Hans Jonas
Un nuovo principio etico per il futuro dell’uomo
Tutti i sistemi etici a noi precedenti — sia che imponessero direttamente di compiere o meno
determinate azioni, sia che definissero principi su cui tale imposizione si fondava, sia che
stabilissero i motivi per cui era d’obbligo rispettare tali principi — condividevano
tacitamente i seguenti presupposti,tra loro collegati:
*
che la condizione umana, determinata dalla natura dell’uomo e delle cose fosse data
una volta per tutte
*
che su questa base si potesse immediatamente stabilire quale fosse il bene dell’uomo
*
e che la portata dell’azione umana, e perciò della responsabilità dell’uomo, fosse
rigidamente definita.
Fulcro della mia argomentazione sarà mostrare che questi presupposti non sono più validi
e riflettere sul significato di questo fatto per la nostra condizione morale. Più precisamente,
la mia tesi sarà che, in conseguenza di determinati sviluppi delle nostre capacità la natura
dell’agire umano è mutata, e poiché l’etica è connessa con l’agire, da ciò dovrebbe derivare
che la mutata natura dell’agire umano richiede anche un mutamento nell’etica: questo non
semplicemente nel senso che nuovi soggetti dell’agire hanno ampliato materialmente
l’ambito dei casi a cui devono essere applicate le regole vigenti del comportamento, ma nel
senso più radicale che la natura qualitativamente nuova di certe nostre azioni ha dischiuso
una nuova dimensione eticamente significativa di cui non esistono precedenti nei criteri e
nei canoni dell’etica tradizionale.
1.Le nuove capacità a cui penso sono, ovviamente, quelle della moderna tecnologia. Di
conseguenza, cercherò innanzitutto di spiegare come questa tecnologia influisca sulla
natura del nostro agire, in quali modi essa, sotto il suo dominio, renda l’agire differente da
ciò che è stato in ogni epoca. Poiché l’uomo non è mai stato privo di tecnologia, la questione
verte sulla differenza della tecnologia moderna da quelle precedenti. Cominceremo con una
voce antica sulle capacità e gli atti dell’uomo, che sembra evocare, per così dire, un modello
archetipico di tecnologia: il famoso Coro dell’Antigone di Sofocle.
Molte le cose tremende, ma di tutte più tremenda è l’uomo. Oltre il livido mare avanza nell’australe
vento burrascoso, passando tra profondi muri d’acqua mugghianti intorno. Suprema tra gli dei, la
Terra, instancabile immortale, logora con aratri che di anno in anno la rivoltano, avanti e indietro,
con l’apporto della razza equina.
Le specie degli uccelli volubili cattura, e le stirpi delle bestie selvatiche e le forme viventi nel mare
salato, tra aghe di rete annodate avvolgendole, fraudolento, l’uomo. Doma con trucchi le bestie che
hanno tane agresti e vagano per le montagne, e il collo del cavallo di folta criniera e l’infaticabile toro
montano aggioga.
A se stesso insegnò la parola e il pensiero simile al vento, e le civili consuetudini, e come i morsi
all’aperto del gelo terribile per chi non ha riparo e le piogge sferzanti scompare, in tutto ingegnoso.
Mai in difetto d’ingegno a ogni destino fa fronte, Ade solo non scampa, ma con sforzo comune
apprestò vie di scampo a mali irrimediabili.
Capisce, inventa, ha sulle arti dominio oltre l’attesa, e ora al bene, ora al male serpeggiando volge. Se
del paese le leggi onora, e la giustizia degli dei, sancita da giuramento, in alto sarà la sua patria.
Sprezzante il senza patria a chiunque capiti — brutta faccenda — s’aggrega. Al mio focolare costui
non s’avvicini, comuni con me pensieri non abbia chi queste cose compie.
Quest’omaggio alle capacità dell’uomo, pieno di timore reverenziale, ci parla della sua
irruzione violenta e profanatrice nell’ordine cosmico, dell’invasione arrogante dei vari
domini della natura da parte del suo ingegno inesauribile; ma anche della sua capacità di
edificare - mediante il linguaggio e il pensiero, acquisiti spontaneamente, e un certo senso
della socialità — la dimora per la sua stessa umanità, l’artefatto costituito dalla città. La
profanazione della natura e la civilizzazione dell’umanità vanno di pari passo. Entrambe si
compiono sfidando degli elementi, l’una avventurandosi al loro interno e soggiogando le
loro creature, l’altra fortificando una nicchia contro di essi nel rifugio costituito dalla città e
dalle sue leggi. L’uomo è l’artefice della sua vita in quanto vita umana, poiché può piegare
le esigenze, e non è mai inerme, salvo che di fronte alla morte.
Tuttavia, c’è qualcosa di timoroso, persino di inquietante, in questa meraviglia che è l’uomo,
un’esaltazione che nessuno può scambiare per sfrontata millanteria. Con tutta la sua
sconfinata ingegnosità, l’uomo è ancora piccolo rispetto agli elementi; proprio questo rende
le sue incursioni così audaci e fa sì che essi tollerino la sua impudenza. Quando usa, come
se fossero di sua proprietà, le creature della terra, del mare e dell’aria, egli non muta ancora
la natura che ingloba quegli elementi, né diminuisce la loro potenza generativa. Non può
danneggiarli ricavando il suo piccolo regno dai loro. Essi durano nel tempo, mentre i suoi
disegni hanno vita breve. Per quanto egli devasti la terra, la più grande divinità, anno dopo
anno con il suo aratro, essa è eterna e inesausta; egli deve e può fare assegnamento sulla sua
paziente sopportazione, e deve conformarsi al suo ciclo. Anche il mare è eterno. Per quanto
egli getti le reti sulle creature marine, l’oceano fecondo è inesauribile. E non subisce danni
quando le navi lo solcano, né viene insudiciato da ciò che l’uomo getta nei suoi abissi. E per
quante malattie l’uomo riesca a curare, le sue trovate nulla possono contro la morte.
