ORIENTAMENTI PASTORALI PER LE SITUAZIONI MATRIMONIALI IRREGOLARI, in particolare per i FEDELI DIVORZIATI RISPOSATI febbraio 2000 + Carlo Caffarra Arcivescovo Carissimi sacerdoti, dando esecuzione ad un desiderio unanime del nostro Consiglio Presbiterale e di molti di voi, vi invio questi ORIENTAMENTI PASTORALI PER LE SITUAZIONI MATRIMONIALI IRREGOLARI, in particolare per i FEDELI DIVORZIATI RISPOSATI (FDR). Sono sicuro che ad esse vi atterrete in grande unità: ve lo chiedo nel nome di Cristo. La vera sorgente di questo impegno può essere in tutti noi solamente la vera carità: la verità della carità e la carità della verità. Lo Spirito Santo la faccia sgorgare abbondantemente nel nostro cuore. 01. E’ in primo luogo necessario che il pastore abbia la consapevolezza che la condizione dei fedeli divorziati risposati (FDR) è "irregolare" non a causa della violazione di una legge morale, in primo luogo. Lo è a causa del fatto che il sacramento del matrimonio pone in essere una correlazione di reciproca appartenenza che rimane per sempre. Non è questione in primo luogo di un "dover essere" uniti, al quale (dover-essere) ci si è rifiutati di acconsentire; è un "essere" uniti al quale si contraddice colla nuova condizione. Se non ci si mette subito in questa prospettiva, ci si preclude la possibilità di capire il comportamento della Chiesa. Si dice: "chi ha ucciso, se si pente è perdonato: e la vita non viene ridonata; perché non ai FDR?" la diversità essenziale è precisamente la seguente. La reciproca appartenenza posta in essere dal sacramento del matrimonio non è distrutta dalla decisione successiva: l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito! Una visione profondamente teologica del matrimonio è qui più che mai necessaria. 02. Non si deve dimenticare neppure per un momento che si affronta una "patologia matrimoniale". Essa non deve attirare la nostra attenzione fino al punto da farci dimenticare la … fisiologia. Mi spiego. La nostra principale preoccupazione deve rimanere quella di preparare i giovani al matrimonio, e di seguire gli sposi specialmente nei primi anni di matrimonio. 03. Di fronte ai FDR dobbiamo evitare i seguenti atteggiamenti o approcci al loro problema. - Esporre puramente e semplicemente ciò che la Chiesa dice, senza dare nessuna motivazione seria, senza fare nessun tentativo di instaurare un dialogo sulle ragioni di ciò che la Chiesa dice. Quest’approccio al problema è gravido di conseguenze molto negative: prevalenza della dimensione morale su quella sacramentale; crescente distanza della persona dalla Chiesa. - Non dimostrare una piena condivisione della dottrina della Chiesa da parte del pastore, del seguente tipo: "io ti ammetterei alla Comunione, però la Chiesa non me lo consente". Questa posizione è devastante in ordine alla coscienza morale dei FDR. Essi infatti se ne andranno dal dialogo pastorale coll’impressione o perfino colla convinzione che anche nella Chiesa non c’è piena condivisione della dottrina matrimoniale, e che Essa è completamente estranea ai veri problemi della gente. Simile a questo approccio è quello di chi dà ad intendere che, trattandosi fondamentalmente di un problema disciplinare, ci si può attendere anche che sia cambiata. - Non affrontare il problema, ma dissimularlo. E ciò può accadere in due modi. O mantenendo puramente e semplicemente il silenzio, oppure dicendo: "fai come ti dice la tua coscienza". Quest’approccio al problema è molto sbagliato. Mi limito ad una ragione. Esso conferma la convinzione, oggi sempre più diffusa nelle nostre società occidentali, che il matrimonio e "res privata", che cioè i problemi matrimoniali riguardano esclusivamente la vita privata dei singoli. In questo modo quindi si coopera obiettivamente all’oscurarsi della fede nella sacramentalità del matrimonio e della intelligenza della rilevanza pubblica del matrimonio stesso, del suo "aver a che fare" col bene comune. 