ACHAB Rivista di Antropologia 2005 numero IV Università degli Studi di Milano-Bicocca AChAB Rivista di Antropologia dell'Università di MilanoBicocca - Numero IV Redazione Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi Se volete collaborare con la Rivista inviando vostri articoli, oppure, contattare gli autori, scrivete a: [email protected] Ha collaborato Fabio Vicini Progetto Grafico Lorenzo D'Angelo Impaginazione Amanda Ronzoni Tiratura: 400 copie Non siamo riusciti a rintracciare i titolari del domino di alcune immagini utilizzate in questa rivista. Gli autori sono invitati a contattarci. *Immagine in copertina e a lato tratte da: www nationalgeographic.com *Immagine a pag. 19 tratta dal sito: www.capperi.net Visitate il sito www.studentibicocca.it/achab Gli articoli pubblicati in Achab non rispecchiano necessariamente il punto di vista della Redazione. In questo numero... 2 Claude Meillassoux di Fabio Viti 4 Antropologia sociale e storia dei processi etnogenetici nell'altomedioevo di Amalia Rossi 11 Dolori che migrano in corpi che ricordano. Congetture sulla fine di un rapporto terapeutico di Lorenzo D'Angelo 19 Il silenzio e la memoria. Riflessioni sulla memoria culturale fra i Roma di Paola Toninato 27 Retoriche dello sviluppo: da Harry Truman a Colin Powell di Paolo Borghi 31 Achab segnala... 33 Garden of Peace 1 Claude Meillassoux (1925 - 2005) di Fabio Viti Claude Meillassoux è morto a Parigi il 2 gennaio 2005. Antropologo e africanista, era nato a Roubaix il 26 dicembre 1925. Dopo aver compiuto studi di economia e scienze politiche, in Francia e negli Stati Uniti, e aver lavorato nel settore commerciale e finanziario (compreso nell'amministrazione del piano Marshall), era giunto all'antropologia relativamente tardi, in seguito al decisivo incontro con Georges Balandier. Sotto la direzione di Balandier aveva compiuto la sua prima ricerca sul campo in Costa d'Avorio (1958), dalla quale sarebbe scaturita la sua tesi di dottorato presso la VI sezione dell'Ecole Pratique des Hautes Etudes (1962), pubblicata due anni dopo con il titolo di Anthropologie économique des Gouro de Côte d'Ivoire. In questo importante lavoro, Meillassoux è stato il primo studioso a mettere in atto una antropologia economica di ispirazione marxista, ribadita un decennio più tardi nel suo lavoro forse più famoso, Femmes, greniers & capitaux (1975), più volte ristampato e tradotto in sei lingue. Da allora, il suo nome rimane legato all'applicazione del concetto di modo di produzione alle società di auto-sussistenza e alle innovative analisi sulla riproduzione sociale e sui fenomeni dello sfruttamento e della dominazione esercitati dagli anziani sulle donne e sui giovani all'interno delle comunità domestiche, abitualmente ritenute egualitarie. L'altro grande campo di ricerca di Claude Meillassoux è stato lo studio della schiavitù cosiddetta domestica, iniziato alla fine degli anni '60, quando questo tema era ancora avvolto nell'ombra, e culminato con il fondamentale Anthropologie de l'esclavage (1986), al tempo stesso studio storico e magistrale sintesi teorica. In questo saggio, anch'esso tradotto nelle principali lingue, Meillassoux presenta una teoria compiuta dello schiavo come anti-parente, nato dal ventre di ferro e di denaro, al quale si contrappone non la figura astratta del "libero", bensì quella dell'ingenuo, del co-generato, preso in una rete di dipendenze familiari multiple, che assicurano la sua protezione e inalienabilità. In quello che rimane il suo ultimo libro pubblicato, Mythes et limites de l'anthropologie. Le sang et les mots (2001), Claude Meillassoux si è impegnato inoltre in una revisione critica delle categorie della parentela e in particolare della nozione di consanguineità, contestando allo strutturalismo un approccio fondamentalmente ancora intriso di naturalismo. Entrato al CNRS nel 1963, vi ha svolto tutta la sua carriera, conseguendone anche la medaglia d'argento nel 1984. Lontano dai riflettori delle più note università e senza sostegni istituzionali, Meillassoux ha organizzato per anni seminari tematici di ricerca e discussione (i famosi "séminaires Meillassoux"), da cui sono scaturiti importanti volumi sulla schiavitù, la guerra, la colonizzazione, con la partecipazione dei migliori specialisti. L'impegno intellettuale e scientifico di Meillassoux, che si è rivolto principalmente all'Africa Occidentale (Costa d'Avorio, Mali e Senegal), ma anche al Sudafrica e all'India, agli Inuit e agli Inca, ha sempre coinciso con un preciso impegno politico, in particolare contro l'apartheid e lo sfruttamento neo-coloniale del sud del mondo, impegno e che lo aveva visto recentemente al fianco di immigrati e sans papiers, rappresentanti di un nuovo proletariato internazionale migrante, "riprodotto" a beneficio dell'Occidente in seno a quella comunità domestica che era stata l'oggetto dei suoi primi interessi. Fotografia di Claude Meillassoux a Siena. Chi scrive ha intrapreso il suo primo terreno in Costa d'Avorio, nel 1981, grazie a una lettera di Claude Meillassoux, latore Ugo Fabietti. Quel viatico così autorevole alla semplice richiesta di informazioni generiche di uno studente che non sapeva niente del terreno che incautamente si apprestava ad affrontare, dissolse gli ultimi dubbi e mi impegnò in una esperienza di cui avevo un'idea ancora molto vaga, come se la prestigiosa cauzione le accordasse un fondamento che per altri aspetti le faceva ancora del tutto 2 difetto. Complici forse le mode intellettuali del momento, nonché la sua posizione istituzionalmente appartata, non ho poi molto frequentato Meillassoux nei miei anni parigini, tra il 1985 e il 1991, anche se non mancavo mai di andarlo a sentire quando veniva invitato a parlare all'Ehess o nei diversi convegni e continuavo a leggere i suoi lavori. Solo più tardi avrei riscoperto i temi a lui più cari, la schiavitù, il commercio, la guerra, i rapporti di dominio, come se, passate le ventate più effimere, venisse spontaneo ritornare a quei luoghi, a quei grandi temi di fondo che, evidentemente, continuavano a covare in un angolo neanche tanto remoto, solo in apparenza accantonati. E insieme ai suoi temi è stato facile ritrovare il suo stile, sobrio, misurato ed essenziale, laddove domina troppo spesso la contorsione del verbo fine a se stessa. Allo stesso modo, è venuto del tutto naturale, preparando insieme ai colleghi più vicini un convegno del nostro gruppo di lavoro sui rapporti di dipendenza, pensare proprio a lui, come quando si vuole andare sul sicuro. Così, Claude Meillassoux aveva partecipato recentemente al convegno "La vita in prestito. Debito, dipendenza e lavoro" (Certosa di Pontignano, Siena, 24-26 settembre 2004). Piuttosto provato nel fisico ma sempre lucidissimo, aveva presentato una densa comunicazione sul debito di vita ("A qui doit-on la vie?"), nella quale coniugava i suoi interessi demografici più recenti con quelli legati alla produzione e alla riproduzione. Finito il convegno, l'avevo accompagnato a Firenze, dove si sarebbe trattenuto un altro giorno per una visita agli Uffizi, in cerca di opere del suo pittore preferito, il Pinturicchio. Claude Meillassoux ha lasciato un'opera importante ma incompiuta. Due volumi sono in attesa di pubblicazione (Anthropologie de case, t. 1; Anthropologie de salon, t. 2), mentre un terzo, a cui stava lavorando, è rimasto nel suo computer (La Bible sans Dieu). Con lui scompare uno studioso di fama internazionale, ancora molto attivo e coerentemente legato a una ispirazione marxista non dogmatica, per la quale aveva subito negli anni una progressiva emarginazione dagli ambienti intellettuali più alla moda. Non per questo il suo contributo a una antropologia critica sarà dimenticato. Bibliografia delle principali opere Meillassoux, C., "Essai d'interprétation du phénomène économique dans les sociétés traditionnelles d'auto-subsistance", Cahiers d'Etudes africaines, 1, 4, 1960: 38-67. Meillassoux, C., Anthropologie économique des Gouro de Côte d'Ivoire, Paris - La Haye, Mouton, 1964 (ristampa, Paris, Ehess, 1999). Doucoure, L., Meillassoux, C., Simagha, D., Légende de la dispersion des Kusa: épopée soninke, Dakar, Ifan, 1967. Meillassoux, C., Urbanization of an African Community: Voluntary associations in Bamako, Seattle, American Ethnology Society, University of Washington Press, 1968. Meillassoux, C., a cura di, The Development of Indigenous Trade and Markets in West Africa, London, Iai - Oxford University Press, 1971. Meillassoux, C., a cura di, Qui se nourrit de la famine en Afrique?, Paris, Maspero, 1974. Meillassoux, C. a cura di, L'esclavage en Afrique précoloniale, Paris, Maspero, 1975. Meillassoux, C., Femmes, greniers & capitaux, Paris, Maspero, 1975 (ristampa, Paris, L'Harmattan, 1992; trad. it., Donne, granai e capitali, Bologna, Zanichelli, 1978). Meillassoux, C., L'economia della savana. L'antropologia economica dell'Africa occidentale, a cura di P. Palmeri, Milano, Feltrinelli, 1975. Bathily, A., Meillassoux, C., Lexique Soninke (Sarakole) - Français, Dakar, Clad, 1976. Meillassoux, C., Terrains et théories, Paris, Anthropos, 1977 (ristampa, Lausanne, Page Deux, 1999). Meillassoux, C., Les derniers blancs: le modèle sud-africain, Paris, Maspero, 1979 (trad. it., Gli ultimi bianchi. Il modello sudafricano, Napoli, Liguori, 1982). Meillassoux, C., Anthropologie de l'esclavage. Le ventre de fer et d'argent, Paris, Puf, 1986 (trad. it., Antropologia della schiavitù, Milano, Mursia, 1992). Meillassoux, C., Messiant, C., a cura di, Génie social et manipulation culturelle en Afrique de l'apartheid, Paris, Arcantère, 1991. Gendreau, F., Meillassoux, C., Schlemmer, B., Verlet, B., a cura di, Les spectres de Malthus, Paris, Edi-Orstom, Ceped, 1991. Meillassoux, C., L'économie de la vie. Démographie du travail, Lausanne, Page Deux, 1997. Meillassoux, C., Mythes et limites de l'anthropologie. Le sang et les mots, Lausanne, Page Deux, 2001. Su Claude Miellassoux: Schlemmer, B., a cura di, Terrains et engagements de Claude Meillassoux, Paris, Karthala, 1998. 3 Antropologia sociale e storia dei processi etnogenetici nell'altomedioevo (secoli V-X) di Amalia Rossi Premessa: un curioso confronto interdisciplinare le quali producono, diffondono e custodiscono i testi e le tradizioni del gruppo, basando su tali repertori la legittimità del loro potere e la persistenza del nucleo originario attraverso i secoli. Questo parrebbe il tenore delle riflessioni di Smith e Armstrong: il primo, con il ripristino del concetto di etnia (etnie, dal francese, dato che in inglese il termine si presenta solo in forma di aggettivo, ethnic), si fa carico della risoluzione della tensione tra prospettive eraclitee (strumentaliste e moderniste) e parmenidee (sostanzialiste ed essenzialiste) dell'etnicità. Ciò significa che la sua riflessione si vorrebbe discostare tanto da coloro che professano l'esistenza delle etnie come realtà chiuse, astoriche e immutate al pari della definizione dell'Essere parmenideo, quanto dai teorici che, consapevoli del carattere processuale dell'etnicità, sottolineano il carattere contingente e l'uso strumentale e meramente politico delle classificazioni etniche e nazionali. Per Smith la definizione dell'appartenenza etnica non si sottrae alla storicità; tuttavia i caratteri dell'appartenenza di volta in volta esplicitati sarebbero parte di un corredo stabile nel tempo e appannaggio delle elites, vere protagoniste del processo di mantenimento della matrice etnica (occupazione di un territorio, difesa dei confini, condivisione di idiomi e costumanze, mitologia e universi simbolici comuni). E' possibile, sulla base di tale impostazione, ricucire i brandelli della storia delle etnie europee e di svelare l'intima connessione tra momenti storici apparentemente distanti, nel segno della continuità tra i fenomeni etnici del presente e quelli del passato. I frequenti revival etnici contemporanei sarebbero dunque spia di un legame etnico latente, il quale, dal punto di vista teorico, rende possibile riconnettere fasi storiche apparentemente inconciliabili: per fare qualche esempio, sulla base di tale prospettiva le sorti politiche del regno dei franchi possono essere considerate come momento propedeutico alla Francia di Robespierre (o meglio, a quella di Le Pen); l'Inghilterra di re Artù può venire riconnessa a quella dell'attuale nazionalismo antieuropeista; oppure l'organizzazione politica dei pastori baschi del X secolo può essere vista come la base storica da cui acquisterebbe legittimità il movimento indipendentista basco dei giorni nostri. É in gioco la chiara pretesa di de-biologizzare il discorso etnico, restituendogli contemporaneamente un quid perenne di significati simbolici e qualità politiche che contraddistingue un'etnie dall'altra. Il secondo studioso, Armstrong, anche se ispiratore del testo di Smith, in modo meno imprudente e più creativo escogita la definizione di mythomoteur, definito come un repertorio più o meno stabile di simboli, stereotipi e cliché identitari del gruppo etnico attivato e trasportato nel corso dei secoli dalle élites del gruppo, le quali, per propria natura rivestono l'importante ruolo di garanti della sua continuità, persistenza e compattezza nel tempo Il problema della formazione degli stati nazione europei costituisce un interessante spazio di riflessione entro cui il discorso storico e quello antropologico tendono a convergere, sviluppando un dibattito interdisciplinare ricco di suggestioni e volto, tra l'altro, a determinare le implicazioni teoretiche e gli usi legittimi del concetto di etnicità. Una folta schiera di antropologi, storici e sociologi, come B. Anderson, E. Hobsbown, T. Ranger, A. Cohen e E. Gellner, per citarne solo alcuni tra i più autorevoli del dibattito, sostengono che i movimenti nazionalistici a base etnica costituiscano dei fenomeni del tutto inediti nella storia europea, che siano contingenti e che scaturiscano da un uso strumentale delle categorie etniche a fini politici. I sostenitori di una tale impostazione, definiti modernisti e strumentalisti, ritengono dunque che non vi sia né possa esservi una continuità tra le finalità e i mezzi della conservazione e mobilitazione dell'identità etnica nei diversi periodi della storia. Tali impostazioni derivano da un atteggiamento costruttivista, che enfatizza la natura 'immaginata', 'fittizia' e 'costruita' delle formule etniche e dei loro derivati politico-ideologici, e poiché prendono le mosse dalla crisi dei paradigmi in auge prima degli anni sessanta sono apertamente avverse alle prospettive funzionalista e neo-positivista. L'oggetto dell'indagine non è tanto il gruppo etnico in sé, quanto le sue relazioni interne (tra i suoi membri) ed esterne (con altri gruppi, istituzioni ecc.). A tale insieme di prospettive altri studiosi come A. D. Smith e J. Armstrong contrappongono alcune teorie volte ad enfatizzare l'oggettività dell'appartenenza etnica (lingua, discendenza, condivisione del territorio, memoria di guerra ecc.) da cui prenderebbero forma nel tempo diverse forme di rivendicazione politica. In particolare l'esistenza stessa degli stati nazione, così come dei processi culturali e politici che hanno portato alla loro affermazione, sarebbero la continuazione di una progettualità politica sorta in concomitanza con la formazione dei regni etnici della tardoantichità. La ragione della periodica ricomparsa delle rivendicazioni etniche in chiave nazionalistica, in Europa come nel resto del mondo, andrebbe rintracciata nell'esistenza di nuclei stabili di trasmissioni di valori etnici legati alla interpretazione unidirezionale del materiale storiografico locale. I teorici in questione concentrano l'attenzione sulla capacità dei gruppi di conservarsi grazie alla stabilità delle componenti oggettive dell'appartenenza, come la condivisione di una stessa lingua, territorio, memoria, sistemi simbolici. I documenti e le fonti storiografiche, così come i materiali etnografici e le opere letterarie, vengono presi in esame in quanto testimonianze sincere e imparziali della storia e della vitalità del gruppo etnico. In quest'ottica un ruolo teorico fondamentale è assegnato alle élites, 4 e nello spazio. Secondo Poutignat e Streff-Feinart vi è così il rischio di compiere 'un giro del quadrante', ovvero di risostanzializzare i gruppi etnici, in aperta controtendenza rispetto alle acquisizioni di Frederick Barth (1969), che hanno reso possibile pensare i gruppi etnici come prodotti di relazioni sociali ed ambientali storicamente date e non come entità capaci di attraversare il tempo e lo spazio senza che ne venga scalfita la sostanziale unità e compattezza. Rappresenta quasi una curiosità il fatto che su tale punto siano indirettamente intervenute le più recenti riflessioni della storiografia contemporanea: le opinioni di Smith e Armstrong sono infatti state messe in discussione da W. Pohl, professore all'Accademia delle Scienze di Vienna ed esperto di questioni etniche nell'altomedioevo. Tale autore, attraverso l'analisi della complessa trama del panorama etnico tra il IV e il X sec. d.C., nega che nell'altomedioevo esistessero dei popoli compatti (franchi, germani, goti, burgundi, longobardi, sassoni ecc.), e dimostra come le identità del passato fossero ancora più fluide e manipolabili di quelle del presente, e che fondare la propria forza politica sull'idea di un origine ancestrale comune costituisce un'ottima strategia di cui spesso e volentieri ci si serve, tanto nel passato quanto nel presente. Come vedremo le istanze che portarono alla genesi dei regni etnici non erano ascritte agli individui ed ai gruppi seguaci del progetto politico dei vari capi, ma venivano accuratamente selezionate da chi vi prese in qualche modo parte in base ai vantaggi che tale posizione garantiva, ovvero secondo una logica relazionale, contingente e situazionale. In