Parere sul R.D. del 09-07-1939 art.158
di Stefano Fabeni - coordinatore progetto CERGOSIG.
NOTA ALL’APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 158 SS. ORD. ST. CIV. AI CASI DI
TRANSESSUALISMO
Il Regio Decreto 09 luglio 1939, n. 1238 sull’ordinamento dello stato civile disciplina agli artt. 158 e
seguenti le modalità per il cambiamento del nome. Il 1° comma dell’art. 158 stabilisce che
"chiunque voglia cambiare il nome … deve farne domanda al procuratore generale della corte
d’appello nella cui giurisdizione è situato l’ufficio dello stato civile dove trovasi l’atto di nascita …".
Certamente il legislatore del 1939 non ha inteso, facendo riferimento ad una espressione generica,
ammettere implicitamente la possibilità del cambiamento di un nome maschile in uno femminile e
viceversa, ma pur tuttavia la norma non lo vieta. Occorre pertanto domandarsi se, alla luce di una
interpretazione evolutiva dell’art. 158 ord. st. civ. che tenga presente tanto dei cambiamenti della
realtà sociale, quanto delle acquisite conoscenze in campo scientifico e degli orientamenti cui si è
conformato l’ordinamento non possa oggi ritenersi che il regio decreto n. 1238 del 1939 consenta
alle persone transessuali non (ancora) sottoposte ad intervento chirurgico di cambiare il nome
anagrafico maschile in uno femminile e viceversa. La disamina deve altresì tenere in
considerazione il fatto che una nuova interpretazione delle disposizioni in oggetto pare conforme
agli orientamenti che il legislatore, ed in seguito dottrina e giurisprudenza, hanno inteso perseguire
in anni più recenti.
Ad una prima lettura dell’art. 158, ord. st. civ., volendosi per lo più soffermare ad una
interpretazione letterale, in assenza di uno specifico divieto il riferimento al cambiamento del nome
potrebbe ricomprendere i casi oggetto di disamina, consentendo ad un soggetto di cambiare il
proprio nome con uno diverso che discorda nel genere con il sesso anagrafico dell’istante.
Come poc’anzi anticipato, apparirebbe tuttavia una forzatura sostenere, con riguardo all’oggetto di
trattazione, che tutto ciò che la norma non vieta espressamente è consentito dall’ordinamento,
quanto meno nelle intenzioni originarie del legislatore, in considerazione del preciso momento
storico e delle conoscenze scientifiche del tempo: e la stessa legge afferma la rilevanza
interpretativa dell’intenzione del legislatore, come indicato dall’art. 12 delle disp. prel. c.c. Non solo,
ma un assunto di tale portata potrebbe facilmente essere censurato in quanto ritenuto contrario ai
principi generali dell’ordinamento giuridico, cui fa riferimento il secondo comma dell’art. 12 disp.
prel. c.c., o ancora all’ordine pubblico (art. 31 disp. prel. c.c.), che rappresenta un ulteriore limite di
carattere generale nell’applicazione delle leggi.
Tuttavia, come afferma un autore illustre, "lo scopo del diritto … è … assicurare nel modo meno
peggiore possibile la convivenza tra i soggetti individuali e collettivi. In situazioni sociali statiche,
avviene che l’interpretazione si arresti, ma ciò è perché sono statiche le esigenze cui il diritto deve
provvedere. Chi pretende di fermare l’interpretazione di fronte alle trasformazioni sociali in realtà
pretenderebbe di fermare tali trasformazioni, con un evidente scambio tra cause ed effetti" (G.
Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale – Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1988, 84).
Così, alla luce delle ragioni che seguiranno, ma in primo luogo degli orientamenti del legislatore e
del giudice costituzionale, non parebbe irragionevole ed infondato dare corpo ad una
interpretazione in senso evolutivo della disposizione di legge oggetto di disamina tale da adeguare
la regola giuridica alla realtà fattuale senza che possano ritenersi infranti i limiti cui si è fatto cenno
poc’anzi, ma dimostrandone invece la conformità con il diritto positivo.
Senza soffermarsi sulla definizione di sesso e sulla natura del transessualismo e dell’identità di
genere, temi oggetto di ampio studio scientifico, preme sottolineare che lo stesso ordinamento ha
riconosciuto che possa non esservi corrispondenza tra il sesso anagrafico ed i caratteri sessuali
esterni di un soggetto da una parte e l’identità psicosessuale e di genere dall’altra: l’esistenza
stessa del transessualismo, in altri termini, non è irrilevante per l’ordinamento, ma anzi è stata
riconosciuta e disciplinata dal legislatore che con la legge 14 aprile 1982, n. 164 ha fissato le
modalità per la rettificazione dell’attribuzione di sesso; come noto, e senza volersi soffermare oltre,
la norma prevede che la rettificazione degli atti dello stato civile sia effettuata, previa istanza
dell’interessato, in forza di una sentenza passata in giudicato, una volta accertata l’avvenuta
modificazione dei caratteri sessuali; la stessa legge prevede inoltre che, quando risulti necessario
un adeguamento dei caratteri sessuali, il giudice autorizzi con sentenza l’intervento medicochirurgico, cui la stessa rettificazione degli atti dello stato civile farà seguito.