Tutto questo vale perché le incursioni dell’uomo nella natura, cosa di cui egli stesso si
rendeva conto, erano essenzialmente superficiali, e incapaci di turbare il suo equilibrio
stabilito. Né esiste, nel coro dell’Antigone o in qualsiasi altro luogo, un accenno al fatto che
questo è soltanto l’inizio e che più importanti risultati dell’ingegno e del potere devono
ancora essere raggiunti - che l’uomo è perennemente dedito alla conquista. Egli aveva a tal
punto ridotto la sfera della necessità, ingegnandosi per estorcerle quanto serviva a rendere
umana la sua vita, che poteva fermarsi lì. Lo spazio che aveva in questo modo creato fu
riempito dalla città degli uomini — destinata a racchiudere e non a estendersi — per cui un
nuovo equilibrio si stabilì all’interno del più ampio equilibrio del tutto. Tutto il bene o il
male a cui l’uomo, una volta o l’altra, può essere condotto dalla sua facoltà inventiva si trova
all’interno della nicchia umana, e non tocca la natura delle cose.
La profonda invulnerabilità del tutto, che le molestie dell’uomo possono solo scalfire, cioè
il carattere fondamentalmente immutabile della Natura in quanto ordine cosmico, era in
verità lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, comprese le sue intromissioni in
quello stesso ordine. La vita dell’uomo oscillava tra ciò che perdura e ciò che muta; ciò che
perdura era la Natura e ciò che muta le sue opere. La più grande di queste opere era la città;
a cui egli poteva conferire un certo grado di stabilità mediante le leggi che creava per essa e
che si impegnava a rispettare. Ma nulla garantiva che questa stabilità innaturale sarebbe
durata a lungo. In quanto artefatto precario, essa può finire o deperire. Nemmeno all’interno
del suo spazio artificiale, dove pure l’uomo esercita il libero arbitrio, ciò che è arbitrario può
mai soppiantare le condizioni fondamentali del suo essere. E proprio la mutevolezza delle
vicende umane a garantire la stabilità della condizione umana. Il caso, la buona e la cattiva
fortuna e la follia, i grandi equilibratori nelle faccende umane, agiscono come una sorta di
entropia e, a lungo andare, riportano ogni proposito formulato alla perennità della legge.
Le città sorgono e cadono, le dominazioni vanno e vengono, le famiglie prosperano e
declinano; nessun mutamento è durevole e, alla fine, poiché tutte le temporanee deviazioni
si bilanciano, la condizione dell’uomo rimane quella che è sempre stata. E così. persino nel
suo stesso artefatto, il controllo dell’uomo è limitato e prevale la sua natura durevole.
Eppure, questa roccaforte di sua stessa creazione, nettamente separata dal resto delle cose e
affidata a lui, costituiva l’intero e unico ambito dell’agire responsabile dell’uomo. La natura
non era un oggetto della responsabilità umana - poiché essa provvede a se stessa e, con
qualche blandizia e un po’ di arroganza, anche all’uomo; con essa non l’etica, ma solo
l’intelligenza le era appropriata. Ma nella città, dove gli uomini hanno a che fare con altri
uomini, all’intelligenza deve unirsi la moralità, poiché questa è l’anima del suo essere. Ogni
etica tradizionale alligna all’interno di questa cornice infra umana, e si collega alla natura
dell’agire delimitato da questa stessa cornice.
2. Ricaviamo da quanto precede quelle caratteristiche dell’agire umano che sono
significative per un confronto con lo stato attuale delle cose.
1) Tutto ciò che aveva a che fare con il mondo extra umano, cioè l’intera sfera della teche (ad
eccezione della medicina) era eticamente neutrale – sia rispetto all’oggetto sia rispetto al
soggetto di tale agire; rispetto all’oggetto perché influiva poco sulla natura capace di
autoconservazione delle cose e perciò non sollevava alcun problema che riguardasse un
danno permanente all’integrità del suo oggetto, vale a dire l’intero ordine naturale nel suo
insieme; o al soggetto agente perché la techne come attività concepiva se stessa come uno
specifico tributo alla necessità e non come un progresso illimitato autoconvalidantesi verso
il fine primario dell’umanità, perseguibile con uno sforzo e una partecipazione estremi da
parte dell’uomo. La vera vocazione dell’uomo risiede altrove. In breve, l’azione sul mondo
non umano non costituiva una sfera davvero significativa dal punto di vista etico.
2) L’etica acquistava rilievo nella relazione diretta tra uomo e uomo compresa la relazione
dell’uomo con se stesso, ogni etica tradizionale è antropocentrica.
3) Quanto all’agire in questa sfera, l’entità «uomo», come la sua condizione fondamentale,
era considerata costante nella sua essenza, e non essa stessa oggetto di una techne capace di
darle nuova forma.
4) Il bene e il male di cui l’agire doveva occuparsi erano strettamente connessi all’agire sia
nella prassi stessa sia nella sua portata immediata, e non erano oggetto di pianificazione a
lungo termine. Questa prossimità dei fini valeva per il tempo come per lo spazio. Il campo
d’azione effettivo era ristretto; la previsione, la definizione degli obiettivi e l’imputazione di
responsabilità erano a breve termine, il controllo sugli eventi limitato. Una condotta corretta
aveva i suoi criteri immediati e il suo compimento era pressoché immediato. La lunga serie
di conseguenze più remote era lasciata al caso, al destino o alla provvidenza. L’etica era
quindi etica del qui e ora delle circostanze che si verificano tra gli uomini, delle situazioni
ricorrenti caratteristiche della vita privata e pubblica. L’uomo probo era colui che affrontava
queste circostanze con virtù e saggezza, coltivando queste capacità in se stesso e
rassegnandosi per il resto all’ignoto.
