarsi dei casi e delle cause, ma è un’opera originale che viene compiuta nell’esercizio della responsabilità che si assume l’interprete nel colmare il vuoto inevitabile fra l’astrattezza della norma e la concretezza esistenziale dei casi. Il processo dell’attività interpretativa è un processo quando si compie è un processo che ripropone ciò che è proprio della struttura dell’arte. Si deve ricordare un’efficace analisi che Luigi Pareyson fa un’analisi dell’arte musicale: l’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito musicale, ma è quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale per il suo carattere, necessariamente personale è un’arte interpretativa,e dunque è sempre nuova, non è mai anticipabile, è molteplice. E’ l’interpretazione musicale, con la partecipazione libera ed originale dell’interprete, che riaccende le note dello sparito musicale che altrimenti sarebbe in sé muto e morto. Ma questo è quello che in modo analogo succede nella vita del diritto: le norme che si possono leggere in un codice, in un testo, non sono il diritto ma sono, come lo spartito, una entità morta, priva della vita della giuridicità. La vita sarà immessa nella concretezza delle relazioni giuridiche dall’attività interpretativa, che apparterrà certo alla dottrina e al pensiero giuridico, ma apparterrà però in modo essenziale al terzo giudice, che dovrà colmare questo vuoto fra l’astrattezza della norma e la concretezza esistenziale del caso, e lo dovrà colmare con la sua attività di interpretazione che è analoga a quella dell’esecutore dello spartito di un morto foglio di un testo musicale. Ma in quest’opera il giurista restituisce vita al diritto attraverso ciò che è proprio dell’interpretazione e cioè attraverso un riattivarsi dell’arte dell’ermeneutica, che è l’arte di un soggetto che incontra un altro soggetto: nella vita del diritto è l’arte di quel soggetto, che è il terzo giudice, che incontra un altro soggetto – che è il legislatore – ma che incontra essenzialmente altri soggetti nell’aula di giustizia, ed in particolare gli attori del processo. Quella controversia giuridica non sarà mai riproducibile in nessun laboratorio nell’attività delle tecno scienze. 72 Quindi l’attività interpretativa ha i tratti dell’arte perché appartiene ad un soggetto che incontra un altro soggetto; appartiene al terzo giudice che nella sua soggettività, certo fedele al testo, ma libera e creativa nell’interpretazione, dovrà incontrare l’originalità del singolo, di quell’unico che gli si presenta con quel volto, con la sua storia, in quella specifica controversia giuridica. Sarà solo quella interpretazione non riproducibile in nessun laboratorio delle tecno scienze. Quando l’attività dell’interpretazione si viene spegnendo pensando che possa essere sostituita dai processi propri del funzionario delle norme prima e poi dai sistemi informatici dopo, si finisce per costruire un esito dove all’ascolto dell’altro si sostituisce l’intendere l’altro. Al riguardo si richiama un’interpretazione di un testo di Nancy, che afferma che tra l’ascolto e l’intendere vi è un’opposizione radicale e che l’ascolto ha a che fare con il rispetto del diritto dell’altro mentre l’intendere ha a che fare con il calcolare e l’usare l’altro. In particolare il filosofo scrive in questo modo: “Si ascolta sempre solo il non codificato (solo quando il giudice incontra l’altro, la soggettività mai codificabile dell’altro in una relazione tra soggetti di un possibile poter essere e non tra elementi di un funzionamento già dato da programmi macchinali o secondo memorie di tipo biologico), ciò che non è ancora inquadrato in un sistema di rinvii significativi, mentre s’intende solo il già codificato”. Si ascolta il diritto dell’uomo, si intendono le norme dei sistemi giuridici. Il terzo altro del giudizio tratta ed interpreta il singolo caso che, nella sua non precalcolabile originalità, esige l’ascoltare (filosofia del diritto) oltre l’intendere (teoria generale del diritto). Fuori della pienezza dell’opera ermeneutica, il modello di una interpretazione costruita seguendo il linguaggio tecno-scientifico è quello che si consuma nella cosiddetta interpretazione letterale ovvero strutturalmente omogenea alla dimensione numerica; qui l’interprete non è sospeso nel rischio della condizione rinviante della parola, che invece chiede sempre l’arte del giurista, segnalando l’insufficienza dell’ingegnerizzazione del diritto mediante qualche prodotto dell’intelligenza artificiale, strutturalmente chiusa alla dimensione disnumerica dell’unità esistenziale del parlante dove il pathos ed il logos si coappartengono nel nomos. Il tecnico delle norme opera nel registro del numero che dice solo quel che dice (le norme); il giurista rischia la parola e dice oltre quel che dice, si apre al silenzio creativo proprio del non detto (il diritto). Il giurista è artista della ragione perché la sua opera eccede l’intendere=calcolare la realtà oggettivabile e consiste invece nell’ascoltare l’originalità della singola, concreta controversia tra i parlanti, non anticipabile in alcuna codificazione Ogni modalità dell’ascoltare l’altro muove dall’unità del pathos e del logos, nel conferire lue al nomos. Quando emergono problemi di interpretazione. L’arte del giurista è insostituibile, è la dimensione dell’arte configurata nel nesso che lega la parola ed il silenzio, il detto (norma) ed il non detto (diritto), il sapere saputo (conscio) ed il sapere che non si sa (inconscio), dimensioni che si originano tutte dall’attraversarsi del pathos (apertura affettiva all’alterità) e del logos (comunicazione logico-relazionale). L’opera dell’interprete disvela la sua struttura nella prospettiva del pathos che illumina il logos nella vita del nomos. La formazione del giurista non può compiersi nella rimozione degli sunti umanistici. 73 Lezione 17: Giusto/non giusto. Legale/non legale. La regola e la procedura Nei soggetti di un linguaggio che è discorso, il regolato e le regole, il procedere e le procedure non coincidono; permangono in una scissione che ha il suo polo più iniziale nel giusto/non giusto (Filosofia del diritto), principio regolativo dell’istituire i contenuti storici del polo legale/non legale (Teoria del diritto). Una analisi fenomenologica mostra che il ‘legale’ può essere istituito solo muovendo da una visione argomentata del ‘giusto’, come è confermato dalla descrizione del nascere di un nuovo ordinamento giuridico, che comincia dal ‘nulla del legale’ e dall’‘essere del giusto’. In questa tesi il tema torna ad essere quello della peculiarità del soggetto di diritto, che è tale perché è soggetto dotato di un linguaggio che è discorso. Il diritto si ha soltanto in presenza di un uomo che esercita la propria soggettività. Negli altri enti non umani non c’è il diritto e non c’è nulla che possa essere riferito ad un linguaggio che abbia i tratti della discorsività. Il discorso è comunicazione, il dire di qualcuno con qualcun altro. La discorsività è questa dimensione propria di un ordine triale: ordine che si svolge tra un soggetto che parla, un altro soggetto che riceve la parola, la elabora, la interpreta e la ridestina; dunque in una intersoggettività che però si compie in un ordine triale, perché questi soggetti si incontrano in uno spazio terzo che non è di nessuno dei due, uno spazio terzo dove avviene di continuo l’ascoltare reciproco che è la creazione di senso, creazione di senso che insieme all’interpretazione non è univoca ma molteplice e che può creare controversie. Le controversie generano il fenomeno diritto, che non identifica solo la distinzione tra ciò che è legale e ciò che non è legale, e che dunque potrebbe confinato nella conoscenza del contenuto della legalità, ma questo possibile modo di confinare l’esperienza del diritto non ha una ragione sufficiente perché nell’uomo i poli legale e non legale sono successivi ad un codice che è prioritario, ovvero il giusto e il non giusto. Questo è un momento essenziale della vita del diritto ed è essenziale della formazione del giurista (legislatore, giudice o polizia che sia), perché nessun ordinamento giuridico nel suo nascere (esemplificando in una condizione rivoluzionaria, nel prendere vita un nuovo ordinamento giuridico) ci si trova nel legale o non legale, ma bensì nel giusto-non giusto; solo dopo l’opposizione giusto-non giusto viene l’opposizione tra il legale e in non legale. In tutti i processi non si è mai già nel legale-non legale, ma si parte sempre dagli interrogativi sul giusto-non giusto, si selezionano i contenuti chiedendosi se sono giusti-non giusti. Solo dopo questa selezione è possibile trattare con critica ampiezza ciò che appartiene al legale e al non legale. 74 La preminenza del giusto non giusto rispetto al legale non legale torna ad essere continuamente ripreso perché solo partendo dai contenuti che possono assumere i due poli originari è possibile trattare il legale ed il non legale. Questo momento essenziale torna ad essere continuamente ripreso, non finisce con la istituzione della norma, del legale-non legale. Con il continuo confermarsi della scienza e della tecnica, il rischio è quello di uno scivolamento dalle parole verso i numeri. Questo non comporta in alcun modo una rinuncia alla dimensione né della tecnica, né della scienza, né del progresso; queste dimensioni sono irrinunciabili nella condizione attuale dell’umanità, se l’umanità dovesse rinunciare a tali dimensioni consegnerebbe se stessa ad una rapida estinzione, ma non si deve però anche rinunciare ad una coscienza critica; la parola non deve essere sostituita dal numero. Se si ritiene che la parola possa essere sostituita dal numero si comincia tendenzialmente ad essere convinti che sia inessenziale l’esercizio della creazione di senso da parte dell’uomo, e ciò porta a ritenere che non è più l’uomo il soggetto del linguaggio, ma è la combinatoria dei messaggi numerici e il comporsi dei molti dati che nella loro commistione finiscono per parlare nell’uomo; l’uomo presterebbe soltanto uno spazio affinché la combinazione dei dati, dei numeri e delle informazioni possa trovare una espressione. Questo itinerario è proprio del nichilismo, specie nell’interpretazione che alcuni studiosi danno sulla tesi del linguaggio di Hidergger, che sosterrebbe che non è tanto l’uomo ad essere il soggetto del linguaggio, ma sarebbe il linguaggio a usare l’uomo e a trovarvi uno spazio affinché il linguaggio stesso possa esternarsi e trovare poi una concretizzazione nelle relazioni umane nelle istituzioni giuridiche. Quando però si pensa questo si avvia quel cammino che porta alla realizzazione della profezia di Nietzsche, cioè la profezia del nichilismo in generale e anche del nichilismo giuridico, ovvero il compiersi dell’assoluta omogeneità in tutto ciò che avviene, segna l’assoluta omogeneità tra quello che avviene tra le cose, nei sistemi biologici e dunque anche tra quello che avviene nell’uomo. Verrebbe a cadere la differenza tra il diritto istituito e le leggi trovate della natura o della scienza che sono leggi trovate e non istituite. Questa omogeneità, questo Nichilsmo come nientificazione della differenza tra umano e non umano, non convince e viene messo in crisi proprio dal filosofo del diritto che compie un lavoro fenomenologico: la tesi di Nietzsche che prepara il nichilismo giuridico, viene messa in crisi dal filosofo del diritto che nell’esercitare uno sguardo fenomenologico evidenzia come soltanto negli uomini il regolato e le regole, il procedere e le procedure non coincidono, ma rimangono separati. C’è questa dimensione centrale nella vita del diritto che è la dimensione procedurale, che è tale perché le procedure sono istituite, non sono trovate. Le operazioni di una reazione chimica, ad es. sono 75 operazioni delle fasi di un procedere che non hanno mai distinte e separate procedure e il procedere coincide con la procedura. Nell’uomo invece il procedere delle relazioni, della stessa vita delle istituzioni, esige di continuo che siano istituite delle procedure, delle modalità che sono essenziali affinché l’ordinamento giuridico possa trovare la sua concretizzazione nel momento del giudizio emesso dal terzo giudice e poi reso certo dal terzo polizia. Dunque nell’uomo c’è questa scissione tra il procedere e le procedure, che è analoga a quella che c’è tra il regolato e le regole. Tutto quello che non è umano è dato dalla coincidenza tra il regolato e le regole. Nella vita di qualsiasi esistente non umano non c’è un vuoto, uno iato tra la regola ed il regolato, così come non c’è nessuna scissione tra le procedure e il procedere. Nell’uomo compare questa condizione di scissione lascia presentarsi un momento di vuoto, quello spazio dove si presenta la responsabilità del soggetto di diritto, che è tale perché nella sua vita la regola con coincide con il regolato. Potrà sempre essere libero di violare una regola, diversamente da quanto accade nell’intelligenza artificiale o nel mondo animale. L’analisi fenomenologica coglie tutto ciò mostrando il momento centrale che viene esercitato dalla dimensione del silenzio: infatti, nel linguaggio del diritto quale linguaggio che è discorso, gli uomini in questo darsi della discorsività intersoggettiva un ruolo fondamentale viene esercitato dalla dimensione del silenzio, che non è un nulla, non è il darsi di cuna condizione che è una assenza assoluta, ma è sempre la dimensione tra una fase di una discorsività ed una fase successiva. E’ il silenzio che si dà nel comunicare con l’altro che ha una funzione preparatoria (attraverso l’interpretazione che ogni se stesso da del suo esistere) alla scelta ed alla decisione. Questo silenzio mette sempre l’uomo davanti a questa inevitabilità dello scegliersi, che è uno scegliere per se stesso. Dunque nella discorsività la dimensione del silenzio lascia presentarsi lo spazio di una preparazione da parte dell’individuo alle relazioni giuridiche con gli altri, al formarsi della propria identità e al rispetto dell’identità degli altri con i quali condivide un mondo. E’ un silenzio preparatorio del per se stesso, non è semplicemente un silenzio preparatorio di qualche operazione per qualche cosa. Il silenzio è questo spazio creativo dove la libertà si trova a rischiare la sua responsabilità. In modo efficace questo modo di intendere la libertà viene descritto dal filosofo italiano scomparso da poco Cornelio Fabro (che ha tradotto Kirkegaard direttamente dal danese facendolo conoscere in Europa): la libertà è quel certo principio mediante il quale possono avvenire certe 76 cose che altrimenti non sarebbero accadute. Oppure possono non avvenire certe cose che altrimenti sarebbero avvenute. Dunque la libertà è il sì o il no che viene detto tenendo sempre presente però il legame profondo che connette il logos (ovvero il discorso, l’esercizio stesso della libertà) con il nomos (ovvero la regola, la giuridicità della relazione comunicativa). E’ essenziale quindi tornare, quando si nomina il diritto, alla soggettività dell’uomo e ricordare con Jasper che l’essere nel senso dell’essere oggetto e l’essere nel senso dell’essere libero si escludono, si oppongono, perché l’esercizio della libertà non si lascia mai situare in nessuna contabilità oggettiva, in nessuna forma di tipo oggettivante che possa essere trattata dalle tecno scienze. Proprio perché la libertà ha questa dimensione originale non spiegabile, la libertà ha il contenuto, la struttura della responsabilità. La responsabilità è tale se è la libertà che si concretizza permanendo libera e non condizionata, avendo la possibilità di dire si o no ad una ragione, dunque una libertà non arbitraria ma esercitata secondo la ragione giuridica. L’esercizio della libertà non si lascia mai oggettivare, ha una dimensione originale; la libertà ha la struttura della responsabilità. Non una libertà senza legge; una libertà senza condizionamenti ma avere la possibilità di dire sì o no ad una ragione, non una libertà arbitraria. Una ragione giuridica. Una libertà esercitata con violenza verso gli altri sarebbe la negazione stessa della libertà. Perché per essere tale deve essere continuamente alimentata dall’ascolto degli altri, altrimenti si perderebbe nella libertà di Narciso; una libertà di chi si specchia in una immagine che è metaforicamente lo specchio dell’acqua dove viene restituito il volto, ovvero non un confrontarsi con gli altri, non ascoltare gli altri. Una libertà vera ha il rispetto del confronto con gli altri. Il diritto non è un semplice self service normativo (Legendre) perché se così fosse il diritto non avrebbe più a che fare con la priorità del giusto – non giusto, prioritari al polo del legale – non legale, sarebbe un diritto asservito alla legge del vincente. Comporterebbe la rimozione delle domande sul giusto e quindi della stessa responsabilità. Se si dà soltanto il darsi fattuale, il vincere funzionale, la responsabilità non ha più ragione. Se gli eventi accadono per regole di natura, all’uomo non rimane che osservare gli accadimenti del più forte, e quindi non avrebbe più senso la propria responsabilità. Ma in uno dei suoi ultimi scritti (Forza di legge) Derrida dice invece che il concetto di responsabilità è inseparabile da tutta una griglia di concetti connessi alla vita reale del diritto; è connesso ai concetti di proprietà, di intenzionalità, di volontà che costituiscono la vita reale del giuridico. Scrive Derrida: nell’esercizio del diritto opera un lessico della responsabilità di 77 cui si dirà che non corrisponde ad alcun concetto, ma che oscilla senza rigore attorno ad un concetto introvabile. In questa direzione si comprende che il diritto non può considerarsi solo un self-service normativo, un insieme di strumenti a disposizione di chi in quel momento a successo, perché se questo dovesse accadere si avrebbe una situazione di nichilismo giuridico perfetto annunciato da Nietzsche: quando egli, come ricorda Derrida, sostiene che tutto ha un prezzo, ogni cosa può essere comprata, non c’è nulla che sia senza un prezzo senza una possibile quantificazione; anche la libertà dell’uomo sarebbe una merce, e in sé diventa un nulla. Qui allora il diritto diventa nient’altro che una sorta di self service normativo. Allora, come ha detto recentemente il civilista italiano De Benedetto, se si dimentica questo riferimento centrale alla non disponibilità del diritto, alla priorità della coppia giusto-non giusto, allora accade che il diritto si perde e si nientifica nelle leggi spicciole e in sostanza si risolvono in atti di amministrazione. Seguendo questa direzione, il diritto risponderebbe allora ad una c.d. “volontà legislatrice”, come scrive Schlerer, e quindi non avrebbe nessun’altra misura che la potenza della volontà legislatrice: gli ordinamenti giuridici positivi, le norme vigenti non avrebbero nessun’altra misura se non l’assolutezza, il potere, la forza della volontà legislatrice. Ma in tal caso, cadrebbe allora anche la distinzione che si è detta essere centrale per una lettura fenomenologica della vita del diritto, ovvero la distinzione della priorità dei poli giusto-non giusto che consentono poi di selezionare i contenuti che sono fatti appartenere invece ai poli del legale-non legale. A chiusura di questa tesi, si può dire che ogni volta che nasce un nuovo ordinamento, esemplarmente che nasce un processo rivoluzionario, non si è già con un legale – non legale presenti che si trovano e che l’uomo prende come self service normativo; l’uomo ha soltanto, iniziando una nuova fase della storia del diritto, un nuovo ordinamento giuridico, ha soltanto le domande prioritarie che attengono alla differenziazione tra il giusto e non giusto, che dunque attengono alla qualità delle relazione, principalmente all’affermare la qualità della relazione dove c’è un reciproco rispetto ovvero c’è una violenza unidirezionale e dunque contro giuridica. 78 Lezione 18: Verità e giustizia nella relazione. Narcisismo del singolo e amore per l'altro La qualità - positivamente la giustizia - delle relazioni con gli altri è la verità della coesistenza; è la verità accessibile alla finitudine degli uomini, i soggetti parlanti. Circolarmente, il giusto(nomos) è il reale contenuto del relazionarsi nel vero ed il vero(logos) ha la sua realtà coesistenziale nel ‘giusto’, misura non formale del ‘legale’. Non si discute nulla quanto alle interpretazioni della verità permanendo chiusi nella legge narcisistica del singolo, vissuta come quella presunta autosufficienza dell’io che è la negazione della verità=qualità del coesistere nel rispetto dell’altro, del diritto universale degli uomini in quanto uomini; analogamente non ci si apre alle domande sull’amore dell’altro muovendo dalla chiusura nell’amore di sé, assunto quale regola ‘misurante, non misurata’. Nella descrizione fenomenologica del diritto, che mira ad individuare che cos’è che specifica questo fenomeno da altri fenomeni, un passaggio non evitabile è quello del confronto tra fenomeno del diritto e fenomeno dell’amore. Questi due fenomeni hanno alcuni elementi comuni ed altri che sono in netta opposizione. Il riferimento all’amore viene fatto con attenzione soprattutto agli scritti di Kirkegaard (da “Gli atti dell’amore”, una delle opere di maggiore intensità filosofica nel discutere il fenomeno dell’amore). La comparazione fenomenologica fra diritto e amore viene alimentata dal considerare che non appena si nomina il fenomeno del diritto (vedi 17^ tesi) diviene inevitabile prendere atto che accanto al legale e al non legale, si apre la questione fondamentale del giusto – non giusto; e questo porta a comprendere che non appena si nomina la giustizia viene inevitabile il riferimento alla questione della verità. Non è possibile argomentare nulla sulla giustizia senza discutere sulla questione della verità. E dunque i due momenti del giusto e del vero, sono l’uno coessenziale all’altro. Ma proprio nell’argomentare questa coessenzialità della giustizia e della verità il passaggio iniziale viene ora in questa esposizione dal confrontare l’amore con il diritto. Quanto all’amore Kierkergaard, muove dalla seguente un’affermazione provocatoria: “Il beone non ama l’alcool e l’avaro non ama il danaro, ma entrambi ne dipendono”. Dunque la qualità del rapporto di colui che è vittima dell’alcool o di colui che è vittima di una eccessiva dipendenza dal quantum del denaro, è una condizione che ha poco a che fare con la libertà. Anzi è una condizione in cui la libertà lascia il passo allo stato dell’assoggettamento. Si è assoggettati e dunque non vi è soggettività. Un ulteriore passo deriva dall’affermazione che l’amore consiste nel donare, 79 nella struttura donativa. Nella qualità della relazione amorosa emerge come sia essenziale non tanto il che cosa della verità ma il come della verità; nelle relazioni intersoggettive l’incontro tra i soggetti diventa rilevante, ha una pregnanza esistenzialmente consistente, se la relazione consiste in una relazione dove la verità è messa in gioco nella dimensione del come si comunica la verità e non soltanto di che cosa si comunica, perché nel come si entra in relazione con le attese esistenziali dell’altro. Nel come si situa la verità in un discorso, ci si avvicina all’altro rispettandolo, mostrando indifferenza, essendo semplicemente nell’ordine di un calcolo ovvero essendo integralmente nell’ordine dell’affettività. Questo viene detto da Kierkergaard, perché non appena si vuol fare questa comparazione tra il diritto e l’amore, l’attenzione viene a posarsi in una contraddizione apparente propria dell’affermazione cristiana e cioè che l’amore è un dovere. Questa affermazione sembra apparentemente essere una contraddizione perché non appena si pensa all’amore si pensa ad una relazione assolutamente libera, in quanto donativa e gratuita, mentre il dovere viene ad evocare invece dei limiti, dei legacci, dei confini che finiscono per situare definendola e dunque mortificandola la libertà. Questa contraddizione tra libertà e la legge è una contraddizione apparente, perché l’idea di una libertà assoluta è una contraddizione in se stessa; infatti spesso si pensa che la libertà esiste e che poi è la legge a negare la libertà, ma in realtà è proprio l’inverso: senza la legge non c’è libertà. E’ la legge che dà la libertà perché la libertà non consiste nell’arbitrarietà, in una condizione dove nella possibilità tutto è possibile anche lo stesso spegnersi della libertà, anche lo stesso offendere ed umiliare la libertà. Per chiarire che la libertà e la legge non si oppongono, e che nello stesso amore la libertà non consiste nell’arbitrarietà, nel volgersi con una improvvisazione mai prevedibile all’altro, Kierkergaard fa rinvio al concetto di disperazione: “La disperazione consiste nel rapportarsi con passione infinita a qualcosa di particolare”. Nel rapportarsi con una passione infinita a qualcosa di particolarmente definito l’esito è la disperazione. Rapportarsi con una passione a qualcosa di particolare presuppone una libertà che è infinita, che non deve assumere degli orientamenti e delle leggi. Presumendo questo stato di infinito la libertà diventa negativa; nel rapportarsi in modo infinito a qualcosa di finito l’uomo avvertirà la condizione profonda del se stesso di essere disperato, ovvero di essere avvolto da questa sofferenza profonda del se stesso. Questo perché rapportarsi in modo infinito a qualcosa di particolare (per esempio, ad un bene del mercato, a ciò che è posto nella trama del commercio oggi divenuto globale) significa trasmutare se stessi in uno dei tanti elementi che sono veicolati da questi canali del commercio globale e dunque significa 80 trasmutarsi così per arrivare ad avvertire quello stato di disagio profondo che è la disperazione, ovvero lo stato di non speranza. Ma questo stato di disperazione mostra che la libertà non si dà in un rapportarsi senza regole ad un qualche cosa che viene perseguito, ma la libertà si dà nella sua pienezza se assume delle leggi nel rapportarsi a quel che viene incontrato: se si comprende questo la riflessione sul concetto di disperazione torna a far vedere come sia la libertà sia la disperazione (in quanto uno degli eventi della libertà) non possano avere una qualche spiegazione scientifica; lo stato di disagio dell’io profondo non può essere trattato dal tecnico delle norme e chiede invece che si torni ad avere attenzione a questa differenza tra il giurista uomo e il giurista dal funzionario delle norme, soltanto l’uomo giurista sarà in grado di compiere l’arte della ragione giuridica, di cogliere la distinzione profonda nel rapportarsi a dei beni terreni e nel rapportarsi a dei beni dello spirito. Solo il giurista quale artista della ragione giuridica può cogliere la differenza profonda tra il rapportarsi a dei beni terreni ed a dei beni dello spirito immateriali. Su questo il tecnico delle norme non ha nulla da dire. Al riguardo Kierkergaard dice: “I beni terreni sono una realtà in senso esteriore e perciò si possono possedere come se non si possedessero”. L’uomo può avere la proprietà, la disponibilità, può possedere i beni materiali ma con una totale indifferenza, come se non lo coinvolgessero esistenzialmente, senza essere chiamati a dire nulla di se stessi; possono essere posseduti come se non si possedessero. Mentre invece i beni dello spirito consistono in un peculiare modo di rapportarsi a questi beni, che è tale perché i beni dello spirito sono posseduti soltanto se sono realmente posseduti, ovvero non con indifferenza, ma con una partecipazione che coinvolge il se stesso, lo scegliersi della libertà del singolo, la formulazione dei suoi orientamenti, dei suoi progetti, condivisi nelle relazioni anche di tipo giuridico con gli altri. Quando si dice questo si dice che non è possibile trattare la relazione che l’uomo ha con le cose come le relazioni che ha con gli altri uomini: non si può avere una relazione giuridica (che è sempre una relazione con gli altri uomini) con gli altri come se si avesse una relazione con qualche cosa che ha nessuno dei tratti della soggettività discorsiva specifica dell’uomo. La relazione giuridica è sempre tra gli uomini, quando vi è un rapporto con le cose è una relazione che ha qualche rilievo giuridico soltanto perché ha un rilievo nella qualità delle relazioni con altri soggetti (il possedere una cosa ha rilievo giuridico solo perché ha effetti che incidono nella qualità della mia relazione con gli altri). Questo perché in modo centrale