quest'ottica il tentativo di ricomporre un mythomoteur simbolico per dare giustificazione dell'esistenza oggettiva di un etnia e del suo periodico revival è ostacolato dalla frantumazione dei documenti e dei reperti storici in enunciati discutibili e aperti ad interpretazioni. Appare curioso che la proposta di Pohl fornisca una conferma del fatto che il passato di un presunto gruppo etnico sia vincolato al presente della nazione in funzione di un uso strumentale della memoria locale presente e non in virtù di una fantomatica ed immutata sostanza simbolica, come vorrebbero Armstrong e Smith. In alcuni suoi interventi in convegni e seminari tenuti in Italia (Venezia, febbraio 2001; Bologna, ottobre 2002; Spoleto, aprile 2004) Pohl avverte esplicitamente come la comprensione del passato sia indispensabile alla comprensione del presente, soprattutto in una fase di intense interdipendenze, come quelle che caratterizzano anche gli scenari contemporanei in una fase di globalizzazione. Lungo la trattazione saranno analizzati alcuni temi trasversali all'opera di Pohl e dei suoi colleghi, che permetteranno di capire come il sistema di interdipendenze europeo nel medioevo si basasse su dinamiche comparabili a quelle operanti nel mondo contemporaneo. Rappresenta una curiosità anche il fatto che gli stessi strumenti teorici corroborati dagli studi sociologici sulla contemporaneità migrino nell'area disciplinare della storia medievale, i cui esperti sopperiscono alla carenza di dati e materiali storiografici mediante l'adesione ad alcuni concetti del discorso filosofico e della teoria antropologica degli ultimi quarant'anni, restituendo tono al corpo dalla critica anti-funzionalista ed anti-positivista ed accettando le trasformazioni da questa suscitate sui metodi della classificazione ed analisi delle fonti. Una prima argomentazione prende in considerazione il potenziale 'etnogenetico' della mobilità geografica e dei processi migratori nel medioevo, in cui Pohl e altri studiosi mettono alla prova le conoscenze sociologiche sulle migrazioni e sulle diaspore contemporanee acquisite recentemente dagli etnologi. Un secondo spunto è dato dalla problematica del contatto culturale tra romani e barbari, che sfocia nelle dinamiche di classificazione (sapere) e controllo (potere) delle componenti barbariche all'interno e presso le regioni di frontiera fino a cui si estendeva l'impero romano. Si tratta ancora una volta di un tema che riguarda da vicino altri concetti prodotti dagli studi socioantropologici contemporanei. Una terza questione, derivante dalle prime due, implica una presa di coscienza della complessità dei sistemi di interdipendenza generati dal contatto culturale ed porta alla assunzione dell'ipotesi dell'esistenza di processi globalizzanti anche in contesti diversi dalla presente modernità. Viene sviluppata un'ipotesi e posto un quesito: l'ipotesi è che il sistema raccolga in sé diverse relazioni di potere, di cui l'organizzazione statuale ufficiale rappresenta solo un livello specifico tra altri, e che la latenza di questi agenti paralleli emerga a fronte di particolari fenomeni ecologici e demografici, oltre che politici paralleli. É a partire da tali relazioni apparentemente di second'ordine che, nell'Europa tardoantica, in situazioni di densa interazione, si crea lo spazio per l'emersione di nuove forme di potere, culminante nell'ufficialità dei regni romano-barbarici, forti dell'uso strumentale delle categorie etniche e capaci di adottare registri e strutture di potere universalistiche a fini particolari e contingenti. Infine, a quali trasformazioni si va incontro, in un mondo, quello di oggi, in cui l'interdipendenza tra i gruppi e la mobilità umana raggiungono livelli non ancora sperimentati? Il quesito rimane aperto per varie ragioni, ma indubbiamente l'analisi di Pohl permette di interpretare con maggior cognizione di causa la genesi violenta di nuove forme politiche nella contemporaneità, nuove forme di potere e reclutamento capaci di lacerare il tessuto compatto degli attuali imperi economici e politici. Ci si accorge che, forse, ciò che definiamo medioevo non si è ancora concluso. Il potenziale etnogenetico della mobilità umana e delle migrazioni Un primo accenno va fatto al potenziale etno-genetico della mobilità umana e dei fenomeni migratori. Notoriamente è a seguito di una lunga fase di 'decadenza' delle istituzioni e dell'autorità dell'impero romano che sul continente europeo si delinea una "ininterrotta crisi etnica", ovvero un rimescolamento di gruppi etnici e popoli di enorme complessità (Gasparri, 1998: 15). Le tendenze della storiografia sono state generalmente quelle di considerare la fase tardo-antica come una fase di declino, dovuto principalmente alle incursioni di gruppi di barbari, al lassismo della popolazione autoctona e alla tracotanza degli 5 invasori. Questi ultimi sono stati dipinti come popoli compatti dai testimoni coevi (i Goti, i Longobardi, i Franchi, gli Unni, i Burgundi, i Germani ecc.), ed in questi termini li si è concepiti fino ad oggi, tanto che la tesi di Smith sembrerebbe per certi versi plausibile. Le Voelkerwanderungen, migrazioni di popoli, sono fenomeni demografici prodottisi a seguito di massicci spostamenti di gruppi nomadi dalle steppe asiatiche; si riferiscono all'oggettiva incapacità, per le strutture del potere imperiali, di sostenere politicamente il carico demografico nelle frontiere a nord dell'impero. Appare significativo che parte della storiografia, ed in particolare quella francese ed italiana, le abbiano definite univocamente invasioni barbariche. Evidentemente la mobilità umana, essendo il presupposto per la comunicazione ed il contatto socio-culturale tra gruppi anche molto diversi, incide fortemente sui processi identitari, e ciò è vero per ogni periodo della storia. Diversi sono i modi attraverso cui storici e sociologi hanno argomentato la questione. Smith, sempre in riferimento all'esperienza dei popoli delle steppe che confluirono nei territori dell'Impero, sostiene che la formazione dei mythomoteur che garantì la continuità del gruppo sia dovuta all'emergere di un sentimento nostalgico nelle collettività che da poco tempo erano passate da uno stile di vita nomadico a quello sedentario. La nostalgia per i tempi passati deriva dall'insicurezza della vita sedentaria e favorisce, secondo Smith, il coagularsi di miti e leggende intorno al passato del gruppo, alle sue origini in una patria lontana (1986: 121). Gasparri (1997), in modo più analitico, evidenzia il potenziale etnogenetico delle migrazioni a partire dalla tardoantichità. In primo luogo egli distingue tra le pratiche semi-nomadiche dei gruppi "tribali" ai confini dell'impero e le vere e proprie Wanderungen. I territori "tribali" erano piuttosto stabili e la circolazione dei gruppi vincolata a spazi determinati. Gli spostamenti dei villaggi erano periodici e di breve distanza. Altra cosa erano le migrazioni. Pur usando un lessico non ancora del tutto consapevole delle dinamiche micro-relazionali messe allo scoperto da Pohl negli anni più recenti, egli esamina alcune mitologie relative alla migrazione dei Longobardi, che giunsero in Italia con Alboino nel 568 d.C. e che rivendicavano origini ancestrali in Scandinavia. Dello spostamento del gruppo etnico designato con questo nome si hanno molte informazioni: si stima che i primi movimenti migratori verso sud si siano avuti intorno al III sec. d.C. Come direbbe Pohl, ciò che è interessante non è tanto la capacità di un popolo barbarico di sfidare e vincere un'organizzazione mastodontica come quella imperiale. Il pregio maggiore starebbe, infatti, nel fatto che piccoli gruppi siano riusciti a concepirsi come popolo, in termini contrastivi rispetto alle strutture esistenti. Le migrazioni ebbero un ruolo fondamentale nel rimescolare questi gruppi e ridisegnarne i confini etnici1. Il traffico umano, insomma, è intimamente connesso alla genesi e alla persistenza di istanze identitarie particolari, al mutamento culturale e alla politicizzazione dell'etnicità e le dinamiche ad esso connesse sembrano sfuggire alla capacità euristica di dicotomie teoretiche molto diffuse (comunità/società, centro/periferia, tradizionale/moderno ecc.). Per tornare alle teorie sulla fine dell'Impero romano, la tesi di Gibbon (1776: 240-455) sulle invasioni barbariche, sintesi emblematica dell'approccio tradizionale, si rifà alle testimonianze dei personaggi del tempo ed il suo affresco è ancora oggi la sistemazione più rigorosa del materiale storiografico a disposizione sul tema. Per Gibbon, che si riferisce a questi eventi soprattutto sulla base delle testimonianze di Ammiano Marcellino, i barbari invasori sarebbero stati radicalmente alieni ai romani, nell'aspetto, nelle costumanze, nell'organizzazione. Le diffuse pratiche di mobilità nell'Europa altomedievale, anche prima delle Voelkerwanderungen, connessi alle usanze seminomadiche dei gruppi, ai commerci, all'azione amministrativa degli eserciti e all'evangelizzazione proto-cristiana non coincidono con questa visione. L'approccio di Gibbon ha restituito un'immagine dicotomizzata del rapporto tra romani e barbari, che ha favorito la concezione di una cesura fatale tra l'universalismo imperiale ed il particolarismo della fase medievale. La percezione della decadenza da parte dei cronisti portatori dell'identità romana ha sicuramente favorito l'adozione di tale prospettiva. Essa ha altresì giustificato operazioni euristiche non proprio legittime. A partire dalla riflessione di Gibbon, Tylor elaborerà l'ipotesi di regresso culturale, come quello che si avrebbe avuto a partire dalla caduta dell'impero romano d'occidente (in Fabietti, Storia dell'antropologia, 1990). A seguito della migrazione, secondo le teorie tradizionali, vi sarebbe stata una radicale separazione tra la popolazione autoctona e gli invasori, riprodotta tanto nella separazione etnica degli spazi urbani, quanto nelle differenze nei costumi, nell'abbigliamento e nell'aspetto, nelle armi ecc. Come si vedrà nel paragrafo successivo, l'argomentazione di Pohl ruota intorno all'idea di una lenta e capillare trasformazione che non implicò assolutamente l'apartheid sistematico, ma che anzi favorì radicalmente il meticciamento culturale, già molto tempo prima dell'invasione dei Goti. L'integrazione dei barbari e la trasformazione dell'impero L'assunzione del paradigma etnico implica una revisione radicale della dicotomia barbari/romani, come questa traspare dai testi del tempo e dalle interpretazioni storiografiche. Pohl ritiene che la realtà fosse molto più complessa e che la discesa in Italia degli Ostrogoti, dei Longobardi e dei Franchi non possa essere interpretata indipendentemente dalla politica di frontiera praticata dall'amministrazione imperiale. Nel quinto secolo, al di là dei confini dell'Impero, sopra il Reno, oltre il Danubio, vi erano gruppi che i Romani definivano Gentes, o Ethnos, o Nationes, o Tribus. Negli scritti la distinzione tra questi termini è piuttosto vaga. Foederati erano quei gruppi che, assoggettati all'impero, fornivano braccia per la coltivazione della terra e uomini, da impiegare come soldati nelle conquiste successive. L'esercito romano era molto composito e per esso combattevano proprio quei barbari apparentemente così diversi. La conoscenza di lingue 6 straniere era piuttosto diffusa, sia nelle province vicine che in quelle lontane da Roma. Il latino era ovviamente lingua franca, mezzo universale del culto cristiano, della diplomazia, dei commerci, del diritto e dell'arte; il greco, se possibile rivestiva ancora più prestigio. Il cristianesimo si era già diffuso ovunque, come religione dell'Impero, e la sua affermazione era dovuta proprio alla capacità del suo messaggio universalistico, di adattarsi, mediante il culto dei santi, alle pratiche politeiste diffuse un po' ovunque. La diffusione capillare del cristianesimo aveva fatto in modo che questo si confondesse in sincretismi particolari con le forme cosiddette 'pagane'. Dall'universalismo giudaico-cristiano viene confermata la visione di un'umanità divisa in popoli e stirpi, non diversamente da quanto suggerivano le sistemazioni storiografiche ed etnologiche dell'antica Grecia. Le implicazioni e gli usi politici di simboli e rappresentazioni fluttuanti nello spazio e nel tempo, come nella visione di Armstrong, sono stati effettivamente utilizzati come carburante nelle costruzione e mantenimento delle identità passate e presenti. Si tratta di un crogiuolo di culture, appartenenze, distinzioni. La versione ufficiale di tale groviglio etnico-culturale era data dall'Impero, che conquista dopo conquista registrava i nomi dei gruppi con cui veniva in contatto, descrivendone talvolta i costumi, ma soprattutto dando conto delle relazioni diplomatiche e militari che essi intrattenevano con le élites. Qualcosa di non diverso da ciò che viene descritto da Amselle in Logiche meticce a proposito dell'uso delle categorie etniche nei contesti coloniali, e delle finzioni di conoscenza e controllo insiti nella registrazione scritta della diversità. Già a partire dal III secolo d.C., l'arrivo dei gruppi dall'est fu qualcosa di graduale, con picchi non molto elevati di qualche decina di migliaia di uomini. La loro discesa non fu improvvisa, la composizione dei gruppi non omogenea, ed il fenomeno va legato alle complesse fasi di assimilazione ed integrazione delle nationes, che implicavano riconoscimenti pecuniari notevoli agli ufficiali di origine barbarica, una loro partecipazione attiva alle sorti politiche dell'impero, già molto tempo prima dell'arrivo degli "invasori". Il sistema imperiale era già in crisi al momento della divisione tra Impero romano d'Oriente ed Occidente2. Pohl nota come gli ufficiali originari delle province avessero compreso come trattare con i romani, ai fini di ottenere vantaggi per sé, per i propri eserciti e la propria gente. Fenomeni di mimesi sono piuttosto frequenti. Pohl si riferisce ai racconti che riportano le gesta di generali romani che, una volta arrivati nella provincia, adottano gli usi delle popolazioni straniere, si tingono i capelli di rosso, ai modi dei germani, prendono a vestire come loro e a parlare il loro dialetto. Allo stesso modo moltissimi ufficiali stranieri si romanizzano (o meglio ellenizzano, dato che l'ondata universalista anteriore trasportava i significati culturali elaborati in seno alla tradizione ellenistica). Le élites dei gruppi di frontiera avevano un'idea precisa dei vantaggi che avrebbero potuto ottenere dall'Impero, che concedeva anche la cittadinanza, Romanitas, con lo scopo di integrare gli stranieri nel proprio sistema. Verso la metà del V sec. più della metà degli ufficiali dell'impero erano di origine barbarica: scrive Pohl che "l'aristocrazia senatoriale, nonostante le sue immense ricchezze e la sua influenza, aveva perso il controllo delle forze armate, ampliando così il fossato che separava l'esercito imbarbarito e le autorità civili. Specialmente nell'impero d'Occidente l'accesso al potere richiedeva ora di avere familiarità con entrambi i mondi, e nel lungo termine questo diede ai barbari, che invidiavano e imitavano i modi romani, un chiaro vantaggio sui Romani, i quali disprezzavano i barbari e non potevano ispirare una duratura lealtà ai soldati che pagavano. Barbari romanizzati, come il vandalo Stilicone, lo svevo Recimero, il burgundo Gundobaldo, e lo sciro Odoacre dominarono i giochi di potere in Occidente per tutto il V secolo. Nel 476 Odoacre chiude la serie di insignificanti imperatori d'Occidente e continua a governare come re nel nome dell'imperatore d'Oriente: uno dei più famosi non-eventi della storia, la non-fine dell'impero romano" (Pohl, 2000: 45-46). Una lenta e travagliata trasformazione, non un'eclissi improvvisa, quella dell'Impero Romano. I comandanti degli eserciti avevano una chiara consapevolezza di essere considerati dai romani dei popoli, alla maniera biblica, ed una serie di percorsi alternativi a quelli ufficiali si aprivano negli interstizi della società complessa, percorsi entro cui guadagnano spazio strategie inedite di accesso al potere. Altri tipi di alleanze e legami di lealtà, altre forme di potere avrebbero preso il posto dell'organizzazione imperiale. Non è la guerra tra una società con stato ed una società senza stato, non si tratta di un conflitto tra barbari e romani. Ancora secondo Pohl "il processo di assimilazione venne facilitato dal fatto che il sistema di potere che controllava l'impero lasciava spazio a forme di lealtà personale all'interno del sistema burocratico, a legami etnici o regionali al di sotto della sovrastruttura imperiale (corsivo nostro); quelle che definiremmo le strutture del potere barbariche e romane non erano mai in opposizione nel corso della storia romana" (ibidem, 44). Gli stati successori barbarici si fondavano su forme di lealtà etniche e regionali che resero possibile l'accesso collettivo al potere da parte di nuovi gruppi: l'emblema di tale forma di organizzazione era il re. Gruppi etnicamente molto compositi, assoldati da capi carismatici volti contro Roma, finirono per costituire popoli compatti agli occhi delle élites imperiali. La rilevanza dell'identificazione etnica per l'integrazione dei barbari nel sistema imperiale venne facilmente trasferita alla coscienza degli ufficiali stranieri. In un mondo così vario, ciò fece in modo che proprio l'enfasi sull'appartenenza ad un popolo divenisse strumento imprescindibile all'ottenimento di vantaggi simbolici e materiali. Vantaggi che erano per lo più rappresentati dalle cariche simboliche, dalle imponenti ricchezze, dalle strutture del potere su cui si era retto l'Impero. L'etnogenesi è dunque, prima di tutto, un processo relazionale, ed in casi di intensa interazione tra gruppi, l'etnicità tende ad essere utilizzata in termini strumentali, a fini