Tutte le prescrizioni e le massime dell’etica tradizionale, pur nella loro
fondamentale diversità, appaiono limitate a questa immediata definizione dell’azione,
«Ama il tuo prossimo come te stesso»; «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto
a te»; «Insegna a tuo figlio la via della verità»; «Persegui l’eccellenza sviluppando e attuando
le potenzialità più elevate del tuo essere in quanto uomo»; «Subordina il tuo bene
individuale al bene comune»; «Non trattare mai il tuo prossimo soltanto come un mezzo,
ma sempre anche come un fine in sé» — e così via. Si osservi che in tutte queste massime
colui che agisce e l’«altro» rispetto al suo agire condividono un presente comune, coloro che
vivono nel mio tempo e che sono in rapporto con me ad avere un diritto sulla mia condotta
nella misura in cui essa influisce su di loro con i fatti o le omissioni. L’universo dell’etica è
costituito dai contemporanei e il suo orizzonte, volto al futuro, è limitato dall’arco
prevedibile delle loro vite. Altrettanto limitato è l’orizzonte del luogo in cui colui che agisce
e l’altro si incontrano come prossimo, amico o nemico, come superiore e sottoposto, come
più debole e più forte, e in tutti gli altri ruoli in cui gli esseri umani interagiscono tra loro.
Tutta la moralità era conformata a questo campo d’azione immediato.
3. Da ciò consegue che la conoscenza necessaria — oltre al volere morale —per garantire la
moralità dell’azione, era conforme a queste limitazioni; non era la conoscenza dello
scienziato o dell’esperto, ma un genere di conoscenza immediatamente accessibile a tutti gli
uomini di buona volontà. Kant arrivò ad affermare che «in sede morale la ragione umana
può essere facilmente portata, anche nell’intelletto più comune, a grande esattezza e
perfezione»; che «non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare
per essere onesti e buoni, e persino saggi e virtuosi ... [L’intelligenza comune] può sperare
di cogliere nel segno quanto può riprometterselo in ogni caso il filosofo»; e ancora: «Non ho
dunque bisogno di grande perspicacia per sapere cosa debbo fare affinché la mia azione sia
moralmente buona. Inesperto dell’andamento delle cose, incapace di far fronte a tutto ciò
che accade», posso tuttavia sapere in che modo agire in conformità con la legge morale.
E vero che non tutti i pensatori interessati all’etica hanno sminuito tanto l’importanza
dell’aspetto cognitivo dell’agire morale. Ma anche quando a esso è stato dato molto più
rilievo, come in Aristotele, in cui la percezione della situazione e di ciò che è appropriato
per essa esige un’esperienza e un discernimento notevoli, tale conoscenza non ha nulla a
che fare con il sapere oggettivo. Ovviamente, essa implica un concetto generale del bene
dell’uomo “in quanto tale, un concetto basato sulle presunte costanti della natura e della
condizione umane, che può trovare o no espressione in una teoria propria. Ma la sua
traduzione nella prassi richiede una conoscenza del qui e ora e questa è del tutto on
teoretica. Questa «conoscenza» peculiare della virtù (del «dove, quando, in rapporto a chi e
come») rimane confinata all’occasione immediata, nel cui contesto definito si svolge e si
conclude l’azione come azione dell’agente. Se l’azione sia buona o cattiva viene deciso
interamente in quel contesto limitato.
4. Tutto questo è decisamente cambiato. La portata, gli obiettivi e le conseguenze dell’azione
determinati dalla tecnologia moderna sono così nuovi che l‘etica precedente non è più in
grado di abbracciarli. Oggi, il coro dell’Antigone sulle portentose capacità dell’uomo
dovrebbe essere letto in modo differente; e la sua ammonizione all’individuo perché rispetti
le leggi della terra non sarebbe più sufficiente. Certo, le vecchie prescrizioni dell’etica del
«prossimo» — sulla giustizia, la carità, l’onestà e così via — sono ancora valide, per la loro
immediatezza, nella sfera più prossima, quella quotidiana dell’interazione tra gli uomini.
Ma questa sfera è eclissata dall’estendersi dell’ambito dell’agire collettivo, in cui l’attore,
l’azione e l’effetto non sono più gli stessi; un ambito estremamente potente, capace di
imporre all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai immaginata prima.
Prendiamo, per esempio, quale primo, importante mutamento nel quadro
tradizionale, la vulnerabilità critica della natura a causa delle iniziative della tecnica umana
— insospettata prima che cominciasse a manifestarsi con l’evidenza dei suoi danni. Questa
scoperta, così sorprendente da condurre al concetto e alla nascita dell’ecologia, modifica
addirittura la concezione che abbiamo di noi stessi come elemento causale nel più ampio
sistema delle cose. Mediante le sue conseguenze, essa rivela che la natura dell’agire umano
è de facto mutata, e che un oggetto di ordine completamente nuovo — nientemeno che
l’intera biosfera del pianeta si è aggiunto a quelli di cui siamo responsabili a causa del nostro
potere su di essi. Un oggetto di importanza incomparabile, tale da far apparire insignificanti
tutti gli oggetti precedenti dell’agire umano! La natura come responsabilità umana è
certamente un novum su cui riflettere nell’ambito dell’etica. Che genere di obbligo agisce in
essa? E’ in gioco più di un interesse utilitaristico? E’ davvero la prudenza a suggerirci di non
uccidere la gallina dalle uova d’oro, o di non segare il ramo su cui siamo seduti? Ma il «noi»
che siede qui e che può cadere nell’abisso è l’intera umanità futura, e la sopravvivenza delle
specie è più di un dovere dei suoi membri attuali dettato da prudenza. Nella misura in cui
è il destino dell’uomo, in quanto influenzato dalla condizione della natura, a indurci a
preoccuparci della salvaguardia della natura, certamente tale preoccupazione è ancora
l’espressione del carattere antropocentrico di ogni etica classica. Anche così, la differenza è
grande, la limitazione dell’agire alla prossimità e alla contemporaneità non è più possibile,
spazzata via dall’espansione spaziale e temporale delle sequenze di causa ed effetto che la
tecnica stabilisce via via, anche quando vengono avviate per fini immediati. La loro
irreversibilità insieme alla loro ampiezza aggregata determina un altro fattore di novità
nell’equazione morale. A questo si aggiunge il loro carattere cumulativo; le loro
conseguenze si sommano, e la situazione dell’agire e dell’essere che ne conseguono si
differenzia sempre più da quella in cui si trova il primo agente. In questo modo,
l’autopropagazione cumulativa del mutamento tecnologico del mondo trascende le
condizioni degli atti che a esso contribuiscono, e passa soltanto attraverso situazioni che non
hanno precedenti, rispetto alle quali l’esperienza non insegna nulla. E non ancora paga della
sua trasformazione, del fatto di essere diventata irriconoscibile rispetto a ciò che era
all’inizio, l’accumulazione in quanto tale può distruggere la base dell’intera sequenza, la
condizione stessa della sua esistenza. A tutto questo dovrebbe tendere, in egual misura, la
volontà della singola azione, se questa dev’essere moralmente responsabile. Ad essa
l’ignoranza non fornisce più un alibi.