Sul tema sono altresì intervenuti i giudici della Corte Costituzionale, che nella importantissima
sentenza del 6-24 maggio 1985, n. 161 non soltanto hanno riconosciuto la legittimità costituzionale
della legge 164/1982, ma si sono spinti oltre affermando l’esistenza di un diritto all’identità
sessuale. La Corte, rovesciando la precedente posizione espressa con sentenza 1° agosto 1979,
n. 98 (in cui, benché avesse escluso l’insussistenza di un diritto inviolabile all’identità sessuale, e
quindi al riconoscimento giuridico di un sesso diverso da quello originario in seguito a
trasformazione chirurgica, aveva tuttavia indicato la possibilità per il legislatore di disciplinare la
materia), riconosce il "contrasto tra sesso psicologico e sesso biologico" (M. Dogliotti, La Corte
costituzionale riconosce il diritto all’identità sessuale, in Giur. It., 1987, I, 237; M.C. La Barbera,
Transessualismo e mancata volontaria, seppur giustificata, attuazione dell’intervento medicochirurgico, in Dir. fam. pers., 1998, 1039) che caratterizza le persone transessuali, ma soprattutto
ammette il fatto che il legislatore abbia accolto un nuovo concetto di identità sessuale che tiene
conto non soltanto dei caratteri sessuali esterni, ma altresì di elementi di carattere psicologico e
sociale, dal quale deriva una "concezione del sesso come dato complesso della personalità,
determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio,
privilegiando il o i fattori dominanti". I giudici costituzionali affermano altresì che "la legge 164 del
1982 si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di
libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed
anomale". Senza soffermarsi oltre su taluni aspetti sui quali si tornerà oltre, basti soltanto
ricordare, con riguardo al merito della sentenza, che la Corte Costituzionale ha riconosciuto un
concetto ampio di diritto alla salute, di cui all’art. 32 Cost., che ricomprende non soltanto la salute
fisica, ma anche psichica, in relazione alla quale gli atti dispositivi del proprio corpo, se volti a
tutelare la persona in tale ottica, non solo non sono vietati, ma anzi sono leciti; l’affermazione
dell’identità sessuale è inoltre diritto inviolabile dell’individuo ai sensi dell’art. 2 Cost., in quanto
elemento che consente al soggetto transessuale il pieno svolgimento della propria personalità, sia
nella sua dimensione intima e psicologica, sia nella vita di relazione.
Se pertanto è pacifico il fatto che l’ordinamento prenda atto della esistenza scientifica del
transessualismo e offra una soluzione di carattere giuridico che consente alla persona
transessuale di perseguire la concordanza tra l’identità di genere, i caratteri sessuali e lo stato
anagrafico, occorre pur tuttavia ammettere che la legge del 1982 ha lasciato talune zone d’ombra,
mentre ha tralasciato di intervenire su aspetti di importanza non indifferente: l’aspetto più
controverso, sul quale la giurisprudenza è intervenuta in innumerevoli circostanze ed ha assunto
orientamenti spesso contrastanti, è rappresentato dalla rettificazione degli atti dello stato civile, ed
in particolare del nome, poiché la legge non determina criteri univoci che debbono essere seguiti
dai giudici, ma anzi la soluzione normativa offerta è stata ritenuta inadeguata ed affrettata da parte
della dottrina (L. Luchini, Rettificazione di sesso e diritto al cambiamento del prenome: riflessioni in
merito alla L. 164/1982, in Dir. fam. pers., 1997, 773).
A ciò occorre inoltre aggiungere che il legislatore non si è fatto carico di intervenire su una
questione significativa e delicata: l’intervento di riassegnazione chirurgica dei caratteri genitali
primari rappresenta una delle ultime fasi dell’intero trattamento cui la persona transessuale è
sottoposta nel processo di transizione dal sesso anatomico, d’appartenenza originaria, a quello
reale, cui sente di appartenere; il trattamento ormonale precedente, gli interventi di modificazione
dei caratteri sessuali secondari e gli interventi di carattere estetico intervengono a modificare
l’aspetto esteriore della persona transessuale in un momento di gran lunga precedente, e, cosa più
importante, sino da allora viene a mutare il ruolo sociale dell’individuo, che appare esteriormente in
modo conforme alla propria identità psicosessuale. Oltre alla situazione, peraltro transitoria e
limitata nel tempo, cui si è appena fatto cenno, occorre sottolineare che la disciplina non tiene in
alcun conto la situazione di quei soggetti che, a causa di condizioni di salute cagionevoli o di età
avanzata, oltre che in ragione di particolari condizioni organiche, non possono essere in grado di
subire l’intervento medico-chirurgico, che per la sua complessità può non essere compatibile con
le condizioni fisiche della persona transessuale, che spesso sono già indebolite a causa dei
precedenti trattamenti ed interventi, oppure può produrre risultati fisiologicamente scadenti; v’è
infine un numero non trascurabile di persone le quali, in seguito alla trasformazione dei caratteri
sessuali secondari ed alla assunzione di un nuovo ruolo sociale conforme al sesso di reale
appartenenza, raggiungono un solido equilibrio psichico pur in assenza di intervento chirurgico e
che pertanto non intendono affrontare lo stesso, che, come si è poc’anzi accennato, comporta
conseguenze piuttosto rilevanti sulle condizioni fisiche della persona.
In tutti i casi previamente enunciati si crea una situazione di non coincidenza tra il nome ed il sesso
anagrafico da una parte, l’identità psicosessuale e l’aspetto esteriore dall’altra che, come accade
troppo spesso di assistere, è fortemente penalizzante per la vita sociale della persona.