04. Ma oggi nei pastori d’anime ci può essere una difficoltà più grave, dovuta ad una sorta di malessere che si prova quando si affronta questo problema. E’ come un’esperienza di sconfitta di fronte ad una realtà che sembra ormai imporsi, senza vie di uscita. La sempre crescente percentuale di matrimoni falliti, la leggerezza con cui si contrae il matrimonio, quella specie di costituzionale fragilità psicologica di cui oggi soffrono tanti nostri giovani, possono indurre nel cuore del pastore la convinzione che la sua azione pastorale sia priva di ogni efficacia. Sia sufficiente dire al riguardo che a noi il Signore chiede di essere testimoni del Vangelo del matrimonio, non la certezza dei risultati. A noi è chiesto di testimoniare la Verità, non di farla trionfare. 1. LA CONDIZIONE ECCLESIALE DEI FDR. Il punto di partenza dell’azione pastorale è di avere una visione esatta della condizione ecclesiale dei FDR. Premettiamo un’osservazione importante. La "comunione" che costituisce la Chiesa non è di tale natura da non ammettere gradi: un "più" e un "meno". Come una lampada: o è accesa o è spenta. La "communio ecclesialis" al contrario ammette gradi: dall’inizio, la conversione alla fede-battesimo, fino alla perfezione assoluta nella gloria eterna. Quindi, si può essere nella comunione della Chiesa in modalità diverse. Non solo, ma essa è al contempo visibile ed invisibile. I vincoli della comunione visibile sono la confessione della stessa fede insegnata dal Vescovo di Roma e dai vescovi in comunione con lui; la partecipazione agli stessi sacramenti; l’accettazione dell’ordine gerarchico in cui è strutturata la Chiesa. "Nella sua realtà invisibile, essa [= la comunione ecclesiale] è comunione di ogni uomo con il Padre per Cristo nello Spirito Santo, e con gli altri uomini compartecipi nella natura divina (cfr. 2Pt 1,4), nella passione di Cristo (cfr. 2Cor 1,7), nella stessa fede (cfr. Ef 4,13, Filem 6), nello stesso spirito (cfr. Fil 2,1)" [Congregazione Dottrina della Fede, Lett. Communionis notio 4,1] Tenendo presente tutto questo, possiamo descrivere la condizione ecclesiale dei FDR con due proposizioni fondamentali. La prima: i FDR, per il solo e semplice fatto di essere tali, non sono fuori della comunione ecclesiale né visibile né invisibile. Per capire bene questa affermazione dobbiamo non dimenticare che il peccatore si trova nella Chiesa come … a casa sua, poiché è nella Chiesa che il peccatore viene perdonato, come diciamo nella Professione di fede. La seconda: i FDR si trovano in una condizione che obiettivamente contraddice l’Eucarestia, nel senso preciso che "il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucarestia" (Es. Ap. Familiaris consortio 84,4). Si faccia bene attenzione. La contraddizione di cui si parla non consiste precisamente nel fatto che i FDR tengono una condotta di vita contraria, in forma grave, alla legge di Dio, e quindi non possono ricevere l’Eucarestia. Ma consiste propriamente in questo: dato il rapporto che esiste fra l’unione di Cristo colla Chiesa, l’Eucarestia, il Matrimonio, i FDR hanno posto in essere una condizione, sono entrati in uno stato di vita che contraddice quel rapporto di natura mistico-sacramentale. En passant, si deve certo dire che esistono anche altre situazioni che contraddicono l’Eucarestia. Questo dovremmo richiamare più frequentemente nella nostra predicazione e catechesi. I FDR forse capirebbero così più facilmente la loro situazione. Corollari Dalla individuazione della condizione ecclesiale dei FDR derivano alcune conseguenze importanti dal punto di vista pastorale. a) In quanto sono nella comunione della Chiesa, devono partecipare alla sua vita. "Siano esortati a ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio" (Es. Ap. Familiaris consortio 84,3). b) In quanto vivono in una condizione che obiettivamente contraddice il mistero eucaristico ed a causa dello scandalo teologico che potrebbe essere causato, i FDR non possono esercitare il ministero del catechista ed in genere ministero educativo, il ministero del lettorato neppure ad actum nelle celebrazioni liturgiche, il ministero neppure ad actum della distribuzione dell’Eucarestia, il ministero dell’accolito, essere padrino/madrina al battesimo e alla cresima; non possono essere membri del Consiglio pastorale parrocchiale e del Consiglio parrocchiale per gli affari economici. E’ consigliabile che non fungano da testimoni al matrimonio. L’ACCOMPAGNAMENTO DEI FDR. Nel numero precedente abbiamo, per così dire, preso in esame la situazione dei FDR da un punto di vista statico. Cioè: stante la loro condizione ecclesiale, si deve concludere che … . Tuttavia questa non è né deve essere l’unica o principale prospettiva dell’azione pastorale nei confronti dei FDR. Essa deve soprattutto preoccuparsi di strutturarsi come "azione di accompagnamento" dei FDR. Questa struttura dell’azione pastorale, pensata dunque come un "cammino con …", implica un punto di partenza, un traguardo finale, un movimento graduale dall’uno verso l’altro. 