In queste circostanze, la conoscenza diventa un dovere impellente più di quanto lo sia
mai stata in precedenza, e dev’essere commisurata alla gerarchia causale del nostro agire. Il
fatto stesso che questo non sia possibile, e cioè che la conoscenza predittiva sia in ritardo
rispetto alla conoscenza tecnica che alimenta la nostra capacità di agire, acquista importanza
etica. Il riconoscimento dell’ignoranza diventa complementare al dovere di conoscere e, di
conseguenza, diventa parte dell’etica che deve guidare l’ancor più necessaria autogestione
del nostro smisurato potere. Nessun’etica precedente doveva tener conto della condizione
globale della vita umana e del futuro più remoto, perfino della sopravvivenza della specie.
Il fatto che ora questi costituiscano quesiti di fondo, esige, in breve, una nuova concezione
dei diritti e dei doveri, per cui l’etica e la metafisica tradizionali non forniscono nemmeno i
principi, per non parlare di una dottrina compiuta.
E se la nuova modalità dell’agire umano implicasse che non si può tener conto soltanto
dell’interesse dell’uomo — che il nostro dovere va oltre, e che l’antropocentrismo riduttivo
dell’etica precedente non tiene più? Perlomeno, non è più insensato chiedersi se la
condizione della natura extra umana, la biosfera nel suo insieme e nelle sue singole parti,
ora ridotta in nostro potere, sia stata affidata all’uomo e abbia una sorta di pretesa morale
su di noi, non solo per il nostro ulteriore interesse, ma per sé stessa e nel suo stesso diritto.
Se così fosse, occorrerebbe ripensare a fondo i principi fondamentali dell’etica. Questo
vorrebbe dire ricercare non solo il bene dell’uomo ma anche il bene delle cose extraumane,
cioè estendere il riconoscimento dei «fini in sé” al di là della sfera dell’uomo e fare in modo
che il bene dell’uomo includa la responsabilità per tali fini. Nessun etica precedente ci ha
preparati a questo ruolo di tutela – e ancora meno la visione dominante, scientifica della
Natura. Dovremmo divenire consapevoli che le scienze naturali possono non avere il
monopolio di un discorso sulla Natura.
5. Tornando a considerazioni strettamente legate all’uomo, esiste un altro aspetto etico
relativo alla crescita della techne come ricerca che si estende al di là dei confini
pragmaticamente limitati delle epoche precedenti. Abbiamo scoperto che in passato la techne
costituiva un misurato tributo alla necessità, non la via che conduceva l’umanità a
perseguire l’obiettivo che si era scelta — uno strumento scarsamente adeguato al
perseguimento di fini immediati ben precisi. Oggi, la techne, nella forma della moderna
tecnologia, si è trasformata in una inesauribile spinta in avanti della specie, nella sua
impresa più significativa; il suo progresso illimitato, in direzione di mete sempre più
elevate, tende a essere identificato con la vocazione dell’uomo, e la sua conquista di un
controllo totale sulle cose e sull’uomo stesso appare come il compimento del suo destino.
Pertanto il trionfo dell’homo faber sul suo oggetto esterno significa anche il trionfo della
struttura interna dell’homo sapiens, di cui egli era solo una parte sussidiaria. In altri termini
la tecnologia indipendentemente dalle sue relazioni oggettive, assume rilevanza etica in
virtù del posto centrale che essa ora occupa nel disegno dell’uomo. La sua creazione
cumulativa, l’espandersi dell’ambiente artificiale rafforza continuamente le particolari
capacità umane che l’hanno generata, rendendo inevitabile un loro ininterrotto impiego
creativo nella sua gestione e nel suo ulteriore progresso, e offrendo loro in cambio altri
successi — che possono solo aumentarne la pretesa inesorabile. Questo feedback oggettivo
in cui la necessità funzionale e i risultati si rafforzano reciprocamente (un feedback della cui
dinamica, non dimentichiamolo, fa parte l’orgoglio per il risultato conseguito) assicura la
crescente supremazia di una parte della natura umana su tutte le altre e, inevitabilmente, a
scapito di queste. Se nulla attrae come il successo, nulla è insidioso come il successo. Più
seducente e dispendioso di qualsiasi altra cosa faccia parte dell’uomo nella sua interezza,
l’espandersi del suo potere si accompagna a una contrazione dell’immagine che egli ha di
sé e del suo essere. Nell’immagine che ha di sé — quella potente autorappresentazione che
determina il suo essere reale non meno di quanto lo rifletta — l’uomo è ora sempre più
l’artefice di ciò che ha fatto e che può fare e soprattutto colui che stabilisce ciò che sarà in
grado di fare. Ma non si tratta di me o di voi, si tratta della totalità degli uomini, non del
singolo artefice o dell’azione individuale; e l’indeterminatezza del futuro piuttosto che il
contesto contemporaneo dell’azione costituisce l’orizzonte rilevante di responsabilità.
Questo richiede un nuovo tipo di imperativi. Se la sfera del fare ha invaso lo spazio vitale
dell’azione, allora la moralità non può che invadere la sfera del fare, da cui si era in passato
tenuta a distanza e questo nella forma dell’intervento pubblico. L’azione pubblica non si è
mai trovata a doversi occupare di questioni così complesse e così lontane nel tempo. In
realtà, la diversa natura dell’agire umano cambia la natura stessa della politica.
