APPUNTI INTRODUTTIVI PER IL CORSO DI
ANTROPOLOGIA ED ETICA (6 CFU)
II ANNO CORSO DI LAUREA TRIENNALE L19
Educatori dell’infanzia e dell’integrazione sociale DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE UNIVERSITÀ LUMSA -­‐‑ ROMA ANNO ACCADEMICO 2014-2015
DOCENTE: Calogero Caltagirone
PER PREPARARE L’ESAME GLI STUDENTI FREQUENTANTI DEVONO STUDIARE
QUESTI APPUNTI INTRODUTTIVI E I SEGUENTI LIBRI:
STEIN E. La struttura della persona umana. Corso di antropologia filosofica, Città Nuova-­‐Edizioni OCD, Roma 2013. ARENDT H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2000. GLI STUDENTI CHE IN CONTEMPORANEA ALLE LEZIONI
SONO STATI IMPEGNATI IN ATTIVITÀ DI TIROCINIO
DEVONO PRENDERE CONTATTO DIRETTEMENTE CON IL DOCENTE
GLI STUDENTI NON FREQUENTANTI
E QUELLI CHE HANNO SUPERATO IL 40% DELLE ASSENZE
OLTRE A STUDIARE I MATERIALI DI CUI SOPRA
DEVONO INTEGRARE LO STUDIO CON I SEGUENTI TESTI:
ARISTOTELE, L’anima, Bompiani, Milano 2003. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2003, LIBRI I,II,III,VI. Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 1
INTRODUZIONE
Il «discorso» (lògos) sull’uomo e sulla sua «verità» nell’attuale contesto culturale diventa sempre
più difficoltoso e quanto mai altamente problematico. Il pensare e l’agire dell’uomo di oggi, infatti,
sono esposti a molteplici tensioni, a correnti mutevoli e a sistemi divergenti che, tendendo
all’estenuazione e al superamento di qualsiasi discorso significativo sull’umano, interrompono, di
fatto, ogni possibilità di «dire» qualcosa sull’uomo.
L’attuale «questione antropologica» mette, infatti, in evidenza problemi che richiedono la
ridefinizione di un orizzonte antropologico ampio e profondo capace di cogliere e dire la «verità»
dell’uomo nella sua pienezza e ricchezza. 1 Questo perché le unilateralità comprensive della
soggettività autofondata, messa in opera dalla modernità, e della soggettività decostruita e dissolta,
messa in atto dalla postmodernità, possono essere superate solo nella possibilità di «ri-pensare»
l’uomo, che, in quanto libero e intelligente, non soltanto vive ma, a differenza degli altri viventi, sa
di vivere e, quindi, è il protagonista primo ed originario del questionare e del dare risposte
significative allo stesso questionare. Ciò in ragione del fatto che il problema della struttura
antropologica dell’essere umano, nell’ambito di una comprensione interale della stessa, rappresenta
uno «snodo» ineludibile all’interno del discorso antropologico. Infatti, si tratta di determinare non
solo l’unità bio-psico-spirituale dell’uomo, ma anche la sua specificità e significatività nell’ordine
dei viventi e il suo modo di essere al mondo secondo relazioni significanti e significative che
istituiscono rapporti orientati alla «promozione» di piena umanità.
Tuttavia, la praticabilità di un «discorso» sull’uomo deve misurarsi con gli attuali «nodi» della
questione antropologica i quali, provocando la rottura e disarticolazione delle fondamentali
dimensioni antropologiche, condizionano, di fatto, qualsiasi discorso sull’umano. Pertanto, a di là di
ogni possibile estenuazione del «discorso» sull’uomo, oltre le derive della frantumazione, nelle
quali le fenomenologie vissute proliferano senza possibilità di intravedere i «legami» dell’umano
tra gli umani, s’impone la necessità di «ri-pensare» l’uomo e il suo senso che, nel guardare
all’intero antropologico, sia in grado, oltre le relazionalità infrante della modernità e della
postmodernità, di individuare criteri per una ri-significazione del «discorso» antropologico
sviluppato nella sua interalità costitutiva.
In questo contesto, la necessità di «ri-pensare» l’uomo implica il misurarsi con l’orizzonte
antropologico contemporaneo. Costituendo l’ambito che fa da sfondo alla questione relativa allo
statuto dell’umano, tale orizzonte si caratterizza, da un lato, dalla diffusa convinzione
dell’impossibilità di impiantare un compiuto discorso globale sull’umano e, dall’altro, dalla
pervasiva convinzione del suo superamento dovuta alla diffusione degli esiti della rivoluzione
biotecnologica che tenta continuamente di spostare i confini dell’identificabilità dell’umano.
Nella sua Lettera sull’“umanismo”, chiedendosi «da dove e come si determina l’essenza
dell’uomo», proponendosi di fornire elementi di risposta relativi alla questione, particolarmente
avvertita nella cultura europea dopo la Seconda guerra Mondiale, posta da Jean Beaufret, di come
possa essere praticabile ridonare un senso alla parola «Humanismo», 2 e valutando, inoltre,
l’eventualità di mantenere ancora la parola «umanismo», nonostante l’evidenza del male che recano
1
Sulla questione relativa all’individuazione di un orizzonte antropologico fondamentale capace di cogliere e dire la
«verità» dell’uomo, Cfr. C. CALTAGIRONE, La misura dell’uomo. La questione veritativa in antropologia, Edizioni
Lussografica, Caltanissetta 2009; IDEM, L’umanità dell’uomo. Sondaggi antropologici tra scienza e filosofia, Edizioni
Solidarietà Caltanissetta 2004; C. CALTAGIRONE, (a cura di), Antropologia e verità dell’uomo, Salvatore Sciascia
Editore, Caltanissetta-Roma 2000.
2
«Le mi chiede: Comment redonner un sens au mot “Humanisme”». M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in
IDEM, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 20024, p. 269. «Le chiede [...] “come ridare senso alla parola
umanismo?”. La sua domanda non presuppone soltanto che lei vuole conservare la parola “umanismo“, ma contiene
anche l’ammissione che questa parola ha perduto il suo senso». Ibidem, p. 297.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 2
tutte le denominazioni di questo genere,3 Martin Heidegger scrive che «se l’uomo deve ancora una
volta ritrovare la vicinanza dell’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi. Egli
deve riconoscere allo stesso modo sia la seduzione della pubblicità, sia l’impotenza della
condizione privata. Prima di parlare l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col
pericolo che, sotto questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire. Solo così viene
ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella
verità dell’essere».4
Analizzando alcune «forme» di umanesimo che si sono susseguite nella storia5 e rilevando i
limiti di ciascuna di esse, che, a suo giudizio, stanno nel fatto che tali «forme» poggiano sul
fondamento fragile della metafisica, che fa di ogni umanesimo il suo derivato, anzi «ogni metafisica
è il suo essere umanistico», per cui «ogni umanesimo rimane metafisico»,6 Heidegger afferma che
3
«Certo, da molto tempo si diffida degli “ismi”. Ma il mercato dell’opinione pubblica ne pretende sempre di nuovi, e si
è sempre pronti a soddisfare questo bisogno. Anche nomi come «logica», «etica» e «fisica» compaiono non appena il
pensiero originario volge alla fine. [...]. Quando il pensiero, ritirandosi dal suo elemento, volge alla propria fine,
sostituisce questa perdita procurandosi un valore come tècnh, come strumento di formazione, quindi come esercizio
scolastico, e poi come attività culturale. A poco a poco la filosofia diventa una tecnica di spiegazione a partire dalle
cause supreme. Non si pensa più, ma ci si occupa di “filosofia”. Tali occupazioni, in concorrenza fra loro, si offrono
pubblicamente come “ismi” e tentano di superarsi. Il dominio di tali etichette non è casuale. Soprattutto nell’epoca
moderna, esso riposa sulla dittatura peculiare della dimensione pubblica. La cosiddetta “esistenza privata” non tuttavia
ancora l’essere-uomo essenziale, cioè libero. Essa si irrigidisce semplicemente nella negazione della dimensione
pubblica, rimane una propaggine da essa dipendente e si nutre dal mero ritiro dall’ambito pubblico. Tale esistenza
testimonia così, contro la propria volontà, l’asservimento alla dimensione pubblica. Questa, a sua volta, è l’istituzione e
l’autorizzazione dell’apertura dell’ente nell’incondizionata oggettivazione di tutto, istituzione e autorizzazione che, in
quanto derivanti dal dominio della soggettività, sono condizionate dalla metafisica. Questa è la ragione per cui il
linguaggio cade al servizio della funzione mediatrice delle vie di comunicazione per le quali l’oggettivazione, come
uniforme accessibilità di tutto a tutti, si estende in spregio a ogni limite. Così il linguaggio cade sotto la dittatura della
dimensione pubblica. Questo decide preventivamente ciò che è comprensibile e ciò che deve essere rifiutato come
incomprensibile». M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, pp. 270-271.
4
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 273.
5
«Ma partendo da dove, e come, si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende che l’“uomo umano” venga
conosciuto e riconosciuto. Egli lo trova nella “società”. Per lui l’uomo “sociale” è l’uomo “naturale”. Nella “società” la
“natura” dell’uomo, cioè la totalità dei “bisogni naturali” (nutrimento, vestiario, riproduzione, sussistenza economica), è
assicurata in modo uniforme. Il cristiano vede l’umanità dell’uomo, l’humanitas dell’homo, nella sua limitazione
rispetto alla deitas. Da punto di vista della storia della salvezza, l’uomo è uomo in quanto “figlio di Dio” che ode in
Cristo l’appello del padre e lo accoglie. L’uomo non è di questo mondo, in quanto il “mondo”, pensato in modo
teoretico-platonico, è solo un passaggio transitorio verso l’al di là. È al tempo della Repubblica romana che l’humanitas
viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humnus si oppone all’homo
barbarus, L’homo humanus è qui il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’“incorporazione” della
paideía assunta dai Greci. [...]. In Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta
un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il
cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. Riguardo la romanitas, la
renascentia ha a che fare con l’humanitas e quindi con la paideía greca. Ma la grecità viene sempre considerata nella
sua forma tarda e questa in modo romano. Anche l’homo romanus del Rinascimento si contrappone all’homo barbarus.
[...]. All’umanismo storicamente inteso appartiene perciò sempre uno studium humanitatis, che attinge in modo
determinato all’antichità, spingendosi talvolta fino a una ripresa della grecità. [...]. Per quanto queste forme di
umanismo possono essere differenti nel fine e nel fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva
realizzazione, nella forma della dottrina, esse, tuttavia, concordano nel fatto che l’humanitas dell’homo humanus è
determinata in riferimento a un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del
mondo, cioè dell’ente nella sua totalità». M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, pp. 273-275.
6
«Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È
metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo,
l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui
viene determinata l’essenza dell’uomo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “umanistica”.
Pertanto ogni umanismo rimane metafisico, Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la
questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché,
a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprendere». M. HEIDEGGER, Lettera
sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 275.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 3
l’esigenza autentica dell’humanitas può essere colta unicamente nel riferimento dell’uomo
all’essere, anche se «l’essere attende ancora di divenire esso stesso degno dell’uomo di essere
pensato».7 Ciò perché il riferimento all’essere, secondo Heidegger, consente di ricondurre l’uomo
nella giusta direzione, in quanto esso ritrova la sua humanitas quando ex-siste, sta-fuori nella verità
dell’essere, nel sue essere aperto, sopportando l’esser-ci e «assumendo nella sua “cura” il “ci” come
radura dell’essere».8 Ma, siccome «l’esser-ci, a sua volta, è (west) in quanto è “gettato”»,9 e l’uomo
è «gettato» «dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così e-sistendo, custodisca la
verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è»,10 per definire
la propria umanità, all’uomo «resta il problema di trovare la destinazione con-veniente (das
Schickliche) alla sua essenza, che corrisponda a questo destino (Geschick); Perché, conformemente
a questo destino, egli, in quanto e-sistente, ha da custodire la verità dell’essere».11
Facendo intravedere che il senso di un nuovo umanesimo è motivato dal fatto che «la sostanza
dell’uomo è l’esistenza»,12 Heidegger manifesta la convinzione circa la necessità di una revisione
dell’humanitas, dell’essenza dell’uomo, al di là di una sua rappresentazione metafisica, che viene
operata attraverso la chiarificazione del senso dell’essere, oltre la deriva dell’onto-teologia, tramite
la quale l’uomo ha esperito la lontananza dal proprio sé ed ha vissuto nell’alienazione determinata
dall’oblio dell’essere. Dinanzi a tale alienazione, per Heidegger, «il futuro destino dell’uomo si
mostra al pensiero che pensa la storia dell’essere nel fatto che egli trovi una via verso la verità
dell’essere e si mette in cammino verso questa scoperta».13
Prendendo esplicitamente e inequivocabilmente le distanze dalla lettura di Jean Paul Sartre del
suo pensiero, secondo il quale l’essenza dell’uomo consiste nella pura libertà e, che, quindi, viene
preceduta dall’esistenza,14 nel ribadire che il cammino stesso dell’umanità è del tutto inadeguato a
cogliere il livello ontologico essenziale che contrassegna l’ente-uomo, 15 Heidegger critica la
tendenza a pensare l’essere sul modello dell’ente, affermando, allo stesso tempo, la necessità di non
7
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 276. «Per giungere nella dimensione della verità
dell’essere in modo da poterla pensare, noi, uomini d’oggi, siamo tenuti a chiarire anzitutto come l’essere riguarda
l’uomo e come lo reclama». Ibidem, p. 282.
8
Ibidem, p. 280.
9
Ivi.
10
Ibidem, p. 283.
11
Ibidem, p. 284.
12
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 283. «Solo che la parola “sostanza” pensata da punto
di vista della storia dell’essere, è già la traduzione occultante di o÷sía, una parola che nomina la presenza
(Anwesenheit) di ciò che è presente e, per un’enigmatica ambiguità, il più delle volte vuol dire nello stesso tempo ciò
che è presente. Se pensiamo la denominazione metafisica di “sostanza” in questo senso, che già si annunzia in Sein und
Zeit conformemente alla “distruzione fenomenologica” che la è compiuta, allora la proposizione: “la ‘sostanza’
dell’uomo è l’e-sistenza” non dice altro che questo: il modo in cui l’uomo, nella sua essenza propria, è presente
all’essere è l’estetico stare-dentro nella verità dell’essere. Con questa determinazione essenziale dell’uomo non vengono
dichiarate false e rifiutate le interpretazioni umanistiche dell’uomo come animal rationale, come “persona”, come
essere composto di spirito, di anima e di corpo. Piuttosto, l’unico pensiero è che le supreme determinazioni umanistiche
dell’essenza dell’uomo non esperiscono ancora l’autentica dignità dell’uomo. In questo senso il pensiero di Sein und
Zeit è contro l’umanismo». Ivi.
13
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 294.
14
«La tesi capitale di Sartre circa il primato dell’existentia sull’essentia giustifica il termine “esistenzialismo” come una
denominazione adeguata a questa filosofia. Ma la tesi capitale dell’“esistenzialismo” non ha nulla in comune con la
frase di Sein und Zeit: e ciò a prescindere dal fatto che in Sein und Zeit non è ancora possibile enunciare una tesi sul
rapporto tra essentia ed existentia, perché in quella sede di tratta di approntare qualcosa di provvisorio e pre-cursorio
(ein Von-läufiges)». M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 282.
15
In particolare Heidegger accusa Sartre di essere rimasto all’interno della metafisica tradizionale e della sua
dimenticanza originaria dell’essere. Infatti, per Heidegger, Sartre «esprime così il principio fondamentale
dell’esistenzialismo: l’esistenza precede l’essenza. Qui egli assume existentia ed essentia nel significato della
metafisica, la quale, da Platone in poi, dice: l’essenza precede l’esistenza. Sartre rovescia questa tesi, ma il
rovesciamento di una tesi metafisica rimane una tesi metafisica. Come tale, anche questa tesi resta, con la metafisica,
nell’oblio della verità dell’essere». M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 281.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 4
fare più riferimento a un ente singolo, neppure all’uomo, che è «chiamato dall’essere» a «stare nella
radura dell’essere»,16 dove il termine radura (Lichtung) indica il luogo del bosco in cui traspare la
«luce» (Licht) dell’essere, e che, in quanto parlante, è «il pastore dell’essere».17
Nel determinare, in questo modo, uno spostamento di prospettiva che tenta di non pensare più
l’essere e il mondo a partire dall’uomo, ma l’uomo e il mondo a partire dall’essere, sulla base della
consapevolezza che si è su un piano dove «précisément nous sommes sur un plain où il y a
principalment l’Être» e non come pensa Sartre, il quale scrive che «précisément nous sommes sur
un plain où il y a seulemente des hommes», 18 tanto da indurre a pensare che il problema intorno
all’«essenza» dell’uomo cessa di essere un problema intorno all’uomo, per diventare un problema
intorno all’essere, e nel mostrare l’impostazione «antiumanistica» di questo spostamento nel suo
pensiero, Heidegger considera anti-umanista ogni dottrina che «spieghi e valuti l’ente nel suo
insieme a partire dall’uomo e in vista dell’uomo».19 Di conseguenza, essendo l’umanesimo un
pensiero che fa parte integrante della storia della metafisica e del suo oblio dell’essere, tanto che
l’oltrepassamento della metafisica comporta il superamento dell’umanesimo e viceversa,
l’affermazione heideggeriana dell’uomo come «pastore dell’essere» assume una connotazione
antiumanistica, in quanto l’uomo lungi dall’essere il soggetto dell’ente è colui che decide
dell’essere. Questo perché non è l’uomo che, decidendo di se stesso e dell’ente, sostiene e
determina l’essere, ma è la storia dell’essere che determina ogni condition et situation humaine».20
Tuttavia, per Heidegger, la contrapposizione antiumanistica all’umanesimo non significa che «tale
pensiero si schieri contro l’umano e propugni l’inumano, difenda l’inumanità e svaluti la dignità
dell’uomo», semmai si pensa contro l’umanesimo, perché si pone l’humanitas dell’uomo a un
livello abbastanza elevato», perché «la maestà essenziale dell’uomo non risiede nell’essere la
sostanza dell’ente in quanto suo “soggetto» e nel far dissolvere, in quanto despota dell’essere,
l’esser-ente nella troppo sonoramente celebrata «soggettività”».21
Non implicando una dissoluzione dell’umano a favore dell’essere e non potendo essere
interpretato come una semplice antitesi o un puro capovolgimento dell’umanesimo,
l’antiumanesimo di Heidegger risulta, però, ambiguo nell’impostazione del problema del rapporto
tra l’essere e l’uomo e, pur cercando di approfondire il senso di questo rapporto peculiare che lega
essere e uomo, tale ambiguità sembra risolversi semplicemente a favore dell’essere che come
«destino che destina la verità [...] rimane velato». 22 Da questo punto di vista, a giudizio di
Heidegger, l’umanesimo e le sue «forme» appartengono al passato, come del resto la tradizione
metafisica europea, in quanto anche la stessa parola ha perduto il suo senso. Lo ha perduto,
ribadisce, ancora, Heidegger, perché «si è capito che l’essenza dell’umanismo è metafisica, e ciò
significa ora che la metafisica non solo pone la questione della verità dell’essere, ma se la preclude,
in quanto la metafisica persiste nell’oblio dell’essere. Ma proprio il pensiero che conduce a capire la
problematica dell’umanismo ci ha portato ad un tempo a pensare più inizialmente l’essere
dell’essenza dell’uomo. In vista di questa più essenziale humanitas dell’homo humanus si dà la
possibilità di restituire alla parola umanismo un senso storico (geschichtlich) che è più antico del
suo senso più antico, valutato dal punto di vista storiografico (historisch). Questo restituire non è da
intendere come se la parola “umanismo” fosse in generale priva di senso, un semplice flatus vocis.
L’“humanum” richiama la parola humanitas, l’essenza dell’uomo. L’“ismo” allude al fatto che
l’essenza dell’uomo dovrebbe essere presa come essenziale. Questo è il senso che la parola
“umanismo” ha in quanto parola. Restituirle un senso può significare solo rideterminare il senso
16
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 277.
Ibidem, p. 284-285.
18
Ibidem, p. 287.
19
M. HEIDEGGER, Sentieri interroti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 43.
20
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, p. 268.
21
Ibidem, p. 293.
22
Ibidem, p. 292.
17
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 5
della parola. Ma per questo è necessario che l’essenza dell’uomo sia esperita in modo più iniziale, e
poi che si mostri in che misura questa essenza, a suo modo, divenga destino».23
Tale posizione, ovviamente, provoca la frantumazione del senso e dell’orizzonte di significato
globale dell’uomo e determina un processo di decostruzione dell’uomo e della sua comprensione,24
che trova nell’esito nichilista la sua soluzione immediata e più diffusamente condivisa. Non a caso
l’emblematica espressione di questo pervasivo modo di sentire, concretatosi come storia degli
effetti della posizione heideggeriana, è costituita dall’annuncio nietzschiano dell’Oltreuomo che
dichiara la «fine» dell’uomo e considera la sua umanità snodata in una storia di eventi che lo
riducono a puro spazio di maturazione di processi.25
Specificamente questa interpretazione è, da una parte, rappresentata dal permanere della
convinzione, tipicamente moderna, che l’uomo come soggetto si esprime nell’autoaffermazione di
sé come unicità normativa,26 e dalla persuasione postmoderna, per la quale, non esistendo più un
quadro interpretativo globale, l’esperienza umana sembra caratterizzata dalla complessità e
multiformità dei modelli di vita, 27 che si declinano in modo molteplice e assolutamente
differenziato.28
23
M. HEIDEGGER, Lettera sull’“umanismo”, in IDEM, Segnavia, pp. 297-298. «L’essenza dell’uomo riposa nell’esistenza. È questa ciò che importa in un senso essenziale, cioè a partire dall’essere stesso, in quanto è l’essere che fa
avvenire (ereignet) l’uomo come e-sistente nella verità dell’essere, a guardia di tale verità. Allora, nel caso dedicessimo
di mantenere la parola, “umanismo” significa che l’essenza dell’uomo è essenziale per la verità dell’essere, così che, di
conseguenza, ciò che importa non è più appunto l’uomo, preso semplicemente come tale. Noi pensiamo così im
umanismo di una specie strana. La parola finesce per dare un denominazione che è un “locus a non lucendo”». Ibidem,
p. 298.
24
«Lo scenario del Novecento si è allestito su di un progetto di decostruzione dell’uomo o, quantomeno, di alcune sue
tipologie quasi a voler sancire, dopo la morte di Dio, l’inutilità della domanda antropologica». C. DOTOLO, Il paradosso
della creaturalità: il contributo dell’antropologia teologica alla identità dell’uomo, in C. CALTAGIRONE (a cura),
Antropologia e «verità» dell’uomo, p. 264.
25
In Così parlo Zarathustra Nietzsche scrive che «l’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo (Oltreuomo n.d.r),
– un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi
indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo:
nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto». F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro
per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 200526, p. 8.
26
A giudizio di Jürgen Habermas, le caratteristiche essenziali della soggettività, compresa come la cifra della
modernità, sono: «a) individualismo: nel senso moderno la peculiarità infinitamente particolare fa valere le proprie
pretese; b) diritto alla critica: il principio del mondo moderno esige che ciò che ciascuno deve riconoscere si mostri a lui
come un che di legittimo; c) autonomia dell’agire; è proprio del mondo moderno che noi ci consideriamo responsabili di
quel che facciamo; d) infine, la filosofia idealistica stessa: Hegel considera come l’opere dell’età moderna che la
filosofia colga l’Idea che sa se stessa». J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza,
Roma-Bari 19913, pp. 17-18.
27
«Nel momento in cui questa immediatezza originaria viene relegata nell’inesauribilità di una ulteriorità quasi
indefinibile, può accadere che l’uomo rischi di non ritrovare il proprio senso. Anche se viene operata una riflessione
sull’umana esistenza, o più propriamente, sull’uomo e sul modo di condurre la propria esistenza, l’ulteriorità
inoggettivabile dell’origine pone l’uomo nella condizione di interpretare se stesso solo nel suo carattere differenziale, il
quale, implicato in un continuo “differire”, si concreta in una catena di rinvii in possibili frammenti di senso che si
deducono da molteplici interpretazioni indeterminanti. La non possibilità di stabilire determinazione alcuna, in virtù
della différance, che [...] essendo alla base di ogni “differire” le differenze, dissolve ogni questione circa l’origine, [...] e
provoca la “disseminazione» del senso che, in quanto tale, non è più senso. La “disseminazione», da sempre iscritta in
ogni aspettativa di fruttificazione, abbandona il senso dell’uomo a un principio di “piacere dispersivo”, che, avendo un
rapporto necessario con il godimento e la pulsione di morte, configura l’umano senza un principio ordinatore e lo
considera come una serie di innesti, ibridazioni, di formazioni proteiche non definibili e identificabili». C.
CALTAGIRONE, La misura dell’uomo. La questione veritativa in antropologia, pp. 12-13. Questo carattere differenziale
del soggetto «se da una parte consente di ovviare a una concezione del soggetto come individualità irriducibile nel
senso della puntualità sostanziale, dall’altra però rischia forse di vedere dissolvere il soggetto nelle sue relazioni [...] e
quindi il lasciar campo aperto a una manipo- labilità senza limiti». G. VATTIMO, Individuo e istituzioni: una prospettiva
erme- neutica, in AA.VV., La dimensione etica nelle società contemporanee, Fondazione Agnelli, Torino 1990, pp.
109-110.
28
I termini modernità e postmodernità, ovviamente, costituiscono cifre sintetiche di comprensione generalizzante. È
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 6
opportuno riconoscere l’esistenza di varie modernità e postmodernità dietro il processo storico moderno e
postmoderno. È, infatti, possibile distinguere una modernità scientifica accanto ad una modernità politica e ad una
modernità culturale rispetto alle quali non sono mancati tentativi di sintesi. E lo stesso si può dire del termine
postmodernità letteraria, architettonica, filosofica e cosi via. Anche se noi l’assumiamo nella loro valenza sintetica,
siamo consapevoli che bisogna rifuggire da schemi generalizzanti, da categorie di interpretazione univoca e che è
opportuna una corretta ermeneutica dei processi storici e culturali che configurano la modernità e la postmodernità Sono
evidenti le difficoltà che contraddistinguono i tentativi di determinare la portata concettuale e valoriale delle categorie
della modernità e della postmodernità. La modernità, «nel tentativo di circoscrivere euristicamente il presente, rinvia ad
un insieme di problemi scaturenti sia dalla fluidità teorica della nozione, preoccupata forse di indicare piste di riflessioni
adeguate all’urto della contemporaneità, sia dalla inedita cartografia teoretica ed etica che sembra non riconoscersi nelle
realizzazioni culturali del passato. Da qui, una serie di interrogativi sui processi di elaborazione, progettazione e
costruzione dell’assetto della contemporaneità, le cui volute sono attraversate da fessure e incrinature di senso così
profonde che richiedono un intervento interpretativo più ampio e radicale. A partire, almeno, da una rivisitazione di
quella formula d’armonia che ha ispirato i processi dell’illuminismo e che, nella revisione degli ambiti conoscitivi
dell’idealismo, ha conosciuto un rallentamento significativo. In tale ottica, la post-modernità, mentre inaugura una
querelle sulla problematicità del presente, apre la questione su quale sia la più adeguata interpretazione della modernità,
alla cui intenzionalità è attribuita l’immagine di un tempo storico e di una costruzione unitaria del mondo». C. DOTOLO,
La teologia fondamentale davanti alle sfide del «pensiero debole» di G. Vattimo, Las, Roma 1999, 39-40. Il problema
della definizione, periodizzazione e identificazione cronologica del paradigma della modernità investe delle questioni
teorico-pratiche che provocano un conflitto di interpretazioni veramente notevoli. Per una ricostruzione critica, sintetica
ed esauriente della problematica, Cfr. C. DOTOLO, La teologia fondamentale davanti alle sfide del «pensiero debole» di
G. Vattimo, pp. 35-158. P. Rossi nell’offrire un «tipologia» del moderno, caratterizza la modernità come «1) l’età di una
ragione forte che costruisce spiegazioni totalizzanti del mondo e che è dominata dall’idea di uno sviluppo storico del
pensiero come incessante e progressiva illuminazione; 2) come l’età dell’ordine nomologico della ragione e di una
struttura monolitica e unificante; 3) come l’età dell’appropriazione e riappropriazione dei fondamenti o come l’età del
pensiero inteso come accesso al fondamento; 4) come l’età dell’autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e
totale coincidenza fra verità ed emancipazione; 5) come l’età del tempo lineare, caratterizzata dal “superamento”,
ovvero della novità che invecchia ed è rapidamente sostituita da una novità più nuova; 6) come l’età dominata dalla
persuasione della positività dello sviluppo e della crescita tecnologica intesi come progetti capaci di previsione totale e
di totale dominio». P. ROSSI, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna 1989, p. 39. A
differenza della cifra di modernità, quella di postmodernità sta significare che il modo di essere e di esprimersi
dell’uomo non è più riconducibile ad una unitarietà di riferimenti significativi, ma è collocabile in uno spazio di
indefinibilità che, implicando la desoggettualizzazione dell’umano e delle sue forme, delinea la dissolvenza di ogni
possibile discorso antropologico ed etico in grado dei rendere conto della verità dell’essere e dell’agire dell’uomo.