La legge n. 164/1982, come si è detto, pur facendosi portatrice di principi di indiscutibile civiltà
giuridica, è ancora per taluni versi certamente carente, avendo omesso di disciplinare i predetti
casi: come afferma qualche autore (S. Patti – M.R. Will, La "rettificazione di attribuzione di sesso":
prime considerazioni, in Riv. dir. civ., 1982, 744; S. Patti, "Attribuzione" di sesso e "mutamento" di
nome: lacune della legge e soluzioni giurisprudenziali, in Giur. It., I, 1983, 593) il legislatore italiano
ha delineato una soluzione unitaria che prevede la rettificazione degli atti dello stato civile, e quindi
del sesso e del nome anagrafici, in seguito a riassegnazione medico-chirurgica dei genitali, non
entrando nel merito di problematiche specifiche che, come si vedrà oltre, sono allo stesso modo
degne di protezione giuridica. Ma occorre pur tuttavia mettere in evidenza il fatto che la legge non
ha poi previsto alcunché "in ordine alla natura ed alle modalità del procedimento attraverso il quale
dev’essere acquisito il nuovo nome" (L. Panetta, Rettificazione di attribuzione di sesso e nuovo
nome, in Giur. merito, 1985, 1234), lasciando il campo libero per le interpretazioni che
necessariamente sono pervenute dai giudici di merito, tenuto conto delle singole fattispecie e delle
esigenze concrete.
In tale contesto è resa possibile e si inquadra l’opportunità di una nuovo ambito di applicazione
degli artt. 158 ss. ord. st. civ. che, proprio in ragione di una formulazione che lascia spazio ad
interventi interpretativi volti ad adeguare la regola giuridica alla realtà di fatto, se come emerge
dalle argomentazioni addotte, appare degna di tutela, consenta alle persone il cui nome e sesso
anagrafici non coincidono con sesso psicologico, caratteri sessuali secondari e aspetto esteriore di
modificare il nome in senso conforme all’aspetto stesso ed al nuovo ruolo sociale dell’individuo che
inevitabilmente ne scaturisce.
Potrebbe obiettarsi che, come peraltro già accennato inizialmente, nell’ottica della sistematicità cui
occorre ricondurre ogni scelta interpretativa, la soluzione prospettata non sarebbe ammissibile in
quanto non conforme alle scelte d’insieme dell’ordinamento; a tal proposito, oltre a rimandare a
quanto indicato con riguardo alla ratio della legge 164/1982 ed alle scelte della Corte
Costituzionale, è necessario mettere in evidenza ulteriori aspetti di ampia rilevanza.
E’ fatto noto che le persone transessuali, soprattutto allorché la condizione personale sia resa
evidente dalla discordanza tra dati anagrafici ed aspetto esteriore, siano oggetto di frequenti e
ripetute situazioni di discriminazione. Ciò accade in particolare nelle circostanze in cui il singolo sia
tenuto ad esibire un documento d’identità o comunque a rivelare il proprio nome anagrafico, con
conseguenze rilevanti sul piano dei diritti fondamentali che l’ordinamento ritiene degni di tutela; a
questo riguardo si prenda in considerazione il problema dell’accesso al lavoro, ambito nel quale le
persone transessuali sono di fatto fortemente penalizzate, a dispetto di condizioni economiche
spesso precarie e sfavorevoli a causa degli ingenti costi che le stesse debbono affrontare nel
corso della transizione (basti pensare, per portare un esempio, ai costi degli interventi estetici,
indispensabili nell’adeguamento dell’aspetto esteriore al sesso psicologico dell’individuo, e non
certamente legati ad una scelta estetica fatta per piacere o "capriccio"), pur in assenza di un
supporto di qualsiasi tipo che nella maggior parte dei casi viene a mancare proprio dalla famiglia
d’origine: sul punto occorre per lo più precisare che la stessa Corte di Giustizia delle Comunità
europee ha affermato, nella sentenza del 30 aprile 1996 in P. c. S. e Cornwall County Council,
che, in considerazione del fatto che il diritto a non essere discriminato a causa del proprio sesso
costituisce un diritto fondamentale dell’individuo, la direttiva 76/207/CEE del 9 febbraio 1976
relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne con riguardo
all’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, va
interpretata nel senso di ricomprendere non soltanto le discriminazioni fondate sull’appartenenza
all’uno o all’altro sesso, ma anche a quelle determinate dal fatto che l’interessato abbia subito o
intenda subire (aspetto questo rilevante per la trattazione in oggetto, giacché in questa fase si
verifica quella discordanza tra sesso anagrafico e aspetto esteriore che rende evidente la
condizione transessuale e penalizza la persona) un mutamento di sesso: in altri termini la nozione
di sesso, inteso come parametro sociale, viene in quest’ottica a ricomprendere quella di genere (A.
Loux, Is he our sister? Sex, gender and transsexuals under European law, in 3 Web JCLI, 1997); è
peraltro interessante ricordare che l’Avvocato Generale Tesauro aveva per primo enucleato nelle
sue Conclusioni la sussistenza di un diritto all’identità sessuale alla luce del quale è da interpretare
il diritto comunitario. Nell’ambito dell’ordinamento italiano la parità di trattamento in relazione al
sesso, e di conseguenza all’identità sessuale, riguardante l’accesso al lavoro, l’attribuzione di
qualifiche, mansioni e progressioni di carriera è prevista dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903
(posto il principio antidiscriminatorio, ricomprendente altresì le discriminazioni fondate sul sesso,
enunciato dall’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300). E’ evidente che una nuova
interpretazione degli artt. 158 ss. R.D. 1238/1939 che consentisse la rettificazione del solo nome,
permettendo alla persona transessuale di non rendere nota la propria condizione in molte
circostanze, rappresenterebbe uno strumento in grado di attuare positivamente il principio di parità
di trattamento.
