La scienza delle costruzioni Architettura ellenistica dell’Italia antica Dispensa 2: Lezioni dell’inverno 2014 Miscellanea a cura di Sandro Caranzano riservati ai fruitori del corso di archeologia presso l'Università Popolare di Torino 2013-14 2.1 – Criteri dell’architettura romana repubblicana Fig 1 – Plastico ricostruttivo e didattico del tempio di Giove Capitolino a Roma. Fig. 2 – Sezione ideale della facciata. La nascita di un’architettura propriamente romana, nettamente distinta da quella di tradizione etrusco–italica e indipendente da quella greca è difficile da stabilire cronologicamente. Certo è che, dopo la conquista di Veio nel 396 a.C. e superata la crisi dell'assedio e del saccheggio gallico del 390 a.C., Roma avviò un’ingente attività di espansione militare in direzione del centro e del sud – Italia (in particolare in occasione delle Guerre sannitiche) a cui seguì la progressiva colonizzazione del Mediterraneo che prese spunto dai ripetuti scontri con Cartagine. Nel momento in cui Roma da piccolo centro latino situato strategicamente lungo il corso del Tevere passò a rivestire un ruolo politico di portata interregionale e di scala mediterranea, si posero le basi per la messa a punto di nuove soluzioni architettoniche, sia dal punto di vista tecnico, sia da quello progettuale, dando così luogo – nel periodo ellenistico – a soluzioni indipendenti ed innovative. Grande gioco in tale processo ebbe la scoperta dei cosiddetti coementa (cioè la calce idraulica) e la rielaborazione di modelli planimetrici, urbanistici e architettonici di matrice greco–ellenistica conosciuti grazie alla costante frequentazione delle isole dell'Egeo da parte dei mercanti e degli architetti romani, soprattutto dopo la presa di Corinto del 146 a.C. 2.2 – Il tempio “etrusco-italico” Per quanto concerne l'architettura sacra, i più antichi templi romani presentano caratteri planimetrici e costruttivi del tutto assimilabili a quelli noti nel mondo etrusco. È esemplare, in questo senso, il tempio di Giove Capitolino costruito sul Campidoglio e dedicato a Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva; la tradizione lo vuole iniziato dal re Tarquinio Prisco attorno al 575 a.C. e completato da Tarquinio il Superbo con l'intervento di artisti e artigiani etruschi; tra di essi, si annovera lo scultore Vulca di Veio, che avrebbe realizzato la statua di culto di Giove vestita con gli abiti e le insegne della regalità che i condottieri erano soliti indossare in occasione dei trionfi. Tale informazione conferma le strette relazioni tra la dinastia dei Tarquini e l'Etruria vera e propria che già conosciamo dalla cultura materiale e che 1 Fig 3 –La planimetria canonica del tempio etrusco-italico. Fig 4 –Gli enigmatici "mercati di Ferentino", struttura coperta di età repubblicana le cui volte, e parte dei muri, sono costruiti in coementa. è confermata dalla storiografia antica; la stessa planimetria dell’edificio risente strettamente, d’altronde, delle formulazioni architettoniche messe a punto oltretevere. Dotato di un podio di fondazione, l'edificio misurava 53 x 62 m, era orientato verso sud–est e preceduto da una gradinata posta tra due avancorpi. La distribuzione delle colonne nella cella era quella in seguito diventata canonica: esastilo sulla fronte, proprio come i templi etruschi presentava un porticato in facciata molto profondo costituito da tre file di colonne disposte ai vertici di diciotto moduli quadrangolari; la cella tripartita occupava 3 x 3 moduli, attestandosi così su una profondità pari a metà di quella coperta dal tetto, fatto che rendeva il colonnato anteriore piuttosto oscuro. L'edificio privo di colonnato sul lato posteriore (sine postìco) era circondato su tre lati da colonne, era completato verso l'alto da un tetto a due falde molto sporgenti, capace di proteggere le murature realizzate in materiale effimero (legno, mattone crudo, argilla e tufo) dalle intemperie; non particolarmente sviluppato in altezza a causa delle problematiche legate alla statica, l'edificio affidava il suo prestigio estetico alla ricchissima decorazione delle falde del tetto ricoperte da lastre in terracotta dipinte (gheison e sime), mentre lo spazio interno del timpano – considerato ancora come un elemento di risulta – non era sfruttato in modo organico; esso ospitava una piccola falda di tetto longitudinale destinata a proteggere le colonne del pronao dalla pioggia ed un ampio spazio vacuo, da cui si enucleavano semplicemente le testate delle travi sulle quali – con ogni probabilità – erano applicate delle lastre in terracotta decorative o a soggetto mitologico (del tipo di quelle scoperte nel tempio etrusco di Talamone). Non è un caso che le fonti antiche riferiscano in primo luogo il nome del coroplasta incaricato di realizzare le statue acroteriali piuttosto che quello dall'architetto, a causa della valenza fondamentale ancora attribuita all'apparato decorativo rispetto alla struttura architettonica: un dato costante e caratteristico del tempio etrusco– italico, che doveva rendere l’effetto prodotto sull’osservatore da questi edifici simile a quello offerto da certe pagode orientali, i cui tetti elaboratissimi e sfrangiati si dissolvono verso l’alto contrastando con la luce atmosferica del cielo. Come appare chiaro non sembra possibile identificare in tale edificio caratteri spiccatamente individuali, ed esso sembra piuttosto inserito nella grande koiné dell’architettura centro–italica del’epoca. 2.3 – L’innovazione dei coementa Una vera e propria svolta nella tecnologia e nell'architettura romana si enuclea a cavallo tra il III e il II sec a.C., nel momento in cui cioè Roma viene a contatto con le grandi civiltà mediterranee – in particolare quella cartaginese e quella greca – nell'ambito di un processo di espansione militare e coloniale di grande scala. Nello specifico, sembra che l'utilizzo di polveri carbonatiche impastate con acqua per realizzare calce fosse già noto presso i cartaginesi almeno a partire dal primo periodo ellenistico; tuttavia – per quanto ne sappiamo – la calce così ottenuta era utilizzata come materiale secondario e privo di funzione strutturale, e perlopiù impiegato nella coibentazione di alcuni ambienti o nella rifinitura di alcuni particolari architettonici. Tale invenzione fu dunque conosciuta da Roma dopo le famose vittorie delle isole Egadi (Prima guerra punica) e soprattutto dopo la clamorosa vittoria di Zama del 202 a.C. (Seconda guerra punica) che le permise di controllare politicamente Cartagine e gli ampi territori da essa dipendenti. Benché la data di nascita del calcestruzzo romano non sia nota con precisione, è certo che già a partire da questi anni prime sperimentazioni vennero effettuate sui colli romani e nella stessa Roma per la costruzione di edifici pubblici e privati, spesso di grande mole. 2 Economica e facile da reperire, la calce svolse un ruolo importantissimo nell'ambito dell’architettura monumentale pubblica e privata di Roma antica: superate le problematiche tecniche e il notevole costo connesso all’estrazione e al trasporto dei blocchi di pietra necessari con il vecchio metodo di costruzione (opus quadratum, opus poligonale), la possibilità di realizzare un impasto di pietrame e calce determinò un abbattimento dei tempi