politici. La frase conclusiva del testo di Pohl, relativa alla sconfitta dell'esercito avaro da parte di franchi bulgari e slavi è sicuramente indicativa di quelli che furono processi molto intricati ed eterogenei. Gli insuccessi contro questi gruppi 7 "lasciavano ormai apparire alla nuova generazione poco promettente identificarsi ancora come Avari" (2000: 237). apparenza più contrastanti. Ciò vale tanto per la storia quanto per l'antropologia. Il documento/monumento non può più essere interpretato solo in base agli eventi che esso descrive e ai suo contenuti espliciti. Limitare l'analisi e la comparazione dei testi al problema della loro veridicità, potrebbe significare rinunciare alla comprensione del contesto in cui tale testo compare, rinuncia a vederlo come un 'nodo di un reticolo' in cui convergono altre esperienze, rappresentazioni, testi. Nelle discrepanze tra un racconto e l'altro potrebbero insinuarsi una serie di variabili determinanti capaci di riassumere in sé altre infinite variabili. Tra queste lo status dello scrivente, la sua personalità, la circostanza della stesura del testo, il suo pubblico potenziale e molti altri fattori. Rilevare tutte queste possibilità circostanziali permette di far dire al documento molto più di quello che esso generalmente rivela. Pohl fa sua la lezione di Foucault e ciò lo porta a considerare la dimensione performativa della parola scritta, ma anche la natura politica delle designazioni etniche: egli scrive infatti che "per noi è importante il modo in cui i testi contribuirono alla formazione dell'identità (…). Gli autori greci e latini che dal IV secolo impiegano designazioni etniche e informano sui loro rappresentanti erano per lo più direttamente vicini a questo inquietante mondo di popoli: sia che prendessero parte alle guerre contro i capi di quelle genti, come Ammiano Marcellino, che con loro trattassero, che fossero loro subordinati in qualità di clerici come Gregorio di Tours, Isidoro e Beda, che per essi coprissero alte cariche amministrative come Cassiodoro, che si vantassero essi stessi di un'origine barbarica, come Giordane e Paolo Diacono. Si può rimproverare loro che ognuno di essi, quantomeno retrospettivamente, è orientato verso fini politici e scrive in maniera tendenziosa. Ma proprio questo permette di nuovo di compiere deduzioni relativamente a quelle strategie politiche nelle quali le identità etniche dovevano affermarsi (…). Innanzitutto i testi contribuirono alla costruzione della realtà (…) e crearono lo spazio nel quale le etno-genesi potevano avere successo" (Ibidem: 17-18). Gli interessi politici celati dal discorso etnico mostrano, almeno nel contesto altomedievale, come l'ascesa di personalità di origine barbarica sulla scena politica ufficiale fosse dovuta all'azione congiunta del sistema di integrazione (sviluppato dall'esercito e dalla burocrazia romani) e delle pressioni migratorie dei gruppi modellati dalla stessa 'nomenclatura' romana: queste resero possibile l'innestarsi di nuove relazioni di potere nella struttura costruita dalla potenza imperiale. Più ancora che confermare la prospettiva strumentale che, come è stato sottolineato, non riesce a dar conto completamente della persistenza dei gruppi al di qua del confine che le separa da un esplicito attivismo politico, la teoria di Pohl sembra dimostrare la bontà del concetto di salienza (vedi Poutignat, 2000: 136-150) e presentare l'etnicità come una dinamica contingente. L'identità etnica diviene saliente in particolari situazioni: in un'ottica situazionale gli individui tendono ad agire in base alla rilevanza che l'ostentazione o l'occultamento di una particolare identità possono avere per l'auto-accrescimento e la difesa del Sé individuale e collettivo. Globalizzazione, potere ed etnicità nell'altomedioevo L'etnicità politica non è un fenomeno moderno, come giustamente rileva Smith. Contemporaneamente però l'uso politico dell'etnicità è totalmente contingente, e non se ne può dimostrare la continuità a priori, sulla base di un Traditionskerne stabile che si fa veicolo di un mythomoteur compatto. Solo a posteriori, mediante un'analisi dei comportamenti strumentali che regolano il fluttuare instabile di simboli e formule politiche universalistiche è possibile immaginare (non dimostrare) una continuità tra le formule etniche del passato e le formazioni politiche del presente. In poche parole, le fratture, le incoerenze nei testi e nelle narrazioni, gli oblii e le riesumazioni funzionali rendono troppo frammentario il mythomoteur che ha orientato la formazione dei regni da quello che guida le élites nazionaliste dell'ottocento, a maggior ragione per quel che riguarda la comunanza di fini postulata da Smith. Quello che Pohl ha in mente è un mondo di continue rielaborazioni, rifrangenze e dispersioni di forme e significati universali (la confessione cristiana, il latino e il greco, i testi biblici, le cariche politiche e le pratiche giuridiche, ad esempio), rese possibili da pratiche relazionali contrastive, fortemente vincolate a meccanismi psico-sociali e alle configurazioni contingenti degli eventi. L'esistenza ed i contenuti del mythomoteur dipendono sempre dall'esistenza e contenuto di modelli analoghi, e la loro costituzione ed uso dipende direttamente dal vantaggio contingente che l'élite di un gruppo può trarne. L'elaborazione della memoria del gruppo è discontinua e contingente: esattamente come per lo stato nazione, il modello del regno prende le mosse da forme di 'segmetarietà' apparentemente inferiori al modello centralizzatore, ma contemporaneamente capaci di sfruttare le sue stesse tecniche classificatorie, militari, politiche ai propri fini. L'accentramento tuttavia non significa il passaggio ad una forma statuale contrapposta ad una forma segmentaria, come il passaggio dal sistema tribale a quello del regno. Il quadro di forti interdipendenze tra gruppi, come quello postulato da Pohl in riferimento alla teoria dei sistemi di Luhmann, andrebbe privilegiata una prospettiva segmentaria, che possa tener conto dell'esistenza di diversi livelli ed articolazioni dei rapporti di potere e di diversi livelli di conflittualità cui questi danno, e non di una contrapposizione netta tra civiltà e barbarie, forme statuali e forme segmentarie. Solo in questo modo si possono spiegare molti eventi e molti non eventi. Pohl è particolarmente consapevole del fatto che la dicotomia barbari-romani, pur emergendo chiaramente nei racconti dei personaggi del tempo, non renda conto del fatto che tutti questi gruppi appartenessero ad un medesimo sistema di interdipendenze. Buona parte del materiale storiografico a disposizione degli storici, se interpretato in termini strumentali, è suscettibile di far combaciare anche i testi documentari in 8 Pohl avverte il suo pubblico di quanto possa essere fuorviante concepire i nazionalismi etnici come delle forme 'naturali' di realizzazione politica, e giustifica quest'ipotesi dimostrando come la formazione dei regni, a partire da formule di coesione segmentarie, non sia dovuta all'isolamento e al 'mantenimento simbolico' di un'etnia, ma alla accresciuta interazione tra gruppi nell'ambito di un medesimo sistema socio-politico. Le considerazioni di Pohl mostrano come una profonda collaborazione tra paradigmi socioantropologici e le teorizzazioni di lungo periodo operate dagli storici possano rinnovare le perplessità riguardo alla legittimità delle dicotomie civiltàbarbarie, universalismo-particolarismo, societàcomunità, segmentarietà-statualità, tradizionemodernità. In particolare una visione bipolare di un sistema tribale barbaro contrapposto ad un sistema statale romano nella tarda antichità è del tutto fuorviante e non spiega né i molteplici sincretismi, il fluttuare di simboli e forme universalistiche in Europa, né dà conto dei continui conflitti e guerre che si succedono nei territori ai confini dell'impero. Il riferimento di Pohl al Soziale Systeme di Niklas Luhmann (1988) è costante. Si prendano ad esempio le sue considerazioni sul rapporto tra i centri del potere avari ed unni e Costantinopoli: "Dall'analisi della loro contrapposizione all'impero diventa chiaro che i vecchi spauracchi della letteratura storica occidentale, i cavalieri e i distruttori dalle steppe dell'oriente, mai corrisposero in realtà allo stereotipo della dissolutezza e della ferocia. Anch'essi dovevano seguire regole implicite, altrimenti non avrebbero potuto salvaguardare il loro dominio. Proprio il centro di potere avaro ed unno svilupparono una vivace comunicazione con la corte imperiale, da cui Bisanzio poteva imparare ancora alcuni secoli più tardi (…). Dal punto di vista della teoria dei sistemi i barbari non erano al di fuori del sistema. Niklas Luhmann ha sottolineato che i conflitti non costituiscono affatto una crisi, anzi, una rottura della comunicazione, ma un periodo di comunicazione intensa, anche se specifica, attraverso la quale il sistema si trasforma" (Pohl, 2001: 204). Più avanti, nel testo, si scorgono altri riferimenti alla conflittualità come qualcosa di legato alla interdipendenza troppo elevata (2001: 234) tra gli eserciti barbarici e lo stato romano. Era evidente che l'esercito romano non era riuscito ad integrare completamente i gruppi assoggettati, ed il mito di una pax romana celava a malapena l'evidenza che i conflitti etnici ed i regionalismi nell'area mediterranea erano ben vivi. Scrive Pohl "nel corso di queste battaglie tra fazioni aumentò lo spazio per la nascita di posizioni di comando, che non si fondava solo sull'incarico imperiale, ma anche sulle lealtà etniche" (p.235). NOTE 1 Scrive Gasparri: "La Wanderung era un processo plurisecolare che dislocava lentamente una data etnia (ma Pohl preferirebbe il termine gruppo etnico) dalle sue sedi originarie alternando periodi lunghi di stabilità, (…), a periodi di movimento. D'altra parte una tribù migrante non migrava tutta intera. Una parte dei Longobardi rimase sull'Elba mentre gli altri migrarono sotto il Danubio; gli Eruli, stanziati nell'area balcanica ancora nel VI secolo chiedevano ai loro consanguinei, rimasti in Scandinavia, di mandare loro un re." (1997: 68). L'identità dei primi migranti non può non aver subito radicali mutamenti in più di tre secoli di 'dispersione'. E' significativo che vi si faccia riferimento in un contesto in cui l'assenza di autorità e rappresentatività spinge il gruppo degli Eruli, in questo caso, a richiamarsi al passato così lontano. 2 Alcuni passi del libro di Pohl sono particolarmente convincenti e annunciano un modo nuovo di concepire la storia, cui altri autori contribuiscono. Pohl cita Geary, per il quale "Il mondo germanico è stato forse la più grande e durevole creazione del genio militare e politico romano. Il fatto che questa creatura finì col tempo per sostituire il suo creatore, non deve far dimenticare che essa doveva la sua stessa esistenza all'iniziativa romana (…) per modellare il caos della realtà barbarica in forme di attività politica, sociale ed economicache essi potevano comprendere e forse controllare (da Geary P., Before Germany and France, N.Y., 1988). 9 BIBILIOGRAFIA Amselle J.L., Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture,Bollati e Boringheri, Torino 2001. ID (1991) Logiques metisses. Anthropologie de l'identitè in Afrique et Ailleurs, Peyo, Parigi, 1991. Armstrong J., Nations before nationalism, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1993. Barth F., I gruppi etnici e i loro confini, in Maher V., Questioni di etnicità Rosenberg & Sellers, Torino, 1994. Fabietti U., L'identità etnica, Carocci, Roma, 2000. Foucault M., L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli Libri, Milano, 1980, Gibbon E., Declino e caduta dell'impero romano, Mondatori editore, Milano, 1986 (ed. originale 1776). Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni fra antichità e medioevo, Carocci, Roma, 1997. Gellner E., Nazioni e Nazionalismi, Editori Riuniti, Roma, 1998. Hobsbawn E.J. e Ranger T., L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1987. Pohl W., Le origini etniche dell'Europa, Viella, Roma, 2000. 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L'influenza di questo autore è stata tale che nel XVII sec. le sue opere (e quelle dei suoi successori) potevano essere considerate ancora una fonte autorevole del sapere medico (Civita 1999). L'opera di Ippocrate rappresenta, in effetti, una vera e propria rivoluzione epistemologica per l'antichità. Con l'autore del Morbo Sacro, infatti, la pratica medica si affranca da quella visione mitico-religiosa del mondo che aveva fino allora dominato ogni spiegazione del dolore e della sofferenza umana. Quella di Ippocrate è nella storia della medicina una mossa fondazionale preliminare che ha aperto la strada ad uno sguardo sul patologico che non si accontenta più di connettere i fenomeni da spiegare a qualche entità fantasmatica ma si preoccupa, invece, di indagare il sistema di segni incarnato dal malato al fine di produrre una diagnosi e prescrivere una terapia adeguata. Come ben sintetizza Cosenza: dalla "clinica del visibile", empiricamente ancorata all'immanente, di Ippocrate. Da un punto di vista psicopatologico, Ippocrate ha fornito il suo contributo più importante individuando quelli che il pensiero medico successivo definirà come sintomi psichici e malattie psichiche (malattie con prevalenza di sintomi psichici). Occorre precisare, a questo proposito, che per Ippocrate i sintomi che la tradizione medica riconosce come espressioni di una malattia della psiche, non sono affatto distinti dai sintomi fisici. Tutte le malattie hanno una base somatica e non esiste il concetto di malattia mentale che sarà un'acquisizione della modernità (Civita 1999). Quel che però qui ci preme sottolineare è che l'eziologia ippocratica è tanto ampia e variegata da includere fattori ambientali, di costume, o persino sventure, come nel caso tragico della moglie di Delearce che, a seguito di un'imprecisata disgrazia, muore: "A Taso la moglie di Delearce, che giaceva malata presso una spianata, a seguito di una sventura fu colta da febbre con brividi, acuta [...] Febbre, al tatto leggera; gelo alle estremità. Il nono giorno delirò molto e poi tornò quieta: taceva. Il quattordicesimo respiro intermittente, ora profondo ora breve [...]. Il ventunesimo giorno molti discorsi e poi di nuovo s'acquietò: restò afona, respiro breve. Il ventunesimo morì" (cit. in Civita 1999, p. 29). "...l'arte occidentale della cura presuppone la caduta degli dei come agenti della patologia e della fisiologia, della malattia e della salute. L'esperienza umana del dolore trova così una nuova possibilità di ricondurre a una ragione il patire che la caratterizza, e una nuova modalità di intervento su di esso per placarne le manifestazioni, sottraendosi così alla cecità tragica e insopportabile dell'insensato: dal senso trascendente di un decreto o di una punizione divina, per una qualche colpa legata ad atti commessi o per volontà imperscrutabile degli dei, si passa alle cause immanenti all'organismo di colui che patisce il dolore, al rapporto fra tale organismo e le condizioni ambientali esterne entro cui l'uomo malato è situato" (Civita, Cosenza 1999, p. 14). Questo breve passo, ci permette di apprezzare solo in parte l'accuratezza con cui il medico greco componeva il quadro clinico dei suoi pazienti, un'accuratezza che gli derivava, oltre che da una personale perspicacia, dal chiaro possesso della distinzione concettuale tra segno, sintomo e malattia. Tale distinzione per la medicina è di capitale importanza ed ha conosciuto una sempre maggiore precisazione. Se con Ippocrate i segni sono dotati di un significato circoscritto ed univoco, mentre i sintomi si caratterizzano per la loro genericità o, persino, per la loro equivocità (Colombo 1999), è con la scuola anatomica francese del XVIII sec. che diviene evidente come i sintomi siano associati Il sintomo insomma è da ricondurre alla persona e questa non può essere disgiunta dall'ambiente in cui vive. Il campo clinico è delimitato da queste variabili; solo il ciarlatano rintraccia nella malattia i segni di un'intenzionalità invisibile, esterna al sofferente. In ciò il sapere non scientifico si discosta nettamente 11 al punto di vista del sofferente (e quindi secondari), mentre i segni rimandino inequivocabilmente ad organi e tessuti lesi o anomali (Foucault 1998). Secondo Foucault, in questo modo il corpo del malato è cadaverizzato, concepito come un semplice portatore di un malessere la cui oggettività, per essere riconosciuta, non solo deve rimanere confinata entro i limiti spaziali del corpo ma deve corrispondere ai criteri universalizzanti del sapere medico scientifico. La diagnosi, pertanto, è definizione del malessere, ossia, della realtà stessa della malattia (o della salute). L'individualizzazione corporea della malattia diventa allora uno dei principi fondamentali della medicina1. La clinica medica - in quanto semiotica della sofferenza inscritta nei corpi - si assume l'incarico e la prerogativa di localizzare la malattia interpretando un linguaggio comprensibile solo per l'esperto. In questa prospettiva, il malato non può nemmeno fidarsi più dei suoi sensi e deve delegare ad altri il significato della sua personale sofferenza (Taussig 1980). Caso clinico I incontro Il formicolio itinerante Victor è un ragazzo nigeriano di 25 anni. La sua cartella clinica è lunga: una serie di visite, incomprensioni, tentativi di spiegare un malessere senza "disease"2 apparente. Nella sua scheda troviamo allegati anche i risultati clinici di controlli ospedalieri effettuati sui livelli di ematocrito, urine, feci... tutto nella norma. Il suo problema è e sente la pelle "pizzicare" (con le dita di una mano fa pressione su più punti del braccio, poi il busto, le gambe, poco dopo indicherà anche la pianta dei piedi) e avverte spesso una fastidiosa sensazione di calore all'ano ("very hot"ripete più volte). Per farsi passare la sensazione di formicolio e di prurito sì da delle pacche, oppure strofina con una mano la parte di pelle interessata. Queste sensazioni sono cominciate sei anni fa mentre era in Nigeria. All'epoca aveva deciso perciò di consultare un medico dell'ospedale di Benin City, città in cui è nato. Tuttavia, dopo le visite del caso, gli era stato detto che non aveva "niente". La madre, quindi, aveva pregato per lui affinché guarisse [...]