Può in effetti obiettarsi che un provvedimento di rettificazione del solo nome renderebbe evidente
la discordanza tra sesso anagrafico e nome stesso nei documenti in cui anche il primo è segnalato
(si pensi ad esempio al passaporto o al codice fiscale), non risolvendo, ma soltanto modificando i
termini della questione: l’esperienza derivante dal vissuto quotidiano induce tuttavia a ritenere che
il nome, più che il sesso anagrafico, sia l’elemento, insieme all’aspetto esteriore, che più di ogni
altro distingue l’individuo nell’ambito delle sue relazioni sociali ad ogni livello, sino alla
configurazione di nuovi ruoli e nuovi rapporti sociali che si fondano principalmente su quelle
caratteristiche e concorrono primariamente a formare l’identità sessuale dell’individuo così come
delineata dagli stessi giudici della Consulta (M. Dogliotti, op. cit, 241; B. Pezzini, Transessualismo,
salute e identità sessuale, in Rass. dir. civ., 1984, 465). Nei rapporti quotidiani la persona viene
individuata in relazione al suo aspetto ed al suo nome in primo luogo: non è un caso il fatto che la
persona transessuale che inizia il processo di transizione senta l’esigenza di attribuirsi un nuovo
nome che concordi con il sesso psicologico. E’ evidente quindi che la discordanza tra aspetto
esteriore e nome concorre pesantemente a determinare la stigmatizzazione e la discriminazione
nei confronti dei soggetti transessuali prima ancora e più frequentemente, in ragione della
maggiore evidenza, della discordanza tra nome e sesso anagrafico che la rettificazione che si
propone andrebbe a realizzare. Non soltanto: prendendo nuovamente in considerazione l’ambito
dell’accesso al lavoro emerge come la sola rettificazione del nome già sia strumento efficace per
individuare e contrastare atti discriminatori nei confronti del candidato transessuale, che sinora,
invece, troppo spesso vengono oscurati e ricondotti alla legittima scelta del datore di lavoro;
sebbene infatti all’atto dell’assunzione sicuramente emergerebbe la discordanza tra sesso
anagrafico e nome, e quindi la condizione personale del transessuale, è anche vero che in detta
fase il candidato avrebbe già superato positivamente una selezione: in tale contesto un improvviso
rifiuto del posto di lavoro sarebbe facilmente riconducibile alla presa di conoscenza della
condizione personale del candidato e potrebbe pertanto riconoscersi con minore difficoltà il
trattamento discriminatorio eventualmente subito.
Nel caso di specie poc’anzi descritto, così come in tutte le circostanze nelle quali la discordanza
tra aspetto esteriore e nome è, di fatto, causa di ingiusta discriminazione nei confronti della
persona transessuale, l’interpretazione proposta degli artt. 158 ss. ord. st. civ. trova in primo luogo
il suo fondamento nella Costituzione, che all’art. 3 proclama l’uguaglianza dei cittadini "senza
distinzione di sesso… e di condizioni personali" e riconosce il compito dello Stato nel "rimuovere
gli ostacoli di ordine… sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana…". E’ peraltro necessario precisare che tale
principio fondamentale, così come più in generale il diritto inviolabile all’identità sessuale, che,
come si vedrà oltre, scaturisce dalla lettura delle norme costituzionali, debbono essere protetti
anche a vantaggio di quei cittadini le cui situazioni non sono state oggetto di disciplina da parte
della legge 164 del 1982, ma che non per ciò soltanto, in ragione di scelte o condizioni personali,
meritano una protezione più debole.
La rettificazione del nome della persona transessuale ai sensi degli artt. 158 ss. ord. st. civ., come
poc’anzi anticipato, trova fondamento in ulteriori diritti che la Costituzione protegge: a tal proposito
giova far nuovamente riferimento alle indicazioni che i giudici della Consulta hanno espresso nella
importante pronuncia del 6-24 maggio 1985, n. 161. Come già accennato, la sentenza in oggetto
ha riconosciuto in primo luogo la sussistenza di un diritto fondamentale all’identità sessuale, che
trova tra le altre cose fondamento nell’interesse della collettività, sul presupposto della tutela che
l’art. 32 Cost. accorda alla salute di ciascun individuo: nell’affermare che gli atti dispositivi del
proprio corpo debbono ritenersi leciti allorché rivolti alla tutela della salute della persona, la Corte
Costituzionale ha ribadito un concetto più ampio di quanto sostenuto in passato, respingendo la
nozione di salute unicamente come integrità fisica, ed ha accolto il principio della protezione della
salute psichica degli individui. Tale protezione impone che sia riconosciuto il diritto di ciascuno alla
realizzazione della propria identità psico-sessuale la quale, in quanto caratteristica primaria, ma
meglio si potrebbe dire fondamentale e portante, della personalità umana, è presupposto
indispensabile per lo svolgimento della personalità stessa (P. Martini, Diritto alla sessualità come
diritto alla salute, in Riv. it. Med. Leg., 1985, 1301). I giudici della Corte hanno inteso affermare,
come noto, una concezione dell’identità sessuale e del sesso come fattore complesso e
comprensivo di più elementi, in conseguenza della quale la dissociazione tra il sesso psichico ed il
sesso anatomico, in quanto causa di sofferenza psicologica ed elemento turbativo della
personalità, incide profondamente sulla personalità stessa dell’individuo, sulla sua vita di relazione,
ed in ultima istanza, sul benessere, e quindi sulla salute della persona; gli atti di disposizione del
proprio corpo di cui consiste il trattamento disciplinato dalla legge 164/1982 sono leciti in quanto,
come si legge nella sentenza, "non si vede quale possa essere il diritto fondamentale della
persona che viene offeso quando un soggetto entra in rapporto con il transessuale che abbia vista
riconosciuta la propria identità e conquistato –per quanto possibile- quello stato di benessere in cui
consiste la salute; bene, quest’ultimo, che la Costituzione, come si è ricordato, considera
"interesse della collettività"". E’ tuttavia necessario considerare che il diritto all’identità sessuale
inteso come diritto alla salute non viene meno per il solo fatto che non si realizzi un intervento
chirurgico di modificazione dei genitali: con riguardo a quei soggetti che non possono o non
intendono subire l’intervento, o per chiunque nella fase della transizione, la modificazione del
nome ai sensi degli artt. 158 ss. ord. st. civ., andando ad intervenire positivamente su di un
elemento portante nel processo di costruzione di una identità personale e relazionale quale è il
nome proprio, rappresenterebbe una soluzione senza dubbio incisiva, se non decisiva, nella
conquista di quello stato di benessere psichico cui la Consulta ha fatto così chiaramente
riferimento e che è oggetto di tutela costituzionale.
Vi è un ulteriore aspetto di primaria importanza che non può certamente essere trascurato: con
riferimento all’art. 2 Cost., la sentenza recita che "tale disposto non è violato quando e per il fatto
che sia assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità
sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità": dall’enunciato emerge a
chiare lettere il fatto che i giudici riconoscono nell’identità sessuale un elemento essenziale per lo
svolgimento della personalità dell’individuo, ritenendo pertanto degno di protezione costituzionale il
diritto a detta identità; la Corte a tale riguardo individua nell’art. 2 Cost. una clausola "aperta" che,
sulla base di una diversa concezione costituzionale della personalità, intesa non già come unico
diritto desumibile dalla costituzione formale, ma come complesso di fattori umani che emergono
dal contesto sociale e che si traducono nel processo evolutivo della costituzione materiale,
rappresenta lo strumento mediante cui libertà e valori della persona, ancorché non specificamente
enunciati dalla Costituzione, vengono assunti dall’ordinamento e riconosciuti non soltanto come
interessi rilevanti, ma come diritti fondamentali degni della più ampia e forte protezione (R. Moccia,
nota a C. Cost., 24 maggio 1985, n. 161, in Foro it., I, 1985, 2163; B. Pezzini, op. cit., 468; M.
Dogliotti, op. cit., 241; più in generale sul diritto all’identità personale: M. Dogliotti, Un nuovo diritto:
all’identità personale, in Giur. it., IV, 1981, 146; A. Barbera, Principi fondamentali, in Commentario
della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 103; P. Zatti, Il diritto all’identità e l’applicazione diretta
dell’art. 2 Cost., in Il diritto all’identità personale, Padova, 1984, 25 ss.). E’ da ritenersi che la
modificazione del nome ai sensi degli artt. 158 ss. R.D. 1238/1939 secondo l’interpretazione
proposta consegua le stesse finalità cui, secondo i giudici, l’ordinamento accorda rilevanza
costituzionale. In tutti quei casi in cui l’individuo transessuale non si sia (ancora) sottoposto
all’intervento chirurgico, accade che, come s’è detto in precedenza, la discordanza tra nome e
aspetto esteriore possa essere elemento turbativo per il soggetto a livello psicologico (non a caso
egli si attribuisce solitamente un nome differente nel genere), oltre che potenzialmente dannoso
nella vita di relazione e sociale, in quanto espone al rischio di attenzioni derisorie, ad atti
discriminatori o, comunque, mette in condizione il transessuale di dovere dare evidenza, anche
con frequenza o eventualmente contro la sua volontà, alla propria situazione: tutto ciò
evidentemente rappresenta un ostacolo allo svolgimento della personalità. La possibilità della
rettificazione del solo nome consentirebbe perciò la piena realizzazione dell’identità sessuale di
persone che, in considerazione della propria situazione temporanea o della propria scelta, non si
trovano in condizione di richiedere la rettificazione del sesso anagrafico, ma cui allo stesso modo
la Costituzione non nega per ciò soltanto il diritto inviolabile alla realizzazione dell’identità sessuale
stessa nella vita di relazione.
E’ importante mettere in evidenza come la discordanza tra aspetto esteriore e nome nei casi presi
in esame si pone in contrasto con ulteriori diritti che il legislatore in tempi più recenti ha ritenuto
degni di protezione da parte dell’ordinamento; si pensi a tal riguardo alla legge 31 dicembre 1996,
n. 675 sulla protezione dei dati personali: come è noto, la predetta legge, attuativa della direttiva
comunitaria 95/46/CEE del 24 ottobre 1995, riconoscendo la sussistenza di un diritto alla
riservatezza, si pone come obiettivo la tutela dei dati relativi alle persone fisiche e giuridiche, ma,
con riguardo alle prime, prevede una protezione rafforzata e più rigorosa nei confronti dei dati che
la norma definisce come sensibili, tra i quali sono indicati quelli relativi alla salute ed alla vita
sessuale. E’ evidente che, allorché la persona transessuale sia posta nelle condizioni di dover fare
conoscere il proprio nome, circostanza che nella vita quotidiana si verifica piuttosto
frequentemente, sarà inevitabilmente costretta a mettere in evidenza taluni aspetti della vita
sessuale e della salute che la riguardano, venendo pertanto meno la protezione della riservatezza
che l’ordinamento garantisce a ciascun cittadino, indipendentemente dalle proprie condizioni
personali, che evidentemente non possono rappresentare un discrimine nella tutela dei diritti della
persona. L’utilizzo dello "strumento" giuridico di cui agli artt. 158 ss. ord. st. civ. nel senso indicato
nella presente disamina, limitando di fatto la diffusione non volontaria di dati relativi alle condizioni
personali del transessuale, potrebbe al contrario perseguire la finalità che sono all’origine della
direttiva comunitaria e della legge italiana, implementando i principi di cui quest’ultima si è fatta
portatrice.