2,1 [Punto di partenza]. E’ assai importante avere una esatta comprensione della situazione propria di ciascuno. Occorre tener presente, nel nostro dialogo pastorale, se e in che misura il coniuge è stato responsabile della rottura del matrimonio; se è stato o non abbandonato e così via. Ma non sarebbe rispetto delle persone, in senso completo, fermarci all’ascolto [necessario!], senza esaminare accuratamente le cause della sofferenza che il FDR mostra e a non cercarne i rimedi. E’ bene chiedere loro che cosa esattamente causa la loro sofferenza: certo l’impossibilità di vedersi riconosciuto il c.d. nuovo matrimonio, e quindi l’impossibilità di accedere all’Eucarestia, soprattutto in particolari situazioni [es. prime comunioni di figli]. Ma è giusto scaricare interamente la responsabilità della propria sofferenza sulla Chiesa, come se non dipendesse dalla propria volontà? A volte certi atteggiamenti esprimono semplicemente il bisogno di scaricare sulla Chiesa la responsabilità di situazioni che sembrano non avere più vie di uscita. E’ proprio questo il momento in cui si deve proporre quella partecipazione alla vita della Chiesa, che è per loro possibile (cfr. sopra § 1,a). Di essa, si deve loro dire, ha particolare bisogno proprio chi vive in una situazione di FDR. Né si deve omettere, quando si dà il caso, di ricordare loro la testimonianza di chi, abbandonato, è rimasto fedele, vivendo in una spesso dolorosa solitudine. 2,2. [Punto di arrivo]. Nella fede della Chiesa, il punto di arrivo di quest’azione pastorale è l’abbandono o rottura del c.d. secondo matrimonio, e possibilmente il ritorno al vero matrimonio. Questo abbandono-rottura può essere o fisica o morale. Non c’è bisogno di spiegare la prima modalità. Mi fermo sulla seconda. Quando è moralmente impossibile abbandonare fisicamente il convivente, quando cioè la rottura della convivenza comportasse la violazione o il rischio della violazione di diritti del terzo innocente [es. educazione dei figli] o una grave mancanza di carità verso il convivente, bisognoso di assistenza, ci si può limitare all’esclusione dell’affectio coniugalis dalla comunanza di vita. Esclusione della "affectio coniugalis" significa due cose: interruzione di ogni esercizio della sessualità proprio dei coniugi; una progressiva trasformazione del loro rapporto in rapporto di amicizia, di stima, di aiuto reciproco. E’ questo il significato profondo dell’espressione "come fratello e sorella". E’ necessario essere consapevoli che questa esigenza è radicata in una dottrina della Chiesa ed è intimamente coesa con essa. L’esercizio della sessualità è santo e santificante solo nel matrimonio. Pertanto una disciplina sacramentalmente diversa implica di fatto o la negazione di questa dottrina morale o la negazione dell’indissolubilità matrimoniale. Delle due l’una: o si ammette la liceità del rapporto sessuale ed allora si deve ammettere che il secondo è un vero e proprio matrimonio [= negazione dell’indissolubilità matrimoniale]; o si nega che il secondo è un vero matrimonio ed allora si ammette che la sessualità umana può essere santamente esercitata anche fuori del matrimonio. Quando i due conviventi si sono seriamente impegnati a questa trasformazione, essi possono accedere all’Eucarestia, dopo aver ricevuto l’assoluzione sacramentale, fermo restando l’obbligo di evitare lo scandalo. Il confessore deve tener presente che si tratta di penitenti che vivono in occasione prossima necessaria [= moralmente non possono interrompere fisicamente la convivenza]. Pertanto: - possono essere assolti se, manifestato il loro proposito di escludere l’affectio coniugalis, si impegnano a ricorrere ai mezzi che il sacerdote loro indica; - se questi stessi sono recidivi [= già ammoniti dal confessore hanno trascurato il ricorso ai mezzi consigliati e sono ricaduti nel peccato di avere rapporti sessuali], normalmente l’assoluzione deve essere differita, fino a quando ci siano segni sicuri di vero proposito, a meno che diano segni veramente straordinari di conversione. 