il tema dell’uguaglianza implica soltanto prioritariamente il rapporto tra l’uomo e gli altri uomini e solo secondariamente poi si riverbera sui rapporti che ogni 81 singolo uomo ha con i beni in commercio, con il comprare e consumare gli oggetti, con il mercato. Ma prioritariamente l’uguaglianza attiene soltanto alla relazione tra un soggetto parlante e un altro soggetto parlante e l’uguaglianza è uno degli elementi che sono propri della relazione che si modella nel medio dei beni dello spirito. Così con ironia Kierkergaard scrive: l’aristocratico certo comprende bene l’uguaglianza tra gli uomini, ma solo dopo aver stabilito la distanza aristocratica della sua superiorità nei confronti degli altri. Afferma degli enunciati sull’uguaglianza a partire dalla sua disuguaglianza con gli altri non aristocratici. Non stabilirà con gli altri quel rapporto che è proprio tra entità spirituali ma affermando solo formalmente l’uguaglianza stabilirà con gli altri lo stesso tipo di rapporto che si stabilisce con le cose (l’aristocratico è una figura omnicomprensiva che fa riferimento in generale a chi ha un potere maggiore, chi è in grado di esercitare una potenza più forte). L’aristocratico affermerà solo formalmente l’uguaglianza, praticando nel concreto l’assoggettamento degli altri, che è il tipico rapporto con le cose che si posseggono come se non si possedessero. Usa un concetto di uguaglianza ipocrita, che è proprio di una finzione (non si sarà mai aperti agli altri), perché utilizzerà un concetto di uguaglianza che è propria della disuguaglianza e farà questo cercando di dimenticare che la differenza,e quindi la disuguaglianza, consiste soltanto in mantelli, abiti che si indossano ma così strettamente sino al punto da nascondere che le differenze sono nient’altro che mantelli (qualcosa posto sul corpo dell’uomo, non qualcosa di intrinseco all’uomo) perché poi, al di là dei mantelli, brilla invece la luce interiore dell’uguaglianza umana, che però nella storia riesce raramente a penetrare. Così si chiede sempre (e questo è il compito principale del principio di uguaglianza), così come appartiene anche alla filosofia del diritto, di ricordare incessantemente che ogni momento della diversità è soltanto un semplice vestito, è soltanto un mantello, è qualcosa di posticcio, di solamente fattuale, è ciò che dunque contraddice nel profondo al diritto. Al di là dei mantelli brilla la luce interiore dell’uguaglianza umana, che però fatica ad essere visto. Il servirsi degli strumenti della legalità per conservare la disuguaglianza e non per affermare l’uguaglianza servendosi dei mantelli comporta la negazione stessa del diritto. Il diritto al di la di questo fatto ha la sua struttura di essere in una dimensione controfattuale , è volto a superare la attualità, la contingenza, le velature esteriori. Questa riflessione sull’uguaglianza così come viene affermato dal diritto, tornano a far pensare al rapporto tra diritto ed amore. Il diritto e l’amore hanno dei tratti in comune e dei tratti che sono in opposizione (Von Hildebrand, Essenza dell’amore). Certamente tra i tra i tratti che sono in opposizione: noi non possiamo darci l’amore anche se lo vogliamo, cioé l’amore non si può istituire, l’amore c’è se si manifesta nella 82 gratuità della relazione, questo vale al di là del dovere di amare ogni uomo in quanto uomo, vale in nell’amore non come dovere ma come predilezione. Nell’amore come predilezione non si può istituire l’amore, l’amore non può essere preteso. Qui si coglie l’elemento di opposizione con il diritto, infatti nel diritto è invece possibile pretendere i contenuti della relazione giuridica che sono stati convenuti. C’è però poi anche un momento di analogia, di forte connessione: nella relazione amorosa non appena qualcuno entra in un rapporto amoroso con l’altro finisce per lasciare la condizione di piena arbitrarietà (quando si ama realmente qualcuno l’arbitrarietà cessa, viene ad essere confinata), perché in ogni gesto di amore predilezione (amore selettivo) compare subito inevitabilmente la promessa di una durata immanente alla relazione d’amore quale momento essenziale, ovvero un limite all’arbitrarietà, una relazione che non si pensa poterla spegnere. Questo momento della durata rende vicino l’amore con il diritto. Certo la differenza resta: anche il diritto conferisce durata alla relazione, ma consente poi che la durata possa essere pretesa, mentre nell’amore non si può pretendere nulla. E qui compare la distinzione principale (vedi Luhmann) tra le aspettative cognitive e le aspettative normative. Le aspettative cognitive sono proprie della relazione d’amore, che certo nel suo sorgere ha questo momento della durata, ma poi è lasciata questa relazione allo stare a vedere – che ne è dell’intensità della relazione - al conoscere che ne è della durata dell’amore (in questo sta l’aspettativa cognitiva, non c’è una garanzia che possa essere pretesa). Tutt’altro si ha nella aspettativa normativa, qui non si sta semplicemente a vedere, non si è abbandonati a ciò che ne sarà della relazione (non si sta ad attendere se la relazione si intensifica o si affievolisce). Nell’aspettativa normativa si passa dal piano dell’affettività e dell’amore al piano della giuridicità e delle norme istituite: il singolo è liberato dallo stare a vedere da questa angoscia del costante vedersi sorpreso dagli accadimenti, ma ha la certezza garantita dal diritto che ciò che è stato posto in essere nella relazione tra i due soggetti di diritto secondo le forme e la sostanza della giuridicità avrà concretizzazione. E qualora una delle parti non volesse dare concretezza a quanto è stato posto insieme in un libero convenire, il soggetto che ha questa delusione potrà pretendere controfattualmente l’intervento del terzo giudice che restauri il contenuto della relazione e l’intervento del terzo polizia che concretizzi la relazione prestabilita. La pretesa è esclusiva della giuridicità, che non appartiene all’amore ma che non appartiene neanche alla relazione economica, dove non si può pretendere l’esecuzione contro fattuale, perché se la relazione resta nell’ambito dell’economia e non c’è l’intervento essenziale della giuridicità e 83 delle tre figure della terzietà giuridica sino all’intervento del terzo polizia, non ci sarà nessuna reale concretizzazione, si sarà ancora una volta lasciati allo spazio delle aspettative cognitive. L’analisi della differenza dei fenomeni dell’amore e del diritto porta a riprendere un passo di “Essere e tempo” dove Heidegger riprende Scheler e gli riconosce di aver diretto la sua attenzione sulle connessioni che da una parte legano e dall’altra distinguono gli atti rappresentativi e gli atti interessativi. Questo riferimento è fatto perché il diritto vive di questa connessione: gli atti rappresentativi sono quegli atti che consistono nella formulazione logica di una enunciazione normativa, possono essere ritenuti propri della rappresentazione che si da della teoria generale del diritto (nei quali il logos è scisso dal pathos); gli atti interessativi aprono uno spazio che è essenziale e che considera la centralità della dimensione del pathos. Mentre negli atti rappresentativi si ha una costruzione logico – formale senza alcuna partecipazione affettiva, negli atti interessativi si ha invece l’aprirsi di uno spazio dove ognuno avverte che ne và del se stesso, dell’io e del se stesso dell’altro, che è sempre in gioco questa soggettività, che vi è l’avvertire che vi è una relazione che si schiude con questa dimensione che è l’apertura affettiva. Qualora si dovesse pensare che si possa incontrare il diritto nella sola dimensione logicoconcettuale degli atti rappresentativi si dovrebbe concludere che si potrebbe incontrare il diritto nella dimensione tecnica che è propria oggi delle scienze del reale, e dunque che il diritto sia trattato da un funzionario delle norme che svolga questa funzione di dare corso a ciò che può essere sistemato nell’ambito giuridico in modo formale rispondente alla logica che costruisce una sorta di pulizia concettuale. Qui non c’è alcun interesse alla dimensione interessativa, degli atti interessativi , dove quando si nomina il diritto si mette in gioco non qualcosa, ma in gioco c’è qualcuno. Questo vuol dire che ne va di quel se stesso, ma questo, degli atti interessativi, è un itinerario che si apre la dimensione della percezione affettiva, dove ci si avvede che nominando il diritto si nomina la verità. Si tratta di una particolare qualificazione della verità, cioè la verità che è accessibile alla condizione finita dell’uomo; quando si nomina il diritto si nomina la verità intesa come la qualità della relazione tra i soggetti parlanti, verità che consiste che si concretizza nella qualità del relazionarsi degli uomini. Si nomina una verità non scientifica. Dunque il giusto sollecita subito l’attenzione al vero ed il vero sollecita l’attenzione a che la realizzazione di ciò che è vero si ha nella qualità con cui ci si rivolge agli altri, che ha il suo modello, non secondario, nella relazione giuridica disciplinata dalla terzietà del diritto. Terzietà che garantisce una condizione di non sproporzione tra i soggetti, una uguaglianza non quantificabile in qualche cosa che può essere comprato, ma in qualche cosa che è senza prezzo; l’uguaglianza della dignità dell’uomo. 84 Scheler e Lacan distinguono tra appetire qualcosa e impegnarsi per un valore. L’appetire si orienta verso una entità che è capace di saziarlo e che, una volta compiuta questa funzione, non costituisce più un tema in grado di attivare la loro soggettività, anzi li annoia. Il valore invece è apprezzato in quanto tale e non perché può essere usato per spegnere una attesa consumatoria. Il diritto viene istituito perché consiste in un valore che non si limita a saziare la momentaneità di un appetire, ma dura nell’orientare l’esercizio della soggettività e nel disciplinare quegli effetti del coesistere che incidono nella qualità delle relazioni intersoggetive. Il diritto conferisce alla relazione una formatività nella durata. Nel descrivere l’opera del terzo altro si prende atto che tra sapere e decidere c’è un salto che si impone come necessario, anche se prima di prendere la decisione è opportuno sapere quanto più e meglio possibile. Il termine salto nomina il darsi dello spazio aperto dell’arte del giurista, che colma il vuoto tra generalità/astrattezza delle norme e la singolarità/concretezza del caso da trattare. Non c’è salto nelle fasi di svolgimento della tecnica impiegata dal funzionario delle norme, che si limita ad eseguire il flusso delle fasi sistemico-fattuali. Nietzsche sostiene che la giustizia diviene la giustificazione, a posteriori, della forza di chi ha vinto perché più forte. Il giudizio giuridico non sarebbe terzo imparziale, ma enuncerebbe la attualità di una parte vincente senza perché e senza scopi. Segue che la decisione delle controversie sarebbe un evento de soggettivato, innocente, del nichilismo giuridico perfetto, che utilizza la forma informe di una legalità contenitore usabile per qualsivoglia contenuto delle norme. Quando il coesistere nella giuridicità viene esaurito nei due poli del legale e del non legale, segue che si afferma un nomos impersonale. Soltanto nella priorità esistenziale dell’ordine del giusto e non giusto diviene centrale il riferimento al se stesso nell’interezza della sua personalità, illuminata nel reciproco alimentarsi del logos e del pathos. 85 Lezione 19: La priorità della parola sui numeri. Convenire essenziale e convenire funzionale Nella descrizione fenomenologica dell’esperienza giuridica, il saper fare si presenta nella struttura del come fare per, dove il ‘come’ enuncia le operazioni del convenire funzionale in un per qualcosa, perseguito dalle norme, ed il ‘per’ enuncia il convenire essenziale nel per se stesso, custodito dal diritto, che garantisce la priorità regolativa del ‘per’(scopi) sul ‘come’(mezzi) e dunque del ‘giusto’ sul ‘legale’. La priorità così nominata è analoga a quella della parola sui numeri, che non possono enunciare una creazione di senso, originale ed evocante, propria dell’arte ermeneutica del giurista. Nella descrizione fenomenologica dell’esperienza giuridica, si evidenzia la distinzione del saper fare dal come fare per. Questa distinzione è principale perché nel saper fare compaiono soltanto due elementi che costituiscono questa espressione: il sapere (ovvero l’acquisizione di una qualche modalità di sapere) e poi l’adattamento di questo sapere nella prassi che lo concretizza, ovvero un saper fare. Nel come fare per compaiono tre elementi, non compaiono soltanto un fare, ma un come fare per. Il come indica le operazioni che sono formative di un convenire che interessa i soggetti della relazione giuridica e li interessa in un convergere della volontà che è libera verso un per qualcosa. Il come nomina le operazioni che individuano la peculiarità di una definita relazione giuridica. Accanto al come ed al fare, il terzo elemento, il per, qui nomina un convenire dove è impegnata la scelta del se stesso di ognuna delle parti, cioè lo scegliersi libero di una parte che matura con un’altra parte, dunque nella intersoggettività dei soggetti di diritto fa compiere un convenire che è essenziale, perché non è in gioco il per questo o il per quel contenuto, ma il per se stessi, perché è in gioco la qualità della interpretazione della soggettività di ciascuno, ed è in gioco la qualità attraverso la quale si stabilisce una relazione con gli altri che viene ad essere definita dall’appartenere ai due poli di un’alternativa tra una relazione di rispetto dell’altro soggetto di diritto e una relazione di indifferenza e, nella sostanza, di violenza verso l’altro soggetto di diritto. Dunque ogni volta che si descrive l’esperienza giuridica si presuppone una relazione tra soggetti: in questa relazione inizialmente ci si può limitare a cogliere un saper fare, ma un approfondimento descrittivo coglie che nella relazione giuridica non c’è solo un saper fare, ma è in gioco un come fare per, dove il per , al di là delle operazioni che costituiscono le peculiarità della relazione giuridica (una compravendita, un contratto di affitto), è in gioco il per sé stessi. Dunque compaiono due forme del convenire, un convenire che è funzionale, ovvero è un convenire che si esaurisce 86 nel perseguire il raggiungimento di un per qualcosa, e un convenire che invece è essenziale, che non si esaurisce nella funzionalità del raggiungimento di un qualcosa ma che implica e coinvolge questa centralità così essenziale nella relazione giuridica, che è la centralità del rischio della scelta del libero esercitare la soggettività dei soggetti nel relazionarsi del diritto. Questa descrizione incontra attualmente una tendenza che è propria della cultura contemporanea e che ha un’espressione in un autore, Dennett, che dà una spiegazione scientifica della libertà, e quindi verso un archiviare il convenire essenziale che interessa la soggettività dei singoli, rendendolo secondario (marginale) rispetto al convenire funzionale, che interessa il continuo accrescimento del sistema sociale principale della contemporaneità che è il sistema del fondamentalismo funzionale. In questa direzione Natalino Irti, civilista contemporaneo (Nichilismo giuridico, 2004), ritiene essere ormai tramontata la fase umanistica, essendosi aperta una fase tecno-funzionale che è propria dell’affermarsi del fondamentalismo funzionale, anche se nessuno però ardisce di dichiararlo esplicitamente. Irti ritiene che il linguaggio della filosofia idealistica ha ceduto il posto al linguaggio della tecno-economia. Il risultato è che ciò comporta una trasformazione della stessa università che diventa un saper fare, un sapere tecnico mentre viene rimosso il momento del per del come saper fare per, ovvero viene rimosso il per del se stesso. Attualmente invece la stessa filosofia del diritto, secondo Irti, dovrebbe convertirsi in una metodologia dei saperi speciali; questa posizione di Irti non conclude con l’affermare la principalità del sistema del fondamentalismo funzionale, esplicitamente non trae le conclusioni, ma dice comunque che la filosofia del diritto è avviata a spegnersi, in quanto avviata ad una conversione funzionale, una filosofia che diverrebbe una metodologia dei diversi saperi speciali. Contrariamente all’indirizzo di Irti, il filosofo francese Derrida sostiene che all’università spetta il compito di mantenere viva e desta la libertà incondizionata di interrogazione. All’università non resta solo il compito di formazione scientifica, ma alla università spetta il compito di porsi gli interrogativi sulle questioni essenziali in un itinerario che è proprio del diritto alla filosofia, non è dissociabile dalla democrazia a venire. Se si rinuncia al diritto alla filosofia si mette a rischio la stessa struttura del vivere democratico. Analizzando la qualità dei poteri statali, economici, mediatici, e anche religiosi e generalmente culturali emerge un principio di resistenza che è un diritto che insieme all’università stessa dovrebbe riflettere ed anzi portare a proporre nuovi studi umanistici che pongano delle barriere alle invasioni dei poteri summenzionati, che diventano invasivi e violenti verso la qualità della coesistenza del singolo. 87 La ricerca di questi nuovi studi umanistici consentirebbe, secondo Derrida, di superare l’ordine del semplice mestiere cioè di liberarsi dall’asservimento al puro sapere tecnico scientifico verso un impegno ad esercitare ancora con consapevolezza la responsabilità. Ciò che sorgerebbe sarebbe un diritto alla filosofia del diritto (Derrida) e non una emarginazione della filosofia del diritto al servizio dei molti saperi speciali. Quando si discute di questa diversa lettura dell’università, si discute ancora una volta delle modalità in cui l’esistenza del singolo si concretizza entrando in relazione con l’esistenza dell’altro singolo, si discute cioè della discorsività che interviene tra i soggetti di diritto: si riprende ancora una volta a descrivere il logos. Il logos apre a questa attenzione al per, all’attenzione alla qualità dei soggetti che entrano in una relazione discorsiva, avendo sempre presente che all’interno di una relazione discorsiva il rischio è che qualcuno si veda togliere la parola, si veda cioè svuotato il diritto primo a enunciare la formazione della sua identità esistenziale. Quando questo per, questo per se stessi (che è poi il contenuto che costituisce il diritto primo alla formazione del per se stesso e dunque dell’identità esistenziale) viene sostituito da un semplice saper fare, quel che emerge è il come fare, ovvero l’apprendimento tecnico scientifico delle diverse modalità di intervenire nella manipolazione della realtà. Quando questo itinerario si intensifica si è nella condizione di emersione di una bio-info-sfera, ovvero di una sfera sociale che vede il comporsi di un elemento biologico ed di un sistema informatico. Quando ciò accade, per quel che riguarda il diritto, diviene sempre meno intensa la questione sul giusto, sempre più esclusiva diventa invece la questione sul legale. Ci si interroga sul come fare funzionare l’ordine logico-formale, luogo tecnico – ovvero di un logos che ha assunto i tratti della tecnica – dove la formalità dei contenuti della legalità non è più misurata dall’ordine prioritario esistenzialmente primo del giusto. Si ha dunque l’affermarsi di una struttura dove la relazione intersoggettiva, la qualità stessa delle istituzioni finiscono per essere dominati dal procedere tecno-funzionale della legalità, di una legalità cioè che non si interroga più sulla giustizia. Ma se una legalità rimane assolutizzata nel suo isolamento, non più posta in questione dalle domane e dagli interrogativi sul giusto, è una legalità che non incontra più la condizione peculiare della libertà dell’uomo: la libertà diventa qualcosa che non è più nel centro del fenomeno diritto, è evanescente, diventa qualcosa che tende a trovare una spiegazione tecno-scientifica e che se oggi si continua a chiamare libertà è perché la spiegazione tecno-scientifica ancora non si è trovata; ma sempre con maggiore disinteressi si nomina ciò che è proprio della libertà, dimenticando che anche se l’uomo non vuole discutere la propria differenza con gli animali ciò che si coglie è comunque la sua libertà, che non potrà mai essere concettualizzata. 88 In proposito Fabro (filosofo italiano che ha introdotto in Italia l’esistenzialismo di Kirkegaard, ed anche Heiddeger) afferma che l’uomo comincia ad esercitare la libertà, ad essere libero prima ancora di averne avuto un concetto; avere la libertà non dipende dal concetto che ne abbiamo. E a modo suo Sartre dirà: l’uomo lo sappia oppure no, lo voglia o no, scelga qualsiasi modalità di esistenza, rimane con questa condanna paradossale ad essere libero. Il passaggio dalla filosofia alle tecno-scienze, dalla filosofia del diritto alle teorie generali del diritto che si realizzano come strutturazioni delle tecno-norme, sono passaggi appunto che si conformano sempre più ad un processo che caratterizza la condizione contemporanea, ad un processo che vede un ibridarsi del biologico con il macchinale; in questo ibridarsi dei sistemi biologici con i sistemi macchinali non solo la libertà perde la sua posizione prioritaria, ma nella stessa analisi delle relazioni umane divengono centrali i fini e marginali gli scopi, e analogamente nella formazione del giurista si tende a privilegiare i fini e a emarginare gli scopi. Perché la distinzione sulla quale Scheler torna più volte, ovvero la distinzione che separa i fini dagli scopi, consiste in questo: i fini sono in tutto ciò che è, perché tutto ciò che è persegue e concretizza dei fini, ad es. una reazione chimica ha dei fini, persegue ciò che è proprio di quei processi chimici che concretizzano alcuni fini che possono essere descritti nelle formule che enunciano i fenomeni chimici, e lo stesso accade nei processi biologici e nei processi informatici, dove non ci si interroga sugli scopi, ovvero si tralascia di considerare che il fine non coinvolge la responsabilità dell’essere liberi. Il fine, appartenendo alle macchine, alle cose, agli animali, non mette in gioco la responsabilità che costituisce il nucleo della vita del diritto, riattivato ogni volta dal concetto di scopo, proprio perché lo scopo comporta invece uno scegliersi del se stesso nella sua relazione con gli altri. Quando si tralasciano gli scopi finisce per diventare sempre meno rilevante il concetto dell’interpretazione del diritto perché l’ermeneutica c’è non per i fini delle cose, degli animali e delle macchine, ma per gli scopi. Quando l’attività dell’interpretazione lascia il posto allo scorrere funzionale di fini, si afferma il modello principale della divisione del lavoro. Questo modello appartiene da sempre all’umanità ma nella condizione contemporanea, a partire dall’età industriale, ma soprattutto oggi, il modello della divisione del lavoro diventa il modello gerarchizzante tutti gli altri modelli delle relazioni sociali, perché il modello del lavoro punta alla più intensa funzionalità, ovvero ad una produzione sempre crescente quale ne sia il costo in termini di qualità dell’esistenza del singolo e alla qualità della vita nelle istituzioni dei sistemi sociali. Se il modello unico diventa quello della divisione del lavoro, la legge unica diventa quella del fondamentalismo funzionale. La divisione del lavoro tratta l’uomo solamente nei suoi frammenti, smembra l’unità esistenziale del 89 singolo, della sua soggettività, che viene smembrata nelle diverse regioni dove interviene quella singola organizzazione del lavoro secondo il modello principale della divisione del lavoro. Qui si spezza quel legame forte che appartiene alla realtà del diritto, cioè il legame tra il logos, il nomos e il pathos, perché la divisione del lavoro non ha nulla che possa rinviare alla dimensione del pathos, che è l’apertura affettiva, è l’impossibilità dell’uomo di essere indifferente alla qualità dell’esistenza degli altri. Questa dimensione del pathos viene rimossa nella divisione principale che organizza la divisione del lavoro e che diventa il modello unico per ogni altra forma di vita dei molti sistemi sociali, compreso anche il sistema diritto. Eliminata la dimensione del pathos, il rischio è che si incontri l’uomo dimenticando ciò che costituisce la sua differenza ontologica, ciò che distingue l’essere dell’uomo dalle altre modalità di essere, ovvero la differenza tra l’uomo e gli altri viventi. C’è un plus esistenziale nell’uomo rispetto agli altri viventi e su questo plus nasce il diritto. Dice esplicitamente Jaspers: l’animale come mero esserci non è né perduto, ma non è neanche mai vuoto, non è nullo, non è perplesso, poiché non ha la possibilità della scelta, l’animale è soltanto ciò che è. All’animale non appartiene nulla che è proprio del pathos, dell’apertura affettiva. All’uomo appartiene sempre il sentirsi sempre preso da ciò che comporta la scelta, e la scelta comporta il passaggio dai fini agli scopi, che sono espressione dello scegliersi dell’uomo sempre avendo attenzione a che la sua scelta ha effetti che ricadono inevitabilmente sulla qualità della vita degli altri singoli soggetti esistenti, perché il mondo è uno, perché gli effetti di una scelta non hanno confini, non sono prevedibili, gli effetti della scelta di un singolo non sono prevedibili nello spazio, nel tempo e nella qualità della vita degli altri. E dunque la scelta del singolo soggetto apre il terreno degli scopi, gli scopi aprono l’attenzione ad un’aspettativa che è giuridica; perché la scelta degli scopi è una scelta responsabile, e dunque attende (attraverso delle norme giuridiche positive disciplinanti gli effetti degli scopi che sono scelti) che si concretizzi nell’istituzione di norme giuridiche che orientano secondo la ragione giuridica l’incidere dell’aprirsi degli scopi in un singolo quanto agli effetti che l’apertura di questi scopi possono avere sulla qualità della vita degli altri, per quanto attiene alla qualità dell’ambiente, la qualità della vita dell’uomo nella sua quotidianità. Tutto questo chiede la presenza del diritto alla filosofia, ovvero il diritto alla filosofia del diritto, per analizzare la qualità dei contenuti delle norme che devono essere selezionate per far si che la scelta degli scopi da parte di un singolo uomo o di gruppi sociali non abbia una sequenza di effetti che possa essere distruttiva sulla qualità della vita degli altri. Questa essenzialità al diritto alla filosofia, e quindi alla filosofia del diritto, si mostra allora a non essere riducibile né alla teoria generale del 90 diritto, né alla sociologia del diritto. Questo perché la teoria generale del diritto si limita ad una sistemazione logico-formale dell’ordinamento giuridico definito, ma non ha gli interrogativi sulla qualità della relazione del singolo con gli altri, non ha gli interrogativi derivanti dal questionare filosofico e analogamente la sociologia del diritto si interessa di analizzare il divario fra le norme vigenti e quel che accade quotidianamente nella prassi. Ma la sociologia del diritto si ferma però a questa analisi del divario. Invece è compito della filosofia del diritto mettere in questione in modo incondizionato gli interrogativi sulla qualità della disciplina, della selezione degli scopi nel coesistere della vita di relazione. 