Presentandosi come un termine riassuntivo delle trasformazioni sociali, economiche e culturali del presente, intendendo
mettere in evidenza lo stacco che l’uomo contemporaneo avverte nei confronti dell’era moderna in seguito al venire
meno della legittimità delle visioni del mondo che finora hanno dato senso all’organizzazione e al dinamismo della
società, si configura: 1) come l’età di un indebolimento delle pretese della ragione che revoca il senso della storia e
mette in questione le eventualità totalitarie dell’umanesimo; 2) come l’età della plurivocità o della polimorfia o
dell’emergere di paradigmi di razionalità non omogenei, non riconducibili l’uno all’altro, ma vincolati solo dalla
specificità del loro rispettivo campo di applicazione; 3) come l’età di un pensiero senza fondamenti o della
decostruzione o di una critica della ragione strumentale che revoca il senso della storia e ne riconosce il carattere
enigmatico; 4) come l’età in cui la scienza riconosce il carattere discontinuo e paradossale della propria crescita; 5)
come l’età della dissoluzione della categoria del nuovo e dell’esperienza e della fine della storia; 6) infine, come l’età in
cui scienze e tecnica appaiono rischiose e non anzitutto liberatrici dalla fatica e dal bisogno. Cfr. P. ROSSI, Idola della
modernità, in G.M. CAZZANIGA – D. LOSURDO – L. SCHIROLLO (a cura di), Metamorfosi del moderno, Quattro Venti,
Urbino 1988, pp. 7-8. Sulla base di queste caratterizzazioni, appare interessante la diagnosi che mette in campo G.
Vattimo, il quale sulla linea della riflessione nietzschiana ed heideggeriana, afferma che il postmoderno «presenta tre
caratteristiche: a) un pensiero della fruizione, quale éthos estetico che nella rimemorazione (Andenken) trova la sua
passione emancipativi non più preoccupata della pressione metafisica del novum quale valore ultimo, ma tesa verso un
pensiero contemplativo, non funzionalista, attendo alle differenze e agli interstizi; b) un pensiero della contaminazione,
della Verwindung, cioè della ripresa-distorsione dei molteplici contenuti e messaggio depositati nel passato, senza
l’obiettivo di una ricostruzione dell’esperienza individuale e collettiva, ma con lo scopo più limitato di offrire tracce,
indizi per un sapere residuale, consapevole della sua precarietà, ma anche dell’urgenza di un diverso modo di
interpretare ed essere negli spazio dell’attualità; c) un pensiero della tecnica (del Gestell), orientato a farsi interprete
dell’essenza non-tecnica della tecnica, che mostra come le nozioni metafisiche di soggetto e oggetto, di realtà e di
verità-fondamento, perdono di peso, avviando l’uomo verso un debole nuovo cominciamento, consapevole che ciò che
rende possibile ogni esperienza del mondo è la caducità, in cui l’accadere delle cose rappresenta solo una delle
molteplici possibilità dell’essere». C. DOTOLO, Un Cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa,
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 7
Per la modernità, l’uomo, con la sua soggettività autofondante si pone come unico punto di
riferimento della realtà tutta: vuol vedere e giudicare da sé, vuol decidere da sé, non si comprende
come membro all’interno di un mondo indipendente da lui e che lo abbraccia, anzi, il mondo,
piuttosto, viene pensato e progettato a partire da lui che pone le condizioni di possibilità della
pensabilità, conoscenza ed essenza delle cose. Nella relazione con il mondo il soggetto conosce e
appunto conoscendo si educa e si autocostituisce come realtà individuale e autonoma che prescinde
da qualsiasi tessitura relazionale. Lo strumento che guida l’uomo a costituirsi come coscienza
intellettualmente libera è la ragione compresa come la norma unica e suprema della verità del
comportamento umano.29 Questa autoreferenzialità del soggetto, sul piano politico ha condotto
all’affermazione della libertà e uguaglianza di tutti gli uomini fino alla dichiarazione universale dei
diritti umani.30 Nell’ambito della conoscenza umana, a causa del sorgere, affermarsi e svilupparsi
delle scienze empirico-sperimentali, che hanno mutato in modo radicale l’immagine del mondo,31
ciò che ha significato è solo ciò che regge di fronte al valore della prova sperimentale e della
discussione razionale. La conseguenza che ne è derivata è stata la «creazione» di un mondo
ominizzato e secolarizzato, all’interno del quale sempre meno si incontrano le tracce del Sacro e di
Dio e sempre più le orme dell’uomo. L’uomo si svincola dagli stili di comportamenti e dalle
categorie di pensiero metafisiche e religiose e si abitua ad orientarsi secondo le norme proprie
immanenti nei diversi ambiti della realtà.32 Inoltre il processo di secolarizzazione svuota l’ethos di
Queriniana, Brescia 2007, pp. 57-58.
29
«Uscendo la ragione dalla minorità in cui per propria colpa era restata, l’illuminismo affida ad essa divenuta
finalmente maggiorenne un’azione riformatrice del mondo fino ad allora mai immaginata. Per tutto ciò esso è la prima
totale opposizione di principio contro la forma dualistico-soprannaturale della religione». E. TROELTSCH, L’essenza del
mondo moderno, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 179. «Siamo consapevoli della duplice forma della modernità europea e
della ragione che la guida. Per un verso, questa ragione si manifesta come una forma di sapere dominativo, come
ragione dominatrice nei confronti della natura; e la prassi che l’accompagna è una prassi di soggiogamento nei confronti
di questa natura. Per altro verso, tale ragione si manifesta, nei processi dell’Illuminismo europeo, come una nuova
forma di cultura politica: si tratta di una percezione del mondo, cioè di quella ragione che vuole divenire pratica e
pervenire a se stessa come libertà attinente al soggetto e solidale». J.B. METZ, Spirito dell’Europa – Spirito del
Cristianesimo, in G. FERRETTI (ed.), Filosofia e teologia nel futuro dell’Europa, Marietti, Genova 1992, p. 20.
30
«La riconduzione del diritto all’interno del soggetto si accompagna a una concezione della sfera interna dell’io. Il
soggetto possiede beni interni, che sono la vita, il corpo e la libertà. Essi costituiscono il suo inviolabile patrimonio, che
Grozio chiama il suum. Nessuno, senza commettere ingiustizia, può violare il suum di altri che non gli abbia arrecato
ingiustizia. La soggettività giuridica è appropriazione di sé e, quindi, fonte di poteri, che si estendono tendenzialmente
alle cose esteriori, in quanto queste abbiano relazioni necessarie con la sfera interna dell’io. Il soggetto si presenta così
come identificato nel suo ruolo di dominus e il diritto si configura come il cumulo delle situazioni dominative». F.
VIOLA, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 278.
31
«La nascita delle scienze moderne segna una cesura epocale. Decisamente è il nuovo procedimento di prospettare in
maniera ipotetica un’altra concezione della realtà per poi verificarla mediante esperienze, che sono a loro volta frutto di
esperimenti, i quali sono stati fatti alla luce delle ipotesi. Il passaggio […] presuppone l’idea che tutto potrebbe essere
diverso di come è apparso sinora e da come appare ora, e che l’errore non può essere più socialmente sanzionato. Alla
mutabilità di una realtà contingente risponde l’accresciuto potere di disporre da parte di un soggetto lui pure
contingente, che cerca di affermarsi aumentando il proprio sapere». H. PEUKERT, Critica filosofica della modernità, in
«Concilium», 28 (1992), pp. 935-936. Cfr. P. ROSSI, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari
1997.
32
Un’analisi storica accurata del concetto di secolarizzazione è rilevabile in H. LÜBBE, La secolarizzazione. Storia e
analisi di un concetto, Il Mulino, Bologna 1970; A.J. NIJK, Secolarizzazione, Queriniana, Brescia 19862; J. CASANOVA,
Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2000; Sfide della
secolarizzazione in Europa. Annuncio, dialogo e testimonianza, Urbaninana University Press, Città del Vaticano 2008;
P. SERRA – A. PATRIARCHI – A. VINALE, Per una critica della secolarizzazione, Aracne, Roma 2009; Oltre la
secolarizzazione, in «CredereOggi», 176 (2010), pp. 3-130. Sull’ambivalenza della secolarizzazione e sulla necessità di
un corrispondente atteggiamento di dialogo e di critica, Cfr. E. SCHILLEBEECKX, Dio e l’uomo, Paoline, Roma 1967. Per
una comprensione problematicamente significativa Cfr. G. MARRAMAO, Cielo e terra. Genealogia della
secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994, per il quale «il concetto di secolarizzazione costituisce un esempio
clamoroso di metamorfosi di un vocabolo specifico in una delle principali parole-chiavi dell’età contemporanea. Sorta
originariamente come termine tecnico nell’ambito del diritto canonico (saecularisatio: da saecularis, saeculum),
l’espressione ha conosciuto, nel corso degli ultimi due secoli, una straordinaria estensione semantica: prima al campo
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 8
significati e contenuti. Per l’uomo non vi sono valori ed evidenze etiche immediatamente
percepibili, alle quali si possa attingere. Vi sono, invece, molteplicità di esperienze soggettive e
anche di riferimenti valoriali, che non appaiono però immediatamente comprensibili, né evidenti e
che, quindi, qualora si voglia superare la soglia della propria esperienza soggettiva, hanno bisogno
di essere costantemente motivati e testimoniati.33
In ambito etico questa impostazione di pensiero trova concretizzazione in senso utilitaristico.
L’etica, cioè, si caratterizza come la ricerca del massimo utile per le persone, intendendo per
persone i singoli individui e non i gruppi. In questo modo, la pragmatica del soggetto autofondante
e autoreferenziale consiste nell’accettazione di ciò che viene proposto solo tramite la
considerazione dell’utilità e funzionalità che ogni realtà proposta può avere in riferimento alla
propria esistenza. Il sapere economico diventa, così, il sapere sociale più rilevante e più efficace.
Esso veicola una autocomprensione dell’umano ispirata da un bisogno di identificazione del
soggetto con la logica del mercato e la predisposizione di una morale dell’interesse che giustifica
ogni condotta economica guidata dall’idea di guadagno e di possesso. Questo, «produce un
raffreddamento delle passioni e lo stilizzarsi di condotte private e pubbliche guidate da un’etica
della rinuncia, dall’autocontrollo, da una ragione calcolante».34 Prevale, pertanto, l’idea del mondo
materiale come realtà puramente profana da conoscere e usare.35 Il mondo e l’uomo possono essere
manipolati per ottenere ottimizzazioni prestazionali sempre più efficaci. L’uomo, la società e la
cultura sono semplici epifenomeni del fattore economico-commerciale, infinitamente subordinate
alle leggi e alle esigenze del mercato che le minano alla radice.
Gli esiti fortemente problematici, seguiti all’esplosione della soggettività autofondante e
autoreferenziale, generano forme di comprensione dell’umano che pretendono di ridurre l’uomo a
un concetto astratto, impersonale. La pretesa di fare della assolutizzazione della soggettività umana
la padrona incondizionata della realtà da conoscere e da trasformare è chiamata, tuttavia, a fare i
politico-giuridico, poi a quello della filosofia (e teologia) della storia, infine a quello etico e sociologico. Attraverso
questi spostamenti e ampliamenti di significato essa è assurta gradualmente al rango di categoria genealogica in grado
di compendiare o significare unitariamente lo sviluppo storico della società occidentale moderna». Ibidem, pp. 13-14.
Per Scilironi, «1) La secolarizzazione rompe col passato e impone il nuovo – nuovo modo di intendere la verità, nuovo
senso della storia, nuova fede, nuova prospettiva etica; 2) questo “nuovo” non è semplice trasformazione di costume,
ma rottura nei confronti delle fondazioni classiche – ossia, sostanzialmente, rifiuto della metafisica; 3 ) viene avanzata
l’esigenza di una nuova fondazione». C. SCILIRONI, Possibilità e fondamento della fede, Messaggero, Padova 1988, pp.
44-45. 33
«La coscienza moderna […] possiede un effetto potentemente relativizzante su tutte le visioni del mondo. In larga
misura, la storia del pensiero occidentale degli ultimi secoli è stato un unico lungo sforzo di affrontare la vertigine della
relatività indotta dalla modernizzazione. […] Ora uno degli elementi della coscienza moderna è la moltiplicazione delle
opzioni. In altre parole, la coscienza moderna implica un movimento dal fato alla scelta». P.L. BERGER, L’imperativo
eretico. Possibilità contemporanee di affermazione religiosa, ElleDiCi, Torino 1987, 48-49.
34
M. GENNARI, Filosofia della formazione dell’uomo, Bompiani, Milano 2001, 434.
35
Alla luce di questa prospettiva assume particolare valore di chiarificazione l’opposizione al «moderno» esercitata da
Jacques Maritain e da Romano Guardini, prima ancora che la stessa cifra della «modernità» entrasse in crisi. Maritain
individua i «principi spirituali» della modernità, che risalgono, a suo giudizio, a Lutero, Rousseau e Kant, «nel principio
immanentistico: per cui la libertà e l’interiorità consistono essenzialmente in una opposizione al non-io, in una
rivendicazione di indipendenza dall’interno rispetto all’esterno». Nel principio immanentistico, a motivo del quale non
esiste più alcun dato che misuri e domini la realtà umana, l’intima sostanza umana trascende e comanda ogni dato. Per
cui natura, leggi, definizioni, doveri sono pure espressioni dell’umano e dell’attività creatrice dello spirito umano. In tal
senso questi principi «distruggono precisamente la vera autonomia spirituale […] sfociano, nel mondo moderno, nel
grande principio dell’indipendenza assoluta della creatura» e, di conseguenza, distruggono la vera intelligenza e ragione
delle cose. J. MARITAIN, Antimoderno. Rinascita del tomismo e libertà intellettuale, Edizioni Logos, Roma 1979, pp.
19-20. Guardini, invece, afferma che la coscienza moderna considera l’esistenza come una struttura autonoma per la
quale non è necessaria alcuna fondazione e che non è sottoposta ad alcuna norma ad essa subordinata. L’impronta dello
spirito dell’epoca moderna così è rappresentata dal suo radicalismo estremo, in quanto «esso ha il carattere
dell’autonomia, è fondato in se stesso e stabilisce il senso della vita dello Spirito», per cui «l’uomo moderno intraprende
a costruire l’esistenza come opera propria […]. Non ha bisogno di alcun fondamento estraneo a sé, non tollera alcuna
norma sopra di sé». R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1954, pp. 46-49.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 9
conti con la dichiarazione di superamento dell’egemonia del soggetto autofondante e
autoreferenziale, riprodotto sia dalle filosofie del «Cogito umiliato», 36 sia dalle prospettive
decostruzioniste delle «antropologie della differenza», che dichiarano il fallimento delle
antropologie della soggettività.37
L’affermazione che l’uomo deve rassegnarsi a sviluppare saperi settoriali di portata limitata nel
proprio ambito e di valore provvisorio nel tempo fa spazio alla dimensione della frammentazione,
dispersione e dissolvenza del senso dell’umano il quale è esposto alla cultura di massa, del tempo
del declino, del crepuscolo degli orizzonti valoriali che informano la vita dell’uomo e le sue
relazioni.38 Questo sta a significare che il modo d’essere e di esprimersi dell’uomo non è più
riconducibile ad una unitarietà di riferimenti significativi, ma è collocabile in uno spazio di
indefinibilità il quale, implicando la desoggettualizzazione dell’umano e delle sue forme, delinea la
dissolvenza di ogni possibile discorso antropologico ed etico in grado di rendere conto della verità
dell’essere e dell’agire dell’uomo. In questo contesto, si registra la rinuncia al postulato
dell’unitarietà del reale e si afferma l’acquisizione della consapevolezza che il reale ha un
fondamentale aspetto pluralistico. L’intero è il molteplice che può essere colto solo da un modello
pluralistico di razionalità che determina in modo plurale la ragione stessa.
La sostantivizzazione del molteplice mostra con vigore l’irriducibilità della realtà e dell’uomo ad
una unità semplice, perché si sostiene che essi risultano da una originaria molteplicità.39 La realtà e
l’uomo non sono identici a sé, bensì molteplicità originarie, in virtù del fatto che «principio di
molteplicità» assurge a criterio fondante il tutto. Da questo punto di vista, l’uomo è considerato
come irriducibile molteplicità delle sue immagini. La realtà è sottratta e viene risolta totalmente in
immagine che provoca continue differenze. In tal senso la maschera diventa e costituisce come
condizione permanente dell’umano. L’uomo, originariamente molteplice, non può avere alcun
significato, semmai molti significati. Questa pluralità di significati si sottrae al senso dell’unità e
contemporaneamente al senso della verità. L’uomo, in fondo, non è che un nulla, che si aggira tra le
rovine dei simulacri infranti, nelle distese della disseminazione del senso e varia la sua immagine in
un gioco di modulazioni che si consuma nell’apparire tra le dissolvenze dei significati che ormai
stanno oltre.40Si determina, così, una interpretazione radicale, dal punto di vista antropologico, della
36
«Il Cogito spezzato: tale potrebbe essere il titolo emblematico di una tradizione, senza dubbio meno continua de
quella del Cogito, ma la cui virulenza culmina con Nietzsche, facendone l’antagonista privilegiato di Cartesio». P.
RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 86.
37
«La desoggettualizzazione si può cogliere anche in certi materialismi storici, nella misura in cui si interpreta il loro
concetto di coscienza come determinato dalla struttura economica, e in Freud, che pone il soggetto senza spazi di libertà
ma assoggettati alla voce della libido. Del resto, anche il pensiero debole è reazione alla ipertrofia del soggetto
onnicreante. Con la mediazione dell’esperienza storica, che mostra le implosioni di esso e le devastazioni del pensiero
forte – cioè dominativo – del soggettivismo, si è arrivati all’uomo senza le fondamenta solide alla verità del piccolo
cabotaggio, alla verità come semplice opinione concordata in una società». S. PALUMBIERI, L’uomo, questa meraviglia.
Antropologia filosofica I. Trattato sulla costituzione antropologica, Urbaniana University Press, Città del Vaticano
1999, p. 90, n. 32.
38
Cfr. U. FADINI, Soggetti a rischio, Fenomenologie del contemporaneo, Città Aperta, Troina, 2004.
39
Il principio della molteplicità colloca il molteplice al posto «del centro unitario del mondo, teologico, ontologico,
assiologico, in principio al mezzo e al fine». I. MANCINI, Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano
1983, p. 19. In questo modo il senso dell’umano non possiede più un centro unitario un punto di riferimento certo e
stabile. L’uomo si trova così immerso «nei territori del politeismo, in cui coesistono una pluralità di immagini, di
informazioni, di opinioni, di forme di vita che non accettano riduzionismi in nome di qualche principio o valore
assoluto». C. DOTOLO, Il paradosso della creaturalità: il contributo dell’antropologia teologica alla identità dell’uomo,
in C. CALTAGIRONE (a cura di), Antropologia e «verità» dell’uomo, p. 274.
40
«L’oltreuomo, o, meglio l’“uomo dell’oltre” è inizialmente l’uomo che contrappone alla seriosità della ragione
l’ironia del temperamento smascherante, alla certezza del giudizio la carica decostruttiva del riso, all’immobilismo
dell’analogia entis la creatività del movimento metaforico. L’Übermensch, in altri termini, impersona il ruolo di una
ermeneutica attenta alle avventure della differenza, anche rischiando il piacere della contraddizione e l’eccedenza
dell’apparenza, perché il suo è un pensiero genealogico che, nell’aprirsi “alla pienezza della presenza di ciò che
appare”, mette in gioco lo smascheramento nei riguardi della irrilevanza dell’origine. L’uomo è chiamato ad una
inventività costante, ad una trasmutazione delle forme interpretative in grado di ridefinire il fine dell’esistenza
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 10
condizione umana le cui configurazioni connotative sono espresse dalla forme dell’angelismo, del
venusianesimo e dal telematismo.41
Le cifre di riferimento della prospettiva antropologica dell’uomo angelico sono ravvisati
nell’innocenza del divenire, nella perdita della memoria etica e nella gestione dell’immagine.
Basandosi sulla concezione di divenire presente in Nietzsche,42 l’innocenza del divenire colloca
l’uomo in una zona franca, di incontaminata innocenza, perché il divenire è innocente in quanto
liberato dalla «colpa» dell’essere e dell’identità.43 Così l’innocenza del divenire è la nuova tavola
della legge. Infatti, se il divenire è innocente in quanto radicale, al di fuori della colpa dell’essere, i
valori, le leggi, i modelli etici vengono meno. Valori, leggi e trasgressioni dicono riferimento al
reale, ma la sottrazione di questo porta alla deessenzializzazione e simulazione di quelli.
Decostruzione e simulazione generano la perdita della memoria etica. Tale perdita è dovuta al fatto
che «non c’è una storia unitaria, portante, ci sono solo le diverse storie, i diversi livelli e i modi di
ricostruzione del passato nella coscienza e nell’immaginario collettivo».44 Di conseguenza, nel
passato non si coglie né un fondamento, né una verità e neppure una proposta etica che sia in grado
di attivare un progetto e sia capace di orientare ad uno scopo. La vita dell’uomo, allora, si risolve in
un puro passare continuo, un perenne transito, in un cammino privo di direzione e si senso, di
passato e di futuro, di memoria e di attesa. Un puro passaggio senza essere guidato da un progetto,
un continuo errare senza destinazione. L’unica cosa che resta è la gestione dell’immagine. Per la
vita dell’uomo ridotta tutta all’irriducibile molteplicità di un apparire senza essere, sottratta alla
memoria etica non resta che il problema dell’amministrazione dell’innocente divenire. In effetti, «il
radicale congedo dalla soggettività, non supportato neppure da un reale alla deriva, ma espressione
conseguente di una deessenzializzazione, senza residui, sfocia nella questione concernente la
gestione dei simulacri». 45 L’esito più immediato di tale condizione è costituito dalla
spersonalizzazione, perché dissolto il soggetto quale immagine tra le immagini tutto avviene
indipendentemente e contro l’uomo. L’unico compito che rimane è quello di essere il luogo in cui la
società comunica se stessa. Ma questo non avviene nel segno di una rigorosa interpretazione, perché
interpretare è svelare il senso di una realtà. L’esisto è la capacità di sedurre: la gestione
dell’immagine diviene il problema della ricerca di un potere seducente; l’io diventa come l’ultima
nell’estasi dell’istante. Qui il soggetto non è più preoccupato della coincidenza di esistenza e significato, ma è
finalmente libero dalla forza di gravità metafisica, in cammino verso una molteplicità di sensi che solo il simbolico può
incrementare». C. DOTOLO, Il paradosso della creaturalità: il contributo dell’antropologia teologica alla identità
dell’uomo, in C. CALTAGIRONE (a cura di), Antropologia e «verità» dell’uomo, p. 271.
41
Cfr. C. Scilironi, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, EDB, Bologna 1991, pp. 141-159.
42
«Dove il divenire tutto mi sembrò una danza e un ilare scherzo di dei, e il mondo sciolto e sfrenato e rifluente in se
stesso: – come l’eterno sfuggirsi e ricercarsi di molti dei, come beato contraddirsi, udirsi di nuovo, di nuovo
appartenersi di molti dei: – Dove il tempo tutto mi sembrò un’irrisione beata di secondi, dove la necessità era la libertà
in persona, che beata si baloccava con il pungiglione della libertà». F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per
tutti e per nessuno, p. 231.
43
Per questo tipo di comprensione Nietzsche usa l’immagine del bambino. Come il bambino, l’uomo innocente sa «dire
di sì alla vita» in tutte le sue forme, prendendole nella loro immediatezza, senza subordinane a norme, a categorie o a
idee proiettate in un mondo soprannaturale o escatologico. L’uomo innocente ama la realtà in tutte le sue
manifestazioni, non solo in quelle buone e piacevoli, ma anche in quelle terribili e dolorose. Egli sa vedere anche nella
distruzione, nella disgregazione, nella malvagità, nell’insania, una sovrabbondanza vitale che è capace di fare di ogni
deserto un fertile paese. Nei mali e negli orrori della vita, l’uomo innocente non scorge un limite alla potenza della
natura, ma piuttosto il segno di una ricchezza superiore ad ogni limite; l’infinità di una forza che si espande al di là di
ogni argine e che quindi feconda e trasfigura tutto. Anche la morte è una meravigliosa manifestazione della potenza
della natura. Per questo l’uomo innocente che è anche supremamente libero, ama la morte ed accetta con entusiasmo il
suo destino. Nietzsche utilizza l’immagine del bambino oltre che per descrivere la vita dell’uomo innocente anche per
illustrare la capacità fantastica e creativa (poetica) di chi ha ricuperato lo stato di innocenza originale. L’uomo
innocente esercita la sua capacità inventiva per creare nuovi miti, nuovi simboli sacri, nuovi ideali di esistenza. Cfr. F.
NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, pp. 23-25
44
G. VATTIMO, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura della postmodernità, Garzanti, Milano
1985, p. 17.
45
C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, p. 152.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 11
spiaggia da salvare a tutti i costi dai mali della vita moderna. Al di là della crisi, si ha una profonda
soggettivizzazione e frammentazione dei modi di vita. Questo modello d’uomo, propagandato
soprattutto dai mass media, mostra in modo suggestivo i modi di essere uomo e donna, di stare
insieme pieni di vita, attraenti, fascinosi, realizzati sotto ogni punto di vista, da quello fisico a
quello delle relazioni sociali a quello professionale. L’uomo angelico è l’uomo del successo, che
tutti si augurano di essere, sotto ogni cielo, in questo nostro tempo segnato dall’istanza della
produttività e dell’efficienza storica. 46
La prospettiva antropologica dell’uomo venusiano è riconducibile ai caratteri fondamentali della
intenzionalità corporea, alla trandescendenza e all’etica del piacere. L’intenzionalità corporea
implica la totale attenzione alla realtà del corpo e all’annullamento del pensiero per il sentire fisico.
Infatti, per questo modello antropologico, sottratto l’essere, non esiste più misura dell’agire. Gli
unici riferimenti che rimangono sono il sentire emotivo, il gusto, la qualità della soddisfazione, la
capacità fisica di sopportazione come unico limite di una vita vissuta senza ragioni. Pertanto,
«l’irriducibile polivocità dello “charme venusiano” non rifiuta il denominatore comune con
l’intenzionalità corporea ma lo suppone: affascinante è solo la piacevolezza sensibilmente
seducente».47 L’uomo è cosi ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e bisogni che atomizzano
l’esistenza individuale e collettiva. Rifiutata ogni fondazione razionale e ogni collegamento rigido
con la tradizione, l’esistenza è vista come incessante e libera produzione di bisogni e di desideri che
liberano in maniera disorganica l’intenzionalità corporea finalizzata alla seduzione ed allo
sfruttamento dell’altro. In tale forma si celebrano la corporeità, i liberi impulsi e la forza del
desiderio, mentre l’esaudimento dei bisogni diventa la regola suprema dell’azione. Liberare i propri
impulsi, scrollarsi di dosso le arrugginiti e scheletriche impalcature delle leggi e delle norme sociali
tradizionali, significa andare oltre ogni ideale, arrivare alla gioia totale del corpo.
I presupposti teorici di questa prospettiva antropologica sono rintracciabili in De Sade, il quale,
nel suo manifesto dell’erotismo libertino, insiste continuamente sulla falsa ragione che oppone alla
natura ed elabora un progetto di educazione alla libertà che è di fatto un affrancamento dai vincoli
della ragione. Il De Sade attua una specie di «principio di rovesciamento» perché «solo ampliando
la sfera dei piaceri e delle fantasie, solo sacrificando tutto alla voluttà, quell’infelice individuo
conosciuto sotto il nome di uomo, scaraventato suo malgrado in questo triste universo, potrà
riuscire a spargere qualche rosa tra le spine della vita».48 L’immaginazione costituisce lo stimolo
dei piaceri, l’incentivo di tutto, essa «è nemica della regola, idolatra il disordine e tutto quanto ha il
colore del crimine». 49 L’uomo venusiano vive la propria intenzionalità corporea attraverso la
primalità dell’immaginazione che obbedisce solo all’eccesso trasgressivo sulla ragione, la quale,
invece, esige regola ed ordine. Alla luce di tale intenzionalità l’uomo sperimenta la trandescedenza
che è il «superamento della ragione che impone i divieti, non solo attraverso la potenza trasgressiva
dell’immaginazione, ma anche attraverso la violenza incontenibile della carne poiché la
trandescedenza dice destinazione ulteriore dell’uomo in una violenza che la ragione non controlla
più».50 Si capisce così che l’uomo venusiano, non supportato più dall’intenzionalità del lògos, della
ragione e consegnato allo spasimo parossistico della violenza fisica e morale non può avere altro
ethos che il piacere. L’intenzione fondamentale è la ricerca della libertà, ma l’esito è nondimeno
problematico in tutte le sue manifestazioni. De Sade è abbastanza esplicito quando si esprime nei
seguenti termini: «sappi dunque una volta per tutte, uomo ingenuo e pusillanime, che ciò che gli
imbecilli chiamano umanità non è che una debolezza nata dalla paura e dall’egoismo; che questa
chimerica virtù, che non incatena che uomini deboli, è sconosciuta a quelli il cui carattere è
46
C. NANNI, Modelli antropologici, in M. MIDALI – R. TONELLI, Dizionario di Pastorale Giovanile (a cura di), LDC,
Leumann 1989, pp. 584-595.
47
C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, pp. 153-153.
48
D.A.F. DE SADE, La filosofia del boudoir, Laterza, Bari 1982, p. 79.
49
Ibidem, pp. 79-80.
50
C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, p. 155.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 12
temprato dallo stoicismo, dal coraggio e dalla filosofia. Agisci, dunque, cavaliere, agisci senza
timore di nulla; noi potremo polverizzare questa sgualdrina che non ci sarebbe nemmeno il sospetto
di un crimine. I crimini sono impossibili all’uomo. La natura, inculcandogli il desiderio irresistibile
di commetterne, ha saputo prudentemente distoglierlo dalle azioni che avrebbero potuto turbare le
sue leggi. Va, stai tranquillo, amico mio, che tutto il resto è assolutamente permesso e che essa non
è stata tanto assurda da darci il potere di turbare o sviare il suo cammino. Ciechi strumenti dei suoi
voleri ci dettasse di dar fuoco all’universo, l’unico crimine sarebbe quello di resisterle».51
La terza prospettiva antropologica è quella dell’uomo telematico. Gli elementi che la
caratterizzano, sono la sostantivazione del molteplice, l’insignificanza e lo sperimentalismo etico.
La sostantivazione del molteplice trova le sue radici ed il suo fondamento nel tema dell’innocenza
del divenire. Si riafferma con vigore l’irriducibilità dell’uomo ad una unità semplice, perché si
sostiene che l’uomo risulta da una originaria molteplicità. L’uomo, cioè, non è identico a sé, ma è
molteplicità. Ciò in ragione del fatto che «il molteplice è effettivamente trattato come sostantivo,
molteplicità, non manifesta alcun rapporto con l’Uno come soggetto o come oggetto, come realtà
naturale o spirituale, come immagine e mondo [...]. Una molteplicità non ha né soggetto, né
oggetto, ma soltanto determinazioni, grandezze, dimensioni che non possono crescere senza che
essa cambi natura».52 L’uomo è, pertanto, originarietà molteplice. Esso è l’uomo della produzione
desiderante, dell’inconscio produttivo e non semplicemente rappresentativo. Quest’uomo è capace
di scoprire sotto il ripiegamento familiare la natura degli investimenti sociali dell’inconscio. Chi fa
multiplo in questo modo è lo schizo, la cui finzione è di deterritorializzare i flussi e disfare i codici,
perché tutto è possibile.53 Da ciò deriva l’insignificanza. L’uomo, originariamente molteplice, non
può avere un significato, semmai molti significati. Questa pluralità di significati si sottrae al senso
dell’unità e contemporaneamente al senso della verità. Pertanto si assiste all’oltrepassamento
dell’uomo che viene identificato con i due simboli, mutuati dal mondo vegetale ed animale, del
rizoma e delle formiche. Da questa prospettiva antropologica l’uomo, realtà molteplice ed
insignificante, viene paragonato al rizoma, una pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve
interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti, per esprimere il
senso di una potenzialità che è solo pura possibilità di essere,54 caratterizzata dalle illimitate e
indefinite configurazioni esistentive.55 L’esistenza collettiva invece, è considerata simile a quella di
un formicaio in cui ogni individualità è come dominata da un’incessante dinamismo che la supera e
che si riproduce oltre ogni mutilazione o eliminazione di questa o quella individualità. Ciò genera il
principio della cartografia il quale svela la non condizionatezza dell’esistenza che non ammette
alcuna regola determinante e configurante. La vita è paragonata ad un pezzo di carta suscettibile di
diverse modificazioni, modulazioni, configurazioni senza alcun legame con un’identità definita e
orientante. 56 Addirittura, «come un ospite molesto l’identità è cacciata anche dall’ultimo suo
51
D.A.F. DE SADE, La filosofia del boudoir, pp. 234-235.
G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma
2006, p. 40.
53
Cf. C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, pp. 158-159.
54
«Un rizoma può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, ma poi si riprende seguendo una delle sue linee e
seguendone altre. […]. Ogni rizoma comprende grandi linee di segmentarietà a partire dalle quali è stratificato,
territorializzato, organizzato, significato, attribuito, ecc., ma anche linee di deterritorializzazione per mezzo delle quali
sfugge incessantemente. Vi è rottura nel rizoma ogni volta che linee segmentarie esplodono in una linea di fuga, ma la
linea di fuga fa parte del rizoma. Si tratta di linee che continuano a rinviare le une alle altre». G. DELEUZE – F.
GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p. 42
55
«A differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e
ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura; mette in gioco regimi di segni molto
differenti e anche stati di non-segni. Il rizoma non si lascia riportare né all’Uno né al molteplice. […]. Non è fatto di
unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni in movimento. Non ha inizio né fine, ma sempre un centro, dal quale
cresce e deborda». G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p. 57.
56
«Fare la carta e non il calco. […]. La carta si oppone al calco, è interamente rivolta verso una sperimentazione in
presa sul reale. […]. La carta è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile, suscettibile di
52
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 13
possibile stare: da quell’umile eppure basilare forma di identità che è quella spaziale: casa, città,
nazione. Si taglia anche questo cordone ombelicale con la famiglia, la tradizione, i valori, per essere
radicalmente altri, diversi. I crociati di un tempo, i nomadi di oggi, le formiche, appunto, […] tutte
le forme di mettersi nel giro, rispondono, con maggiore o con minore aderenza, a questa prima
forma di nichilismo chiamato deterritorializzazione. La deterritorializzazione è la forma corposa
dello spaesamento veritativo-assiologico: il senza patria corrisponde al senza verità e legge».57 Gli
unici riferimenti che rimangono sono il sentire emotivo, il gusto, la qualità della soddisfazione, la
capacità fisica di sopportazione come unico limite di una vita vissuta senza ragioni e l’uomo è
ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e bisogni che atomizzano l’esistenza individuale e
collettiva. Pertanto, rifiutata ogni fondazione razionale e ogni collegamento rigido con la tradizione,
l’esistenza è vista come incessante e libera produzione di bisogni e di desideri che liberano in
maniera disorganica l’intenzionalità corporea finalizzata alla seduzione ed allo sfruttamento
dell’altro. In tale forma si celebrano la corporeità, i liberi impulsi e la forza del desiderio, mentre
l’esaudimento dei bisogni diventa la regola suprema dell’azione. Liberare i propri impulsi, scrollarsi
di dosso le arrugginiti e scheletriche impalcature delle leggi e delle norme sociali tradizionali,
significa andare oltre ogni ideale, arrivare alla gioia totale del corpo. Questa condizione trova forma
concreta nello sperimentalismo etico. Il principio del «tutto è possibile» diventa la norma del vivere
umano, e la coscienza dell’uomo si viene a costituire come una continua sperimentazione di vita. Si
abbandona l’ordine logico preformato per adottare criteri di giudizio e di valutazione che si
esercitano improvvisamente al momento opportuno. Si tratta, in altri termini, di una razionalità
immanente all’azione medesima. Occorre andare oltre la «dignità e la libertà» ed affidarsi ad un
controllo ed uso regolato delle informazioni. Infatti, nulla dovrebbe essere lasciato al caso, alla
fantasia, agli umori singoli. Tutto deve essere di momento in momento precisato, computerizzato, in
modo da evitare errori o sprechi così come disordini sociali o sofferenze personali. Secondo tale
modello l’autorealizzazione umana è posta non solo nell’uso di nuove tecnologie informatizzate, ma
soprattutto in un modo di affrontare i problemi dell’esistenza che sia logico e razionale, nel
prospettare interventi secondo stili di controllo razionale e di programmazione rigorosa per evitare
scompensi o guasti inutili e dannosi. È evidente che il telematismo sottrae l’uomo alla identità con
sé. Ma così sottratto l’individuo resta sradicato dal passato e non orientato al futuro, sicché privo di
memoria e di attesa si risolve in un consumo perennemente sperimentale del presente, in un
continuo transito e nomadismo identitario. Pertanto, «il nulla etico non è che un ulteriore
prolungamento del nulla conoscitivo: è la piena consapevolezza che la decostruzione di ogni
apriori, trascina con sé ogni senso e ogni significazione: dunque anche il mondo delle norme e dei
valori».58 Questo comporta la negazione del monismo deterministico, per cui l’ontologia deve
essere declinata in modo plurale, in quanto, non potendo privilegiare alcun modello paradigmatico,
si tratta di mettere in campo i concetti di identità mutanti,59 vagabondaggio ontologico, nomadismo
metamorfico che veicolano le categorie postmetafisiche di multindividuo, destrutturazione,
coniugazione transitiva, le quali propongono una prospettiva ontologica aperta all’ibridazione,
provocatoriamente espressa nella locuzione freakink out, ossia il farsi mostro che «diviene metafora
del processo ontogenetico», in cui «il divenire ha un valore in sé e il corpo stesso è inteso come
con-fusione» e «l’identità diviene un processo arbitrario e la mutazione è la recettività
costanti rimaneggiamenti. Può essere strappata, rovesciata, può adattarsi a montaggi di diversa natura, attivata da un
individuo, un gruppo, una formazione sociale. La si può disegnare sopra un muro, concepirla come un’opera d’arte,
costruirla come un’azione politica o meditazione». G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia,
p. 46.
57
I. MANCINI, Il pensiero negativo e la nuova destra, p. 20.
58
C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, p. 98.
59
R. BRAIDOTTI, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma 1995; IDEM, Nuovi soggetti
nomadi, Sossella, Roma 2002.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 14
dell’alterità».60 All’interno di questo orizzonte comprensivo trovano concrezione le teoriche del
post-umano,61 le quali descrivono una condizione o una prospettiva che pone radicalmente in
discussione il concetto di umano e che si colloca nel futuro, come condizione ipoteticamente
realizzabile, o, anche, nel presente, come stato della soggettività attuale.
Le teoriche del post-umano, rese possibili a partire dagli anni Quaranta del Novecento,
dall’emergere e dall’evoluzione di discipline quali la teoria dell’informazione, la cibernetica e
l’intelligenza artificiale (IA), 62 pur presentendo molte e diverse articolazioni, 63 configurando
l’assenza di demarcazioni nette e di differenze essenziali nella identificazione dell’umano e tra il
meccanismo cibernetico e l’organismo biologico,64 ipotizza, tramite lo sviluppo di biotecnologie, la
60
M. FARISCO, Transizionalità ed eteroriferimento. La cultura come problema dell’alterità nel postumanesimo, in M.
SIGNORE – G. SCARAFILE (a cura di), Libertà e dialogo tra culture, Messaggero, Padova 2007, p. 252.
61
La bibliografia sul post-umano è già amplissima. Per un approfondimento, a titolo indicativo, Cfr. L. Grion (a cura
di), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, Il Mulino, Bologna 2013; P. Bafou, The Future of
Post-Human Geography: A Preface to a New Theory of Environments and Their Interactions, Cambridge International
Science Publishing, Cambridge 2012; N. Bonifati – G.O Longo, Homo immortalis. Una vita (quasi) infinita, Springer
Verlag, Berlino 2012; A. Aguti (a cura di), La vita in questione: potenziamento o compimento dell'essere umano?,
Anthropologica, Annuario Filosofico, La Scuola, Brescia 2011; M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e
postumanesimo, Vita & Pensiero, Milano 2011; G. Vatinno, Il transumanesimo. Una nuova filosofia per l'uomo del XXI
secolo, Armando editore, Roma 2010; C. Wolfe, What is Posthumanism?, University of Minnesota Press, Minneapolis
2010; R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009; P.A. Masullo, L’umano
in transito. Saggio di antropologia filosofica, Edizioni di Pagina, Bari 2008; S. Leone (ed.) Le sfide morali del postumano, dossier interdisciplinare in «L’Arco di Giano», 2008, n. 57; Idem, L’uomo artificiale, Il Platano di Ippocrate,
Palermo 2007; P. Barcellona – F. Ciaramelli (a cura di), Apocalisse e post-umano, Dedalo, Bari 2007; I. SANNA (ed.),
La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005; M. Figiani – V. G. Durotschka – E.
Pulcini, Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori Riuniti, Roma 2004; R. Marchesini, Posthuman. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002; F. Fukuyama, L’uomo oltre l'uomo,
Mondadori, Milano, 2002; G. O. Longo, Homo technologicus, Meltemi, Roma, 20052; Idem, Il simbionte: prove di
umanità futura, Meltemi, Roma, 2003; R. TERROSI, La filosofia del postumano, Costa & Nolan, Genova 1997; N.
Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995; A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale,
Theoria, Roma-Napoli 1985.
62
Gli studi sull’intelligenza artificiale si collocano ai confini tra l’informatica, la matematica e la filosofia e il loro
scopo è quello di perfezionare la conoscenza della mente e del suo rapporto con il sistema nervoso centrale attraverso la
costruzione di programmi informatici capaci di simulare al calcolatore gli aspetti cognitivi dell’attività mentale. Sotto
questo profilo si può definire l’intelligenza artificiale come l’«insieme di studi e tecniche che tendono alla realizzazione
di macchine, specialmente calcolatori elettronici, in grado di risolvere problemi e di riprodurre attività proprie
dell’intelligenza umana. Sull’intelligenza artificiale Cf. E. CHARNIAC – D. MCDERMOTT, Introduzione all’Intelligenza
Artificiale, Masson e Addison-Wesley, Milano 1988; K. KNIGHT – E. RICH, Intelligenza Artificale, McGraw-Hill,
Milano 19922; P. TABOSSI, Intelligenza naturale e intelligenza artificiale. Introduzione alla scienza cognitiva, Il
Mulino, Bologna 19942; S.J. RUSSEL – P. NORVING, Intelligenza Artificiale: Un approccio moderno, Utet, Torino 1998;
P. MELLO, Intelligenza artificale, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede. Cultura scientifica, filosofia e
teologia, I, a cura di GIUSEPPE TANZELLA-NITTI e ALBERTO STRUMIA, Urbaniana University Press – Città Nuova, Città
del Vaticano–Roma, 2001, 767-781; G. F. BOSIO, Natura, mente e persona. La sfida dell’intelligenza artificiale, Il
Poligrafo, Padova 2006; IDEM, Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e fenomenologia della vita e della mente, in M.
ARMEZZANI – G. F. BOSIO - C. CERRI – M. LENOCI, Intenzionalità ed empatia. Fenomenologia, psicologia,
neuroscienze, Edizioni OCD, Roma Morena 2008, 19-46.
63
«Emerso solo di recente nella riflessione contemporanea, il concetto di “post-umano” sembra da un lato riassumere
efficacemente le complesse trasformazioni, soprattutto antropologiche, indotte dallo sviluppo della tecnica e dal
configurarsi di inquietanti innovazioni; dall’altro, come tutti i concetti introdotti da un post, che non a caso oggi
proliferano da ogni parte a testimonianza della scarsa originalità del nostro tempo, esso corre il rischio di diventare un
contenitore olistico e inafferrabile». E. PULCINI, Dall’homo faber all’homo creator: scenari del post-umano, in I. SANNA
(ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, p. 13.
64
Per D. J. Haraway, «l’individuo è un incidente obbligato, e non il più alto frutto delle fatiche della storia della terra».
D. J. HARAWAY, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 158. Questo
perché «la differenza tra macchina e organismo è completamente offuscata». Ibidem, 61. E ciò in ragione del fatto che
«i corpi non nascono; si fanno […]. Organismo non si nasce. Gli organismi si fanno». Ibidem, p. 142. Infatti, «tutti i
possibili testi e corpi sono assemblaggi strategici, cosa che rende estremamente problematiche le nozioni di
“organismo” e “individuo” […]. “Organismo” e “individuo” […] sono stati completamente denaturati, cioè sono
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trasformazione dell’umanità in trans-umanità65 e post-umanità, e considera la specie umana come il
primo gradino di una nuova era evoluzionistica post-darwiniana guidata dalla specie umana stessa.
66
Infatti, basandosi sulla convinzione che è necessario passare dalla concezione dell’homo faber a
quella dell’homo creator, la prospettiva trans-umana e post-umana «si caratterizza per il tentativo di
valicare alcune fondamentali limitazioni, quali le non incrementali capacità intellettive e la morte,
per il superamento di quelle caratteristiche che attualmente definiscono il concetto di umano, dei
limiti più evidenti dell’evoluzione, sin qui naturale e animale della specie».67 Inoltre, determina la
negazione dell’opposizione tra natura e cultura avanzando l’ipotesi che «l’uomo non sia culturale
perché incompleto, ma sia incompleto perché culturale, ossia la cultura nascerebbe da una ricchezza
di dotazione prerequisitiva e avrebbe una tonalità euristica tale da indurre l’uomo a percepirsi
sempre come incompleto».68 Ciò perché il processo culturale «può essere letto come “evento
ibridativo”, ossia nei termini di una “esternalizzazione” realizzata attraverso varie strade: l’uso di
uno strumento, la partnership con un’altra specie, il conferimento di un significato, la proposizione
di una teoria – in breve tutto ciò che attiva una coniugazione con la realtà esterna o referenza.
Quello che prima veniva realizzato […] a un livello di maggiore autarchia di colpo passa a un
livello di maggiore dipendenza da un partner esterno (un martello, una teoria, l’olfatto del cane)».69
Da questo punto di vista accade che viene ridimensionato l’antropocentrismo epistemologico che
implica una ridefinizione della nozione di oggettività la quale è da intendere non più come dominio
su una realtà passiva, ma come configurazione di un obiettivo a cui tendere, in ragione del fatto che
la ricerca scientifica del Novecento «ha portato la scienza al di fuori dell’esperienza o dei modelli di
astrazione riferibile alla realtà dell’uomo». 70 La conseguenza diretta di questo processo di
ricomposizione è la rivalutazione e la risemantizzazione del concetto di hybris che, rompendo con
una visione statica della nozione di identità, veicola l’idea di una positiva contaminazione
infrabiologica tra uomo e animale e uomo e uomo ed extrabiologica tra uomo e tecnica, in cui «il
soggetto non si identifica in un progetto di ritrovata verginità o un processo di epurazione
dell’alterità ma, al contrario, ritrova il suo carattere personale e creativo proprio attraverso il
commercio con la rete di alterità […] che si muove in lui. In questo senso ogni soggettività è aperta,
diventati costrutti ontologicamente contingenti, anche dal punto di vista del biologo». Ibidem, p. 158. Pertanto «si può
ragionevolmente pensare a qualsiasi oggetto o persona in termini di montaggio e riassemblaggio. Nessuna architettura
“naturale” vincola la progettazione del sistema […]. Ciò che conta come “unità”, come uno, è altamente problematico,
non è un dato permanente». Ibidem, p. 147.
65
Il termine transhuman (forma abbreviata per transitional human) fu coniato nel 1966 dal futurologo Fereidoun M.
Esfandiary, che più tardi cambiò il proprio nome in FM-2030, nel suo libro del 1989, Are You a Transhuman? Nel
mondo sono attivi vari gruppi di orientamento transumanista, tra cui l’Extropy Institute, fondato nel 1992 da Max More
(il termine extropia si oppone a entropia) e la World Transhumanist Association (WTA), fondata nel 1997 da Nick
Bostrom e David Pearce. Cfr. FM-2030, Are you a Transhuman?, Warnerbooks, London 1989. «Secondo il pensiero
transumanista l’uomo sta entrando – o, meglio, già è entrato – in una fase di transizione postbiologica caratterizzata da
una profonda e pervasiva rivisitazione del corpo nelle sue prestazioni o opera della tecnologia. L’idea di base del
pensiero transumanista è che la nostra specie stia attraversando una fase critica in veloce trasformazione, in cui le
sempre più potenti possibilità di intervento modificheranno sostanzialmente non solo l’ambiente dell’uomo nonché le
caratteristiche strutturali e funzionali del corpo, ma soprattutto l’identità ontologica. Secondo la visione transumanista
lo sviluppo tecnologico permetterebbe di riprogettare al condizione umana, liberandola da quei vincoli – temporali,
performativi, estesici – che oggi l’affliggono». R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, p. 527.
66
«Quando svilupperemo la capacità di intervenire con l’ingegneria genetica non solo sulle cellule somatiche, ma anche
su quelle germinali, saremo in grado di plasmare e creare la nostra natura umana a immagine e somiglianza dei fini
scelti dalle persone. Alla fine, ciò potrà significare un mutamento cos’ radicale della nostra natura umana che i nostri
discendenti potranno essere considerati da futuri classificatori come una nuova specie. Se non vi è nulla di sacro nella
natura umana […], non vi è alcuna ragione per la quale, per ragioni appropriate e con l’appropriata cautela, essa non
debba essere cambiata». H. T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 429.
67
F. ALFANO MIGLIETTI, Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa &
Nolan, Genova 1997, p. 62.
68
Ibidem, p. 248.
69
R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, p. 25.
70
Ibidem, p.171.
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frutto di un processo creativo non determinato».71Questo indica che il post-umano, significando la
crisi e la scomparsa dell’umanesimo, tipico di quelle filosofie post-cartesiane che, in un modo o
nell’altro, hanno riconosciuto all’uomo il ruolo di legislatore sulla natura e sulla storia, oltre a
quello di soggetto di una prassi legittimata a trasformare il mondo, determina la comprensione
dell’uomo, non più come soggetto, bensì come un mezzo di cui la tecnica si serve per potenziarsi e
prendere il suo posto. Pertanto, «l’orizzonte antropocentrico è già dissolto, perché il potere non è
più dell’uomo, ma della tecnica che detta al presunto detentore del potere (l’uomo) la sua
utilizzazione, rendendo quest’ultimo esecutore passivo delle possibilità tecniche, le quali si
esercitano sulla natura che passivamente le subisce».72 Ciò perché la tecnica ormai si pone «come
quell’orizzonte totale al cui interno […] uomo e natura sono costretti a trovare i loro punti di
mediazioni, che sono possibili solo se si è in grado di portarsi al livello del linguaggio tecnico».73
L’uomo, cioè diventa mero strumento all’interno dell’apparato tecnico, in quanto la tecnica «non si
propone fini; ciò verso cui si muove non sono scopi, ma risultati delle sue procedure, per cui se la
coscienza dell’uomo occidentale è ancora persuasa della continuità storica, il carattere afinalistico
della tecnica ha tolto a questa continuità qualsiasi orizzonte in cui reperire un senso».74 L’uomo, in
altri termini, è funzionale alla tecnica; egli non ha più un mondo dove esercitare la sua soggettività
e la sua libertà, perché gli è richiesto di regolarsi secondo i ruoli e le funzioni previste dall’apparato
tecnico. Infatti, «la produzione della tecnica mediante la sua riproduzione fa sì che la tecnica non
sia solo produzione di strumenti, ma produzione di rapporti sociali mediante strumenti, che
convocano gli uomini in quanto rappresentanti di funzioni. Ciò significa che gli strumenti prodotti
dalla tecnica sono solo i termini medi di rapporti tra funzioni, dietro le quali si nascondono
individui che smarriscono la propria individualità nell’atto in cui percepiscono la socialità come
propria della funzione, come qualcosa che non li riguarda in quanto individui, ma in quanto
funzionari».75
Tutto ciò causa una frattura irreversibile nelle relazioni fondamentali dell’umano che,
determinando il tramonto dell’uomo come soggetto e persona, crea la struttura, categorialmente
deterministica, della cultura, la quale viene gestita da ideologie, paradigmi o schemi concettuali
tipici di una mentalità tecnocratica e orientata più all’agire strategico che a quello orientato
all’intesa. 76 Queste forme del pensare antropologico interrompono il «discorso» sull’uomo e
recidono «la fioritura classica e logica del pensare con un accanimento che induce a parlare di
masochismo logico e con uno scompaginamento delle forme e degli stessi libri che legittima la
qualifica di cultura scellerata».77 Ciò vuol dire che si è di fronte ad una cultura impronunciabile con
le parole e con la sintassi nominale, per cui, nel turbine macchinico di questa cultura, si impone la
necessità di individuare e isolare alcuni schemi che fungano da tipo e legarli a quelle produzioni e
produttori che hanno avuto maggiore capacità di coaugulo e di esempio.
Tuttavia, nonostante l’estenuazione di ogni possibile discorso sull’umano, si ripropone per la
ragione umana il compito di capire se davvero e in che modo essa, possa ancora «formulare» un
«discorso» dell’uomo sull’uomo. Al di là delle relazioni infrante della modernità e della
postmodernità, dell’antropologia della differenza e delle teoriche del post-umano, per comprendere
l’uomo, per la complessità e la varietà dei suoi aspetti, come un «tutto integrato» non riducibile alla
somma dei suoi singoli componenti, è necessario, però, adottare uno schema interpretativo che,
71
Ibidem, pp. 70-71. «Hybris è oggi la nostra posizione nei confronti della natura, la nostra violentazione della natura
con l’aiuto delle macchine e della tanto spensierata inventività dei tecnici e degli ingegneri». F. NIETZSCHE, Genealogia
della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1992, p. 44.
72
U. GALIMBERTI, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 484.
73
Ibidem, p. 487.
74
Ibidem, p. 516.
75
Ibidem, p. 560.
76
Cf. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo. I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale; II. Critica
della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986.
77
I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, 12.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 17
coniugando la molteplicità delle dimensioni dell’umano, consideri l’uomo nella totalità del suo
essere persona secondo l’ordine dell’intero al di là delle differenze spersonalizzanti e nullificanti.
Affiché sia praticabile un tale percorso è necessario fare ricorso, in un contesto caratterizzato
dalla frantumazione e disseminazione del senso dell’umano, e dall’impossibilità di pensarne e dirne
la «verità», ad un altro pensare, alternativo e più rispondente alla domanda radicale dell’uomo circa
il senso del suo essere. Questo ricorso sta alla base di un processo che è consapevole del fatto che è
ancora necessario muovere alla elaborazione di un pensiero dell’uomo e sull’uomo che, recependo
le sfide del tempo e ponendosi in un atteggiamento di ascolto e di discernimento, individua nel
logos la cifra sintetica della coscienza umana che si apre come libertà alla verità dell’essere che
accade nei confronti del quale l’uomo si sceglie di fronte al reale, umanizzando la propria umanità.