. La psicologa chiede al ragazzo di spiegarci da dove hanno inizio questi "dolori". Victor, si alza, si toglie felpa e maglietta e ci indica un punto sulla scapola destra: da lì la sensazione si dirama sul braccio destro e sinistro, sul busto, sul collo, negli arti inferiori, sulla pianta dei piedi [...]. *** Senza la pretesa di essere esaustivo, di seguito analizzerò un caso clinico seguito personalmente nell'ambulatorio medico di un'associazione di volontariato di Milano che Michel Foucault offre assistenza medicolegale a stranieri senza regolare permesso di soggiorno. La disponibilità e la fiducia concessami dal Gruppo Psicologi di questa associazione, mi ha consentito di partecipare, per alcuni mesi, ad alcune sedute condotte da una psicologa volontaria. Nel ruolo di osservatore-partecipante ho potuto così raccogliere diverse storie di persone che si sono rivolte all'associazione per i più svariati problemi di salute. Il caso che presento è estrapolato da una ricerca da me condotta - e ancora in svolgimento - sul tema dell'immigrazione irregolare a Milano. Vista la mia inesperienza in un campo così delicato e complesso, e in accordo con la psicologa che ho affiancato, ho limitato al minimo i miei interventi durante gli incontri, cercando di porre questioni pertinenti ai temi di mio specifico interesse, solo laddove la situazione lo permetteva. Quella che segue è la storia di Victor, un ragazzo nigeriano che è in Italia senza permesso di soggiorno (il nome è di fantasia). Gli incontri con Victor sono avvenuti nel mese di aprile del 2004. Le mie note sul campo sono state opportunamente selezionate per ragioni di spazio e nel rispetto della privacy di Victor. Il segreto Quando il disturbo si è manifestato per la prima volta Victor era uno studente del primo anno di una scuola d'Arte di Benin City. A Victor piaceva disegnare e andare a scuola non gli dispiaceva per niente. Il disturbo gli procurava però un tale disagio che non riusciva a stare seduto. Per questo decise di abbandonare la scuola senza spiegare agli amici la vera ragione della scelta. Victor parla in proposito di un "secret" che non ha mai voluto raccontare a nessuno, a parte i familiari. La motivazione "ufficiale" del suo abbandono scolastico fu che desiderava trovare un lavoro per racimolare soldi sufficienti a visitare l'Europa. Così Victor è andato a lavorare in fabbrica. La psicologa cerca di indagare le aspettative di Victor - prima di partire - sull'Europa, l'Italia, il suo futuro. Victor afferma di ringraziare Dio per essere in Europa, è contento di stare in Italia, lo ha sempre desiderato fin da piccolo. Noto nei gesti e nell'espressione di Victor un certo disagio ed imbarazzo in questa parte del dialogo (guarda il tavolo, sfugge allo sguardo). Intervengo per spiegare al ragazzo le ragioni di quell'interrogare: ci interessa conoscere/ricostruire vari aspetti della sua vita, per meglio capirlo e trovare una connessione con il suo disturbo. Il ragazzo fa cenno di comprendere e la discussione continua. Il sogno La psicologa chiede a Victor di cercare di ricordare episodi o situazioni che possano avere un legame con la sue fastidiose sensazioni e di riportarle per l'incontro della settimana successiva (n.b.: già all'inizio dell'incontro Victor era stato 12 sollecitato a ricordare episodi, o altro che potesse avere un legame con il suo disturbo. Il ragazzo aveva però reagito con una smorfia, come di chi "preferisce non ricordare"). Quando stiamo per congedarci Victor (con l'espressione un po' sorpresa di chi ricorda improvvisamente qualcosa) ci racconta di un sogno avuto proprio sei anni fa: una pistola puntata all'ano e poi sulla scapola [...]. Dopo aver cercato di capire qualche dettaglio in più decidiamo di chiudere la seduta e fissare un appuntamento per la settimana successiva. Spieghiamo a Victor che durante questa settimana penseremo al suo caso e che consulteremo altri esperti. Saluto Victor con un "see you next friday". Il ragazzo fa sì con la testa ed esce accompagnato dalla psicologa. considera come fatti naturali, dati di fatto, non solo si mistificano i segni e i sintomi della malattia ma, inevitabilmente si ri-produce l'ideologia che li ha prodotti. E questo è uno dei principali rischi cui va incontro tanto il medico che si preoccupa di alleviare la sofferenza quanto l'antropologo medico. Per questo motivo, all'antropologo che, maieuticamente, cerca di portare alla luce la complessità dell'esperienza del malato e del contesto in cui si situa - con le contraddizioni che lo caratterizzano - si profila un compito arduo. Da un lato, infatti, si tratta di operare una fenomenologia del quotidiano, di prestare una particolare attenzione a tutto ciò che "goes without saying" (Bloch 1989) nel convincimento che: "The real task of therapy calls for an archaeology of the implicit in such a way that the processes by which social relations are mapped into diseases are brought to light, de-reifed, and in doing so liberate the potential for dealing with antagonistic contradictions and breaking the chains of oppression" (Taussig 1980) Ma, una volta operata questa "archeologia dell'implicito", si tratta di prendere anche una posizione, ancor prima che metodologica, etica e politica. *** II incontro Ricordati di dimenticare Victor entra nello studio, pantaloni scuri e una camicia con qualche disegno fantasioso, un cappellino color senape in testa. Mentre ci salutiamo si siede e la psicologa, presa in mano la sua scheda e fatto un breve preambolo, chiede al ragazzo se può raccontarci nuovamente il sogno descritto la volta precedente. Scopriamo così che in realtà i sogni sono stati tre (tutti avvenuti dopo il manifestarsi del disturbo e quindi non "premonitori"). Nel primo sogno (che sembra corrispondere a quello raccontatoci la settimana prima), Victor vede una pistola puntata sulla sua scapola destra (fa anche il gesto di più pistole puntate sul suo corpo). Nel secondo sogno scopre un foro di pistola nella scapola sinistra. Nel terzo sogno la pistola è puntata sulla scapola sinistra. Durante il sogno Victor non ricorda di aver avuto alcun'emozione, né paura né terrore o altro. Chiedo a Victor se riesce a vedere chi impugna la pistola e mi risponde che vede appena il volto ma non lo riconosce. Il risveglio si accompagna con la sensazione di calore all'ano. La mattina dopo il primo sogno ricorda, inoltre, di aver avuto la sensazione che qualcuno gli strappasse il cuore (mima il gesto di strapparsi il cuore e gettarlo in aria) e di aver sentito "the mind boiled" (bollire l'anima? Indica il petto). Ha perciò raccontato il sogno alla madre e insieme sono andati dal pastore. Quest'ultimo ha consigliato al ragazzo di dimenticare il sogno, che era meglio dimenticarlo, e di pregare. Victor ha pregato, così come la madre. Successivamente, madre e figlio sono andati anche in ospedale. Tuttavia, i medici che lo hanno visitato gli hanno detto di dimenticare il suo sogno perché gli esami dicono che "non ha *** Se consideriamo la metafora della malattia come linguaggio ci rendiamo conto che segni e sintomi, per come sono stati intesi fin qui dai medici consultati da Victor, appaiono come termini di un linguaggio referenziale in cerca di una corrispondenza fattuale con la realtà organica del corpo, una realtà che, per essere manipolabile a fini terapeutici, deve essere univocamente ed oggettivamente riconosciuta. Sorge qui, immediato, un dubbio che formuliamo in questi termini: esiste una "realtà dei fatti" o questa deve essere considerata come la sedimentazione di significati socialmente e storicamente stabiliti dai gruppi dominanti in modo da perpetuare i propri specifici interessi? E, se questa realtà dei fatti non esiste qual è allora il significato sociale della sofferenza? Solo se ai segni e ai sintomi di un malessere restituiamo la loro intrinseca multidimensionalità - e se non ci limitiamo a considerarli ingenuamente come rimandi a qual-cosa - solo così essi possono disvelare i rapporti sociali, morali ed economici che incorporano e la malattia o la sofferenza, allora, potranno sprigionare il proprio potenziale critico rappresentando un tentativo di sovvertire l'ordine costituito attraverso gli idiomi culturalmente condizionanti del corpo. Il riduzionismo medico scientifico con l'apparente intento di de-opacizzare la sofferenza, in effetti, non fa altro che cannibalizzarla nascondendo o, peggio ancora, mascherando tutte quelle dimensioni a cui si accennava sopra e che le sono essenziali. Quando, inoltre, si trascura di considerare le dinamiche sociali (spesso asimmetriche) e le si 13 nulla" [...]. Il colloquio appare faticoso. Victor risponde sempre alle domande della psicologa la quale è, tuttavia, "costretta" ad intervenire spesso per sollecitare il ragazzo a parlare di sé. La psicologa cerca quindi di far capire l'importanza, per noi, che lui parli liberamente di ciò che vuole, che parli soprattutto di sé, in modo da poter avere elementi che ci consentano di aiutarlo. La terapeuta parla anche di "cooperare" nella soluzione del suo problema. Victor, da parte sua, afferma di capire l'importanza di parlare ma di non avere voglia di farlo. La Nigeria ha molti problemi e lui vuole dimenticare. "Ora sono qui e penso al futuro in Italia, al lavoro, al permesso di soggiorno..." afferma in sintesi [...]. III incontro Victor non si presenta. Alcune riflessioni Victor, ad oggi, non è ancora tornato. Forse non lo farà mai. Forse ha scelto altri percorsi terapeutici o, forse ancora, ha pensato che questo non fosse il momento giusto per intraprenderne uno. Quale che sia la ragione della sua scelta - perché questo è il nostro assunto di partenza per le riflessioni che seguono: la sua è stata una scelta di non venire più -, a noi non resta che interrogarci su quanto è accaduto (o non è accaduto) durante questi pochi incontri avuti e formulare ipotesi e congetture sia sulle motivazioni che possono aver spinto Victor a non venire più sia sulle possibili ragioni delle difficoltà riscontrate e percepite, da parte dei terapeuti, durante i colloqui. Il corpo, la mente; il passato e il futuro "I'm tired of these questions" afferma ad un certo punto Victor, con la sua solita voce pacata e sommessa, dopo un tentativo della psicologa di riprendere il discorso circa la sua vita in Nigeria. La psicologa gli spiega così che non vuole forzarlo a dire cose che non vuole ricordare ma è importante che sia più "collaborativo". Capita, alle volte, che le persone percepiscano che le cose non vanno come dovrebbero o che si è semplicemente stressati o preoccupati e così è il corpo ad esprimere questi disagi anche se la mente, magari, pensa ad altro, al futuro, spiega la psicologa. Per far capire meglio cosa intende riporta un esempio: ci sono persone che quando sono particolarmente stressate hanno problemi di pelle (macchie, eritemi, pruriti...); ognuno ha il suo modo di comunicare i propri disagi. Esprime quindi la sua idea circa il percorso terapeutico da intraprendere: trovare il modo di mettere insieme corpo (passato) e mente (futuro). Si tratta di trovare, insieme, una via verso la soluzione del suo problema. Victor sembra ascoltare con interesse. *** Da un punto di vista biomedico ci troviamo di fronte ad un caso di somatizzazione: il paziente lamenta sensazioni di prurito estese su quasi l'intera superficie epidermica; avverte calore all'ano; tuttavia, gli esami clinici di controllo effettuati dallo stesso paziente non mostrano alcun segno di disfunzione organica né alcuna anomalia che possa rendere conto del quadro sintomatologico illustrato dal paziente. In questa prospettiva ci troviamo ad un'impasse. Da questo vicolo cieco cerchiamo perciò di muoverci in un'altra direzione, opposta, e, abbandonati gli strumenti dei cartografi della sofferenza, proviamo a seguire le deboli tracce di quelle traiettorie che si iscrivono nei paesaggi umani vissuti. Domandiamoci: che cosa sappiamo del malessere di Victor? Innanzi tutto sappiamo che esso ha un momento e un luogo di inizio: sei anni fa a Benin City. Sappiamo anche da dove ha origine: il più delle volte, il dolore, si dirama nel resto del corpo a partire da un punto preciso nella schiena, sulla scapola. E' qui e là che il dolore ha origine. Una fastidiosa sensazione itinerante che migra nel corpo e con il corpo. Victor ha anche raccontato di un sogno avuto in notti diverse che, a parte alcuni dettagli tra una versione e l'altra, rappresenta essenzialmente una pistola impugnata da qualcuno e rivolta in maniera minacciosa alle spalle di Victor. Il fatto che la minaccia sia "da dietro" probabilmente non è casuale. Il dorso della schiena, infatti, è una delle zone del proprio corpo di cui non possiamo avere un'immagine visiva diretta e fedele. L'essere "presi alle spalle" è non a caso un modo per dire che si viene colti di sorpresa, ci si scopre improvvisamente vulnerabili e, in talune circostanze, persino passivamente impotenti di fronte ad una possibile intrusione del proprio spazio corporeo d'azione. Victor non riferisce alcuna particolare emozione vissuta durante il sogno ma la mattina seguente, al risveglio, è talmente scosso da sentire il cuore quasi schizzare via dal corpo, come se gli fosse strappato da qualcuno. Victor non vede il volto di chi lo minaccia ma, avverte distintamente la presenza di una pistola che punta il suo corpo Chiusura Sul finire Victor chiede un farmaco per alleviare il suo fastidio ricordandoci, ancora una volta, quanto sia doloroso ("hot, very hot") per lui andare in bagno. La psicologa propone di consultare il medico che per primo lo ha visitato in associazione. Esce e torna diversi minuti dopo accompagnata dal medico. Quest'ultimo consiglia al ragazzo un lassativo a base di frutta per "rinfrescare" l'intestino. Consiglia anche di bere molta acqua. ...nel frattempo Poco dopo che la psicologa è uscita dallo studio Victor mi guarda e dice "thank you" come a dire che apprezza i nostri sforzi per aiutarlo. Dopo un momento di silenzio, mi spiega nuovamente il suo dolore all'ano. Mi dice che alle volte gli è quasi impossibile sedersi. Gli chiedo di descrivermi nuovamente il prurito/pizzicore sulla pelle. Il dolore lo equipara a punture d'ago (like a needle). Parliamo di calcio (sorride rilassato). C'è qualche momento di silenzio durante i quali Victor guarda verso la porta. Poi entrano la psicologa e il medico. 14 proprio lì dove dice hanno inizio le sue fastidiose sensazioni di calore e prurito. Victor non vede chi lo minaccia così come non vuole parlare della sua vita in Nigeria. Ma il suo è un passato che non vuole "passare" e che lo stesso Victor non può "lasciarsi alle spalle" perché è proprio a partire da lì, dalle spalle, che quell'invisibile presenza si concretizza come una minaccia capace di violare i confini corporei, attraverso una delle sue aperture. La schiena, la pelle, l'ano; dunque, il corpo. Una pistola, un volto invisibile e Benin City - città in un paese attraversato da complesse contraddizioni che fanno sentire i loro effetti sulla vita di tutti i giorni degli individui: la società. Corpo e società: l'uno rimanda all'altra. In Purezza e pericolo Mary Douglas sostiene che in talune società l'angoscia per i margini esterni del corpo esprime il pericolo per l'integrità e l'ordine sociale. Quest'idea di mettere in relazione il corpo individuale con il corpo sociale, la salute o la malattia del primo con l'ordine o il disordine del secondo, è per noi di estremo interesse e ci permette di prendere in considerazione un'altra antropologa americana. In un suo recente studio, Cocker, si è occupata dei "traveling pains"3 di alcuni rifugiati sudanesi in Egitto (Cairo). Preso atto dell'inadeguatezza della nozione di "somatizzazione", l'antropologa americana cerca di mettere in evidenza il ruolo metaforico che giocano la malattia e il corpo nell'esprimere lo scompiglio e il disordine che pervade la cultura e la comunità sudanese rifugiata nel Cairo. Attraverso l'analisi delle illness stories di questi rifugiati, Cocker si rende conto di come spesso il dolore descritto si muova attraverso il corpo seguendo le vicissitudini storico-biografiche dei rifugiati. Con le parole dell'autrice: "their pain was historicized, moving through the body and stopping at various locations, only to move on to another spot later on, sometimes years later. Respondents would describe pain as literally "traveling" through them, stopping from place to place and then continuing on elsewhere" (Cocker 2004, p. 20). I pochi elementi etnografici a disposizione su Victor non ci permettono di spingere troppo oltre questo fugace accostamento tra il suo prurito "itinerante" e i "traveling pains" dei rifugiati sudanesi. Nelle riflessioni che seguono, pertanto, a partire dalla prospettiva che prende in esame questi malesseri come metafore e metonimie incorporate di più ampi processi sociali (Cfr. Quaranta 2003) proveremo ad esplorare alcune ipotesi che proiettano le nostre riflessioni al di là del caso specifico di Victor ma che finiscono per gettare una luce sulle strategie terapeutiche e non, emerse nella sua storia. E' in quest'ottica che condividiamo l'impostazione di fondo della Cocker quando afferma: contextual and dependent upon the integrity of the culture and community that is under assault" (Cocker 2004, p. 35) Nella storia di Victor colpisce