91 Lezione 20: Il diritto come strumento tecnico delle operazioni del Nessuno Ambientata nei modelli del linguaggio numerico, la quotidianità contemporanea è qualificata dalla tendenziale ibridazione tra l’intelligenza biologica e l’intelligenza artificiale. Tutto diviene merce bio macchinale calcolabile nel dispiegarsi liquido dell’avere=potere, operante nel ‘monetario’ dominato dal ‘finanziario’. Trattato da una ermeneutica che perde la dimensione esclusivamente umana dell’arte, anche il diritto si trasforma in strumento tecnico delle operazioni del Nessuno, figura omogenea al post umanesimo del nichilismo giuridico ‘perfetto’. La quotidianità contemporanea è qualificata dalla tendenziale ibridazione tra l’intelligenza biologica e l’intelligenza artificiale; questa tendenza riguarda il diritto perché in modo non secondario è l’aprirsi di una via che cerca di costruire una ingegnerizzazione sempre più marcata della giuridicità. Questo col convincimento che quanto più si riesce ad intervenire con la modulazione scientifica del diritto, tanto più il risultato è positivo. Dunque la discussione della realtà contemporanea del diritto è una discussione che incontra questo processo di ibridazione formativo della bio info sfera; una sfera dove si compongono il biologico e l’informatica, ovvero il macchinale. Al comunicare nel discorso giuridico dei soggetti, al comunicare del logos, si sostituisce il computare in una forma definita di numerazione. Questa trasformazione è proprio il tentativo della ingegnerizzazione del diritto. Questo passaggio deve essere consapevole, nel senso che in tal modo si può minare la singolarità del parlante, la stessa struttura dei diversi sistemi sociali: i processi di ingegnerizzazione non incontrano più l’uomo, perché l’uomo, come viene detto dalla Roudinesco non è né misurabile, né quantificabile quindi non può essere quindi incontrato negli aspetti della propria vita da alcun procedere ingegnerizzante. L’uomo è portatore della libertà: un altro filosofo contemporaneo Nancy dice – in questo caso in senso positivo - che la singolarità dell’uomo è portatrice di una uguaglianza che è tale da essere incommensurabile; ovvero l’uguaglianza delle singolarità esistenziali è sì l’uguaglianza dei diversi soggetti ma è anche una uguaglianza che ha la sua realtà storica nell’essere mai misurabile. Non c’è nessun metro che possa ingegnerizzare i modi di manifestazione della libertà che hanno rilievo giuridico. 92 Quello che segna un allontanamento dal logos, ovvero dal comunicare nel discorso, è un accedere sempre più al computare in una definita forma di numerazione. La numerazione attualmente vincente è la numerazione del linguaggio dei prezzi, cioè la numerazione del mercato, nelle due modalità del mercato, del monetario e del finanziario, e quest’ultimo finisce per essere dominante sul monetario, così che si può dire che la realtà contemporanea è dominata da un discorso di tipo numerico, e principalmente dal finanziario, che interviene e incide sul discorso monetario: è una realtà sottoposta ad un processo costituito da un duplice annichilire. Il finanziario annichilisce due volte, perché annichilisce il monetario. Il monetario rende nullo tutto ciò che è nella sua specificità. Tutto può essere reso indistinto in un unicum monetario. Il monetario cancella la peculiarità di ciò che viene trattato dalla singola moneta, perché la moneta tratta allo stesso modo le cose più diverse. Il finanziario annichilisce il monetario perché a sua volta interviene in modo tale da incidere, manipolando il monetario, e dunque annichilendolo e così mostrando che l’ordine del finanziario è un processo di duplice intervento annichilente. Questo è quel che lo stesso Derrida coglie nel dire che la velocità delle comunicazioni in borsa è tale nella realtà contemporanea che le condizioni del mercato finanziario possono cambiare in una frazione di secondo. Quindi la progressione dal monetario al finanziario qualifica la realtà contemporanea nel processo di dematerializzazione dei beni. Il monetario dematerializza i beni, il finanziario dematerializza il monetario. E’ dunque un duplice procedere dematerializzante. Seguendo lo stesso itinerario anche gli spazi cartacei, le entità materiali, vengono dematerializzati nei mini spazi immateriali: è questo un procedere che è reso possibile da un continuo intensificarsi della spiegazione scientifica di ciò che è nel modo dell’uomo, che avvia alla dimensione della virtualità, ciò che viene spiegato scientificamente può essere riprodotto fuori dallo spazio specifico che gli appartiene, cioè può essere reso una entità virtuale, e quindi situato nei mini spazi dei sistemi informatici, che dematerializzano le entità che da sempre hanno occupato gli spazi sociali degli uomini. Ma la spiegazione scientifica non si limita solo ad accelerare il passaggio dal monetario al finanziario, al transitare dal reale al virtuale, a rendere praticabile la riproduzione del reale nei mini spazi virtuali salvata dalla c.d. intelligenza artificiale, ma ha anche un suo incidere esistenziale, che tocca la qualità della vita dell’uomo, la sua stessa corporeità. E’ appunto significativo che Dennett, questo studioso dell’evoluzione della libertà, dice che finalmente nella condizione contemporanea l’uomo avrebbe abbandonato questa visione dell’uomo come portatore di una anima; un’anima che abita e controlla il suo corpo materiale. La spiegazione scientifica avrebbe 93 abbandonato questi concetti. L’anima non conferisce senso e spiritualità al corpo umano. Ognuno di noi oggi si spiega nel suo essere composto soltanto di operazioni robotiche, dunque non pensanti, non legate alla dimensione dell’anima. Non avremmo nessun ingrediente non fisico. Peraltro risponde Derrida in maniera critica, dovremmo allora concludere che residuano soltanto gli elementi di una condizione post umana. Il post umanesimo consisterebbe proprio in questo, non residua nulla che non sia fisico, che non abbia un funzionamento non robotico. In maniera critica dovremmo dire che il mondo contemporaneo post umano lascerebbe spazio solamente a due grandi ordini: da un lato ci sarebbe lo spazio dei computer e dell’intelligenza artificiale che si troverebbero a sostituire il pensiero, dall’altro ci sarebbero solo processi di tipo cognitivo che però avrebbero soltanto elementi e strutture che sono quelle propri di una attività puramente fisiologica e biologica. In tutto questo il diritto sarebbe niente altro che un sistema strumentale, una memoria organizzativa (Luhmann), che nulla ha a che fare con la struttura della memoria personale. Il diritto diventerebbe una merce tra le altre, una merce nel self service del mercato mondiale, quindi si può fare shopping del diritto che più conviene. Così anche l’amicizia diventa una merce, il grande mercato mondiale trasforma la relazione amicale un modo per avere una qualche forma di pseudo discorsività nelle reti telematiche (chattare non è avere amicizia, che invece impegna e non può essere spenta spegnendo la connessione ad internet). Del pathos, della condizione affettiva dell’io profondo, viene custodito nulla, perché il pathos non si lascia commercializzare, non è il sentire bio macchinale, il sentire di una telecamera, ma è quel profondo avvertire del se stesso che entra in empatia con gli altri stabilendo quelle relazioni intersoggettive dove un posto centrale ha la relazione giuridica. E nel ridurre il diritto a self-service, l’amicizia, la predilezione, l’amore si tralascia ciò che Scheler ha messo in luce affermando la differenza profonda tra il sentire biologico e l’avvertire il valore in senso assiologico. Nel rapportare la percezione affettiva e patetica (il pathos) al quid di eventuali oggetti (ovvero come si avvertono gli eventuali oggetti di una rappresentazione) – nel compiere cioè questa connessione tra la percezione affettiva e gli oggetti di una rappresentazione si deve affermare che i valori (assiologici) vengono prima, vengono percepiti anteriormente; i valori assiologici non consistono in ciò che è proprio del sentire bio macchinale, i valori assiologici, e quindi: il giusto come misura del legale, la giustizia come criterio selettivo dei contenuti della legalità, non è qualcosa che può essere trattato attraverso lo stesso procedimento 94 che è impiegato nel descrivere le modalità in cui interviene il sentire dei sensori delle macchine intelligenti. Il senso esistenziale del diritto si pone oggi come compito, come ricerca di quei confini che limitano, che non consentono la integrale monetizzabilità dell’uomo, che tutto ciò che appartiene all’uomo possa essere trattato come una cosa di valore (è una merce) e non come un valore esistenziale. Ci si chiede che cos’è che nell’uomo non ha prezzo, che cos’è che il diritto deve custodire come non monetizzabile; le risposte vengono dalla analisi della teoria della disciplina giuridica del lavoro, dalla analisi del diritto del lavoro: l’uomo non vi può comparire semplicemente come una unità di conto, soltanto come una memoria organizzativa; l’uomo vi è presente con la sua ricchezza esistenziale, con il suo essere portatore di una memoria personale. Il diritto dell’ambiente, il diritto dell’infanzia Non si può cancellare la soggettività dell’uomo. Sostiene la psicoanalista francese Roudinesco che oggi si constata questa tendenza ad affidarsi volontariamente alle sostanze chimiche piuttosto che parlare delle sofferenze interiori, a trovare subito un rimedio farmacologico a questo disagio, a trattare l’angoscia dell’io profondo con l’intervento di elementi che possono manipolare l’uomo al fine di restituirlo alla sua efficacia mercantile. Questo affidarsi solo a sostanze farmacologiche per rientrare con una spendibilità dell’esistenza nel solo grande sistema del mercato del fondamentalismo funzionale, rimuove l’itinerario aperto da Freud della comunicazione psicoanalitica e della discorsività terapeutica (che ha un antecedente con Socrate, con la consapevolezza che nel dialogo il soggetto riacquista la liberazione dal suo essere caduto in momenti di stagnazione e di sofferenza del suo io, riacquista la possibilità di essere se stesso in modo pieno, uscendo dalla condizione di angoscia). Oggi il diritto deve ricercare e porre i limiti al trattamento manipolatorio dell’uomo, alla sua immissione tra tanti canali mercantili. Il diritto deve conservare il diritto primo dell’uomo, ovvero il diritto ad essere soggetto, il diritto alla parola, alla relazione con gli altri. La parola non è il segno univoco degli animali, delle macchine, dell’informatica. La parola dell’uomo porta un senso, la parola è polisensa, apre la questione del significare, del senso e del nesso che lega il diritto e l’arte dell’interpretazione. Gli animali hanno solamente la vista. L’opera dell’interprete è come lo sguardo che cerca il senso nel testo delle norme, ovvero la ricerca del giusto nel legale. Lo sguardo contiene un plus rispetto alla vista, è esclusivo dell’uomo. E così anche il diritto è esclusivo dell’uomo. 95 Lezione 21: Il terzo giudice e l'arte del diritto Il giudizio del terzo altro considera, analizza e valuta la soggettività dei parlanti, non gli accadimenti dei viventi e le operazioni delle macchine. Il giurista sollecita il filosofo a prendere atto che l’uomo non è un insieme fattuale di operazioni cerebrali ‘innocenti, ma un ‘io’, soggetto della libertà e della responsabilità, che conferiscono senso alle istituzioni giuridiche. Il ‘Palazzo di giustizia’ non è destinato né alle patologie del ‘vitale’, né ai guasti del ‘meccanico’; è il luogo dell’arte del diritto che incontra i soggetti della parola, mai trattabili dalle tecno scienze, perché il dire è irriducibile nel numerare. Nella descrizione del diritto come fenomeno separato e distinto dagli altri fenomeni sociali, un passaggio inevitabile è compiere una analisi che distingue una genesi fenomenologica del diritto da una genesi fattuale del diritto. La genesi fenomenologica si preoccupa di cogliere quali siano gli elementi che individuano la peculiarità del diritto, che sono tali perché sono esclusivamente propri del diritto e quindi che non sono peculiari degli altri fenomeni sociali. Nella genesi fattuale del diritto la preoccupazione è quella di cogliere che cosa fattualmente porta alla formazione e quindi alla diversa modalità storica di incidere del diritto. La genesi fattuale è una descrizione del formarsi storico di un ordinamento giuridico. La differenza tra le due genesi costituisce un momento centrale della filosofia del diritto perché è proprio facendo questa distinzione che si evita di ridurre il diritto soltanto ad essere inteso come il prodotto dei fatti, e quindi ad essere inteso come quel fatto che ha vinto su altri fatti. Tale distinzione porta a considerare anche che il terzo giudice – così come viene incontrato dalla genesi fenomenologica del diritto - non si limita a cogliere l’uomo come se fosse un insieme di operazioni cerebrali (attività sinaptiche), come se fosse un sistema neurobiologico e dunque come se fosse innocente, ma lo incontra nella sua responsabilità, nell’esercizio della sua libertà di soggetto che fa delle scelte e che quindi lo rendono responsabile. La genesi fenomenologica si centra nella ricerca del senso del diritto e del senso delle condotte del soggetto di diritto, mentre la genesi fattuale si limita a cogliere una sorta di cronologia dei fatti che hanno portato all’affermarsi di un ordinamento giuridico ed anche a una successione di eventi che nelle condotte dell’uomo lo hanno portato a compiere alcuni atti invece di altri, quasi che questi atti fossero da ritenere compiuti per dei processi che sono tra quelli indagati dalla neurobiologia; 96 dunque atti che accadono nella geografia cerebrale del singolo uomo ma non gli appartengono, non gli sono imputabili, non afferiscono alla sua responsabilità. Il palazzo di giustizia non è il luogo destinato alle patologie dell’ordine vitale (neurobiologico) delle attività sinaptiche, non è il luogo destinato a riparare i guasti di un procedere affine a quello dell’intelligenza artificiale. Il palazzo di giustizia è il luogo dove un soggetto, il terzo altro del diritto incontra un altro soggetto, il soggetto del diritto che è presente (davanti al terzo del diritto) con la sua responsabile libertà e con le condotte che ha scelto – che ha posto in essere - ed i cui effetti sono transitati negli altri uomini che dunque ne chiedono una valutazione che non è semplicemente di ordine fisiologico o macchinale. Il terzo altro del giudizio, il giudice, colui che pronuncia poi la sentenza, non è semplicemente un tecnico delle operazioni neurobiologiche, non è colui che interviene sui guasti dell’intelligenza artificiale. Si ripropone la tesi centrale del corso: connessione tra il diritto ed il linguaggio che è discorso. Tale connessione si svolge nella differenza nomologica (propria del nomos) – ovvero la differenza tra le norme e il diritto – e nella differenza logologica (propria del logos) - ovvero la differenza che appartiene al logos e che presenta volta per volta la distinzione tra il reale e il senso del reale. Come nel nomos c’è questa scissione tra le norme che sono enunciate e il diritto che non trova mai questa enunciazione scientificamente definitiva così parimenti nella differenza logologica c’è questa scissione tra il reale e il senso del reale, distinzione che chiede sempre l’opera creativa del terzo giudice, creativa non nel senso dell’arbitrarietà, ma creativa nella ricerca del senso del reale: quest’opera dell’interpretazione è l’opera ermeneutica, è il compito che appartiene alla soggettività del terzo giudice, è l’attività interpretativa che non può essere affidata a un software, perché in questa attività interpretativa compare ciò che, per usare un termine del filosofo Jaspers, è proprio della cifra. La cifra è ciò che presenta una verità ma la presenta nel suo non essere una verità indagabile con gli strumenti della tecnica e della scienza. La cifra chiama alla soggettività responsabile dell’opera dell’interpretazione, la cifra chiede di essere posta in enunciati che volta per volta sono gli enunciati posti dal terzo giudice nell’interpretare che compie in questo spazio cifrato, dove la cifra nomina ciò che impegna il terzo in un terreno che non può essere lasciato alla indagine scientifica ma chiede l’arte, l’arte dell’interpretazione. Questo perché nell’opera del terzo giudice si è sempre esposti a questa pretesa veritativa che riguarda il diritto, e questo perché – come osserva il filosofo francese Ost - la prima forma del tempo giuridico è quella della memoria. Nominando la questione della memoria si nomina la dimensione veritativa della memoria. La dimensione veritativa della memoria espone a ciò che è esclusivo dell’uomo: soltanto l’uomo nella 97 esperienza giuridica viene chiamato a testimoniare, a giurare. Ed è per questo che il grande filosofo francese Derrida tiene per dodici anni un seminario che ha come tema le questioni di responsabilità (per analizzare il rispondere davanti a qualcuno, giuridicamente davanti al terzo altro, il rispondere di condotte che sono state scelte e fatte proprie con l’esercizio di una libertà delle quali si è responsabili) e si analizza che significa il rispondere di sé. Queste questioni sono assenti nelle memorie proprie dell’intelligenza artificiali (il piano macchinale) e nelle memorie biologiche (piano vitale); i piani del vitale e quelli del macchinale non sono né veri né falsi. Non sono tali da poter essere imputabili davanti al terzo altro. L’imputabilità ha a che fare da subito con la libertà e questo richiama l’esistenzialismo di Kierkegaard, tradotto da Fabro, che dice che la libertà è quel che si fa storia di sé stessi e può sia legare ma può portare anche alla perdita della stessa libertà. La libertà può impegnare la libertà ma può anche dissolvere la libertà: Fabro appunto dice che la libertà si afferma soltanto mediante l’io. La libertà attua la libertà rischiando la libertà stessa. La libertà e l’io sono come il concavo ed il convesso, si costruiscono e si presentano nel crescere essendo l’uno per l’altro; in questo spazio si presenta ciò che è proprio della responsabilità. Dicendo questo si dice, così come si legge in Scheler, che nessuna memoria specifica si ha nel non umano, che trascenda la stretta dipendenza dei suoi stati biologici o macchinali dall’insieme dei suoi antecedenti. Nell’ordine vitale e macchinale non si ha nulla che trascenda nei movimenti della libertà l’esercizio della libertà dai suoi stati antecedenti: negli stati biologici o macchinali tutto ciò che avviene, avviene sempre con un nesso di causalità con i gli stati antecedenti e dunque negli stati biologici e macchinali non vi è responsabilità, vi è anzi una condizione di semplice di dipendenza causale, manca qualsiasi interesse alla ricerca di una dimensione veritativa di ciò che accade. Manca nel biologico e nel macchinale l’interrogarsi su questa dimensione veritativa, che invece compare non appena compare ciò che riguarda la libertà e che impegna l’opera del terzo giudice nel compito interpretativo. Però non appena si fa riferimento all’ermeneutica si aprono degli interrogativi, delle domande delle possibili modalità di leggere questo intervenire che è proprio dell’opera ermeneutica. Proprio Pareyson (verità ed interpretazione) lascia emergere delle questioni che chiedono di essere discusse: il principio fondamentale dell’ermeneutica è che l’unica conoscenza adeguata della verità è l’interpretazione. La sola conoscenza adeguata della verità transita nel lavoro interpretativo, ovvero la verità è accessibile in molti modi, ma nessuno di questi molti modi è privilegiato rispetto ad altri. Non c’è una unica interpretazione. Per la certezza e la struttura del diritto questa affermazione pone delle questioni. 98 C’è un rapporto originario tra libertà ed il nulla; conclude Payreson, il nulla non è periferico, ma è centrale e profondo perché la nascita della libertà positiva è legata al contatto originario tra libertà ed il nulla. Tutto questo riguarda il diritto perché la libertà può aprire ciò che ha a che fare con la responsabilità, che è rilevante nel diritto e nell’opera del terzo giudice. La libertà è giuridicamente rilevante perché non ha una causa, perché se avesse una causa non avrebbe a che fare con la responsabilità e quindi non sarebbe giuridicamente significativa. Questo significato del contatto con il nulla, non può essere inteso come il nulla che permetta una libertà arbitraria. Gli itinerari della libertà non sono arbitrari, hanno una valutazione perché la libertà deve rispettare gli altri cioè essere giuridicamente positiva, non è indifferente ciò che la libertà compie, la libertà non rimane nella indifferenza del nulla. La libertà non è dispersa e dissolta nel nulla. Questa non indifferenza dei cammini della libertà viene sollecitata dallo stesso Scheler, affermando che l’uomo non comincia ad esercitare la libertà permanendo nella sua indifferenza nel nulla, ma anzi ciò che affettivamente il singolo percepisce e quindi ciò che in concreto nell’esercitare la libertà nell’amare o nell’odiare l’altro non hanno un contenuto che sia indifferente, anzi hanno un contenuto a priori specifico, che non è disponibile. Non c’è nella libertà questo spazio indifferenziato nel nulla, c’è una condizione di responsabilità verso i poli opposti che sono scelti nella libertà e negli esiti opposti che poi ricadono sulla qualità della vita degli altri. Non è dunque indifferente – tornando alla tesi di Payreson - questa o quella interpretazione della libertà, anzi secondo una o un’altra interpretazione della libertà si potrà costruire una vita giuridica dove viene garantita la qualità della relazione con gli altri oppure si potrà produrre invece una sorta di ordinamento giuridico dove diventa indifferente la qualità della relazione con gli altri e dove dunque sarà lasciato alla genesi fattuale delle norme, al fatto che è più forte economicamente. Dunque è proprio il fenomeno diritto, quindi il giurista che oggi svela al filosofo, alla filosofia del diritto che l’essere uomo non è semplicemente la riduzione ad un essere vitale, essere uomo non è soltanto ciò che può essere descritto dalla neurobiologia che indaga le operazioni cerebrali determinate da cause che sono ambientate in casi e che quindi non schiudono la responsabilità del singolo. E’ il giurista che svela al filosofo che il momento della imputabilità è il momento della responsabilità, che pone luce il momento della libertà, una libertà che non si lascia spiegare scientificamente. Tutto ciò è quel che si ha verso un diritto debole e si ha quando ci si limita a cogliere una genesi fattuale del diritto, quando ci si limita a fare una cronologia degli eventi e quindi si lascia essere un evento dopo l’altro senza discriminare qualitativamente, si lascia avere – perché per quel che 99 riguarda il diritto - che alcuni contenuti sono assegnati al polo del legale e altri contenuti sono assegnati al polo del non legale, due poli che sono semplicemente funzionali in quanto si registra solo un funzionamento vincente nelle controversie che pongono un uomo davanti ad un altro uomo. Non c’è nulla qui se tutto si risolve nella opposizione tra il legale e il non legale, non c’è nulla della pretesa veritativa poiché questa è simultaneamente quella pretesa che si interroga sul giusto e sul non giusto, e ponendosi questa domanda si pone la domanda sul come selezionare secondo giustizia quel che appartiene alla legalità, mostrando così che la legalità che non è misurata dalla giustizia è una formula vuota, è un contenitore dove tutto può essere contenuto, secondo questo compiacimento di un pensiero debole di una giustizia debole. Ma un pensiero e una giustizia debole possono essere costruite soltanto sull’assunto - che difficilmente può essere sostenuto e posto come l’asse portante delle istituzioni giuridiche - che Jankelevitch nel suo lavoro tradotto in italiano e pubblicato con “Ironia” dice essere quell’assunto secondo cui “il primo diritto fu una violenza che ebbe fortuna”: tale assunto significa sostenere una genesi fattuale del diritto, una cronaca della fattualità, prendere atto che il primo diritto non è stato altro che un fatto affermatosi con violenza su altri fatti e ciò perché ha avuto più fortuna, perché più forte, vincente, ma vincente senza nessuna ragione, senza nessuna argomentazione dell’ordine del giusto, è vincente soltanto nella direzione di una semplice fenomenologia fattuale. Lì dove dunque è stata obliata, posta in un angolo, rimossa e pertanto spenta quel che è la direzione opposta, ovvero la fenomenologia non della fattualità, ma la fenomenologia che si occupa di cogliere la genesi fenomenologica del diritto, che interrogandosi sulla prospettiva della genesi fenomenologica del diritto si interroga sugli elementi del giusto che sono discriminanti quanto agli elementi del legale. Ma questo cade quando si afferma il nichilismo giuridico e quando questo nichilismo diventa perfetto e compiuto. Questo è ciò che invita a pensare Jaspers nel suo lavoro su Nietzsche, che insieme ad Heidegger rappresentano gli unici due filosofi che meritano una attenzione nell’incontro con Nietzsche. Jaspers, nel suo lavoro dice che in Nietzsche c’è un duplice significato del diritto: in una prima accezione il diritto viene inteso come il dominio di aspirazioni dei mediocri - sarebbe ciò che causa, ciò che genera il diritto – che si concretizzano in un infinito produrre leggi senza che questa produzione inesauribile delle leggi abbia all’origine una ragione giuridica, sono volta per volta la semplice reazione a ciò che fattualmente si presenta, ad una attualità che emerge e che vince con questo self service normativo. In una seconda accezione invece il diritto diventa nient’altro che un insieme di garanzie che non hanno a che fare coi mediocri ma anzi sono le garanzie date ai creatori; il diritto sarebbe questa cornice di garanzie giuridiche che vengono date a questa sorta di 100 razza dei creatori che in Nietzche sono i vincenti; il diritto serve i creatori, i vincenti, perché gli uomini sono disuguali e i creatori delle norme sono gli uomini biologicamente più forti. Dunque se gli uomini sono disuguali, dice Jaspers, bisogna prendere atto che non ci sono diritti umani, non c’è alcun diritto incondizionato dell’uomo in quanto uomo, ma c’è soltanto un tipo di uomo che di fatto ha potere, che biologicamente è vincente, che è economicamente vincente, che oggi diremmo che nell’ibridazione tra il biologico e il macchinale risulta essere vincente. I creatori sono i più forti, coloro che stabiliscono una gerarchia dei vincenti, che impone tale gerarchia agli esecutori. Quindi il diritto non sarebbe il diritto degli uomini, il diritto che si concretizza nel riaffermare, custodire e garantire l’uguaglianza tra gli uomini, ma il diritto si limiterebbe a prendere atto – secondo questa genesi fattuale del diritto che tralascia la genesi fenomenologica del diritto - che alcuni sono gerarchicamente più, che si impongono agli altri che sono gerarchicamente meno e dunque sarebbe la legalizzazione di questa sproporzione. A questa lettura della genesi fattuale del diritto si oppone la lettura della genesi fenomenologica del diritto, che non si limita a cogliere il diritto come fatto di violenza che ha avuto fortuna, ma cerca nel diritto quello che distingue il diritto dagli altri fenomeni sociali. Nella genesi fenomenologica del diritto, si vede il diritto strutturato come il linguaggio, che è discorso, cioè relazioni di parlanti strutturati dall’uguaglianza e non di sproporzione che hanno uguale diritto nel prendere la parola in un luogo che è terzo; così il diritto è la relazione tra parlanti strutturata dal rapporto di uguaglianza, e non di sproporzione, tra soggetti di diritto che hanno custodita questa soggettività giuridica in un luogo terzo che è quello della terzietà formativa e differenziante il fenomeno diritto rispetto agli altri fenomeni. 