e dei costi di realizzazione delle opere murarie, permettendo la costruzione a Roma di grandi edifici monumentali (quali templi, basiliche e santuari), e la veloce edificazione di edifici pubblici di spiccata valenza politica e amministrativa nelle Fig. 5 – Il portico esterno del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli le cui semicolonne sono realizzate in opus reticulatum ed erano anticamente mascherate con uno stucco decorato in modo da imitare il più prezioso marmo. regioni di recente conquista. Dal punto di vista tecnico è bene premettere che la calce può essere prodotta tramite la cottura in forni opportunamente predisposti della pietra calcarea – composta prevalentemente da carbonato di calcio (CaCo3) – a temperature relativamente elevate, oscillanti tra gli 800 e i 1000°C. Forni di questo tipo implicano una conoscenza tecnologica abbastanza basilare ma, in ogni caso, un maggior impegno rispetto a quanto necessario per la cottura del gesso. Quest'ultimo era stato utilizzato sino a quel tempo unicamente per il rivestimento delle pareti (expolitio) o per la realizzazione di finiture superficiali. La cottura del calcare avviene con lo sviluppo di anidride carbonica (CO2) trascinata dai gas della combustione, anch'essi prevalentemente costituiti da CO2 secondo la seguente formula: CaCO3 > CaO+CO2 (^) Come appare chiaro, la cottura del carbonato di calcio produce un ossido di calcio (detto anche semplicemente calce) che, trasferito sul cantiere da costruzione, deve essere unito ad acqua per ottenere idrossido di calcio (calce idrata): CaO + H20 > Ca(OH)2. Normalmente, tale reazione chimica avveniva all'interno delle casseforme lignee erette dai capomastri romani assecondando la forma che il muro avrebbe dovuto avere al termine dell'essiccazione. Dopo avere disposto in modo ordinato i conci di pietra spaccati e regolarizzati a martellina a contatto con l'impalcatura (in modo tale da garantire alla parete del muro una superficie il più possibile piana e regolare) si procedeva a distribuire calce mista a pietre all'interno delle casseforme stesse, in successive giornate di lavoro. La calce idrata ottenuta con l'aggiunta dell'acqua a contatto con l'anidride carbonica dell'aria produce la seguente reazione: Ca(OH)2 + Co2 > CaCo3 + H20 La carbonatazione della calce idrata chiudeva il ciclo, permettendo di ottenere – come in partenza – del carbonato di calcio solido e resistente inframezzato da pietrame, con un perimetro conformato secondo il profilo stabilito dai muratori durante la disposizione delle casseforme di contenimento. L'indurimento della calce richiede un processo di asciugamento per l’eliminazione aerea dell'acqua che si forma secondo la reazione appena enunciata; per tale ragione i muratori antichi attendevano la completa essiccazione della massa muraria prima di procedere alla gettata delle «giornate» successive. Come è facile intuire, per la stessa plasmabilità del muro – non più limitato a forme semplici dalla ortogonalità dei blocchi squadrati o poligonali – la nuova tecnica dei coementa invitò i progettisti a realizzare le pareti con gli andamenti più vari; inoltre, dal momento che le assi della cassaforma – del lato esterno e interno 3 del muro – erano indipendenti, fu possibile forse per la prima volta, in modo radicale, sganciare il perimetro dell'edificio dalla planimetria degli spazi interni (le stanze), che potevano ora presentare forme del tutto differenti. È bene comunque aggiungere che la straordinaria applicazione del calcestruzzo nel mondo romano fu possibile solo grazie alla scoperta di un ulteriore ingrediente che i capomastri romani erano soliti aggiungere all'impasto di base; si tratta della pozzolana, una sabbia vulcanica ampiamente diffusa in Campania nella zona prossima al Vesuvio, nella quale la presenza di Silice (SiO2) ed Allumina (Al2O3) determina una complessa trasformazione chimica. Tramite di essa, la calce si trasforma infatti in alluminato di calcio idrato (C – A – H) e, in particolare, in un idrosilicato di calcio (C – S – H), dando luogo a una malta di straordinaria resistenza meccanica, per la prima volta capace di indurirsi anche sott'acqua e di resistere all'azione dilavante della pioggia. Gli architetti romani sembrano aver intuito sin dall'inizio le potenzialità di questa tecnica costruttiva, ma si trovarono in difficoltà a causa del ritiro micrometrico delle malte in fase d’essiccazione. Per sua causa, probabilmente, fratture e crepe piuttosto problematiche si crearono nella massa muraria; il problema non era tanto quello di limitare il collasso strutturale degli edifici (tanto più che due grandi muri monolitici accostati lungo una frattura si trasformano, inevitabilmente, nell'equivalente statico di due conci di arco adiacenti), ma piuttosto di evitare la percolazione di acqua piovana all'interno degli ambienti abitabili, che avrebbe lentamente e inesorabilmente distaccato gli intonaci e danneggiato l'edificio. Le soluzioni e i tentativi messi in atto per limitare il problema furono molteplici e articolati; in linea di massima, la soluzione adottata fu quella di limitare il più possibile la presenza di grumi o concentrazioni di calce nella massa del muro, sezionandolo con giunti elastici costituiti per esempio da mattoni (un materiale capace di compensare le trazioni piuttosto forti esercitate della malta in essiccazione, opus listatum) o distribuendo il pietrame in modo regolare almeno sulla superficie esterna del muro, così da creare linee di trazione oblique e scongiurare ammassi di calce (opus reticolatum). Il carattere progressivo e sperimentale di queste ricerche architettoniche fanno sì che alcuni edifici monumentali della media e tarda età repubblicana nel territorio del Lazio alternassero ancora le tradizionali tecniche lapidee in opus quadratum ed opus poligonale all'opus coementicium. Lo sfruttamento del calcestruzzo per la costruzione di edifici monumentali indusse gli architetti romani a teorizzare e a mettere in atto l'innovazione architettonica costituita dai fornices; il fornix può essere descritto semplicemente come un modulo di spazio coperto da una volta (a botte o a crociera, a seconda che si desideri uno spazio di transizione o centralizzante). Il “fornice modello” si può descrivere come costituito da quattro pilastri in calcestruzzo su cui si appoggia la volta, costruita nello stesso materiale. I fornici rappresentano delle unità modulari che possono essere affiancate longitudinalmente a creare dei corridoi (aperti o chiusi, a seconda della presenza o no di muri di tampognamento) o delle vere e proprie sale pilastrate, se disposti allineati su più filari. 