che lui e la madre abbiano cercato, ancor prima di "guarire" quel fastidioso disturbo, di dare ad esso un senso, in questo caso religioso, morale - in ogni caso: intersoggettivo, pubblico o collettivo. La domanda di medicalizzazione in ospedale fa seguito ad una risposta di senso non soddisfacente da parte del sacerdote il quale, forse, sottovaluta il significato del disturbo o, semplicemente, si preoccupa dell'"anima" ma dimentica il "corpo" e i suoi messaggi. I medici, da parte loro, non si comportano in maniera molto differente e gli offrono la loro verità biomedica. Ecco, allora, che quel "messaggio (onirico) nella bottiglia" (Scheper-Hughes, Lock 1991) che ha angosciato le notti di Victor sembra essersi definitivamente allontanato da ogni possibile approdo. Quel prurito e quel bruciore rimangono confinati nel mondo privato e segreto di Victor: è tutto suo. Colpisce ancor di più la "strategia della memoria" della comunità di Victor. Il termine ricorrente è "dimenticare". Il pastore ha consigliato di pregare e di non far troppo caso al sogno; i medici gli hanno detto di dimenticare il sogno perché è fisicamente sano e non ha nulla di cui preoccuparsi; lo stesso Victor preferisce non parlare della Nigeria e dimenticarla: "Nigeria has a lot of problems.... I want to forget it..", dichiara espressamente. La memoria è qui l'elemento chiave. Una memoria che sembra trattenere e filtrare di ciò che è stato quanto basta per rimanere pro-iettati nel futuro, l'unica dimensione temporale che sembra veramente interessare Victor. Secondo Beneduce: "uno degli aspetti più delicati della psicoterapia di alcuni cittadini immigrati si nascond[e].... nel rapporto complesso e contraddittorio con la loro memoria e con il loro presente. Il lavoro di analisi volto a guardare nel loro passato deve fronteggiare infatti una rimozione diversa da quella consueta, forse più complessa: non solo rimozione inconscia di un evento, di una scena o di un trauma, ma tentativo di rimuovere attivamente una parte di sé a fronte dell'indifferenza o dell'ostilità altrui, tentativo di cancellare un tempo ed un luogo che evocano insieme le proprie radici ed il proprio dolore: ma quel tempo e quel luogo d'altronde restano insopprimibili perché continuamente presentificati dal loro nome, dalla loro condizione, dalla loro identità" (Beneduce 1993). Come sono stati percepiti da Victor gli sforzi della psicologa di cercare di portare a galla i legami e gli intrecci tra il disturbo e la sua storia passata per sondare quel secret così a lungo custodito? E quanto ha influito sul processo terapeutico che si è cercato di avviare il mio atteggiamento da "europeo ossessionato dal passato" (Last 2000) che giustifica l'interrogare della psicologa con la necessità di costruire un quadro coerente e ben informato del suo percorso biografico? Ci sono comunità che lavorano in direzione opposta - o comunque diversa - a quella che "noi, occidentali" ci aspetteremmo essere la maniera "corretta" di "Pain [...] needs to be listened to not just for what it communicates about the state of the physical body, but what il communicates about the social and moral realm as well. Through their embodied metaphors and illness talk, the southern sudanese refugee in Cairo are communicating a message about the existential crisis in which their community is embodied" (Cocker 2004, pp. 34-5) e ancora: "...the integrity of the individual, or the individual body, is highly 15 affrontare le proprie lacerazioni interne e collettive. Occultare piuttosto che evocare può essere una risposta attiva di una comunità per riparare e ricucire gli strappi provocati dalle "patologie del potere" (Farmer 2003) e permettere così ai suoi membri di affrontare il dolore e la sofferenza: l'interpretazione e l'elaborazione di vicende che, spesso, riguardano l'intera collettività, impedendo così il confronto e la negoziazione tra verità più ampie ed intersoggettive. Murray Last, nel suo lavoro dedicato alle strategie di riconciliazione e alle contraddizioni che ne sono conseguite in Nigeria dopo la guerra civile nel Biafra, propone di partire dalla premessa che in una società strutturalmente malata e vulnerabile come può esserlo quella che esce da una guerra sanguinosa e devastante, è comunque la comunità a doversi far carico del proprio risanamento (Last 2000). Lasciare ai singoli individui o ai gruppi di individui l'interpretazione di fatti ed avvenimenti che hanno coinvolto l'intera comunità produce contraddizioni pericolosamente disastrose nella società stessa e sui singoli individui che si trovano a dare un senso al "reale collettivo", con strumenti e strategie improprie perché non adatte alla costruzione di verità egemoniche (Gramsci 1977) Victor vive il suo presente in Italia pensando al suo futuro. Dimenticare il passato, o una sua porzione, gli serve per raggiungere i suoi obiettivi. Lo strappo con la sua comunità, paradossalmente, sembra derivare proprio dal suo essere in piena sintonia con essa. Ogni terapia che abbia la forma di una confessione scientificamente codificata è votata all'insuccesso se non tiene conto del contesto extra-clinico che lega il sofferente alla sua comunità. Ogni terapia è un atto politico di integrazione in un contesto sociale (cfr. Desjarlais et al. 1998, p. 249). Questo ci ricorda la storia di Victor. "[a]lcune ricerche infatti dimostrano che inchieste dettagliate sulle esperienze passate possono aggravare i sintomi. Questo è particolarmente vero per alcuni rifugiati politici provenienti dall'Africa e dal Sudest Asiatico, che hanno modalità diverse di vivere e di riprendersi dai traumi da quel modo narrativo proprio delle culture occidentali, legate alla tradizione cristiano-giudaica di catarsi, confessione, riparazione e redenzione" (Desjarlais e al. 1998, p.249). Quando si intende il lavoro terapeutico come una sorta di archeologia della memoria4 fatta per evocare e portare alla luce le stratificazioni delle proprie vicende vissute (drammi, dolori, traumi, emozioni, gioie...) con persone appartenenti a comunità la cui strategia di riconciliazione con il passato lavora in direzione opposta (occultare invece che evocare), quando ci si trova in simili circostanze, per quanto possa essere ben intenzionato, il lavoro terapeutico può apparire eccessivamente invasivo da parte del sofferente. "I'm tired of these questions" afferma ad un certo punto Victor. Dall'altra parte, il rischio a cui va incontro una comunità come quella di Victor è di innescare dinamiche culturalmente informate - che finiscono per delegare ai singoli Salvador Dalì,La persistencia de la memoria 16 NOTE Questa idea va di pari passo con la progressiva parcellizzazione del sapere: si ritaglia un fenomeno o un aspetto della realtà per analizzarlo nella sua atomicità perdendo di vista così il carattere storico dei fatti che si trovano alla sua base (Lucacks). 1 Sulla distinzione tra illness, disease e sickness vedi: (Young 1982). I sintomi più comuni riconosciuti come "traveling pains" sono: mal di stomaco, dolori al petto, tosse, dolori generici in tutto il corpo, dolori muscolari o cardiaci, sensazioni di bruciore, e un imprecisato prurito che può manifestarsi in qualsiasi parte del corpo (Cocker 2004). 4 Per un approfondimento di questo aspetto "confessionale" del rapporto medico-paziente si veda, ad esempio, la lezione del 19 febbraio del 1975 al College de France di Foucault. Il filosofo francese espone una storia della confessione che ha come suo filo conduttore il rituale della penitenza. Se per il cristianesimo primitivo la penitenza "era uno statuto che si prendeva una volta per tutte e aveva un carattere per lo più definitivo" (Foucault 2000), già nel VI sec., tuttavia, cominciava ad emergere un nuovo tipo di penitenza, la "penitenza tariffata": ad ogni peccato corrisponde una penitenza prestabilita. E' chiaro che il prete, come il giudice, per poter applicare la giusta penitenza deve conoscere e farsi raccontare la colpa o l'errore commesso. E' perciò, a partire da questo momento storico che nasce la confessione. Significativo, all'interno del nostro discorso, è il parallelo di Alcuino, teologo del secolo VIII, tra prete e medico. Egli, infatti, si domanda: "Come potrà il potere sacerdotale assolvere da una colpa, se non conosce i vincoli che incatenano il peccatore? I medici non potranno più far nulla il giorno in cui i malati rifiuteranno di mostrare loro le ferite. Il peccatore deve dunque andare a trovare il prete, così come il malato deve andare a trovare il medico, spiegandogli di cosa soffre e qual è la sua malattia" (cit. in Foucault 2000, p. 156). 2 3 BIBILIOGRAFIA Beneduce, R. (1993), "Geografia della memoria. Considerazioni clinico-antropologiche su migrazione e salute mentale", in: De Micco, V. e Martinelli, P. (a cura di), Passaggi di confine. 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Il mio oggetto d'indagine sarà l'atteggiamento dei Roma nei confronti del loro passato, inteso sia nel senso di memoria comunitaria o 'di gruppo' (la 'memoria collettiva') sia nel senso di memoria individuale e 'privata' (per lo più ristretta alla famiglia consanguinea). In particolare, mi soffermerò sul significato del silenzio osservato dai Roma a proposito di eventi drammatici come l'Olocausto - che rappresenta il culmine delle persecuzioni patite fin dal loro arrivo in Europa, nel XV secolo. 2 Questo silenzio è stato finora erroneamente interpretato dai Gage come sintomo di 'ignoranza' o di 'disinteresse' da parte dei Roma verso il loro passato. Il mio obiettivo è appunto quello di dimostrare che questa interpretazione è il frutto di una concezione etnocentrica della storia e della memoria culturale. Per comprendere appieno l'atteggiamento dei Roma nei confronti del passato (in particolare il silenzio rituale), è necessario prendere atto dell'esistenza di forme molto diverse di memoria, riconducibili a sistemi socio-culturali ben distinti. È necessario inoltre considerare con attenzione il contesto sociale in cui i Roma sono immersi, soprattutto il legame fra la memoria culturale e il modo in cui essi concepiscono e vivono la loro identità all'interno del rapporto con i non-Roma. La nozione di 'memoria' è notoriamente complessa e difficile da definire. A rigor di termini, sarebbe opportuno parlare di 'memorie' al plurale, e non di 'memoria' tout court, dal momento che essa può assumere connotati assai diversi a seconda dei gruppi umani in questione. La prima distinzione da fare è quella fra memoria individuale e memoria collettiva.3 Ogni individuo ha un 'bagaglio' di memorie che riflette le sue personali esperienze di vita e che è perciò unico e irripetibile. D'altro canto, come ha sottolineato Halbwachs, la memoria individuale è strettamente legata alla memoria del gruppo sociale, che fornisce al singolo gli stimoli e gli strumenti necessari per 'ricostruire' il passato: Memory depends on the social environment […] it is in society that people normally acquire their memories. It is also in society that they recall, recognize, and localize their memories.4 Da questo punto di vista, la memoria non è mai un fenomeno puramente idiosincratico, ma reca sempre la 'traccia' del contesto sociale in cui è emersa e ha preso forma. Questo ci porta a distinguere fra la 'memoria' in un contesto di tipo 'tradizionale' e in un contesto 'post-industriale'. La memoria secondo i Gage In genere i non-Roma tendono ad assimilare la nozione di 'memoria' e quella di 'storia', e identificano la Storia con la memoria scritta - ne è prova il fatto che essi parlano in genere di 'memoria storica' tout court. In altre parole, quando ci riferiamo alla 'memoria' di un gruppo umano tendiamo ad associarla istintivamente all'uso della scrittura, che rappresenterebbe il mezzo più affidabile per registrare fedelmente eventi e ricorrenze. La memoria storica per antonomasia è perciò legata indissolubilmente al codice scritto, ed è ad essa che le società occidentali si affidano per la trasmissione dei fatti del passato. D'altro canto, la storia orale, percepita come labile e inaffidabile, viene generalmente relegata in una posizione marginale. Essa viene considerata esclusiva delle società 'senza scrittura' (le cosiddette società 'primitive' o 'selvagge'), che devono affidarsi alla 'memoria etnica' per trasmettere le conoscenze di generazione in generazione. Jacques Revel osserva che nelle società occidentali la memoria è diventato l'oggetto privilegiato della storia ed ha assunto un carattere quasi ossessivo: Memoria 19 È come se le nostre società fossero diventate delle imprese produttrici di memoria, che impiegano buona parte della loro narcisistica attività a riflettere sui mezzi per fissare la loro immagine mentre sono ancora viventi. 5 Queste società si sforzano in tutti i modi di 'preservare' la memoria, di 'fissarla' e di staccarla dal flusso temporale per renderla 'eterna' e salvarla dall'oblio. Questo atteggiamento sembra in linea con la nozione tucididea della storia intesa come 'possesso perenne': il compito della storia sarebbe insomma quello di strappare al tempo il ricordo di eventi che altrimenti andrebbero perduti. Una volta fissata in forma scritta, la memoria diventa 'oggetto' da catalogare, accumulare, commemorare e venerare. Questo processo di 'fissazione' della memoria attraverso la scrittura può essere ricondotto al modo in cui i Gage costruiscono e confermano la propria identità. È solo conservando la memoria del gruppo, mettendola al riparo dalle imprevedibili modifiche legate al passare del tempo, che i Gage preservano la loro identità. La memoria secondo i Roma Abbiamo appena visto l'importanza che la scrittura riveste fra i Gage in relazione alla memoria. Ora, uno degli stereotipi più ricorrenti nei riguardi dei Roma è che siano appunto un popolo 'senza scrittura'. Questa convinzione rientra in un paradigma antropologico di tipo 'detrattivo', che continua a condizionare il nostro modo di rappresentare questo gruppo etnico. Agli occhi dei Gage, i Roma sono un popolo che sembrerebbe privo delle componenti che stanno alla base della 'civiltà' occidentale: un patrimonio storico e culturale comune, una lingua unificata e scritta, una patria dai confini territoriali netti. Lo stesso termine 'Zingari'6 significa letteralmente "intoccabili". Questa tendenza a definire i Roma in termini puramente negativi è anche all'origine della loro inclusione nel novero dei popoli 'senza scrittura'. Ed è su questa particolare definizione che vale la pena di soffermarsi. I Roma, pur essendo immersi da secoli in una società altamente alfabetizzata come quella europea, hanno preservato un sistema comunicativo prevalentemente orale. Tuttavia, ciò non significa che essi non abbiano alcuna conoscenza del ruolo fondamentale della scrittura fra le società 'ospitanti'. Al contrario. Studi recenti 7 hanno dimostrato che i Roma, pur disponendo di una cultura prevalentemente orale (che è peraltro perfettamente funzionale al loro sistema sociale, dominato dal gruppo primario), sono in possesso di una molteplicità di sistemi grafici più o meno elaborati - dai segnali stradali ai codici di tipo 'criptico' legati ad attività come la cartomanzia. Inoltre, in tempi recenti (sostanzialmente a partire dagli anni '50) essi hanno iniziato a utilizzare in modo sempre più significativo la scrittura alfabetica, dando vita a una letteratura scritta che gode di una crescente diffusione, sia fra i Roma che fra i non-Roma. Alla luce di questo uso diversificato della scrittura, appare del tutto improprio continuare a definire i Roma come un popolo sprovvisto di ogni codice grafico. Eppure il mito dell'analfabetismo 'intrinseco' dei Roma continua a godere di un'ampia diffusione fra i Gage. Questo stereotipo è direttamente legato all'immagine del popolo 'zingaro' come un popolo 'al di fuori della storia', immagine perpetrata dai Gage in una serie innumerevole di opere di carattere 'scientifico' e letterario. Esistono molti studi, molte 'storie degli Zingari' (più o meno fantasiose), ma fino a poco fa mancava una storia scritta dai Roma su stessi. 