101 Lezione 22: La genesi fattuale e la genesi fenomenologica del diritto Le domande sulle ‘situazioni limite’ del pensiero giuridico - pena di morte, guerra, ecc. - chiedono di interrogarsi su questioni non confinabili in una genesi fattuale del diritto (Teoria generale del diritto), che ratifica l’identificazione dei contenuti delle norme con la forza di chi legifera. Sono domande che sollecitano a pensare la genesi fenomenologica del diritto (Filosofia del diritto), mostrando che non è senza effetti coesistenziali la distinzione tra il rispetto del prendere la parola nella democrazia e la violenza che impone un silenzio assoggettante nella dittatura, togliendo la parola e trasformando il creare con l’eseguire. La distinzione che si è fatta tra una genesi fattuale del diritto (che appartiene alla teoria generale del diritto) e una genesi fenomenologica del diritto (che invece è propria della filosofia del diritto), torna ad essere essenziale quando si incontrano le c.d. situazioni limite del pensiero e dell’esperienza giuridica. Il concetto di situazione limite è proprio di Jaspers, e incontra quelle realtà dell’esistenza e della coesistenza che costituiscono quei momenti che non hanno un ulteriore momento; costituiscono delle condizioni della situazione umana dove non c’è un oltre e che dunque attendono una discussione che sia essenziale, che metta cioè in questione i principi primi della riflessione filosofica. Per quanto attiene il diritto una di queste situazioni limite è quella della pena di morte e l’altra può essere quella che discute la qualificazione giuridica della guerra. Queste situazioni limite sono tali da eccedere ogni possibile orizzonte che si limiti in una genesi fattuale del diritto. Implicano subito il riferimento ad una analisi che è quella propria della filosofia del diritto, impegnano gli strumenti specifici della elaborazione filosofica della giuridicità. Lasciando quindi l’orizzonte della genesi fattuale del diritto, si torna quindi ad avere come asse di riferimento la tesi principale della filosofia del diritto, segnatamente il pensiero di Hegel sul diritto: il diritto non è il fatto ma è il superamento del fatto che esclude. Nell’enunciare questo Hegel invita a non confinarsi ad una genesi fattuale del diritto, chiede di cogliere che il diritto non è il fatto, perché il fatto esclude, impedisce la manifestazione della libertà (intesa come spirito). Il diritto è il superamento del fatto, dell’esclusione, mentre quando il diritto si lascia coincidere con gli eventi della fattualità, si lascia coincidere con una sorta di sperimentazione dei fatti, si afferma qui quel che esplicitamente può essere nominato il nichilismo giuridico perfetto. Perché nel nichilismo giuridico perfetto il diritto diventa la sperimentazione 102 tecno-funzionale delle molte attività praticate in una scienza che ha la sua essenza nella tecnica, il diritto dimentica in tal modo la opposizione tra ciò che appartiene ai poli del legale-non legale e ai poli del giusto-non giusto. Se oggi il diritto coincide con il sistema del fondamentalismo funzionale, con la sperimentazione delle tecno- scienze, secondo quell’itinerario che risponde solo al funzionare più dei molti sistemi sociali, se questa sperimentazione si concretizza in tal modo, allora tutto è lasciato nella formula vuota della legalità senza giustizia, nulla ha un confine nella dimensione veritativa che apre gli interrogativi sul giusto operando che il giusto sia il criterio selettivo del legale, tutto si concretizza solo nello stare a vedere. Ma in questa situazione diventa senza senso continuare a parlare del c.d. “processo giusto”, diventando senza senso le considerazioni che i giuristi fanno ogni volta che colgono l’opposizione tra il giusto processo e la tortura, opposizione dove c’è uno spazio occupato da una quantità di qualificazioni sia dei contenuti positivi del diritto sia delle modalità procedurali dell’amministrazione della giustizia che sono tali da poter essere volta per volta sempre più vicini o al processo giusto o alla tortura. Ma anche attualmente, con l’affermarsi del nichilismo giuridico, non si riesce a trovare un giurista che abbia un volto capace di potersi presentare agli altri affermando semplicemente che non c’è nessuna attenzione al processo giusto, per affermare la sua indifferenza rispetto alle pretese di uguaglianza, che l’uguaglianza degli uomini è qualche cosa che nella vita del diritto può essere tralasciato. Nessuno esibisce nella cultura giuridica questo fare cinico che si limiti a constatare che la sola regola è quella del funzionare più. Nessuno rinuncia a riprendere la centralità del principio di uguaglianza, che costituisce la struttura di riconoscimento tra gli uomini, intesa come relazione giuridica fondamentale. Il riferimento al principio di uguaglianza è storicamente cangiante, storicamente acquista forme diverse. Derrida dice che attualmente il principio di uguaglianza porta a misurarsi con l’urgenza del riconoscimento dei diritti delle donne e dunque di superare la disuguaglianza tra i sessi, nell’accesso al lavoro, alla responsabilità che sono proprie dell’esercizio dei poteri delle istituzioni. Ed ancora, per Derrida, questa ripresa del principio di uguaglianza è ciò che orienta il diritto al lavoro, il diritto dell’infanzia, la non discriminazione tra le diverse condizioni dell’infanzia, a seconda dell’area geografica di permanenza. Anche nel permanere di una prospettiva del nichilismo giuridico, è difficile che il giurista mostri una sorta di indifferenza verso i crimini contro l’umanità. Diventa difficile che il giurista non lasci l’abito del tecnico delle norme per indossare quello proprio dell’uomo giurista per discutere secondo la ragione giuridica quel che appartiene ad un’analisi che ponga in essere una critica nei confronti dei crimini contro l’umanità 103 Questi crimini non possono essere incontrati dal tecnico delle norme, perché ha un procedere che è settorializzante e quindi non incontra l’interezza dell’umanità. E’ difficile che un giudice non esca dalla veste di tecnico delle norme per vedere la situazione come uomo. Il riferimento all’uomo nella sua interezza viene posto in opera dal giurista uomo, che porta in gioco l’interezza della sua soggettività attraverso la fedeltà alle norme ma anche la responsabilità e la libertà nell’interpretazione delle norme, che porta cioè in gioco la ricerca del giusto nel legale, compito questo che appartiene al giurista uomo e non dal tecnico delle norme; quest’ultimo non incontrerà mai ciò che ha a che fare con l’umanità e quindi con i crimini contro l’umanità, perché l’umanità non è mai un frammento, un frammento tecnico-funzionale dell’uomo. Quando si nominano tutte le questioni che hanno attualmente a che fare con gli organismi giuridici internazionali contro i crimini contro l’umanità, certo non si nomina uno spazio limitato dell’uomo, perché l’umanità investe l’interezza dell’essere uomo, non un suo frammento settorializzabile. Questa dimensione dell’essere uomo è una dimensione essenziale del procedere del giurista. Lo si vede nella discussione della pena di morte, situazione limite dove si mette in gioco la centralità delle questioni principali del diritto. In questa discussione, come dice Derrida, non ci si può rifare ad argomenti di tipo tecnico o ad argomentazioni che hanno il procedere proprio dell’attività settorializzante della scienza. Secondo il filosofo francese, quando si vuole argomentare l’abolizione della pena di morte in modo consistente bisogna fare riferimento a principi incondizionati, al di la delle stesse questioni di finalità o di esemplarità o di utilità, addirittura al di la di un diritto alla vita da mettere al riparo da un possibile ritorno alla pena di morte: cioè bisogna fare riferimento non a questioni utilitaristiche per perseguire nell’immediato un qualche aggiustamento utilitaristico che consentirebbe di superare questo fatto che contraddistingue la negazione della civiltà giuridica che è la pena di morte, ma bisogna ricercare dei principi incondizionati, che è la ricerca alla descrizione dell’analisi dell’interezza dell’uomo e che poi è il compito della filosofia del diritto. L’argomentazione che porta alla cancellazione della pena di morte si muove nel distinguere le molte modalità del sapere che l’uomo riesce ad illuminare. In modo coerente si potrebbe dare la pena di morte se si disponesse di un sapere totale. Soltanto chi presuppone di sapere tutto può pensare di poter infliggere la pena di morte, dunque di consegnare ad una fine irreversibile un uomo. Ma il sapere totale è estraneo alla condizione esistenziale dell’uomo. L’uomo si trova sempre in un sapere che è un sapere parziale, si trova sempre ad avere a che fare con un sapere che non ha una formulazione ultima, è sempre un sapere aperto ad altre possibili interpretazioni. E’ un sapere sempre aperto alla possibilità che gli uomini istituiscano delle altre forme di vita 104 giuridica e che nell’istituire questa seconda vita (che è la vita del diritto) si situino al di là di un sapere che storicamente si è dato e che compare dunque sempre (comparendo nella storia) come un sapere parziale. Chi sa parzialmente non può disporre totalmente dell’altro, non potrà mai dare argomenti sufficienti affinché sia inflitta la pena di morte. Un sapere totale sarebbe la negazione stessa della libertà. E dunque la negazione della libertà porterebbe all’insignificanza della sentenza che emette la pena di morte perché non sarebbe una sentenza emessa con responsabilità perché costruita sulla libertà, ma sarebbe una sentenza che si limita a realizzare ciò che è al di fuori della libertà e della responsabilità (ovvero un sapere totale) Il sapere totale è la spiegazione della libertà, non lascia spazio alla interpretazione, all’attività del terzo giudice imparziale e disinteressato, colui che esercita una responsabilità che non gli viene svuotata da un sapere scientifico ovvero da un sapere totale. L’esercizio del terzo giudice in queste situazioni limite del diritto è l’esercizio di una soggettività che è tale perché si muove nell’ambito di un sapere parziale. Attualmente nella condizione contemporanea, il sapere parziale, che è proprio del sapere che appartiene alla filosofia, diventa sempre più un sapere di tipo logo-tecnico, perché il logos finisce per avere i tratti della tecnica. Ma il logos però è lo spazio della dialogicità, cioè lo spazio dove i soggetti si incontrano in una discorsività comunicativa che avviene in uno spazio terzo. Quando c’è un discorso tra l’uno e l’altro dei soggetti parlanti questo discorso si situa ogni volta in uno spazio terzo che non è disponibile (né da me né dall’altro), ed è per questo che quando si è in questo spazio che è il reciproco ascoltarsi, non si è nella logo tecnica, si è nello spazio della pienezza del logos che non può assumere i tratti della tecnica. La tecnica non ascolta, ma manipola. La tecnica non entra in una discorsività comunicativa ma interviene con un incidere manipolatorio, intervenendo in tal modo sugli altri come una forma che chiude l’ascolto agli altri; la tecnica è interessata ad intervenire sull’essere degli altri ma non ad ascoltare il dirsi degli altri e quindi a rispettare i diritti incondizionati degli altri. La distinzione tra il sapere parziale e il sapere totale è una distinzione dunque essenziale: vi è ancora la pienezza del fenomeno diritto se si rimane all’interno del sapere parziale, si cade invece nella negazione della peculiarità del fenomeno diritto se si è avvolti dalla presunzione di un sapere totale. Quando avviene questo l’amministrazione della giustizia perde i suoi tratti costitutivi, ossia scivola verso cadute che sono quelle di una giustizia mediatica, la giustizia spettacolo; una giustizia che ritiene che la giustizia si amministri come si amministra il gioco, che è innocente, senza senso e senza scopo, se non quello della consumazione del trascorre dei momenti del giocare e dello spettacolo. Una giustizia consumatoria è una giustizia innocente, ovvero irresponsabile. 105 Quindi nello spostamento dall’arte, sapere parziale, alla tecnica, presunto sapere totale, si ha uno spostamento che porta a che la giustizia diventi innocente, irresponsabile, come il tecnico che si limita ad eseguire, ma non ha una responsabilità; se resta un tecnico opera concretizzando i processi che sono propri di quel fare tecnico, secondo un come ovvero una successione di operazioni, ma non si interrogherà più sul senso, gli scopi delle operazioni, non eccederà la funzionalità tecnica per aprirsi agli interrogativi che investono la libertà e la responsabilità del relazionarsi degli uomini nelle relazioni giuridiche. La libertà in questo contesto diventa un gioco essa stessa, diventa un semplice evento, così come la giustizia diventa spettacolo, diventa mediatica, che si consuma e si vende. La tesi che viene espressa dal filosofo francese contemporaneo Nancy è questa: la libertà si presenta nel suo sorgere improvviso ed inassegnabile. E’ quella libertà che consiste nel crearsi dello spazio del gioco, nella possibilità che sopraggiunga una singolarità irriducibile. E’ quel che mi accade non quel che scelgo con responsabilità. E’ quel che accade dello spazio del gioco. La libertà è libera non in quanto dotata di un potere di autonomia, che però la rende responsabile, ma la libertà è un gioco che sopraggiunge in uno spazio libero. Ma allora volta per volta la libertà avverte di essere irresponsabile; sopraggiungere in uno spazio libero significa non rispondere di A davanti a chi, significa trovarsi esposti in questo gioco che è la successione dei momenti di un accadere dopo un altro accadere secondo un gioco innocente. La libertà non è una combinatoria di traiettorie di eventi che accadono senza uno scegliersi argomentato, non è indifferente, aperta ad ogni contenuto. Nancy - dopo aver affermato che la libertà è semplicemente il trovarsi in uno spazio libero – argomenta poi come segue sul concetto di giustizia: la giustizia risiede unicamente nella decisione, che ogni volta viene rinnovata, di ricusare la validità vigente o acquisita della giusta misura; la giustizia consiste nel dire di no alla ricerca di una giusta misura. Analogamente come la libertà è divenuta il trovarsi in uno spazio libero, la giustizia diviene il trovarsi nella negazione di una qualunque ricerca di una misura giusta, perché la giustizia consiste nel trovarsi nell’incommensurabile. La verità diverrebbe soltanto il prendere atto dell’incommensurabile ovvero la negazione di ogni possibile misura. La negazione di ogni possibile misura è immediatamente la negazione di ogni distinzione tra i contenuti delle norme positive. La giustizia si trova nella indifferenza tra le molte possibili misure. Vuol dire che si afferma la misura legale, ma che è legale perché ha vinto, che è quell’atto di violenza che ha avuto fortuna, vincente rispetto ad altri atti possibili. 106 Ma se la giustizia è solo questa innocenza fattuale allora la giustizia coincide con il fatto che vince, quindi sarà una giustizia che viene trovata solo in una genesi fattuale del diritto, ovvero la semplice constatazione del fatto che funziona di più, più forte, la funzionalità che vince. Il giurista diventa un tecnico idraulico, perché la giuridicità diventa liquida, per usare una metafora. La giuridicità diventa liquida perché diventa un semplice fluire di fatti che non hanno alcuna coscienza riflessa, che non si interrogano sulla qualità dei fatti, così da far diventare la giustizia una giustizia liquida ovvero senza una forma, senza un perché, senza uno scopo, ovvero la pienezza del nichilismo giuridico. 107 Lezione 23: Il Diritto alla Filosofia del Diritto: oltre il nulla dei diritti dell'uomo I concetti fondamentali delle scienze sistemano con metodo le diverse regioni del conoscere=sperimentare. I concetti fondamentali della Filosofia del diritto discutono l’io, nel suo relazionarsi agli altri rapportandosi al mondo; analizzano gli scopi delle istituzioni e delle norme che ne disciplinano la concretizzazione, secondo valori che orientano il volere. L’espressione ‘Dio è morto’ nomina l’‘inversione dei valori’, afferma il nulla dei diritti incondizionati dell’uomo. Le relazioni scorrono così nella contingenza liquida, senza una direzione di senso oltre il non senso della forza del più forte, decisa dalla legge, senza terzietà, del mercato che tratta anche l’uomo come una ‘unità di conto’. Il superamento di questo esito è aperto dal Diritto alla Filosofia del diritto. Nella analisi filosofica del diritto, compare una trattazione dei concetti giuridici fondamentali, così come sono propri nel diritto e così come invece sono propri nelle scienze: compare la esigenza di distinguere i concetti così come sono applicati dalla scienza e così come invece sono applicati dalla filosofia del diritto, che si pone domande sul senso esistenziale. In questa discussione risultano fondamentali due lavori: un primo riferimento è a Irti che nella “Polemica sui concetti giuridici” ripropone una discussione sui concetti in generale, e su quelli giuridici in particolare, così come si era data nel 1935-1945; l’altro riferimento sono i lavori di Heidegger sui concetti fondamentali del pensiero proposti in una serie di seminari tenuti negli anni tra il 1937 e il 1944. La prima attenzione viene data ai concetti fondamentali delle scienze, che sono quei concetti che individuano le diversi regioni del conoscere, le diverse regioni dell’attività di sperimentazione, e le individuano con un metodo che volta per volta è il metodo della ricerca scientifica e della sperimentazione scientifica di quella singola area. Invece, i concetti fondamentali della filosofia del diritto sono i concetti che discutono l’io nel relazionarsi agli altri soggetti di diritto nella storia delle istituzioni giuridiche. Il rinvio a questi due momenti dei concetti giuridici e dei concetti filosofici è dato dalla necessità di procedere con una chiarificazione del fenomeno diritto in ciò che lo distingue dagli altri fenomeni ma anche in ciò che lo individua nella condizione contemporanea. Non è ragionevole procedere ad alcuna presentazione del diritto senza precisare la qualificazione attuale dell’ambientazione del diritto, senza interrogarsi e individuare le forme storiche che distinguono e definiscono il diritto. 108 Nel fare questo lavoro si incontra il tema dei concetti, così come vengono riproposti da Heidegger, che definisce concetti fondamentali quelli che indicano una rappresentazione generale di un ambito definito delle scienze, gli elementi formativi di una certa area trattata dalla singola scienza. Ad es. nella scienza biologica i concetti fondamentali-generali sono quelli che si riferiscono al concetto di vitalità, all’accrescimento delle forme di vita (quindi la biologia si giova dei due concetti del vitale e del crescere). Per la scienza medica un concetto fondamentale è la fisiologia, ovvero un modo di funzionare proprio di un corretto processo, ed accanto al concetto di fisiologia per opposto appare il concetto di patologia. Anche la scienza del diritto ha i suoi concetti fondamentali che per Heidegger sono i concetti di verità e di diritto : non appena la scienza giuridica comincia ad operare inevitabilmente, secondo il filosofo tedesco, tratterà questi due concetti di diritto e verità. Il procedere di una singola scienza, e quindi anche la scienza del diritto, si serve di questi concetti che sono una rappresentazione generale di un ambito definito, e come tale quel singolo concetto ha senso nel proprio ambito definito. Ad esempio si è appena detto che la scienza del diritto non appena comincia ad operare incontra il concetto di verità, che però non è lo stesso concetto valido per la matematica e l’informatica, ma è un concetto che fa riferimento alle condotte degli uomini che sono giuridicamente rilevanti. Dunque analizzando le differenze fra concetti fondamentali della scienza e concetti fondamentali del pensiero filosofico si rileva che l’elemento distintivo dei concetti fondamentali del pensiero filosofico, e quindi anche di quello giuridico, specie della filosofia del diritto, trattano l’io, il sé stesso e l’uomo nella sua peculiarità di soggetto di diritto nel suo rapportarsi con il sistema normativo valido in quel luogo e in quel tempo. Il soggetto di diritto che risponde di; per questo vi è una attenzione al suo io. Passando dai concetti generali delle scienze ai concetti fondamentali della filosofia del diritto viene quindi in gioco la centralità dell’io, dunque della libertà, perché l’io ha un rilievo in quanto io libero, che risponde delle sue condotte. Quindi si coglie che nella filosofia del diritto centrale è questo riferirsi all’io e a questa concezione della libertà. Però nella condizione contemporanea, tale concetto principale della filosofia del diritto (che incontra l’io e la libertà) viene ad essere investito, trasformato dal processo di secolarizzazione del mondo, ovvero anche i concetti cambiano e subiscono l’evolversi delle condizioni storiche. Questo processo, nella stessa prospettiva di Nietzsche, viene spiegato nel passaggio da un Dio creatore alla tecnica degli uomini, cioè un passaggio al dominio della tecnica che diventa 109 tecnologia, ovvero una manipolazione della realtà che incontra secondo una sistemazione logica, che non è la logica del logos, discorso, ma la logica della manipolazione. Dunque i concetti giuridici subiscono questo processo di secolarizzazione, segnando il passaggio dalla figura del Dio creatore al dominio della tecnica, che segna il progressivo trasformarsi dello stesso concetto di idea in generale, e dell’idea di giustizia in particolare. Ciò che si trasforma è il concetto di idea in itinerario del procedere occidentale che va da Platone fino alla condizione contemporanea. Per questo Heidegger in questi seminari (1937-44) sostiene che l’idea diviene quella condizione che rende possibile ogni pensare, ogni rappresentare, ogni agire, l’idea diventa dunque l’essere in quanto tale, intendendo che questo processo (che va da Platone alla situazione contemporanea) in Nietzsche finisce con il coincidere soltanto con la volontà di potenza. Dunque l’idea si trasforma in una condizione, in un punto di vista, una prospettiva che rende possibile questo crescere della volontà di potenza; l’idea non è il luogo della verità, ma svuotandosi del contenuto della idealità, diventa un apparato logico e strumentale per il crescere di questa volontà di potenza. La volontà di potenza trasforma l’idea in un punto di vista, uno strumento logico che consente il passaggio dall’affermazione di Dio alla formula che Dio è morto, considerando che con tale passaggio si ha il comunicare che finisce la distinzione fra il sensibile e il sovrasensibile , ovvero è morto tutto ciò che è sovrasensibile, esiste solo ciò che è sensibile, cioè vive solo ciò che è forte, vincente. Dunque l’idea diventa ciò che non è vero né falso, ciò che è non è giusto né giusto, non c’è più un’idea di giustizia. Si è al di là del bene e del giusto. Si ha così una inversione dei valori proposta con il messaggio: Dio è morto. Con questa affermazione si dice anche che l’idea di giustizia si è estinta. Si è soltanto nell’ordine del legale ed il legale è semplicemente ciò che si è trasformato dell’idea, un apparato strumentale all’accrescimento della volontà che è più potente. Proprio nell’analizzare queste tesi, sorge la necessità, sollevata soprattutto da Derrida, di un impegno filosofico di contrasto a questo svuotamento, a questa indifferenza; Derrida ci dice “un diritto alla filosofia del diritto”, questo perché è necessario un ritornare al riferimento all’io. Nel processo di globalizzazione, molto invasivo e veloce, è necessaria una attenzione ai concetti fondamentali della filosofia. Privilegiando il solo funzionare più ne consegue una indifferenza alla qualità della relazione tra un soggetto di diritto e un altro soggetto di diritto che chiede che si torni a considerare ciò che è 110 proprio dei concetti della filosofia al di là dei concetti della scienza, cioè ciò che comporta il riferimento all’io, concetto che non si lascia indagare da nessuna scienza. Si fa ingresso nel terreno della filosofia del diritto e dunque torna questa urgenza speculativa ad incontrare i concetti fondamentali del pensiero, a non lasciarli svuotare e dominare dai concetti fondamentali della scienza che si svela avere una essenza tecnica. Questo ritorno porta anche ad interrogarsi diversamente sul processo di globalizzazione, sugli accadimenti che appartengono all’affermazione del mercato globale. In tale processo non sono espulsi i concetti giuridici, i concetti propri della filosofia del diritto: quindi i concetti del rapporto di sé all’altro, dell’avere una proprietà, la mia proprietà che pone confini al bene per evitarne l’appropriazione da parte dell’altro. Torna a comparire un interrogarsi sui concetti di ciò che è proprio, che è mio, di ciò che confina il mio dal tuo, di ciò che separa la proprietà dal semplice uso indifferenziato e giuridicamente non disciplinato, di ciò che appartiene a nessuno. Si ha nel processo di globalizzazione il ritorno a concetti centrali del pensiero giuridico, quindi anche della filosofia del diritto, che mettono in discussione l’io e la libertà. Questo chiarisce il legame tra la globalizzazione e il processo costante e progressivo che tende a dare una spiegazione scientifica dell’uomo e della stessa libertà dell’uomo. Il processo di globalizzazione procede in modo così veloce proprio perché si basa sul convincimento che si può raggiungere una definitiva spiegazione scientifica dell’uomo e quindi anche la possibilità di mettere l’uomo in conto, ovvero di considerarlo come una unità di conto: ciò che può essere spiegato totalmente può essere trattato come un oggetto, può essere posto in un mercato. Attualmente questa spiegazione scientifica della libertà diventa sempre più invasiva e rende sempre più esteso il considerare che l’uomo possa essere posto come un oggetto tra gli altri oggetti e come gli altri oggetti posto nel grande conto, una sorta di sommatoria degli elementi che costituiscono il sistema del fondamentalismo funzionale. Dunque la globalizzazione si lega alla spiegazione scientifica dell’uomo, che diventa un bene tra gli altri beni, valutato come un quantum monetario, circola nei canali mercantili, entra nello stesso processo di globalizzazione. Però entrando nel processo di globalizzazione, la condizione dell’uomo così configurata svela che non appartiene né è ciò che costituisce il godimento del singolo uomo; perché la spiegazione scientifica dell’uomo, che spiega la globalizzazione, non ha una origine scientifica ma è extrascientifica. Cioè il trattare l’uomo come un oggetto, che qualifica la condizione contemporanea, è qualcosa che non ha origine nell’umanità. E’ un processo che arriva a considerare l’uomo come un oggetto di scienza, rendendolo in tal modo omogeneo all’accrescimento della volontà. Si tratta non della volontà esistenziale, ma secondo Nietzsche, è 111 la volontà delle energie dell’uomo,cioè è un processo di tipo biologico. Un uomo è integralmente spiegato scientificamente. Ha una ragione dell’interpretarsi dell’uomo, dove l’uomo vuole conoscere e possedere integralmente se stesso, punta ad avere una padronanza totale del suo stesso io. Questo voler essere padrone totale di se stesso, volersi integralmente, è il volere inteso come comando. Essere signore totale del volere comporta anche avere la padronanza totale del comando e quindi bisognerà cancellare ciò che costituisce un limite a padroneggiare il comando. Questo limite è la permanenza della soggettività. Finché c’è un io, un uomo, un soggetto responsabile, giuridicamente imputabile della sua volontà e del comando di questa sua volontà, si dovrà dire che questo io certo non è totalmente padrone della sua volontà: è padrone delle scelte che compie nell’ambito di questa sua volontà ma non ne è il padrone assoluto, perché l’uomo possa porsi in questa condizione (il Super Uomo), ovvero in uno stato di signoria assoluta della sua volontà, deve anche cancellare il suo essere il soggetto del comando, la sua stessa soggettività. Finché io devo aver a che fare con il mio io ne sono limitato, perché ne devo tener conto. Non sono dunque assolutamente signore e padrone di ciò che appartiene all’accrescimento di una volontà che diventa sempre più potente: per il potenziarsi della volontà, questa deve eliminare il soggetto che comanda, deve diventare cioè oltre soggettiva. La volontà dovrà essere questa condizione post umana, che costituisce il crescersi e il potenziarsi della volontà di nessuno, nel caos della necessità. Per puntare ad una spiegazione scientifica del se stesso l’uomo dovrà padroneggiare la sua volontà per essere signore scientificamente del suo io, cancellando la sua soggettività: non avverte più il fare i conti con se stesso. Si afferma la volontà del nessuno nel caos della necessità. Nel maturare l’inversione di valori pensata da Nietzsche il comandare consiste pertanto nell’avviare e marcare l’itinerario dell’oltre soggetto, oggi fattosi concreto nell’uomo post-umanesimo, dove l’arte è senza artista e la scienza giuridica è senza giurista poiché queste due regioni si sono strutturate nella progressiva rimozione di una soggettività esercitata da chi risponde-di-a, dunque pure della soggettività dell’artista, che risponde del bello, e della soggettività del giurista, che risponde alla ricerca del giusto e del legale. Si assiste ad una inversione del valore del diritto, nel quale il sistema normativo diventa un sistema immunitario, modellato secondo le operazioni dei sistemi biologici, in cui l’arte è sostituita dalla tecnica dell’uomo-software. Scheler: in Nietzsche non ci sono fenomeni morali, ma ci sono soltanto interpretazioni morali di fenomeni morali. Queste interpretazioni morali di fenomeni morali sono esse stesse extra morali, ovvero sono soltanto di natura biologica. 