—
Infatti il confine tra «città» e «natura» è stato cancellato; la città degli uomini, un tempo una
nicchia nel mondo extraumano si estende all’intera natura terrestre e ne usurpa il posto. La
differenza fra naturale e artificiale è svanita. Il naturale viene inghiottito nella sfera
dell’artificiale e al tempo stesso la totalità degli artefatti, le opere dell’uomo che influiscono
su di lui e mediante lui, genera una propria natura», cioè, una necessità con cui la libertà
umana deve confrontarsi in un senso completamente nuovo. Un tempo si poteva dire: Fiat
justitia, pereat mundus, «Sia fatta giustizia, e possa il mondo perire» —laddove «mondo»
significa ovviamente l’enclave rinnovabile nel tutto imperituro. Una cosa simile non può
essere più affermata neppure in senso retorico quando la distruzione totale dovuta alle
azioni dell’uomo — siano esse giuste o inique — è diventata una possibilità reale. Questioni
regolate dalla legge entrano nel corpus delle leggi che la città totale deve darsi perché ci sia
un mondo perle generazioni a venire.
Il fatto che in futuro dovrebbe esistere un simile mondo abitabile dall’uomo, e che questo
mondo dovrebbe essere in futuro abitato da un’umanità degna di questo nome, può essere
facilmente riconosciuto come un assioma generale o come un auspicio convincente
dell’immaginazione speculativa (tanto convincente e indimostrabile quanto l’affermazione
secondo cui è «meglio» che ci sia un mondo qualunque piuttosto che nessuno); ma in quanto
affermazione morale, cioè in quanto obbligo di carattere pratico nei confronti dei posteri di
un lontano futuro e in quanto principio di decisione nell’azione attuale, esso è del tutto
diverso dagli imperativi dell’etica precedente della contemporaneità; ed è comparso sulla
scena morale solo in virtù delle nostre nuove e ampie capacità di prescienza.
La presenza dell’uomo nel mondo era stata un dato basilare e indiscutibile, da cui aveva
tutto origine l’idea dell’obbligo nel comportamento dell’uomo. Ora, essa è diventata un,
oggetto dell’obbligo — e precisamente dell’obbligo di assicurare il presupposto stesso di
ogni obbligo, e quindi l’appiglio per un universo morale nel mondo fisico – il fatto che
possano esistere dei candidati per un ordine morale. La differenza che questo comporta
rispetto all’etica può essere illustrata con un esempio.
6. L’imperativo categorico di Kant diceva: “Agisci soltanto secondo quella massima
mediante la quale tu puoi, nello stesso tempo, volere che essa divenga una legge
universale”. Il «puoi» qui evocato è quello della ragione e della sua coerenza con se stessa;
data l’esistenza di una comunità di attori umani (di esseri razionali che agiscono), l’azione
deve poter essere concepita, senza antinomie, come una pratica generale di quella comunità.
Si noti che qui la riflessione fondamentale della morale non è morale, ma logica; l’«io posso
volere», come l’«io non posso volere», esprime compatibilità o incompatibilità logica, non
approvazione o ripulsa morale. Ma non c’è alcuna contraddizione nell’idea che l’umanità
un giorno finirà, e quindi neppure nell’idea che la felicità delle generazioni attuali e di quelle
immediatamente seguenti sarà acquistata al prezzo dell’infelicità e persino della scomparsa
di quelle future — così come, dopo tutto, non c’è contraddizione nell’idea opposta che
l’esistenza o la felicità delle generazioni future sarà acquistata al prezzo dell’infelicità o
addirittura della parziale estinzione di quelle attuali. Il sacrificio del futuro a vantaggio del
presente non è da un punto di vista logico più contestabile del sacrificio del presente a
vantaggio del futuro. La differenza consiste soltanto nel fatto che in un caso la serie
continua, e nell’altro no. Ma il fatto che essa dovrebbe continuare, indipendentemente da
come si distribuisce la felicità o l’infelicità, anche con una continua prevalenza dell’infelicità
sulla felicità, o addirittura dell’immoralità sulla moralità — non può essere dedotto dalla
regola della coerenza interna della serie, lunga o breve che sia; si tratta di una prescrizione
di tipo molto diverso, esterna e “precedente” a essa, e il suo fondamento ultimo può essere
soltanto metafisico.
Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e retto al nuovo tipo di soggetto
agente potrebbe suonare così: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano
compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana»; oppure, tradotto in
negativo: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione non distruggano la possibilità
futura di una vita siffatta”; oppure, semplicemente: «Non compromettere le condizioni tu
una permanenza illimitata dell’umanità sulla terra»; oppure, più in generale: «Nelle tue
scelte attuali includi la futura integrità dell’Uomo tra gli oggetti della tua volontà. È
immediatamente evidente che la violazione di questo tipo di imperativo non comporta
alcuna contraddizione razionale. Io posso volere il bene attuale sacrificando il bene futuro.
È anche evidente che il nuovo imperativo si rivolge all’azione pubblica, e non alla condotta
privata, che è esterna alla dimensione causale in cui quell’imperativo ha valore.
L’imperativo categorico di Kant era diretto all’individuo, e il criterio a cui si informava era
immediato. Esso imponeva a ciascuno di noi di considerare ciò che sarebbe successo se la
massima della nostra azione attuale fosse diventata il principio di una legislazione
universale o se già lo fosse stata; la coerenza o l’incoerenza di una tale ipotetica
universalizzazione diventa il banco di prova della nostra scelta privata. Ma questo
ragionamento non accennava alle probabilità che la nostra scelta privata divenisse davvero
legge universale, o che potesse favorire questa trasformazione. L’universalizzazione è un
experimentum mentis dell’attore privato, diretto a verificare la moralità immanente della
sua azione. In realtà le conseguenze vere e proprie non vengono considerate affatto, e il
principio non è quello della responsabilità oggettiva, ma del carattere soggettivo della
propria autodeterminazione. Il nuovo imperativo chiama in causa una coerenza diversa;
non quella dell’atto con se stesso, ma quella dei suoi effetti ultimi con la permanenza
dell’agire umano in futuro. E «l’universalizzazione» che contempla non è affatto ipotetica –
cioè uno spostamento puramente logico dall’«io» individuale a un «tutti» immaginario,
senza alcun rapporto di causalità («Se tutti agissero in questo modo»); al contrario, le azioni
soggette al nuovo imperativo le azioni della collettività — hanno quale riferimento
universale l’ambito reale della loro efficacia; esse acquistano il carattere della «totalità» con
l’aumentare della loro portata e così sono destinate a incidere profondamente sull’ordine
universale delle cose. Questo aggiunge al calcolo morale un aspetto temporale che era del
tutto assente dall’operazione logica immediata dell’imperativo kantiano; mentre
quest’ultimo procede per estrapolazioni in un ordine sempre presente di compatibilità
astratta, il nostro imperativo procede per estrapolazioni in un futuro reale e prevedibile che
costituisce la dimensione teologicamente aperta della nostra responsabilità.
