Carlo Michelstaedter (1887-1910) IL GENIO FILOSOFICO DI UN RAGAZZO ‘IMPAZZITO DI SAGGEZZA’ In occasione del centenario della morte del giovane pensatore goriziano, suicidatosi a soli ventitre anni con un colpo di rivoltella, ripercorriamo la traccia della sua turgida filosofia ‘negativa’ dettata dall’opera che ci ha lasciato in eredità: “La persuasione e la rettorica”. Una tesi di laurea, mai discussa, articolata intorno all’implacabile conflitto tra verità e finzione. Alla luce delle sue tesi etico-noetiche il tragico gesto terminale si appalesa come un atto liberatorio in cui la vita si compie e non fallisce. Qui c’è il tentativo estremo di vedere nella vicenda umana il risultato di un’eterna tensione culturale, che nel sistema di valori sociali trova il suo più determinato meccanismo di diniego. ________________________________________________________________ di Domenico Donatone «Nel suo frenetico orgoglio intellettuale, nella sua fame di assoluto, nella appassionata violenza dei suoi ventitrè anni, il Michelstaedter aveva finito col comporre di se stesso un audace modello di stoicismo filosofico; aveva creato se stesso una sorta di mito eroico, e lo vagheggiava e lo perfezionava; finché non poté più sopportare che il suo carnale io vivente non si identificasse con l'altro, con l'io del mito; e inseguendo questo si trovò alla morte».1 (Emilio Cecchi: commento all’opera di C. Michealstaedter) * «Il suicidio è un atto filosofico» (Novalis) * «Ma cogito non vuol dire “so”; cogito vuol dire cerco di sapere: cioè manco del sapere: non so» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica) * Che Carlo Michelstaedter (1887-1910), – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte –, sia stato un ragazzo inquieto, la cui inquietudine non aveva nulla di esclusivamente giovanile e generazionale, bensì qualcosa di assolutamente filosofico, è chiaro soprattutto a coloro che conoscono la parabola esistenziale del giovane goriziano (suicidatosi all’età di ventitre anni con un colpo di rivoltella), fiero di dimostrare, in questo modo, l’energia inversa che esprime ciò che decide di negarsi per vivere, in senso più acuto, ciò che non essendo ugualmente vive. Il tema apre immensi spazi di riflessione che, pur scontrandosi con dinamiche dominanti, come l’avversità morale e cristiana al suicidio, non sono affatto peregrini. Tutta la filosofia, da Kierkegaard in poi, è concentrata a risolvere i problemi dell’Essere. Carlo Michelstaedter espresse questa tensione, squisitamente primo-novecentesca, riferita al significato profondo dell’Essere, rendendosi fautore di una «protosofia esiziale», una sorta di “pensiero primo della disfatta”, in cui la ricerca della verità, non opinabile, stabilisce un sistema rigoroso d’indagine su quelli che sono i metodi che meglio richiamano a sé le questioni fondanti la vita e, al contempo, la sana febbre di un malessere esistenziale, vissuto stoicamente e alla maniera dei presocratici. L’obiettivo è decifrare il meccanismo di persuasione e di retorica. La grandezza di Michelstaedter si sposa subito alla smania di concludere l’esistenza (non per piacere o debolezza, ma per dovere morale), e per arrivare presto al dunque egli assume dentro sé, mostrando i prodromi di una modernità antimoderna, la strada nella quale l’essenza dello spirito dell’uomo, iconoclasta e stoico, non cessa la sua disputa. Carlo Michelstaedter si confronta, giovanissimo, sui massimi sistemi della filosofia, adduce a sé l’esempio dato dai presocratici e da Socrate, riprendendo le categorie platoniane e aristoteliche (nel concetto di «persuasione» e di «retorica»); assorbe il pensiero di Leopardi e l’impianto della teoria del piacere, il pessimismo cosmico come dato definitivo di manifestazione delle cose interne ed esterne all’uomo, e guarda a Nietzsche in quanto filosofo della prassi moderna della conoscenza: uomo dell’Anticristo, della Gaia scienza e del superuomo. Diluita bene, la tesi di fondo del sapere per Michelstaedter rimane la consapevolezza che il mondo reale condiziona il mondo interiore, il prevalere dell’«universo concreto», fatto di dolore e di cecità, schiaccia lo spirito, comprime l’anima. Questo contrasto Michealstaedter lo sintetizza all’interno della combutta dialettica estrema tra