112 Non ci sono fenomeni giuridici, ma ci sono soltanto interpretazioni di fenomeni giuridici, e queste interpretazioni giuridiche di fenomeni giuridici sono esse stesse delle interpretazioni extragiuridiche, ovvero sono interpretazioni da riferire al nessuno della vita, all’essere uguale divenire, al caos che si intreccia con la necessità lasciando presentarsi una scienza che si limita alla constatazione di una combinatoria che non è imputabile ad un singolo e neanche ad un insieme di singoli, ma è soltanto l’essersi dato di un accadimento invece di un altro accadimento. 113 Lezione 24: 'Inversione dei valori' e 'nichilismo giuridico' Nell’‘inversione dei valori’ perseguita da Nietzsche, il nichilismo giuridico è la negazione delle regole che precedono le condotte, perché regola e regolato coincidono ora nell’essere=divenire del Nulla e dunque il diritto non viene né violato, né rispettato, ma è l’Accadere senza un senso. È ‘giusto’ ciò che ha già fattualmente vinto. Negato il legame tra la verità(logos) e la giustizia(nomos), le espressioni ‘giusto processo’, ‘gradi di giudizio’, ‘errore giudiziario’, ecc. perdono ogni significato. La spiegazione scientifica dell’uomo ed il nichilismo ‘perfetto’ si alimentano reciprocamente e si concretizzano oggi nell’usare il diritto come sistema immunitario del fondamentalismo funzionale, orientato dal mercato. Nella descrizione che Nietzsche fa della morte di Dio e quindi dell’”inversione dei valori” (nella morte di Dio), si apre l’itinerario per una coerente concretizzazione del nichilismo giuridico, itinerario che muove attraverso una serie di fasi, dove i passaggi centrali sono la negazione della distinzione tra la regola e del regolato perché nel nichilismo giuridico regola e regolato finiscono per essere coincidenti. Si afferma il nichilismo ( e quindi non c’è né un perché né uno scopo) ma c’è soltanto l’essere che è uguale al divenire, anzi uguale al vivere. Ciò proprio perché cade la distinzione tra regola ed il regolato, distinzione che è esclusiva dell’uomo; nella vita dei non umani e nel funzionamento delle c.d. macchine intelligenti, non c’è alcuna distinzione tra regola e regolato, c’è sempre perfetta coincidenza. Il nichilismo giuridico è proprio la negazione di questa differenza tra regola e regolato, e dunque si è sempre innocenti, si è sempre irresponsabili, a dover rispondere DI davanti a qualcuno. Questo negare la differenza tra la regola e il regolato porta al costituirsi di un passaggio fondamentale, cioè il passaggio dal diritto dell’uomo al diritto nell’uomo. Così come ci sono le leggi nelle cose ma non ci sono le norme delle cose, così anche nel nichilismo giuridico si ha soltanto un diritto nell’uomo (ovvero un insieme di operazioni giuridiche che funzionano nell’uomo) e non il diritto dell’uomo. Il diritto non è il contenuto di ciò che è preteso dal singolo soggetto, ma è ciò che accade negli uomini. Per questo si ha nichilismo perché si ha soltanto una constatazione di vicende operazionali, di accadimenti. C’è un darsi di alcune leggi che funzionano nei viventi e nelle macchine, ma non c’è il diritto dell’uomo, quel diritto che l’uomo pretende perché nel suo relazionarsi con gli altri permane sempre la scissione tra la regola e il regolato, cioè tra il principio giuridico che qualifica l’uomo nelle sue condotte e le sue condotte che sono scelte, definite conformi o no a giustizia, conformi o no ai principi giuridici. Per Heidegger il capovolgimento dei valori di Nietzsche ha questo ragionamento. Perché i valori della giustizia, della relazione di riconoscimento, del rispetto giuridico dell’altro, della proprietà 114 dell’altro, che sono sempre comparsi nella storia del pensiero giuridico, dovrebbero continuare ad esserci? Questi valori, dice Nietzsche, a che cosa servono se non garantiscono la certezza, se non garantiscono con certezza sia la via sia i mezzi per realizzare ciò che è il loro stesso contenuto. In fondo questi valori se continuano a permanere nell’ambito della differenza tra la regola e il regolato, questi valori non hanno mai la certezza della loro realizzazione, rimarrà sempre possibile che si affermi un valore e che poi il valore così affermato non trovi nessuna certezza, anzi trovi la sua stessa negazione nella realtà del coesistere degli uomini. Ma se non ha certezza un valore allora appunto dice Nieztsche a cosa servono i valori? La risposta è che i valori non servono a nulla e quindi vanno capovolti; il capovolgimento porta a considerare che non c’è più nessuna distinzione fra scopi e mezzi, fra fini e strumenti, tra la regola ed il regolato. C’è soltanto questa fluidità dell’accadere degli eventi che interessano la coesistenza degli uomini. I valori sono criticati da Nietzsche perché nella loro struttura non hanno la certezza del loro concretizzarsi, lasciano sempre apparire questa scissione fra ciò che è una regola e un principio, e ciò che è l’insieme delle condotte che ricevono qualificazione da questo principio, ma permanendo questa scissione i valori sono lasciati a loro stessi, a non potersi realizzare, dunque non garantendo la certezza vanno capovolti. I valori affermati nella vita concreta del diritto diventano semplicemente una prospettiva, ovvero un punto di vista; il valore diventa lo stesso identificarsi tra scopo e mezzo, la non scissione tra scopo e mezzo, il valore diventa il fluire di ciò che si afferma. E ciò che si afferma, una volta che si è affermato è ciò che è accaduto, ed essendo già accaduto il diritto non ha che da constatarlo, non ha che da nominarlo. Dunque in questo capovolgimento dei valori il diritto diventa la legalità, la legalità che è soltanto il mettere in espressioni scritte o orali ciò che è già accaduto; ciò che ha già vinto, ciò che è certo perché già si è dato. I valori sono pertanto delle prospettive, degli strumenti, dei punti di vista che si coappartengono al procedere stesso dell’essere uguale al divenire, sono quei fatti che si sono già dati e che essendosi già dati sono dunque già avvenuti e quindi si sono già imposti e questo essersi imposti è diventato il contenuto della legalità vigente. Per quanto riguarda anche i concetti fondamentali che vengono pensati nella filosofia del diritto contemporaneo si ha un capovolgimento totale del concetto di giustizia: in questa visione la giusti zia non è più l’insieme dei principi e dei valori che precedono e qualificano le azioni e le condotte degli uomini al di là del loro avere o non avere successo; la giustizia è l’insieme dei principi e delle valutazioni che dicono ciò che appartiene al giusto, ciò che appartiene al modello principale della relazione giuridica giusta che è una relazione di riconoscimento reciproco incondizionato ed universale, che poi si concretizza nei molti itinerari. La giustizia diventa invece la giustificazione, ciò che prende atto, osserva quanto è già accaduto. Arriva sempre a cose già fatte. Non si può 115 pretendere la giustizia, ma si può soltanto eseguire ciò che avendo già vinto si è affermato, e viene constatato e trova una formulazione nelle espressioni costitutive la legalità. La giustizia non è più quel che precede le condotte e quel che viene dopo i conflitti fra gli uomini. E’ ciò che giustifica, ovvero esprime in formule, le operazioni che hanno vinto; attualmente mette in formule ciò che funziona di più. Sono le formule della legalità, che sono le formule che hanno avuto successo, che funzionano meglio. Siamo nel sistema del fondamentalismo funzionale. Questo sistema è la cancellazione dei diritti della soggettività, è la cancellazione dei diritti soggettivi; se la giustizia diventa giustificazione si limita, quindi, semplicemente a prendere atto di ciò che ha avuto successo, di ciò che è tale perché volta per volta nella combinatoria dei fatti è riuscito ad emergere con assoluta indifferenza verso un diritto soggettivo incondizionato e universale appartenente alla struttura dell’uomo in quanto uomo. Non c’è più in questo passaggio, costituito dall’inversione dei valori e dal trasmutarsi della giustizia in giustificazione, nessuna possibilità di nominare la garanzia dei diritti soggettivi dell’uomo in quanto uomo, si danno soltanto strumenti della legalità, ma sono a vantaggio di chi? Sempre più nella condizione della società contemporanea cresce una civiltà de-soggettivizzata, senza un volto, senza attenzione alla singolarità alla infungibilità del volto di un singolo; tutto questo cresce perché il sistema del fondamentalismo funzionale non appartiene ad alcun uomo, non è nel potere di nessun uomo ma neanche di un gruppo di uomini il sistema del fondamentalismo funzionale che, sembrerebbe paradossale, è di nessuno, nel senso che non appartiene agli uomini in quanto uomini; appartiene agli accadimenti che finiscono per usare gli uomini, appartiene a questo continuo fluire delle vicende dell’essere che è divenuto uguale al divenire, divenire che consuma tutto ciò che appartiene alla singolarità di ogni soggetto. Consuma lo stesso concetto di libertà, che finisce per essere cancellato, come dice esplicitamente Dennett, che riferendosi all’inversione dei valori e alla spiegazione scientifica dell’uomo dice: “ la libertà è soltanto un vero e proprio museo degli orrori”, un qualcosa che va definitivamente dimenticato; museo degli orrori in senso logico, perché tutto ciò che è stato nominato con il termine libertà non è stato spiegato scientificamente; ma una volta ricevuta una spiegazione scientifica la libertà si spegne, cade, diventa semplicemente una favola che gli uomini hanno raccontato, ma che ha consumato gli uomini stessi, secondo la prospettiva di Nietzsche. E però se questa è la condizione contemporanea diventa sempre più difficile riferirsi al fenomeno diritto, alla sua peculiarità, se non c’è libertà, se la libertà si lascia spiegare, se la libertà è stata una favola raccontata a vantaggio dell’accrescimento della volontà di volontà. Se ciò è vero allora il diritto non ha senso di essere, perché senza la struttura esistenziale della libertà mai scientificamente 116 spiegabile, viene meno il momento dell’imputabilità, della responsabilità, viene meno qualsiasi ragione per entrare in un palazzo di giustizia. Senza libertà non c’è ragione perché un uomo entri nel palazzo di giustizia e si presenti davanti ad un terzo per attendere un giudizio giuridico, senza libertà il palazzo di giustizia non è più il luogo dell’arte e dell’interpretazione giuridica, ma diventa uno spazio dove sistemare disfunzioni fisiologiche relative all’ordine dei sistemi biologici o alcuni guasti dell’ordine dei sistemi dell’intelligenza artificiale. Si cancella così l’imputabilità e la responsabilità e in tal modo il diritto: in tal caso però in questo palazzo di giustizia si prende atto che la libertà è tutt’altra cosa da quella che l’uomo continua a pensare ogni volta che incontra se stesso o gli altri e mette in discussione la qualità della relazione con gli altri. Ma se la libertà è spiegata, se il diritto diventa inutile e senza senso, si dimentica, come dice Fabro, che la libertà per definizione è ciò che non si può anticipare. Non si può ridurre la libertà a certezza e perdere quindi l’impegno per la libertà. Ridurre la libertà a un processo certo è trovarsi davanti all’insignificanza della libertà. Che la libertà non si può anticipare significa che la libertà non può essere posta in un sistema di tipo funzionale. Nella condizione contemporanea significa che la libertà non può essere posta in uno dei sistemi funzionali che sono gerarchizzati dal sistema mercato, che funziona perché è il luogo della produzione del consumatore, che costituisce una modalità di anticipare la libertà; intanto il mercato è il sistema che domina gli altri sistemi sociali perché è quel sistema dove si produce la figura del consumatore, che è un modo di produrre la libertà, e in questo senso la libertà si lascia pertanto anticipare e lasciandosi anticipare non ha niente a che vedere con la libertà, perché viene ridotta a certezza da una programmazione volta appunto a produrre la figura del consumatore (libertà ridotta a certezza delle operazioni produttive). La libertà che riguarda il diritto è il trovarsi sospesi davanti al dire sì o no, è il trovarsi non anticipabile nello scegliere una condotta invece di un’altra, nel compiere con lealtà il formarsi di una convenzione tra gli uomini oppure l’essere sleali nel formarsi di un convenire tra gli uomini. ma in queste alternative è in gioco ciò che non si lascia anticipare, cioè l’oscillare tra la verità e la falsità. La libertà divenuta anticipabile – uno tra gli elementi che servono ad una efficace produzione del consumatore - serve a questa nuova figura di uomo emergente, che nella stessa direzione di Dennett, viene descritto come un informivoro biologico, cioè un informivero più rispetto a tutti gli altri informivori biologici; tutti gli animali nella loro struttura sono caratterizzati dall’essere degli enti informivori, ovvero dall’assimilare delle informazioni. A differenza degli enti non umani, l’uomo sarebbe un vivente più sviluppato, un informivero più, un ente con una struttura informazionale più efficiente, più funzionale, più accresciuta. Però in questo spazio dove risiede 117 l’uomo come ente informivero cade anche la progressiva assimilazione dell’uomo verso gli altri enti informivori, in particolare verso gli infoggetti, ovvero le macchine intelligenti, anch’esse fuori dalla libertà. Il giudizio può essere emesso soltanto da un uomo perché solo l’uomo può incontrare la soggettività di un altro uomo, solo l’uomo può cogliere gli elementi essenziali dell’uomo che lo costituiscono nell’esercizio della sua libertà e quindi a lui imputabile. Però nella condizione contemporanea si scivola in questo momento centrale della libertà che è il momento iniziante il diritto, iniziante l’intera vicenda della giuridicità. Non a caso Nancy, nella sua opera “L’esperienza della libertà”, dice che la libertà è senza un chi, forse è nient’altro che una entità informivora, più complessa di altre entità informivore come ad esempio le entità dei viventi non umani. La libertà non è regolata da alcuna legislazione, non si basa sul alcun diritto, ma semplicemente è questa forma di evento che è un diritto senza diritto, per cui occorre intendere la libertà come fatto. La libertà è la pretesa funzionale propria dei sistemi biologici e macchinali, a funzionare più, pretesa però non disciplinata. Non c’è un diritto a selezionare quali siano i contenuti di questa pretesa giuridica, di quando si pretende la garanzia giuridica della libertà: la libertà non è altro che un fatto, distaccato anche dal proprio stesso evento, non la si può fissare in nessun accadimento. “La libertà è il taglio nel tempo, è il salto nel tempo.” La libertà è questa sorta di miraggio, che compare senza uno scopo, senza un perché, è ciò, come diceva già Nietzsche e poi Heidegger, che si dà nella combinatoria tra il caos e la contingenza della necessità, ovvero delle cause. Quando si combina ciò che è occasionale e ciò che è necessario, non c’è nulla cha abbia una ragione. Perché caos e contingenza svuotano ogni ragione: tutto accade senza uno scopo, senza un perché, si dà perché di fatto accade. La libertà sarebbe allora nient’altro che questo darsi di un evento che si stacca anche dal suo stesso avvenire dal suo stesso accadere. Si apre un itinerario senza uno scopo verso un altro possibile accadimento: cioè si afferma la fine della questione del senso. Rimane una utilizzazione del termine senso che si riferisce al sistema del fondamentalismo funzionale, laddove ciò che accade avviene dal porre in essere un insieme ma senza alcun riferimento responsabile e giuridicamente imputabile ad alcuna libertà, quando si dice tutto questo si dice, certo, che è un funzionamento di un senso, nel senso che funziona un assemblaggio di accadimenti, funziona un combinarsi di insiemi di elementi. Ma che si dia un funzionamento di un senso non significa che abbia un qualche senso il funzionamento. Il diritto non ha dunque come sistema nessun senso, ma c’è solamente il funzionamento del senso delle operazioni giuridiche, ovvero dell’efficacia del funzionare delle operazioni che appartengono all’ordine del legale, ma 118 manca alcun interrogativo sul senso del funzionamento del legale, su ciò che è giusto nel funzionamento del legale. Si afferma quindi quello che è già anticipato profeticamente nella filosofia di Nietzsche, ossia volere è voler essere signore. Il volere vuole solo il suo volere, …..vuole il suo volere più forte…, vuole soltanto potenza, ma la potenza è potenza solo fin quando è concepita nella esclusiva direzione dell’accrescimento della potenza stessa. E dunque rimane soltanto questa celebrazione di un volere di un’efficienza, che però non possono appartenere a nessuno, non possono essere tali da poter essere riferiti ad una libertà, perché se fossero riferite – la potenza e il volere – ad una libertà sarebbero riferite ad un soggetto, ma se fossero riferite ad un soggetto sarebbero riferite ad una entità che dura, perché il soggetto dura, ma se il soggetto dura è un ostacolo all’accrescimento assoluto della volontà, il soggetto e lo stesso io si deve spegnere, deve lasciare spazio negando la stessa struttura dell’io all’insieme degli accadimenti che attraversano la condizione umana. Non dunque il diritto dell’uomo inteso come il diritto del soggetto, ma il legale nell’uomo avvero l’accadere dell’insieme delle operazioni giuridiche che si servono dell’uomo come uno spazio dove poter trovare la loro realtà. Si torna così all’affermazione centrale della lettura del nichilismo giuridico, lettura rivolta alla descrizione della condizione contemporanea, dove si afferma il sistema del fondamentalismo funzionale che pretende che la funzione della funzione è la funzione (Luhmann): quindi nessuna attenzione può essere data ai diritti incondizionati dell’uomo, nessuna garanzia può essere data alla libertà del singolo che entra in contatto con la libertà di altri singoli. Si possono dare soltanto nomi giuridici, strumentazioni legali, strutturate in forma logico formale, che possano servire come condizioni di accrescimento e di potenziamento del funzionare più, che però non appartiene a qualcuno, ma è di nessuno. In questa prospettiva si ha il passaggio dal diritto dell’uomo, che è di qualcuno, al diritto nell’uomo, che è di nessuno. Si ha la teorizzazione del nichilismo giuridico perfetto; si ha il compimento del nichilismo giuridico perfetto nelle modalità attuali del fondamentalismo funzionale (ovviamente non presenti ai tempi di Nietzsche). La negazione della soggettività e lo svuotamento della questione del senso costituiscono la tesi principale di questo studio: la spiegazione scientifica dell’uomo (neurobiologia-intelligenza artificiale) ed il nichilismo (libertà=nulla di senso) si concretizzano attualmente nel nichilismo giuridico perfetto, che usa il diritto come apparato immunitario del fondamentalismo funzionale, circolarmente effeto e causa del Mercato=potere. 119 120 Lezione 25: La funzione del diritto come sistema: il self-service del diritto Nella situazione contemporanea, la forza più si specifica nel funzionare più ed i nuovi valori, che Nietzsche ‘inverte’, diventano quelli che consistono solo nel successo contingente necessario della loro concretizzazione sistemico funzionale. Questo esito trova espressione nella tesi di Luhmann ‘la funzione della funzione è la funzione’, che nientifica la prospettiva del pensiero, connessa al libero donare perché consiste nel prendersi, con gli altri, un gratuito, disfunzionale intervallo di senso, creativo e non producibile nel mercato. Attualmente nel funzionare più dei canali mercantili viene esposto anche il self service di un diritto prodotto e consumato tra le merci post umane del nichilismo ‘perfetto’. L’interpretazione filosofica del diritto è un lavoro che per un verso coglie gli aspetti peculiari di questo fenomeno, che sono elementi che non hanno una struttura storica, ovvero sono degli elementi che fenomenologicamente distinguono il fenomeno diritto dagli altri fenomeni. Dall’altro verso questa opera di interpretazione filosofica del diritto coglie questo fenomeno, avendone descritto gli elementi che lo differenziano dagli altri fenomeni, lo coglie nella sua storicità, ovvero nomina il diritto avendo attenzione a che ne è della giuridicità nella condizione storica contemporanea. Proprio nell’attenzione alla contemporaneità si coglie questa tendenza a che il pensiero giuridico diventi sempre più soltanto un pensiero funzionale: emerge la funzionalità nel pensiero giuridico e perde quei caratteri che sono propri del pensiero in generale. Il filosofo contemporaneo francese Nancy ricorda che il pensiero ha sempre una struttura che è quella della gratuità donativa. Il pensiero, essendo nel suo sorgere legato alla ricerca del senso è anche connesso a donare quel che è il risultato, a donare la presentazione della ricerca del senso. Il pensiero giuridico ha questa struttura donativa; attualmente vi è invece la tendenza a rimuovere la gratuità del pensiero perché si afferma la dimensione funzionale della giuridicità. Il diritto non viene più proposto nella struttura che appartiene e che distingue il pensiero, ma viene proposto in una sorta di self service normativo, laddove in quella singola contingenza storica si prendono gli elementi che servono per far funzionare meglio la realtà, l’insieme delle operazioni giuridiche. Questa caduta del donare del pensiero nel self-service normativo torna a far emergere la opportunità di ripensare quel che lega la verità e l’arte nel diritto. 121 Nel lavoro di Heidegger (seminari del 37 e del 44) sull’interpretazione di Nietzsche, si rileva come la verità e l’arte siano i valori più alti perché servono al mantenimento del continuo accrescersi della stessa volontà di potenza. L’arte apre all’uomo la possibilità di accrescimento della vita – così dice Heidegger leggendo Nietzsche – l’arte avrebbe una capacità esclusiva di schiudere all’uomo un accrescimento dell’intensità della vita; dunque sarebbe l’arte un valore più alto della verità. Perché la verità si limiterebbe a dire quella che è una condizione statica della vita, mentre l’arte aprirebbe itinerari altri, dei cammini che consentirebbero di accrescere la dimensione più vitale della vita, al di la del semplice enunciare statico di quello che è la vita. Ed è per questo che lo stesso Nietzsche finisce per dire che noi abbiamo l’arte per non perire a causa della verità. Dice Nietzsche che gli uomini si giovano dell’arte per non perire a causa della verità, ovvero per non spegnersi nel ripetere ciò che la verità enuncia. L’arte sarebbe questo oltre rispetto alla libertà, perché in grado di liberare delle forze essenziali che permettono di schiudere nuovi cammini, intraprendendo l’apertura alla sensibilità, all’ebbrezza, alla sovrabbondanza animale. Sono queste tre chiavi che permetto no di liberare delle forze che vanno oltre la semplice staticità di ciò che è vero. L’eccedere dell’arte rispetto alla libertà porta ad avere una sorta di continuo riprodursi di strumenti che servono ai cammini dell’arte, e per tale via ad aprire un potenziarsi del vivere che è il terreno dove la volontà riesce a diventare più forte: l’arte aprirebbe l’equivalenza tra il vivere e una volontà che accresce la sua stessa potenza. Ma in questo itinerario l’arte finisce per dimenticare quel che sarebbe del soggetto dell’arte, si comincia cioè ad affermare, nella direzione di Nietzsche un’arte senza artista, che serve ad accrescere la potenza stessa della volontà senza avere riguardo alla creatività del singolo artista, alla soggettività di quel singolo uomo che ricerca la creazione di senso e così attiva l’opera che è peculiare dell’arte. Ma attualmente l’arte non serve solo ad accrescere la potenza della volontà, attualmente l’arte si macchinalizza, perde la sua struttura creativa ed acquista una struttura strumentale, l’arte serve a potenziare non tanto ciò che ha più vita ma a potenziare ciò che funziona in modo più forte. Serve a far crescere il sistema del fondamentalismo funzionale, che tutto ingloba, che tutto gerarchizza. Nel procedere oggettivante delle tecno scienze si dei programmi che producono altri programmi, che accadono nelle c.d. macchine intelligenti, che sono indifferenti alla presenza di un soggetto ovvero di un autore, che sono indifferenti alla presenza di un chi di un uomo che sia colui che ne produce la scelta, i programmi che producono programmi non 122 appartengono a nessuno, appartengono a questa civiltà che è sempre più una società senza volto. Ma questi programmi sono il modello che rappresenta il riferimento delle diverse scienze, che si preoccupano di un funzionamento più efficace ma non si interrogano più sul senso del funzionamento: così cresce la biologia, come una delle tecno-scienze, e con il crescere di tale scienza non ci si interroga più sul senso della vita, in quanto la biologia si confina nel descrivere i fenomeni vitali ma certo non si dà delle domande sul senso della vita, perché solo chiudendosi alle domande sul senso della vita può crescere come una delle tante scienze che sono al servizio del fondamentalismo funzionale. La stessa scienza giuridica non si interroga sul senso del diritto, continua ad avere a che fare con la verità e la giuridicità, che però diventano strumenti, modalità tecno-funzionali di ciò che serve al funzionamento efficace delle operazioni giuridiche ma non si apre alcuna domanda sul senso del diritto. Dunque, così come aveva profetizzato Nietzsche, il diritto diventa un’arte senza giurista, che è un’arte senza artista, perché la permanenza di un artista costituirebbe un limite in questo progressivo tendere al potenziarsi della volontà di volontà, sarebbe un confine, sarebbe un fissare una durata e dunque un ostacolo all’accrescimento inesauribile senza autore, senza volto della stessa volontà di potenza. Così come un’arte senza artista serve ad accrescere la volontà di volontà, così parimenti si ha una scienza giuridica senza giurista. Perché la permanenza di un giurista significherebbe la permanenza di una soggettività e la soggettività ha come sua struttura temporale la durata. Ma ciò che dura ostacola il divenire inesauribile, il divenire che è uguale all’essere. La permanenza di un giurista significherebbe la permanenza di una soggettività che si pone domande sul senso del diritto, ostacolando in tal modo questo accrescimento del potere, della volontà di potenza che non appartiene a nessuno: né ai soggetti di diritto né ai giuristi in quanto soggetti. Si accresce questa potenza della volontà giovandosi anche della scienza giuridica, avendo però spogliato la scienza giuridica sia del giurista, che ha una sua soggettività, sia di un riferimento ai soggetti di diritto, cioè agli uomini in quanto portatori di diritti che sono incondizionati. Si avrebbe soltanto un crescere dei fatti vincenti, ovvero si avrebbe una compiuta inversione dei valori. Nella costruzione di Nietzsche i valori classici sono stati cancellati, perché non garantivano la certezza della loro realizzazione, si misuravano sempre poi con la risposta della libertà dell’uomo in termini di loro realizzazione o meno. E’ per questo Nietzsche l’inverte, perché ciò che ora costituisce il valore è l’affermarsi stesso di ciò che accade, che accade perché selettivamente emerge nel suo essere portatore di una capacità e di un funzionamento più efficace. 