2,3. [Movimento graduale]. La rottura della convivenza peccaminosa può anche accadere "uno ictu", ma normalmente essa comporta un cammino di conversione prolungato: cammino che non sempre giunge alla sua meta di cui abbiamo parlato poc’anzi. Ed è in questo cammino che diventa particolarmente necessario una partecipazione dei FDR alla vita della Chiesa, nella forma loro possibile, e una grande vicinanza del pastore. E’ importante far capire ai FDR che la disciplina penitenziale loro richiesta, se accettata, è ricca di conseguenze positive anche sulla vita della Chiesa. La loro accettazione in primo luogo mostra la loro volontà di rimanere nell’unità della Chiesa, nella sua comunione. Essi devono sapere che questa è la via migliore per ricevere la grazia di una conversione sempre più profonda. L’esperienza di tanti FDR che hanno accolto umilmente questa loro condizione ecclesiale dimostra che essi hanno ritrovato un modo di essere nella Chiesa che dona loro serenità e pace, perché si rendono conto che Essa non li ha abbandonati a se stessi. In secondo luogo, la fedeltà dei FDR alla disciplina della Chiesa aiuta sicuramente tutti i fedeli ad avere un più profondo rispetto all’Eucarestia. E’ questo un punto d’importanza pastorale fondamentale. In un periodo in cui ci si confessa sempre meno e ci si comunica sempre più, non è sbagliato interrogarci se le tante persone che si comunicano siano in possesso delle disposizioni necessarie per una comunione degna. Il considerare che ci sono fedeli che desiderano accostarsi all’Eucarestia, e non lo possono fare a causa della condizione di vita in cui si trovano, aiuta sicuramente tutti ad esaminare se stessi "per non mangiare e bere la propria condanna". In terzo luogo, ma non dammeno, la fedeltà dei FDR alla disciplina della Chiesa aiuta chi si sta preparando al matrimonio a vedere con più profondità la serietà dell’impegno matrimoniale, ed a cogliere il valore dell’indissolubilità. 2,4 [Altre situazioni irregolari]. I FDR sono nella condizione che pone problemi più difficili al pastore d’anime. Non mancano però altre situazioni sui quali ora intendo dare i fondamentali orientamenti pastorali. - Battezzati cattolici sposati solo civilmente. Due premesse per capire la condizione di queste persone. La prima: la mancanza della forma canonica ha privato di ogni efficacia il loro consenso matrimoniale, così che non si è costituito il vincolo coniugale. La seconda: non si deve escludere in linea di principio che vi sia fra loro un vero e proprio consenso matrimoniale cioè "l’atto della volontà con cui l’uomo e la donna, con patto irrevocabile, danno e accettano reciprocamente se stessi per costituire il matrimonio" (can. 1057,2). Ciò premesso, nulla si oppone a che i due si sposino canonicamente: è necessaria la licenza dell’Ordinario del luogo. Non si deve però agire senza aver fatto riflettere seriamente i due sulla scelta precedentemente fatta in contrasto colla Chiesa e sui motivi che l’hanno determinata. E’ una occasione privilegiata per una catechesi profonda sulla sacramentalità del matrimonio. Verificandosi le condizioni previste dal can. 1161, par, 1. il Vescovo può concedere la "sanazione in radice" (cfr. can. 1165, 2). Fin che perdura la loro situazione, quanto è stato detto nei corollari a - b del n° 1 (sopra), vale anche di questi fedeli. - Battezzati conviventi. E’ necessario distinguere in primo luogo la "convivenza" da una "semplice relazione". La prima comporta la coabitazione sotto lo stesso tetto; la seconda non comporta questa circostanza. [Convivenza]. Se i due sono uniti da matrimonio precedente (divorziati o separati) e non sono sposati civilmente, quanto è stato detto del FDR vale anche per questi fedeli. Si deve fare molta attenzione a che siano pienamente tutelati i diritti di eventuali figli (legittimazione…). Se i due non sono uniti da precedente matrimonio, si deve essere molto rigorosi nei confronti di queste situazioni che stanno crescendo, e costituiscono uno dei fatti più gravi, anche in ordine al bene comune della città terrena. Rigore significa che devono essere messi chiaramente di fronte all’unico aut-aut loro possibile: o il matrimonio o la rottura della convivenza, offrendo ogni aiuto per superare le