Se quindi, come premesso, la rettificazione del nome della persona transessuale ai sensi degli artt.
158 ss. R.D. 1238/1939 può evidentemente essere ritenuta, per le ragioni che precedono, una
soluzione interpretativa attuabile nell’ottica della sistematicità dell’ordinamento, e pertanto non
contraria ai suoi principi generali, v’è da aggiungere che talune decisioni dei giudici di merito
riguardanti proprio la problematica della rettificazione del nome rafforzano tale considerazione.
Recentemente il Tribunale di Roma, con sentenza del 18 ottobre 1998, disponendo la rettificazione
dell’atto anagrafico, e quindi del nome e del sesso anagrafico, di un soggetto transessuale
nonostante che non fosse intervenuto il trattamento medico-chirurgico previamente autorizzato per
ragioni inerenti il suo stato di salute (nel caso di specie, infatti, alle terapie ormonali ed agli
interventi che avevano modificato i caratteri sessuali secondari, facendo assumere al soggetto un
nuovo aspetto conforme alla propria identità sessuale ed un nuovo ruolo sociale, non era seguito
l’intervento cd. demolitorio di isterectomia totale con annessiectomia bilaterale, né, di
conseguenza, quello ricostrittivo di falloplastica) ha dato una interpretazione innovativa degli
aspetti più controversi della legge 164/1982, peraltro condivisa da parte della dottrina (M.C. La
Barbera, op. cit., 1040; S. Patti – M.R. Will, op. cit., 742; S. Boccaccio, Mutamento di sesso ed
autorizzazione preventiva, in Dir. fam. pers., 1991, 360): laddove la legge, all’art. 3, afferma che il
tribunale autorizza l’intervento medico-chirurgico quando necessario, starebbe ad intendere che la
rettificazione di attribuzione di sesso non dipende in senso stretto dalla modificazione dei caratteri
sessuali primari, che appare quindi non indispensabile, anche in considerazione del fatto che
spetta al giudice, ai sensi dell’art. 1, valutare, ai fini stessi della rettificazione, l’avvenuta
modificazione dei caratteri sessuali (senza che sia specificato se si tratti dei caratteri sessuali
primari o secondari); in altri termini, dalla lettura del testo normativo, tenuto conto peraltro della
pronuncia della Corte costituzionale, emerge la necessità di tenere in massimo conto l’elemento
psico-sessuale, in relazione al quale il giudice dovrebbe nel caso concreto verificare lo stato delle
avvenute modificazioni dei caratteri sessuali, e, in rapporto a ciò, la necessità o la possibilità
eventuale di realizzare l’intervento medico-chirurgico: indipendentemente dalla discordanza tra
sesso anatomico da un lato, e sesso psicologico e aspetto esteriore dall’altro, la rettificazione degli
atti dello stato civile potrà essere autorizzata nei casi in cui il soggetto transessuale abbia
raggiunto quello stato di benessere in relazione all’affermazione della propria identità sessuale cui
fa riferimento la Consulta, o allorché, per ragioni inerenti lo stato di salute, non sia comunque
possibile effettuare l’intervento chirurgico. L’intervento chirurgico non sarebbe pertanto condizione
indispensabile per la rettificazione degli atti dello stato civile quando non necessario o non
opportuno al fine dello svolgimento della personalità dell’individuo nell’ottica dell’affermazione della
sua identità sessuale che, si ricordi, alla luce delle indicazioni della Corte costituzionale
rappresenta la ratio della stessa legge 164/1982.
Tale interpretazione della legge 164/1982 sarebbe peraltro conforme all’orientamento che, seppur
in circostanze differenti, i giudici di merito hanno assunto in diverse pronunce (Trib. Salerno, 5
marzo 1988; App. Genova, 23 aprile 1990; Trib. Roma, 18 ottobre 1997), nelle quali la
rettificazione del sesso anagrafico e del nome è stata disposta benché l’intervento medicochirurgico di modificazione dei caratteri sessuali fosse stato effettuato prima che il Tribunale lo
avesse autorizzato: anche in questi casi, all’origine della decisione, condivisa da diversi autori (R.
Moccia, Nota a Trib. Pisa, 22 febbraio 1984, in Foro it., 1984, I, 1981; S. Patti – M.R. Will,
Commento alla legge 14 aprile 1982, n. 164, in Nuove leggi civ. commentate, 1982, 42; M.
Mantovani, Nuova giur. Civ. commentata, 1985, II, 9), vi è l’idea secondo cui il giudice deve, al fine
di predisporre la rettificazione degli atti dello stato civile, accertare che siano intervenute
modificazioni dei caratteri sessuali tali da garantire al soggetto uno stato di benessere psico-fisico
in relazione al pieno svolgimento della personalità, in conseguenza del quale diviene irrilevante il
fatto che lo stesso intervento medico-chirurgico non sia stato previamente autorizzato (e potrebbe
ancora aggiungersi, come ricordato più volte, sia stato o meno effettuato, in rapporto alla necessità
cui la legge fa riferimento).