123 Dunque l’arte diventa l’arte senza artista che prepara il modello di una scienza giuridica senza giurista, scienza dove emerge la nuova figura del tecnico delle norme che viene a sostituirsi al giurista. Nella scienza giuridica del sistema del fondamentalismo funzionale, nell’inversione dei valori classici, viene cancellato anche il concetto fondamentale del diritto che è la terzietà. La terzietà è imparziale, è disinteressata e quindi non è neanche dalla parte del funzionare più efficace dei molti sistemi sociali. Essendo imparziale e disinteressata non è al servizio del sistema oggi dominante che è quello economico e del mercato, che a sua volta si inscrive nel sistema del fondamentalismo funzionale. La terzietà non è un apparato al servizio del funzionare più efficace. La terzietà dice la connessione tra la verità e la giustizia garantendo il rispetto dei soggetti delle relazioni giuridiche, perché custodisce i soggetti del diritto nel loro non essere riducibili a delle unità di conto, così come invece chiede il sistema del mercato e il sistema del fondamentalismo funzionale. Invece, come già anticipato da Nietzsche, apparterrà alla giustizia, divenuta una giustificazione e semplicemente lo stare a vedere ciò che si afferma nei fatti, il trattare ciò che incontra nella scala dei numeri e delle misure svuotando l’uomo della sua soggettività. Nella profezia di Nietzsche si dice che il diritto diverrà un bio-diritto, modellato dai sistemi biologici. Attualmente il bio-diritto è sempre più ibridato con i sistemi dell’intelligenza artificiale, e in questo processo ibridativo il biodiritto diventa un diritto bio-informazionale, ovvero un diritto che ha una componente modellata nell’ordine biologico ed una componente che è modellata nell’ordine informazionale tipico dell’intelligenza artificiale. Ma entrambi i due piani, del biologico e dell’informazionale, sono dei piani dove dell’uomo tutto si lascia ridurre in un quantum, tutto si lascia numerare, tutto si lascia essere in un sistema di funzione dove il diritto è un self service posto in un linguaggio di tipo numerico, perché prende ciò che nella riduzione alla strumentalità del diritto serve a potenziare il sistema del fondamentalismo funzionale. In un linguaggio di tipo numerico non c’è spazio più per il silenzio, dopo un numero ne viene subito un altro, non c’è spazio per nessuna riflessione. Nel linguaggio numerico digitale non c’è margine per l’attesa creativa che è propria del soggetto parlante, cioè l’attesa che appartiene al silenzio, perché nel silenzio c’è una crescita della ricerca del senso. Ma il silenzio non si dà in nessuna successione numerica, vi è una continuazione senza intervalli, senza silenzi e quindi si ha assenza della stessa libertà, perché la libertà sorge proprio in questo intervallo del silenzio, dove il silenzio si pone la questione del dubbio e del domandarsi perché in modo diverso sceglierà poi come orientare le sue condotte. Sceglierà come mettere insieme con gli altri una formazione di 124 coesistenza che sarà ambientata nelle istituzioni giuridiche: le istituzioni giuridiche nascono da questo silenzio, da questo intervallo che è assente nei linguaggi numerici di ogni genere, ed è assente nel linguaggio numerico digitale dell’intelligenza artificiale. Nello spazio del silenzio nasce l’opera dell’istituire, che abbia vita la seconda vita, che è una vita al di là di ciò che vive nell’ordine del biologico non umano e di ciò che funziona nell’ordine macchinale trattato dall’intelligenza artificiale. Istituire una seconda vita è istituire la vita del diritto, che è principalmente ciò che conferisce un senso alle aspettative e alla ricerca della significatività del futuro. Nella tendenza contemporanea il valore del diritto è situato nella struttura del mercato dei prezzi, configurato da una dimensione del quantum, dove ciò che ha un senso (in senso solo funzionale e non esistenziale) è la dimensione procedurale del diritto. A differenza della dimensione selettiva dei contenuti, a differenza dell’arte della ragione giuridica che è preoccupata di incontrare la qualità delle relazioni degli uomini (sempre esposta fra questi due poli fondamentali in opposizione che sono il rispetto verso l’altro o la violenza verso l’altro) , la dimensione procedurale non si occupa della qualità della selezione dei contenuti, di ciò che disciplina la relazione tra i soggetti, ma interviene come un insieme di strumenti, come ciò che si può prelevare da questo self service normativo per far funzionare in modo più efficace le operazioni dei molti sistemi di funzione. Si tralascia quindi la dimensione sostanziale legata all’esistenza del soggetto di diritto, l’elemento costitutivo della polis, nel concetto greco iniziale, definito da Fink il luogo del sapere discorsivo, di un linguaggio che si mantiene sempre nella trialità del discorso, di un discorso dove ogni parlante è garantito nel suo poter prendere una parola che è originale e creativa. Ma questa dimensione della polis come luogo del sapere che custodisce la trialità della discorsività comunicativa, si allontana sempre più dalla struttura contemporanea per lasciare emergere invece la dimensione della scienza giuridica senza giurista, dove è assente il giurista uomo, che è impegnato nella argomentazione e nella interpretazione che si radicano nella trialità dell’uomo sempre certo avendo attenzione alla terzietà del nomos. La scienza giuridica diventa scienza giuridica senza giurista e dove ha rilievo solo il polo del legale opposto al polo del non legale: il diritto diventa un self-service normativo, dove volta per volta si usano gli strumenti del legale che servono a far funzionare in modo più efficace le operazioni dei molti sistemi sociali, il tutto nella indifferenza per il costo esistenziale del successo delle operazioni dei molti sistemi sociali (senza avere attenzione ai diritti dell’infanzia, senza alcun riferimento in questo sistema mercantile al darsi o non darsi dei diritti dell’uomo che nella globalizzazione del mercato diventa un disturbo, solo un rallentamento alla velocità degli scambi). Il diritto finisce però per essere al servizio dei sistemi senza alcun riferimento alla soggettività degli uomini. 125 Tutto questo non vuol dire che si deve dire no alla scienza e alla tecnica nella critica al sistema del fondamentalismo funzionale, ma la domanda che si deve porre il filosofo riguarda il rapporto con le norme giuridiche che garantiscono la qualità della relazione tra gli uomini che non si lasciano semplicemente servire il sistema del fondamentalismo funzionale. Si deve certamente dire sì alla tecnica, alla tecnologia, alle scienze, al progresso scientifico e tecnologico, ai sistemi informatici, all’intelligenza artificiale, se questo insieme di elementi, di apparati cognitivi, scientifici e tecnici siano asserviti alla non assoggettabilità dell’uomo ad un semplice funzionamento tecno-scientifico. La giustizia non può servire semplicemente alla sicurezza e certezza del funzionamento del mercato o del fondamentalismo funzionale. La giustizia deve essere orientata a custodire l’uomo nella sua irriducibilità ad essere una merce tra le altre, ad essere un oggetto usato e consumato come gli altri oggetti. Uomo pensatore e non uomo semplice consumatore. L’antropologia attualmente respirata nella cultura contemporanea è quella che si regge in questa formula: “emo ergo sum”, ovvero compro dunque sono, non si tratta più di dire con Cartesi “cogito ergo sum” (penso dunque sono), ma si tratta ormai di praticare nell’assenza di qualunque valutazione della soggettività, che ognuno è soltanto se compra, se si lascia plasmare dall’attività produttiva che costantemente configura l’uomo semplicemente come un consumatore giovandosi del diritto come un semplice self service normativo indifferente agli interrogativi sul senso esistenziale dell’uomo. Trascurata la priorità del giusto/non giusto a favore del legale/non legale, quello che opera è il tecnico delle norme, non più giurista e non ancora software. Non è più giurista perché non compie una opera d’arte secondo i concetti fondamentali del pensiero, che enunciano e discutono il rapporto dell’uomo verso le forme storiche del diritto positivo, interrogandosi sul giusto. Non è ancora software perché continua a ragionare con i concetti fondamentali delle teorie del reale e quindi non è ancora configurato dalla dimensione del linguaggio numerico digitale. E’ una intelligenza a-giuridica, come lo è la prassi del tecnico delle norme, che troverà il suo compimento quando diverrà un software. 126 Lezione 26: La libertà del soggetto di diritto, oltre gli enunciati della legalità I concetti giuridici fondamentali di ‘giusto’ ed ‘ingiusto’ non coincidono con quelli di ‘verificato’ e ‘non verificato’, usati nelle tecno scienze. Il temine ‘giusto’ nomina una qualificazione del relazionarsi che rimane sottratta ai modelli conoscitivi dei processi vitali; impegna l’arte del giurista, oltre la tecnica dei ‘sistemi di funzione’. La libertà del soggetto di diritto è considerata dalla giustizia che eccede gli enunciati della legalità; la libertà non è una operazione scientificamente ‘verificata’ riducibile in un accadimento bio macchinale ‘innocente’, privo di pathos e senza un ‘sé’ imputabile davanti al terzo Altro; neppure è un ‘valore sintomo’ dei sistemi vitali che eseguono leggi, ma non esercitano la pretesa di diritti. Nella scienza giuridica diritto e verità sono concetti fondamentali che, letti nella direzione di Nietzsche diventano valori capovolti, ovvero punti di vista, funzioni della conservazione di uno stadio della vita-forza, destinato all’accrescimento della volontà di potenza nel suo divenire=essere=vivere. La discussione sull’arte e il diritto comporta un inevitabile riferimento al rapporto tra la tecnica e il diritto e questo perché i concetti giuridici fondamentali di giusto ed ingiusto, che non sono ineliminabili nel lessico giuridico né nella dottrina del diritto né nella esperienza quotidiana della giuridicità, non coincidono mai con quelli di ‘verificato’ e ‘non verificato’, usati nelle tecno scienze (Scheler). Ciò che non è verificato è detto tale perché tecnicamente, sperimentalmente non è verificato. I concetti di giusto ed ingiusto si radicano, si alimentano costantemente alla dimensione della libertà, che non è una operazione che può essere verificata in modo scientifico. La libertà non può essere incontrata da nessuna tecnica che la possa quantificare e trattare come si trattano gli altri oggetti manipolati dalle tecniche, ma la libertà chiede la dimensione propria dell’arte; l’arte è evocante, dice al di là di ciò che dice. L’arte dunque incontra la libertà, che è sempre sia la libertà che si manifesta, ma sempre simultaneamente è anche la possibilità che la libertà così come si manifesta possa essere orientata a situarsi in un futuro che ha una configurazione diversa: la libertà così come viene esercitata nel presente è sempre incontrata dal soggetto che la esercita nel significato che questo soggetto vorrà darle nel futuro. La libertà è ciò che si manifesta ma simultaneamente è anche ciò che può situarsi in un futuro che ne dia una configurazione diversa. E dunque essendo la libertà situata sempre principalmente in questa dimensione del futuro non può 127 coincidere con ciò che è verificabile o non verificabile, perché il futuro è tale in quanto non si lascia anticipare. Il futuro della libertà non è qualche cosa che ancora non si conosce e che forse una attività cognitiva di tipo tecnico o scientifico potrebbe completamente esaurire portandolo ad un sapere totale: la libertà è ciò che si sottrae ad ogni sapere anticipatorio, è ciò che costruisce una dimensione originale, creativamente nuova e solo per questo la libertà ha un rilievo giuridico, solo per questo la libertà, nel suo essere non anticipabile, consente di nominare i concetti di responsabilità e di imputabilità. Si deve allora tornare ancora - discutendo come i concetti di giusto e non giusto non siano riducibili ai concetti di verificato e non verificato e come non siano quindi semplicemente riducibili agli enunciati che si lasciano verificare nell’ordine della legalità - a questa affermazione di Heidegger: nella scienza giuridica diritto e verità sono concetti fondamentali. Diritto e verità sono concetti fondamentali perché fanno riferimento a dei valori, che impegnano la esistenza del singolo, la dimensione esistenziale del se stesso e dunque si sottraggono i valori ad ogni verifica di tipo tecno-scientifico, non c’è nessun laboratorio che possa pronunciarsi sulla consistenza tecno-scientifica dei un valore, non ci sono operazioni di tipo statistico o numerico che possano pronunciarsi sui valori. Come dice Scheler, “i valori non sono il prodotto dell’intelletto”, così come non sono prodotto dell’intelletto neanche i principi della logica, quale il principio di non contraddizione, che consente una comunicazione tra i soggetti parlanti ed evita di dare semplicemente corso a delle fughe di idee prive di una coerenza logica. Non sono prodotto dell’intelletto i valori che sono i riferimenti selettivi per nominare ciò che appartiene al diritto dell’uomo e per nominare ciò che è estraneo al diritto dell’uomo. I valori non sono dei prodotti che possono risultare da un’attività costruttiva del fare dell’uomo, non sono i risultati della prassi dell’uomo, ma sono ciò che orientano e qualificano sia la produzione sia la prassi degli uomini. Sempre Scheler continua: se non si conoscono valori più elevati di quelli biologici si deve allora caratterizzare l’uomo - con o senza civiltà - come l’animale che si è ammalato. Quindi il pensiero dell’uomo e quindi anche lo stesso pensiero giuridico si rivelerebbe essere – conclude Scheler – nient’altro che una manifestazione di questa malattia. Ciò perché quello che differenzia l’uomo dall’animale è il porsi il dubbio, il porsi la questione, il questionare, l’interrogarsi. Per quel che attiene appunto al diritto, è il questionare su quali siano i contenuti che possano essere fatti appartenere alla vita delle istituzioni giuridiche, ovvero a questa seconda vita cui costantemente la coesistenza degli uomini dà linfa, dà consistenza. Per una visione biologistica, il dubbio, l’interrogarsi sul senso, ma anche per una visione di tipo macchinale, il dubbio e l’interrogativo 128 sarebbero una condizione di cattivo funzionamento, un ostacolo alla certezza e all’efficacia del funzionare, perché il dubbio lascerebbe apparire una domanda che porrebbe in discussione questo accrescimento costante delle funzioni dei molti sistemi sociali. Attualmente nei sistemi sociali – essendo tutti modelli governati dal sistema del fondamentalismo funzionale - comanda ciò che vince in questo ordine bio-informazionale, comanda ciò che vince perché ha più forza. La tecnica vuole dominare i fenomeni che incontra, per trattarli come materiale del suo stesso accrescimento per un migliore funzionamento; l’arte li vuole interpretare, per mostrarne il senso che si schiude, per aprire rinvii ad altre possibili creazioni di senso. Dunque l’alternativa è tra tecnica e arte del diritto, tra una tecnica che incontra l’uomo per dominarlo come uno tra i molti elementi dei materiali che vengono elaborati tecnicamente in opposizione all’arte che incontra invece l’uomo nello schiudersi della sua soggettività aperta ad un futuro che non si lascia anticipare, il futuro del costante istituire un senso nuovo, di un interrogarsi nel cercare il senso del diritto. Ma il senso del diritto si spegne e si afferma soltanto l’operatività funzionale delle norme, si spegne quindi il concetto di differenza nomologica che tiene insieme il senso del diritto e l’attività cognitiva delle norme: questa struttura che lega norma e diritto si spegne perché nominando il diritto si torna a nominare inevitabilmente la questione del senso, mentre la questione del senso disturba l’efficienza tecnica che non consente intervalli questionanti dove si possano aprire degli interrogativi, ma chiede sempre questo succedersi continuo di un operazione dopo un'altra nel lasciare ciò che funzione di più. Nietzsche aveva intuito questo cadere dell’arte verso la tecnica, lasciando intravvedere il darsi di un’arte senza artista, che finisce per coincidere con ciò che accade senza la soggettività evocante dell’artista, dell’autore dell’opera d’arte. Oggi lasciare accadere ciò che accade è quanto appartiene allo scorrere del funzionamento dei fenomeni vitali, bio- macchinali, sempre più risultanti dalla ibridazione tra i sistemi biologici e i sistemi informatici, che lasciano apparire il diritto come un sistema di norme strutturato secondo un modello bio-informazionale. Come conseguenza parallela all’arte senza artista, una scienza giuridica senza giurista. Jaspers dice che Nietzsche trova in tutti i fenomeni – quindi anche in quelli giuridici - quale fondamento ultimo, la volontà di potenza, e tutte le volte che perviene al fondamento delle cose – che spiegherebbe tutto ciò che accade nel mondo - questo non sarebbe nient’altro che questo accrescimento della volontà vitale nella molteplicità delle sue forme, sarebbe nient’altro che l’accrescimento di ciò che si manifesta essere più rispetto a ciò che si manifesta essere meno. 129 Ma in questo itinerario la libertà è destinata ad essere lasciata fuori, ad essere svuotata, perché la libertà è disfunzionale, la libertà è gratuita, non viene esercitata per un qualcosa, non ha un prezzo, non rientra in questa filosofia dell’emo ergo sum. La libertà è tale perché dice no all’uomo come semplice acquirente di merci, mostrando di prendere distanza dai semplici sistemi di funzione, dal semplice accadere nell’ordine biologico o nell’ordine bioinformazionale. Nella cultura contemporanea il riferimento è a Nancy, che evidenzia la attuale tendenza ad una trasformazione radicale del concetto di libertà ed anche quindi del diritto. Significativa è la definizione che dà Nancy della libertà nella traduzione italiana del suo libro “L’esperienza della libertà”, dove dice:“la libertà si precede e si succede, la libertà si sorprende.” Vuol dire che la libertà è semplicemente questo accadere di qualcosa che acquista i tratti delle condotte umane, ma che non appartiene ad uno scegliersi dell’uomo, quindi dove non risulta giuridicamente responsabile, imputabile giuridicamente. Se la libertà è soltanto questo sorprendersi, questo trovarsi in uno spazio discontinuante, questo trovarsi in uno spazio libero, allora la libertà non lascia molto spazio al darsi del diritto. La libertà coincide con la condizione di innocenza dell’uomo, coincide con un vagabondare del soggetto che è irresponsabile. Se la libertà è soltanto questo trovarsi in spazi nuovi, e detti impropriamente liberi, ma che non hanno a monte alcuna scelta, se la libertà è soltanto questo la libertà non lascia spazio per il darsi neppure per una scienza del diritto, certo neppure di una filosofia del diritto. Questa libertà avrebbe a che fare con un completo trasformarsi del concetto di decisione. La libertà ha un rilievo per la giuridicità perché con il nominare del concetto di libertà si fa riferimento essenziale al nominare il concetto di decisione, di cui si risponde davanti all’altro e davanti al terzo giudice. Ma con il trasformarsi della libertà si arriva allo svuotamento della decisione. Per Nancy invece la decisione non è la scelta di una condotta di vita, ma è invece l’accesso al lasciar essere. Lasciar essere è ciò che accade, non chiedendosi neppure se la libertà consiste in una decisione che a sua volta si concretizza in un semplice lasciar essere, una decisione che non si chiede che significa, non si ha alcuna questione, neppure che cosa significhi rispettare gli altri o rispettare se stessi. Se la trasformazione della libertà porta allo svuotamento della decisione non lasciandola essere ciò che nel pensiero classico si è sempre detto, ovvero una scelta responsabile di cui si risponde, non c’è altra possibilità che lo stare a vedere ciò che accade: ma nello stare a vedere ciò che accade non ci sono più domande su diritti e su doveri. C’è soltanto il prendere atto di che volta per volta si viene affermando. E prendendo atto di ciò che si viene affermando si prende atto che oggi si afferma con forza sempre maggiore il sistema del fondamentalismo funzionale, che non lascia nessun margine a questioni che si possano interrogare sulla qualità del 130 rispetto degli altri, su che significa rispettare se stessi, su che significhi affermare alcuni diritto e alcuni doveri, il sistema del fondamentalismo funzionale tratta tutti questi concetti solo come degli strumenti, delle tecniche, mai più avvicinati dall’arte dalla ragione del giurista (artista della ragione), ma semplicemente manipolati da una tecnica che tratta questi concetti perché possa essere maggiormente funzionale questo sistema del fondamentalismo delle funzioni perché in estrema sintesi si possa affermare, come già detto da Lhumann, che la funzione della funzione è soltanto la funzione: cioè l’unico metro consiste nel semplice scorrere di un funzionamento di un qualche accadere di un qualche sistema di operazioni (del mercato, della politica, dei mezzi di comunicazioni di massa). Si ha soltanto il presentarsi di una libertà che è un evento, un evento che è innocente, che non ha nessuna possibile riferibilità ai concetti della giustizia, alla distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, a ciò che appartiene all’esercizio di una responsabilità e ciò che è proprio semplicemente di una innocenza che non risponde mai del suo accadere. Si immagina una diversa e più marcata figura di uomo, dove ci sia uno spazio di un io con una zona franca, dove nulla compare dei problemi dell’io, caratterizzata da un io senza decisione, senza responsabilità, un io che non ha a che fare con gli interrogativi sul darsi dei contenuti principali dei diritti e dei doveri non disponibili, si ha soltanto un residuo permanere del termine senso, che non va mai oltre il funzionamento di qualche insieme di operazioni, non si danno mai degli scopi che eccedono dei fini, si danno solo i fini che appartengono al funzionamento efficaci di un insieme di operazioni, che sono operazioni finalizzate al funzionamento di un certo sistema sociale. Vengono rimosse le domande sugli scopi, viene rimossa la discorsività tra gli uomini sull’istituire gli scopi che danno vita alle forme storiche della seconda vita, della vita che viene istituita. Si ha questo affermarsi di una successione di fini, senza interrogativi sugli scopi, si ha una condizione fluida che equivale all’accadere, l’umanità si spoglia di un volto individuale di una soggettività giuridica che appartiene al singolo nella sua unicità e diventa questa fluidità informe, diventa una giuridicità liquida (aggettivo di Bhaumann, nel senso che la giuridicità scorre, fluisce senza scopi e senza perché). Questa giuridicità appartiene all’affermarsi del nichilismo giuridico nel suo compimento, che oggi registra questa inversione di gerarchia tra tre figure del sé, ossia: il sé sinaptico, il sé delle attività delle sinapsi, ovvero dei processi delle diverse regioni della massa cerebrale; il sé sinaptico è il sé che ha una spiegazione scientifica e che ha una sperimentazione da parte della neurobiologia. Questo sé archivia definitivamente la libertà, in quanto se la libertà viene spiegata solo scientificamente, la libertà non ha nessun motivo 131 di essere nominata, perché la libertà c’è se non ha spiegazione; ma cadendo il se nel sé sinaptico cade anche l’imputabilità dell’uomo cade anche il rilievo giuridico della responsabilità dell’uomo. il sé sinaptico dei neuroni convive con la figura del sé informazionale , il sé questa volta degli elettroni, ovvero dei processi delle c.d. macchine intelligenti, dove opera l’intelligenza artificiale. Così come il sé dei neuroni è privo di responsabilità e di libertà, è giuridicamente irrilevante, così il sé degli elettroni, ovvero dell’intelligenza artificiale non si presenterà mai in un spazio simbolicamente nominato come il palazzo di giustizia, in un dibattimento che accade per cercare la giustizia nella legalità, il diritto nelle norme. il sé esistenziale, che oggi si chiede invece di incontrare, sia pure mantenendo gli strumenti irrinunciabili dell’intelligenza artificiale. Si chiede cioè che intervenga la dimensione dell’arte, dell’arte del giurista uomo, che potrà incontrare al di là del sé dei neuroni, del sé degli elettroni, il sé esistenziale, cioè quel volto, quella storia, quella vita, quell’esistenza che hanno avuto condotte capaci di incidere con effetti sugli altri e fatto nascere delle controversie giuridiche che sono controversie di senso, controversie sul diverso modo di scegliersi nelle singole decisioni da parte di ogni singolo uomo. Dunque si afferma un’attenzione al sé esistenziale, ad una struttura delle controversie che riguardano il giurista che sono controversie di senso, non sono disfunzioni nell’ordine biologico né guasti nell’ordine macchinale. Il rischio nella condizione della cultura giuridica contemporanea è che non si abbia abbastanza attenzione critica al riaccendere la luce sul sé esistenziale nel suo essere non riducibile né al sé dei neuroni, i sistemi biologici o neurobiologici, né al sé degli elettroni dei sistemi informatici, dell’intelligenza artificiale, o ad una loro ibridazione. 