8 Questo ha incoraggiato il fiorire di stereotipi e di veri e propri 'miti' letterari. Nel 1889 Colocci9 diffuse l'immagine degli 'Zingari' come popolo al di fuori della storia. Secondo l'autore questa 'strana' gente dai 'volti bruni e malinconici' non è affatto cambiata nel corso dei secoli: 'il tempo non ebbe la menoma presa su questa razza di bronzo',10 ribadisce lo studioso. Questo stereotipo sopravvive ancora nelle rappresentazioni contemporanee dei Roma, soprattutto in quelle letterarie. In un romanzo di Carlo Sgorlon, Il Caldèras, il giovane protagonista si rivolge ai Gage per conoscere la propria storia. Egli è costretto a spingersi al di fuori dei confini del proprio gruppo, in un ambiente potenzialmente ostile, per avere conferme circa il suo passato. Purtroppo la sua inchiesta è destinata a rivelarsi infruttuosa: Una storia degli zingari non si trovava, nessuno di loro ne aveva mai vista una, nessun cliente l'aveva mai chiesta, era probabile che non fosse mai stata scritta; […] nessuno aveva mai compilato una storia degli zingari perché gli scrittori avevano sempre ritenuto che essi non possedessero una storia, così come non avevano una patria, perché erano un popolo bambino e fuori dal tempo.11 Rappresentazioni di questo tipo alimentano la convinzione che i Roma siano un popolo 'privo di interesse per il passato', e per la storia in generale. E come potrebbe essere altrimenti, visto che la maggioranza dei non-Roma è ancora convinta del fatto che essi non conoscano la scrittura? Come e cosa potrebbero mai 'ricordare' i Roma, si chiedono i Gage, se non sono dotati degli strumenti essenziali per conservare la memoria e per trasmetterla in modo efficace? La risposta ci viene dagli stessi Roma, fra i quali la memoria assume forme diverse e per molti versi irriducibili alle categorie culturali dei Gage. Nella parte seguente dell'articolo, analizzerò tre contesti diversi, tre diverse manifestazioni della memoria fra i Roma, iniziando dalle memorie dell'Olocausto e dalle recenti rappresentazioni scritte della memoria culturale romani per poi passare al caso del silenzio rituale fra i Manuš francesi. L''Olocausto dimenticato' 12 Pur essendo stati oggetto di un vero e proprio sterminio di massa durante il periodo nazista (anche se non ci sono dati numerici certi, si ritiene che circa 500.000 'Zingari' siano morti nei campi di sterminio), i Roma non hanno avuto alcuna rappresentanza al processo di Norimberga. Fino ad ora essi sono stati praticamente esclusi sia dal dibattito sull'Olocausto, sia dalle opere e dai monumenti volti a commemorarlo - un'esclusione che sembra 20 riflettere la marginalizzazione dei Roma sul piano politico e sociale. È stato inoltre fatto notare che sono stati gli stessi Roma a contribuire a questo processo di 'esclusione' dalla memoria. Essi mostrano un'evidente riluttanza a parlare delle persecuzioni subite dal loro popolo nel corso dei secoli, e sembrano preferire il silenzio alle commemorazioni pubbliche. Questa reticenza, questa apparente 'negazione del ricordo' da parte dei Roma è stata erroneamente ricondotta a una mancanza di interesse nella storia del loro popolo. È stato persino insinuato che i Roma non parlino dell'Olocausto perché ne sono completamente 'all'oscuro'. Questi giudizi - del tutto infondati - contribuiscono a diffondere la convinzione che i Roma siano un popolo 'fuori della storia', immerso in un eterno presente e fatalmente escluso dalle leggi del progresso e dalle dinamiche in atto nelle 'società storiche'.13 In realtà questa convinzione è il frutto di un'interpretazione etnocentrica della storia. Come abbiamo visto, secondo i Gage la Storia (quella con la 'S' maiuscola, in opposizione alle innumerevoli e frammentarie 'storie' individuali) è la storia scritta, la storia documentaria, considerata come l'unica depositaria affidabile della memoria di un popolo. La storia orale invece, quella dei popoli 'senza scrittura', è percepita come qualcosa di fluido, come un flusso ininterrotto che segue percorsi imprevedibili, che può affievolirsi fino a scomparire per poi riaffiorare inaspettatamente, come un fiume sotterraneo risale all'improvviso in superficie. Questo tipo di storia, considerata dai Gage inaffidabile e inadeguata a preservare la memoria, è confinata alle società 'tradizionali', come appunto quella dei Roma. Quali sono le principali differenze fra la storia scritta, lineare e cumulativa, e la storia dei Roma? Innanzitutto quest'ultima non è mediata e filtrata dalla scrittura, non è sistematizzata e organizzata secondo un criterio di tipo lineare. Ma il fatto che non ci siano testimonianze scritte sulla storia dei Roma non significa ovviamente che essa non sia affatto esistita. Significa che occorre cercarla in una dimensione diversa rispetto a quella scritta. La memoria culturale dei Roma è essenzialmente una memoria 'viva', è 'agita' nella vita quotidiana e non nella sfera pubblica; essa è, come ha scritto Williams dell'Olocausto, a proposito del quale i Roma osservano un silenzio interpretato dai Gage - in modo affrettato e semplicistico - come 'vuoto', come assenza di memoria. Jerzy Ficowski, un poeta polacco che ha raccolto e trascritto le poesie di Papusza (considerata la 'madre' della letteratura romani) afferma che ad eccezione di due canti dedicati ad Auschwitz - peraltro cantati molto di rado - egli non ha trovato alcuna traccia di memorie di guerra fra i Roma polacchi. Costoro non commemorano l'Olocausto e non amano parlarne: sembrerebbero avere completamente dimenticato le atrocità subite nei campi di concentramento. La giornalista Isabel Fonseca, autrice di un fortunato libro sui Roma europei,15 conferma le impressioni di Ficowski. Secondo l'autrice, fino a questo momento i Roma hanno cercato di 'reprimere' e di 'cancellare' le tracce del loro passato (Fonseca parla di un 'istinto' dei Roma a 'reprimere il passato'): The Jews have responded to persecution and dispersal with a monumental industry of remembrance. The Gypsies - with their peculiar mixture of fatalism and the spirit, or wit, to seize the day - have made an art of forgetting.16 Abbiamo quindi il caso di due gruppi etnici, i Roma e gli Ebrei, che sembrano essere agli antipodi per quanto riguarda il modo di guardare alla loro 'memoria etnica'. Per gli Ebrei il ricordo, la testimonianza, rappresenta un 'dovere' a cui è impossibile sottrarsi. È quindi necessario ricordare, è necessario conservare i resti dei campi di concentramento, le barricate, il filo spinato, i forni crematori, perché i segni tangibili dello sterminio 'parlano da sé', raccontano una storia che grazie alla commemorazione viene di volta in volta 'rivissuta' e sottratta all'oblio. Elie Wiesel, parla di una 'necessità di farsi 'testimoni', di conservare il ricordo di Auschwitz: to have survived only to forget would be blasphemy, a second catastrophe. To forget the dead would be to have them die a second time.17 Dimenticare lo sterminio, lasciare svanire il suo ricordo, equivarrebbe a considerarlo niente più che una sorta di 'errore', un incidente di percorso che va rimosso dalla coscienza collettiva. Per Wiesel questo è semplicemente inconcepibile, è un affronto nei confronti delle vittime. Ricordare è quindi una sorta di 'imperativo categorico'. Ma qual è il modo migliore per ricordare questi eventi? Com'è possibile 'ridire l'indicibile'? Come dare un significato a un evento che sembra sfidare qualsiasi logica? La memoria di eventi traumatici come le persecuzioni e in ultima istanza il genocidio ha delle caratteristiche particolari. Essa è stata descritta come m ' émoire profonde' (memoria profonda), ovvero come una forma di memoria così satura di emozioni e sofferenza da causare un dolore fisico: è ciò che Primo Levi definisce come 'la cicatrice del ricordo', il trauma, la cui intensità impedisce ai sopravvissuti di parlare della loro esperienza. Questa forma di memoria è ben diversa dalla 'mémoire ordinaire', Una memoria che non fa discorso, una memoria che non mira all'esplorazione del passato e all'accumulazione di conoscenze; […] la commemorazione, così come è organizzata [fra i Roma], provoca la conservazione di ricordi sempre più intimi e non suscita affatto l'edificazione di una memoria comunitaria, memoria-saga, memoria-epopea, memoria del gruppo in quanto tale.14 La memoria a cui si riferisce l'antropologo vive nei piccoli gesti di tutti i giorni, quei gesti che agli altri - i Gage, coloro che non conoscono le tradizioni dei Roma - passano inosservati. Questa memoria si nutre soprattutto di silenzi, di rispettosa 'astensione dal ricordo'. Questo atteggiamento si riscontra chiaramente nel caso 21 ovvero la memoria di eventi ordinari, quotidiani, che rimane in qualche modo esterna al soggetto. Questo tipo di memoria, filtrata dalla ragione, si inserisce all'interno di una struttura narrativa di tipo sequenziale (tanto che viene anche definita 'memoria intellettuale').18 Ben diverso è il caso della memoria romani, che nasce e si forma in un contesto orale, in cui i fatti del passato non sono oggettivati attraverso la scrittura, ma rimangono intrinsecamente legati al loro referente umano. Per questo fra i Roma la rievocazione dei ricordi legati all'Olocausto è circondata da un grande rispetto. È appunto al principio del rispetto che i Roma si attengono quando scelgono di onorare con il silenzio, e non la parola scritta, la memoria dei morti del genocidio nazista. Questo silenzio non può essere interpretato come 'mancanza di interesse' per la storia del loro popolo. Per i Gage, il silenzio non è altro che 'assenza di comunicazione', è l'oblio. Ma l'oblio non è il vuoto. Secondo la poetessa Paula Schöpf (che vive fra i Sinti estrekarja), il silenzio può avere due significati distinti: il primo è il silenzio come segno di vigliaccheria, è la paura di dare testimonianza. Ma vi è anche un altro tipo di silenzio, che presenta un significato molto diverso: è il silenzio causato dal ricordo delle sofferenze patite. Questo silenzio non è indice di un'assenza', ma al contrario, è così carico di afflizione e di angoscia da sfidare il linguaggio ordinario. Come vedremo nella sezione seguente, alcuni Roma hanno deciso di accettare questa sfida, e lo hanno fatto ricorrendo al linguaggio della poesia. aleggia nell'aria la nenia della morte! Da queste pietre, grigie pietre, da ogni rovina, dalle cornici infrante, esala disperazione di sangue e lacrime. Il mio spirito s'impiglia nel filo spinato E la mia anima s'aggrappa alle sbarre, prigioniera in casa nemica! Chi sono? Nessuno! Tu chi sei? Nessuno! Voi Sinti chi siete? Nessuno! solo ombre, nebbia! Nebbia che per abitudine è rimasta prigioniera della più grande infamia della storia dell'uomo! 'È finita la storia dei sinti I violini tacciono Le chitarre non hanno più voce Le giovani donne non danzano più Non hanno più piedi per danzare I fuochi si sono spenti Gelida è la notte La nebbia ha dissolto i cuori dei sinti La terra si è dissetata con il sangue dei sinti Non ci sono più carrozzoni Nella verde periferia Né violini innamorati Né fiori nei capelli bruni'.21 I poeti e l'Olocausto In tempi recenti, un numero crescente di autori rom ha dedicato racconti e componimenti poetici al ricordo dell'Olocausto e alla storia del loro popolo, nel tentativo di rafforzare il senso dell'identità romani e di forgiare una sorta di 'memoria collettiva'. Si tratta di una tendenza recente che per ora interessa solo una minoranza di Roma, ma è comunque importante darne testimonianza ed evidenziare le sue peculiarità rispetto alla forma di memoria basata sul rispetto e sul silenzio. L'attività di questi poeti è strettamente legata alla formazione di una 'intelligentsja', che utilizza la scrittura e i canali comunicativi finora monopolizzati dai Gage per sfatare gli stereotipi più odiosi che ancora circondano gli 'Zingari' e per mantenere viva, fra i Roma, la percezione delle proprie radici storiche e culturali. Nei loro scritti l'Olocausto è rappresentato come il simbolo dell'intolleranza e dell'ostilità della società dominante, che ha sempre cercato di escludere e di negare la diversità dei Roma in quanto 'devianza' rispetto alle norme della società maggioritaria.19 I primi due testi sono poesie di Paula Schöpf (già menzionata in precedenza), mentre gli ultimi due sono testi di Santino Spinelli, Rom abruzzese e membro attivo della nascente 'intelligentsja' romani. In queste poesie l'Olocausto è innanzitutto silenzio: il silenzio della morte, dell'annullamento totale, dell'etnocidio. Le immagini presentate nel testo rievocano una disperazione senza scampo. La musica, la danza, i canti - cioè le manifestazioni ritenute quelle più tipiche dell'arte romani - sono stati zittiti per sempre. Di fronte allo sterminio dei Roma e ai tentativi da parte dei Gage di mascherarlo o di rimuoverlo dalla 'coscienza collettiva', la poetessa reagisce con una denuncia perentoria e improrogabile (l'Olocausto è definito come 'la più grande infamia della storia dell'uomo'). Ecco allora il dispiegarsi, all'interno delle sue poesie, di una successione incalzante di domande retoriche, volte a enfatizzare la violenza brutale e assoluta (Voi Sinti chi siete? Nessuno! solo ombre,/nebbia!) che ha travolto il suo popolo. Lo stesso atteggiamento di denuncia sembra animare le poesie di Santino Spinelli, caratterizzate dalla deformazione surrealistica del linguaggio poetico : AUSCHWITZ 22 Faccia incavata, occhi oscurati, labbra fredde; silenzio. Cuore strappato senza fiato, OLOCAUSTO DIMENTICATO20 Silenzio, desolazione, oscura notte il cielo è cupo, pesante di silenzio! 22 senza parole, nessun pianto. MALEDIZIONE ZINGARA 23 Gelide mani nere rivolte al cielo, la palude ricopre la testa schiacciata, un grido soffocato si eleva, nessuno ascolta. Un popolo inerme al massacro condotto, nessuno ha visto nessuno ha parlato. Cadaveri risorti dalla palude, orribili visi mostrati al sole, il dito puntato verso chi ha taciuto! Anche in questi componimenti, in cui la struttura narrativa è sostituita da una sequenza di immagini giustapposte quasi 'per accumulo', sono dominati dalla desolazione e dagli effetti della violenza cieca e brutale dei persecutori nazisti. In questo paesaggio da inferno dantesco, tutto è assenza di vita, di luce e di calore (Faccia incavata,/occhi oscurati,/labbra fredde;/silenzio). Ma verso la fine della poesia un altro silenzio si fa strada: è il silenzio che, imposto dalla società maggioritaria sul passato dei 'popoli senza storia', è riuscito a oscurare il ricordo di quanto è accaduto. È contro questo silenzio 'colpevole' e criminale che si leva il grido oltraggiato del poeta: il dito puntato/verso chi ha taciuto! Il grido del poeta rompe il silenzio con cui molti vorrebbero cancellare l'orrore delle persecuzioni e del genocidio: esso è quindi rivolto a coloro innanzitutto che vogliono annullare il passato e deformare intenzionalmente la storia, piegandola ai propri fini. Questo silenzio non ha nulla a che vedere con il silenzio rituale dei Roma. Nel primo caso (l'infamia taciuta) il silenzio equivale alla soppressione della memoria e alla sua falsificazione, mentre nel caso dei Roma il silenzio è un modo per proteggere alla memoria, per non farle torto. Per illustrare questa differenza cruciale mi soffermerò brevemente sul silenzio rituale fra i Manuš francesi studiati da Williams. L'antropologo francese ha analizzato con grande finezza le reazioni dei Manuš di fronte alla morte all'interno del gruppo familiare, evidenziandone la diversità rispetto alle tradizioni della società maggioritaria. Fra i Gage il modo più naturale di 'rielaborare' - e quindi in qualche modo superare - il trauma della perdita di un parente stretto è quello di rievocarne la figura, il carattere, le abitudini e così via. I Manuš al contrario, come ci spiega Williams, onorano i loro morti distruggendone gli oggetti personali, astenendosi dal consumare le loro bevande o i loro cibi preferiti, evitando con grande cautela il luogo dove è avvenuto il decesso, e soprattutto evitando di pronunciarne il nome.24 23 Nella lingua dei Manuš non esiste un termine specifico per definire la 'memoria': essi usano il termine 'era', cioè 'rispetto', per indicare ciò che noi chiamiamo 'memoria'.25 La memoria insomma non è oggettivata, non è espressa in termini linguistici. Il linguaggio infatti introduce una cesura temporale, separa le persone dagli eventi e quindi anche dal ricordo dei propri cari. Per i Manuš, il modo migliore di ricordare i morti è quello di riviverne la perdita nella vita di tutti i giorni, evitando di pronunciare il nome del defunto, o curandosi di farlo con il ricorso a perifrasi ('il mio defunto fratello', 'il mio povero defunto padre' e così via). I Manuš sanno che la memoria umana è fallace, inaffidabile. Essa potrebbe in ogni momento alterare il ricordo, intaccando così anche il rispetto con cui si devono onorare i morti. Osservando il silenzio, i Manuš proteggono la memoria del defunto da possibili abusi. Del resto come si può 'parlare' in modo adeguato di chi non c'è più? Non ci sono parole al mondo che possano fare giustizia alla memoria di chi è scomparso. La morte è innanzitutto perdita, è silenzio. È oblio. Che senso ha cercare di 'possedere' questo silenzio, o cercare di esprimerlo razionalmente? Tutto ciò non solo non porterebbe a niente, ma equivarrebbe soprattutto a una terribile mancanza di rispetto. La memoria culturale dei Roma e il contesto sociale Nel corso dell'articolo è stato osservato che le nozioni di memoria e di storia fra i non-Roma sono fortemente influenzate dall'uso della scrittura. Secondo i Gage la Storia (con la 'S' maiuscola, in opposizione alle innumerevoli e frammentarie 'storie' individuali) è fondamentalmente la storia scritta, la storia documentaria, considerata come l'unica depositaria affidabile della memoria di un popolo. Le società occidentali sembrano protese nello sforzo di registrare, conservare e 'patrimonializzare' le vestigia del passato, perché è attraverso questo processo di fissazione della memoria che esse riescono a confermare e rafforzare la loro identità. In contrasto con questo atteggiamento, i Roma non si affidano alla scrittura per trasmettere e conservare la memoria. Come abbiamo visto a proposito dell'Olocausto, essi preferiscono affidare al silenzio il ricordo traumatico delle persecuzioni. A parte il caso recente dei poeti, i Roma non hanno finora manifestato la volontà di costruire, come gli Ebrei, un''industria della memoria', non hanno espresso le loro memorie nella sfera pubblica. Come interpretare questo atteggiamento? Come concepire questa enfasi posta sull'oblio più che sulla memoria? Per cercare una possibile risposta a questi interrogativi è necessario rivolgerci al complesso sistema delle relazioni fra Roma e non-Roma. La configurazione della memoria romani in termini di 'assenza' e astensione dal ricordo riflette il modo in cui i Roma concepiscono il loro rapporto con i Gage. Per preservare la loro specificità culturale, i Roma hanno scelto di restare ai margini del sistema sociale del gruppo dominante. Così facendo, essi si rendono 'invisibili' agli occhi dei non-Roma, minimizzando i rischi di assimilazione culturale e al tempo stesso riaffermando la propria identità e l'unicità della propria visione del mondo. Ai Gage può sembrare strano che i Roma ricorrano a questa forma di 'autorimozione' dal contesto sociale per definire se stessi. Per comprendere questa strategia, è necessario considerare le peculiari caratteristiche della loro presenza all'interno della società dominante. I Roma vivono in una realtà in cui i Gage esercitano un'egemonia incontrastata sia dal punto di vista socioeconomico che dal punto di vista culturale e ideologico. Essi sono in continuo contatto con questa realtà, contatto da cui non possono prescindere per ovvie ragioni di sopravvivenza economica e culturale, e questa prossimità rappresenta una minaccia costante per la loro identità. Scegliendo il silenzio e l'invisibilità sociale come strategie per gestire il loro rapporto con la storia (scritta) e con la società dominante, i Roma creano una distinzione simbolica che li distingue dai Gage, garantendo la loro sopravvivenza come un gruppo separato. L'unico modo per interpretare il significato simbolico del silenzio fra i Roma consiste quindi nel metterlo in relazione con il contesto sociale più generale. Considerare - come è stato fatto finora - il silenzio in termini assoluti, svincolati da ogni contesto (il silenzio in sé) porta a classificarlo semplicemente come un'assenza o una carenza nel sistema comunicativo. Nella prospettiva dei Roma, al contrario, il silenzio non ha una connotazione puramente negativa, ma è il modo migliore per riaffermare la propria diversità culturale dal gruppo maggioritario. Ci troviamo qui di fronte a un'opposizione dialettica altamente significativa. Mentre i Gage confermano la propria identità attraverso la preservazione della memoria e la sua trasmissione in forma scritta, i Roma popolo arbitrariamente definito 'senza scrittura' e 'senza storia' - ci rivelano un approccio completamente diverso alla memoria. Invece di concentrarsi sull'articolazione del ricordo in una forma verbale, invece di optare per la catalogazione della memoria e per il suo accumulo, essi hanno scelto di proteggere la memoria degli eventi passati con l'astinenza e il rispetto, e hanno trovato nel silenzio la forma suprema di possesso e di definizione della propria identità etnica. NOTE 1 Adattato da 'Memory and Oblivion in the Construction of Romani Identities', comunicazione per la conferenza Translation, Memory and Culture (ACUME project & University of Warwick 2003). Pubblicato nel 2004 per all'interno dei Warwick Working Papers in Translation and Cultural Studies. 