eventuali difficoltà che possono avere per il matrimonio. [Semplice relazione]. Devono essere pastoralmente e sacramentalmente trattati come ogni "peccatore abitudinario" in materia grave. La nostra azione pastorale, perché sia efficace, deve possedere alcune caratteristiche, senza delle quali essa è gravemente compromessa. La prima è l’unità dei pastori. Iniziative o scelte, anche attinenti a singole persone, in contrasto con quanto detto sopra ha conseguenze disastrose sull’insieme dell’azione pastorale della nostra Chiesa. Per almeno due ragioni. In primo luogo, i fedeli cominceranno a distinguere fra sacerdote e sacerdote secondo il criterio di chi "capisce i problemi della gente" e "chi non capisce", facendo coincidere i primi con chi di fatto approva la loro condizione di FDR o altra situazione irregolare. In secondo luogo, i fedeli – anche non DR – cominceranno a pensare che non si tratta poi di una questione tanto importante, o di una posizione unanime della Chiesa. Col risultato che il pastore fedele e misericordioso viene messo in cattiva luce nei confronti di chi ha confuso misericordia ed infedeltà. La seconda è l’assenza della presunzione, non ritenendo di avere la competenza ultima nel dare il giudizio sul come orientare i FDR e gli altri in condizione irregolare, anche in contrasto colla disciplina ecclesiale, in base a supposte ragioni pastorali, meglio conosciute da una presuntuosamente supposta vicinanza alle persone. Non esiste una "verità pastorale" in contrasto colla "verità dottrinale" (cfr. Lett. Enc. Veritatis splendor 56). La grave difficoltà in cui versa oggi il matrimonio esige da parte di noi pastori una grande unità, una grande carità, una grande fedeltà, una grande umiltà. PROBLEMI ED ESIGENZE PARTICOLARI. Fin dall’inizio vi dicevo che la pastorale dei FDR pone anche dei problemi di carattere più generale sui quali vorrei ora attirare brevemente la nostra attenzione. La problematica dei FDR sottolinea una triplice esigenza catechetica, riguardante la natura sacramentale del vincolo coniugale, la natura sacramentale del battesimo e la comunione eucaristica. Una parola su ciascuno di essi. Non dobbiamo mai presentare l’indissolubilità matrimoniale in primo luogo come una legge morale. Essa è intrinseca ad un fatto compiuto da Cristo stesso attraverso il segno sacramentale: l’uno è donato all’altro, definitivamente. Pertanto, gli sposi non si appartengono più. E’ necessario spiegare profondamente la natura sacramentale ed antropologica del "vinculum coniugale". Il riferimento al battesimo è pressoché assente da questa problematica: è una grave lacuna dottrinale. E’ il battesimo che rende vero tutto ciò che ho detto finora. Che il sacramento del battesimo sia la porta di tutti i sacramenti è vero in modo particolare del matrimonio. Riguardo alla comunione eucaristica. Essa forse ha subito fortemente l’effetto collaterale preterintenzionale di una certa applicazione della riforma liturgica: aver reso più difficile ai fedeli l’incontro col Mistero. La comunione è la partecipazione più alta che è data all’uomo su questa terra al mistero dell’Alleanza di Cristo colla sua Chiesa: Alleanza significata dal Matrimonio. Teniamo presenti questi tre temi che sono centrali nella catechesi matrimoniale. + Carlo Caffarra Arcivescovo di Ferrara-Comacchio 22 febbraio 2000 Festa della Cattedra di S. Pietro MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI Nota Dottrinale del 14 febbraio 2010 La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori massmediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione. 1. Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l’umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico. In Occidente l’istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall’interno il vincolo coniugale: non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti. La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. È davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica. Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa "disistima intellettuale" è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli. A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento – fosse anche una sola! – una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune. La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa. 2. L’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune. Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita. Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo. Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio. 3. Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema. L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra. Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo. 4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione. La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi. Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: "L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo" [2,2, q.63, a. 1c]. Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone. Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica. L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento. Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza. Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile. 5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere. Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono. Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale. Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie. È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso. Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche. Bologna, 14 febbraio 2010 Festa dei Santi Cirillo e Metodio Compatroni d’Europa + Carlo Card. Caffarra Arcivescovo di Bologna Solennità di S. Clelia Barbieri nel Santuario di S. Maria delle Budrie 13 luglio 2011 1. «Mettimi, come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». Sono le ultime parole, le parole definitive e conclusive che la sposa dice allo sposo. La Chiesa, rispettosa interprete della fede di Clelia, le mette sulle sue labbra: è Clelia che dice a Gesù, «mettimi, come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». Non è difficile avvertire in queste parole il richiamo al nucleo centrale dell’esperienza di fede di Clelia e nostra: essa [la fede] istituisce un’alleanza d’amore fra la creatura ed il suo Creatore. Ed in particolare l’immagine del sigillo sul cuore e sul braccio richiama quello che Gesù stesso ha detto essere il primo comandamento della Legge e dei profeti: «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Te li legherai alla mano come un segno». L’esperienza della fede coinvolge e commuove le radici stesse del nostro io – del «cuore» preferisce dire la Scrittura – come dimostra l’unico scritto lasciatoci da Clelia. Ella infatti dice: «Signore, aprite il vostro cuore e buttate fuora una quantità di fiamme d’amore e con queste fiamme accendete il mio; fate che io bruci d’amore». Queste parole dimostrano come quanto dice la Scrittura si è realizzato in Clelia. I due, il Signore Gesù e l’umile ragazza de Le Budrie, sono ormai identificati. L’apostolo Paolo scrive: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» [Gal 2, 20]. Clelia, in fondo, non ha avuto bisogno di intermediari pur essendo poco più che analfabeta, come tutte le ragazze del popolo del suo tempo. Certamente, ella si affida sempre al discernimento della Chiesa nella persona del suo parroco. Ma sarà Cristo stesso il suo maestro interiore, la sua guida quotidiana. 2. «Forte come la morte è l’amore … le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore». Messo come un bracciale, come un sigillo sul braccio del Signore, il credente diventa partecipe della forza stessa del Signore medesimo. Cari amici, provate a pensare i due termini anagrafici della vita di Clelia. Ella nasce il 13 febbraio 1847 e muore il 13 luglio 1870. Dunque, 1847-1870: quanto potenti furono gli attacchi contro la Chiesa, il Papa e i Vescovi durante quegli anni! Non penso, in questo momento, ai fatti politici. Penso al fatto che in Italia prese corpo, iniziò quell’attacco sul piano culturale contro la fede del suo popolo; prese corpo il tentativo, tutt’altro che dismesso, di privare il popolo italiano della sua vera carta d’identità, della sua “cifra” di riconoscimento: la fede cattolica. Clelia era come un sigillo messo sul braccio del suo Sposo Gesù, e divenne potente – lei umile e povera ragazza di queste campagne - della potenza stessa del Signore. Ella trasmise la fede entrando appena quattordicenne nel gruppo dei catechisti. Ella fu depositaria di un grande carisma