Ciò in ragione del fatto che «l’indagine sulla ragione, sulle sue possibilità e sulla sua vocazione
altro non vuol essere che un lettura dell’intelligenza umana come fondamento della libera
partecipazione all’evento che porta l’uomo al suo vero compimento».78 Infatti, la ragione è la
capacità radicale dell’uomo che, in un incessante dinamismo plurimo, mostra, dimostra, confronta,
progetta, inventa, avanza, consentendo all’uomo di controllare il processo del suo discorrere a tutte
le forme dell’esistenza e alle loro dimensioni in virtù del fatto che essa è una forma di esercizio di
una delle dimensioni che costituiscono l’essere dell’uomo e si radica nella struttura globale della
persona umana garantendone, di fatto, la propria promozionalità realizzativa. Questo comporta, una
volta constatato che esiste un legame profondo e originario tra pensiero e realtà,79 una diversa
modulazione del pensare che ha come compito primario di guardare dentro le cose per stabilire
relazioni significative tra le diverse articolazioni del senso dell’umano rappresentate dai diversi
saperi della realtà.80 Infatti, poiché la realtà è profonda e complessa, l’accesso ad essa nel tramite
del pensiero avviene da molteplici angolature, da diversi punti prospettrici i quali svelano che la
78
G. SGUBBI, Dio di Gesù Cristo Dio dei filosofi. Il cristico e il critico, EDB, Bologna 2004, 175.
«L’“unità nella distinzione” è anzitutto una dimensione della realtà, è una struttura che la realtà impone al pensiero. Il
pensiero è infatti sì creativo, ma non assolutamente e originariamente: esso è da sempre pensiero “della” realtà. Se la
realtà non è apprendibile “fuori del pensiero” che la pensa, è anche vero che la realtà non è costituita e creata dal
pensiero, non è frutto del pensiero. Il pensiero ha il compito di conoscerla quale essa è, oggettivamente; e può farlo,
perché la realtà è disponibile per il pensiero, è come un anelito a emergere nella sua oggettività, attraverso il pensiero
dell’uomo che la esperimenta, la descrive, la dipinge, la sogna». A. STAGLIANÒ, Introduzione, in G. SGUBBI - P. CODA
(edd.), Il risveglio della ragione. Proposte per un pensiero credente, Città Nuova, Roma 2000, 20-21.
80
«La realtà non si lascia afferrare unilateralmente, chiede invece “sinergie” anche nell’approccio cognitivo, almeno
sotto tre specifici aspetti, sinteticamente comprensivi di altri ancora: tentando di descriverla in ogni suo movimento
dall’infinitamente grande dell’evoluzione cosmologica e astrofisica all’infinitamente piccolo delle particelle molecolari
atomiche e subatomiche attraverso la scienza; di contemplarla nella sua globalità di essere e nelle sue ultime strutture
fondanti attraverso la filosofia; di riconoscerla nella sua apertura interiore al trascendente assoluto che ne permette il
continuo evolversi verso sempre nuova ricchezza di vita e di essere attraverso la teologia». A. STAGLIANÒ,
Introduzione, in G. SGUBBI - P. CODA (edd.), Il risveglio della ragione. Proposte per un pensiero credente, 21. Questo è
reso ancora più evidente dalla logica e dal modo di considerare la realtà da parte della meccanica quantistica, che ha
portato alla scoperta teorica e sperimentale di una scala di valori inaccessibile agli organi di senso, molto lontana
dall’esperienza quotidiana, e che ha determinato l’emergenza del concetto dei «livelli di realtà o, più esattamente, livelli
di comprensione della realtà». Infatti, tramite essa, «si distinguono quindi più livelli in funzione delle diverse scale:
scale di particelle, scala dell’uomo, scala dei pianeti. Ma ci sono anche diversi livelli di realtà anche quando c’è una
rottura di linguaggio e di logica: il livello quantistico può essere conosciuto in quanto livello diverso da quello che
corrisponde alla nostra scala personale; la logica del contraddittorio, su cui sembra basarsi il mondo quantistico
(specialmente la dualità onda corpuscolo, poiché bisogna tener insieme due nozioni che si escludono a vicenda), è
diversa da quella del mondo della nostra scala personale (retto da una logica di non-contraddizione)». T. MAGNIN, La
scienza e l’ipotesi Dio. Qual Dio per un mondo scientifico?, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 22-23. Cf. anche B.
NICOLESCU, La Science, le Sens et l’Evolution, Félin, Paris 1988. Sulla meccanica quantistica, Cf. W. HEISENBERG,
Ueber den anschaulichen Inhalt der quantentheorischen Kinematik und mechanik, in Idem, Gesammelte Werke, Series
A/1, a cura di W. BLUM - H. P. DÜRR - H. RACHENBERG, Springer, Berlin 1984, 478-504; J. C. POLKINGHORNE, Il mondo
dei quanti, Garzanti, Milano 1986; TH. S. KUHN, Alle origini della fisica quantistica. La teoria del corpo nero e la
discontinuità quantica, Il Mulino, Bologna 1988; G. TAGLIAFERRI, Storia della fisica quantistica, Franco Angeli,
Milano 1985; C. CALTAGIRONE, Ripensare il mondo. Spazio-tempo, cosmovisioni, conoscenze, Salvatore Sciascia
Editore, Caltanissetta-Roma 2001, 174-188.
79
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 18
mente umana è polimorfa a causa dell’ineliminabile tensione tra l’illimitato desiderio umano di
conoscere e il limitato orizzonte della determinatezza condizionata dell’uomo.
LA NECESSITÀ DI RI-PENSARE L’UOMO
Nell’attuale contestualità storico-culturale, caratterizzata da continui tentativi di spostamento dei
confini dell’identificabilità e dicibilità dell’umano,81 il discorso sull’uomo ritorna a essere centrale.
All’interno di un universo culturale che tenta non solo a conoscere e a interpretare l’uomo, ma,
anche e soprattutto, a trasformarlo, l’impegno a mettere in atto uno sviluppo riflessivo sulla
specificità dell’umanità dell’uomo, in grado di farne emergere tutte le caratteristiche proprie della
sua concreta umanità, che lo distinguono da ogni altro essere vivente, impone, di fatto, una
riconsiderazione della questione antropologica che deve essere capace di collocarsi nel «conflitto
delle interpretazioni» e di trovare il modo di rilanciare il problema verso il superamento di esse
nella prospettiva di una configurazione della stessa antropologia come «metodica ermeneutica» del
vissuto umano concreto.82
L’emergere, l’introdursi e il consolidarsi di concezioni esclusivamente naturalistiche tendenti a
considerare la realtà umana unicamente nell’orizzonte di una riduzione alla materia e alla natura,83
le quali, in alternativa alle concezioni dualistiche di tipo ontologico, che considerano l’uomo come
una realtà composta di due sostanze, materia e spirito, irriducibili l’una all’altra, mettendo in crisi le
tradizionali immagini dell’uomo che hanno caratterizzato la cultura occidentale,84 aprono il campo
ad un vasto settore di intervento tecnologico che inizia ad appropriarsi, modificandone la struttura
81
Ciò che cambia, radicalmente, è «l’idea stessa di “carta di identità” dell’umano come orizzonte di evidenze originarie
e certificabili. Questo mutato scenario rifiuta i profili netti e le tesi consolidate, e si sviluppa metabolizzando, senza
filtri normativi precostituiti, bisogni e linguaggi, passioni e interessi, mondi vitali e universi di senso, che diventano
come la materia prima di cui il sistema ha bisogno per crescere e per mantenere la sua elasticità». L. ALICI, La via della
speranza. Tracce di un futuro possibile, AVE, Roma 2006, pp. 26-27.
82
«La questione antropologica designa ciò che rappresenta nella nostra epoca un’impresa cruciale [...], ossia l’impresa
di riconoscere l’umano, nel triplice significato che possiamo attribuire a questa espressione. Anzitutto, nel senso di
decifrare, ossia cogliere quando e come si dà l’umano, nella misura in cui sembrano venuti progressivamente meno i
criteri, capaci di produrre a tale riguardo evidenze subito condivise. Un secondo significato, conseguente al primo, è il
comprendere l’umano di nuovo e in modo nuovo: quelle evidenze sono andate in crisi poiché più a monte si è offuscato
il codice culturale, che permette di interpretare l’antropologico in una forma comunicabile. Infine, per decifrare e
comprendere quando e come l’umano appare, occorre un sapere altro rispetto a quello che immediatamente la logica o
la scienza riescono ad offrire. Occorre un sapere che assuma la modalità del consentire, ovvero un misto di empatia e
reciprocità, una posizione di esistenza che renda possibile la spartizione di un senso condiviso dell’identità dell’uomo».
D. ALBARELLO, Il soggetto responsabile. Fenomenologia della promessa e della co-rispondenza, in «Teologia», 34
(2009) 3, p. 451.
83
Sotto la categoria «naturalismo» è possibile rilevare una molteplicità di problematiche che vanno dalla questioni
epistemologiche relative allo sviluppo evolutivo, ai dibattiti interni alle filosofie della mente, alla determinazione delle
differenti prospettive etiche. Per una panoramica indicativa Cfr., R. BHASKAR, Le possibilità del naturalismo, Marietti,
Genova 2010 (ed. or. 1979); F. BOTTURI – R. MORDACCI (a cura di), Natura in etica. Naturalismo e antinaturalismo,
Annuario di etica 6/2009, Vita e Pensiero, Milano 2010; L. CALABI, Il caso che disturba. Spunti e appunti sul
naturalismo darwiniano, ETS, Pisa 2008; S. POLLO, La morale della natura, Laterza, Roma-Bari 2008; S. NANNINI,
Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente, Qodlibet, Macerata 2007; P. COSTA - F. MICHELINI (a
cura di), Natura senza fine. Il naturalismo moderno e le sue forme, EDB, Bologna 2006; A. PANDOLFI, Natura umana,
Il Mulino, Bologna 2006; M. DE CARO – D. MACARTHUR (a cura di), La mente e la natura. Per un naturalismo
liberalizzato, Fazi, Roma 2005; G. BONIOLO, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, darwinismo, Raffaello Cortina,
Milano 2003; L. GASPARINI (a cura di), Sulla naturalizzazione della morale, Il Poligrafo, Padova 2003; E. AGAZZI - N.
VASSALLO (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1998, S.
BARTOLOMEI, Etica e natura, Laterza, Roma-Bari 1995.
84
Cfr. R. BAKER LYNN, Persone e corpi. Un’alternativa al dualismo cartesiano e al riduzionismo animalista, a cura di
C. Conni, Bruno Mondadori, Milano 20102; L. GRION (a cura di), La differenza umana, Riduzionismo e antiumanesimo,
«Anthropologica» Annuario di studi filosofici 2009, La Scuola, Brescia 2009; R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza
tra «qualcosa» e «qualcuno», a cura di L. Allodi, Laterza, Roma-Bari 2007; J. DERRIDA, L’animale che dunque sono,
Jaca Book, Milano 2006; L. FERRY – J.-D. VINCENT, Che cos’è l’uomo? Sui fondamenti della biologia e della filosofia,
Garzanti, Milano 2002.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 19
organica di base, dell’uomo nella sua esistenza concreta e, progressivamente, prospetta modalità
relazionali dell’uomo con se stesso, con gli altri, con le cose, con il mondo, in maniera totalmente
differente da come finora l’uomo ha intessuto queste costitutive relazioni.
Sulla base della convinzione che la tecnica è un modo di compiersi dell’uomo, perché
«incompiuto» per natura,85 la certezza della possibilità di esercitare maggiore potere sulla natura e
sull’uomo, facendo riferimento allo sviluppo di tecnologie particolarmente evolute, conduce
l’attuale discorso antropologico a concentrarsi sulla legittimità e liceità degli interventi sulla realtà
umana, i quali interessano i momenti fondamentali dell’esistenza, l’inizio e la fine, il nascere e il
morire. Ovviamente questa concentrazione presenta delle ambivalenze di fondo. Infatti, se, da una
parte, ci si ferma a considerare la capacità delle scienze biomediche di modificare gli organismi
viventi, compreso l’uomo, a comprendere la carica innovativa delle biotecnologie, capaci di
introdurre alterazioni di tipo «migliorativo» negli organismi degli esseri viventi, a esaltare il
dilatarsi del campo di applicazione a tutti gli ambiti della natura e della realtà umana, dall’altra si
continua a evadere la domanda che riguarda il posto e il senso dell’uomo e della sua identità
personale, a sottacere le profonde questioni antropologiche fondamentali che presuppongono
qualsiasi argomentazione in ordine fattibilità tecnica e alla liceità morale e giuridica di certe
metodiche d’intervento.86 Questo vuol dire che, nonostante il discorso sull’uomo, colto nella sua
compiutezza umana, sia invocato e praticato da più parti, la comprensione e l’esplicitazione della
radicalità antropologica, previa a qualsiasi configurazione discorsiva sull’uomo, risulta ancora,
purtroppo, inevasa. Il delinearsi e l’articolarsi delle differenti antropologie rappresentano il segnale
più evidente delle difficoltà a costruire una antropologia fondamentale in grado di «dire» la «verità»
dell’uomo nella sua profondità e pienezza, e testimoniano che la questione antropologica mantiene,
ancora oggi, una rilevanza cruciale che richiede nuove progettualità riflessive e comprensive
sviluppate al di là di ogni possibile dualismo e/o riduzionismo.
Tenendo conto del fatto che qualsiasi discorso sull’uomo implica sia una pars destruens, che è
chiamata a operare una forma di demistificazione dell’ideologia della pervasività tecnologica intesa
come risposta adeguata ed efficace ai problemi reali dell’esistenza umana, sia una pars costruens,
che impegna il cammino riflessivo a convalidare «la possibilità di accreditare la profondità
metafisica dell’essere personale sulla base di una paradigma inequivocabilmente non dualistico»,87
l’elaborazione di un discorso antropologico, nel quadro di una antropologia fondamentale, deve
trovare un punto di ancoraggio nella considerazione dell’articolazione bio-psico-spirituale
dell’essere umano, la quale determina la sua condizione di immanenza-trascendenza, immediatezzamediazione, prossimità-distanza con tutto l’ordine cosmico lungo la storia del suo processo
evolutivo.
85
A. GEHELEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983; U. GALIMBERTI, Psiche e
techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
86
A. LORENZET, Il lato controverso della tecnoscienza. Nanotecnologie, biotecnologie e grandi opere nella sfera
pubblica, Il Mulino, Bologna 2013; S. M. Kampowskij – D. Moltisanti, Migliorare l'uomo? La sfida etica
dell'enhancement, Cantagalli, Siena 2011; M. NEGRO – F. CIARAMELLI – G. NICOLOSI (a cura di), Figure della
corporeità. L’esperienza del corpo nell’era delle biotecnologie, Città Aperta, Tronia, 2009; L. PALAZZANI (a cura di),
Nuove biotecnologie, biodiritto e trasformazioni della soggettività, Studium, Roma 2007; R. BALDUZZI – C. CIROTTO –
I. SANNA, Le mani sull’uomo. Quali frontiere per la biotecnologia?, Ave, Roma 2005; E. BORRELLI, La sfida delle
biotecnologie, Armando, Roma 2005; M. BUIATTI, Le biotecnologie, Il Mulino, Bologna 2004; M. TALLACCHINI – F.
TERRAGNI, Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Bruno Mondadori, Milano 2004; A. CERRONI, Homo
transgenicus. Sociologia e comunicazione delle biotecnologie, Franco Angeli, Milano 2003; M.L. DI PIETRO – E.
SGRECCIA, Biotecnologie e futuro dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2003; L. SFEZ, Il sogno biotecnologico, Bruno
Mondadori, Milano 2002; J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino
2001.
87
L. ALICI, Il «corpo che abbiamo» e il «corpo che siamo», in Servizio Nazionale per il progetto culturale della CEI, Il
Futuro dell’uomo. Fede cristiana e antropologia, IV Forum del progetto culturale, EDB, Bologna 2002, p. 121.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 20
Antonio Rosmini scrive, infatti, che il compito urgente dell’antropologia è quello di «riunire
quest’uomo così miseramente ammezzato»,88 specialmente dopo la classica divisione «territoriale»
tra res cogitans, oggetto di esclusiva indagine filosofica, e res extensa, oggetto delle scienze fisicomatematiche, operata da René Descartes all’inizio dell’età moderna, 89 che ha determinato
l’insorgere di una prospettiva accentuatamente dualista, avvalorata dagli esisti filosofici successivi.
Una tendenza confermata da Immanuel Kant, il quale nella prefazione all’Antropologia pragmatica
afferma che «una dottrina della conoscenza dell’uomo, concepita sistematicamente (antropologia),
può essere fatta o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. La conoscenza
fisiologica dell’uomo mira a determinare quel che la natura fa dell’uomo, la pragmatica mira invece
a determinare quello che l’uomo come essere libero fa oppure deve fare di se stesso».90 In questo
modo, Kant inaugura una distinzione tra una modalità teoretico-scientifica di accedere all’umano, in
cui l’uomo è indagato alla stessa stregua di tutte le cose, e una modalità pratica o, appunto,
pragmatica, in cui l’uomo è indagato nella sua specificità rispetto al resto dell’ente. Di lui, infatti,
non si può semplicemente dire chi «è», bensì anche e propriamente che «ha da essere». Ciò ha
accentuato ulteriormente la prospettiva dualista mostrando che «mentre nel primo modo l’umanità
dell’uomo appare come un dato naturale cui si assiste da spettatori che possono solo descriverne,
nel secondo modo l’umanità dell’uomo emerge nella sua specificità, in quanto l’uomo non è
ricondotto alla modalità oggettiva (ciò-che-è), ma viene scoperto nella sua modalità soggettiva,
come quell’essere-che-si-fa, quell’essere che è capace di dare forma a se stesso».91
Questa diversa modalità, oggettiva e soggettiva, di approccio all’umano, con lo svilupparsi della
ricerca biologica, tra Otto e Novecento, ha determinato l’affermazione della legittimità e della
necessità di una lettura esclusivamente empirica, alternativa e in tensione con le altre letture,
specificamente filosofiche, della realtà dell’umano e delle sue articolazioni fondamentali. La realtà
dell’umano, infatti, dalle indagini biologiche, messe in atto tra Otto e Novecento, è stata colta è
interpretata alla luce di una comprensione materialista, meccanicista e determinista la quale postula
«che la vita dello spirito è allo stesso tempo prodotta e determinata dalla materia, vale a dire,
essenzialmente dalla natura e dalla storia». 92 Tale comprensione, che si caratterizza per il
riduzionismo, 93 ovvero per «la riduzione dello specifico al generale, e la negazione di ogni
88
A. ROSMINI, Psicologia, I, a cura di V. Sala, Città Nuova, Roma 1988, p. 33.
Tra le tante annotazioni interpretative la pertinenza della precisazione di K. Jaspers risulta essere ancora istruttiva in
quanto sottolinea che «separando la realtà nei due regni isolati della res cogitans e della res estensa, Descartes ha
lasciato in eredità ai filosofi successivi il problema impossibile di ricondurre le due parti ad un’unità sufficiente a
rendere comprensibile la natura dell’uomo». K. JASPERS, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 1965,
p. 244. In ambito neuroscientifico A.R. Damasio rimprovera a Cartesio «di aver convinto i biologi ad adottare (fino ai
nostri giorni) meccanismi simili a orologi per i processi della vita. Ma questo forse non sarebbe proprio corretto; e
allora si potrebbe continuare con il “Penso dunque sono”. L’elemento il più famoso di tutta la storia della filosofia […],
esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero riguardo alle origini della mente e riguardo alla relazione tra
mente e corpo; esso suggerisce che il pensare, e la consapevolezza di pensiero, siano i veri substrati dell’essere. E
siccome sappiamo che Descartes immaginava il pensare come un’attività affatto separata dal corpo, esso celebra la
separazione della mente, la “cosa pensante” (res cogitans), dal corpo non pensante, dotato di estensione e di parti
meccaniche (res extensa)». A.R. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano
1995, p. 243.
90
I. KANT, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 3.
91
G. GIORGIO, La dignità della persona umana e la sofferenza: considerazioni ontologiche ed etiche, in «Planus»,
Quaderno di studi a cura di G. Giorgio, Istituto Teologico Abruzzese-Molisano, Chieti 2006, p. 190.
92
L. FERRY, Introduzione filosofica, in L. FERRY – J.-D. VINCENT, Che cos’è l’uomo? Sui fondamenti della biologia e
della filosofia, p. 24.
93
«Nel 1974, Francisco Ayala identificò tre tipi di tesi riduzioniste: a) il riduzionismo metodologico, che rappresenta
una strategia di ricerca sia per poter studiare gli oggetti globali, come le cellule, riducendole nei termini delle loro parti
componenti (come le macromolecole), sia perché teorie applicate con successo in una certa area, come l’evoluzionismo
darwiniano in biologica, possono essere applicate anche ad altre aree, come la sociologia o le religioni; b) il
riduzionismo epistemologico, secondo cui i processi, le proprietà, le leggi e le teorie trovate in un livello più alto di
complessità – ad esempio le neuroscienze – possono essere interamente derivate da quanto trovato in livelli di
complessità più basse – ad esempio in biologia o anche in fisica; c) il riduzionismo ontologico, ovvero la prospettiva
89
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 21
autonomia assoluta dei fenomeni umani»,94 e per il determinismo, il quale dal punto di vista del
materialismo storico-sociale sostiene che l’essere umano è determinato in maniera esaustiva dal
contesto storico-sociale nel quale è stato educato, e dal punto di vista del materialismo naturalistico
pensa che è la propria struttura genetica a determinare ciò che l’uomo realmente è,95 giunge alla
conclusione «che l’essere umano non possiede propriamente una storia e un corpo, ma che esso è
semplicemente quella storia e quel corpo e nient’altro».96
Tuttavia, nonostante il perdurare del riduzionismo e del materialismo determinista, dai percorsi
riflessivi avviati dalla comprensione dalla ricerca sull’evoluzione cosmica e biologica, alla luce
della concezione semantica delle teorie scientifiche,97 le quali stanno implicando una profonda
riorganizzazione epistemologica delle scienze e della filosofia e delle loro mutue relazioni, si
aprono scenari epistemici di un certo rilievo in ordine alla comprensione dell’universo, dell’uomo e
della loro reciproca interdipendenza e relazionalità. Infatti, la prospettiva di un universo evolutivo,
inteso come un grande immenso cantiere processuale, come una realtà molteplice in continuo
sviluppo, nella quale la freccia del tempo è generatrice di sempre maggiore complessità, 98
secondo la quale le entità più complesse e di livello più alto non sarebbero se non organizzazioni complesse di entità
semplici; in altre parole, il tutto non sarebbe “niente altro” che la somma delle sue parti». Recentemente «N. Murphy ha
aggiunto ai tre precedenti un quarto tipo di riduzionismo: d) il riduzionismo causale, il quale asserisce che tutte le cause
sono “connesse dal basso verso l’alto” (Bottom-up), che le caratteristiche ed i processi delle parti determinano
interamente i processi e le caratteristiche del tutto. L’autrice ha anche chiarito un’ambiguità nella descrizione di Ayala
del riduzionismo ontologico. Secondo la Murphy, il riduzionismo ontologico è, di per sé, la prospettiva secondo cui
“non occorre aggiungere alcun tipo di ‘ingrediente metafisico’ per produrre entità di più alto livello [di complessità] da
quelle di più basso livello”. Tale prospettiva rifiuta l’esistenza di “forze vitali” o di “entelechie” nelle scienze della vita,
così come rifiuta il riferimento alla mente o all’anima come base della coscienza. La Murphy aggiunge un quinto tipo di
riduzionismo: e) il materialismo riduttivo, una tesi ancor più forte del riduzionismo ontologico, secondo cui “[soltanto]
le entità al più basso livello sono effettivamente reali; le entità corrispondenti a livelli di organizzazione più alti […]
sono soltanto strutture composte formate da atomi». R.J. RUSSEL, Dialogo scienze-teologia, metodo e modelli, in G.
TANZELLA-NITTI - A. STRUMIA (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede. Cultura scientifica, filosofia
e teologia, I, Urbaniana University Press-Città Nuova, Città del Vaticano-Roma 2002, pp. 389-390. Secondo
Spaemann, l’interesse che sta dietro lo sforzo riduzionistico «è l’interesse per una connessione causale chiusa di tipo
fisico, che contenga tutto e spieghi tutto ciò che “esiste”. […]. L’interesse che si trova dietro a questo postulato è
l’interesse per un aumento continuo del nostro dominio sulla natura, della nostra possibilità di intervenire su di essa. La
scoperta della dipendenza di condizioni psichiche da processi fisici ci apre la possibilità della manipolazione di queste
condizioni […]. La continuità causale della realtà fisica opera nell’agire una crescente possibilità di intervento, ma essa
distrugge allo stesso tempo il concetto di agire. Se l’agire stesso appartiene alla connessione causa fisica chiusa, allora
diventa incomprensibile perché postuliamo questa connessione, e addirittura perché in generale postuliamo qualcosa;
che cosa significhi, ad esempio, affermare una connessione causale conclusa». R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza
tra “qualcosa” e “qualcuno”, p. 52.
94
L. FERRY, Introduzione filosofica, in L. FERRY – J.-D. VINCENT, Che cos’è l’uomo? Sui fondamenti della biologia e
della filosofia, p. 25.
95
Cfr. L. FERRY, Introduzione filosofica, in L. FERRY – J.-D. VINCENT, Che cos’è l’uomo? Sui fondamenti della
biologia e della filosofia, p. 26. «L’espressione più compiuta del determinismo a livello scientifico si ha agli inizi del
secolo XIX con P.S. Laplace, il quale afferma che «un’intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze di
cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda
da sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo
e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato sarebbe presente ai suoi occhi».
P.S. LAPLACE, Saggio filosofico sulla probabilità, in IDEM, Opere, a cura di O. Pesenti Cambusano, Utet, Torino 1967,
p. 243. Sul determinismo Cf. S. AMSTERDAMSKI ET ALII, La querelle du déterminisme. Philosophie de la science
d’aujourd’hui, Gallimard, Paris 1990; M. MORI, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna 2001.
96
L. FERRY, Introduzione filosofica, in L. FERRY – J.-D. VINCENT, Che cos’è l’uomo? Sui fondamenti della biologia e
della filosofia, p. 28.
97
Cf. J. BEATTY, On Behalf of the Semantic View, in «Biology and Philosphy», 1987, 2, pp. 17-23; E. LLOYD, The
Structure and Confirmation of Evolutionary Theory, Grenwood Press, New York-Westport-London 1988; P.
THOMPSON, The Structure of Biological Theories, State University of New York Press, Albany, 1989. Per le critiche,
Cfr. M. ERESHEFSKY, The Semantic Approach to Evolutionary Theory, in «Biology and Philosophy», 1991, 6, pp. 5980.
98
Cfr. I. PRIGOGINE, Dall’essere al divenire. Tempo e complessità nelle scienze fisiche, Einaudi, Torino 1986; I.
PRIGOGINE – I. STENGERS, Entre le temps et l’éternité, Fayard, Pari 1988; G. NICOLS – I. PRIGOGINE, La complessità.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 22
riportando la posizione dell’uomo nella sua esistentività correlativa dell’intero universo, «sia per
quanto riguarda la sua intrinseca intelligibilità, le sue leggi, le complicate sequenze dei suoi
processi evolutivi, sia per quanto riguarda la misteriosa dimensione del futuro»,99 nel presentarsi
come un «nuovo paradigma», che intende cogliere la percezione, la conoscenza, interpretazione e
comprensione del reale in una logica dinamica e complessa, non più soggetta a precomprensioni di
carattere determinista e, in quanto tali, vincolanti in senso riduzionista, l’intera visione del mondo e
degli enti, in esso concretati, può costituire l’ambito di riferimento più appropriato per la
ridefinizione delle relazioni tra biologia e antropologia, per la rideterminazione delle strutture
fondamentali del discorso antropologico e per la legittimazione della «centralità metodica» della
riflessione sull’uomo compreso nella sua interalità costitutiva.100
Richiedendo una necessaria presa d’atto del mutamento della visione del mondo provocato dallo
sviluppo dei saperi scientifici contemporanei, il «paradigma evolutivo» intende mostrare la
dinamica intrinseca della struttura spazio-temporale dell’universo e dell’auto-organizzazione autopoietica degli organismi viventi; mettere in evidenza che la realtà è costituita da un insieme
sistemico di elementi collegati tra loro in una rete di relazioni e interrelazioni; far rilevare la
fondamentale unità-molteplicità dell’universo nel quale l’osservatore umano è perfettamente coimplicato e interagente con il processo di osservazione e l’oggetto osservato; proporre una visione
dinamica in cui gli spazi di libertà sono la condizione necessaria per lo sviluppo del mondo che
tende alla complessità e alla diversità; considerare cosmo e uomo, natura e storia, materia e spirito
non più come entità separate, universi autonomi e indipendenti l’uno dall’altro, ma come realtà
strettamente connesse, interdipendenti e fortemente reciproche nella loro strutturale relazionalità;
sviluppare un compiuto discorso sull’uomo che non prescinde dalla sua collocazione nel quadro
dell’evoluzione cosmica e biologica. Infatti, il «paradigma evolutivo», sviluppando l’idea di un
universo in costante evoluzione, in cui il fenomeno biologico è prodotto dal processo evolutivo
cosmico, il quale, attraverso livelli di auto-organizzazione e mediante il passaggio da un livello
all’altro, si dispiega e integra informazione, in modo tale da raggiungere risultati altamente
sofisticati, mostra l’intrinseca dinamicità e la costitutiva relazionalità degli enti; postula una
ontologia dei sistemi aperti, in cui «l’idea di essere non è una nozione sostanziale» ma «un’idea
organizzazionale»; 101 impone la ridefinizione delle strutture fondamentali del discorso
antropologico che comporta la messa in questione delle differenti questioni teoriche, impegnate ad
apportare chiarimenti sulla identità e singolarità dell’uomo nella natura e sul senso del suo essere
nel mondo. Il «paradigma evolutivo», nel mostrare che il processo evolutivo, essendo costituito da
un seguito di strutture di sviluppo che si arricchiscono progressivamente alimentandosi e
sostenendosi sulle strutture precedenti102 e realizzandosi tramite una mutazione di strutture in vista
dell’adattamento dell’organismo e degli ambienti sempre più complessi, o che pongono esigenze
Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, Einaudi, Torino 1991; W.H. NEWTON-SMITH, The Structure of Time,
Routledge and Kegan, London 1980; G. BOCCHI – M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano
1985; P. KROES, Time. Its Structure and Role in Physical Theories, Reidel, Dordrecht 1985; M. ZENZEN, The Nature of
Irreversibility, Reidel, Dordrecht 1985; E. BELLONE, I nomi del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 1989; R.
HIGHIFIELD, La freccia del tempo, Rizzoli, Milano 1991; M. CASTAGNINO – J.J. SANGUINETI, Tempo e universo. Un
approccio filosofico e scientifico, Armando, Roma 2000.
99
S. MURATORE, Oltre l’antropocentrismo cosmologico, in ATI, La creazione e l’uomo. Approcci filosofici per la
teologia, a cura di A. Staglianò, Messaggero, Padova 1992, p. 213.
100
Cfr. PENATI G., Sapere antropologico e linguaggio. Introduzione critica all’onto-teologia, Morcelliana, Brescia
1990.
101
E. MORIN, La natura della natura. Il metodo I, Cortina, Milano 2001, p. 243.
102
L’esistenza dell’auto-organizzazione nella natura, il passaggio da un livello all’altro e il processo ad essi congiunto
rispondono a processi naturali, allo spiegamento del dinamismo naturale che va producendo successivi tipi di
organizzazioni le quali, attraverso antitetiche integrazioni, danno luogo a nuovi sistemi unitari che possiedono proprietà
realmente nuove, e questi sistemi, a loro volta, contengono nuove virtualità e le mostrano attraverso nuovi dinamismi.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 23
sempre più complesse,103 mette in evidenza che lo sviluppo umano si realizza nel senso di una
complessificazione progressiva grazie a dei nuovi mezzi che si sostengono gli uni sugli altri e porta
ad impostare il discorso antropologico al di là di ogni ipoteca di carattere riduzionista che interessa
tanto il biologismo quanto l’antropologismo.104 In effetti, nel quadro della prospettiva evolutiva, un
adeguato discorso sull’uomo deve essere in grado di stabilire «l’articolazione tra la fisica e la vita,
cioè fra entropia e antientropia, tra la complessità microfisica (ambiguità corpuscolare-ondulatoria,
principio di indeterminazione) e la complessità macrofisica (autorganizzazione). Essa dovrà
stabilire l’articolazione tra il vivente e l’umano, l’antientropologia e l’antropologia, dato che l’uomo
è l’antientropico per eccellenza». 105 Questo vuol dire che la costruzione di un’antropologia
fondamentale, riorganizzandosi sulla base della fisica, della biologia, delle antropologie (filosofica,
culturale, teologica, ecc.), della psicologia, della sociologia, delle scienze dell’informazione e della
comunicazione (semantica, cibernetica, informatica, linguistica, ecc.), della scienza cognitiva,
dell’etologia e della storia, comprendendo l’uomo secondo le sue molteplici dimensioni interattive e
interrelazionali, deve considerare la relazione circolare
fisica → biologia → antropo-sociologia,
↑______∗_____________⏐
che si fonda sul fatto «che una scienza dell’uomo postula una scienza della natura, la quale a sua
volta postula una scienza dell’uomo» e comporta «anche che nello stesso tempo la realtà antroposociale dipende dalla realtà fisica, e la realtà fisica dipende dalla realtà antropo-sociale».106
La relazione circolare
fisica → biologia → antropo-sociologia,
↑______∗_____________⏐
la quale, dal punto di vista epistemologico, implica l’integrazione e l’articolazione
oggetto → soggetto
↑________⏐
consente, infatti, di sviluppare un discorso antropologico fondamentale che sfugge tanto alle istanze
soggettivistiche quanto a quelle oggettivistiche, perché consente di collocarsi nel rapporto con
l’oggetto di studio in una co-implicazione integratrice, 107 relazionale e dialogica funzionale alla
comprensione dell’uomo nella totalità della sua molteplicità complessa.108
103
«I sistemi viventi sono sistemi chimici coerenti dotati di programma, cioè sistemi in cui coesistono, condizionandosi
a vicenda, due tipi di processi che si svolgono a due differenti livelli. Un sistema vivente non è quindi una cosa entro la
quale si svolgono processi, ma esso stesso consiste in un complesso di processi coerenti (cioè ordinati), irreversibili,
lontani dall’equilibrio termodinamico, che sono mantenuti da un apporto esterno sia di energia in forma pregiata (che
viene trasformata, immagazzinata e utilizzata nei processi), sia di materiali) che vengono elaborati da tali processi). I
processi portano anche alla formazione di strutture speciali idonee al contenimento degli stessi processi nello spazio e
nel tempo, realizzandosi così un mutuo condizionamento; essi sono organizzati in modo tale da potersi anche
riprodurre, duplicando anche il contenuto di informazione del programma con sua distribuzione nei due sistemi
derivati». C. TADDEI FERRETTI, L’evoluzione biologica nelle mani dell’uomo, in ATI, Cosmologia e antropologia per
una scienza dell’uomo, a cura di G. Ancona, Messaggero, Padova 1995, p. 41. Cfr. M. AGENO, Le radici della biologia,
Feltrinelli, Milano 1986, pp. 91-103; Idem, Dal vivente al non vivente, Theoria, Rima 1991.
104
«L’antropologia fondamentale deve respingere ogni definizione che faccia dell’uomo un’entità sia sopra-animale (la
vulgata antropologica) sia strettamente animale (la nuova vulgata pop-biologica); essa deve riconoscere l’uomo come
essere vivente per distinguerlo dagli altri viventi, essa deve superare l’alternativa ontologica natura/cultura. Né panbiologismo, né pan-culturalismo, ma una unità più ricca, che dia alla biologia umana e alla cultura umana un ruolo
maggiore, poiché è un ruolo reciproco dell’una sull’altra». E. MORIN, Il paradigma perduto. Cos’è la natura umana?,
Feltrinelli, Milano 1994, 191.
105
E. MORIN, Il paradigma perduto. Cos’è la natura umana?, p. 206.
106
E. MORIN, L’identità umana. Il Metodo 5, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 13.
107
Una delle conseguenze più vistose della rivoluzione paradigmatica operata dallo sviluppo delle scienze nel XX
secolo è stata quella della reintroduzione del soggetto e dell’osservatore nel tessuto fine della conoscenza che stabilisce
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 24
La costruzione di un discorso antropologico sull’uomo integrale, riconoscendo il doppio
radicamento nel mondo fisico e nella sfera vivente e, nel contempo, lo sradicamento propriamente
umano dell’uomo,109 non interessandosi esclusivamente all’uomo concretamente esistente nella
«datità» oggettuale delle sue manifestazioni concrete, esistenziali, si introduce nelle regioni del
«logos» con l’intento di trovare un senso e un fine all’uomo nella sua costitutiva singolarità e
specificità all’interno del «paradigma evolutivo».
La praticabilità teorico-pratica di un significativo discorso antropologico, in grado di cogliere il
«logos» del senso dell’uomo, trova, così, nella dinamicità del farsi evolutivo e dell’esserci
autoorganizzatore, autopoietico, autotrascendente dell’universo e dell’uomo la ragion d’essere del
suo impiantarsi e costruirsi. Il «paradigma evolutivo», mettendo in evidenza che l’uomo si
costituisce non come insieme di parti sovrapposte, ma come totalità bio-psico-spirituale, consente di
superare ogni definizione tipicamente dualista e/o riduzionista dell’essere umano. In altri termini,
«il paradigma evolutivo», imponendo la necessità di apportare opportuni chiarimenti
sull’articolazione che sussiste tra l’organico e lo psichico, tra il biologico e l’ontologico, comporta
il riconoscimento dell’importanza fondamentale della fisiologia come sorgente e condizione dello
psichismo. Fisiologia e psichismo, infatti, formano un tutto caratterizzato, che solo un’astrazione
arbitraria permette di dissociare. L’organismo è prima di tutto un sistema, cioè un’organizzazione di
elementi essi stessi organizzati (organi). Esso si sviluppa sulla base di un groviglio sempre più
spinto di dominio di comunicazione e di dominio psicologico propriamente detto. È un sistema che
una circolarità costruttiva fra osservatore e sistema osservato. La reintegrazione del soggetto conoscente in ogni
processo di conoscenza «apre la restaurazione del soggetto e svela il problema cognitivo generale: dalla percezione alla
teoria scientifica ogni conoscenza è una ricostruzione, traduzione da parte di una mente/cervello in una data cultura e in
un dato tempo». E. MORIN, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina,
Milano 2000, p. 99. Cfr. H.R. MATURANA – F.J. VARELA, Autopiesi e cognizione, la realizzazione del vivente. Marsilio,
Venezia 1985; H.R. MATURANA – F.J. VARELA, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1987 E. THOMPSON – E.
ROSCH - F. VARELA, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1992, H.R. MATURANA – F.J. VARELA,
Macchine ed esseri viventi, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1992; H. VON FOERSTER, Sistemi che osservano, Astrolabio,
Roma1987; IDEM, Cibernetica ed epistemologia: storia e prospettive, in G. BOCCHI – M. CERUTI, La sfida della
complessità, pp. 112-140; M. CERUTI, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano1996.
108
«L’essere umano, mortale, come tutti i viventi, porta in sé l’unità biochimica e l’unità genetica della vita. È un ipervivente che ha sviluppato in maniera inaudita le potenzialità della vita. Esprime in modo estremo le qualità egocentriche
e altruistiche dell’individuo, raggiunge parossismi di vita nelle sue estasi e nelle sue ebbrezze, ribolle di ardori orgiastici
e orgasmici. È anche ipervivente nel senso che sviluppa in maniera nuova la creatività vivente. Con l’umanità, la facoltà
creatrice si sposta nella mente. L’essere umano è un meta-vivente che, a partire dalle sue attitudini organizzatrici e
cognitive, crea nuove forme di vita psichiche, spirituali e sociali: la “vita della mente” non è una metafora, né lo è la
vita dei miti e delle idee, […], più di quanto lo sia la vita della società. L’essere umano resta un animale del sottotipo
dei vertebrati, della classe dei mammiferi, dell’ordine dei primati. L’essere umano è un vertebrato sicuramente inferiore
in molte performance ai vertebrati acquatici e volatili, ma ha potuto superarli attraverso la sua tecnica in numerosi
campi. È un iper-mammifero perché, segnato fino all’età adulta dalla simbiosi infantile con la madre, sviluppa in amore
e tenerezza, collera e odio l’affettività dei mammiferi conservando nelle amicizie adulte le fratellanze giovanili,
amplificando le solidarietà e le rivalità, sviluppando le qualità della memoria. Dell’intelligenza, dell’affettività proprie
di questa classe, spingendo all’estremo l’attitudine ad amare, gioire, soffrire. I mammiferi ci hanno trasmesso
l’attaccamento, la giovanilità del gioco e dell’apprendimento, l’esperienza e la sagacia della vecchiaia, e noi diveniamo
meta-mammiferi quando restiamo giovani mentre diventiamo vecchi. L’uomo è un animale ipersessuato. La sua
sessualità non è più stagionale, come è ancora nel caso degli scimpanzé, e non è più solo localizzata nelle zone genitali:
si è estesa in tutto il suo essere; non è più circoscritta alla riproduzione, ma invade “fraudolentemente” i suoi
comportamenti, i suoi sogni, le sue idee. L’uomo è un super-primate che ha trasformato in caratteri permanenti dei tratti
che nelle scimmie superiori sono sporadici o provvisori: il bipedismo, l’uso degli utensili; ha ipertrofizzato in sé il
cervello dei suoi antenati primati, ha sviluppato la loro intelligenza e la loro curiosità, diventando una testa che cerca in
ogni direzione». E. MORIN, L’identità umana. Il Metodo 5, pp. 8-9.
109
«L’umano è nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale, che porta in sé questa unidualità originaria.
E un super – e un ipervivente: ha sviluppato in modo inaudito le potenzialità della vita […]. L’uomo è dunque un essere
pienamente biologico ma, se non disponesse pienamente della cultura sarebbe un primate del rango più basso. La
cultura accumula in sé ciò che è conservato, trasmesso, appreso, e comporta norme e principi di acquisizione». E.
MORIN, La natura della natura. Il metodo I, pp. 48-53.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 25
interagisce con un ambiente ed è in questo continuo cambio che si realizza la filogenesi e
l’ontogenesi, cioè il passato di cui è fatto il presente e il futuro.110
Il «paradigma evolutivo», in altri termini, mette nelle condizioni di superare le comprensioni
provenienti sia dalla concezione dualistica del rapporto cosmo-uomo, materia-spirito, soggettooggetto, in quanto considera l’uomo, nel suo processo ontogenetico e nel suo processo storico,
interamente situato, ancorché con tutte le sue specifiche peculiarità, nel divenire della natura, sia
dalla concezione monistica dello stesso rapporto, in quanto l’evento della realtà ha luogo lungo un
percorso continuo di superamento della realtà stessa e dei rapporti che la regolano, ed apre ad una
diversa comprensione della realtà più rispondente alle «leggi» che la animano e più capace di
rendere conto dell’emergenza e della specificità dell’essere umano in essa.111
Questo vuol dire che la costruzione di un discorso antropologico interale sull’uomo esige il
portare l’attenzione sugli aspetti biologici, anatomici, etologici e di ominizzazione, e di mettere in
evidenza i fattori affettivi, cognitivi, immaginativi, i processi di socializzazione, di individuazione e
di integrazione/trasformazione dell’ambiente, di prendere in considerazione i riti, i miti e tutti i
processi simbolici che l’uomo elabora per far fronte alla condizione ontologica dell’umano che vive
la sproporzione tra la fatticità del finito, caratterizzata condizione ontica dell’essere-per-la-morte, la
quale con il suo abbraccio sembra costringere il movimento dell’umanità verso il suo compimento
definitivo, e l’ineludibile desiderio per l’infinito, sperimentata in una continua tensione tra
l’empirico e il trascendentale.
Attorno a queste indagini, all’interno delle quali gravitano problemi relativi a come comprendere
le correlazioni tra biologico/antropologico, organico/psichico, si concentrano una serie di questioni
epistemologiche, metafisiche, antropologiche, etiche e metodologiche, che, a seconda degli
orientamenti, dei presupposti e delle precomprensioni, modulano differentemente la relazionalità
che sussiste, specificamente, tra empirico e trascendentale e rischiano di mantenere inevasa la
questione antropologica fondamentale che riguarda in che senso l’uomo è il suo «altro». Questione
che si concentra sulla comprensione ed esplicitazione del problema se l’uomo è identificabile solo
esclusivamente con il suo corpo o anche con dell’«altro», e se può essere possibile rendere
comprensibile l’interazione costitutiva tra la struttura radicale del «bios», caratterizzata dai legami
nervosi e dai messaggi molecolari che influenzano in permanenza il tutto e le parti, e l’altrettanto
struttura radicale del «pneuma», contrassegnata dagli affetti, dall’immagine del corpo e dal sistema
delle credenze, che connota l’essere umano non come «una somma di due sostanze (le cartesiane
res cogitans e res extensa duplicate dall’idealismo nelle figure speculative di “spirito” e “natura”)»,
ma come «un mix unitario di empiria e trascendentalità, cioè un mix di corporeità e metacorporeità,
in cui gli elementi in gioco si determinano con una certa reciprocità».112
110
Cfr. C. CALTAGIRONE, Tra novum e aliud. Identità e singolarità personale dell’uomo nel quadro del paradigma
evolutivo, in C. CALTAGIRONE (a cura di), Antropologia e «verità» dell’uomo, Salvatore Sciascia Editore, CaltanissettaRoma 2000, p. 65.
111
«La caratterizzazione antropica dell’evoluzione cosmologica, prospettata dai recenti saperi empirici, sta a significare
la possibilità di un radicale superamento di quel dualismo epistemico che ha caratterizzato gran parte della modernità
occidentale. Se l’evoluzione cosmica va compresa non tanto a partire da un insieme astratto di leggi universali e
necessarie, ma in riferimento al suo concreto sviluppo evolutivo, se, in altri termini, l’insieme astratto di leggi offre solo
una componente di intelligibilità generale, inadeguata per una compiuta comprensione dei processi concreti, allora
quanto si va progressivamente realizzando è un dato indispensabile per la conoscenza dell’insieme. E tra le
realizzazioni che si sono di fatto verificate assume indubbiamente un rilievo particolare l’emergenza delle
macrostrutture molecolari, il configurarsi dei processi biologici e tutte le linee evolutive della vita, che conduce allo
psichismo animale e all’operare intelligente e responsabile dell’uomo». S. MURATORE, Oltre l’antropocentrismo
cosmologico, in ATI, La creazione e l’uomo. Approcci filosofici per la teologia, p. 214.
112
C. VIGNA, Bioetica e dignità della vita umana, in CH. DOVOLICH (a cura di), Etica come responsabilità. Prospettive
a confronto, Mimesis, Milano 2003, p. 72. Cfr., anche, C. VIGNA, Corpo della tecnica e corpo del soggetto, AA.VV., La
bioetica. Questione civile e problemi teorici connessi, Glossa, Milano 1998, pp. 151-176; IDEM, Il corpo della mente, in
«Hermeneutica», 2007, pp. 45-51.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 26
Questo, però, implica che la biologia e l’antropologia, essendo chiamate a spiegare, attraverso
l’articolazione tra l’organico e lo psichico, l’empirico e il trascendentale, l’uni-molteplicità
articolata dell’essere umano, sono obbligate a organizzarsi su strutture concettuali differenti da
quella «conoscenza oggettiva», tipica dell’epistemologia moderna, la quale fa svanire la persona
dividendola dapprima nei suoi costituenti incommensurabili, mostrandone poi le determinazioni
oggettive, cioè non personali, di ciascuno di tali costituenti,113 e sono invitate a recuperare il
soggetto umano nelle sue concrete e costitutive dimensioni, cioè radicate nella oggettiva verità di
cui è portatore e non manipolatore, tanto meno creatore. Ciò può accadere, tuttavia, solamente se
distanziandosi dalle visioni fissiste, meccaniciste e statiche dell’universo e dell’uomo ed
eliminando, anche, qualsiasi presupposto di carattere dualista e/o monista, si rende concretamente
operativo un processo di ampliamento capace di includere anche il pensiero umano con tutto il suo
potenziale di creazione di significazione, attraverso una riorganizzazione della relazione bio-psicospirituale, compresa in una dimensione interrelazionale.
Alla luce di tali considerazioni, la profonda riorganizzazione del modo di pensare e vedere il
mondo, 114 l’uomo e le loro mutue relazioni, messa in atto dallo strutturarsi e svilupparsi del
«paradigma evolutivo», si presenta come la chiave ermeneutica in grado di esplicitare il senso
dell’uomo come totalità bio-psico-spirituale e capace di identificare la sua singolarità e unicità nella
storia del mondo e della natura. Ciò giustifica la convinzione che l’importanza dello sviluppo di
un’antropologia nella prospettiva evolutiva nasce dal fatto che il «paradigma evolutivo» sembra
rispondere a domande fondamentalmente antropologiche e perciò estremamente rilevanti, quali, ad
esempio, come è cominciato il mondo e come va in fondo concepita la realtà cosmica, come si
distingue la materia «morta» da quella «viva», come si differenzia la materia dallo spirito, come si
possono spiegare le funzioni del cervello partendo dalla sua base materiale, che cosa specifica
l’essere umano dall’animale e come va pensata la dignità dell’uomo alla luce dei presupposti
dell’evoluzione.
Tale rilevanza è anche motivata dal fatto che «l’idea di evoluzione è l’idea ontologicamente
fondamentale che la scienza contemporanea propone come chiave di lettura del nostro universo»,115
in quanto offre una abbondanza di modelli di spiegazione, di interpretazione e di azione,
sostituendo modi di pensare analitici e disgregatori con modi di pensare sintetici e globali, correlati
con in modelli auto-organizzativi dell’universo. Ovviamente, questo procedimento richiede, da un
lato, l’abbattimento di alcuni ostacoli mentali, 116 quali la tendenza a differenziare l’ambito
dell’animato da quello dell’inanimato, il biologico dallo psicologico, il materiale dallo spirituale; la
disposizione a considerare che l’uomo esiste prima del linguaggio e che questo gli dà il potere di
comunicare con i propri simili; l’abitudine a concepire il materiale come un nucleo duro, che
assicura alle cose densità e permanenza, e lo spirituale, come qualcosa di energetico, che garantisce
il cambiamento, il movimento e la trasformazione,117 dall’altro, il ripensamento della materia nella
113
«Abbiamo già visto come la conoscenza oggettiva, che la filosofia e la scienza antiche hanno inaugurato, e che
raggiunge i suoi vertici nella scienza moderna, ci abbia ineluttabilmente condotto a quella separazione del soggetto e
dell’oggetto che era già contenuta nei presupposti del suo metodo. Ne è risultato un riconoscimento ed un’analisi dei
determinismi chimico-fisici per quanto riguarda il corpo e la psiche studiati come oggetti, e dei determinismi
dell’inconscio riguardo alla vita psichica dell’oggetto». H. ATLAN, A torto e a ragione. Intercritica tra scienza e mito,
HopefulMonster, Firenze 1989, p. 237.
114
Cfr. C. CALTAGIRONE, Ripensare il mondo. Spazio-tempo, cosmovisioni, conoscenze, Salvatore Sciascia Editore,
Caltanissetta-Roma 2001.
115
L. GALLENI La realtà ontologica dell’evoluzione: dall’universo ordinato alla terra da costruire, in M. MALAGUTI
(ed.), Prismi di verità. La sapienza cristiana di fronte alla sfida della complessità, Città Nuova, Roma 1997, p. 144.
116
Cfr. J. LERMINAUX, Lo sviluppo del sistema nervoso, Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca, Terapia e
Psicoterapia, Caltanissetta 1998, pp. 5-8 (pro manuscripto); C. CALTAGIRONE, Tra novum e aliud. Identità e singolarità
personale dell’uomo nel quadro del paradigma evolutivo, in C. CALTAGIRONE (a cura di), Antropologia e «verità»
dell’uomo, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2000, p. 68.
117
Questi ostacoli sono da ricollegare a una forma di pensiero che Louis Darm e Jean Laoup definiscono pensiero
sostanzialistico. Secondo questi autori, il pensiero sostanzialistico è quello che crede che qualsiasi essere dispone di un
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 27
sua costitutività dinamica in grado di eliminare qualsiasi presupposto dualista, attraverso un
processo di ampliamento capace di includere anche il pensiero umano con tutto il suo potenziale di
creazione e di significazione.118
Pertanto, al di fuori di ogni riduzionismo scientifico, il punto di condensazione dello sviluppo e
articolazione riflessiva sull’umanità dell’uomo, nel quadro di un mutato paradigma, comporta la
necessaria contestualizzazione in una riflessività filosofica capace di delineare una integrazione
comprensiva colta nella sua valenza linguistica universale e universalizzabile,119 senza però cadere
in una semplice ri-trascrizione del dato scientifico nel discorrere filosofico, oppure accontentarsi
della riaffermazione di una pura e semplice esigenza di legittimità e necessità di una lettura
specificamente filosofica, alternativa e in tensione con quelle scientifiche, del reale.120 Per evitare
sostrato, di un nucleo duro cioè, che garantisce densità e permanenza e che sono necessari dei termini costituiti per
stabilire una relazione. Al pensiero sostanzialisitico Darms e Laolup contrappongono un pensiero relazionale,
sostenendo che se esiste densità e permanenza lo si deve alle relazioni-comunicazioni e che prima di tutto è necessario
un «tra-termine» (entreterme); un processo, cioè, che consente i termini. In questo modo il pensiero relazionale non si
limita a rispettare la relazione, ma tenta di circoscrivere l’agente di qualsiasi relaziona che esso definisce: il processo. Il
processo della relazione, pertanto, non è un semplice scambio che va da A a B e da B ad A ma, piuttosto, qualcosa che
dà nuova forma a questa relazione e che l’informa, la trasforma, la colloca ad un altro livello più complesso di quello
iniziale. Cfr. L. DARMS – J. LALOUP, Interstance. Communiquer à controsens, Cabay, Louvain-La-Neuve 1983, p. 14.
Sull’importanza di quest’approccio inteso come transito epistemologico e ontologico per una ri-articolazione unitaria
dell’uomo, Cfr. C. CALTAGIRONE, Ri-unire l’uomo. L’intero dell’umano nella reciprocità co-costitutiva del biologico e
dell’antropologico, in «Ricerche Teologiche», 1 (2008), pp. 9-39; IDEM, L’articolazione di mente corpo e le relazioni
dell’umano. La costitutività del “tra” nell’identificazione dell’umano, in G. CICCHESE – A. PETTOROSSI – S. CRESPI
REGHIZZI – V. SENNI (edd.), Scienze informatiche e biologiche epistemologia e ontologia, Città Nuova, Roma 2011, pp.
209-236; IDEM, La sfida della complessità alla filosofia, in «Nuova Civiltà delle Macchine», 4 (2012), pp. 117-124.
118
Poiché per ciò che è logicamente necessario, qualsiasi concetto fa riferimento non soltanto all’oggetto concepito ma
anche soggetto ideatore, in relazione alle istanze provenienti dalle teorie dell’informazione e dalle scienze della
complessità, è possibile provare a pensare l’uomo senza una cesura tra il vivente e il non vivente, considerando, in
questo caso, la comunicazione come il fondamento dell’origine e del senso dell’uomo e del mondo. Cfr. E. JAFFELIN,
Pour un têorie de l’information générale, ESF, Paris 1993, p. p. 39. In questo modo, si può considerare la natura
formata non da due componenti, una materiale e l’altra spirituale, ma da una sola: il cambiamento stesso o più
precisamente il processo del cambiamento. Ibidem, p. 51.
119
La filosofia non può evitare le questioni che le provengono dall’esperienza scientifica, così come le scienze non
eludono le questioni che possono provenire dalla filosofia. Bisogna riconoscere che vi è reciproca interdipendenza tra
scienza e filosofia, anche se non bisogna perdere di vista «la propria specifica responsabilità ermeneutica, senza
trasformarla in presunzione di autonomia assoluta e in una pretesa all’ultima parola, di cui ancora nei diversi campi ci si
lascia facilmente sedurre». M. RUGGENINI, Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondadori,
Milano 1997, p. 356. «Il ricorso alla scienza non ha bisogno d’essere giustificato: qualsiasi concezione ci si faccia della
filosofia, essa deve spiegare l’esperienza, e la scienza è un settore della nostra esperienza. È impossibile rifiutarla in
anticipo. L’essere si apre un varco attraverso la scienza come attraverso ogni vita individuale. Interrogando la scienza,
la filosofia ci guadagnerà nell’incontrare certe articolazioni dell’essere che gli sarebbe difficile scoprire altrimenti». M.
MERLEAU-PONTY, Résumés de cours. 1952-1960, Les Éditions Gallimard, Paris 1968, pp. 117-118.
120
Questo è il pericolo in cui incorrono tutti coloro che pensano che la necessaria distinzione tra scienza e filosofia sia
un dato di fatto che va ineludibilmente accettato senza la possibilità di mediazioni che consentano non solo un
avvicinamento, ma anche una interazione tra le due forme di razionalità e pongono criteri di demarcazione tra i due
ambiti, trovando incompatibilità di ogni genere tra esperienze scientifiche ed esperienza filosofica. A titolo indicativo,
per quanto riguarda i rapporti tra scienza e filosofia, Cfr. C.G. HEMPEL, La formazione dei concetti e delle teorie nella
scienza empirica, Feltrinelli, Milano 1961; J. AGASSI, La filosofia dell’uomo libero. Verso una storiografia della
scienza, Roma 1963; T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza; K.
POPPER, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970; IDEM, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna
1972; H. ALBERT, Per un razionalismo critico, Il Mulino, Bologna 1973; I. LAKATOS - A. MUSGRAVE (a cura di),
Critica e crescita della conoscenza; E. NAGEL, La struttura della scienza, Feltinelli, Milano 1977; G. GIORELLO,
Filosofia della scienza, Jaca Book, Milano 1992; L. PRETA (a cura di), Immagini e metafore della scienza, Laterza,
Roma-Bari 1993; L. GEYMONAT, Scienza e filosofia nella cultura del Novecento, Pagus, Quinto di Treviso (Tv) 1993;
G.L. BRENA, Forme di verità. Introduzione all’epistemologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; G. BONIOLO – P.
VIDALI, Filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 1999; D. GILLIES – G. GIORELLO, La filosofia della scienza
nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 19993; M.L. DALLA CHIARA – G. TORALDO DI FRANCIA, Introduzione alla filosofia
della scienza, Laterza, Roma-Bari 2000; G. BONIOLO – M.L. DALLA CHIARA – G. GIORELLO – C. SINIGALLIA – S.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 28
questa alternatività tensiva è necessario creare una precisa prospettiva di discorso filosofico che
orienti la comprensione della strutturale costitutività relazionale bio-psico-spirituale dell’essere
umano all’interno della dinamica apertura dell’universo verso una reale comprensione dello
sviluppo del cosmo e del senso di questo sviluppo. Questa prospettiva porterebbe a leggere il
processo del mondo, non come un mero dato di fatto, bensì come condizione di possibilità perché si
produca l’emergere di un’intelligibilità, di cui la razionalità filosofica è «figura» nel processo
esplicativo del reale stesso.
In questo senso, il ruolo della ragione filosofica, attraverso un vaglio critico dei concetti, dei
quadri intellettuali, dei principi fondativi e l’esplicitazione delle condizioni d’intelligibilità delle
teorie scientifiche, si configura nella sua valenza tipicamente ermeneutica e speculativa. Infatti, il
cambiamento delle conoscenze scientifiche e il conseguente mutamento di paradigma, obbligando
la razionalità filosofica a un mutamento della concezione della realtà, implicando la necessità
dell’elaborazione di nuovi concetti, nuovi atteggiamenti, nuovi ideali e nuove possibilità di
esprimibilità, chiedono di rendere intelligibile la realtà come viene sperimentata nelle sue più
diverse manifestazioni, mediante l’uso di criteri universali di intelligibilità per spiegare il reale e
trarne tutte le necessarie inferenze.
Pertanto, poiché le teorie scientifiche contemporanee hanno messo in evidenza che l’universo ha
una costitutiva struttura spazio-temporale che ne determina la dinamicità interna, costituendolo
come un sistema dinamico che diventa sempre più organizzato e che l’autorganizzazione sbocca per
«informazione» in una struttura nuova, producendo, quella che nel linguaggio evolutivo, viene
chiamata emergenza,121 e mostrano che l’emergenza si concreta come possibilità di apertura alla
libertà, alla alterità, alla trascendenza, la riflessività filosofica deve essere in grado di pensare le
possibilità di questa emergenza, anche al di là di quello che è il piano esclusivamente e strettamente
fisico-biologico, come forma della relazionalità dell’insieme cosmico nel quadro di una
relazionalità trascendentale e trascendente, in cui l’esistere contingente guadagna tutta la sua
consistenza esistentiva e ontologica.
Si comprende bene che la riflessività filosofica non può essere retrospettiva, ma prospettiva,
orientata, cioè, verso il superamento della soglia che consente di intravedere il senso del tutto.
Questo procedimento prospettico, ovviamente, segna la differenza che si stabilisce tra determinismo
e indeterminismo, tra necessità e libertà, nella quale viene superato il piano delle leggi assolute e
universali e viene stabilito l’ordine degli incontri, delle relazioni, delle consistenze relazionali che
co-istituiscono il reale in tutta la sua arricchente molteplicità e diversità.122 In questa contestualità,
la ragione filosofica deve muoversi, non più nell’orizzontalità di una estensività neutra, amorfa e
uniforme, ma nella verticalità di una profondità interna alla costitutività dinamica dell’universo, in
cui riconosce che i molteplici fenomeni sono condizioni di possibilità per l’emergenza di una
alterità che si costituisce come movimento di risposta ad una Alterità trascendente la quale, nella
sua relazionalità originaria ed originante, la costituisce relazionalmente in relazione.123
TAGLIAGAMBE, Filosofia della scienza, a cura di C. Sinigallia, Raffaello Cortina, Milano 2002; G. BONIOLO – P.
VIDALI, Introduzione alla filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano 2003; M. BUZZONI, Filosofia della scienza,
La Scuola, Brescia 2008.
121
Cfr. E. MORIN, La natura della natura. Il metodo I, 105-174.
122
«In un primo momento, il pensiero si spaventa di fronte ad un universo talmente differente dal pensiero stesso, un
universo che gli pare strano e mostruoso, ma più ancora titanico per la sua necessità immanente che rende illusorio
l’atto della libertà. Ma quando approfondiamo la nostra conoscenza dell’universo, penetrando nel campo delle
discontinuità fondamentali, l’universo ci presenta un tutt’altro carattere che non contraddice, anzi rende possibile la
libertà». J. GUITTON, Monadologia, in IDEM, Filosofia della risurrezione. Monadologia. Breve trattato di
fenomenologia mistica, Paoline, Roma 1981, pp. 104-105.
123
«Decifrando l’immagine del misterioso universo che viene descritto dalle scienze dei fenomeni, la filosofia della
natura riconosce, nel profondo di ciò che si potrebbe chiamare la tragedia della materia prima, un immenso movimento
di risposta, dapprima istintivo, poi balbettato, poi divenuto parola nell’essere umano, ad un’altra Parola». J. MARITAIN,
Filosofia della natura, in IDEM, Scienza e saggezza, Borla, Torino 1964, p. 112. Per questo filosofo le scoperte della
scienza contemporanea sono una conferma della filosofia tomista della natura che «vede nell’universo dei corpi,
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 29
Ciò comporta che, non potendo essere individuata, esclusivamente, né in qualche struttura già
data rispetto l’autocoscienza all’autodeterminazione, cioè, l’organico, né per via d’identificazione
dell’essere dell’uomo con la pura forma della soggettività cosciente e dell’autodeterminazione
costitutiva, ossia, lo psichico, la «verità» dell’uomo deve essere compresa, mediante il significato
dell’alterità reciproca, alla luce della categoria della relazionalità. Questa, concretizzata
nell’esperienza dell’essere persona dell’uomo, in quanto luogo di incontro tra l’organico e lo
psichico, tra esteriorità e interiorità, tra cervello e mente si offre quale luogo privilegiato di
inclusione e transizione epistemologica ed ontologica in grado di cogliere una concezione più fede
della soggettività e intersoggettività dell’uomo nella sua specificità personale ed in relazione con gli
altri.124
Dinanzi a tali questioni, i sistemi di significato più avvertiti, percependo l’urgenza di una ripresa
del «discorso» (lògos) sull’umano, cercano di riproporre la necessità di un rinnovato «progetto»
antropologico, il quale, motivato e strutturato sull’inviolabile senso dell’uomo e della sua persona,
sia in grado di «dire» l’umano nella sua dignità fondamentale, in un’età nella quale tale senso
sembra proprio dissolversi. Tal ripresa di «discorso» (lògos) implica, di necessità, il misurarsi con
l’orizzonte antropologico contemporaneo, il quale, costituendo il contesto che fa da sfondo alle
questioni relative allo statuto dell’umano, è caratterizzato dalla diffusa convinzione riguardante
l’impossibilità di impiantare una compiuta antropologia nel quadro di una molteplicità di opzioni
antropologiche. 125 Questo perché, dinanzi agli orientamenti delle più diffuse teoriche
decostruzioniste, le quali, sostenendo l’inutilità della domanda antropologica, in ragione del fatto
che l’identità dell’uomo deve essere pensata nella differenza originaria, che implica una catena di
rinvii in possibili frammenti di senso e che si deduce da molteplici interpretazioni indeterminanti,
configurano l’umano come irriducibile molteplicità posta nelle distese della disseminazione del
senso, l’urgenza di modulare un significativo «discorso» (lògos) antropologico rimanda alla
necessità di una strutturazione più generale e più profonda dei metodi e dell’universo problematico
dell’antropologia.
UN’ERMENEUTICA ANTROPOLOGICA PER «RI-PENSARE» L’UOMO
Il senso di un’ermeneutica antropologica
Il confrontarsi con lo sviluppo di teorie, ricerche e prospettive disciplinari, che hanno come
oggetto di studio la realtà umana nella sua molteplice e complessa pluridimensionalità, fa rilevare
che i problemi antropologici classici vengono riconsiderati e ridefiniti dalle scienze contemporanee
all’interno di specifici e definiti campi disciplinari provvisti di metodologie e di oggetti di studio
ben identificabili. In dialogo e interazione con tali saperi, la costruzione di un’antropologia come
«metodica ermeneutica» ha il compito, da una parte, di mettere in relazione tutti gli sviluppi dei
diversi saperi che riguardano l’uomo, facendo continuamente retroagire, in una specie di circolo
ermeneutico, tutte le possibili costruzioni antropologiche, dall’altra, di fornire un’immagine globale
e sintetica dell’uomo cercando di riallacciare i fili di un discorso che aiuti l’essere umano a
recuperare la comprensione di se stesso e a identificare i tratti caratteristici della sua esistenza.126
viventi e non viventi, un’aspirazione e un’ascesa, da un grado ontologico all’altro, verso forme sempre più concentrate
di unità-complessità e di individuabilità, ed insieme di interiorità e comunicabilità, ed in definitiva verso ciò che nel
vasto universo non significa più una “parte” ma un “tutto”, un universo consistente, e aperto sugli altri mediante
l’intelligenza e l’amore: la persona, che è, come dice san Tommaso, ciò che vi è di più perfetto in tutta la natura». Ivi.
124
C. CALTAGIRONE, Tra novum e aliud. Identità e singolarità personale dell’uomo nel quadro del paradigma
evolutivo, in C. CALTAGIRONE (a cura di), Antropologia e «verità» dell’uomo, p. 47.
125
Cfr. C. CALTAGIRONE, Il “discorso” sull’uomo nell’orizzonte antropologico contemporaneo, in «Solidarietà»,
(2008) 56, pp. 5-37.
126
«Se vi è un compito filosofico il cui assolvimento viene richiesto in maniera particolarmente pressante dalla nostra
epoca, è quello di un’antropologia filosofica. Intendo una scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione
essenziale dell’uomo; una scienza fondamentale del suo rapporto con i regni della natura (regno anorganico, regno delle
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 30
Affinché le determinazioni delle dimensioni antropologiche fondamentali possano essere
evidenziate nella loro strutturale radicalità, in ordine alla definizione, configurazione e declinazione
di un rinnovato «progetto» antropologico, bisogna necessariamente rivolgere l’attenzione alla
centralità «metodica» dell’antropologia, la quale, per suo statuto, avendo il compito di comprendere
l’uomo come soggetto personale nella sua globalità, è l’unica forma di sapere che può fornire
coordinate e interpretazioni per ogni «progetto» antropologico.127 Questo perché l’antropologia
«non è un umanesimo, ma semplicemente l’epistemologia veritativa di ogni umanesimo: ossia
l’interpretazione critica, dal punto di vista trascendentale dell’istanza veritativa (l’evidenza
incontrovertibile, logica e la fenomenlogia dell’essere), di ogni atteggiarsi dell’essere uomo di
fronte a se stesso».128 Questo vuol dire che la praticabilità di ogni «progetto» antropologico è
possibile grazie all’elaborazione di un’epistemologia e metodica del «discorso» (lògos)
antropologico capace di cogliere il «lògos» del senso dell’uomo nell’uomo concreto, totalità interale
bio-psico-spirituale, per dirne la «verità» nella dinamicità del suo «farsi» evolutivo verso il
compimento definitivo del suo far accadere l’essere-per-sé, come essere-per-noi.129
Infatti, dato che il senso dell’autocomprensione dell’uomo, negli attuali contesti, diventa sempre
più problematica ed esige una riflessione esplicita, la centralità «metodica» dell’antropologia, nella
sua dimensione di epistemologia veritativa dell’umano in quanto tale, viene a configurarsi come
vero e proprio principio ermeneutico del vissuto umano. Essendo, in questo senso, l’orizzonte
piante, regno degli animali) e con il fondamento di tutte le cose; una scienza della sua origine metafisica essenziale e
del suo inizio fisico, psichico e spirituale del mondo; delle forze e delle potenze che lo muovono e che egli muove; una
scienze delle tendenze e delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto delle
possibilità essenziali (Essentiellen) di questo sviluppo quanto delle sue effettualità. qui contenuto il problema psicofisico anima-corpo e una fondamento ultimo di natura filosofica nonché, insieme, scopi della ricerca sicuri e definiti, a
tutte le scienze che hanno a che fare con l’oggetto “uomo”, alle scienze naturali e mediche, a quelle che si occupano
della preistoria, alle scienze etnologiche, a quelle storiche e a quelle sociali, alla psicologia normale e alla psicologia
evolutiva nonché alla caratteriologia» M. SCHELER, Uomo e storia, in IDEM, Lo spirito del capitalismo e altri saggi,
Guida, Napoli 1988, p. 257.
127
«Non c’è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell’uomo, e non c’è n’è
nessuna che possa essere risolta con certezza se prima non ci rendiamo padroni di quella scienza. Accingendoci, quindi,
a spiegare i principi della natura umana, noi in realtà miriamo a un sistema di tutte le scienze costruito su di una base
quasi del tutto nuovo, e la sola su cui possano possagiore con sicurezza». D. HUME, Trattato sulla natura umana. Un
tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali, Introduzione, in IDEM, Trattato
sulla natura umana, Ricerca sull’intelletto umano, Ricerca sui principi della morale, Mondadori, Milano 2008, p. 33.
«È evidente che tutte la scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e anche quelle che
sembrano più indipendenti, in un modo o nell’altro, vi si riallacciano. Perfino la matematica, la filosofia naturale e la
religione naturale dipendono in certo qual modo dalla scienza dell’uomo, poiché rientrano nella conoscenza degli
uomini, i quali ne giudica con le loro forze e facoltà mentali. È impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi
potremo fare in queste scienze se conoscessimo a fondo la portata e la forza dell’intelletto umano, e se potessimo
spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti. E tali progressi
sono soprattutto da sperarsi nella religione naturale, poiché questa non si contenta d’illuminarci sulla natura delle forze
superiori, ma vuol allargare la nostra vista alle loro disposizioni verso di noi e ai nostri doveri verso di loro; di
conseguenza, noi non siamo soltanto esseri che ragionano, ma anche uno degli oggetti su cui ragioniamo». Ibidem, pp.
32-33.
128
P. SEQUERI, Uomo, I/dal punto di vista filosofico, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, III, Marietti, Casale
Monferrato 1977, p. 521. «Nella parola antropologia, “lògia” e “ánthropôs”, cioè piano del logos ideativo e piano della
realtà pratica dell’uomo, si trovano pertanto in doppia relazione. Da un lato si deve cogliere un vero lògos dell’uomo
attraverso la pienezza delle sue manifestazioni pratico-reali, come esplicitazione di un lògos implicito in tali
manifestazioni (cioè come lògos nell’uomo). D’altra parte, questo lògos in quanto eidos e telos dell’uomo deve venire
elevato da questo piano della realtà pratica, a un contenuto ideale in sé, come lògos al di sopra dell’uomo». E.
PRZYWARA, L’uomo. Antropologia tipologica, a cura di V. Mathieu, Fabbri, Milano 1968, p. 45.
129
«L’uomo non è semplice apertura all’essere; il suo tratto paradossale e abnorme rispetto agli altri viventi è quello di
far accadere l’essere, di operare affinché l’essere accada. L’uomo non è l’essere ma diviene per l’essere; perciò è
responsabile dell’accadimento dell’essere. Qui ha le sue radici il dispiegamento della prassi, che si manifesta come un
deliberare (o un tralasciare di deliberare, un tralasciare spesso subito o imposto) intorno alle forme secondo le quali
l’essere può accadere». F. TOTARO, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di
civiltà, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 46-47.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 31
comune a tutte quelle realtà che, interdipendenti, si pongono il problema o hanno la «pretesa» di
dire la «verità» dell’uomo in pienezza, l’antropologia è esigita dalla necessità delle ineludibili
eplicitazioni riguardanti l’interrogativo sul senso dell’uomo e dalla possibilità di orientare verso
eventuali prospettive risolutive. Nel tramite dell’antropologia, ogni uomo «guarda dentro di sé,
guada indietro al suo passato, osserva il suo ambiente e constata, spaventato e sollevato, che, per
quanto concerne i singoli dati della sua realtà, può in certo qual modo gettare se stesso lontano da sé
e scaricare quel che egli è su ciò che non è. Si accorge di essere uno che è divenuto attraverso
qualcosa di diverso da sé».130
Poiché l’esigenza di intelligibilità è richiesta strutturalmente, da parte di ciascun uomo, il quale
in ogni particolare esistenza data e concreta, è sempre in tensione verso il definitivo compimento,
per cui coinvolge le questioni legate al significato, consistenza e valore dell’esistenza quotidiana
comune, la necessità e l’importanza della «centralità» metodica dell’antropologia concorre a svelare
le profondità dell’umano, esplorando e comunicando il loro senso e valore. Per cogliere il
significato di questa «centralità» metodica, in ordine alla definizione di un’antropologia
fondamentale, è opportuno l’attraversamento delle coordinate fondamentali del discorso (lògos)
antropologico per rendere ulteriormente motivato il senso di un itinerario riflessivo che assume una
«funzione critica» nei confronti di ogni ipotesi di «progetto» antropologico. Ciò in ragione del fatto
che l’antropologia, nella sua «centralità» metodica, si pone come punto di oscillazione e crinale di
mediazione per la comprensione dell’«humanum» e del «mysterium» che l’«humanum» è. Nella
misura in cui evita il rischio degli universi ideologici e utilitari, dei vari «progetti» veritativi
«assoluti», l’antropologia libera la strada che conduce alle forme del pensare l’essere e l’agire
umano, senza pregiudiziale alcuna. In quanto tale, essa è possibilità concreta e reale per preservare
la conoscenza dell’uomo e l’impegno del suo agire ed operare dalle cadute ideologiche, le quali,
nonostante la fine delle ideologie caratterizzate, continuano a permanere, e per promuovere cultura
fondata su una comprensione dell’uomo autentica, capace di esprimere e realizzare l’intero volume
dell’umano.
L’antropologia come «metodica» ermeneutica dell’umano
Le diverse istanze emergenti dalle questioni scientifiche richiedono una riflessione antropologica
tale da configurarsi come riorganizzazione epistemica del «discorso» (lògos) sull’uomo, nella
convinzione che il problema di senso del «discorso» (lògos) antropologico investe la questione
centrale del significato dell’esistere dell’uomo e della sua storia. Data la diversità delle risposte al
problema uomo, l’antropologia costituisce il principio ermeneutico di ogni possibile visione della
realtà umana. Essa è il «luogo» in cui si dispiega la comprensione del fenomeno esistenziale
dell’essere dell’uomo. Non si presenta come una visione generale dell’uomo, ma si configura come
una «decifrazione» dell’apertura all’essere e come «luogo» di specificazione del fondamento ultimo
e definitivo dell’umano.131 Ogni «forma» di «discorso» (lògos) sull’uomo che non tiene conto di
questa antropologia fondamentale rischia di essere una «visione» sorta in una determinata
contestualità storico-culturale, una generica concezione dell’umano che nulla ha da «dire» sulla
«verità» dell’uomo. Questo implica che la riflessione e gli sforzi di ogni «discorso» (lògos)
antropologico devono polarizzarsi attorno al «pianeta uomo», inteso nella sua interalità, e in
connesione con la sua «verità» non solo da ricercare e da trovare, ma anche da esplicitare.
Mediante l’antropologia è possibile porre la domanda radicale che investe l’uomo come soggetto
e come totalità. La radicalità di tale domanda, infinita nelle sue prospettive e molteplice nelle sue
130
K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Roma 1977, pp. 22-23.
Per Pareyson il valore dell’interpretare, essendo un atto di libertà e responsabilità, è dato dal fatto che
l’interpretazione costituisce una modalità essenziale di relazione con la verità stessa. Una relazione che fa della filosofia
un pensiero rivelativo, irriducibile al pensiero puramente espressivo, che è entrato nella realtà del soggetto e non
sull’alterità vivente che la verità stessa è per l’uomo, in quanto ne svela la sua più originaria costitutività antropologica.
Cfr. L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 19822.
131
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 32
espressioni, ravviva continuamente la ricerca e consente di fare sempre luce sul grande mistero che
l’uomo è.
L’uomo è realmente «oggetto» della riflessione antropologica nel momento stesso in cui si
confronta con il mistero che gli sta davanti, il mistero del suo essere. Da questo punto di vista,
l’antropologia verifica tutte le differenti prospettiche e «forme» di «discorso» (lògos) antropologico
che riguardano la realtà dell’uomo in quanto tale. Questo perché l’uomo «che cerca di rispondere
agli interrogativi che riguardano la sua persona, partendo dagli oggetti e dai rapporti con il mondo
in cui vive e nel quale cerca di trovare un proprio orientamento, si sente rimandato al di là di tutti
gli oggetti e rapporti determinati e finiti. Pertanto, poiché si rende conto di questa realtà, in quanto
interrogante originario e interrogato originante, l’uomo, avvertendo che il problema del suo senso,
della sua identità, nella sua stessa persona costituisce un unico e medesimo problema, insieme a
quello che riguarda il fondamento che sorregge la sua vita e trascende la realtà del mondo,
comprende che la questione fondamentale che investe la genitura della sua esistenza e il senso di
essa è strettamente legata alla questione della realtà della “verità” del suo essere uomo. Questa
“verità”, tocca il significato della sua vita, della sua identità, il senso della sua libertà, della sua
condizione corporea di esistenza, il significato della sua socialità e l'orizzonte della sua
speranza».132 L’esistenza di diverse «forme» antropologiche, le quali pretendono ciascuna di essere
la «verità» dell’uomo, testimonia la necessità di tratteggiare alcune linee portanti al fine di
individuare un «punto» d’incontro antropologico a partire dal quale è possibile avviare un
«discorso» (lògos) interale sull’umano. La questione che emerge, in questo contesto, riguarda la
determinazione di una antropologia come «metodica» ermeneutica capace di costituire l’orizzonte
veritativo dell’uomo nell’ambito del conoscere che come tale non si confonde esclusivamente con
quello del conoscere in generale.
Tuttavia, dinanzi alle determinazioni messe in evidenza dall’attuale questione antropologica, i
problemi riguardanti l’antropologia come «metodica» ermeneutica non riguardano tanto quella di
proporre e giustificare altre eventuali «forme» di riflessività antropologica, quanto invece «il
discorso previo. Analizzare, cioè, e stabilire se c'è una considerazione ricorrente ad ispirare le
diverse impostazioni, la quale costituisca il criterio di fondo sul quale si edificano immancabilmente
le antropologie. […]. Questa impostazione metodologica (spingere l’indagine fin dove le
interpretazioni diverse della medesima problematica originano tutte le concezioni antropologiche) è
anche contenutistica. Essa infatti impegna a ricercare che cosa nell’uomo fa questione e mette
dinanzi ad una alternativa, la quale obbliga anche inconsapevolmente, ma di fatto, ad una presa di
posizione netta nel definire chi è l'uomo. Ogni antropologia, […], affronta sempre una identica
questione, ben precisa ed esclusiva, per cui non si può mai dire nulla dell'uomo senza doverne
trattare».133 Questo, ovviamente, orienta verso una trattazione dell’uomo che tenga conto di tutte le
dinamiche strutturali che articolano il «discorso» (lògos) antropologico ad ampio raggio e
caratterizzato dalla capacità di cogliere la totalità ontologica dell’essere umano nella
condizionatezza di un compiuto riflettere su se stesso.
La centralità «metodica» dell’ermeneutica antropologica, oltre a determinare una chiarificazione
concettuale e il superamento della frammentarietà della disposizione tematica e delle prospettiche
esplicative ad essa connessa, consente di riscoprire attenzioni e persuasioni raggiunte, influenzate e
segnate dall’orizzonte culturale entro le quali esse hanno preso corpo e si sono esplicitate, permette
di promuovere una valutazione di ciò che è stato il «discorso» (lògos) sull’uomo e autorizza ad
operare un suo ri-centramento, definendo nuovi tracciati riflessivi e comprensivi, dotati di una certa
praticabilità significativa, e orientata a cogliere i fondamenti di un «dire» l’umano nella sua
interalità e compiutezza.
132
C. CALTAGIRONE, Antropologia e «verità» dell’uomo. Annotazioni introduttive, in C. CALTAGIRONE (a cura di),
Antropologia e verità dell’uomo, p. 9.
133
C. PERI, L’alterità questione fondamentale dell’antropologia, in «Ho Theológos», (1984) 3, p. 455.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 33
Quando, però, nell’attuale contesto si utilizza il termine «ermeneutica», pur costituendo uno
degli elementi di maggiore pervasività riflessiva ed essendo presente trasversalmente nei vari
processi di definizione degli statuti epistemologici, metodici e critici dei differenti ambiti
disciplinari, che caratterizzano la complessità e poliedricità dei saperi contemporanei, il rischio è
quello di essere guardati con sospetto a causa della sue presupposte «pretese» di rimando continuo a
interpretazioni infinite, oppure al suo configurarsi come «koiné» all’interno della quale posizioni tra
loro diverse convivono più o meno pacificamente.134
Dopo aver designato a lungo, nella storia della cultura occidentale, una disciplina della tecnica
filologica, preposta alla contestualizzazione e letture dei testi religiosi, giuridici e letterari,
l’ermeneutica si configura, nell’odierna effettualità storico-culturale, come l’atteggiamento
filosofico sul mondo che fa dell’interpretazione il carattere costitutivo dell’uomo e della filosofia il
compito di questo interpretare, perché definisce l’esperienza umana del mondo.135 Infatti, «l’antico,
134
«Il generico riconoscimento dell’interpretare come momento essenziale del conoscere – e anzi dell’esperienza
umana in quanto tale – si è affermato come una delle acquisizioni tipiche dell’odierno contesto filosofico e culturale.
Nell’ambito di tale diffusa acquisizione vengono peraltro fatte confluire ricerche compiute in direzioni anche molto
diverse (se non opposte) rispetto a quelle che hanno alimentato originariamente il grande filone ermeneutico dello
storicismo tedesco e poi dell’esistenzialismo ontologico. Gli sviluppi della filosofia anglosassone dell’analisi
linguistica, le nuove aperture della fenomenologia, della psicanalisi, della sociologia del conoscere e della critica
dell’ideologia, fino ai recenti sviluppi dell’antropologia culturale, dell’epistemologia della scienza, della logica, della
semiologia e della semantica, sono altrettanti luoghi di riflessione e di discussione intorno al plesso epistemologico di
conoscere-comprendere-interpretare». P. SEQUERI, Ermeneutica e filosofia, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, 2,
Marietti, Casale Monferrato 1977, p. 60. Sulla storia dell’ermeneutica e i suoi maggiori rappresentanti, tra la sterminata
produzione bibliografica, Cfr. H.G. GADAMER, Ermeneutica, in Enciclopedia del Novecento, II, Istituto
dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1977, pp. 731-740; J. BLEICHER, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino, Bologna
1986; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; G. GUSDORF, Storia dell’ermeneutica, Laterza,
Roma-Bari 1989; J. GRONDIN, L’univeralité de l’hermenéutique, PUF, Paris 1993; IDEM, L’horizon hermenéutique de
la pensée contemporaine, Vrin, Paris 1993; G. RIPANTI, Parola e ascolto, Morcelliana, Brescia 1993; F. Rodi,
Conoscenza del conosciuto: sull’ermeneutica del XIX e del XX secolo, Franco Angeli, Milano 1996; G. MURA,
Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma 19972; G.L. BRUNS,
Ermeneutica antica e moderna, La Nuova Italia, Firenze 1998; F. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, Laterza,
Roma-Bari 19992; M. JUNG, L’ermeneutica, Il Mulino, Bologna 2002; G. MURA, Ermeneutica, in G. TANZELLA-NITTI –
A. STRUMIA (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, 1, pp. 504-523; J. GRONDIN, L’ermeneutica,
Queriniana, Brescia 2012.
135
Cfr. H.G. GADAMER, L’universalità come problema ermeneutico, in Idem, Verità e metodo 2. Integrazioni,
Bompiani, Milano 1995, p. 222. «Dispiegata in una vicenda millenaria, come si sa, l’ermeneutica si è venuta
realizzando secondo ritmi e percorsi singolari, quasi disvelamento delle sue proprie, originarie virtualità. Si potrebbe
certo sostenere che la storia dell’ermeneutica coincida sostanzialmente con la storia della stessa comprensione umana.
Nel suo significato più ristretto di dottrina dell’interpretazione si può tuttavia affermare che nel mondo classico e poi
cristiano, nel medioevo e sino all’età moderna, essa si è venuta costituendo come ricerca delle grandi regole dell’interpretazione nel campo religioso, giuridico, letterario. Non che sia del tutto chiara questa storia nei suoi diversi passaggi,
quando e come si debba parlare di continuità o di fratture, di evoluzione o di invenzioni. In ogni caso, partendo con
Schleiermacher e quindi con Dilthey, l’ermeneutica è diventata teoria del sapere storico e così paradigma delle “scienze
dello spirito” (Geisteswissenschaften) in contrapposizione alle “scienze della natura” (Naturwissenschaften). Sullo
slancio del programma della fenomenologia di Husserl di “andare alla cose stesse”, con Heidegger l’ermeneutica ne ha
scavalcato la preoccupazione per l’epoché, l’ossessione cioè di mettere fra parentesi, in quanto sarebbe indecidibile,
l’esistenza reale del mondo materiale e del mondo che trascende la vita della coscienza. Con un balzo audace
l’ermeneutica si è così stabilita, sempre con Heidegger, fin dentro la definizione dell’esserci (Da-Sein) dell’uomo colto
come un progettarsi a partire dalla propria possibilità. Con Gadamer l’ermeneutica ha perseguito l’ambizione, per altro
già accennata in Schleiermacher, di coestendersi tout court alla filosofia in quanto diventa “teoria di quella reale
esperienza che è il pensiero”. Riportandola invece a “teoria generale dell’interpretazione”, Betti ha richiamato
l’ermeneutica a non dispiegarsi semplicemente a partire dalla soggettività dell’interprete, bensì a far conto pure
dell’altrettanto originaria alterità oggettiva. Ricoeur l’ha raffinata, da una parte moderandone le pretese, dall’altra
estendendone il campo di applicazione. Muovendo dallo stesso suolo da cui Schleiermacher aveva iniziato il proprio
cammino e cioè, in concreto, dall’esegesi biblica, Bultmann si è giovato a proprio modo del magistero del primo
Heidegger. In seguito Fuchs ed Ebeling, per un verso ispirandosi al secondo Heidegger e per un altro verso in sintonia
con Gadamer, ma fondamentalmente radicandosi nel pensiero di Lutero, hanno configurato a loro volta l’ermeneutica
come l’identità stessa della teologia». A. MILANO, Teologia cristiana e ragione ermeneutica, in IDEM, Quale verità. Per
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 34
semplice orientamento metodologico dell’ermeneutica si è dovuto dischiudere a orizzonti sempre
più ambiziosi e impegnativi allorquando l’analisi fenomenologica ha spinto Heidegger a scoprire
che il comprendere non può ridursi a una qualunque attività che, nel caso, si lasci disciplinare ed
educare dall’uso di tecniche scientifiche, ma costituisce, per così dire, la mobilità di fondo
dell’esistenza umana. Come spiega a questo proposito Gadamer, “il comprendere non è uno dei
possibili atteggiamenti del soggetto, ma il modo d’essere dell’esistenza stessa come tale”. Nel
comprendere ne va dell’essere stesso dell’uomo».136
Questo vuol dire che l’ermeneutica non è solo un metodo d’indagine bensì è l’indicazione del
movimento fondamentale dell’esistenza umana che, costituendosi nella sua finitezza e storicità,
chiede di essere interpretata e si offre come interpretante essa stessa. L’ermeneutica, cioè, indicando
nell’articolarsi del discorso interpretativo il modello formale e materiale della stessa ragione
filosofica, da tecnica del comprendere diventa statuto logico-ontologico della condizione umana. In
quanto tale, collocandosi ed essendo contemporaneamente investita nella e dalla questione del senso
dell’esistenza umana e del mondo, l’ermeneutica è un domandare che è sempre un ri-domandare, riformulare una domanda che, in ultima analisi, riguarda il senso del mistero dell’uomo e del suo
essere. In questo modo, la questione del senso diventa un problema d’interpretazione, diventa la
questione ermeneutica per eccellenza, al di fuori della quale non vi è alcuna comprensione
dell’uomo, del mondo e delle loro mutue relazioni. Da questo punto di vista, l’ermeneutica è «il
modo fondamentale di rivolgersi alla realtà, che implica, ed è una forma di interpretazione del reale,
della propria relazione, in particolare conoscitiva, con esso e dalla quale discende una molteplicità
di interpretazioni e interazioni con il reale e un fondamentale tono e modalità di strutturarsi del
sapere».137
In quanto modalità conoscitiva, interpretativa e comprensiva del reale, nella sua complessità,
implicando la dimensione della condizionatezza, intesa come storicità e linguisticità, che
caratterizza il fatto umano del conoscere, dell’interpretare e del comprendere, aprendo, in un
incessante dinamismo di circolarità virtuosa, la relazione tra soggetto e oggetto, tra il tutto e le parti,
l’ermeneutica si pone come momento transitivo ed inclusivo di individuazione, elaborazione
interpretazione di differenti sistemi di significati e di «forme» del discorrere antropologico in grado
di superare sia i riduzionismi di carattere oggettivistico, sia i relativismi di natura soggettivistica.138
una critica della ragione teologica, EDB, Bologna 1999, pp. 71-72.
136
A. MILANO, Teologia cristiana e ragione ermeneutica, in Idem, Quale verità. Per una critica della ragione
teologica, p. 75. Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo, Bompiani, 1972, p. 8.
137
M.C. BARTOLOMEI, Filosofia “versus” teologia. Ermeneutiche in dialettica ?, in «Studia Patavina», (1998) 3, p.
231.
138
«Della ermeneutica filosofica va sottolineata con forza ancora una delle sue acquisizioni più feconde: quella secondo
cui, attivandosi un continuo trapassare dalla precomprensione alla comprensione, si rende produttivo il comprendere
nell’incessante dinamismo di una circolarità virtuosa. Non si tratta di riconoscere semplicemente, come aveva già fatto
per esempio quel gran genio speculativo di Tommaso d’Aquino, la circolarità dell’autocoscienza nella sua reflexio
completa oppure la circolarità che si sviluppa tra l’apprehensio e l’appetitus e quindi tra l’intellectus e la voluntas.
Dall’ermeneutica viene disintegrata la chimera del procedimento lineare della conoscenza in generale. La circolarità
viene scoperta come struttura prima e ultima del comprendere stesso in tutte le sue dimensioni: non solo tra la
precomprensione e la comprensione, ma pure tra il soggetto e l’oggetto e anche fin dentro l’oggetto da comprendere, tra
il tutto cioè e le sue parti. Si ha a che fare, in ogni caso, con una circolarità giammai finita, ma sempre in divenire: non
però con la ripetizione dell’identico, come denuncia Lévinas, bensì con una processualità temporalmente dispiegantesi,
aperta all’altro da sé così come a un eventuale progredire. Naturalmente, in agguato c’è sempre il fraintendimento,
l’errore, con il quale bisogna preoccuparsi sempre di fare seriamente i conti. Non a caso lo stesso Schleiermacher
introduceva appunto la sua Ermeneutica generale del 1809-1810 dichiarando: “L’ermeneutica si basa sul fatto della non
comprensione del discorso”. L’avanzamento lineare, il progresso è comunque possibile grazie appunto al dinamismo
della circolarità, che ne permette e ne sospinge le conquiste. Con una vigorosa pars destruens l’ermeneutica sgombra il
campo da vecchi miti e tenaci tabù. Fra l’altro, la pretesa di una pura oggettività viene smascherata dall’ermeneutica
come un prevaricante ideale di conoscenza caratteristico della modernità di tipo cartesiano. In base a questo ideale,
compito del soggetto volto a realizzare l’autentica scienza sarebbe quello di seguire delle regulae ad directionem
ingenii, mettendosi alla ricerca sistematica di elementi oggettivi tanto semplici e fondamentali che non potrebbero
essere ulteriormente scomposti. Una volta raggiunti, tali elementi andrebbero utilizzati come punti di partenza
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 35
La necessità di una tale configurazione dell’ermeneutica, che è differente dalla originaria
caratterizzazione di semplice metodologia di lettura dei testi, è testimoniata dal fatto che la
frantumazione del senso e dell’orizzonte di significato globale dell’uomo, del mondo e della storia,
richiede lo sviluppo di modi nuovi di pensare il senso e la verità dell’uomo e la sua esperienza del
mondo che si è fatta maggiormente problematica e complessa. Poiché, nell’odierna effettualità
storico-culturale, molte volte, le affermazioni, i modelli di pensiero, le cifre interpretative sono
spesso poste e subito ritirate, asserite e in breve tempo smentite e negate, per cui si assiste a una
continua modificazione del pensare, degli atteggiamenti e dei comportamenti che difficilmente
lasciano segni di verificabilità nel concreto, l’attenzione all’ermeneutica, intesa come «filosofia»
generale idonea a interpretare e comprendere la totalità del reale, si concentra come questione che
riguarda la possibilità di sapere se l’uomo può ancora continuare a scoprire, cogliere e dire la
«verità» su se stesso con quali modalità, a quali condizioni e secondo quali prospettive. Una
«verità» in grado di ricollocare adeguatamente il senso dell’autocomprendersi dell’uomo nei
confronti di se stessa, degli altri, del mondo e dell’Oltre e di riesprimere, in maniera rinnovata, il
senso delle sue relazioni con essi.139
L’ermeneutica, configurandosi come principio d’intelligibilità, in grado di individuare la
«verità» dell’uomo, ha una caratterizzazione fondamentalmente antropologica, perché determina il
fondamento di ogni possibile «dialogia» umana e assume il ruolo di un vero e proprio principio di
interpretazione e di intelligibilità della realtà. Infatti, poiché la ricerca della «verità» dell’uomo
incontestabili per una deduzione rigorosa. È questa, per esempio, la lezione del cartesiano Discours de la méthode o
della spinoziana Ethica more geometrico demonstrata. La pretesa della pura oggettività non è però se non la
contropartita della pretesa della pura soggettività. Mentre sviluppa la consapevolezza della struttura primordiale della
comprensione nella precomprensione, l’ermeneutica non solo ribadisce la denuncia dell’ingenua fallacia empiristica
della tabula rasa, ma anche e più ancora smentisce la pura soggettività del cogito come un’impossibile innocenza,
un’arroganza tanto invincibile quanto vana. Il cogito autotrasparente e autofondato è come un posto solo in apparenza
vuoto, ma in realtà sempre riempito da ospiti senza dubbio ingombranti, che alla fine sono stati smascherati. Come
hanno insinuato, ciascuno a proprio modo, i fin troppo celebrati “maestri del sospetto” Marx, Nietzsche e Freud, la
coscienza che si pretende del tutto pura è proprio quella più inquinata dall’autoinganno (della ideologia, della volontà di
potenza, dell’inconscio) ed è perciò una falsa coscienza. Corrispettivo della pura soggettività, l’ideale della pura
oggettività, qualora fosse ritenuto fondato e diventasse dunque normativo, costringerebbe qualsiasi forma di sapere a
configurarsi sul modello delle scienze ritenute oggettive per eccellenza, quelle matematiche o quelle della natura, certo
con qualche vantaggio, ma pure con un altissimo costo: l’impoverimento e pertanto il travisamento della multiforme
complessità e ricchezza dell’umano conoscere, comprendere e interpretare. Tutto, infatti, dovrebbe essere reso oggetto,
cioè cosa disponibile e alla fine manipolabile. In realtà, oltre all’ermeneutica, pure la cosiddetta nuova retorica si batte,
e in modo vittorioso, contro il riduzionismo della tradizione cartesiana nonché contro la tracotanza della pretesa della
pura oggettività. Per quanto straordinariamente valido e produttivo, il campo della dimostrazione logico-matematica non
esaurisce però e tanto meno vanifica l’importanza dell’immenso, variegato, ma non per questo poco prezioso e fecondo
campo dell’argomentazione così come viene praticata nelle scienze umane, inclusa la filosofia. Incapace di render
conto, per esempio, dell’esperienza estetica, per non dire dell’esperienza religiosa così come dei saperi umanistici in
generale, l’imperialismo dettato dal mito della pura oggettività presumerebbe di unificare l’epistemologia, regolandola,
alla resa dei conti, sulla figura del servo e del padrone: una dialettica, come si può ben sospettare dalla hegeliana
Fenomenologia dello spirito, che in realtà si rovescia nel suo contrario, spingendo alla ribellione l’antico schiavo allo
scopo di trasformarsi, a sua volta, in nuovo tiranno. Scartata però la dialettica oppositoria di marca hegeliana, che
finirebbe per dare carta bianca a una violenza reciproca tra soggetto e oggetto, non è fatale che si debba soccombere a
una drastica alternativa tra il narcisismo del soggetto e l’idolatria dell’oggetto. Entrando nella circolarità virtuosa
dischiusa dall’ermeneutica, soggetto e oggetto riescono a sottrarsi sia alla fascinazione di un’autistica solitudine sia alla
lusinga della reciproca sopraffazione. In altri termini, l’ermeneutica contesta l’ineluttabilità della logica del conflitto e
del dominio. […]. La ragione ermeneutica abolisce la pregiudiziale diffidenza o, peggio, il disprezzo nei confronti di
ciò che fu, mentre garantisce la possibilità dell’incontro o, meglio, della fusione tra l’orizzonte dell’evento accaduto e
della parola una volta pronunciata con l’orizzonte dell’interprete e della sua comprensione attuale. Non è dunque
impossibile ridare vita alle ombre esangui del passato. Il dialogo tra il tunc e il nunc è mediato, aggiunge Gadamer, da
una tradizione che annoda i fili tra differenze che restano sì irriducibili, ma proprio per questo potrebbero permettere
all’estraneo di diventare familiare, al diverso di arricchire l’altro da sé». A. MILANO, Teologia cristiana e ragione
ermeneutica, in IDEM, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, pp. 76-78.
139
Cfr. C. CALTAGIRONE, La misura dell’uomo. La questione veritativa in antropologia, Lussografica, Caltanissetta
2009.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 36
comporta un continuo interrogarsi dell’uomo su se stesso, l’ermeneutica al di là dello strutturarsi dei
vari sistemi di pensiero e dei differenti paradigmi che hanno caratterizzato lo sviluppo della cultura
occidentale, si offre quale luogo metodico privilegiato per ri-pensare l’umanità dell’uomo.
La caratterizzazione dell’antropologia come «metodica» ermeneutica comporta, allora, che il
compito interpretativo e interpretante implica un «discorso» (lògos) sull’uomo «aperto» il quale, al
di là del ristretto ambito del tempo e dello spazio, della condizionatezza della finitudine storica e dei
confini disciplinari, ha il compito primario di guardare dentro la realtà delle cose per stabilire
relazioni significative tra le diverse articolazioni del senso dell’umano, il quale, data la sua
strutturale complessità, è accessibile attraverso molteplici e differenti punti prospettici, a
testimonianza della ineliminabile tensione tra l’illimitato desiderio umano di conoscere e il limitato
orizzonte della sua condizionatezza determinata.140 Tale compito conduce oltre le contraddizioni,
aporie e condizionamenti storico-culturali, e consente di rideterminare il «discorso» (lògos)
antropologico, il quale, radicato nella fedeltà all’esperienza umana che è interpretata e interpretante,
crea le condizioni per restituire al soggetto umano la propria umanità e umanizzazione. Questo
significa che l’ermeneutica, nella sua connotazione antropologica, e l’antropologia, nella sua
configurazione ermeneutica, conducono a concentrare la riflessione sull’uomo sulla concretezza del
suo essere, dei suoi vissuti e delle sue quotidiane vicissutidini, attraverso la riproposizione della
domanda radicale che lo investe nella sua soggettualità, nel suo confrontarsi con il mistero che gli
sta davanti, con il mistero del suo essere.141 Sotto questo profilo, l’ermeneutica antropologica e
140
«Occorre dare spazio pertanto a una disposizione non soltanto del conoscere, ma anche del sentire e del volere, per
prospettive e tra prospettive. In questo modo si fa valere un paradigma epistemologico che possiamo chiamare
prospettivismo veritativo, per evidenziare che le prospettive si rappresentano in relazione a una verità che le orienta e le
porta a riconoscersi l’un l’altra nel conferimento reciproco di un’analoga dignità di ricerca. Questo paradigma veritativo
può essere alla base di ogni riconoscimento della positività di contenuti specifici tra interlocutori differenti, il quale non
si riduca a semplice concessione pragmatica. L’apertura alle posizioni altrui non è infatti dettata da motivi di
convenienza o di ‘diplomazia’ comportamentale, si radica bensì nella insufficienza che ciascuna posizione avverte
rispetto all’orizzonte della manifestazione piena dell’essere». F. TOTARO, Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere
per noi, Prefazione di V. Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano 2013, pp. 165-166.
141
«Che cos’è l’uomo? Questa è una domanda come ce ne sono innumerevoli altre, che ci si impongono tanto nella vita
di ogni giorno, quanto nella ricerca scientifica. Noi ci interroghiamo sul mondo e sulle cose, sulla materia e stilla vita,
sulla loro natura e le loro leggi. Che cos’è tutto ciò e qual è il suo senso? Ed infine: che cos’è l’uomo? Questa è una
domanda come tante altre e tuttavia di tipo del tutto particolare, poiché riguarda l’uomo stesso che domanda: essa pone
in questione proprio lui. L’uomo si interroga sulla propria realtà. Non può fare a meno di porre questa domanda, poiché
egli è un problema a sé stesso. Ma diventa tanto più problematico, quanto più lo spirito e gli avvenimenti del tempo lo
pongono in questione, lo minacciano con la confusione ed il dissolvimento di tutti gli ordinamenti umani, lo pongono
davanti all’enigma, perfino davanti all’apparente mancanza di senso della sua esistenza. Così si solleva con serietà rinnovata e con nuova urgenza la questione circa la natura dell’uomo, il suo posto nel mondo ed il senso della sua
esistenza. Ma se poniamo questa domanda, essa — poiché riguarda noi stessi — ci dà già una prima risposta: l’uomo è
colui che domanda: è colui che può e deve domandare. Solo l’uomo può domandare. Non lo possono fare le pietre, né le
piante e neppure gli animali. Queste realtà sprofondano nell’ottusa aproblematicità della loro esistenza. Anche gli
animali, sebbene percepiscano il loro mondo circostante o ambiente, non possono domandare. Rimangono di volta in
volta legati al darsi successivo del fenomeno, senza poterlo trascendere e senza poter fare domande sui retroscena
nascosti. Ciò che ad essi si mostra, resta senza problema. Gli animali si trovano al di sotto della possibilità di porre
domande. Solo l’uomo è posto nella possibilità e nella necessità di domandare: è la singolare caratteristica della sua
natura. Ma che tipo di realtà è questa, che è distaccata da tutte le altre in forza di un poter-domandare e di un doverdomandare? Che tipo di essere è questo, che nel suo domandare diventa problema a sé stesso e deve chiedere a
proposito della propria realtà: che cos’è l’uomo? Solo l’uomo può porre domande circa la propria natura. Vale davvero
nel suo caso: nessun’altra cosa, nessun altro essere vivente può fare altrettanto. Queste realtà si trovano ad essere in
modo inconscio e perciò non problematico. Esse non possono interrogarsi sulla propria natura. Solo l’uomo è colui che
domanda, colui che interroga tutto e persino sé stesso circa la sua propria natura: con ciò egli trascende l’immediatezza
del dato, volgendosi verso il fondamento di questo. Ma ogni domanda ha le condizioni della sua possibilità. Io posso
domandare solo se non so ancora ciò che chiedo; altrimenti il domandare è superato dal sapere e non è più possibile.
Tuttavia posso domandare solo se so già ciò che chiedo; altrimenti la domanda non ha ancora nessuna direzione e
nessuna mèta, essa non è ancora possibile come domanda. Essa presuppone un sapere preliminare circa ciò che si
chiede. Questo pre-sapere è ancora vuoto, indeterminato. È un sapere in cui “so di non sapere», come già diceva
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 37
l’antropologia ermeneutica, nella loro mutua e reciproca circolarità, unificano tutte le differenze
prospettiche che riguardano la realtà dell’uomo in quanto tale, perché si offrono quale orizzonte
epistemico per la comprensione della realtà dell’uomo, mediante l’interpretazione critica della
domanda radicale di senso dell’uomo dinanzi al mistero del suo essere e alla complessità del mondo
in cui vive,142 coniugando «lo sguardo aperto sull’orizzonte dell’Intero dell’essere dal frammento
dell’essere, perché, se non possiamo dimenticare in nessun modo il riferimento all’Intero, solo con
il frammento dell’essere abbiamo dimestichezza d’esperienza e di esso ci è destinata la cura».143
Socrate, cioè un sapere che non so tutto e che non so nulla in modo perfetto, pertanto un sapere i limiti del sapere, un
dotto non-sapere: una docta ignorantia, come è chiamata da Agostino e da Niccolò Cusano. Ma sapere i confini del
sapere significa già protendersi oltre i limiti dell’immediatamente dato e del precedentemente saputo, procedendo
nell’anticipazione verso qualcosa di ulteriore, che ancora non so, ma che voglio sapere e perciò rendo oggetto di
domanda, su cui cerco informazione. È possibile domandare solo all’interno di un orizzonte già precedentemente
dischiuso, che trascende il sapere particolare fin qui avuto e suscita il movimento della domanda. L’uomo pone
domande circa la propria natura. Ciò è possibile solo perché egli già da sempre si sa, poiché è caratterizzato
dall’autocoscienza e dall’autocomprensione. Proprio per questo egli si innalza sopra i ciechi vincolamenti alla natura, a
cui è assoggettato l’ente infraumano. Solo perché l’uomo sa sé stesso e comprende — in modo autotrasparente — sé
stesso, può porre la domanda su di sé. Certo egli è un essere che non rende la domanda superflua, bensì possibile. Solo
perché l’uomo non comprende pienamente sé stesso, rimanendo enigmatico e pieno di mistero a sé stesso, solo perché il
suo sapersi è al tempo stesso un non-sapere e la sua autocomprensione una non-comprensione — un dotto non-sapere:
docta ignorantia —, egli può e deve domandare circa la sua vera e propria natura. Così l’uomo si trova posto in una
strana ambiguità. Egli si sa come essere spiritualmente padrone di sé, capace di autocomprendersi. Ma è anche legato
all’oscurità dell’essere materiale e dell’accadere, che gli impediscono una piena comprensione di sé. Questa dualità
determina la natura dell’uomo: da essa sgorgano la possibilità e la necessità del suo domandare. Così questa domanda
dà già a sé stessa la prima risposta, la quale è certo solo provvisoria ed ancora bisognosa di sviluppo, ma indica la
direzione al nostro ulteriore domandare e ricercare l’essenza dell’uomo. Ciò che l’uomo già da sempre sa di sé stesso in
modo originario ed immediato, ma non ancora in modo espressamente riflesso, deve essere portato alla luce e reso
esplicito. Quella originaria autocomprensione che in modo costante rende attualmente possibile, accompagna,
condiziona e permea di sé ogni nostro atto di conoscenza esplicito ed oggettivo, ogni nostro parlare ed agire, deve
essere tematicamente scoperta, rischiarata ed esposta in una riflessione che si volge indietro a considerare ciò che noi
stessi siamo e come costantemente ci sperimentiamo e ci comprendiamo. Ciò sembra molto semplice. Certo si tratta qui
della cosa più nota ed evidente, ma considerarla e tematizzarla in modo conveniente; è invece più difficile della
realizzazione della conoscenza empirico-oggettiva, la quale si muove nella direzione del nostro rapportarci naturale e
spontaneo al mondo e può sempre rinviare all’oggetto offerto, in modo visibile e palpabile. Qui, al contrario, si richiede
un’inversione di rotta ed una sosta di raccoglimento, nella quale si sviluppano facilmente modi di vedere erronei, in
debitamente ridotti e deformati, che conducono ad interpretazioni unilaterali e sbagliate circa l’essenza dell’uomo.
Inoltre, la domanda non perverrà mai definitivamente alla mèta, anche se cerca la risposta sulla strada giusta, cioè prendendo in considerazione l’esistenza umana nella sua interezza. L’essenza dell’uomo, mostrando sempre nuove
profondità, provoca a rinnovare costantemente la domanda. Perciò non si potrà mai porre a tacere questo interrogativo
dell’umanità. Esso non si acquieterà finché ci sarà pensiero umano, che, domandando e cercando, è sempre in cammino.
Anche se nella storia si danno risposte diverse, forse persino — realmente o apparentemente — opposte, esse segnalano
tuttavia fenomeni o problemi validi, di cui una spiegazione filosofica dell’esistenza umana deve farsi carico». E.
CORETH, Antropologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 9-11.
142
Alla domanda chi è l’uomo «ed abbia un essere e dunque una storia e un destino inassimilabili a quello degli altri
viventi, lo affermano e lo negano in tanti. E con una varietà di argomentazioni e prospettive che sorprende. Quasi tutto i
filosofi vi hanno dedicato appassionati tentativi, e nell’intento dei loro autori anche definitivi, per dire la verità
sull’uomo; per comprenderlo esaurientemente e a distanza da tutte le mitologie che da sempre lo hanno accompagnato;
per liberarlo finalmente da una corteo di false credenze. L’esistenza di numerose antropologie che pretendono, ciascuna
a suo, di essere l’antropologia, testimonia in verità solo un’incessante inchiesta. Se però i risultati delle diverse indagini
hanno confermato tutto e il suo contrario: il dualismo e il monismo, il materialismo e lo spiritualismo, la via
dell’osservazione e quella della deduzione, il senso e il non-senso, la logica e l’assurdo dell’esistenza umana, forse non
hanno confermato e dimostrato nulla, se non altro fin quando non si capisce cosa o perché alcuni hanno dimostrato ed
altri non, perché una stessa fedeltà all’osservazione ha condotto per vie opposte e a conclusioni contraddittorie. Se poi
dimentichi di questa situazione aggiungiamo un’altra prospettiva, non risolviamo, anzi complichiamo, il già affollato
panorama filosofico, dove tutti si contendono la verità dell’uomo e il diritto di riservarsi l’ultima parola». C. PERI,
L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2002, p. 13.