7. Si potrebbero fare confronti analoghi con tutte le altre forme storiche dell’etica della
contemporaneità e dell’immediatezza. La nuova forma dell’agire umano esige un’etica della
previsione e della responsabilità adeguata, altrettanto nuova quanto i problemi che deve
affrontare. Abbiamo visto che si tratta dei problemi posti dalle opere dell’homo faber
nell’epoca della tecnologia. Ma non abbiamo ancora accennato alla categoria
potenzialmente più minacciosa e sinistra di queste nuove opere. Abbiamo considerato la
techne soltanto nelle sue applicazioni nell’ambito non umano. Ma l’uomo stesso è diventato
uno degli oggetti della tecnologia. L’homo faber si volge a se stesso ed pronto a trasformarsi
nell’artefice di tutto il resto. Questo compimento del suo potere, che preannuncia
verosimilmente la sopraffazione dell’uomo, questo soggiogamento finale della natura da
parte dell’artificio, fa appello alle ultime risorse del pensiero etico, che non si è mai trovato
di fronte alla possibilità di scegliere delle alternative a quelli che venivano considerati i limiti
definiti della condizione umana.
a) Consideriamo, per esempio, il più fondamentale di questi «dati», la mortalità dell’uomo.
Chi mai prima si era trovato nella necessità di decidere quale durata della vita desiderare e
scegliere? Non c’era alcunché da scegliere circa il limite superiore, «settant’anni, ottanta per
i più robusti» (Salmo 90). La legge inesorabile della mortalità era oggetto di rammarico, di
rassegnazione o di vani (per non dire ridicoli) sogni-desideri di possibili eccezioni — ma
stranamente, non veniva quasi mai accettata in quanto tale.
Ma, ultimamente, la scura nube dell’ineluttabilità sembra dissolversi. Certi risultati positivi
ottenuti nel campo della biologia cellulare infondono la speranza concreta di prolungare,
forse di estendere all’infinito la durata della vita, mediante la neutralizzazione dei processi
biochimici dell’invecchiamento. La morte non appare più come una necessità insita nella
natura della vita, ma come una disfunzione organica evitabile, sulla quale, almeno in teoria,
è possibile intervenire e che può essere ritardata. L’eterno desiderio dell’uomo mortale
sembra vicino a essere soddisfatto. E per la prima volta dobbiamo chiederci seriamente
«Quanto è desiderabile tutto questo? Quanto è desiderabile per l’individuo, e quanto per la
specie?» Questi interrogativi implicano questioni come il senso autentico della nostra
finitudine, l’atteggiamento nei confronti della morte e l’importanza dell’equilibrio tra morte
e procreazione dal punto di vista generale della biologia. Ancor prima di queste questioni
fondamentali vengono quelle più pragmatiche sulla scelta delle persone a cui offrire tale
vantaggio, persone dotate di qualità e meriti particolari? Persone socialmente eminenti? Chi
può comprarselo? Tutti? La linea giusta sembrerebbe quest’ultima. Ma ci sarebbe un
contraccolpo negativo all’estremo opposto, alla fonte. Infatti, è chiaro che, su larga scala, il
prezzo della longevità dev’essere un rallentamento proporzionale nell’avvicèndamento
delle generazioni, cioè un afflusso minore di nuova vita.
Consideriamo il caso estremo (che, peraltro, non si realizzerà mai): se abolissimo la morte
dovremmo abolire anche la procreazione, perché quest’ultima è la risposta della vita alla
prima; di conseguenza avremmo un mondo di anziani, senza più giovani, e un mondo di
persone conosciute, senza più la sorpresa costituita da coloro che in precedenza non
esistevano. Ma forse è proprio questa la saggezza insita nella dura legge della nostra
moralità; il fatto che essa adempie alla promessa eternamente rinnovata della freschezza,
immediatezza ed entusiasmo della gioventù, oltre a garantirci la diversità in quanto tale.
Non vi è alcun surrogato di ciò nella maggiore accumulazione di un’esperienza prolungata;
questa non potrà mai riconquistare lo straordinario privilegio di vedere il mondo per la
prima volta e con nuovi occhi; non potrà mai riprovare lo stupore da cui, secondo Platone,
trae origine la filosofia, né la curiosità del bambino, che piuttosto di rado continua a vivere
come sete di conoscenza nell’adulto, fino a che anche lì non viene meno. Questo inizio,
sempre ripetuto, che si ottiene soltanto al prezzo di una fine sempre ripetuta, può essere
verosimilmente la speranza dell’umanità, ciò che può impedirle di scivolare nella noia e
nella routine, la sua opportunità di conservare la spontaneità della vita. Occorre anche
riflettere sul ruolo del memento mori nella vita dell’individuo, e su ciò che la sua
attenuazione, fino all’indefinitezza, può comportare per essa. Forse un limite non
negoziabile per il tempo che ci aspetta è necessario per ognuno di noi come incentivo per
contare i nostri giorni e per farli contare.
Di conseguenza, ciò che per sua natura è un dono benefico della scienza all’uomo, il parziale
esaudimento del suo desiderio più antico — sfuggire alla maledizione della morte — finisce
per danneggiare l’uomo. Non intendo fare il profeta, né, a dispetto della mia evidente
inclinazione, esprimere dei giudizi. La mia opinione è che già il dono promesso solleva delle
questioni che non sono mai state poste prima in termini di scelta concreta, e che nessuno dei
principi dei sistemi morali precedenti, che desse per scontata l’esistenza di elementi costanti
nell’uomo, è in grado di affrontarle. Eppure, esse devono essere affrontate in modo etico in
base a dei principi, e non semplicemente sotto la spinta dell’interesse.
b) Lo stesso può dirsi per tutte le capacità quasi utopiche che stanno per rendersi disponibili
grazie ai progressi della scienza biomedica, nel momento in cui si traducono in tecnologia.