di educazione, di condivisione della vita del nostro popolo, che ha preso corpo in un istituto religioso e continua ad essere vissuto con esemplare fedeltà dalle sue figlie. Tutto questo perché «forte come la morte è l’amore». Anzi, in Cristo noi vediamo che è più forte della morte. «Dov’è, o morte, la tua vittoria?» scrive S. Paolo «Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore Nostro Gesù Cristo» [1Cor 15, 55.57]. Nei momenti più difficile la Chiesa trova la sua forza nei suoi santi. Anche la Chiesa di Dio in Bologna trovò la sua forza nei suoi santi: Clelia, Ferdinando Maria Baccilieri, Elia Facchini. Ora comprendiamo a fondo le parole della Scrittura. Esse sono il grido che la Chiesa stessa rivolge al suo sposo, il Cristo: «mettimi, come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». “Il tuo amore” implora la Chiesa “e la forza del tuo braccio mi faranno superare tutto i tentativi che le porte degli inferi faranno per distruggermi”. E noi, cari amici, che cosa diremo? come potremo fare nostra questa implorazione della Chiesa? Membra come siamo del Corpo di Cristo, ciascuno può dire col Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia; da Lui la mia speranza; Lui solo è mia rupe e mia salvezza, mia roccia di difesa: non potrò vacillare» [Sal 62 (61), 6-7]. “Non temere, dunque, piccolo gregge: a te al Signore è piaciuto di donare il Regno”. S. Em. Card. Carlo Caffarra Arcivescovo Metropolita di Bologna Solennità del Corpo e Sangue del Signore in Cattedrale 23 giugno 2011 1. «Mosè parlò al popolo dicendo: ricordati … Non dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto … ». Cari fratelli e sorelle, è la memoria che custodisce l’identità di un popolo, e anche l’identità di ciascuno di noi. Chi perde le memoria, perde se stesso. Non sto parlando della memoria di tante banalità della vita; sto parlando della memoria di avvenimenti che hanno fondato l’esistenza del popolo, o hanno segnato per sempre la vita del singolo. Mosè raccomanda ad Israele di non perdere mai la memoria di quell’evento che ha fondato Israele e ne ha costituito l’identità: «non dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile». Anche il Signore Gesù ha desiderato che il suo popolo, la sua Chiesa custodisse sempre la memoria dell’evento che l’ha fatta essere. Anche la Chiesa se perdesse la memoria, perderebbe se stessa. Quale è l’evento che ha fondato la Chiesa, che ha fatto di noi, “che un tempo eravamo non popolo, il popolo di Dio” [cfr 1Pt 2, 10]? La morte e la risurrezione di Gesù. Mediante la sua morte Egli ci ha liberati; mediante la sua risurrezione ci ha resi partecipi della vita stessa di Dio. Perché la Chiesa ricordasse sempre questo evento, il Signore “nell’ultima cena con i suoi Apostoli, volle perpetuare nei secoli il memoriale della sua passione” [Pref. dell’Eucarestia II]. La celebrazione dell’Eucarestia è la memoria della Chiesa. Tuttavia quando in questo contesto parliamo di memoria, questa parola non ha solamente il significato che ha nel nostro linguaggio usuale. Quando noi celebriamo l’Eucarestia, non siamo solamente condotti a ricordare un fatto passato [come avviene per tanti fatti della nostra vita], ma nell’Eucarestia Cristo è realmente, personalmente presente col suo Corpo e Sangue. Celebrando l’Eucarestia facciamo memoria dell’evento fondatore, perché abbiamo la possibilità di essere presenti al sacrificio di Cristo sulla Croce. È per questo che l’apostolo Paolo, nella seconda lettura, ci ha detto: «fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? e il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?» Nella celebrazione eucaristica, Cristo pone nelle nostre mani il suo corpo offerto ed il suo sangue effuso, perché noi stessi ne compiamo il sacrificio. È in questo modo che la Chiesa resta sempre ancorata nella memoria del Sacrificio che l’ha fondata, e continuamente la rigenera. 2. Cari fratelli e sorelle, quando il popolo ebreo dimenticò l’avvenimento che l’aveva costituito, perse di nuovo la libertà e ritornò in esilio. Il luogo in cui la Chiesa, le nostre comunità imparano ad essere se stesse – comunità del Signore – è la celebrazione eucaristica. È questa la scuola in cui impariamo ad essere Chiesa. Infatti, come ci dice l’Apostolo, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane».