Biomarcatori tumorali: Esami inutili (o dannosi)? Il nostro gruppo nasce nel marzo 2011 con l’approvazione della delibera regionale “rete regionale Health Tecnology assestement (HTA): elementi attuativi e metodologici” e si propone di condurre specifiche analisi e valutazioni in relazione a tecnologie, nuove e non, al fine di migliorare la qualità e l’appropriatezza del servizio la promozione della ricerca e innovazione tecnologica. A tal proposito l’Agenzia Sanitaria Regionale aveva chiesto all’IST una valutazione sull’utilizzo dei biomarcatori in oncologia. Il documento prodotto confronta i risultati di un’indagine effettuata presso i laboratori di patologia clinica dell’Asl 3 genovese con le più diffuse linee guida nazionali ed internazionali e riporta una serie di raccomandazioni sull’utilizzo dei marker tumorali. La delibera sui marker è il frutto di questo lavoro. Come gruppo regionale, partendo dalle premesse sopraccitate, riteniamo che la medicina moderna non si fa con le opinioni, ma sulla base di prove scientifiche, che devono essere analizzate e interpretate da gruppi multidisciplinari di esperti, possibilmente privi di conflitti di interessi. Lo studio ha messo bene in evidenza che nella pratica corrente i marker, tra cui il più conosciuto PSA, vengono utilizzati in una confusa prospettiva di prevenzione dei tumori. Diciamo confusa perche’ non sono neppure chiari i criteri con cui utilizzare i risultati di questi esami, gli ulteriori esami e le evntuali terapie da prescrivere in caso di positività, e soprattutto i benefici che ci si attende con il loro utilizzo. Questo utilizzo è in totale contrasto con tutte le linee guida, nazionali e internazionali, che invece sono concordi nel definire i markers tumorali “non utilizzabili” nella prevenzione dei tumori e ne limitano l’uso all’ambito strettamente clinico: - nella stadiazione di alcuni specifici tumori (dopo la loro diagnosi); - per la valutazione della risposta al trattamento - per la diagnosi di recidiva di malattia in pazienti già trattati. I marker tumorali possono quindi entrare in alcuni specifici percorsi diagnostico-terapeutici ma non servono a fare diagnosi, e soprattutto non devono essere utilizzati in soggetti che stanno bene, per una diagnosi precoce. Questo per quattro principali motivi: • sono poco sensibili e quindi producono molti risultati negativi anche se la malattia è presente (i cosiddetti risultati falsi negativi); • sono poco specifici e quindi producono molti risultati falsamente positivi. Molte condizioni e malattie non oncologiche possono causare un innalzamento di un marcatore. Ad esempio, i valori del PSA si alzano in condizioni di presenza di infiammazione acuta e cronica della prostata (prostatite), di ipertrofia prostatica benigna o anche, banalmente, dopo stimolazione della prostata a seguito di esercizio fisico o manovre mediche. Il CEA si può innalzare nei fumatori in assenza di malattia tumorale; • in alcuni casi (esempio carcinoma ovarico) non esiste nessuna prova che diagnosticare la malattia precocemente, prima della comparsa dei sintomi, sia di qualche utilità; • in altri casi, esistono invece forti indicazioni che con la diagnosi precoce vengono diagnosticati tumori ‘indolenti’ che, se non trattati, non avrebbero dato alcun sintomo nel corso della vita del soggetto. La diagnosi costringe invece a interventi terapeutici che talora possono avere conseguenza anche spiacevoli. Questi temi sono oggetto di valutazioni scientifiche continue, e talora contrastanti, e di dibattiti molto accesi tra i gruppi ricercatori ed esperti di maggior prestigio a livello internazionale, dibattiti ospitati sulle riviste scientifiche più rilevanti, di cui si trova eco su molti importanti organi di informazione ‘laica’. Gli articoli pubblicati nei diversi quotidiani locali sembrano invece ignorare questo intenso dibattito internazionale che da anni si svolge intorno allo screening e soprattutto attorno a quello per carcinoma prostatico e i recenti pronunciamenti di varie agenzie e gruppi di lavoro, americani, inglesi e anche italiani. Bisogna infatti sempre ricordare che ogni intervento, anche quello apparentemente più innocente, è associato con rischi e danni: in presenza di valori falsamente positivi, infatti, si richiedono altri esami che causano alle persone ansia e preoccupazioni inutili e, a volte, l'esecuzione di esami di approfondimento che possono essere molto INVASIVI (es. biopsie prostatiche multiple) e ripetuti nel tempo (in caso persistenza di valori elevati di uno o più marcatori e negatività degli esami diagnostici effettuati). Anche i risultati negativi possono risultare “dannosi” in quanto inducono un falso senso di sicurezza che porta a sottovalutare la presenza di segni e sintomi. Dei due grandi studi controllati che hanno valutato l’efficacia dello screening con PSA il primo, quello americano, non ha osservato nessuna riduzione del rischio di morte per carcinoma prostatico in conseguenza dell’intervento preventivo, risultato confermato con un aggiornamento dei dati (a 13 anni di follow up) pubblicato il 6 gennaio 2012 su una delle più prestigiose riviste scientifiche, il Journal of the National Cancer Institute. Nello studio europeo invece dopo 7-10 anni inizia a manifestarsi una certa riduzione nel rischio di morte per carcinoma prostatico, ma nessuna riduzione nel rischio generale di morte. Questo beneficio però ha un costo drammatico, vale a dire un aumento fortissimo nel numero di soggetti sottoposti a prostatectomia: le stime, sia pure approssimative, suggeriscono che per prevenire un decesso per carcinoma prostatico sia necessario eseguire 40-50 prostatectomie ‘inutili’, con frequenti conseguenze in termini di impotenza e in certi casi di incontinenza urinaria. Questi sono i dati oggettivi, che hanno portato l’American Cancer Society a fare una decisa marcia indietro sull’uso del PSA a scopo di screening, di cui era stato un supporter storico, limitandone l’uso a soggetti adeguatamente informati sui rischi e possibili danni. La US Preventive Taskforce (USPTF), un gruppo di lavoro indipendente, non federale, di esperti che risponde al Congresso, si è addirittura schierata contro lo screening, sconsigliando l’utilizzo del PSA come test di screening. Tutte le agenzie valutative nazionali dei paesi occidentali hanno espresso posizioni simili. Nel 2010, l’Osservatorio Nazionale Screening (l’organismo ministeriale che coordina le attività di screening in Italia, ha promosso una conferenza di consenso nazionale esprimendosi negli stessi termini (il documento è visibile sul sito dell’ONS http://www.osservatorionazionalescreening.it alla voce “ricerca e innovazione”). E’ da notare che in tutti i casi il dibattito, e le eventuali incertezze, riguarda i soggetti di età compresa tra i 50 e i 70-74 anni, mentre per i soggetti sotto i 50 anni e sopra i 70-74 esiste un accordo completo sull’inutilità e sulla dannosità di utlizzare il PSA come test di screening. Il vero problema è che in medicina ogni intervento comporta rischi e danni potenziali: questo vale per i farmaci, anche i più apparentemente innocui, vale per gli interventi chirurgici, e vale anche e soprattutto per gli interventi preventivi, sia diagnostici che di prevenzione primaria: l’elenco degli interventi sanitari adottati con le migliori intenzioni e poi rivelatisi dannosi, con casi di vere e proprie catastrofi sanitarie è sterminato. Oggi abbiamo finalmente imparato che prima di adottare un intervento è necessario valutarne approfonditamente le conseguenze positive e negative. Fino a quando non sono completate queste valutazioni, che si svolgono in un contesto di dibattito scientifico internazionale e nazionale, per ogni nuovo intervento deve valere il principio della presunzione di inefficacia/dannosità, e quindi il suo utilizzo non va promosso, tantomeno a spese dei contribuenti. Gruppo HTA Regione Liguria (formato da medici e tecnici delle Aziende Sanitarie liguri)