L’applicazione degli artt. 158 ss. ord. st. civ. nel senso previamente proposto si inquadra nella
stessa prospettiva di garantire a ciascuno lo strumento giuridico necessario per la piena
realizzazione della propria identità sessuale, tenuto conto degli ulteriori elementi che verranno
presi in considerazione.
In primo luogo è opportuna una precisazione di natura processuale; potrebbe infatti obiettarsi che il
procedimento di cui agli artt. 158 ss. R.D. 1238/1939 è inidoneo alle circostanze oggetto della
presente trattazione in quanto l’art. 454 c.c., cui l’art. 1 della legge 164/1982 fa riferimento,
prevede che la rettificazione degli atti dello stato civile si effettua in forza di sentenza del tribunale
passata in giudicato: si rileva invece come la rettificazione del solo nome sia possibile ai sensi
degli artt. 158 ss., che prevedono un ricorso in sede di volontaria giurisdizione, in quanto non
incide sullo status dell’individuo, non intervenendo a modificare il sesso anagrafico, la cui esigenza
di certezza per le posizioni giuridiche soggettive che ne derivano, giustifica ed esige invece, come
affermato altresì da parte della dottrina (B. Pezzini, op. cit., 463; A. Villella, Rettificazione di
attribuzione di sesso e cambiamento di nome, in Rass. dir. civ., 1992, 911), un accertamento di
carattere costitutivo determinato da una azione di stato in sede di contraddittorio. Si ricordi infatti
che i giudici di merito (basti pensare alla decisione del Tribunale di Salerno del 5 marzo 1998),
secondo un’opinione peraltro condivisa dalla dottrina (S. Patti – M.R. Will, La "rettificazione di
attribuzione di sesso": prime considerazioni, cit., 744; A. Pinori, Aspetti giuridici connessi ad
interventi di modificazioni dei caratteri sessuali, in Rass. dir. civ., 1995, 628), hanno affermato che
la rettificazione del nome sia disposta dal Tribunale in sede di contenzioso, se tuttavia costituisce
la conseguenza della rettificazione del sesso anagrafico: la legge non fa cenno invece alla
rettificazione del solo nome, che si ritiene dover essere ammessa ai sensi degli artt. 158 ss. ord.
st. civ. per le ragioni esposte sino a questo punto.
D’altra parte la possibilità di fare uso della procedura per la modificazione del nome previsto dalle
norme sull’ordinamento dello stato civile nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto la
rettificazione dell’attribuzione di sesso e del nome di un soggetto transessuale non è principio
estraneo alle decisioni dei giudici di merito, avendo stabilito il Tribunale di Ancona nella sentenza
del 4 novembre 1990, n. 292, che la modificazione radicale del nome che preveda l’adozione di
nuovo nome non è possibile in sede di attribuzione di sesso, dovendosi a tal fine ricorrere alle
disposizioni di cui agli artt. 158 ss. ord. st. civ.; benché non condivisibile nel caso di specie, in
quanto una simile interpretazione appare una forzatura della legge 164/1982 che ha come effetto
un appesantimento, peraltro non previsto dalla stessa legge, della procedura di rettificazione degli
atti dello stato civile, per lo più in seguito ad intervento medico-chirurgico di riassegnazione dei
genitali, la decisione dei giudici abruzzesi solleva due aspetti interessanti: in primo luogo evidenzia
ulteriormente le incertezze interpretative della legge 164/1982 in merito alla questione della
rettificazione del nome, alla luce delle quali l’interpretazione proposta nella presente disamina può
quindi apparire come una soluzione possibile; in secondo luogo pone, seppure in termini generali e
con effetti distorti, la questione del ricorso agli artt. 158 ss. ord. st. civ. nei casi di rettificazione del
nome del transessuale.
Riconsiderando tuttavia la problematica secondo l’interpretazione sin qui sostenuta, sul
presupposto della correttezza formale del procedimento in sede di volontaria giurisdizione, occorre
per lo più ritenere che, quando l’interessato ne faccia richiesta, il ricorso alla procedura di cui agli
artt. 158 ss. sia da privilegiare in luogo del procedimento innanzi al Tribunale, fatta salva la
possibilità di ricorrervi per la rettificazione del sesso anagrafico ancorché in assenza di intervento
medico-chirurgico, in ragione dei vantaggi che offre in termini di speditezza e di costi del
procedimento stesso: con riguardo al primo aspetto occorre evidenziare che l’utilizzo di uno
strumento giuridico che in tempi brevi consenta al soggetto transessuale di eliminare un grave
ostacolo allo svolgimento della propria personalità, quando la rettificazione del nome concorra a
ciò, deve essere ammesso dall’ordinamento al fine di rendere attuale l’esercizio di un diritto
inviolabile dell’individuo. Se si considera poi che le spese per l’assistenza legale nel corso di un
giudizio in sede di contenzioso sono tutt’altro che trascurabili, si può ritenere che la procedura di
cui agli artt. 158 ss. ord. st. civ. garantirebbe a chicchessia, indipendentemente dalle condizioni
economiche, la possibilità di intevenire per rimuovere cause ostative all’affermazione della propria
identità sessuale, attuando il principio di uguaglianza sostanziale richiamato all’art. 3 c. 2 Cost.