2.4 – Principi etici e pratici dell’arte del costruire romano Il famoso trattato di Vitruvio dedicato all'architettura ci fornisce un’interessante testimonianza del punto di vista di un architetto della prima età imperiale, e ci è perciò di grande aiuto nella comprensione dell'architettura dei secoli precedenti. L’architetto romano, nel tentativo di mettere assieme in chiave letteraria una lunga serie di competenze maturate nel corso dei secoli, e con un fare accademico estraneo ai caratteri precipui della manualistica tecnica, accoglie metodicamente una vasta serie di testimonianze letterarie del periodo ellenistico di lingua greca, interpretandole e riordinandole con gli strumenti a disposizione di un uomo dell'età di Augusto. Nei diversi passi è possibile osservare come molte delle terminologie e dei concetti espressi dagli autori più antichi non sono ai suoi tempi ormai comprensibili in senso compiuto; dobbiamo infatti considerare come gran parte delle ricerche scientifiche furono elaborate da scienziati del calibro di 4 Fig. 6 –Esemplificazione del discorso proposto da Vitruvio nel primo libro del De Architectura. Archimede, Ctesibio, Erone alla corte dei principi ellenistici di Alessandria, Siracusa, Antiochia e Pergamo due o tre secoli prima. I Romani avevano avuto modo di consultare gran parte di questi studi nella biblioteca di Alessandria e nelle metropoli del Mediterraneo di recente conquista, ma molti di questi centri erano in fase di decadenza e gli architetti e i capomastri romani del tempo possono essere meglio paragonati ad abili ingegneri militari piuttosto che a dei filosofi della scienza. Gran parte di essi aveva avuto modo di formarsi sul campo, costruendo fortificazioni, fortini, città e ponti in occasione delle campagne militari o della colonizzazione delle zone di recente conquista: la prevalenza delle loro conoscenze sembrano pertanto essere state tramandate oralmente o per mezzo di una manualistica tecnica anziché che il frutto di studi teorici approfonditi. Nell'ambito del nostro discorso è piuttosto interessante ricordare la distinzione tra i “modi di agire” e i “modi di essere” dell’architettura proposti da Vitruvio. Secondo Vitruvio l'architettura si divide in sei parti: ordinatio, dispositio, eurythmia, symmetria, decor e distributio. L'ordinatio consiste nella conoscenza delle misure dei singoli membri architettonici e delle loro proporzioni rispetto a un modulo o unità di misura; da essa dipende l'esecuzione armonica di un edificio. Roma fu in grado di perfezionare l'organizzazione logistica del cantiere nel rispetto di misure standard e ripetitive, che permisero la veloce messa in opera dell’apparecchio murario permettendo l’uso di materiali edili di diversa origine e manifattura in perfetta compatibilità. È questo il caso del mattone sesquipedale (lungo un piede e mezzo), divisibile nei suoi sottomultipli a seconda delle esigenze costruttive. Le dispositio regola la corretta messa in opera di ogni elemento ed è divisa a sua volta in tre parti: icnografia, ortografia e scenografia. Questo dettaglio è particolarmente importante perché ci conferma come gli architetti di età repubblicana e primo imperiale sfruttassero parimenti il disegno in pianta, in alzato e in prospettiva per fornire alla committenza e alle maestranze un'idea dell'edificio, tanto in fase di progettazione che di esecuzione. Già per quanto concerne l'età greca siamo a conoscenza di disegni bidimensionali realizzati 5 direttamente sul cantiere (su una parete, su uno scalino …) per permettere alle maestranze – che facevano uso di calibri fissi – di riportare sul blocco in marmo le stesse misure e proporzioni. Vitruvio ricorda che per l'icnografia è necessario saper usare il compasso e la riga, che l'ortografia si occupa della facciata e presuppone la conoscenza delle proporzioni, e che la scenografia consiste nello schizzo o disegno in scorcio. Tutte e tre le cose derivano da cogitatio e inventio. La prima, fondata sullo studio e la disciplina nell'operare, ha per meta le «sensazioni piacevoli»; la seconda, consiste nell'abilità nell'affrontare e risolvere problemi nuovi o insoluti. Terzo elemento è la cosiddetta distributio, consistente nell'uso sapiente di materiali e superfici, come pure nell’oculata parsimonia di spesa nel costruire. Non dobbiamo infatti dimenticare come l'architetto non solo fosse responsabile del progetto teorico, ma anche dell'organizzazione dei ponteggi e della costruzione delle macchine di sollevamento; tale poliedricità rappresenta un fatto eccezionale nella storia dell'architettura e ci dimostra la stretta relazione esistente tre le problematiche tecnologiche e la conduzione dei lavori. In una seconda parte Vitruvio ricorda anche i tre modi di essere dell'architettura. Questa deve garantire la eurythmia, ovvero la cura della figura e le dimensioni e proporzioni dei singoli elementi. Simile ma non identica è quindi la simmetria – ovvero la conmisurazione e il collegamento armonico dei singoli membri dell'edificio, consistente nella corrispondenza proporzionale fra una parte e il tutto di un'opera, misurata a moduli o frazioni di modulo. Questa parola necessità di un maggiore chiarimento dal momento che assume nella lingua latina un significato per certi versi differente da quello utilizzato oggi. La simmetria corrisponde – in architettura come in geometria – nella proporzione armonica delle singole misure che compongono l'edificio. Un rapporto simmetrico è per esempio quello rappresentato dalla sezione aurea laddove, solo per una determinata misura si verifica un rapporto tra i segmenti del tipo A:B=B: (A+B) Gli architetti antichi erano dunque convinti che, esattamente come in natura, l'armonia estetica di un edificio fosse determinata dalla rispondenza delle misure delle sue singole parti, realizzata utilizzando dei numeri presenti in natura e calcolabili preventivamente. Vitruvio, nello spiegare il significato dell’eurythmia della symmetria stabilisce un paragone fra il corpo umano ideale e un edificio. L'eurytmia o armonia di un corpo umano dipende dall'aspetto e dalla disposizione delle sue parti anatomiche. Nei templi, la simmetria – o corrispondenza proporzionale – si ricava dal modulo o unità di misura (o massimo comun divisore), che è il diametro delle colonne oppure il triglifo. La natura – che l'architetto deve imitare – ha composto il corpo dell'uomo ideale in modo tale che, se misurato dal mento alla sommità della fronte e alla radice dei capelli, il viso corrisponde a un decimo dell'altezza del corpo. La stessa proporzione si presenta nella mano aperta se misurata dalla sua articolazione fino alla punta del dito medio. L'altezza del viso si divide poi in tre parti uguali: dal mento alla base delle narici, dal naso fino al punto d'incontro con le sopracciglia e da queste alla radice dei capelli; il piede è la sesta parte dell'altezza del corpo e così via. «Rispettando tali proporzioni i pittori e gli scultori dell'antichità ottennero grandi elogi. Alla stessa maniera, le misure delle parti di un tempio dovranno 6 Fig. 9 – Schema ricostruttivo di una gru di sollevamento grecodel tipo polyspaston con indicazione delle diverse parti citate nel testo in lingua originale. avere una stretta corrispondenza e concordanza con il tutto». Vitruvio aggiunge che il corpo umano ha un centro che corrisponde all'ombelico: se infatti «si collocasse supino un uomo colle mani e i piedi aperti e si mettesse il centro del compasso nell'ombelico, descrivendosi una circonferenza si toccherebbero tangenzialmente le dita delle mani e dei piedi. Ma non basta: oltre lo schema del circolo, nel corpo si troverà anche la figura del quadrato. Infatti, se si misura dal piano di posa dei piedi al vertice del capo, poi si trasporterà questa misura alle mani distese, si troverà una lunghezza uguale all'altezza, come accade nel quadrato tirato a squadra». Questo brano, in cui Vitruvio riconduce l'uomo ideale (microcosmo) alle figure geometriche della circonferenza e del quadrato – simbolo dell'universo e della terra (macrocosmo) – ha affascinato schiere di architetti che a partire dal Rinascimento si sono cimentati nella traduzione grafica di tale insegnamento. Fra questi, va ricordato il famoso disegno di Leonardo da Vinci conservato presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia, quello di Fra' Giocondo pubblicato nel suo trattato a Venezia nel 1511 e quello di Andrea Palladio, pubblicato nel commento a Vitruvio di Daniele Barbaro del 1567. Per Vitruvio, segue quindi il decor, e cioé il bell'aspetto di un'opera composta da elementi e forme le cui misure e proporzioni sono determinate con gusto, sapienza, consonanza e uniformità. Il decor può essere raggiunto usando la statio (ovvero la collocazione adeguata dell'edificio rispettò la sua funzione), la consuetudo (ovvero il rispetto della tradizione e coerenza interna dell'opera) e la natura (cioè l'obbedienza della logica topografica del suolo all'opera che si vuole realizzare): una serie di precetti molto utili che sarebbe opportuno non dimenticare troppo facilmente soprattutto giorno d'oggi. 2.5 - Le macchine di sollevamento L'introduzione del calcestruzzo nell'ambito dell'architettura romana non eliminò mai del tutto la necessità tagliare, trasportare e rifinire blocchi lapidei anche di grandi dimensioni; basti pensare ai colonnati marmorei dei diversi fora o alle facciate dei grandi templi e santuari suburbani. Per tale ragione la civiltà romana continuò a sfruttare le scoperte tecnologiche messe a punto nell'età ellenistica per il sollevamento dei blocchi da costruzione, perfezionandole. L'elemento più semplice a tale scopo è certamente costituito dalla carrucola, una ruota pivottante su un'asse, capace di trasferire il suo moto circolare a quello rettilineo di una fune; non a caso, nell'antichità nacque la leggenda secondo la quale essa sarebbe stata inventata da Archita di Taranto, un seguace della scuola pitagorica interessato a problemi di ordine geometrico e matematico. In realtà, non esiste una vera e propria data di nascita della carrucola e sembra possibile che già in periodi molto antichi fosse già conosciuta. Piuttosto discusso è il rilievo della tomba di Ipuy a Saqqara, datato attorno al 2500 a.C., in cui sembra rappresentata una nave a vela con due pennoni manovrati con dritte governate a poppa; piuttosto convincente è anche il dipinto di una nave affrescato sull'isola di Santorini datato al 1400 a.C.; in esso è possibile riconoscere due pennoni affiancati a un albero maestro al cui vertice sembra di poter distinguere ben dieci carrucole, otto delle quali impiegate per la manovra dei pennoni. 7 Fatto sta, che il salto di qualità si ebbe con ogni probabilità nel periodo ellenistico con la messa a punto di macchine dotate di carrucole multiple, inizialmente progettate non tanto in funzione dei cantieri edili, quanto per facilitare il carico e lo scarico delle navi presso i porti commerciali. Per tale motivo le prime gru dovevano armonizzare l'esigenza di sollevare con la minor fatica possibile carichi piuttosto ingenti, con quella di poterli spostare lateralmente. Vitruvio sembra cosciente dell'importanza del principio della leva (vectis) nel funzionamento delle macchine da trazione. Recita infatti: «ora la lunghezza di quella parte della leva che va dal fulcro fino a sotto il peso, sarà inversamente proporzionale all'altra parte che va dal fulcro all'altro estremo su cui deve far pressione. Premendo su questa impugnatura, anche con le forze di poche mani, si costringe la leva a compiere un movimento circolare capace di spostare un peso anche rilevantissimo. E dopo avere presentato l'esempio della stadera, del timone e delle vele, ricorda come anche i remi delle navi, quando vengono spostati in avanti o indietro con le mani, spingono innanzi con maggiore impeto la nave se si immerge nei flutti soltanto la pala che è situata all'estremo. Sia dunque nelle stanghe che nei gioghi, quando l'attacco delle corregge non è centrale ma spostato da una parte, esso rende necessariamente un lato più breve e l'altro più lungo. Se si facesse dunque compiere alla stanga o al giogo un movimento circolare intorno al centro, il lato più lungo descriverebbe la circonferenza più ampia e quello più corto la circonferenza minore. Come dunque queste macchine funzionano combinando insieme i loro moti rettilinei e circolari in rapporto a un centro, così anche i carri, le ruote, gli scorpioni, le baliste, i torchi e tutte le altre macchine producono i loro effetti con analoghi movimenti rettilinei e circolari corrispondenti a un determinato centro». La macchina per il sollevamento architettonico per antonomasia fu il cosiddetto polyspaston, una sorta di elaborazione dei cosiddetti “picchi di carico” in uso nelle navi moderne. In sostanza il polyspaston assolveva la funzione di una gru girevole sfruttando dei paranchi a tre pulegge distribuite tra tre carrucole fisse e due mobili. Le tre carrucole fisse costituivano la tròclea summa, mentre quelle pendenti la tròclea infima. Si trattava di macchine da sollevamento di eccezionale solidità e rapidità, in cui i valori di potenza e di velocità erano strettamente connessi al numero di bozzelli mobili di cui era formato ogni paranco. La manovra di questi picchi di carico era di notevole difficoltà perché l'abbassamento o il sollevamento dell'albero comportava una variazione dei rapporti tra resistenza e potenza. La macchina poteva anche operare in senso girevole con l'uso di un'unica trave inclinata ad altezza regolabile. In due parole, il sistema di carrucole veniva fissato al vertice di una trave obliqua fissata al suolo su uno snodo pivottante che le permetteva di muoversi lateralmente. Il peso veniva sollevato tramite un sistema di tre fumi (tres ductarii funes) che si avvolgevano inizialmente nelle ruote (orbiculi) della carrucola inferiore per poi salire e avvolgersi su quelle della carrucola superiore. Condotte infine verso il basso giravano attorno all’artemo per essere tirate da un argano a mano (ergata) o da vere e proprie ruote in legno di grandi dimensioni al cui interno camminavano 8 degli addetti così da imprimere un movimento al meccanismo (peritechion o rotae calcatoriae). Si è calcolato una gru di questo tipo, dotata di cinque carrucole, tre corde una grande ruota a gradini mossa da uomini che vi camminavano all'interno, potesse sollevare 6 tonnellate con l'apporto di soli due uomini senza troppa fatica. 2.6 – L’acropoli e le mura di Ferentino Fig. 12 – La Porta Sanguinaria di Ferentino caratterizzata da un arco tutto sesto in conti di tufo impostato su imponenti opere ciclopiche di età repubblicana. Fig. 13 – Tipologie di costruzione a secco come proposte in un tipico manuale di architettura antica. Le mura ciclopiche di Ferentino rientrano in una casistica ben rappresentata nel territorio a sud di Roma (ad esempio ad Alatri e Gabi) e presentano caratteristiche di monumentalità insospettate. Sviluppato per oltre 2 km, il circuito murario, presenta un basamento in opera poligonale fatto di grandi blocchi di calcare su cui si sovraimpone una tessitura muraria isodoma a blocchi quadrati di minore pezzatura di arenaria. Particolarmente suggestiva è la porta denominata popolarmente Sanguinaria, il cui arco a tutto sesto si apre nel punto di giunzione tra le due tecniche murarie e che permette l'accesso all'area abitata tramite la strada che conduceva all'acropoli. La datazione della cinta non è nota con sicurezza e si è dibattuto sulla possibilità che le due tecniche murarie corrispondano a due diverse fasi costruttive; tuttavia, sembra più probabile che l'opera sia unitaria e che la scelta della tecnica poligonale sia stata influenzata dalla difficile malleabilità del calcare il quale, in fase di taglio, tende a sbracciarsi secondo linee oblique imprevedibili. I grandi blocchi poligonali costituiscono, pertanto, la sostruzione megalitica principale della cinta difensiva, poi completata verso l'alto da blocchi squadrati più piccoli, tagliati nella malleabile arenaria, la cui funzione era di allontanare gli spalti dei difensori dal piano di campagna, facilitando la difesa della città che sarà avvenuta facendo anche uso di baliste. Caratteristiche costruttive per molti versi simili presenta la cosiddetta acropoli, una struttura monumentale di pianta quadrangolare dalle dimensioni colossali (base 140 x 95 m) che attualmente sostiene la basilica di San Giovanni e Paolo andata a sostituire, nel medioevo, il tempio pagano. Di particolare interesse è l'allargamento della terrazza superiore – oggi sormontato dal palazzo vescovile – in cui si osserva l'accostamento della tecnica lapidea con il più moderno calcestruzzo. Anche il rivestimento esterno presenta una duplicità di tecniche: la parte inferiore, ancora una volta, è infatti realizzata in opera poligonale e quella superiore in opera quadrata lasciata volutamente grezza a costituire una sorta di "bugnato rustico". Lo spazio superiore dell'avancorpo è occupato da un portico interno (criptoportico) realizzato nella massa di calcestruzzo e prende luce da una fila di finestre coperte da archetti dotati di doppia strombatura. Di particolare interesse è l'iscrizione latina disposta sotto le finestre della facciata principale, ripetuta con una leggera variante sulla porta che dava accesso al criptoportico; una terza iscrizione è stata anche scoperta all'interno del criptoportico. Le iscrizioni commemorative ci forniscono alcune indicazioni sui termini utilizzati dagli architetti romani per definire le varie parti costituenti il complesso. Nell'iscrezione esterna si citano infatti le fundamenta e i muros, presso la porta di accesso esterna solo più le fundamenta, mentre nella 9 porta interna del criptoportico – giustamente – si accenna alle fundamenta e ai fornices. Appare così chiaro come per gli architetti antichi il potente muro di sostruzione in opera poligonale fosse sentito con una valenza autonoma per lo sforzo tecnico necessario alla sua costruzione (i fundamenta); con uno spirito un po' generalizzante, invece, il termine muros è impiegato per indicare gli edifici situati al vertice della spianata (con ogni probabilità il tempio e i suoi portici), oggi scomparsi. Questi ultimi, non visibili dall’entrata laterale, furono ignorati nella seconda iscrizione. Nella terza, leggibile del criptoportico interno, a fianco delle fundamenta si pone attenzione ai fornices (ovvero alle campate del portico percorribile) ma non più ai muros che, trovandosi alla sommità della spianata, non potevano essere visti da questa posizione. Ci si è chiesti a lungo quale potesse essere la funzione di questi ambienti sotterranei; certo è che essi non erano raggiungibili direttamente dalla terrazza del tempio ed era necessario un lungo percorso attraverso le vie cittadine per raggiungerne l'ingresso, tra l'altro poco monumentale. L'esempio di Ferentino, più di ogni altro, ci permette di chiarire una caratteristica del tutto precipua dell'architettura romana tardo repubblicana,ovvero la distinzione tra i muri di sostruzione e l'edificio deve proprio. Le disponibilità dei coementa – e dunque di un materiale da costruzione resistente ed economico – permise gli architetti romani di allargare la sommità delle alture di cui i dintorni di Roma sono ricchi con una serie di arcate cieche che venivano a definire la cosiddetta substructio, sulla quale veniva poi appoggiato l'edificium vero e proprio. Anche nel caso di Ferentino le fondamenta e i muri non rappresentano nient'altro che una sopraelevazione artificiale, e gli ambienti di risulta del criptoportico non devono necessariamente essere collegati funzionalmente all'edificio superiore (il tempio). La datazione del complesso non è certa sembra porsi nel corso del II sec a.C.; anche qui, la prudenza degli architetti – ancora in parte insicuri sulla capacità di resistenza del calcestruzzo – li spinse a realizzare il muro portante esterno (fondamentale per gli aspetti statici) in pietra, limitando l'uso del calcestruzzo alla massa interna, ottenendo comunque, anche in questo caso, un notevole risparmio economico in fase di costruzione. 2.7 – Il santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina Fig. 14 – Veduta aerea delle terrazze di cui si compone il santuario della Fortuna primigenia di Palestrina. Il santuario della Fortuna primigenia di Palestrina costituisce il vero e proprio capolavoro dell'architettura romana repubblicana. L'edificio fu costruito a cavallo tra II e I sec a.C. su un’imponente collina sormontante l'antica città di Preneste in funzione dell'antichissimo culto della Fortuna, assimilato dagli antichi romani alla Tyche greca e, in un momento successivo, alla divinità egizia Iside. Il santuario fu oggetto di una continua frequentazione nel corso dei secoli, ricevendo donativi e offerte dai pellegrini al punto che quando Carneade, nel 156 a.C. venne a Roma, affermò di non avere mai visto «una fortunata più fortunata che a Preneste». I resti dell'edificio monumentale rimasero nascosti dalle costruzioni medievali e barocche almeno sino alla fine della Seconda guerra mondiale quando, a seguito di un ingente bombardamento, l'abbattimento dei muri moderni permise di portare alla luce la struttura nella sua forma originaria, evidenziando le grandi rampe di accesso, le terrazze cultuali, le scalinate e il tempio vero e proprio. L'edificio esprime meglio di ogni altro la sensibilità architettonica dell'architettura ellenistica che ci è nota attraverso rare testimonianze della Grecia propria. Per contro, il gusto scenografico, la presenza di linee di fuga e di percorsi monumentali hanno indotto alcuni a ipotizzare che l'architetto che progettò il complesso non fosse romano ma di origine greca; comunque siano andate le cose, la costruzione del santuario fu possibile grazie alle ingenti rendite derivate dai commerci con l'oriente greco ottenute dei mercatores e degli 10 Fig. 15 – Ricostruzione al computer dell'aspetto originario del santuario della Fortuna primigenia di Palestrina. Fig.16 – Ricostruzione assonometrica del santuario come proposta dopo le ricerche degli anni 60. imprenditori romani e fu completato sfruttando la tecnica costruttiva dei coementa che sappiamo essere propriamente romana. I pellegrini che accedevano al complesso “vivevano”, pertanto, una vera e propria esperienza processionale costituita da una serie di tappe che si palesavano, passo passo, l'una dopo l'altra, in una serie di scenografie nascoste reciprocamente da quinte o bruschi passaggi di direzione, nel rispetto di una progettualità di grande scala che risponde profondamente alla sensibilità ellenistica. Ai lati del duplice accesso al santuario si trovano i resti di due portici le cui architravi – disposte progressivamente con andamento obliquo – dimostrano la conoscenza da parte dell'architetto delle correzioni ottiche con cui ottenere una dilatazione spaziale della prospettiva. Partendo dalla base, due rampe diagonali si appoggiano a un imponente muro di sostruzione realizzato ancora una volta in opera poligonale, alle cui spalle sono disposti dei muraglioni in calcestruzzo; i pellegrini erano accompagnati nella loro salita da due porticati obliqui che convergevano al centro, dove si trovava una prima grande balconata affacciata sulla vallata. Da qui si diparte una scala perpendicolare che conduce a una prima terrazza su cui si aprono due emicicli; uno di questi avvolge una struttura a tholos posta sopra un pozzo, a lato della quale sono stati trovati i resti di una statua di culto, mentre i fedeli potevano prendere posto su un bancone che correva all'interno degli emicicli stessi. La frequentazione da parte dei fedeli della terrazza è garantita dal ritrovamento di una grande quantità d’iscrizioni dedicatorie poste da commercianti, artigiani, liberti o schiavi, che forse un tempo erano applicate al parapetto della terrazza e che sono dotati di una serie di fori superiori per l'inserzione di bronzetti votivi. È possibile che la tholos fosse utilizzata per l'estrazione delle sortes, ovvero dei fogli di corteccia iscritti che si diceva fossero stati scoperti anticamente da un uomo del posto a seguito di un sogno premonitore e che erano utilizzati dei sacerdoti per esprimere vaticini e oracoli. Ritornando alla scala principale era possibile salire di un piano per raggiungerla la terrazza superiore, segnata da una serie di fornici in cui si alternano nicchioni e pareti lisce, tutti inquadrati da semicolonne con capitello ionico diagonale. Lo spazio che separa la parete frontale dalla base rocciosa della collina è costipata di fornici in calcestruzzo che permettevano di consolidare la piattaforma su cui sorgeva il santuario tramite una serie di ambienti ciechi inutilizzati. La terrazza più alta si caratterizza per la presenza di una scala frontale che conduce a una sorta di teatro destinato a ospitare i fedeli durante le sacre rappresentazioni in onore della Fortuna. La sostruzione è qui occupata nuovamente da un criptoportico che crea una sorta di percorso a L, forse utilizzato dai fedeli durante le processioni. È interessante notare come due grandi nicchie furono allestite in forma di fontana; la presenza dell'acqua era infatti quanto mai importante, sia per la purificazione dei fedeli che si accingevano alle celebrazioni, sia per il suo valore simbolico nell'ambito del culto della Fortuna e di Iside. L'edificio è concluso in alto da un colonnato semicircolare che nasconde alle spalle un ulteriore tholos nella quale doveva essere posta principale statua di culto. 11 Il santuario della Fortuna rimase in vita sino all'età imperiale ma ormai degradato per prestigio e importanza; sembra che il colpo di grazia alla “fortuna” sia stato dovuto in buona parte agli espropri e alle epurazioni condotte da Silla dopo la guerra contro Mario; il municipio di Palestrina, in effetti, si schierò dalla parte del perdente ricevendone gravi espropriazioni e subendo l'insediamento sul postodi una colonia di veterani di guerra (Praeneste diventò, di fatto, una colonia sillana); le riforme economiche di carattere conservatore portate avanti nel periodo successivo non poterono che indebolire i commercianti e i coltivatori di olio e di vino che ne avevano finanziato la costruzione. L'edificio rimane comunque a testimonianza di una fase di particolare dinamismo e vivacità dell'economia e della cultura romana repubblicana. 2.8 – Tempio di Giove Anxur a Terracina Fig. 17 – Ricostruzione assonometria del santuario di Giove Anxur a Terracina come proposta nel dopoguerra. Fig. 18 – Veduta dal basso (ingrandimento con teleobiettivo) della terrazza del santuario posto al vertice di Monte Sant'Angelo. Rientra nello stesso ambiente architettonico e culturale – benché caratterizzato da una maggiore staticità dei percorsi interni – il santuario romano repubblicano di Monte Sant'Angelo presso Terracina, dedicato alla divinità indigena di Anxur che i Romani assimilarono a Giove. L'edificio è nuovamente impostato su un'ampia terrazza artificiale realizzata in calcestruzzo al vertice della montagna affacciata sul Circeo; le arcate di scarico che sostenevano la piattaforma superiore sono – ed erano – ampiamente visibili dal basso (ove sorgeva la città vera e propria) ma ancor meglio dal tratto di mare antistante, frequentemente solcato da navi e bastimenti. Il santuario di Terracina ripropone ancora una volta la distinzione tra sostruzione e edificio che abbiamo visto come caratteristico della media età repubblicana a Roma e nel Lazio. In questo caso i fornici di sostruzione erano resi agibili tramite una scala, e i fedeli avevano la possibilità di percorrere un criptoportico interno fino a raggiungere una sorta di antro aperto su un grande vano sotterraneo presso il quale si è supposto fosse attivo un oracolo.La terrazza superiore ospitava un tempio esastilo, periptero sine postìco il cui orientamento deviava decisamente da quello della terrazza per esporre il frontone a oriente. Sono ancora ben visibili – alle spalle dell'edificio – i resti del portico destinato ai pellegrini dove, con ogni probabilità, venivano transitoriamente esposte le offerte e i doni dei fedeli. Di maggior interesse è la piccola struttura in calcestruzzo addossata a una roccia naturale immediatamente a destra della facciata del tempio, ove è ancora possibile riconoscere – alla sommità – un foro naturale comunicante con l'antro inferiore. Si dovrebbe trattare di un secondo punto destinato all'ascolto dell'oracolo da parte dei sacerdoti, che raggiungevano la balaustra tramite una scala oggi scomparsa. In un piccolo edificio quadrangolare posto al vertice della roccia è stato anche identificato un piccolo podio in cui si riconosce l'auguraculum, ovvero il luogo delegato all’esplorazione spazio celeste da parte dei sacerdoti durante le cerimonie augurali. Il Tempio di Giove Anxur a Terracina si data a cavallo tra II e I sec a.C. e, come molti monumenti dell'epoca, colpisce per la sua imponenza e per la sua capacità di imporsi sul paesaggio circostante tramite la terrazza artificiale, realizzata sfruttando appieno le potenzialità dei coementa. Rispetto al santuario di Palestrina, il santuario di Giove manifesta, tuttavia, una certa limitatezza dinamica dei percorsi interni e offre una visione più bloccata che preclude alle realizzazioni della fine dell'età repubblicana e soprattutto dell'età imperiale. Benché non siano 12 disponibili dati stratigrafici precisi, la datazione del tempio di Giove Anxur si basa sulla presenza di un castrum romano collegato a un circuito difensivo di torri e muraglioni che scende a valle sino a bloccare la via Appia e che fu realizzato nel periodo delle guerre tra Mario e Silla; esso viene pertanto a costituire un termine ante data quem che sopporta le datazioni già avanzate. 