143
C. VIGNA, Semantizzazione dell’essere e principio di non contraddizione. Sul libro Gamma della «Metafisica» di
Aristotele, in IDEM, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero,
Milano 2000, p. 185.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 38
La stretta correlazione tra ermeneutica e antropologia pone, così, le premesse per lo sviluppo di
una antropologia fondamentale che, proprio attraverso una ripresa ermeneutica della fenomenologia
dell’essere umano, la quale, non proponendo un’altra «forma» antropologica tra le molteplici
visioni dell’uomo, costituisce, come si è visto, un discorso previo sul senso di una antropologia in
grado di dire compiutamente la «verità» dell’uomo. Un’antropologia fondamentale, cioè, in grado
di analizzare, stabilire e definire, tenendo conto delle correlazioni rilevate tra le diverse
impostazioni, il criterio di fondo alla luce del quale edificare un compiuto «discorso» (lògos)
sull’uomo e capace di dirne la «verità» nella sua interalità, il quale rende conto della struttura
fondamentale dell’umano, non fermandosi alla semplice descrizione fenomenica, bensì cogliendo
l’uomo per quello che è, vive, sperimenta e pensa, nel continuo dialogo con l’esperienza umana che
chiede di essere ricondotta sempre ad unità, mediante la riunificazione di forma ed essere, struttura
e sostanza, soggetto e oggetto, e rimodulata nel tramite di processi di integrazione, che arricchendo
la dimensione interpretativa e ricostruttiva dei significati, non si concentra sull’intero
dell’esperienza bensì sull’esperienza dell’intero.
Il «metodo» dell’ermeneutica antropologica
L’antropologia si organizza, dunque, concretamente come «metodica» ermeneutica del vissuto
umano. Ricercare la verità dell’uomo comporta, conseguentemente, l’interrogarsi sull’uomo stesso.
Ma l’uomo è un essere molto complesso e polimorfo. L’interrogarsi su di lui può vertere su
problemi specifici, che sono oggetto delle varie scienze, o sulla globalità, sulla totalità del suo
essere uomo. Su questo punto ci si incontra necessariamente con l’interrogativo della domanda
antropologica fondamentale. Questa domanda, che ha sollecitato l’interesse di tutto il pensiero
filosofico, è una costante basilare all'interno di ogni compiuto discorso antropologico. Tuttavia, se
la domanda riguardante il senso dell’uomo e la sua «verità» è sempre la stessa, le risposte che sono
state date riflettono ovviamente lo strutturarsi dei vari sistemi di pensiero e dei vari paradigmi che
ha caratterizzano l’evoluzione e lo sviluppo della cultura. Si spiega così la diversità di risposte al
problema umano; molte di queste risposte hanno avuto la presunzione di dire la verità,
definitivamente concepita, sull’essere dell’uomo, altre hanno invece riconosciuto che non è
possibile dare una risposta sulla verità dell’uomo in modo esauriente. Le istanze del «paradigma
evolutivo» sollecitano la riflessione antropologica a determinare la specificità dell’uomo nell’ordine
dei viventi, che è sempre ciò che supera ogni espressione storica culturale della sua identificazione.
Perché un procedimento del genere possa essere fecondo, dal punto di vista del metodo, bisogna
fare riferimento a un elemento fenomenologico e a un elemento trascendentale, i quali essendo due
elementi non solo di metodo ma costitutivi dell’intero antropologico, si integrano necessariamente
in un unico procedimento metodologico e strutturale.144 Questo perché i fenomeni sono percepiti
non nella loro semplice «fatticità» ma nella linea di significazioni a essi immanenti. Essendo la
fenomenologia osservazione concreta dell’interno del vissuto, come si manifesta alla coscienza, per
coglierne il senso profondo e universale, il metodo dell’ermeneutica antropologica, nel suo duplice
riferimento all’elemento fenomenologico e a quello trascendentale, si configura nel suo statuto di
orizzonte interpretativo dei significati fondamentali e delle dimensioni essenziali dell’esistenza
umana, come si presentano alla coscienza e che esigono il passaggio dall’implicito all’esplicito.145
144
«A chi consideri l’essere umano, anche dal punto di vista di una fenomenologia fisica – nella postura pienamente
eretta che lo caratterizza e nella plasticità dello sguardo –, appare chiaro che questi vive in relazione con un orizzonte
che accoglie e supera le realità che via via in esso si presentano. Questa capacità di avere un orizzonte (e quindi di avere
un mondo) è ciò che classicamente si dice “intelletto”, e che può anche essere detto “apertura trascendentale”». P.
PAGANI, Introduzione. Appunti sulla specificità dell’essere umano, in IDEM, Ricerche di antropologia filosofica,
Orthotes Editrice, Napoli 2012, p. 7.
145
«Noi, prendendo come punto di partenza i dati reali e i pensieri concreti, dobbiamo rendere esplicito ciò che questi
pensieri e questi dati implicano, ciò che essi presuppongono nel senso etimologico della parola, ciò che li rende
possibili e saldi. [...]. Implicare non significa inventare, dedurre. Significa piuttosto scoprire ciò che è presente ma non
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 39
Infatti, un’antropologia, come metodica ermeneutica, «deve partire dai fenomeni dell’attenzione di
sé da parte dell’uomo, nei quali noi sperimentiamo e comprendiamo noi stessi. Ma, da questo punto
di vista, diventa chiaro che non si potrà mai dare una pura fenomenologia, nel senso di visione e di
descrizione del “dato” o del “fenomeno” priva di presupposti. Infatti, il fenomeno, come ciò che si
mostra, viene già compreso; solo al comprendere esso si mostra per quel che significa. Ciò
presuppone già un orizzonte del conoscere nel quale il fenomeno singolo si manifesta entro una
totalità di senso. Pertanto una fenomenologia che comprende la sua propria natura, e non si limiti ad
una immediatezza del dato ingenuamente presupposta, deve fare ricorso alle condizioni previe, alle
quali soltanto il fenomeno può in generale essere visto e compreso. Essa deve perciò andare oltre se
stessa e – trascendentalmente – porsi le domande sulle proprie condizioni di possibilità».146 Da
questo punto di vista, poiché la riflessione trascendentale esige un punto di partenza
fenomenologico, l’elemento trascendentale comporta l’«interrogare il fenomeno – l’attuazione di
sé, l’autoesperienza – sulle condizioni della sua possibilità», 147 di configurare esistentività
compiute, ontologicamente consistenti nella dimensione della soggettualità realizzata. Questo in
virtù del fatto che il trascendentale si configura «come matrice di ordinamento del dire nella sua
manifestazione intrinseca e, insieme, nella sua apertura al contenuto da svelare». 148 La
trascendentalità, infatti, dicendo, nel contempo, «dal punto di vista originario, ciò che appartiene a
ogni ente e ciò che si dice sempre di ciò che appare a una soggettività che si apre al mondo, perché
una soggettività che si apre al mondo è originariamente, quanto a orizzonte intenzionale, infinita e
quindi in pari con quell’orizzonte, anch’esso infinito»,149 configura l’intero antropologico come
coscienza dell’intero che è capace di intenzionare le determinazioni (gli oggetti) nel loro senso
proprio e nel loro senso ulteriore, in rapporto al quale ogni determinazione si scopre indeterminata
per cui esige un orizzonte interale entro cui essere adeguatamente pensato.150
La stretta connessione tra elemento fenomenologico ed elemento trascendentale, implicando una
circolarità interpretativa, in quanto riporta la conoscenza delle parti alla comprensione del tutto e
viceversa, consente all’antropologia di strutturare problematiche di tipo ontologico, perché riapre,
su nuove basi, oltre l’idealismo e al di là dell’«oggettivismo» scientifico, il problema della verità
dell’uomo e della possibilità stessa di cogliere filosoficamente tale verità. Questo è possibile perché,
secondo Pareyson, il centro dell’ermeneutica risiede nella nozione della «solidarietà originaria di
persona e verità in cui consiste l’essenza genuina del concetto di interpretazione». 151 Infatti,
osservato, non ancora esplicitamente conosciuto e formulato». M. BLONDEL, Exigences philosophiques du
Christianisme, PUF, Paris 1950, p. 71.
146
E. CORETH, Antropologia filosofica, p. 17. «L’orizzonte trascendentale consente all’essere umano di aver presente
ciò che non è più attuale, ma anche di anticipare ciò che attuale non è ancora : e di farlo o nella forma della
immaginazione, o in quella più complessa, della progettualità. L’uomo è capace della temporalità, cioè sa cogliere quel
che – nell’avvicendarsi degli eventi e delle cose – permane, appunto, come loro orizzonte. E proprio perché ha nello
sguardo la presenza dei presenti, sa riferire questi al non-ancora, e indirizzarli progettualmente oltre la loro facies
attuale, in funzione di uno scopo». P. PAGANI, Introduzione. Appunti sulla specificità dell’essere umano, in Idem,
Ricerche di antropologia filosofica, p. 8.
147
E. CORETH, Antropologia filosofica, p. 17.
148
F. TOTARO, Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi, p. 15.
149
C. VIGNA, Sul dono come relazione pratica trascendentale, in C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e
intersoggettività, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 96.
150
«L’apertura trascendentale propria dell’uomo è attestata anche dalla concettualità. Un concetto universale è un
significato messo in relazione con una costellazione potenzialmente infinita di individui che lo istanziano (attualmente o
potenzialmente). Si può dire [...] che il concetto universale sia lo stesso orizzonte trascendentale, curvato attorno a un
singolo significato. [...]. L’apertura trascendentale dell’uomo è ulteriormente attestata da una peculiare capacità che essa
comporta: quella di “ritornare su di sé”, avendo sè come un contenuto (radicalmente privilegiato) di se stessa. È la
capacità che designiamo come “autocoscienza”. Tale capacità consegue appunto allo sporgimento intenzionale che
l’essere umano attua in direzione dell’orizzonte: è perché è originariamente collocato oltre sé, che l’uomo sa ritornare
su di sé». P. PAGANI, Introduzione. Appunti sulla specificità dell’essere umano, in IDEM, Ricerche di antropologia
filosofica, p. 8.
151
L. PAREYSON, Verità e interpetazione, p. 10.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 40
siccome per Pareyson, che propone una concezione dell’uomo e della persona, del sapere e
dell’essere nel quadro di un personalismo ontologico e come fondamento dell’ermeneutico, la
caratteristica dell’uomo in quanto persona è «di lasciare essere la verità»,152 «la verità non è cosa
che l’uomo inventi o produca o che si possa in generale produrre o inventare: la verità bisogna
lasciarla essere, non pretendere di inventarla; e se la persona si fa organo della sua rivelazione è
soprattutto per riuscire ad essere sede del suo avvento».153 In base a questa logica, la costruzione di
una antropologia come «metodica» ermeneutica fa riferimento alla concretezza esistenziale della
coscienza dell’uomo nella sua intenzionalità alla pienezza della verità dell’essere e guida a capire
che «comprensione ermeneutica [...], non è soltanto un “atto interpretativo”, ma rappresenta anche
uno “sforzo produttivo”. L’interprete è ben coscio della distanza tra il proprio orizzonte e il testo da
interpretare, ma durante il processo della comprensione si instaura un nuovo orizzonte più largo e
comprensivo che supera le domande e i pregiudizi di partenza. Nel caso dell’antropologia filosofica
il testo da interpretare sarebbe costituito dai risultati delle ricerche scientifiche sull’uomo e
l’insieme delle pre-comprensioni potrebbe essere individuato nella tradizione filosofico-culturale in
cui i diversi studiosi si collocano e in una certa idea dell’uomo, ancorché indeterminata, generale e
ancora “aperta”, che ciascun pensatore avverte come propria».154 Sotto questo profilo, la circolarità
della «metodica» ermeneutica si risolve in una «circolarità antropologica» in quanto «non si dà mai
un punto di partenza assoluto privo di presupposti, a partire dal quale si potrebbe sviluppare
un’antropologia filosofica. È già sempre l’uomo concreto, successivamente determinato, che
sperimenta e conosce se stesso nel suo mondo, e pone domande sulla vita dell’uomo. Noi non
possiamo saltare noi stessi. Non possiamo riflettere su di noi, astraendoci dalla nostra esistenza
concreta, per collocarci in un puro “io penso”. Portiamo noi stessi già da sempre con noi: il nostro
luogo storico, la nostra esperienza e l’esperienza del mondo, il nostro orizzonte di
comprensione».155
Un’antropologia fondamentale come «metodica» ermeneutica del vissuto invece di richiedere
una fondazione diretta dell’uomo e del suo essere, si organizza, in questo modo, attorno allo studio
della sua costituzione esistentiva, nel tramite del suo processo evolutivo, e affronta il problema del
suo radicamento/sradicamento cosmico-naturale. L’antropologia, cioè, assume una rilevanza
ermeneutica perché articola, interpretandola, decifrandola, coniugandola e declinandola, in tutta la
sua complessità, l’unità molteplice dell’essere umano attraverso il riconoscimento di una radicale
interrelazione e coevoluzione di soggetto e oggetto in tutto l’arco del processo di sviluppo evolutivo
e si offre come «la prospettiva delle prospettive in grado di dare convergenza di senso ai momenti
molteplici dell’agire umano e di operare per la piena manifestazione dei suoi effetti».156
Alla luce di queste considerazioni, la necessità di ripensare l’uomo, all’interno dell’odierna
contestualità storico-culturale caratterizzata, da un lato, dalla diffusa convinzione dell’impossibilità
di impiantare un compiuto «discorso» (lògos) globale sull’umano nella molteplicità delle sue
articolazioni e, dall’altro, dalla pervasiva diffusione degli esiti della rivoluzione biotecnologica e
telematica, oltre a rideterminare la centralità della questione antropologica, pone, anche, il problema
della ridefinizione di un compiuto «discorso» (lògos) sull’umano che, al fine di evitare riduzionismi
sia sul versante naturalististico sia su quello dell’artificiale, implica, pure, la necessità di
riconsiderare la relazione costitutiva delle diverse dimensioni dell’umano nella prospettiva di una
antropologia interale capace di declinare l’essere personale dell’uomo nella compiutezza
dell’articolazione della sue configurazioni fondamentali.
La prospettiva dell’antropologia filosofica, che è, dunque, quella di comprendere l’uomo come
soggetto personale nella sua globalità, intende fornire alcune indicazioni per elaborare una
152
Ibidem, p. 58.
Ibidem, p. 84.
154
M.T. PANSERA, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 14-15.
155
E. CORETH, Antropologia filosofica, p. 16.
156
F. TOTARO, Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi, p. 112.
153
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 41
concezione interale dell’uomo che, superando qualsiasi forma di riduzione al puro dato
naturalistico-biologico, oppure alle prospettiche costruttiviste delle biotecnologie, sia in grado di
promuovere nuove «forme» di concrezione umana sempre più attente alle esigenze di ogni singola
persona che sperimenta la propria esistenza nella multidimensionalità delle contestualità relazionali
che la co-implicano e la coinvolgono attivamente.
Questo vuol dire che l’antropologia filosofica contribuisce a far luce sulla dimensione
specificamente umana dell’umanità dell’uomo, la quale, più che un dato naturale o un semplice
prodotto delle metodiche tecnologiche, costituisce un dono e compito di cui ognuno è chiamato
responsabilmente ad appropriarsi, sperimentandosi e realizzandosi, come uni-totalità bio-psicospirituale, all’interno della molteplice rete di significati che ne modulano il senso e le concrezioni.
In questo senso, la trascendentalità come prospettica dell’intero sull’intero, dal punto di vista
antropologico, in ordine alla comprensione dell’umano, si configura come luogo sinergico sia di
empirico corporeo e di meta-empirico mentale (relazione dell’uomo «tra» sé), sia di identità
singolare soggettiva e di identità plurale intersoggettiva (relazione dell’uomo «tra» gli altri), sia di
apertura trascendentale alla trascendenza (relazione dell’uomo «tra» l’Oltre/Altro). Questo perché la
trascendentalità non è riducibile a una sorta di parte dell’essere umano, ma è una certa qualità di
relazione che prende l’intero antropologico, proprio in quanto articolazione tra l’empirico e il
trascendentale.157
Ma ciò comporta la necessità di comprendere l’uomo, per la complessità e la varietà dei suoi
aspetti, come un «tutto integrato» non riducibile alla somma dei suoi singoli componenti. Una
comprensione in grado di coniugare e articolare la molteplicità delle dimensioni dell’umano, che
colgono e identificano l’uomo nella totalità del suo essere persona secondo l’ordine dell’intero, al di
là delle differenze spersonalizzanti e nullificanti.
L’esigenza di una trattazione rigorosa della questione, che vada al di là delle derive della
frantumazione del senso di un adeguato «discorso» (lògos) sull’umano, richiede, opportunamente,
il misurarsi con delle proposte teoriche che, proprio per la loro complessità e determinata
teoreticità, oppure a causa di una lettura affrettata e di scuola, rischiano di rimanere marginali nei
confronti del dibattito in corso e, conseguentemente, di non fornire alcun apporto alla definizione
del problema e della sua eventuale risoluzione. Una tale trattazione, però, deve essere coniugata e
157
La trascendentalità dell’intero antropologico è percepibile adeguatamente, se si riflette al modo in cui si predica la
corporeità umana. Infatti, «si una dire […] tanto che l’uomo ha un corpo, quanto che l’uomo è un corpo […]. Una
corretta fenomenologia dell’esistenza umana importa però che entrambe le formulazioni siano tenute ferme. Impossibile
restare solo alla prima. Se l’uomo avesse una relazione al corpo secondo il semplice ‘avere’ il corpo sarebbe una realtà
separata e strumentale. […]. Viceversa se il corpo fosse simpliciter lo stesso che l’uomo (io sono un corpo) non si
spiegherebbe la portata trascendentale del pensare. L’uomo sarebbe un essenziale sentire al pari dell’animale. Se non si
può risolvere l’aporetica del senso della corporeità umana sopprimendo unilateralmente le due proposizioni intorno al
corpo, bisogna tentare di intenderne la compossibilità. Ebbene, essa risulta compossibile solo se la corporeità dice
riferimento necessario alla trascendentalità (l’uomo è un corpo, nel senso che la corporeità è parte integrante
dell’essenza dell’uomo) e la trascendentalità dice, per qualche aspetto, riferimento non necessario alla corporeità
(l’uomo ha un corpo, nel senso che la corporeità non copre l’intera esistenza dell’umano, così come accade alla
trascendentalità). In altri termini, se la trascendentalità copre l’intera sfera del corporeo, sicché il corpo umano ha
sempre una qualità trascendentale, il corporeo non copre l’intera sfera della trascendentalità, sicché questa sul corporeo
‘sporge’ e quindi l’uomo può, a buon diritto, rivendicare una certa separatezza del corpo, per cui si può anche dire che
l’uomo ha un corpo». C. VIGNA, Linee di un’etica dell’ambiente, in C. VIGNA (a cura di), Introduzione all’etica, Vita e
Pensiero, Milano 2001, pp. 191-192. La separatezza non è dell’uomo come è, bensì dell’uomo in quanto trascendentale.
Questo perché il tipo di relazione tra empirico corporeo e trascendentale dell’esistenza umana aiuta a risolvere
l’aporetica di cui sopra, in quanto c’è «da salvaguardare per un verso l’unità dell’io per altro verso la sua interna
differenza. Sia l’unità sia la differenza sono sperimentate e dimostrabili. L’unità è dimostrata dall’identità dell’io come
referente di predicati empirici e di predicati trascendentali; la differenza è dimostrata dalla possibilità, per l’io, di
sollevarsi dalla semplice empiria e di porre il piano speculativo, ossia il punto di vista dell’intero». Ibidem, p. 192, n.
17. Per un approfondimento e per uno sviluppo della prospettiva di una antropologia trascendentale, Cfr. C. VIGNA,
Trascendentalità ed empiricità dell’umano. Appunti a partire dal De unitate intellectus di Tommaso d’Aquino, in L.
MESSINESE – CH. GÖBEL (a cura di), Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo, Roma 2006, pp. 206-216.
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 42
declinata in una proposta antropologica che, nel tenere in considerazione l’intero dell’umano, non
solo rivendichi il rispetto di tutte le dimensioni essenziali della natura umana, nelle sue potenzialità
immanenti e nei suoi valori trascendenti, ma anche la capacità di salvaguardare e promuovere tutte
le istanze affermate e presentite nella varie «forme» del sapere antropologico colte nella prospettiva
di un orizzonte comprensivo caratterizzato dall’interalità essenziale e dalla integrazione culturale
dei vari sistemi di significato.
Questo procedimento, richiede l’elaborazione di una «filosofia per i tempi nuovi»,158 e di un
«nuovo pensiero»,159 che, nel far propri i guadagni storici del passato, evitandone però le parzialità
interpretative, chiedono alla determinazione antropologica la proposizione di una visione interale
dell’umano, finalizzata a ri-articolare, nel superamento della modernità, senza però cadere nelle reti
della postmodernità, l’empirico e il trascendentale, e, in questo modo, risultare capace di ri-pensare
l’umanità dell’uomo, mediante l’istruzione di un’ermeneutica antropologica rispettosa dell’interalità
umana.
Una tale ristrutturazione antropologica implica, però, il passaggio da un’antropologia
essenzialista, statica e, quindi, di «posizione», e, per certi versi, normativa, tipica di alcune forme di
metafisica tradizionale che considerava l’essere dell’uomo astrattamente, indipendentemente dal
divenire, dalle dimensioni dell’evento e della storicità, a una antropologia concreta, dinamica e,
dunque, «di movimento», che, salvaguardando la sua autonomia disciplinare sia in grado di
articolare un «discorso» (lògos) sull’uomo nel contesto della pluralità dei saperi scientifici
contemporanei.
Ciò in ragione del fatto che la verità dell’essere dell’uomo, nella sua profondità metafisica, dice
che ««l’uomo non è semplice apertura all’essere; il suo tratto paradossale e abnorme rispetto agli
altri viventi è quello di far accadere l’essere, di operare affinché l’essere accada. L’uomo non è
l’essere ma diviene per l’essere; perciò è responsabile dell’accadimento dell’essere».160 Questo
perché nell’esperienza umana l’intero dell’essere «è soltanto potenziale, quindi sempre inattuale.
Nell’esperienza l’intero non è già, ma è nella prospettiva della sua attuazione. Detto diversamente,
l’inattualità dell’intero implica che a noi non si dà la manifestazione esaustiva e totale della
positività dell’essere. L’essere per sé non coincide con l’essere per noi. L’essere per sé è, per noi,
un poter accadere».161 Un tale procedimento è legittimato dal fatto che, pur operando sulla base
della istanze provenienti dal paradigma evolutivo, «lo sfondo ontologico-metafisico è così alla base
della torsione propriamente antropologico-esistenziale dell’essere, grazie alla quale la realizzazione
dell’essere per tutti e per ciascuno, si traduce nelle concrete determinazioni dell’equipaggiamento
esistenziale da individuare e da acquisire sul piano storico».162
In base a questa logica, la costruzione di una antropologia e di un’etica, nel quadro del
paradigma evolutivo, fa riferimento alla concretezza esistenziale della coscienza dell’uomo nella
sua intenzionalità rapportata alla pienezza della verità dell’essere e guida a capire che
«comprensione ermeneutica [...], non è soltanto un “atto interpretativo”, ma rappresenta anche uno
“sforzo produttivo”. L’interprete è ben coscio della distanza tra il proprio orizzonte e il testo da
interpretare, ma durante il processo della comprensione si instaura un nuovo orizzonte più largo e
comprensivo che supera le domande e i pregiudizi di partenza. Nel caso dell’antropologia filosofica
il testo da interpretare sarebbe costituito dai risultati delle ricerche scientifiche sull’uomo e
l’insieme delle pre-comprensioni potrebbe essere individuato nella tradizione filosofico-culturale in
cui i diversi studiosi si collocano e in una certa idea dell’uomo, ancorché indeterminata, generale e
158
Cfr. J. MARITAIN, Antimoderno. Rinascita del tomismo e libertà intellettuale, Logos, Roma 1979.
Cfr. F. ROSENZWEIG, Il nuovo pensiero, Arsenale, Venezia 1983.
160
F. TOTARO, Persona, azione, lavoro: per una teoria trascendentale della prassi, in IDEM, Non di solo lavoro.
Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita & Pensiero, Milano 1999, 46-47.
161
Ibidem, 43.
162
F. TOTARO, Multiculturalismo, interculturalità ed etica pubblica, in C. VIGNA – E. BONAN (a cura di),
Multiculturalismo e interculturalità. L’etica in questione, Vita & Pensiero, Milano 2011, 27.
159
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 43
ancora “aperta”, che ciascun pensatore avverte come propria».163 Sotto questo profilo, la circolarità
della metodica ermeneutica si risolve in una «circolarità antropologica» in quanto «non si dà mai un
punto di partenza assoluto privo di pressupposti, a partire dal quale si potrebbe sviluppare
un’antropologia filosofica. È già sempre l’uomo concreto, successivamente determinato, che
sperimenta e conosce se stesso nel suo mondo, e pone domande sulla vita dell’uomo. Noi non
possiamo saltare noi stessi. Non possiamo riflettere su di noi, astraendoci dalla nostra esistenza
concreta, per collocarci in un puro “io penso”. Portiamo noi stessi già da sempre con noi: il nostro
luogo storico, la nostra esperienza e l’esperienza del mondo, il nostro orizzonte di
comprensione».164
Un’antropologia e un’etica che si sviluppano nel quadro del paradigma evolutivo, invece di
richiedere una fondazione diretta dell’uomo e del suo essere, si organizzano, in questo modo,
attorno allo studio della sua costituzione esistentiva, nel tramite del suo processo evolutivo, e
affrontano il problema del suo radicamento/sradicamento cosmico-naturale dell’uomo con la
consapevolezza che, all’interno del paradigma evolutivo, non è possibile condurre un compiuto
discorso sull’uomo senza fare un compiuto discorso sul mondo e viceversa.165 L’antropologia e
l’etica, cioè, assumono una rilevanza perché articolano, interpretandola, decifrandola, coniugandola
e declinandola, in tutta la sua complessità, l’unità-molteplice dell’essere umano la quale implica il
riconoscimento di una radicale interrelazione e coevoluzione di soggetto e oggetto166 che si modula
continuamente in tutto l’arco del processo di sviluppo evolutivo e del tendere dell’uomo verso il
compimento pieno della propria umanità.
163
M.T. PANSERA, Antropologia filosofica, Bruno Mondadori, Milano 2001, 14-15.
E. CORETH E., Antropologia filosofica, 16.
165
«Per pensare l’uomo, crediamo che gli occorra un cosmo che davvero sia il suo luogo, dove egli non sia, per
l’appunto, un estraneo. È necessario pensare il cosmo non come uno scenario, ma come quel luogo indispensabile
all’uomo per comprendersi e per costruirsi. Ora questo non è possibile se non c’è qualche complicità tra l’uomo e il
cosmo [...]. L’uomo è a casa propria sulla terra, il cosmo è la sua casa (il suo oikos, il suo oikoumene). Non vi è caduto
dentro e fatto prigioniero. Al contrario, il cosmo gli offre le condizioni stesse che gli consentiranno l’esercizio della
propria specificità, una specificità che non comporti però quella rottura che sarebbe una forma inintellegibile di
estraneità». A. GESCHÉ, Dio per pensare. 4. Il cosmo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 65-67.
166
Una delle conseguenze più vistose della rivoluzione paradigmatica operata dallo sviluppo delle scienze nel XX
secolo è stata quella della reintroduzione del soggetto e dell’osservatore nel tessuto fine della conoscenza che stabilisce
una circolarità costruttiva fra osservatore e sistema osservato. La reintegrazione del soggetto conoscente in ogni
processo di conoscenza «apre la restaurazione del soggetto e svela il problema cognitivo generale: dalla percezione alla
teoria scientifica ogni conoscenza è una ricostruzione, traduzione da parte di una mente/cervello in una data cultura e in
un dato tempo». E. MORIN, Il metodo 1. La natura della natura, Raffaello Cortina, Milano 2001, 99. Cf. F. VARELA,
Principles of biological Autonomy, North Holland, New York 1979; IDEM, Complessità del cervello e autonomia del
vivente, in G. BOCCHI – M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, 141-157; H. VON FOERSTER, Sistemi che
osservano, Astrolabio Roma, 1987 (or. 1981); IDEM, Cibernetica ed epistemologia: storia e prospettive, in G. BOCCHI –
M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, 112-140; M. CERUTI, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano
1996.
164
Calogero Caltagirone, Appunti introduttivi per il corso di Antropologia ed etica, II Anno, Corso di Laurea triennale L19 Educatori dell’infanzia e integrazione sociale, Anno Accademico 2014-­‐2015, Dipartimento di Scienze Umane, Università LUMSA -­‐ Roma 44