132 Lezione 27: Nichilismo e post-umanesimo. La ‘biologia’ della volontà di potenza tende a trasmutarsi ora nei programmi bio informazionali, produttivi di altri programmi, flessibili riguardo all’essere=divenire della bio info sfera. Il nichilismo si compie così nel post umanesimo; i concetti giuridici ricevono una efficacia tecno operazionale, privata dell’arte del giurista, che illumina le domande sulla verità=qualità nelle istituzioni giuridiche. In questo esito, la giustizia non regola le condotte, non le forma, ma si conforma alla fattualità vincente. Soggetto e diritto non sono però ‘sistemi di funzione’ dei fatti, perché la soggettività è disfunzionale ed il diritto è controfattuale. La filosofia del diritto propone inevitabilmente una antropologia giuridica, ovvero propone una visione dell’uomo che viene letta, interpretata, proposta nella prospettiva della giuridicità. Nella condizione contemporanea l’antropologia giuridica è tendenzialmente costruita secondo i modelli di un bio-diritto, ovvero di un diritto modellato secondo la biologia. Questa visione del diritto, centrato sulla volontà di potenza, torna a riprendere le posizioni di Nietzsche. Rispetto alle condizioni storiche in cui si collocano le teorie di Nietzsche, nella condizione attuale, questo biodiritto si trasforma in un diritto che è modellato non solo sui sistemi biologici ma anche sugli elementi formativi dei sistemi informatici. Quindi l’antropologia del diritto contemporanea è un’antropologia in cui l’uomo è quello scenario dove si concretizzano i programmi che producono altri programmi. Si ha dunque un diritto che viene costruito secondo i modelli dominanti dell’intelligenza artificiale che portano ad avere una scienza giuridica senza giurista, dove sempre più il giurista viene sostituito dal tecnico delle norme destinato poi a lasciare il posto ad un software, ovvero ad un prodotto della intelligenza artificiale. Questo vien detto non per ripudiare l’utilizzo di modelli dell’intelligenza artificiale ma per non assoggettarsi ad essi. Infatti la giustizia tende a trasformarsi in un procedere operazionale che si limita a conformarsi al funzionamento più efficace; se sono assunti i modelli dell’intelligenza artificiale che si sostituiscono ai modelli della intelligenza biologica, l’esito coerente è appunto che la giustizia non incontra più l’uomo, non garantisce più l’uomo in quanto uomo, ma si conforma al funzionamento più efficace di ciò che è di fatto funzionante con maggiore intensità. Non si ha allora la soggettività come centro di riferimento delle considerazioni sul diritto, ma si ha un’attenzione a conformare gli strumenti della giuridicità a ciò che è dominante nelle operazioni della fattualità. Ma se la giustizia e il diritto si conformano alle operazioni che sono fattualmente più efficaci, funzionalmente più produttive, si tralascia di considerare che nella genesi fenomenologica del diritto, ovvero quando si coglie descrittivamente che cos’è che distingue il diritto dagli altri fenomeni, si coglie il diritto nel 133 presentare un suo incidere che è controfattuale, che non è la semplice adeguazione a ciò che è di fatto funzionante di più (alla attualità, dei sistemi biologici o informatici). Si torna a chiedersi se la libertà è un accadere, un’operazione vitale senza pathos, è l’accadere di un evento nel vivente uomo o c’è qualcosa in più. La libertà è il momento iniziante il fenomeno diritto, nel suo differenziarsi dagli altri fenomeni, perchè il diritto è controfattuale, in quanto contro quei fatti che costituiscono una negazione, una violenza, della libertà, che tendono a spegnere l’esercizio della libertà che costituisce il diritto principale dell’essere soggetto; il diritto interviene appunto controfattualmente per garantire la custodia dell’esercizio del diritto di libertà. Nei viventi non umani (gli animali) il pathos è spiegabile secondo i sistemi biologici come una successione di operazioni dell’ordine biologico, mentre negli uomini il pathos si sottrae ad ogni spiegazione scientifica, il pathos si connette a ciò che eccede alla scienza e la tecnica. Il pathos è esclusivo dell’uomo, il pathos è quel sentire dell’io profondo che avverte che ne và di se stesso, nel suo relazionarsi con gli altri. Dal punto di vista del diritto questo pathos avverte che ne và di stesso nel suo relazionarsi giuridico con la libertà degli altri. Si ripresenta di continuo questo spazio dell’io sempre sottratto ad ogni tentativo di indagine, di descrizione e di riproduzione tecno scientifica. Con il procedere dell’inversione dei valori, sia ha invece che il valore più alto non è la libertà, non è la soggettività, non è la creazione di senso che l’uomo mette insieme con gli altri uomini nel portare a concretezza l’istituzione della seconda vita, principalmente la vita delle istituzioni giuridiche, che è la civiltà. Nell’inversione dei valori il valore più alto diventa il danaro. Un valore senza pathos, senza alcuna apertura affettiva (in quanto non è quantificabile). Tutto diventa un nulla, perché tutto può essere nientificato dal valore danaro, tutto può essere quantificato, posto in vendita, monetizzato dal valore danaro. Il valore denaro costituisce l’architettura del sistema mercato che è il sistema gerarchizzante gli altri sistemi sociali, fino a far considerare che il sistema diritto sia un sistema strumentale a far funzionare i vari sistemi nell’ordine dato dal sistema dominante che è il sistema mercato. In questa prospettiva nullificante si ha il darsi progressivo di un continuo accrescimento e concretizzazione del nichilismo giuridico perfetto. Si torna così alla tesi di Nietzsche che vede la vita come una entità che pone valori, ma che di per sé non ha un valore, è semplicemente un’entità ponente valori e i valori sono nient’altro che delle operazioni poste in essere per il continuarsi di una vita che non ha valore perché è senza un senso, senza un perché. Viene vissuta ma non ha nessuna significazione per la 134 soggettività. Il valore primo diventa quindi quello espresso nel quantum, del linguaggio dei prezzi, la struttura di funzionamento del sistema del fondamentalismo funzionale e in questo itinerario anche la verità diventa un valore, un valore nella inversione dei valori. Ciò comporta che la verità è semplicemente un tener per vero, è un assumere come vero un itinerario che serve per il funzionare dei vari sistemi di funzione. Ma questa verità è semplicemente un tener per vero significa che non si dà una verità ma soltanto una finzione della verità. Quindi cade l’equivalenza fondamentale per il diritto tra verità e qualità della relazione tra i soggetti che si pongono in un relazionarsi giuridico. Qui si dice che la verità non è semplicemente un tener per vero, una finzione, ma consiste nella qualità della relazione tra i soggetti di diritto, dove il diritto custodisce costantemente i diritti primi incondizionati dell’essere uomo, prioritariamente il diritto a prendere la parola, a costruire con gli altri quella seconda vita che è la civiltà, che è una vita che eccede la semplice condizione naturalistica di ciò che vive. La verità invece nel procedere del nichilismo giuridico perfetto diventa un tener per vero, un adeguarsi a ciò che volta per volta muta, diventa un conformarsi a ciò che volta per volta si afferma, divenendo flessibile ad una mutevolezza sempre in divenire. Appartiene infatti ad uno dei tratti principali del senso esistenziale del diritto, il liberare dell’angoscia della mutevolezza, il liberare dall’improvviso, perché l’improvviso angoscia. Perché il mutare improvviso della volontà degli altri, di ciò che si era convenuto liberamente con gli altri, l’essere lasciati abbandonati alla mutevolezza degli atteggiamenti degli altri, è essere abbandonati e assoggettati agli altri, quindi essere costretti nella impossibilità di proporre e di presentare un progetto. Il diritto invece libera da questo improvviso mutare del volere degli altri, garantisce durata alla relazione con gli altri, consentendo alla libertà di potersi inscrivere concretamente nel mondo, consente di non sentirsi abbandonati ad una condizione in cui di fatto si è costretti a divenire, senza una scelta libera, senza un progetto che possa durare. Senza il durare, si legge in modo forte in Kierkegaard, si è abbandonati a questa che è la malattia mortale, la disperazione. La disperazione davanti alla mutevolezza mai disciplinata dalle regole della giuridicità. La mutevolezza appartiene invece a questo processo di spogliazione dell’uomo della sua soggettività. Nietzsche dice con forza che l’arte diventa senza artista, lascia intravvedere dunque che parallelamente la scienza giuridica diventa senza giurista. Infatti sia l’arte che la scienza giuridica sono privati della dimensione della durata, perché il durare è formativo della soggettività e la soggettività è formativa dell’autore dell’opera d’arte e dell’autore della scienza giuridica, cioè di chi costruisce con una soggettività responsabile la dottrina del diritto. La 135 mutevolezza nella sua integralità chiede che non ci sia nulla di permanente, chiede che non si abbia alcuna dimensione propria del durare, e dunque potenzia questo costante conformarsi alla mutevolezza della contingenza; l’affermarsi di questo essere che è uguale al divenire, che costituisce ciò che è proprio del nulla nella sua continua trasformazione. Si ha così questo passaggio da una tensione dell’arte e della ragione giuridica che incontra la libertà del soggetto di diritto nel suo progettarsi, garantito nella sua durata dalle norme di diritto, alla mutevolezza, al dominio dell’impermanente per usare la terminologia di Nietzsche, ovvero ciò che non dura, ciò che è in uno stato continuo di mutevolezza. Oggi, nella società complessa, l’impermanente è sinonimo di flessibilità, una flessibilità continua che forma ed esige la condizione contemporanea. Infatti i tratti nuovi distintivi che compaiono nella società contemporanea, differenziando la forma storica attuale dalle forme storiche precedenti, sono dati dalla quantità e dalla velocità delle informazioni. La società attuale è una società complessa perché la quantità e la velocità dei dati delle informazioni sono tali da attraversarsi, da comporsi e da combinarsi con una mole che non è trattabile né nella quantità né nella velocità dal singolo uomo, dal sistema neurobiologico del singolo individuo e neanche da un gruppo di individui, ma chiede un trattamento che inevitabilmente è di tipo macchinale, richiede cioè l’intervento dell’intelligenza artificiale. Questo richiede che la società complessa sia ambientata in questa architettura che è propria della bio-info-sfera, in una commistione continua che è propria della biologia, della neurologia e dell’intelligenza artificiale. Per comprendere che cosa si trova davanti il giurista nella condizione contemporanea, per comprenderlo senza dogmi bisogna prendere atto che il lessico di Nietzsche oggi non ha più la sua ambientazione nell’ordine del tragico che appartiene alla dimensione del c.d. super uomo, alla figura disperata e disperante di questo super uomo, ma appartiene invece alla bio-info-sfera. Qui la volontà di potenza si trasforma, diventa il potere di autoadattamento, dei programmi che producono programmi e che potenziano il funzionare più. Perché il comandare non è più il comandare di chi è più forte, ma il comandare si trasforma nel monitorare, il calcolare, il programmare che appartengono ad un nessuno. Questi tre ordini del calcolare, del monitorare e del programmare, si intersecano ogni volta non appartenendo a qualcuno, essendo in questo immenso nessuno che costituisce il sistema del fondamentalismo funzionale. Questo nessuno così descritto come nucleo del sistema del fondamentalismo funzionale è il nuovo signore senza volto della condizione propria della società complessa. Tutto ciò ha degli effetti propri nella descrizione e nella stessa vita del diritto. Gli effetti consistono nel passaggio dagli effetti fondamentali come pensati nell’ordine tradizionale della stessa scienza greca che sono propri del concetto del pensiero, 136 ai concetti fondamentali che sono propri della tecnica che diventa l’essenza della scienza. Si ha dunque questo passaggio dai concetti fondamentali del pensiero, ovvero quei concetti dove l’uomo è incontrato nel suo avere un rapporto con i sistemi sociali, ai concetti fondamentali delle tecnoscienze, dove non si ha nessun incontro con l’uomo, ma si ha soltanto un funzionamento efficace dei sistemi sociali, come sistemi di funzioni, ovvero sistemi che volta per volta mettono in concreto nelle forme mondane una specifica funzione: la funzione dell’economia, dei mezzi di comunicazione di massa, della politica. Il diritto rispetto a questi sistemi si limita a garantire un funzionamento efficace, si limita ad essere un sistema immunitario di questi altri sistemi sociali. Si ha dunque che l’arte dell’interpretazione, che costituisce uno dei momenti centrali dell’attività del giurista si trasforma in una tecnica, che è rivolta ad assorbire il rischio nella semplificazione della complessità. Si ha quindi questo passaggio: dalla dimensione artistica e estetica della ragione giuridica (artistica ed estetica perché la ragione giuridica ha avuto nel pensiero classico, e tuttora ha nella condizione contemporaneo, questa attenzione ad incontrare la soggettività dell’altro, perché soltanto il giurista in quanto artista può incontrare la soggettività dell’altro che ha una dimensione artistica, perché la soggettività è sempre creatrice di un senso, quando sceglie delle condotte, quando pone in essere nella relazione intersoggettiva i progetti sceglie, e nello scegliere si sceglie, e nel compiere questa opera pone in essere una creazione di senso) Vs/ tecnica che viene usata per assorbire il rischio cioè il rischio che si dà nella inevitabile semplificazione della complessità. Su questo le analisi di Lhumann sono le più significative ed essenziali: la società complessa si forma e subito richiede una semplificazione, perché non potrebbe continuare ad essere quella che è se non procedesse ad una semplificazione, ma deve assorbirne il rischio, costituito dall’arresto della crescita dei processi che costituiscono la genesi continua della complessità, necessaria per la stessa continuazione della vita. Si tratta di ciò che molto schiettamente dice Jaspers: non si deve dire di no alla scienza, alla tecnica, né alla formazione continua della complessità, ma non ci si può assoggettare alla complessità, non si può privare l’uomo dei suoi diritti incondizionati. L’uomo deve poter esercitare la sua creazione di senso. Si ha quindi un processo costante di accelerazione della complessità e del mutamento, che porta ad una trasformazione di uno degli elementi fondamentali nella vita del diritto: porta la sostituizione della imputabilità che si riferisce al soggetto di diritto con la finzione giuridica o normativa del 137 centro di imputazione. L’imputabilità è nominabile come tale se si riferisce ad un soggetto che compie delle scelte nella sua libertà e per questo risponde davanti agli altri e davanti al terzo giudice. L’imputabilità è l’esercizio della soggettività libera e creativa, non anticipabile. Ma la complessità non richiede la soggettività, viene sostituita da un centro di imputazione , che non appartiene alla soggettività, quei centri di imputazione che costituiscono i luoghi sistemici delle operazioni dei sistemi sociali dove si può riferire l’accadere delle combinatorie tra le molte operazioni dei molti sistemi sociali. Questo richiede una trasformazione anche della durata della memoria, che è propria della memoria dell’uomo, nella durata della memoria non umana; la durata della memoria della soggettività è la durata di una memoria che mette in gioco costantemente se stesso, che nel memorare apre un rapporto, l’avere a che fare con se stesso avendo una relazione con gli altri; questa è la durata della memoria umana, mentre quella non umana è la ripetizione sistemica di programmi biologici, se si resta nell’ordine del vitale, o informatici, se si fa riferimento all’ordine dell’intelligenza artificiale, o se si ha attenzione alla complessità della condizione contemporanea, è la durata della bio-info-sfera dove si ha l’ibridarsi di entrambi gli ordini, biologico e informatico. Si ha quindi una trasformazione della scienza giuridica che vede l’oblio del giurista in quanto uomo, sostituito dal giurista come apparato bio macchinale che opera nel monitorare e nel calcolare quel che sono le operazioni dei molti sistemi sociali; in linea con le profezie di Nietzsche, si ha che il permanente, e quindi la durata, dunque la soggettività che è tale soltanto perché è temporalmente la durata della soggettività diventa l’impermanente, diventa il continuo divenire che assorbe l’essere, facendosi causa di una rapida usurabilità. Del resto la società complessa si dà perché sempre più rapida è l’usurabilità dei suoi elementi, ma ciò chiede che il giurista si trasformi in un tecnico delle norme interessato ad assecondare l’usurabilità sempre più rapida degli elementi relazionali della società complessa. 138 Lezione 28: Diritto soggetto parola: le controversie di senso. Il diritto è presente unicamente nel soggetto della parola, che esercita la pretesa giuridica rivolgendola al terzo Altro giudice; è assente nei viventi non umani e nelle entità macchinali, privi di norme e di procedure, istituite dal terzo Altro legislatore nel medio delle relazioni comunicative. Negli uomini, soggetti parlanti, si manifesta essenziale la coalescenza del linguaggio discorso e del diritto. Quando il linguaggio ‘simbolico’ delle parole, genesi delle controversie di senso, si trasmuta nel linguaggio ‘segnico’, che ‘funziona’ nei conflitti vitali e nelle operazioni macchinali, allora il nichilismo giuridico può divenire ‘perfetto’, post umano. La tesi centrale di questo corso è che il diritto è strutturato come il linguaggio che è discorso (vedi prima tesi); è coessenziale il logos al nomos ed il nomos al logos. C’è diritto lì dove c’è l’esercizio della parola, che si comunica che si destina all’altro, non è riducibile ad una sorta di messaggio di tipo informazionale o di tipo bio-informazionale. Questi sono messaggi numerici, dove non compare nulla della parola che è invece disnumerica, dice sempre un qualcosa di più del proprio enunciato (evocativa). Il numero tre può essere riferito ad una molteplicità di enti però sempre e soltanto dice che si tratta di tre enti: 1, 2, 3 e non dice altro oltre a questa quantificazione numerica (Scheler). La parola invece nell’essere enunciata sollecita in chi l’ascolta una pluralità di interpretazioni, un molteplicità di schiudersi di direzioni di senso e laddove ci sono controversie di senso nasce il fenomeno diritto. Quando invece il linguaggio discorso, che è un linguaggio simbolico, diventa invece un linguaggio segnico allora il diritto si svuota e viene sostituito da altri fenomeni. Il linguaggio discorso è un linguaggio simbolico, simbolico perché l’ordine simbolico è quell’ordine dove sempre compare una molteplicità di possibili interpretazioni, dove interviene il procedere che è proprio della metafora ed anche dell’attività metonimica: la metafora sostituisce un senso con un altro senso, il processo metonimico nomina invece questo continuo rinviare da un senso enunciato ad un senso enunciabile possibile. Quando si lascia il linguaggio dell’ordine simbolico e si cade nel linguaggio dell’ordine segnico non si danno conflitti di senso, non si dà nulla del diritto, dell’arte del giurista uomo, si hanno soltanto dei conflitti vitali o delle disfunzioni nell’ordine delle operazioni dei diversi sistemi. 139 Nella situazione contemporanea ciò che è proprio dell’ordine simbolico, quindi della parola, ciò che ogni colta che la parola viene ad evocare, cioè la ricerca e la creazione di senso, tutto ciò cade: accade ciò che Jaspers dice, leggendo Nietzsche, e cioè che tutti gli ideali dell’uomo sono tramontati, l’uomo vuole rigettare la morale, abbandona la ragione e l’umanità. Jaspers vede nella verità una menzogna universale, nella filosofia finora esistita un continuo inganno e nel cristianesimo vede una vittoria dei mal riusciti, dei deboli, degli inetti, ovvero dei perdenti nella scala dei numeri della forza, che invece nell’inversione dei valori, nella condizione del nichilismo perfetto, nella cancellazione stessa del linguaggio discorso della parola, e quindi nel cadere nel linguaggio segnico dei messaggi funzionali, registra l’affermarsi di chi funziona più, di chi è più forte, di chi ha potere. Si stabilisce in questa condizione senza consapevolezza e senza scelta, di fatto si afferma un continuum tra gli ordini degli elettroni e l’ordine dei neuroni, tra l’intelligenza biologica e l’intelligenza informatica, ovvero l’intelligenza artificiale: questo porta a che non si colga più ciò che è specifico dell’uomo, che è soggetto di diritto proprio per questo discontinuare ogni procedere in un susseguirsi di operazioni efficaci tra il neurobiologico e il macchinale o semplicemente tra le diverse operazioni vitali così come si dava al tempo di Nietzsche. Cade quindi questa discontinuità, che costituisce lo spazio dell’uomo e dello stesso diritto come disciplina del discontinuare che appartiene all’uomo: il diritto ha la sua genesi appunto in questo momento in cui si affaccia la peculiarità esclusiva dell’uomo, che è discontinua e che eccede la vita e che nella ricerca e nella creazione di senso eccedendo la vita pone la essenzialità e l’attesa di una disciplina della seconda vita che nasce, una vita oltre biologica, oltre funzionale, una vita creativa e discontinuante i sistemi e le memorie di funzionamento. Derrida, questa volta lascia invece intendere che questo concetto di discontinuità – che egli nomina di iato, di vuoto, è presente anche nello stesso ambito delle possibilità biologiche. Dunque ci sarebbe un discontinuare nello stesso orizzonte che è proprio della biologia, della funzionalità. Ma prese alla lettera queste affermazioni di Derrida non convincono perché nel procedere biologico non c’è un discontinuare; quando un discontinuare, ovvero l’apparire di questo spazio che non esegue un programma già dato, nello stesso ordine biologico tale spazio corrisponde a quello della patologia mentre nell’ordine del macchinale potrebbe essere nominato come guasto. Ma nulla di tutto questo può comparire in una aula di giustizia, non ci possono essere degli attori bio macchinali. Soltanto l’uomo nel discontinuare le sue memorie bio macchinali è responsabile, è soggetto di diritto e come tale ha cittadinanza per entrare in una aula di tribunale come attore. Se si dovessero estinguere le strutture giuridiche anche dell’uomo, si avrebbe il cadere della stessa giuridicità, per effetto della scissione tra il procedere e le procedure. Infatti ciò che è proprio del diritto è questa separazione tra il procedere e le procedure: le procedure sono istituite, il procedere 140 della attualità biologica, della attualità macchinale è il procedere stesso e basta, ma non è un procedere che simultaneamente ha un rinvio a delle procedure; ogni volta che funziona un’operazione biologica o un’operazione macchinale funziona nell’essere un tutt’uno con il suo stesso funzionare, dunque in un procedere che non è disciplinato da procedure. L’istituzione delle procedure giuridiche appartiene esclusivamente all’uomo, che ogni volta nel manifestare il suo eccedere i semplici sistemi di funzione pone dei problemi, delle questioni che esigono l’istituzione di procedure per disciplinare questi spazi che nascono con l’esercizio disfunzionale della soggettività degli uomini. Nella condizione contemporanea si è detto che la complessità della società chiede che la dimensione dell’imputabilità sia sostituita da una dimensione che è propria del centro di imputazione: la complessità può accrescersi nel suo funzionamento, nella sua struttura, se emargina ciò che è proprio dell’imputabilità, perché l’imputabilità nomina la soggettività e la soggettività nomina ciò che non si lascia anticipare, ma ciò che si lascia anticipare non può essere anticipato, non può essre monitorato, né calcolato e né programmato, rendendo complessa paradossalmente la stessa vita della società complessa. Ecco che appunto l’imputabilità diventa un centro di imputazione, che è extra umano: ad es.: la pioggia ha un centro di imputazione nelle formazioni nuvolose, nella qualità e nella struttura di queste formazioni nuvolose, ma certo queste formazioni nuvolose non costituiscono delle soggettività imputabili, sono dei centri di imputazione. Si può imputare la pioggia a quel tipo di formazioni nuvolose intendendole come dei centri di imputazione, ma non come delle modalità di esercizio della soggettività, in quanto le nuvole sono prive di soggettività, di responsabilità anche se hanno causato delle inondazioni, dei disastri. Così come si dà questo procedere dall’imputabilità, ovvero soggettività, ad una imputazione, ovvero non soggettività, si ha anche un tendenziale ritenere che lo stesso soggetto di diritto possa progressivamente obliato ed essere posto nella condizione di venire obliato, dimenticato dalla storia. Si potrebbe, dice Derrida , nell’analizzare la condizione contemporanea senza prendere una posizione precisa, constatare che ben presto viene meno il soggetto, mentre verrebbe preservato esclusivamente il soggetto giuridico: la soggettività potrebbe cioè scomparire con il progredire della spiegazione scientifica e con essa potrebbe scomparire la libertà, e rimarrebbe soltanto il soggetto giuridico, in quanto soggetto privo di emozioni, di desideri, soprattutto privo di inconscio; ma il permanere di questo soggetto giuridico sradicato dalla soggettività sarebbe il darsi di una finzione giuridica che è funzionale al procedere del sistema diritto come un sistema strumentalmente servile agli altri sistemi sociali, che non custodisce l’uomo in quanto uomo ma, ma le operazioni dei sistemi in quanto sistemi di funzione. 141 Permarrebbe dunque soltanto il soggetto giuridico come una finzione, che è una finzione giuridica funzionale e che però nell’essere tale questo soggetto giuridico manifesta la sua contraddittorietà: perché è si detto un soggetto giuridico, che essendo ritenuto una funzione svolge un compito funzionale, però è contraddittorio perché è un soggetto nominato come tale ma non esercita la soggettività, non è mai il soggetto che è un chi, un’autore dell’esercizio della sua soggettività, e dunque la espressione soggetto giuridico intesa come una finzione è una espressione contraddittoria che ha rilievo soltanto per il funzionamento del diritto, così come è contraddittoria la dimensione dell’inconscio e gli effetti dell’inconscio ogniqualvolta che non si riferiscono al conscio. Dunque è contraddittorio il permanere di un soggetto di diritto una volta cancellata la soggettività, perché il permanere di questa finzione che è il soggetto di diritto è contraddittoria allo stesso modo se permanesse questa attenzione all’inconscio avendo cancellato il conscio. Per usare un’espressione di Lacan, pensatore essenziale francese, psicanalista ma filosofo, “l’inconscio è un sapere che non si sa”, che ha una ragione di essere soltanto nel quadro di un sapere che si sa, ovvero nel quadro del conscio. L’inconscio è questo sentirsi in qualche modo estranei a se stessi, ma che è simultaneamente un avvertire se stessi come non estranei. Dunque c’è un soggetto di diritto se c’è soggettività così come c’è la dimensione dell’inconscio se c’è la dimensione del conscio: si afferma questo perché nella condizione contemporanea c’è una tendenza ad incontrare l’uomo solo in una prospettiva funzionale, dove cade la dimensione dell’arte che incontra l’uomo, nella sua soggettività che è tale perché è disfunzionale; se la soggettività fosse soltanto funzionale non sarebbe soggettività, sarebbe solo l’esecuzione di funzioni. Ma caduta la soggettività cade l’arte della ragione giuridica, non si incontra più attraverso l’arte del giurista il soggetto nella sua peculiare soggettività, lo si incontra soltanto come una finzione, lo si incontra e lo si nomina come soggetto di diritto, ma è una finzione che ha un fine solo funzionale. Ma cadendo l’arte del giurista cade ciò che appartiene all’arte del giurista, cioè la sua opera di interpretazione: il giurista è tale ed è insostituibile da qualsiasi procedere di tipo bio macchinale, anche se si gioverà dei software, perché il giurista eserciterà sempre l’arte dell’interpretazione. L’arte dell’interpretazione del giurista è un’attività ineliminabile nella vita del diritto, perché è quell’opera che compie il passaggio dalla norma istituita, che è astratta e generale, alla singolarità del caso che è concreto, e questo accade sia che ci riferisca al diritto codificato sia che ci riferisca al diritto giurisprudenziale, si tratta sempre di far riferimento a dei principi che sono astratti, che nel passaggio dalla loro struttura astratta alla loro concretizzazione necessitano del lavoro interpretativo. 142 Ed è per questo che Ost, un giurista e un filosofo francese del diritto contemporaneo afferma che ognuno sa che qualsiasi testo scritto, sia giuridico e non, si interpreta e sa come le interpretazioni siano creatrici; la teoria del linguaggio ha mostrato l’ineluttabilità dell’interpretazione, il linguaggio non può essere mai tradotto in numeri, che non necessiterebbero di interpretazione. La teoria del diritto ha preso atto del carattere normativo della produzione giurisprudenziale (ovvero la produzione dei giudizi; l’emissione delle sentenze sono fonte di una genesi normativa). Tutto questo avviene nel medio della interpretazione, che non è mai l’esecuzione di un programma numerico. L’interprete dice ogni volta ciò che non è detto nel testo e nella stessa produzione giurisprudenziale precedente, dice un qualche cosa in più, dice sempre oltre perché l’opera dell’interpretazione viene messa nel linguaggio, nel linguaggio che è discorso è che è situato in parole, le parole interpretano e si aprono all’interpretazione di altre parole, non sono riducibili nei numeri, i numeri non interpretano ma dicono solo ciò che dicono. L’opera d’arte, l’opera del giurista uomo, l’interpretazione è ineliminabile, nell’analisi, nella decisione ovvero nel superamento delle controversie di senso, perché in tali controversie si presenta la disciplina giuridica, ovvero la disciplina delle norme istituite, che è una disciplina che avviene in un linguaggio giuridico situato in parole; invece nell’ordine del non umano non si hanno controversie di senso, ma si hanno soltanto delle forme, delle modalità di conflitti vitali, delle disfunzioni macchinali, dove del diritto non c’è nulla, ma ci sono semplicemente le leggi dei sistemi biologici e dei sistemi informatici che non funzionano, che non hanno uno svolgimento fisiologico, presentano dunque dei guasti, ma non c’è niente dell’arte dell’interpretazione nell’affrontare le patologie dell’ordine biologico e del malfunzionamento dei sistemi informatici. Si ha soltanto un intervento che riavvia la fisiologia del funzionare. La libertà e la soggettività sono invece disfunzionali, chiedono di essere incontrati non con delle tecniche ma con l’arte, e se dovessero invece residuare solo modalità di conflitti funzionali allora si ripropone ciò che è stato anticipato da Nietzsche: la soluzione avverrebbe esclusivamente nell’ordine dei numeri, ovvero nell’ordine dei numeri che misurano le forze, ma questa soluzione dei conflitti funzionali non chiederebbe nulla della terzietà giuridica, nelle tre figure della terzietà (terzo legislatore, terzo giudice e terzo polizia). Se si analizza la condizione contemporanea e lo scivolamento dalla imputabilità, che rinvia alla soggettività, all’imputazione, che semplicemente accade nell’ordine del funzionamento sistemico, se si coglie questa condizione contemporanea si ripropone una domanda, posta con forza dallo stesso Heidegger, sulla relazione tra la filosofia e la scienza, tra filosofia del diritto e scienza del 143 diritto (teoria generale del diritto): la filosofia è una scienza tra le altre? Oppure la filosofia possiede un rango più alto? Che cosa è che distingue la filosofia dalla scienza? Che cos’è nella vita quotidiana del diritto fa emergere la centralità della dimensione filosofica nel non essere riducibile alla dimensione tecno scientifica? La risposta a tale domanda viene dal considerare che le scienze (quindi anche la scienza del diritto) lavorano con dei concetti che sono delle rappresentazioni generali degli ambiti definiti di quel certo settore scientifico (procedono quindi con concetti che sono propri della scienza dell’economia, della scienza del diritto..) a differenza della filosofia che procede con dei concetti che non sono delle rappresentazioni che individuano un certo settore scientifico: la filosofia procede con concetti fondamentali che mettono in questione ogni volta il che ne è del se stesso nell’aver a che fare con i diversi settori trattati dalle molte scienze, riaprendo la domanda che ne è del se stesso nel suo coesistere con gli altri uomini. In proposito Heidegger torna a pronunciarsi nel dire che nessuna scienza può dire nulla sulla sua essenza: la fisica non potrà mai dire che cos’è la fisica, così la scienza del diritto non potrà mai dire che cosa è il diritto. Nessuna scienza può dire che cos’è il suo ambito specifico: la medicina non potrà mai dire nulla su che cos’è il vitale, lavorerà sulle operazioni vitali, ma non si pronuncerà mai sul senso della vita. Questo viene confermato da studiosi dell’intelligenza artificiale, come Harel, che nel suo lavoro Computer a responsabilità limitata dice con forza che “non si può computare la computazione”, ovvero che permanendo all’interno delle scienze dei numeri non si può avere nulla che possa consentire di computare la computazione, che “i numeri non dicono nulla sui numeri e certo meno di nulla sulle parole..”. Per quel che ci è vicino allora possiamo dire che le norme non possono dire nulla sui contenuti delle norme, cioè la scienza giuridica non dice niente sul diritto, che invece apre sempre questo spazio essenziale della filosofia del diritto che si pronuncia su che cosa è il diritto e interrogandosi sul diritto si viene ad interrogarsi sul senso dello norme e compiendo quest’opera avvia la formazione del giurista, che non è il tecnico delle norme, ma è per tornare alla definizione di Legendre, l’artista della ragione che cerca, attraverso la dimensione dell’arte, il giusto nel legale, e cercando il giusto nel legale concilia le due dimensioni essenziali della vita del diritto: la ricerca della verità della relazione giuridica, la dimensione del giusto, intendendo per verità la qualità della relazione tra i soggetti di diritto, con la dimensione della legalità, che custodisce la certezza delle norme, custodisce la certezza della vita del diritto non lasciandola all’arbitrio del sentire dell’uno o dell’altro giurista, secondo il suo semplice accadere 144 emozionale o il semplice accadere di una ragione che non ha i tratti dell’universalità propria della ragione giuridica. 145 Lezione 29: Il diritto tra istituire e interpretare. L'arte del giurista Il giurista opera nel medio del suo originale e creativo rapportarsi agli elementi dell’esperienza giuridica e, come l’artista, si forma aprendosi alle questioni sul senso, oltre ogni operazione sistemica delle tecno scienze. La normatività giuridica non ha una spiegazione scientifica, né si esaurisce in una prassi tecnica; riguarda la soggettività non oggettivabile in alcuna sperimentazione di laboratorio. Nell’istituire e nell’interpretare le norme, il giurista non si modella secondo l'inversione dei valori annunciata da Nietzsche, che sostiene la negazione ‘scientifica’ del soggetto, dissolto nell’oltre soggetto, il super uomo svelatosi ora un post uomo. Compiuto l’itinerario delle 28 tesi, queste ultime due tesi discutono il rapporto tra filosofia e scienza in generale per preparare poi alla discussione del nesso tra scienza del diritto e filosofia del diritto Proprio per continuare questa prospettiva deve essere riproposta quella tesi che vede nella figura del giurista la stessa natura dell’artista, perché sia il giurista sia l’artista si formano aprendosi alle questioni sul senso: sia il giurista che l’artista avviano la loro opera in quell’itinerario che consiste in un evocare i diversi rinvii di senso, e dunque le diverse modalità del mettere in questione la centralità dell’interrogarsi sul senso. Certo il giurista lo fa in una direzione e l’artista lo fa in una direzione che è distinta, ma entrambi tengono aperta la questione del senso. Questo procedere rimane estraneo allo scienziato, ovvero a chi fa ricerca scientifica e dunque anche allo scienziato del diritto. Si torna ancora una volta a riferire la filosofia alla struttura della parola e la scienza alla struttura dei numeri. In questa medesima direzione lo scienziato genetista italiano Boncinelli scrive: “il linguaggio dei numeri si è strutturato come il linguaggio specifico delle scienze. Nel linguaggio delle parole si hanno più di seimila lingue diverse che sono scritte in decine di alfabeti diversi”. Il linguaggio delle parole comunica e lavora in un itinerario che è proprio del pensiero non scientifico, perché è aperto al questionare sul che ne è del se stesso, il linguaggio delle parole è un dire di se stessi con gli altri. Il linguaggio numerico è un linguaggio univoco, che si è strutturato senza confini, senza regioni, senza differenziazioni geografiche mentre invece il linguaggio delle parole, nel suo differenziarsi, nel suo partirsi sino a 6000 lingue, manifesta questo centrarsi, che è essenziale, con il dire di se stesso, da parte del parlante, in un linguaggio che è un dire con l’altro. 146 Questo tornare alla differenza tra la filosofia e scienza, e dunque tra la parola, che è il terreno della filosofia, e la scienza, che è il terreno dei numeri, porta a considerare che la scienza non è oggetto di alcuna trattazione scientifica. Si torna così alla tesi di Heidegger: la scienza non è oggetto di trattazione di alcuna scienza. Perché ogni scienza ha uno spazio che è definito da un considerare settorializzante, da un considerare un ambito e non un altro ambito, da un considerare un territorio definito, ed incontra l’uomo nelle sue diverse regionali manifestazioni. L’io indagato dalla medicina non è certo l’io incontrato dal sapere filosofico: filosofia incontra l’io nella sua interezza, lo incontra in una modalità che non può essere trattata secondo un procedere settorializzante come quello della scienza. Torna quindi l’analisi di Heidegger che dice che il vedere della scienza non è trattare da parte dello scienziato con gli strumenti della scienza, e dunque la conseguenza è che il fisico non si esprimerà mai su che cosa è la fisica, così come il matematico non dirà mai che cos’è la matematica e lo storico non si chiederà mai che cos’è la storia. Tutte queste domande valicano i confini della scienza, si aprono ad un interrogarsi che è quello filosofico, perché qui il terreno lavorato dalla scienza viene posto in relazione con l’io, ovvero la soggettività che è sottratta all’indagine scientifica. Analogamente lo scienziato del diritto non incontrerà mai la domanda: che cos’è il diritto, non si interrogherà mai sul senso esistenziale del diritto, non metterà mai in questione il rapporto fra il diritto e l’uomo. Questo invece è il terreno che si apre con la filosofia del diritto, che incide nella formazione del giurista, perché sollecita il giurista a domandarsi in ogni passo della sua attività a riprendere l’interrogativo su quale è il rapporto tra l’ambito della scienza del diritto e l’io, in relazione con altri soggetti e dunque si interrogherà sulla qualità della relazione giuridica. Certo sempre avendo questo riferimento essenziale, Hiedegger, si può dire che lo scienziato può riflettere sulla sua scienza e quindi anche lo scienziato del diritto può riflettere sulla scienza del diritto, ma quando fa questo si trova al di là della semplice attività giuridica, comincia a compier un procedere che è proprio quello della filosofia. La filosofia del diritto rimette sempre in questione questa analisi che considera gli uomini nel selezionare i contenuti delle norme, nel selezionare direzioni delle loro condotte, nell’avere consapevolezza che in questa selezione si selezionano le norme che disciplinano le loro stesse condotte, e in questo itinerario si è già in un ambito in cui il singolo uomo interpreta sé stesso, è il modo in cui il singolo uomo incontra le interpretazioni degli altri uomini che interpretano il loro io: in questo procedere si ha da una parte il sorgere delle controversie e dall’altra l’attesa giuridica di 147 queste controversie sulla molteplicità di interpretarsi dei diversi soggetti. Ma si è già così situati nel questionare filosofico, è per questo che Scheler considera che se non si è in grado di addurre, di descrivere e di argomentare da dove provengono quella norma, quello scopo e perché proprio quella norma non sia una scelta arbitraria ma argomentata, quando non si è in grado di avvicinare criticamente questo insieme di domande si rimane tagliati fuori dal lavoro essenziale che appartiene alla filosofia del diritto. Si finisce semplicemente per essere abbandonati all’accadere delle norme che si formano perché un potere, che è il potere un tempo più forte, le ha formate con quei contenuti producendo quelle qualificazioni del relazionarsi tra i soggetti parlanti. Quando si cerca, al di là del semplice constatare i contenuti delle norme, di riprendere, di tornare a pensare ai principi che hanno portato a selezionare i contenuti di alcune norme invece di altre, si torna a situarsi in quell’ambito dove compare la dimensione del pathos dell’uomo che è sempre legato al nomos. Il pathos illumina queste due dimensioni: del logos, ovvero del discorso, e del nomos, ovvero del diritto. Il pathos illumina queste due dimensioni perché dimostra che l’uomo non è indifferente alla qualità del discorso, è preso, è pateticamente impegnato, non si limita a constatare i contenuti normativi del discorso, non è indifferente alla qualità della relazione, del discorso. L’uomo si apre a considerare i poli opposti che costituiscono sia la qualità di un possibile discorso tra i parlanti sia la qualità di possibili norme di un ordinamento giuridico. La filosofia torna a segnalare che in questa non indifferenza, si coglie il luogo degli a-priori del pathos, degli a-priori dell’apertura affettiva, laddove compare che l’amare non può essere confuso con l’odiare, che all’ascoltare l’altro – che è una dimensione analoga a quella dell’amare – non può essere confusa con l’escludere l’altro, non ascoltandolo ed emarginandolo. Questa attenzione agli apriori della vita emotiva, del pathos, porta – con Scheler – all’analisi critica della ragione tecnoscientifica formulata nel prendere consapevolezza che l’intera vita dell’io, del se stesso, dell’uomo non ha un decorso che possa essere descritto come il decorso di un insieme di accadimenti che sono casualmente determinati, che si susseguono nell’uomo così come si susseguono eventi fisici, eventi metereologici, senza che tutto ciò apra un senso, un interrogarsi sul senso, sullo scopo che distingue il cammino della filosofia dal cammino della scienza. Tuttavia la scienza del diritto, la teoria generale del diritto, continua ad operare nella condizione contemporanea come se potesse non dialogare con la filosofia del diritto, come se potesse rimanere in una condizione di autoreferenzialità, senza aprirsi alle questioni sul senso del diritto, sul senso della ragione giuridica che disciplina la relazione tra i soggetti parlanti. Ma una teoria generale che si chiude alla filosofia del diritto, che ritiene di poter permanere nella sua autoreferenzialità, è una teoria generale che però continuerà ad esprimersi nel linguaggio, nel linguaggio delle parole, 148 nel linguaggio che è discorso e, quindi, con consapevolezza o meno questi giuristi si troveranno esposti alla struttura polisensa della parola: tutto ciò che viene situato in una qualsiasi direzione della scienza giuridica vestita come teoria generale del diritto sarà sempre presentato nell’ambito che è proprio di un linguaggio che è discorso, dunque sarà aperto ad una molteplicità di interpretazioni. Il teorico generale del diritto, lo scienziato del diritto potrebbe ritenersi sufficiente a se stesso e quindi porsi in una condizione di autoreferenzialità e di autosufficienza se potesse situare ciò che dice nell’ordine dei numeri, se non dovesse inevitabilmente invece esprimersi nel linguaggio delle parole, che invece riapre la molteplicità delle interpretazioni. Riapre quel che è inevitabilmente l’opera formativa, costitutiva, del giurista, cioè quell’opera del linguaggio che è discorso e che essendo tale sarà sempre un rapportarsi a, sarà sempre un aprire degli intervalli e in questi intervalli lasciare apparire delle domande, diversamente da quanto è proprio dello scienziato che ritiene di potersi chiudere nel suo specifico linguaggio tecnico, modellato secondo il linguaggio dei numeri, in una condizione che non è di rapportarsia ma di coinciderecon: le affermazioni del suo linguaggio scientifico, le presunte verifiche tecno-scientifiche di ciò che appartiene alla vita della giuridicità e alla quotidianità del diritto. La filosofia non si spegne in un campo predefinito, in un vedere settorializzante, che attualmente ha la sua espressione nel sistema del fondamentalismo funzionale. Occorre tornare a prendere consapevolezza che la filosofia non offre le certezze dei numeri, le possibili verifiche di laboratorio date dalle tecno-scienze, ma come si esprime Heidegger, la filosofia consiste in questa virtù che è il girarsi e rigirarsi nelle questioni preliminari, che non vuol dire un non entrare nella realtà, ma vuol dire un entrare nella peculiarità della condizione dell’uomo, nella inevitabile modalità con cui l’uomo dice se stesso interpretando se stesso, chiedendosi che ne è del suo io relazionandosi con gli altri. Quindi in questo girarsi e rigirarsi inteso come la virtù del sapere degli uomini, in questo continuo lavoro speculativo, il singolo soggetto ma anche il singolo giurista uomo tornerà alle c.d. questioni “preliminari”, preliminari perché appartengono ad un discorso che è preparatorio, nel senso che apre una serie di sguardi critici sui dati che si offrono nella realtà, apre uno sguardo critico che supera l’essere preso tra le cose o l’essere preso tra le norme per interrogarsi attraverso le domande sul diritto, sulle norme. Dunque si torna a mettere in questione la differenza nomologica che nella vita concreta del diritto nomina da una parte il polo della giuridicità – ovvero del diritto che non si lascia mai indagare scientificamente in modo ultimo e definitivo, che non si lascia mai situare in espressioni che sono verificabili in laboratorio - e dall’altro il polo delle norme. 149 Il teorico generale del diritto riterrà di poter fare a meno del riferimento costante ed insuperabile alla differenza nomologica, riterrà di poter trattare le norme con altre norme e riterrà così di dare una costruzione logico-formale della giuridicità che finisce però con l’essere estranea alla modalità di incidere del diritto nella qualità dell’esistenza del singolo e della coesistenza che viene giocata nel medio della vita delle istituzioni giuridiche. Però nei giuristi la tendenza è a tralasciare questo dialogo essenziale e insuperabile tra scienza del diritto e filosofia del diritto, dialogo che mette in rapporto la conoscenza del legale – che appartiene al teorico generale del diritto - con la ricerca del giusto – che è il questionare costante del filosofo del diritto. Il giurista attualmente ritiene di poter fare a meno di questo dialogo. Ad esempio nel suo scritto “Nichilismo giuridico” il prof. Irti, civilista della facoltà di giurisprudenza de La Sapienza, dice che i concetti della scienza giuridica vanno ricavati dal diritto positivo, ovvero vanno ricavati dall’insieme delle norme che sono valide in quel tempo ed in quel luogo, questo perché egli ritiene che l’oggetto della scienza giuridica è un dato, qualcosa che essa trova dinanzi a sé, qualcosa che è stato posto ed imposto da altri, e che dunque è norma perché è stata imposta da altri. Si ribadisce così che per il giurista la norma è al contempo il luogo di partenza e il luogo di arrivo della sua attività di giurista. In questa chiusura, soltanto all’interno dell’insieme delle norme, e dunque senza riferimento alla differenza nomologica tra le norme e il diritto, viene meno il questionare su ciò che scinde le norme positive dal diritto, che non si lascia mai dire in nessun enunciato positivo, perché volta per volta il diritto ripropone la struttura indicibile dell’uomo: nessun soggetto responsabilmente può pretendere di dire integralmente l’uomo, perché chiunque avanzasse tale pretesa dovrebbe aver compiuto un atto di violenza sull’uomo, perché lo priverebbe del diritto fondamentale alla formazione della sua identità nel futuro, significherebbe anticipargli il futuro e quindi negargli l’esercizio della sua soggettività libera, nella formazione della sua identità esistenziale. Dunque Irti in questa direzione, chiudendo la giuridicità nei confini delle norme, finisce per proporre una sorta di eutanasia della filosofia del diritto e prende atto a suo avviso che il linguaggio della filosofia sarebbe stato sostituito dal linguaggio della tecno-economia, con un diritto che diventa strumentale della tecno-economia. Egli dovrebbe ormai chiedere all’università di diventare una scuola del saper fare, dove verrebbe meno il per di questo saper fare, il saper fare per mettendo in questione per quali scopi. Verrebbe bene con questa chiusura dell’interrogativo sugli scopi ciò che è proprio della filosofia del diritto. Verrebbe meno ciò che lo stesso Derrida con forza con vigore speculativo dice essere oggi ciò che si chiede alla cultura contemporanea ovvero 150 un diritto alla filosofia del diritto, che si apre con l’aprirsi del linguaggio che è il discorso, attraverso il quale anche la figura del giurista nichilista, consapevole o meno, compie l’opera della filosofia, quando pensa e riflette sulla sua scienza e sulle sue affermazione. Questa opera del filosofare si schiude all’impegno, al compito di aprirsi con consapevolezza sull’interrogarsi sul senso dell’opera del giurista, che nel concretizzarsi acquista forme storiche aperte e costituite da interrogativi sul senso che oltrepassano la semplice dimensione tecno-scientifica, la semplice visione strumentale del diritto. Il senso eccede sempre l’orizzonte tecno-scientifico, perché se così non fosse l’uomo cadrebbe in una sofferenza esistenziale profonda, uno stato di disperazione. Peraltro ridurre il diritto ad un insieme di norme trattate con altre norme, ridurlo ad uno strumento dell’economia e collocarlo in uno spazio dell’Università considerata solo come una scuola del “saper fare” per riprendere l’espressione di Irti, significherebbe ridurre il diritto allo stato di puro strumento. Ma un giurista francese contemporaneo, studioso del Diritto del Lavoro, Alen Supiot afferma nel suo libro Homo juridicus che quando il diritto è ridotto allo stato di puro strumento allora è ridotto ad un apparato che serve ad una forza ma questo è il marchio distintivo di ogni totalitarismo … Il diritto (nella società contemporanea) finirebbe per diventare una legge unica che è la legge del mercato, la quale è la legge della lotta di tutti contro tutti. Ma in questa condizione si ha l’affermarsi esclusivo della dimensione della dualità (come ambito delle relazioni tra gli uomini), tutti contro tutti (legge del mercato), che cancella ed esclude la dimensione della terzietà, cancella quello che è differenziante il diritto – ovvero la terzietà nelle tre figure del terzo legislatore, terzo giudice e terzo polizia – figure imparziali e disinteressate che presentano ciò che è proprio della giuridicità, mentre quel che si limita a denunciare una parte, ovvero la parte del mercato, permane in una dualità, in un fatto che non è imparziale e disinteressato e dunque non ha nulla a che fare con il diritto ma semplicemente si identifica con il fatto che occasionalmente, per contingenza risulta essere il fatto vincente. 151 Lezione 30: Unità dell'io e ordine simbolico: filosofia del diritto e ipotesi di senso. La filosofia coglie nell’unità dell’io anche la genesi dell’intelligenza artificiale e dell’ingegnerizzazione delle norme; l’io è autore dell’ordine simbolico, che rende possibile queste due prospettive, assenti nel non umano. Il silenzio creativo sollecita l’apertura di senso dell’io, preparatoria delle istituzioni giuridiche, radicate nel ‘simbolico’, non riducibile nel mercato, perché, come l’evocare dell’arte, mai può divenire la proprietà di qualcuno. Le ipotesi di senso generano le controversie tra i parlanti, disciplinate dalle norme giuridiche, che non consistono nell’esecuzione di norme tecniche. La filosofia del diritto distinta dalla scienza del diritto è discussa perché si vuol mostrare che anche i c.d. prodotti della scienza come ad es. l’intelligenza artificiale, come l’ingegnerizzazione delle norme, hanno una loro genesi immediata nella scienza, ma hanno il loro inizio in un ordine non scientifico, ma simbolico. All’inizio vi è ciò che è proprio dell’ordine simbolico, ovvero aver trattato un insieme di elementi resi oggettivi e poi averli avviati per un senso che viene scelto. Quindi l’intelligenza artificiale, l’ingegnerizzazione del diritto, non casualmente accadono nell’esistenza degli uomini: non c’è nulla di simile nel mondo del non umano, dove è completamente assente quel che è proprio dell’ordine simbolico. L’ordine simbolico è quello che si può cogliere nella struttura stessa della parola, la parola è già la vita stessa dell’ordine simbolico, perché dice diversamente da ciò che è detto, avvia un ascolto e una possibile interpretazione che sollecita a cogliere ciò che viene comunicato in un ascolto creativo, in una delle molteplici direzioni della plurivocità stessa della parola, dunque anche i prodotti delle tecno-scienze sono itinerari che hanno la loro origine in modo esclusivo nell’uomo, il solo in grado di compiere una creazione di senso attraverso la parola, dando vita ad un ordine simbolico che dice diversamente dal reale. Se si dovesse non considerare questo inizio delle stesse manifestazioni più appariscenti delle tecnoscienze (intelligenza artificiale e ingegnerizzazione del diritto) e cioè che anche questi esiti non sono legati alla soggettività, si dovrebbe con progressiva accelerazione cancellare tutto ciò che è legato alla soggettività, ovvero quelle opere della soggettività che hanno rilievo giuridico, si dovrebbe cancellare ad esempio quanto appartiene al diritto d’autore che segnala una creazione di senso esclusiva dell’uomo in quanto soggetto. Se si rende sempre meno significativa la presenza della soggettività si dovrebbero anche trovare delle difficoltà nell’analizzare la condizione giuridica del lavoratore, nella disciplina della vita del lavoratore. Se si rimane nell’ordine semplicemente 152 della produzione del consumo - situata nell’ambito delle tecno-scienze – non si capisce perché si dovrebbe disciplinare la qualità della vita del lavoro dell’uomo, che diventerebbe solo un elemento di conto e la soggettività non avrebbe nessun’altra considerazione se non quella che viene dall’analizzare se la qualità della vita del lavoratore accresce o meno la produzione. Cioè il metro sarebbe soltanto quello che si ricava dall’efficienza del lavoratore, dal quantum della produzione lavorativa, il metro non sarebbe l’uomo, perché se l’uomo non fosse irriducibile alle operazioni delle tecno-scienze non ci sarebbe nessuna ragione per pretendere una disciplina giuridica della qualità di vita del lavoratore; si avrebbe soltanto in una visione coerente della bio-economia un’attenzione all’efficienza del processo bio-economico ma non comparirebbe nulla del senso esistenziale della bio-economia. Quando questo compare, compare perché l’attenzione è data alla soggettività Alain Supiot: nei sistemi totalitari del XX secolo si ha uno slittamento del considerare l’uomo con espressioni che sono una sorta di quantificazione, di oggettivazione, di uso e consumo dell’uomo. Hitler aveva detto materiale umano, Stalin capitale umano. “Nella realtà contemporanea tutto fa perdere alla legge la sua maestà, il suo valore”. Il principio “pacta sunt servanda” costituisce il nucleo della cultura giuridica del contratto. Questo principio ha la sua genesi in una visione ortonoma del diritto; non nella eteronomia del diritto o nella autonomia del diritto. L’eteronomia dice quello che viene dall’esterno perché posto ed imposto da qualcuno che ha più forza. L’autonomia nomina ciò che viene convenuto nel semplice formarsi di un convenire comune, indifferente ai contenuti. L’autonomia e l’eteronomia sono aperte a qualsiasi contenuto. Brentano maestro di Husserl: Il diritto è ortonomo perché si propone con la medesima struttura del linguaggio che è discorso. Una costante interconnessione coessenziale tra il nomos ed il logos. Nella ortonomia si dice certo che c’è un convenire, un contratto su un qualcosa, un pacta sunt servanda che è un convenire per qualcosa; ma questo convenire funzionale ha la sua misura nell’essere un continuo riferimento al convenire per se stessi. E’ la priorità del convenire per se stessi a dare ragione giuridica, a selezionere il convenire per qualcosa. L’ortonomia è il continuo ricrearsi del soggetto di diritto nel soggetto del discorso, e del soggetto del discorso nel soggetto di diritto. Si riprendere l’espressione di Legendre: il legare con le parole, il legame che riguarda gli uomini, ed il legare per le corna, il legame subito dagli animali. 153 Il principio pacta sunt servanda si riferisce al legare con le parole, alla sua radice ortonoma. Significa riconoscersi con assoluta reciprocità come soggetti parlanti, riconoscersi in modo universale ed incondizionato come soggetti della parola che enuncia il convergere comune, il convenire su qualcosa che è misurato dalla priorità del convenire per se stessi, ovvero dal mantenere una libertà che non viene ceduta ad un quantum manipolabile nell’ordine monetario e finanziario. Nella tendenza nichilista contemporanea il concetto giusto diventa tutto ciò che è tecnicamente realizzato. Tutto ciò che può trovare una concretizzazione tecnica che ha successo nel procedere tecnico, si ritiene che possa essere messo in espressioni legali, e queste espressioni legali sono tali da assorbire ogni interrogativo su ciò che è giusto e ciò che non è giusto. Una equivalenza delle norme della tecnica con le norme giuridiche. Cogev(?) pensatore francese: la terzietà è costituita dalla unità distinzione tra le tre figure del terzo legislatore, del terzo giudice, del terzo polizia. Che cos’è che distingue la terzietà delle norme giuridiche dalle regole di una organizzazione criminale, che cos’è che distingue la figura del “padrino” dal terzo del diritto. La distinzione è che nell’ordine della giuridicità, dell’ortonomia del diritto, è costante ed essenziale un rinvio alla domanda sul senso coesistenziale delle regole, sul senso coesistenziale dell’opera della terzietà. La domanda di senso è tale perché ascolta l’altro. L’organizzazione criminale non solo non ascolta l’altro ma gli toglie con violenza la parola, impone l’omertà. Il legare con le corna è questa forma di imposizione. Il legame delle parole appartiene alla relazione dei soggetti parlanti, che scelgono liberamente e che orientano le loro scelte verso un qualche cosa di definito, verso un per qualcosa. Nel legare con le parole c’è l’istituire una relazione giuridica che nasce muovendo dalla custodia che la terzietà garantisce dell’esercizio della libertà di una parte che incontra e condivide l’esercizio della libertà di un’altra parte. Il rischio della condizione attuale è che l’affermarsi del fondamentalismo funzionale come sistema che gerarchizza ogni altro sistema, finisca per dissolvere, trasmutare il modello del legare con le parole, che si regge ed invoca la libertà e la reciprocità nel convenire, con il modello del legare con delle procedure tecniche che nessun riferimento fa né alla libertà, né al convenire secondo uno scegliersi esistenziale. 154 155