2.9 - Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli Fig. 19 – Restituzione grafica dell'aspetto del santuario di Ercole vincitore a Tivoli di età repubblicana. Fig. 20 – Immagine del criptoportico realizzato in corrispondenza del primo piano fuori terra dell'edificio. Caratteristiche architettoniche non molto differenti presenta anche il santuario di Ercole vincitore a Tivoli, uno dei maggiori complessi sacri dell'architettura romana di età repubblicana. Costruito nel corso del II sec a.C. esso sorgeva su un tratto dell'antica via Tiburtina e, con la sua ampia sostruzione quadrangolare in calcestruzzo si estendeva su un'area di 188 x 40 m, coprendo complessivamente oltre 3000 metri quadri. La scenografia del complesso era garantita nuovamente da una terrazza artificiale sostituita da fornici sulla quale era appoggiata la cavea di un teatro destinato alle sacre rappresentazioni, al cui vertice si ergeva il tempio esastilo, periptero sine postìco. La piazza superiore era circondata da un portico di due piani, di cui quello inferiore seminterrato a formare il tipico criptoportico di ordine dorico, e quello superiore con colonnato a vista di ordine ionico. L'impiego disinvolto del calcestruzzo permise di realizzare tanto i muri quanto le semicolonne in pietra e calce, mascherando la modestia del materiale costruttivo con una tipica stuccatura dipinta che imitava i colori del marmo. Il gigantismo del complesso permise il passaggio nei fornici di base di una strada consolare tramite un ampio passaggio voltato; le sue dimensioni colossali ne hanno permesso la partizione e frammentazione nel corso del Medioevo per svariati usi e funzioni tra cui, è degna di nota, la trasformazione in cartiera di alcuni dei fornici del cortile nel corso del Novecento. Anche il santuario di Ercole vincitore aveva probabilmente una funzione oracolare; sembrano da riferirsi a quest'ultima un pozzo circolare scoperto durante gli scavi archeologici nel quale venivano forniti gli oracoli osservando il movimento e la posizione degli oggetti gettati dall'alto nell'acqua. La fondazione di quest'importante santuario dedicato al culto di Ercole sembra giustificarsi in conseguenza del passaggio sul luogo di un antichissimo tratturo utilizzato stagionalmente dei pastori; l'antico culto indigeno sarebbe dunque stato nobilitato nel periodo tardo repubblicano dando il via alla costruzione dell'ennesimo santuario monumentale grazie alla benevolenza e all’evergetismo delle classi sociali emergenti native del luogo. 2.10 – La Porticus Aemilia Se la datazione al 176 a.C. fosse confermata, la Porticus Aemilia rappresenterebbe uno dei più antichi edifici conosciuti in Roma antica edificato facendo uso della nuova tecnica costruttiva dei coementa. L'edificio fu così denominato per ricordare i censori Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo che nel 193 a.C. costruirono ai piedi del Aventino, a circa 90 metri dal corso del Tevere, un magazzino destinato a stoccare le derrate alimentari giunte a Roma per via fluviale; distrutto da un incendio, l'edificio fu ricostruito nel 174 a.C. dai censori Quinto 13 Fig. 21 – Ricostruzione tridimensionale dei fornici della Porticus Aemilia. Fig. 22 – Ricostruzione grafica del Tabularium appoggiato al colle del Campidoglio, antico fondale del foro Romano. Fulvio Flacco e Aulo Postumio Albino. Resti dell'edificio sono stati identificati già a partire dall'Ottocento tra via Beniamino Franklin e via Marmorata, e altri resti sono tuttora visibili in via Branca, in via Rubattino e in Via Florio. L'edificio fu concepito nella forma di una serie di fornici allineati e disposti a file parallele sostenuti da pilastri, adagiati sul versante della collina sfruttando dei salti di quota regolari che permettevano, tra l'altro, di ricavare prese di luce per i lucernari e l’areazione in corrispondenza dello scalino del tetto. Complessivamente l'edificio raggiungeva una lunghezza di 487 metri e una larghezza di 60 metri, ed era partito in fornici da 294 pilastri che creavano 50 navate ognuna delle quali composta di sette campate. La superficie coperta con tale sistema raggiungeva l'impressionante dimensione di 25.000 m2. Recentemente si è proposto di identificarvi piuttosto l’edificio destinato ad ospitare navi da guerra della flotta romana di età repubblicana – i cosiddetti Navalia – ma dal punto di vista dell'architettura poco cambia. In questa realizzazione è infatti possibile osservare lo sfruttamento sistematico della nuova tecnica del calcestruzzo per realizzare un ampio spazio coperto, riducendo al massimo i tempi di costruzione e i relativi costi. Gli architetti per conferire maggiore solidità all'edificio realizzarono i conci degli archi con i tradizionali blocchi di tufo. 2.11 - Il Tabularium Un’ulteriore evoluzione della tecnica costruttiva romana di età repubblicana è ben rappresentata dal Tabularium, l'edificio destinato a ospitare l'archivio di stato costruito nel 78 a.C. dal console Lutazio Catulo in prossimità dell'antico foro romano, con la funzione di mascherare la sella che univa il colle dell’Arx con quella del Capitolium. Data la sua funzione, l'edificio si presentava come una scenografia fortemente verticalizzata, costituita da un muro di sostruzione (alla base ) in opera quadrata fatto con blocchi di peperino – che con la sua monotona neutralità forniva un ottimo fondale alla sfilata degli edifici del foro – , un primo piano caratterizzato da archi inquadrati da semicolonne con capitelli dorici, e un secondo piano costituito da un porticato corinzio. Quest'ultimo oggi non è più visibile perché Michelangelo vi impostò il palazzo senatorio che oggi ospita il comune di Roma. L'intera facciata fu realizzata completamente in tufo peperino (dunque con una tecnica “di tradizione”) ma alle spalle della facciata, le vie di passaggio, i corpi scalari e i corridoi sono interamente realizzati in calcestruzzo. La spiccata frontalità dell'edificio, la sovrapposizione canonica di fornici inquadrati da semicolonne e da colonne di ordine rispettivamente dorico e corinzio, manifestano una freddezza e un accademismo che sembrano contrapporsi alla dinamicità e al gusto scenografico delle architetture di Palestrina e di Terracina, e sembrano invece anticipare un gusto che troverà sbocco nell'architettura di età cesariana e augustea. Tutto l'edificio è concepito come una massa compatta e il calcestruzzo vi è impiegato entro il perimetro dell'edificio è contenuto da muraglioni lapidei che fungono da sostegno e contrafforte. È noto il nome dell'architetto che portò a compimento l'opera grazie all'iscrizione dedicatoria: si tratta di un certo Lucius Cornelius, forse un personaggio di origine greca naturalizzato a Roma. 14 2.12 - Il Macellum Nel medesimo periodo in cui si assiste ad una emancipazione della tecnologia costruttiva degli edifici di Roma e del Lazio, si manifesta la comparsa di nuove tipologie edilizie di funzione pubblica che sarebbero diventate patrimonio consolidato della cultura romana. È questo il caso del macellum, il mercato coperto all'ingrosso del pesce e degli ortaggi costituito da una serie di vani affacciati su un cortile porticato, al centro del quale si