Fra queste il controllo del comportamento è molto più vicino alla realizzazione pratica del
quadro ancora ipotetico a cui accennavo sopra e le questioni etiche che solleva sono molto
meno profonde, ma hanno un riferimento più diretto alla condizione morale dell’uomo.
Ancora una volta, il nuovo tipo di intervento trascende le vecchie categorie etiche. Esse non
hanno preparato a esercitare, per esempio, un controllo sulla mente con mezzi chimici o con
la stimolazione elettrica diretta del cervello mediante l’impianto di elettrodi — un controllo
giustificato, si suppone, da scopi legittimi e persino lodevoli. La commistione di potenzialità
benefiche e pericolose è evidente, ma non è facile porre dei limiti. Sollevare i malati mentali
dalla prostrazione e liberarli dai sintomi inibenti sembra inequivocabilmente benefico. Ma
dall’alleviare le sofferenze del malato un obiettivo del tutto in armonia con la tradizione
della medicina, al sollevare la società dal disagio di un comportamento individuale
problematico da parte dei suoi membri, il passo è breve; si tratta del passaggio
dall’applicazione medica a quella sociale; e questo schiude un campo indefinibile, con
potenzialità inquietanti.
Indipendentemente dal problema della coercizione o del consenso, e anche dal problema
degli effetti collaterali indesiderati, tutte le volte che noi evitiamo di affrontare problemi
umani in modo umano mettendo in atto un meccanismo impersonale, perdiamo un po’ della
nostra dignità e individualità e compiamo un passo in avanti verso i sistemi di
programmazione del comportamento, allontanandoci dalla condizione di individui
responsabili. Il funzionalismo sociale, per quanto importante, è solo un aspetto della
questione. Decisivo è il tipo di individui che compongono la società, rendere l’esistenza
della società preziosa nell’insieme. In qualche punto, lungo la linea del controllo crescente
della società, a cui corrisponde la perdita progressiva dell’autonomia individuale, deve
porsi la questione della mancanza di valore dell’impresa umana. Affrontandola, evochiamo
l’immagine dell’uomo a cui ci sentiamo vincolati. Dobbiamo ripensarla alla luce di ciò che
oggi possiamo fare a essa e che non avremmo mai potuto fare prima.
Questo vale in misura ancora maggiore rispetto all’ultimo oggetto di una tecnologia
applicata all’uomo stesso - il controllo genetico di uomini futuri. L’argomento è troppo vasto
perché possa essere affrontato in modo sbrigativo. Qui mi limiterò a segnalare questo
ambiziosissimo sogno dell’Homo faber che si riassume nel fatto che l’uomo vorrebbe
acquistare il controllo della propria evoluzione non solo allo scopo di preservare l’integrità
della specie, ma anche di modificarla perfezionando il proprio disegno Se abbiamo il diritto
di farlo, se abbiamo i requisiti necessari per assumere questo ruolo creativo, è la questione
più seria che possa porsi a un uomo che si trovi improvvisamente a disporre di tali fatidiche
capacità. Chi creerà le nuove immagini? Con quali criteri? Sulla base di quale conoscenza?
Inoltre, dev’essere affrontata la questione del diritto morale di compiere esperimenti sui
futuri esseri umani. Queste domande, a cui occorre dare una risposta prima di intraprendere
un viaggio nell’ignoto, mostrano con estrema chiarezza come la nostra capacita di agire ci
stia spingendo oltre i confini di tutti i sistemi morali precedenti.
8. Il tratto, significativo dal punto di vista etico, comune a tutti gli esempi citati è ciò che
chiamerei la tendenza intrinsecamente «utopica» delle nostre azioni sotto l’influenza della
moderna tecnologia, sia che essa agisca sulla natura umana o non umana, e sia che
l’«utopia» situata alla fine del percorso sia stata pianificata o no. Dati il genere e la portata
dei suoi effetti a catena, il potere tecnologico ci spinge in direzione di un tipo di obiettivi che
in passato erano peculiari alle utopie. In altri termini, il potere tecnologico ha trasformato
quelli che solitamente erano, e dovrebbero essere, giochi sperimentali, forse illuminanti,
della ragione speculativa, facendone dei progetti in concorrenza tra loro, e quando
scegliamo tra gli uni e gli altri, scegliamo tra i casi estremi di conseguenze remote. L’unica
cosa che possiamo davvero conoscere ditali conseguenze è il loro carattere estremo — il fatto
che esse riguardano la condizione complessiva della natura sul nostro pianeta e il tipo di
creature che la devono popolare. In conseguenza dell’inevitabile dimensione «utopica»
della tecnologia moderna, la distanza salutare tra questioni comuni e questioni .ultime, tra
l’esercizio di una normale prudenza e quello di una saggezza illuminata, si riduce
continuamente. Poiché ora viviamo costantemente all’ombra di un utopismo che non
abbiamo scelto, profondamente radicato, automatico, siamo costantemente posti di fronte a
questioni su cui potremmo decidere con sicurezza solo possedendo un’enorme saggezza —
una situazione irrealistica per l’uomo in generale, perché egli non possiede tale saggezza, e
in particolare per l’uomo contemporaneo, che nega l’esistenza stessa del suo scopo, cioè, il
valore e la verità oggettivi. Abbiamo soprattutto bisogno di saggezza quando crediamo
meno in essa.
Se dunque la nuova natura del nostro agire esige una nuova etica della responsabilità —
una responsabilità ampia, che arriva in dove arrivano le nostre capacità — essa esige anche,
in nome di quella stessa responsabilità, un nuovo genere di umiltà — un’umiltà che, a
differenza di quella precedente, non è dovuta alla limitatezza ma all’ampiezza eccessiva
delle nostre capacità, cioè alla preminenza della nostra capacità di agire su quella di
prevedere, valutare e giudicare. Di fronte alle possibilità quasi escatologiche degli attuali
processi della tecnica il fatto stesso di non conoscerne le conseguenze ultime diventa una
ragione per stabilire con responsabilità dei limiti — ciò che è secondo solo a possedere la
saggezza.