2 L'articolo si ispira alle ricerche di Piasere e di Williams - autori di pregevoli monografie sui Roma sloveno-croati e i Manuš francesi - e a un mio studio sulla funzione della scrittura fra i Roma sloveno-croati. 3 Non mi addentrerò qui nelle altri possibili distinzioni relative al concetto di memoria, per esempio su quella fra memoria 'specifica' (che garantisce la fissazione dei comportamenti fra le specie animali), contrapposta alla memoria 'etnica' (caratteristica delle società umane), e memoria 'artificiale' (in particolare quella elettronica). 4 M. Halbwachs, On Collective Memory (Chicago: University of Chicago Press, 1992), pp. 37-38. 5 J. Revel, 'La memoria e la storia' URL: http://www.emsf.rai.it (28 Maggio 2003). 6 Dal termine greco athínganoi, cioè 'intoccabili', in origine il nome di un'antica setta religiosa della Frigia (IX secolo). Questo termine verrà utilizzato nel presente articolo tra virgolette (a sottolinearne l'arbitrarietà) unicamente a scopo classificatorio e servirà ad indicare tutti i gruppi 'zingari' in generale. 7 Si veda ad esempio i lavori di Piasere (in particolare l'articolo 'I segni "segreti" degli Zingari', Ricerca Folklorica, 31 (1995), 83105) e Patrick Williams (si veda il suo articolo 'La scrittura fra l'orale e lo scritto', in Daniel Fabre, (a cura di), Per iscritto: Antropologia delle scritture quotidiane, trad. it. di Anna Iuso (Lecce: Argo, 1998), pp. 79-99). 8 Questa lacuna è stata recentemente colmata da alcuni membri dell'intelligentsja romani (ad esempio Rajko Djuric e Ian Hancock), che si sono interessati in particolare della documentazione relativa allo sterminio nazista. 9 Autore del trattato Gli Zingari. Storia di un popolo errante (Torino: Loescher, 1889). 10 Colocci, op. cit, p. 3. 11 C. Sgorlon, Il Caldèras (Milano: Mondadori, 1989), p. 115. 12 Il termine usato dai Roma per definire l'Olocausto è 'Porrajmos', ovvero 'divoramento'. 24 13 Sulle rappresentazioni degli 'Zingari' come 'popolo senza storia' si veda Katie Trumpener, 'The Time of the 'Gypsies', Critical Inquiry, 18 (Summer 1992), 843-884, e sul processo di 'dislocazione temporale' dell''Altro' in antropologia cfr. J. Fabian, Time and the Other: How Anthropology Makes its Object (New York: Columbia University Press, 1983). 14 P. Williams, Noi, non ne parliamo: I vivi e i morti tra i Manuš (Roma: CISU, 1997), pp. 11-12. 15 I. Fonseca, Bury Me Standing. The Gypsies and Their Journey (London: Vintage, 1996). 16 I. Fonseca, op. cit., p. 276. 17 Citato in L. Rapaport, Jews in Germany after the Holocaust: Memory, Identity, and the Jewish-German Relations (Cambridge: Cambridge University Press, 1997), p. 23. 18 Cfr. C. Delbo, Days and Memory (Vermont: Marlboro, 1990) (orig. francese 1985), p. 2. 19 La persecuzione dei Roma, che presenta caratteri molto simili al genocidio ebraico, trova le sue origini nella tesi nazista della natura 'asociale' (e perciò pericolosa) degli 'Zingari'. Secondo i nazisti l'asocialità zingara era irrecuperabile, in quanto legata a una 'tara' di tipo genetico (si veda in merito anche le teorie dell'antropologia criminale positivista, soprattutto la teoria del 'delinquente nato' di Cesare Lombroso). 20 BISTARDI LAIDA. Stil, phari, tunkel rathy / u himlo hì kalo. pharo fon stilapen! / Givela an u lufto muldrengri gili! / fon kala brar, grau bar, / von haki zugrunda fon pargerdé raume, / kant fon rat und treni. / Mu gaisto hangela an u stekeltrota. / Mar zela hengrelpes pù sasstar, / plandli an fremdo them! / Kun hone? Keck! Tu kun hal? Keck! / Tume sinti kun han? Keck! Nur shata, / nebla! Nebla furr braucha cass / Phlandli fon brardar cilacipen / fon mencengri historia! Poesia di Paula Schöpf pubblicata in M. Karpati (a cura di), Zingari ieri e oggi (Roma: Lacio Drom, 1993), p. 208. 21 Dalla poesia 'Il viaggio è finito', in La mendicante dei sogni (Bolzano: Atelier grafico, 1997), p. 16. 22 Muj šukkó, / kjá kalé / vušt šurdé; / kwit. / Jiló cindó / bi dox, / bi lav, / nikt rubvé. Santino Spinelli, Gilí Romaní / Canto Zingaro (Roma: Lacio Drom, 1988). 23 KUSIBBÈ ROMANÒ. Surdè vašt kalè šdinè ku thèm, / panì milalò a ciarèl u širò / sa tritimmè, / ni lùk a šunèp pandindò, / nikt a šunèl. / Ginè bi nafèl / ku mirribbè 'ngirdè, / nikt a dikkià / nikt a vakirià. / Mulé riggidè / andrè u panì milalò, / xalè muj angiàl ku khàm, / u 'ngustò a sìnnl / angiàl ki kòn / u kwit a cilò! S. Spinelli, Romanipè / Ziganità (Chieti: Solfanelli, 1993). 24 In chiave simbolica, il significato del silenzio manuš può essere inteso semioticamente come 'scarto differenziale'. Così come l'introduzione di un fonema ci permette di distinguere una parola da un'altra, e questa distinzione genera una variazione di significato, la rimozione di un nome dal contesto in cui esso era inserito introduce una differenza significante. Ciò che è rilevante in questo caso non è tanto il silenzio in sé, il 'contenuto materiale' del silenzio (o meglio l'assenza di contenuto), quanto la sua relazione dinamica con il contesto sociale. Il silenzio rituale crea una interruzione simbolica nel flusso del discorso, e questa interruzione assume un significato simbolico molto importante. 25 P. Williams, op. cit., p. 13. BIBLIOGRAFIA Assmann, Jan, 'Collective Memory and Cultural Identity' New German Critique 65 (1995), 125-133. Colocci, Adriano, Gli Zingari. Storia di un popolo errante (Torino: Loescher, 1889). Delbo, Charlotte, Days and Memory (Vermont: Marlboro, 1990) (orig. francese 1985). 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Ha inizio un cinquantennio di magnifiche imprese, immaginate come risolutive di ogni mancato sviluppo nei paesi definiti tradizionali, arretrati, sottosviluppati o in via di sviluppo, Terzo Mondo1, Sud del mondo. Cinquantasei anni dopo, il presidente degli U.S.A. George W.Bush, per mano del suo Segretario di Stato Colin Powell, ridisegna la cornice di questa impresa benefica che in un futuro, non sappiamo quanto prossimo, giungerà a compimento. Si intende qui confrontare il discorso di Truman2 , già analizzato accuratamente da Gilbert Rist in Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, e il testo di Colin Powell3 per evidenziare analogie e differenze nel tracciare i contorni del paradigma dello sviluppo. Verranno ripresi gli assunti di fondo di Rist, in particolare l'idea di sviluppo come credenza occidentale, dimostrando quanto il testo di Colin Powell conservi gli stessi tratti ideologici di fondo del discorso visionario di Truman mantenendo allo stesso tempo una sua originalità dettata dal contesto storico specifico in cui si inserisce e dalla mutata sensibilità sociale frutto, in parte, delle stesse retoriche di potere. Harry Progresso, benessere, sviluppo, e forse anche democrazia (quando è esportata come un pacco dono) sono parole feticcio o parole di plastica (Plastikwörter), per usare un termine usato da Pörksen4 , la cui caratteristica è di essere appartenute al linguaggio corrente con un senso chiaro, di essere poi passate al linguaggio scientifico e successivamente al linguaggio dei tecnocrati con un senso così estensivo da non significare più niente. Si potrebbe aggiungere che il loro valore principale risieda nella capacità di rinviare ad un simulacro, mutevole e sfuggente, la cui distanza rimane costante lasciando però sul cammino tracce della sua presenza che permettono di continuare a sperare. Come definite da Rist "le credenze non costituiscono delle verità dogmatiche alle quali ciascuno aderirebbe per intima convinzione, ma si esprimono sotto la forma di semplici proposizioni considerate vere in modo diffuso: vi si crede perché si crede che tutti vi credano" 5. Progresso, benessere, sviluppo, democrazia, diventano così strumenti retorici per "far credere" e per "far fare" tanto più quando servono a definire o ridefinire l'agenda setting della politica internazionale. I due testi qui messi a confronto appartengono a fasi storiche assai diverse ed il contesto di enunciazione determina un diverso grado di esaustività e dettaglio. Il primo, quello di Truman, si colloca in un contesto storico ricco di cambiamenti: la ricostruzione dell'Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'assestamento e il consolidamento dei due blocchi, l'incombente Guerra Fredda, la nascita di Israele, l'affermarsi dei movimenti d'indipendenza (Indonesia1945; India 1947) e l'ascesa al potere di Mao Tse Tung (Cina 1949). Scritto per l'annuale discorso sullo stato dell'Unione si rivolge ai propri concittadini ma parla a tutto il mondo: ribadisce il sostegno all'ONU e il sostegno economico all'Europa con il Piano Marshall, annuncia la creazione di un'organizzazione comune di difesa (la NATO) per contrastare la potenza sovietica e al punto IV, quello su cui verrà calamitata l'attenzione di tutta la stampa americana nei giorni successivi, inaugura l'"era dello sviluppo", enunciata ancora prima di essere pianificata in profondità: passeranno infatti quasi due anni prima del suo inizio vero e proprio. Il punto IV rappresenta un'abile passaggio retorico che getta le fondamenta di una politica estera che si estende nel tempo fino ai giorni nostri. Truman Il testo di Colin Powell ha per molti aspetti una valenza diversa. Si colloca nella fase di passaggio fra il primo e il secondo mandato presidenziale di George W.Bush. Powell ha rappresentato l'ala moderata dell'amministrazione nelle recenti guerre asimmetriche in Afghanistan e Iraq seguite alla distruzione delle Twin Towers; il suo scritto, che è anche di commiato (verrà sostituito dopo pochi giorni da Condoleeza Rice), è allo stesso tempo un documento programmatico per il secondo mandato dell'amministrazione Bush e una celebrazione del suo operato. Powell non parla di guerre ma di sviluppo tratteggiando il volto umano e altruista della politica estera U.S.A. in un quadro internazionale che richiede un riavvicinamento all'Europa per la gestione dei conflitti in corso. Crescita economica, sviluppo, lotta al terrorismo ed esportazione (armata) della democrazia sono i 27 nodi centrali ed inseparabili della stessa politica. Sebbene i due testi divergano in quanto a stile e profondità di dettagli, sono accomunati dal tono messianico e dal ruolo da protagonista indiscusso che ritagliano per gli U.S.A. nella grande avventura dello sviluppo mondiale. Entrambi mirano a fondare un "nuovo inizio" in un'impresa votata necessariamente al successo, infallibile quanto lo spirito divino. L'apologia di se stessi e del proprio operato, pur nella discontinuità richiesta da un ambizioso e miracoloso progetto "nuovo", si nasconde dietro una analisi fasulla perché privata delle ambiguità proprie di ogni contesto sociale specifico e complesso. Ecco quindi che, nell'occultare la storia naturalizzando le disparità realmente esistenti tra i diversi paesi del mondo, Truman e Powell riescono, a distanza di cinquantasei anni a tagliare i nastri di una nuova sfida, limpida, lineare, audace come devono essere tutte le imprese epiche. Passiamo ora al confronto e all'analisi dei due testi. Truman (d'ora in poi T.): "Più della metà delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una minaccia…" Powell: (d'ora in poi P.) citando direttamente il presidente W.Bush: "non è giusto ne stabile un mondo nel quale a vivere nell'agio e nell'abbondanza sono solo alcuni mentre l'altra metà del genere umano vive con meno di due dollari al giorno" e poi direttamente "Metà della popolazione di questo pianeta, circa tre miliardi di esseri umani, vive nell'indigenza". Una delle caratteristiche del discorso messianico consiste nel mostrare la mèta da raggiungere collocandola in un futuro indefinito, tanto lontano quanto potenzialmente raggiungibile; il punto di partenza deve accentuare la grandezza della sfida a cui si è chiamati a partecipare. Accostando le considerazioni di partenza di Truman e Powell non rimane che accantonare le illusioni che i due discorsi evocano. A distanza di mezzo secolo è sempre la metà della popolazione mondiale a vivere nell' "indigenza", metà della popolazione mondiale che si trasforma in un impersonale fantasma strumentale al dispiegamento di forze e sforzi meno limpidi di quanto vogliono sembrare. La coppia di termini sviluppo-sottosviluppo colloca su uno stesso orizzonte potenziale tutti gli attori sociali, gli stati "sviluppati" come quelli "sottosviluppati" che in epoca coloniale rappresentavano invece l'assenza di civiltà ed erano perciò identificati da un'alterità radicalmente diversa. Sviluppo e sottosviluppo, in modo ancora più netto di civiltà ed assenza di civiltà, rappresentano gradi diversi di un'unica gerarchia. Ora, come sottolinea Rist, sotto l'influenza del paradigma dello sviluppo, conforme alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, si fa strada l'idea di un progresso che corre su una strada comune, tanto ineluttabile quanto standardizzato su parametri prettamente locali che pretendono di imporsi universalmente, anche se non universalmente accettati; sono modelli fondati su tecnocrazia e liberismo che permettono di esportare sviluppo e democrazia, con la persuasione diplomatica o con la forza delle logiche di mercato e delle armi. Perché favorire lo sviluppo? Lo sviluppo non è un imperativo che si impone per semplice altruismo o per sensibilità morale, paravento d'obbligo per far leva sull'opinione pubblica. La povertà è una minaccia (vedi le frasi sopra citate), ma se la preoccupazione principale di Truman è il miglior sfruttamento delle risorse umane e naturali del mondo, obiettivo espresso con candida ingenuità, Powell si concentra inizialmente sulla lotta al terrorismo. La povertà fa paura quindi e richiede di essere affrontata con strategie consone alle condizioni geopolitiche in cui si inserisce. Truman getta le fondamenta per l'esportazione di un modello di sviluppo basato sulla crescita economica, Powell ha invece l'arduo compito di delineare un percorso più complesso: la lotta al terrorismo per favorire il "buon governo" che combatte la povertà favorendo la crescita economica. L'imperativo odierno slitta dall'esportazione di un modello di sviluppo all'esportazione di un modello di "buon governo" per favorire lo sviluppo, fonte incontestabile di pace e benessere. Non c'è pace senza crescita economica quindi, le due analisi differiscono nella formula necessaria per raggiungere lo stesso obiettivo. T.: "Quel che prevediamo è un programma di sviluppo basato su concetti di un negoziato equo e democratico. Tutti i paesi, compreso il nostro profitteranno largamente di un programma costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali del mondo. L'esperienza dimostra che il nostro commercio con gli altri paesi cresce con i loro progressi industriali ed economici. Una maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace." P.: "Nessun Paese, nemmeno il più forte, può garantire la sicurezza del suo popolo fintanto che l'ingiustizia e la disperazione economica riescono a mescolarsi alla tirannia e al fanatismo. Quello dello sviluppo è una questione centrale per la sicurezza nazionale. […] La povertà genera frustrazione e risentimento, che gli 'imprenditori di ideologie' riescono a trasformare in sostegno o accettazione - nei confronti del terrorismo[…]. Per essere sostenibile lo sviluppo deve essere un processo che investe e paga dividendi, che semina e raccoglie". Quali le cause della povertà? Innanzitutto è interessante notare come nei due testi sia assente qualsiasi riferimento storico che spieghi le cause della povertà. Solo nel discorso di Truman si fa un vago accenno al passato quando dice: "Il vecchio imperialismo - lo sfruttamento al servizio del profitto straniero - non ha niente a che vedere con le nostre intenzioni". Un riferimento quanto mai generico utile a