trovava regolarmente una fontana per il lavaggio delle merci. Un primo esemplare sembra essere stato realizzato a Roma nel periodo della Prima guerra punica (264 – 241 a.C.), rimanendo un esempio isolato per oltre cinquant'anni, fino cioè al 179 a.C., quando le fonti storiografiche ricordano la costruzione di un secondo esemplare. A partire dalla metà del II sec. a.C., in corrispondenza cioè di una fase di particolare dinamismo della società e dell'architettura romana, tale tipologia si diffuse anche nelle città minori, come testimoniato dagli esempi di Morgantina, Pompei e Ostia, diventando comune anche nelle provincie. Sembra possibile che motore di questa nuova tipologia architettonica siano stati ancora una volta i contatti con il mondo cartaginese, ove edifici di questo tipo sembrano essere stati presenti da tempo. Al mondo punico rimanda anche la radice etimologica della parola macellum che è stata riallacciata all'etimo ma’kal, traducibile in «il luogo in cui si mangia». Naturalmente, Roma disponeva di molteplici mercati all'ingrosso riservati alle diverse tipologie merceologiche, ma questi non presentavano una specifica formula architettonica e vennero definiti con la più generica espressione di fora: esisteva pertanto un foro boario destinato alla vendita all'ingrosso della carne, un foro olitorio destinato agli ortaggi, una forum cuppidinis destinato ai dolci e alle prelibatezze e un forum piscatorium per il pesce e così via, così che il macellum rappresentò sempre una specifica singolarità tipologica. Fig. 23 – Il macellum di Pozzuoli, espressione matura di età imperiale di queste tipologia elaborata in età repubblicana. 2.13 - La Basilica civile Un altro edificio che sembra strettamente collegato ai contatti avuti da Roma con le regioni di recente conquista è la basilica, un edificio civile riservato alle attività giudiziarie realizzato in prossimità del foro. L'etimologia del nome sembra da connettersi alla greca aulè basilichè, l'aula ipostila (cioè circondata da colonne) utilizzata nel mondo greco – ellenistico per i ricevimenti all'interno del palazzo reale. Tale tipologia sembra a sua volta essere stata mediata dalla cultura persiana, “scoperta” in occasione della conquista di Susa e di Persepoli al tempo di Alessandro (il cosiddetto apadana). L'aula divisa in tre navate era coperta centralmente da un tetto capriate, e in quelle laterali da semicapriate; essa ben si adattava a ospitare un ingente numero di persone protette dalle intemperie per le normali attività giudiziarie e forensi. È noto che tale soluzione architettonica fu poi ereditata dai cristiani, dando luogo alla chiesa basilicale (nella quale però l'accesso non avveniva più dal lato lungo bensì dal lato corto, per sfruttare l’abside come fondale per la liturgia religiosa). Per quanto concerne il foro romano, una prima basilica fu costruita tra il 210 e i 191 a.C. in prossimità del clivus argentarious; pavimentata con lastre di tufo di Grotta Oscura, essa era divisa in quattro navate da tre file di colonne, e aveva una facciata preceduta da un portico. Nel 179 a.C. una nuova basilica fu costruita da Marco Fulvio Nobiliore e Marco Emilio Lepido in qualità di censori; l'ultimo di essi, tra l'altro, era stato precedentemente incaricato dal Senato di Roma della tutela del re di Egitto Tolomeo V Epifane, e nel 201 – 200 a.C. aveva avuto l'occasione di visitare Alessandria e di osservare direttamente le grandi sale impostile nelle quali i monarchi ellenistici davano pubblica manifestazione del loro potere e ad esse, probabilmente, si volle ispirare. 15 La nuova basilica denominata Aemilia fu ampliata con architravi in legno e pavimenti in travertino. Ricostruita in diverse occasioni, mantenne nel corso del tempo una pianta sostanzialmente immutata, su una superficie di 70 x 29 m. Nelle immediate vicinanze, quasi di fronte, sorgeva invece la basilica Sempronia. Edificata nel 170 a.C. per volere del censore Tiberio Sempronio Gracco (padre dei ben più famosi tribuni della plebe) ed impostata sullo spazio occupato precedentemente dalla villa di Scipione l'Africano e da alcuni magazzini, nello spazio compreso tra il tempio di Saturno e quello dei Dioscuri. Distrutta da un incendio nel I sec a.C. fu quindi rimpiazzata dalla cosiddetta basilica Giulia, edificata nel 55 a.C. per volere dell’edile Lucio Emilio Paolo, fratello del triumviro Marco Emilio Lepido. Fig. 24 – Ricostruzione assonometrica del teatro di Pompeo, primo edificio di spettacolo in muratura costruito a Roma. 2.14 – Il primo teatro in muratura Alla metà del I sec a.C. si assiste all'introduzione anche in Roma della tipologia edilizia del teatro in muratura, ampiamente sperimentata nell'ambiente culturale greco a partire dal V sec a.C. (prima nella forma di un edificio con gradinata rettilinea, poi con cavea semicircolare) e sino ad allora osteggiato dalla classe senatoria come espressione di uno stile di vita contrario al cosiddetto mos maoiorum (il comportamento etico degli avi). Il primo teatro di Roma fu pertanto costruito da Pompeo a celebrazione dei trionfi militari nel 61 a.C. e inaugurato con grandi spettacoli sei anni più tardi, nel 55 a.C. La sua costruzione avvenne grazie all'astuzia di Pompeo che riuscì ad eludere il divieto vigente in Roma di costruire teatri in pietra con il pretesto che la costruzione in atto era soltanto la scalinata per accedere al Tempio di Venere Vincitrice situato sulla sommità della cavea ed al centro della facciata curva, mentre in realtà erano le gradinate del futuro teatro; questo aneddoto, riportato da tardi scrittori cristiani, ha un suo significato se consideriamo la conformazione tipica dei grandi santuari dell'età repubblicana (tipo Tivoli, Ferentino e Palestrina) in cui il tempio era sempre associato un teatro in muratura destinato alle celebrazioni sacre. Le dimensioni del teatro di Pompeo sono veramente eccezionali per l'epoca, se si considera che la cavea aveva un diametro di circa 150 metri e la lunghezza della scena era di circa 90 metri, con una capacità di almeno 20.000 posti. La facciata semicircolare della cavea era impostata su una serie di arcate poggiate su pilastri di pietra gabina e travertino ornati da semicolonne. L'interno era costituito da una doppia serie di muri radiali collegati tra loro da strutture curvilinee che formavano dei cunei coperti da volta a botte, che sostenevano le gradinate. La scena, decorata da quattordici statue rappresentanti le quattordici nazioni conquistate da Pompeo (due delle quali sono oggi conservate al Museo di Napoli ed al Louvre), era articolata nella parte anteriore da tre esedre colonnate, delle quali la centrale era rettangolare mentre le due laterali semicircolari. Dietro la scena si estendeva un quadriportico di 180 x 135 metri, un vero e proprio parco pubblico ornato di statue, con boschetti di platani bordati da fontanelle e terminante con una grande esedra rettangolare, utilizzata come Curia per le riunioni del Senato e ornata con una grande statua di Pompeo (rinvenuta nella vicina via dei Leutari ed oggi conservata all'interno di palazzo Spada): si trattava della famosa Curia Pompeia dove il 15 marzo del 44 a.C. venne ucciso Gaio Giulio Cesare, poi fatta murare da Augusto in qualità di locus sceleratus. Sandro Caranzano 16