persuasione e retorica. Il lavoro, filosofico, ma principalmente universitario, (perché non si deve mai dimenticare che Carlo Michelstaedter, nonostante la sua levatura, rimane un ragazzo, un ventitreenne che improvvisamente impazzisce di saggezza), a cui si attiene e s’impegna fino in fondo per esprime questo conflitto, è la sua tesi di laurea dal titolo magnifico: La persuasione e la rettorica. Tesi scritta nel 1910 e mai discussa, che ha subito un intenso lavoro di confronto con quanto la filosofia ha espresso in materia di Essere e Conoscenza. Qualcosa che ha portato il laureando a ripensare, riscrivere e riaffermare la sua linea di fondo: il conflitto inestinguibile tra verità e finzione, ovvero tra le cose sapute, reali, piene di sostanza intrinseca, e la volontà di sopprimere questo sapere a favore dell’illusione. Un confronto che conduce ad un ribaltamento del proprio fronte interno nella coscienza. Le categorie di sintesi sono fondamentali in questo campo, non facile, di analisi: la persuasione rappresenta l’accettazione radicale della finitudine umana, l’inevitabile esposizione dell’esistere alla sofferenza, alla morte (la vera, cupa, triste verità); la retorica (anche se è detta “rettorica”, come a quel tempo era corretto scrivere) rappresenta l’organizzazione complessiva dei valori apparenti e artificiali (pace, giustizia, amore, carità). Ed è in base a questo secondo ordine di vita che l’uomo stabilisce la sua esistenza, nel credo indefesso in valori la cui veridicità immancabilmente decade. La rettorica è ciò che inquina la verità. Un sistema su cui si costruisce e si economizza il sapere (ma in realtà è un sapere apparente, fittizio, che pretende di essere sempre ciò che non è). Questo ragionamento se adattato ai nostri giorni, alla nostra era post 11 Settembre, ci si rende conto che è semplicemente trasversale ad ogni epoca, e che il punto della situazione è ontologico e insieme antropologico, perché ciò che degrada la vita è la sua costante superbia, la sua sicumera, l’inversa proporzionalità tra vita e pensiero, tra fede e ateismo, tra ignoranza e sapere. Tanta più vita è lontana, tanto vicino è il pensiero; tanta fede c’è in giro, tanto più vero è l’ateismo che si promana; tanto più peso ha l’ignoranza, tanto meno è il ruolo di svolta da conferire al sapere. Tanto più pacifismo si professa, tante più guerre e violenze accadono. Sulla proporzione inversa dei valori che regolamentano la società, Michelstaedter intuisce il promuoversi costante di filosofie mendaci e speranze deleterie. A fronte di quello che spesso accade, la vita è un’entità mobile a cui non si sa porre rimedio, constatando così che il risarcimento è d’obbligo. Attraverso la ricompensa ogni esistenza tenta di rimpadronirsi di sé, di ciò che le è mancato. Non è un sistema superficiale a cui si tende, bensì il sistema principale di rappresentazione dell’umanità, di noi stessi. Fragili, lontani. In tutto ciò c’è il rifiuto di ogni sistema di dominio, quindi di «retorica», perché Michelstaedter accetta la natura dell’uomo, ma non pretende di redimerla con sistemi ideologici o filosofici di genere, bensì ritiene che quello che sia lo slancio vitalistico debba conservarsi anche in accezioni che, a torto, vengono recepite come non assimilabili al flusso della coscienza. La sua persuasione consiste nel «salto», nel superamento di tutti i dati illusori a cui l’uomo si aggrappa, coltivando orizzonti metafisici e intellettualistici, del sapere tradizionale, per scoprire che la verità sta nel porsi con totale spirito riformista. È obiettivo preciso di Michelstaedter plasmare il mondo esteriore al mondo interiore, far sì che la realtà coincida col pensiero. In tal senso la sua azione si pone in maniera «fiduciosa», tentando di scandire le fasi dell’approssimazione alla realtà come dati profusi di verità. Accade l’esatto contrario, ovvero che la realtà imprigiona la verità, rendendola schiava di quella ribellione che s’agita, ma non matura, dentro lo spirito dell’uomo. Il dominio dei caratteri tipici della comunicazione, l’azione menzognera della politica e l’artificio che si scorge nel cuore delle ideologie, dei modelli, dei sistemi sociali, fa sì che la felicità venga costantemente compromessa, ma soprattutto fraintesa nella mera