prendere le distanze dal colonialismo europeo per legittimare il nuovo paradigma neocoloniale dello sviluppo. La povertà in entrambi i casi è naturalizzata e nazionalizzata; assume per Truman la connotazione di un nemico immanente dotato di vita propria aldilà della storia, un "nemico di sempre", una questione locale 28 che ora può diventare di interesse mondiale (interesse della "famiglia umana") grazie alle nuove possibilità di intervento messe a disposizione dal progresso scientifico (per i risvolti tecnocratici si veda più sotto), mentre per Powell "l'ingiustizia sociale" è il prodotto di singoli governi caratterizzati da corruzione endemica, soffocamento dell'iniziativa, assenza di equità. E' l'immagine bizzarra di un mondo di nazioni autarchiche fin dalla nascita che non rispondono correttamente agli stimoli fino ad ora messi in atto. Viene negata l'interdipendenza per esternalizzare le cause del mancato sviluppo. I paesi poveri assumono le sembianze di malati cronici per volere del destino crudele. T.: "E' solo aiutando i suoi membri più sfavoriti ad aiutarsi da soli che la famiglia umana potrà realizzare la vita decente e soddisfacente alla quale ciascuno ha diritto. Solo la democrazia può fornire la forza vivificante che mobiliterà i popoli del mondo in vista di un'azione che permetterà loro di trionfare non solo sui loro oppressori ma anche sui loro nemici di sempre: la fame, la miseria e la disperazione". P.: "La causa che è alla radice della povertà è l'ingiustizia sociale e il cattivo governo che la appoggia. La povertà nasce e persiste dove la corruzione è endemica e l'iniziativa è soffocata, dove il concetto elementare di equità è assente. In circostanze simili la povertà è un assalto alla dignità umana e in questo assalto sta il seme naturale dell'odio". Powell, suo malgrado, deve fare i conti con mezzo secolo di progetti di sviluppo che nei decenni si è trasformato, come sottolinea Rist, in "sviluppo sostenibile" e poi in "sviluppo umano" senza però modificare il suo assunto di fondo: l'esportazione di modelli universali di crescita. P.: "Siamo giunti alla conclusione che l'assistenza allo sviluppo non funziona al suo meglio se concepita come gretto esercizio economico. Ora più che mai è evidente che gli atteggiamenti politici e le predisposizioni culturali influenzano il comportamento economico degli individui e che è la storia ad aver dato forma alle istituzioni economiche della società […] Pensiamo che per riuscire ad alleviare la povertà occorra favorire una crescita economica sostenibile: il che significa che chi attua piani politici ed economici deve prendere sul serio la sfida del buon governo." L'approccio allo sviluppo nel discorso di Powell è necessariamente più articolato. Politica economia e cultura si intrecciano nell'idea di una Storia ineluttabile, intrisa di un'essenza e di un destino già scritti che giustificano il presente e forse anche il futuro. Più avanti Powell accenna ai limiti della politiche di aiuto appiattite sull'emergenza6 , ma allo stesso tempo viene ribadita la necessità di un forte controllo centralizzato delle dinamiche dello sviluppo che passano invariabilmente oggi come cinquant'anni fa dall'incremento della produzione di merci e dall'iniziativa privata. E' un altro punto che accomuna i due discorsi; "l'aiutarli ad aiutarsi da Quale idea di sviluppo? Con quali strumenti? soli" è funzionale alla celebrazione del self made man e della mano invisibile del mercato: Scienza e crescita economica sono per Truman il T.: "Con la collaborazione degli ambienti motore dello sviluppo. La loro pretesa d'affari, del capitale privato, dell'agricoltura e universalità e oggettività è necessaria e del mondo del lavoro del nostro paese, questo sufficiente per concepire un unico destino programma potrà accrescere grandemente Colin Powell caratterizzato dall'incremento produttivo: più l'attività industriale delle altre nazioni ed elevare cibo, più vestiario, più materiale da costruzione. Più merce quindi sostanzialmente il loro livello di vita." per raggiungere un maggiore benessere. Domina una visione P.: "Nel corso del summit Financing for Development, tenutosi economicistica e tecnocratica che sottrae l'altro ad una diversità nel 2002 a Monterey, in Messico, si è raggiunto un nuovo accordo potenzialmente pericolosa e sovversiva perché concorrente. Il per lo sviluppo. Poggia su tre pilastri fondamentali: un impegno discorso di Truman implica un evoluzionismo tecnocratico al condiviso verso una crescita economica condotta dal settore servizio del progresso, visione non dissimile dal capitalismo di privato, uno sviluppo sociale e una gestione sicura delle risorse stato sovietico e cinese. naturali basata sulle fondamenta del buon governo e del diritto. T. (è l'inizio del IV punto): "In quarto luogo, dobbiamo lanciare […] L'aiuto può essere un catalizzatore per lo sviluppo ma i veri un nuovo programma che sia audace e che metta i vantaggi del motori di crescita sono l'imprenditorialità, gli investimenti e il nostro progresso scientifico e industriale al servizio del commercio.[…] L'MCA7è un incentivo, un sistema per premiare la miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate […] diffusione della libertà di parola e di assemblea, per premiare un Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare per maggiore e più ampio accesso al credito tale da permettere a chi l'assistenza ad altri popoli sono limitate. Ma le nostre risorse in lo desidera di mettersi in affari, nonché per ricompensare conoscenze tecniche - che fisicamente non pesano niente - l'aderenza al diritto e alla legalità per proteggere la proprietà crescono incessantemente e sono inesauribili. […]Il nostro scopo privata e far rispettare l'inviolabilità dei contratti". dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a Prendendo a prestito le parole di Rist potremmo evidenziare che produrre, con i loro propri sforzi, più cibo, più vestiario, più ci sono più modi di negare l'altro: respingerlo o mangiarlo materiali da costruzione, più energia meccanica al fine di simbolicamente per appropriarsene e, poi, espropriarlo. alleggerire il loro fardello." Sterminio, conquista e assoggettamento, assimilazione, 29 sfruttamento ed espropriazione sono gradi diversi di una stessa volontà oppressiva. L'applicazione di modelli astratti che si pretendono universali è alla base sia delle politiche conservazioniste legate alla nascita di molti Parchi Naturali in Africa (sorti per regolamentare un'attività squisitamente coloniale: la caccia sportiva) come nel resto del mondo, sia della Rivoluzione Verde 8 , causa della distruzione del sapere locale, dell'equilibrio sociale e produttivo di molte comunità indiane. Non è un caso che Powell scriva "Crediamo profondamente nel pilotaggio delle risorse naturali come suggerisce l'armonico legame tra le parole 'conservazione' nel senso di tutela dell'ambiente e 'conservatore' ". L'analisi delle retoriche dello sviluppo andrebbe collegata ad uno studio puntuale delle azioni messe in atto a dei loro effetti. Si può qui solo accennare ad un singolo episodio tralasciando aspetti altrettanto importanti e centrali quali le politiche dei flussi migratori, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri regolari ed irregolari, la precarizzazione del lavoro, tema quest'ultimo che investe tutti nella rincorsa al totem dello sviluppo. L'African Growth and Opportunities Act (Agoa)9 è un accordo firmato nel 2000 per promuovere i rapporti commerciali tra Stati Uniti e Africa in cambio del rispetto di quei parametri politici ed economici a cui faceva riferimento Powell. L'accordo prevede l'annullamento dei dazi doganali per settemila prodotti destinati al mercato statunitense. L'80% di questi prodotti è rappresentato dal petrolio e da suoi derivati e una parte del restante 20% da prodotti dell'industria manifatturiera. Nel caso del Kenya l'accordo ha portato alla creazione di fabbriche manifatturiere gestite da stranieri (indiani, cingalesi, e bengalesi) attirati dalla possibilità di produrre a basso costo. La parabola ascendente della crescita si è però arrestata presto sotto i colpi della concorrenza cinese e indiana richiedendo una repentino miglioramento dei processi di produzione per abbattere ulteriormente i costi e di aumentare la quantità di merce prodotta. La crescita economica è in questo caso legata all'adeguamento forzato alle leggi del mercato globale i cui rituali di consumo avvengono altrove rispetto ai luoghi di produzione. L'inconveniente è che pur accettando l'equazione "più merce a basso costo = più benessere" la distribuzione di quest'ultimo rimane disomogenea. Il motore dello sviluppo evocato sia da Truman che da Powell, ovvero il capitale privato che investe, distribuisce dividendi e permette un più armonioso sfruttamento delle risorse naturali ed umane, in Kenya si esprime così: "Questo è un avvertimento, svegliatevi prima che sia troppo tardi, non potete ignorare la realtà, la direzione non vede possibilità di sopravvivenza nel prossimo futuro. Vi diamo tre mesi per aumentare la produzione. Se non noteremo un miglioramento, chiuderemo " (comunicazione aziendale agli operai di una fabbrica tessile); "La nostra è un'iniziativa imprenditoriale, non una missione umanitaria" 11 (T.S. Sundareswaran, amministratore delegato della società indiana Mirage). I discorsi programmatici e opportunisticamente idealisti si scontrano con le contraddizioni dei contesti locali in cui vengono applicati. Chi ne subisce le conseguenze negative rimane distante; quando invece si avvicina è privo di diritti e del diritto di parola, doppiamente assente12 (nella comunità di origine ed in quella di arrivo), pronto per essere stritolato dalla grande macchina selettiva e produttiva; nei casi più rari e fortunati, contribuirà a riprodurre il modello indiscutibile di sviluppo come piccolo imprenditore "etnico". Sacrificio di generazioni, si dirà, in vista di un benessere diffuso. Aspettiamo con fiducia che si realizzino (lentamente) queste promesse? NOTE 1 Fu il geografo Sauvy ad usare per primo questo termine nel 1952 per analogia con il Terzo Stato francese. In Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997. 3 L'articolo dell'ormai ex Segretario di Stato Colin Powell è stato pubblicato sulla rivista Foreign Policy e tradotto dal settimanale L'Espresso (n°2 anno LI) con il titolo Stati Uniti del Mondo. 4 U. Pörksen, Plastikwörter. Die Sprache einer internationalen Diktatur, Klett-Cotta, Stuttgart 1989. 5 Ibidem pp. 29-30. 6 "[…] l'assistenza umanitaria è una misura tappabuchi. Il nostro scopo è sradicare la povertà sfidando le autorità dei Paesi in via di sviluppo a prendere il futuro delle proprie nazioni nelle loro mani." 7 Millenium Challenge Account. Powell lo descrive con queste parole: "Questa simbiosi tra libertà politica e libertà economica costituisce la base dell'MCA, un'iniziativa che offre un contratto modellato sullo stesso libero mercato - che è la sua parte migliore. I beneficiari dei fondi MCA devono rispondere a requisiti di eleggibilità prima di poter ricevere anche un solo centesimo di dollaro…" 8 Con questo nome si individuano molti dei fallimentari progetti di sviluppo agricolo attuati in India negli ultimi decenni e denunciati da Vanda Shiva in Monoculture della Mente, Bollati Boringhieri, Torino, 1995. 9 Fonte: articolo pubblicato dal Financial Times (GB) e tradotto dal settimanale Internazionale (21-27 gennaio 2005, n°574) con il titolo Il Kenya nel mercato tessile globale. 10 ibidem 11 ibidem 12 Vedi Abdelmalek Sayad, La doppia assenza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002 2 30 AChAB segnala… Università di Roma "La Sapienza" - anno accademico 2004-05 Corso di Laurea triennale in "Teorie e Pratiche dell'Antropologia" Corso di Laurea specialistica in "Discipline Etno-Antropologiche" Seminario "Violenza, corpo, emozioni", marzo-maggio 2005, Roma. L'esplosione di violenza che ha caratterizzato la fine del XX e l'inizio del XXI secolo pone all'antropologia culturale numerosi problemi, di carattere sia conoscitivo sia etico. Su un piano generale, la drammaticità degli episodi cui assistiamo, dall'11 settembre alla guerra in Iraq, dalla scuola di Beslan alle quotidiane stragi di civili in molte parti del mondo, sembra scuotere la disciplina dalla sua sonnolenza, o perlomeno insidiare la posizione di tranquillo distacco scientifico che si è costruita. Che ne è della scienza dell'uomo, anzi della scienza degli altri uomini, donne e bambini, quando vaste porzioni dell'umanità sono vittime di una costante carneficina? Cosa diventa lo studio delle strutture antropologiche "normali" e quotidiane quando il mondo vive uno "stato di emergenza permanente", per usare l'espressione coniata da Walter Benjamin in un'altra drammatica epoca storica? C'è un uso pubblico possibile dell'antropologia a sostegno dei valori della pace, della solidarietà, della giustizia? Quale rapporto gli antropologi possono intrattenere con le agenzie di cooperazione internazionale e di difesa dei diritti umani? Che ne è del confine fra scienza e politica - fra l'istanza, cioè, di una conoscenza criticamente distaccata e quella di una partecipazione attiva e militante al corso degli eventi? Più specificamente, la natura degli attuali fenomeni di violenza chiama in causa direttamente una serie di categorie antropologiche, reclamandone una ridiscussione. In particolare, si tratta spesso di violenza cosiddetta "etnica", che mette cioè in gioco quel terreno di differenze culturali, religiose e di valori di cui l'antropologia dovrebbe essere competente. Di fronte alla disseminazione del linguaggio dell'etnicità e dell'identità nel linguaggio comune e nei media, usato spesso come facile spiegazione dei fenomeni di conflitto, l'antropologia ha un importante lavoro critico da svolgere. Lo stesso vale per l'analisi dei discorsi riguardanti lo scontro fra civiltà, la difesa dell'identità "occidentale" e così via che hanno segnato pesantemente il linguaggio politico negli ultimi anni. Ma la categoria antropologica che viene maggiormente sollecitata dalla violenza tardo-moderna è probabilmente quella di corpo. Sono immagini di corpi violati o minacciosi quelle che dominano l'immaginario politico contemporaneo: i corpi che volano dalle Twin Towers in fiamme, quelli torturati di Abu-Ghraib, quelli tra le macerie dei bombardamenti o dilaniati dalle esplosioni, i corpi-arma dei terroristi "kamikaze", le decapitazioni degli ostaggi in Iraq e così via. Un repertorio che si aggiunge alle immagini delle cataste di cadaveri di Auschwitz, del corpo-simulacro dei "musulmani" sopravvissuti ai campi, della carneficina ruandese a colpi di machete nuclei consolidati della memoria del Novecento. E' come se la politica si declinasse attraverso una sintassi simbolica della violenza sui corpi. Ciò che distingue questa violenza fisica da quella di altre epoche è la sua riproduzione sistematica e ossessiva nelle comunicazioni di massa. E' attorno ad immagini della violenza che si organizzano le news televisive, le prime pagine dei giornali e il surfing in rete; è in esse che sembra concentrarsi il nucleo duro della realtà, forse persino un certo senso del sacro, capace di suscitare quella partecipazione emotiva che fonda, secondo la teoria antropologica classica, la coesione sociale. Il seminario si propone di esplorare alcuni aspetti di questa vasta problematica, attraverso l'intervento di studiosi che hanno una conoscenza diretta di "terreni" investiti dalla violenza, o che in vario modo hanno lavorato sul tema della memoria traumatica e sul nesso corpo-immagini violenza. Martedì 8 marzo - APERTURA Pietro Clemente - Università di Firenze Alessandro Simonicca - Università di Roma "La Sapienza" Fabio Dei - Università di Pisa Martedì 15 marzo - RIFUGIATI Roberto Beneduce - Università di Torino Francesca Declich - Università di Urbino 31 Martedì 22 Marzo - FIELDWORK UNDER FIRE Renato Libanora - Università di Napoli L'Orientale Patrizio Warren - Università di Roma "La Sapienza" Luca Jourdan - Università di Torino Martedì 5 aprile - MEDIO ORIENTE Setrag Manoukian - Università di Milano "Bicocca" Antonio De Lauri Simona Torretta Martedì 12 aprile - CORPI Giovanni Pizza - Università di Perugia Ivo Quaranta - Università di Bologna Martedì' 19 aprile - BALCANI Pietro Clemente - Università di Firenze Lucilla Ruberti - Università di Roma Piero Vereni - Università di Firenze Paolo De Simonis - Università di Firenze Martedì 26 aprile - FONDAMENTALISMI (presentazione dell'omonimo volume di "Testimonianze") Severino Saccardi - direttore di Testimonianze Bijan Zarmandili - scrittore Martedì 3 maggio - VIOLENZA SIMBOLICA Martedì 10 maggio - IMMAGINI Giovanni Fiorentino, Università di Roma "La Sapienza" Livio Senigalliesi, fotografo, Milano Caterina Cingolani,. Università di Roma "La Sapienza" Martedì 16 maggio - LIBRI A. Simonicca, F. Dei, P. Vereni, M. Van Aken (Presentazione di volumi: Appadurai, Etnicità cultura violenza, "Antropologie" su rifugiati; "Antropologia della violenza" etc. ) Per informazioni: [email protected] [email protected] 32 Garden of peace Colourful flowers fill the garden of peace It is fragrant all around The sky is clear Birds sing the melody of spring Everyone is merry and gay Old and youngs a like enjoy the beauty of the garden They play in the garden of peace Harmony is echoed from every corner Soon the dark clouds appear Hiding the sun and its glory War has started The garden is filled with bloodshed The crushed flowers are now symbols of death The buds have withered Autumn has set in suddenly War destroys not only the garden of peace But the soul of every creature (Huzhabr Shinwari, "The debris of dreams - A collection of poems by Marghana Sharq" ATP, Kabul) 33 In copertina retro: Schiavetti & D’Angelo, Crimini di pace milanesi, FotoTestimonianze 2005