Quando l`amico e collega Antonio Plaisant, tra una cena romana in

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Quando l’amico e collega Antonio Plaisant, tra una cena romana in famiglia e una vacanza subacquea
nel mare mozzafiato della “sua” Sardegna, mi ha parlato del libro ancora in gestazione e mi ha fatto
leggere in anteprima l’indice di alcuni capitoli, ho immediatamente percepito la novità del metodo
seguito.
Ho perciò accolto come un onore il compito di presentare questo manuale significativamente intitolato
“Dal diritto civile al diritto amministrativo”.
Io avrei aggiunto “e ritorno”.
Questo libro non vuole essere una pubblicazione “accademica”, come ci spiega lo stesso Autore, ma un
testo destinato soprattutto a chi prepara i concorsi superiori e alle professioni legali.
Soprattutto è un testo con una visione sistematica e un approccio olistico.
I miei studi universitari e la successiva preparazione dei concorsi risalgono a trent’anni fa. Nella
manualistica dell’epoca il diritto civile e il diritto amministrativo erano due mondi tendenzialmente
separati e non comunicanti. I rapporti paritari e simmetrici da una parte, le relazioni asimmetriche
connotate dal potere pubblico dall’altra. Era un vezzo che poteva far guadagnare un voto all’esame o un
punto al concorso pubblico, fare qualche collegamento tra i due ambiti, e discettare, ad esempio, degli
interessi legittimi nel diritto privato ovvero della teoria del negozio giuridico applicata al provvedimento
amministrativo. Non si avvertiva, però, una necessità vera e propria di “esplorazione comune” dei due
campi.
Con il passare degli anni il vezzo è diventato necessità, per ragioni molteplici:
- il modificarsi dei modelli di azione della pubblica amministrazione, che non sempre opera come
autorità ma sempre più spesso ricorre a moduli convenzionali, a istituti privatistici;
- la parallela, e per certi versi simmetrica, evoluzione del diritto civile, che oggi tende a utilizzare
“parametri oggettivanti”, un tempo tipici del solo diritto pubblico, con il conseguente aumento del
tasso di controllo del legislatore e del giudice (ad esempio, sui vizi di nullità, sul divieto di abuso del
diritto e sul canone di buona fede);
- l’innesto, nei diritti nazionali, del diritto comunitario, a sua volta frutto di mediazione tra sistemi
giuridici differenziati, molti dei quali non conoscevano, all’inizio del percorso, un diritto amministrativo
nettamente separato da quello comune;
- il conseguente impatto della giurisprudenza di Corti sovranazionali, che, dovendo semplificare i
principi a fronte di una molteplicità di regolamentazioni nazionali, affermano pragmaticamente
l’effettività della tutela e dei rimedi, per quanto elaborate, raffinate, bizantine, possano essere le regole
processuali interne.
In definitiva, esiste una pubblica amministrazione che a volte opera come autorità, a volte in posizione
paritaria, a volte utilizza il “suo” diritto amministrativo, a volte il diritto civile, ed esiste, di volta in volta,
un giudice civile, o uno amministrativo, a occuparsi delle liti tra cittadini/imprese e pubblica autorità.
In un’epoca di globalizzazione economica e sociale, il diritto è chiamato a occuparsi di fenomeni
globali: sempre meno la lite del singolo individuo, sempre più contenziosi di massa, seriali; sempre più
la tutela di quelle masse che sono i consumatori, gli utenti di servizi pubblici, le vittime di disastri
ambientali, gli immigrati, gli sfollati.
Con un Parlamento che, citando un giudice supremo inglese, fa le leggi across the square, restituendo
plasticamente l’immagine della continua mediazione tra molteplici interessi in conflitto, quasi si trattasse
di frettolosi mercanteggiamenti in una pubblica piazza.
Sicché, non sempre queste leggi si preoccupano delle qualificazioni e categorie giuridiche, del distinguo
tra diritto civile e diritto amministrativo.
Il che poi non è necessariamente un male.