pratica di accumulo di oggetti e di speranze. Il salto dato dal sapere è quindi il suicidio. Un colpo di rivoltella schiarisce le idee ad una umanità ancora presa dalle sue pratiche di ossequio e presunzione. Il gesto di Carlo Michelstaedter è indubbiamente di rottura. Egli si uccide, certo, ma lo fa per affrontare la vita, non la morte. In lui, giovane agitato, preso dalle turbolenze d’inizio secolo, colto, erudito, e, al contempo, geniale, mai sprovveduto, riabilita le sue deficienze a puro insegnamento, fa sì che il possesso di sé diventi un’arma dialettica. Per Michelstaedter concedersi a quella che tutti ipocritamente definiscono la rovina (la morte, la fine), vuol dire concedersi alla propria salvezza, ristabilire il contatto perduto con sé. Il tema di fondo di Michelstaedter non è avvertire le tragedie della vita come dati unicamente impenetrabili, quindi superiori al bene che la vita dovrebbe in totalità elargire, bensì avvertire realmente l’esistenza come una tragedia, totale e complessiva, da essere di gran lunga migliore scegliere la morte come riscatto per la vita tragica: «libertà va cercando che sì cara | come sa chi per lei vita rifiuta», dice Dante Alighieri nel I canto del Purgatorio. Da ciò si deduce che gli eccessi, la vita estrema, non sono un arrendersi, non sono una scorciatoia al dolore, non possono essere solo follia, perché se nella follia c’è del metodo, questa follia non si esaurisce nel gesto, va oltre il significato retorico. Così Michelstaedter rovescia la medaglia per indicare un altro cammino. Tra vita e pensiero non ci dev’essere nessuna discrepanza, anzi il pensiero è superiore e stabilisce parametri d’effrazione che la mera indagine non può rivelare. Si compie un gesto che è un passo: un passo affascinante ma insieme terribile, perché pensare che si possa prendere parte alle cose del mondo negandosi ad esse, dire con il suicidio che la vita si compie e non fallisce, è prerogativa di alcuni spiriti la cui energia è, magari, instabile, ma fortemente rappresentativa della loro superiore determinatezza. La fine è l’ipotesi di una mente debole, che qui sperimenta l’esatto contrario mostrando la sua forza. Il suicidio è dei forti. Tanto più la vita fa soffrire, tanto più il debole rimane a patire. Il forte, invece, evade, tenta l’evasione dal mondo tornando ad appartenergli in altra maniera. L’amore che Michelstaedter nutre per la vita non si coniuga, come per i suoi coetanei, al disperato desiderio di sopravvivere di fronte alla paura della morte, bensì in un atto liberatorio, violentemente lucido, come il suicidio, da lui inteso come azione del pensiero e non della disperazione, che assorbe le illusioni incanalandole nella resa-vittoria. Per tali motivi si può scoprire con gioia nel presente tutto ciò di cui non si ha bisogno. Ciò ci porta ad un discorso speculare a questo, più attuale, secondo cui non si possono valutare i suicidi come atti compiuti da persone totalmente aliene, anzi, nell’epoca attuale si fa strada una concezione diversa dell’esistenza, in cui il presupposto cristiano della sofferenza come atto supremo d’amore è inversamente letto come un obbligo inumano, delle catene da cui ci si vuole liberare, così finanche la motivazione dell’eutanasia esprime la sua obbiettiva ragion d’essere. È il sunto di questo insegnamento filosofico. Amico io guardo ancora l’orizzonte dove il cielo ed il mare la vita fondon infinitamente. Guardo e chiedo la vita la vita della mia forza selvaggia perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole di me possa narrar l’ombra e le luci – la vita che mia dia pace sicura nella pienezza dell’essere.2 Il problema di Michelstaedter non è personale, è universale, ma in maniera personalistica egli offre un metodo di soluzione. Certo nessuno vuole una società di gente che si toglie la vita, ma altrettanto in questa società ci si toglie la vita per problemi che diventano dei veri e propri affronti ai quali Michelstaedter ha reagito inculcando il seme di una straordinaria sapienza che sfiora la pura follia. È meglio non esserci che far parte del mondo in maniera anonima, meglio fare ognuno il suo ballo che ballare a ritmo di una musica che la politica o i regimi dettano. In questa straordinaria azione del pensiero, che non ha