Vale la pena ricordare un altro aspetto della nuova etica della responsabilità per un futuro
lontano: l’incapacità del governo rappresentativo di far fronte alle nuove esigenze sulla base
del suo funzionamento e dei suoi principi normali. Secondo questi ultimi, solo gli interessi
attuali fanno udire la loro voce e sentire il loro peso, esigendo considerazione. È di tali
interessi che le istituzioni pubbliche devono tener conto, ed è questo il modo in cui si
produce il rispetto concreto dei diritti e non solo il loro riconoscimento astratto. Ma il futuro
non è rappresentato, non è una forza che possa giocare un ruolo determinante. Ciò che non
esiste non ha una lobby e coloro che non sono ancora nati non hanno alcun potere.
Questa responsabilità verso di loro non si fonda su alcuna realtà politica nell’attuale
processo decisionale, e quando essi ci accuseranno, noi, gli imputati, non ci saremo più.
Ciò ripropone in termini radicali l’antica questione del potere del saggio, ovvero della forza
delle idee libere dall’interesse personale, nel corpo politico. Quale forza deve rappresentare
il futuro nel presente? Comunque, prima che tale questione possa diventare un problema
concreto, la nuova etica deve trovare la sua teoria, in base alla quale possa essere deciso ciò
che si deve e non si deve fare. Vale a dire: prima della questione, della forza viene il
problema della capacità intuitiva e del valore conoscitivo che possa rappresentare il futuro
nel presente.
9. Ed ecco dove mi areno, e dove tutti si arenano. Infatti, proprio lo stesso movimento che ci
ha dotato delle capacità che ora devono venir regolate da norme — il movimento del sapere
moderno chiamato scienza — ha eroso, in modo complementare e ineluttabile, i fondamenti
da cui queste norme dovrebbero derivare; anzi, ha distrutto l’idea stessa di norma.
Fortunatamente, non il senso normativo, neppure rispetto a norme particolari. Ma questo
senso vacilla quando un sedicente sapere lo contraddice, o anche soltanto quando gli sottrae
ogni forza normativa. In ogni caso, si trova sempre in difficoltà di fronte al vigore della
cupidigia e della paura. Ora, deve anche arrossire per la vergogna davanti al cipiglio della
superiore conoscenza, in quanto privo di fondamenti e incapace di crearne. In un primo
tempo, fu la Natura a essere «neutralizzata» rispetto al valore, poi anche l’uomo stesso. Ora,
noi rabbrividiamo nella nudità di un nichilismo in cui la condizione di quasi-onnipotenza
convive con quelli di quasi-vacuità, la più grande abilità con un sapere minimo. Per
l’importanza decisiva delle nostre azioni, quella conoscenza autentica che abbiamo perduto
è diventata più necessaria e urgente di quanto lo sia mai stata in ogni altro momento
dell’avventura dell’umanità. Ahimè! L’urgenza non assicura il successo! Al contrario,
bisogna ammettere che perseguire la saggezza, oggi, richiede una buona dose di stoltezza.
La natura stessa dell’epoca che ha tanto bisogno di una teoria etica fa sospettare una presa
in giro. Non possiamo fare altro che procedere per tentativi.
Si tratta di sapere se, evitando di reintrodurre la categoria del sacro, la categoria più
danneggiata dall’illuminismo scientifico, possiamo avere un’etica capace di esercitare un
controllo sulle enormi capacità che aumentano costantemente e di cui siamo quasi costretti
a far uso. Se si considerano queste conseguenze abbastanza imminenti da arrivare a colpirci,
può esercitare un controllo la paura – che è spesso il miglior surrogato di un’autentica virtù
o saggezza. a questo espediente ci impedisce di abbracciare prospettive più ampie, che qui
sono ciò che più conta, specialmente perché gli inizi sembrano perlopiù innocui nella loro
limitatezza. Soltanto il timore della trasgressione del sacro è indipendente dai calcoli della
paura terrena e dal conforto dell’incertezza di conseguenze remote. Ma la religione come
forza che forgia lo spirito non c’è più, e non può più essere chiamata in aiuto dell’etica.
Quest’ultima deve reggersi sulle sue basi mondane — cioè, sulla ragione e sulla propria
forza filosofica. E mentre della fede si può dire che c’è o non c’è, si ritiene che l’etica debba
esserci.
Dev’esserci perché gli uomini agiscono, e l’etica serve a mettere ordine nelle azioni e a
regolare il potere di agire. Quindi, è tanto più necessaria quanto più grandi sono le capacità
di agire che devono essere regolate; infine, il principio ordinatore deve essere adatto, oltre
che alla loro ampiezza, al loro genere. Pertanto, le nuove capacità di agire esigono nuove
regole etiche e forse anche una nuova etica.
Il comandamento «Non uccidere» è stato formulato perché l’uomo ha la capacità di uccidere
e spesso l’occasione per farlo e perfino la propensione a farlo. Soltanto sotto la pressione di
vere e proprie abitudini rispetto all’agire e, in generale, del fatto che l’azione ha luogo
sempre senza che debba esserci prima un ordine, entra in scena l’etica come regola di tale
agire, fondata sull’idea del bene o di ciò che è consentito. Tale pressione deriva dalle nuove
capacità tecnologiche dell’uomo, che possono essere esercitate dal momento stesso in cui
vengono acquisite. Se davvero esse sono così nuove come si sostiene qui e se a causa delle
loro possibili conseguenze esse davvero hanno abolito la neutralità morale di cui hanno
finora goduto le relazioni della tecnica con la materia, allora la loro pressione impone di
ricercare nuove prescrizioni etiche capaci sì di assumere la loro guida, ma innanzitutto di
opporre la propria validità teorica a quella stessa pressione.
Traduzione di Giovanna Bettini