Se la pubblica amministrazione è sempre più spesso il soggetto con cui si confrontano cittadini e
imprese, se i primi trovano sempre più spesso davanti a sé grandi poteri, pubblici o privati che siano, se
i diritti fondamentali sono sempre più messi a rischio dall’esercizio, o non esercizio, di poteri, lo studio
del diritto non si presta più a rigide categorizzazioni e distinzioni.
Con questo approccio, il libro di Antonio Plaisant ci restituisce una visione unitaria, percorrendo,
attraverso l’esame della giurisprudenza e della dottrina, la storia di molti istituti giuridici, nella cui
ricostruzione gli amministrativisti hanno usato la “cassetta degli attrezzi” dei civilisti e, viceversa, i
secondi hanno talora dovuto chiedere in prestito ai primi i ferri del mestiere. Non di rado principi del
diritto amministrativo sono stati affermati dal giudice civile ovvero quest’ultimo ha dovuto cedere a
canoni tipici del giudizio amministrativo.
Il libro, come ogni buon manuale, ci racconta istituti basilari nell’approccio allo studio del diritto, quali
le posizioni giuridiche soggettive, i soggetti, l’atto/negozio, la tutela. E per ognuno di tali istituti
l’accostamento tra diritto civile e diritto amministrativo rende evidente la sorprendente osmosi e
interazione tra i due ambiti, cominciando dalla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo,
ignota alla restante parte dei Paesi europei. Distinzione sempre meno chiara da quando, dapprima il
diritto comunitario, a partire dal 1992, ha imposto al legislatore italiano di introdurre la tutela risarcitoria
nei pubblici appalti comunitari: quella “tutela risarcitoria” che l’Europa concepisce tout court, senza
dogmi e categorie, che diventa però “tutela risarcitoria dell’interesse legittimo” per la scienza giuridica
italiana.
E allora proprio il giudice civile ha generalizzato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo, seguito a
ruota dal legislatore, per cui, a partire dai primi anni 2000, è iniziata una nuova elaborazione, che ha
toccato gli elementi dell’illecito, il danno risarcibile, le tecniche risarcitorie: lo strumentario del giurista
amministrativo è stato inevitabilmente il codice civile. Antonio Plaisant ci racconta molto bene come
nel diritto amministrativo si utilizzino, non sempre secondo i dettami classici, gli artt. 1227, 1337, 1338,
2043 del cod. civ.
Quanto ai soggetti, il confine tra ente privato e pubblica amministrazione, ancora una volta sotto la
pressione del diritto comunitario, è sempre meno netto.
Per mutazione genetica ecco nascere gli ibridi che vanno sotto il nome di organismo di diritto pubblico,
società pubblica, in house, mista, per tacere delle sigle PPP, IPPP, CPPP (partenariato pubblico e
privato, nelle due varianti istituzionale e contrattuale). Questa sorta di organismi geneticamente
modificati richiede ai giudici, sia civili che amministrativi (e senza voler qui chiamare nella partita quelli
penali, tributari e contabili), un paziente lavoro di analisi per individuarne il sesso. E talvolta il giurista
non può che arrendersi, attribuendo il sesso X, né pubblico né privato per intero, ma di tutto un po’.
Veniamo all’atto, al negozio giuridico e al contratto, sempre più acrobaticamente “a cavallo” tra diritto
privato e pubblico. Esempio emblematico l’appalto cd. pubblico, l’antesignano degli ibridi, con la sua
fase di evidenza pubblica sino alla stipulazione e la sua natura privatistica dopo la stipulazione. Ma
nemmeno esattamente così, a un’analisi più di dettaglio. Basti solo ricordare l’annosa vicenda della sorte
del contratto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione, che ha visto accanirsi dottrina e giudici sulla
natura giuridica del vizio contrattuale, pescando a piacimento dal codice civile gli istituti della nullità,
assoluta e relativa, annullabilità, inopponibilità.
Finché, ben più pragmaticamente, il diritto comunitario ha imposto di parlare dei soli effetti del vizio di
inefficacia, peraltro “a geometria variabile”, a prescindere dalla qualificazione giuridica del vizio. Come
a dire: la febbre c’è, non sappiamo se è virale o batterica, e nemmeno ci interessa, né abbiamo
nemmeno il tempo per appurarlo, per intanto somministriamo aspirina e antibiotico, che va bene
comunque.