nulla a che fare con quei suicidi la cui base di verità fa sorridere (come l’amore), c’è tutta la gnoseologia dell’esistenza moderna, uno studio approfondito della conoscenza che pone come istanza risarcitoria l’assunzione della vita a migliore compimento. Qui non ci si lascia andare, ma ci si afferra; qui non ci si toglie la vita per amore ma per amore della vita, e nel rispetto della propria dignità ci si libera. Il fulcro del “pensiero negativo” cui Michelstaedter appartiene, è, di fatto, l’esempio evidente di un fraintendimento eclatante ancora in atto. Carlo Michelstaedter dovrebbe stare tra i pensatori positivi. Ciò darebbe senso alla sua verità. Mentre la sua verità è scambiata per una realtà personale, a cui il giovane filosofo e poeta e disegnatore Michelstaedter, decide di dare immediata forma. Il suo gesto repentino fu veloce quanto l’illuminazione filosofica. Forse per «eccesso di vita» – così tutto par meglio detto e confluire nell’alveo della comprensione – il nostro pensatore si tolse la vita. Fu tale e tanto, e su ciò non c’è dubbio, lo sforzo da lui compiuto nello scrivere la tesi di laurea, che la stesura si è trasformata man mano in una sorta di processo alla persona (So che voglio e non ho cosa io voglia, esordisce nel primo capitolo3), in cui l’uomo-Michelstaedter, come l’uomoLeopardi, osserva le miserie di sé, e intende raggiungere quell’infinito il cui sentiero alla ragione umana è precluso. Non aveva altra possibilità Michelstaedter, altro da fare per essere se non declinare: aveva comportato un tale sforzo scrivere quella maledetta tesi di laurea che egli sentiva come unico futuro possibile per la sua esistenza il declino, il tramonto di sé. Questo suo crollo fu tale e tanto, così improvviso, da trasformarsi in sfida: il gesto di chi, venendo a patti con sé, strazia la bellezza del vivere offrendo un antidoto eversivo, per evitare che «[…] ciò che vive si persuade esser vita la qualunque vita che vive4». Certamente poeta mediocre, Carlo Michelstaedter avverte anche l’impossibilità della poesia di farsi arte rappresentativa del suo pensiero, contrariamente a ciò che accade in Leopardi, dove il pensiero si fa davvero sostanza esplicativa della poesia, per cui, nell’inseguire il dovere accademico di laurearsi, Michelstaedter intercetta finalmente lo spazio mancante alla sua opera e al suo pensiero costretto nella forma poetica, e coglie, con tutt’altra ampiezza, il senso dell’intero percorso umano ed esistenziale. Suicidarsi non è certo la soluzione, ma una risposta sicuramente assai esaustiva a quel sistema di valori, politici e caco-culturali, che pongono dinanzi all’uomo come sua unica ragione d’esistere l’accettazione o il diniego. III «Ma gli uomini questo temono più della morte accidentale: temono più la vita che la morte: rinunciano volentieri ad affermarsi nei modi determinati purché la loro rinuncia abbia un nome, una veste, una persona per cui si conceda loro un futuro quanto più vasto – una crisi quanto più lontana e certa per altrui forza – e nello stesso tempo un compito quanto più vicino: un’attività che fingendo piccoli scopi conseguibili via via in un vicino futuro, dia l’illusione di camminare a chi sta fermo. Per un nome, per una apparenza di persona gli uomini sacrificano volentieri la loro determinata domanda, ché in questa pur sentono l’incertezza, e intimiditi s’adagiano alla qualunque fatica bruta: – in ogni uomo si nasconde un’anima da fakiro. Necessario è l’immediato tratto davanti agli occhi d’una via che si suppone finire in un qualche bene – che certo proroga il dolore aperto e continuando fugge dall’abisso della cessazione. Perciò ogni via tracciata è una nuova miniera, ogni vessillo un manto che copre l’insufficienza dei miseri, e concede loro una persona e un diritto: – perciò irresistibile fiorisce la rettorica.»5 1 www.cantosirene.blogspot.com www.filosofia.3000.it (C. Michelstaedter: Voglio e non posso e spero senza fede) 3 Vedi La persuasione e la rettorica, di C. Michelstaedter, a cura di S. Campailla, p. 39, Adelphi, Milano, 2005. 4 Vedi Storia della letteratura italiana (Il Novecento), di G. Ferroni, p. 99, Einaudi, Milano, 1991. 5 Vedi La persuasione e la rettorica, di C. Michelstaedter, a cura di S. Campailla, p. 128, Adelphi, Milano, 2005. 2