Come già indicato in precedenza, le condizioni economiche di molte persone transessuali sono
altamente precarie proprio a causa di una situazione di stigmatizzazione sociale che è poi
all’origine di discriminazioni nell’accesso al lavoro e della mancanza di supporto da parte della
famiglia d’origine: il soggetto che non intendesse sottoporsi ad intervento medico-chirurgico
potrebbe pertanto trovarsi nella situazione in cui un ostacolo d’ordine economico potrebbe
rappresentare un limite all’affermazione della propria identità, elemento portante nello svolgimento
della personalità. A tale ratio occorre peraltro ricondurre l’emendamento (proposto dall’On. Maura
Cossutta) approvato dalla Camera dei Deputati il 7 novembre 2000 in relazione alla legge
finanziaria per l’anno 2001, laddove prevede per i procedimenti di identificazione di stato civile ai
sensi dell’art. 454 c.c. l’esenzione dal contributo di iscrizione a ruolo, da imposte di bollo e di
registro, da ogni altra spesa, tassa o diritto di cui all’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488. Ed a
tale ratio occorrerebbe ispirarsi nell’interpretare nel senso proposto gli artt. 158 ss. ord. st. civ.,
tenuto altresì conto del fatto che al Procuratore generale, ai sensi dell’art. 159, spetta un potere
discrezionale in ordine all’assunzione di informazioni sul merito della domanda ed
all’autorizzazione al cambiamento del nome, a garanzia di una decisione che si fondi sulle reali
esigenze nel caso concreto e che tenga eventualmente conto del parere di uno specialista.
Per concludere, v’è un ultimo elemento che deve essere considerato: la soluzione della
rettificazione del nome nel senso qui proposto è prevista ed attuata con buoni risultati
dall’ordinamento tedesco. La legge sul cambiamento dei prenomi e sulla determinazione
dell’appartenenza sessuale in casi particolari del 10 settembre 1980 (Gesetz über die Änderung
der Vornamen und die Feststellung der Geschlechtszugehörigkeit in besonderen Fällen –
Transsexuellengesetz – TSG, BGBl., 1980, I, 1654) prevede due diverse "soluzioni", la piccola
(kleine Lösung) e la grande (grosse Lösung): se la grande soluzione riguarda la rettificazione degli
atti dello stato civile, e quindi anche del sesso anagrafico, la piccola soluzione di cui agli artt. 1 ss.
TSG consiste proprio nel cambiamento del prenome, che può essere richiesto dal soggetto di
almeno venticinque anni di età che, a causa della matrice transessuale, non senta più da almeno
tre anni di appartenere al sesso indicato nell’atto di nascita. Il Tribunale competente, se presume
"con molta probabilità" che l’istante non cambierà in futuro il proprio sentimento di appartenenza,
decide con sentenza dopo avere ricevuto le perizie di due specialisti esperti in problemi di
transessualismo. L’art. 6 TSG prevede persino che la sentenza possa essere cancellata su
richiesta dell’istante stesso se questi senta di appartenere nuovamente al sesso indicato nell’atto
di nascita. E’ evidente che il criterio seguito dal legislatore tedesco, come gli autori mettono in
evidenza (P. Stanzione, La soluzione normativa del transessualismo: l’esperienza tedescooccidentale, in Rass. dir. civ., 1980, 1235; S. Patti – M.R. Will, op. cit., 745; S. Whittle, Legislating
for Transsexual Rights: a Prescriptive form, in www. pfc.org. uk, 1996), prevede soluzioni
diversificate che rispondano alle diverse esigenze dei singoli, nell’ottica della piena realizzazione
della propria identità sessuale.
Occorre osservare, volendo essere obiettivi, che spiccano alcune differenze tra la proposta
formulata nella presente disamina e la kleine Lösung tedesca, consistenti nel fatto che gli artt. 1 ss.
TSG prevedono che a decidere sia il Tribunale, una volta ricevute le perizie degli esperti, con
sentenza definitiva passata in giudicato, mentre ai sensi degli artt. 158 ss. ord. st. civ. è il
procuratore generale presso la Corte d’Appello a provvedere al cambiamento del nome con
decreto, dopo avere eventualmente valutato i motivi della domanda. Si ritiene tuttavia che il
margine di discrezionalità previsto dalla norma italiana consentirebbe, come già accennato, una
valutazione nel merito che tenga conto tanto delle ragioni quanto della situazione soggettiva ed
oggettiva del richiedente transessuale: qualsiasi dubbio in ordine alla fondatezza della domanda
potrebbe essere risolto nel caso in cui, ad esempio, l’istante provvedesse ad allegare alla stessa
una perizia di un esperto finalizzata a certificare la situazione di quello che la legge tedesca
definisce "il sentimento di appartenenza sessuale" del soggetto; in tale circostanza il procuratore
competente potrebbe autorizzare il cambiamento del nome, fondando il proprio convincimento
sulla perizia scientifica ed obiettiva dell’esperto, assumendo il provvedimento il carattere di un atto
finalizzato a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo svolgimento della personalità dell’individuo
transessuale.
In conclusione occorre tuttavia sottolineare come l’inadeguatezza legislativa e le incertezze
interpretative sulle problematiche della rettificazione del nome e degli atti dello stato civile,
questioni tanto delicate, in quanto attengono alla portata stessa del concetto di identità sessuale,
ma soprattutto centrali, costituendo un punto fondamentale della disciplina normativa in materia di
rettificazione di sesso, rendono auspicabile, a maggior ragione in seguito alla pronuncia della
Corte costituzionale, l’intervento del legislatore volto all’introduzione di una soluzione analoga a
quella contemplata dall’ordinamento tedesco.