Altro istituto emblematico è l’acquisto del bene immobile, con i due modelli, un tempo agli antipodi,
dell’acquisizione coattiva mediante espropriazione e dell’acquisizione volontaria mediante
compravendita. Ma il contesto vede sempre più esteso l’utilizzo della cessione volontaria e
dell’indennità a prezzi di mercato, sino addirittura all’abbandono del modello espropriativo legale per
far spazio a nuove creazioni, come la “perequazione urbanistica” e le sue superfetazioni civilistiche,
come i “diritti edificatori”. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando fu rispolverato l’istituto
civilistico dell’accessione, espressione del principio d’altri tempi omnia quod inaedificatur solo cedit, ora
pressoché inapplicato prima di tutto perché, in tempi di risorse scarse e complessità burocratica, solo a
un folle verrebbe in mente di costruire su suolo altrui. E l’accessione, che solo gli studenti più diligenti,
almeno ai miei tempi, preparavano per l’esame di diritto privato, conobbe il suo momento di gloria
quando diventò, nel diritto pubblico delle espropriazioni, l’accessione “invertita”. Da essa sono poi
figliate altre costruzioni, sempre attingendo al codice civile: non sarà l’ultima, forse, la “rinuncia
abdicativa” di cui proprio ora si discute.
Infine, la tutela giurisdizionale: la difficoltà di tracciare un netto confine tra diritto civile e
amministrativo ha come conseguenza immediata e diretta quella di distinguere tra ambito di intervento
del giudice civile e del giudice amministrativo. Il “riparto di giurisdizione” è la questione prima in ogni
processo in cui sia parte una pubblica amministrazione, convenuta ora davanti al primo ora davanti al
secondo.
Non solo: le azioni, i riti processuali, il tipo di tutela erogabile dal giudice, tendono ad assimilarsi.
E, poi, la recente ricognizione normativa dei riti speciali davanti al giudice civile: la maggior parte hanno
come convenuta la pubblica amministrazione e in essi viene in rilievo l’atto amministrativo, talora non
come mera occasione per accedere al rapporto, ma come oggetto principale di un rito impugnatorio. E
talora persino allo stesso giudice civile viene attribuito il potere di annullare il provvedimento, in deroga
all’impostazione tradizionale secondo cui solo il giudice amministrativo aveva tale potere.
Per converso davanti al giudice amministrativo si fanno strada petita ulteriori rispetto a quella
tradizionale di annullamento, fino a pochi anni fa inconcepibili: l’azione risarcitoria autonoma, l’azione
di adempimento, l’azione di accertamento, l’applicazione di sanzioni dissuasive o punitive, come
l’astreinte, o le sanzioni pecuniarie o interdittive applicate a pubbliche amministrazioni responsabili di
aggiudicazioni illegittime; sullo sfondo le recenti pronunce delle Sezioni Unite che, nel frattempo,
ampliano il potere di rilievo d’ufficio del vizio di nullità del negozio giuridico.
In entrambe le giurisdizioni si affrontano temi epocali, nell’era in cui si chiede al servizio giustizia
qualità e tempestività ma la crisi economica non consente gli appropriati investimenti. Temi quali
l’eccesso di contenzioso, l’arretrato, i costi di accesso alla giustizia, la scarsezza di investimenti. E si
utilizza uno strumentario comune basato sui principi: la giustizia come risorsa scarsa da allocare in
modo efficiente, l’economia processuale, la sinteticità degli atti, il divieto di abuso del diritto
processuale.
Si coglie così, ancora una volta, l’utilità di questo manuale, che riesce a sistematizzare la complessità di
un’eterogenea massa normativa in continuo cambiamento, aiutandoci con i principi e le categorie del
diritto. Un diritto che - sempre più spesso sintesi di osmosi e incursioni reciproche tra civile e
amministrativo - esige la capacità di percorrere la linea di confine senza smarrirsi d’animo, con lo spirito
di chi non perde di vista le coordinate e riesce a rintracciare il percorso degli istituti sin dentro i loro
processi di ibridazione e contaminazione.
Rosanna De Nictolis
Febbraio 2016
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