Appello per la prevenzione della medicalizzazione

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Appello per la prevenzione della medicalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza
A chi spetta soccorrere il bambino in difficoltà?
Lettera aperta all'attenzione di politici, amministratori, educatori, insegnanti,
pedagogisti, operatori sociali e della salute mentale e dei cittadini tutti:
- ai bambini e ai giovani
- ai genitori
- ai cittadini chiamati a far parte degli organi collegiali di gestione della scuola
- al personale non docente e docente
- ai medici scolastici impegnati a salvaguardare la salute dei bambini
- a tutti coloro che pur facendo parte di un’equipe medico-psico-pedagogica sappiano
interrogarsi, in maniera critica e con disponibilità verso il cambiamento, sul ruolo da
essi esercitato nei fatti
- agli amministratori degli Enti Locali
- alle organizzazioni sindacali e alle forze politiche
- a tutti coloro che operano per far sì che ogni cittadino, senza eccezione alcuna,
fruisca dei propri diritti e venga altresì per quanto oggi possibile il più ampiamente e il
più profondamente valorizzato.
Chi potrà concretamente valorizzare la personalità del bambino aiutandolo a
trasformare la qualità della sua vita?
Le scienze pedagogiche dovranno davvero venir soppiantate dalla psicologia?
A partire dalla metà del secolo scorso ha preso l'avvio ( in particolare dagli Stati Uniti e
dal mondo anglosassone) una sempre più caccia ai disturbi dei bambini. La
medicalizzazione della personalità umana e dei bisogni umani insoddisfatti riguardante
sia adulti che bambini nella società - e dei bisogni primari di bambini ed adolescenti
nella scuola - è divenuta via via sempre più massiccia ed invasiva. Infatti, nell’ambito
scolastico più in generale e nella mentalità di insegnanti, pedagogisti ed educatori,
nello specifico, si è diffusa a dismisura l'idea che rimanda a disturbi di improbabili
strutture intrapsichiche genetiche e neurobiologiche ( anche senza sicure, e non solo
millantate,
evidenze scientifiche) - tutto quanto non sia immediatamente
comprensibile ed accettabile secondo i tempi e le aspettative del sistema sociale e
scolastico attuale – impedendo una ricerca educativo-pedagogica concreta e mirata a
rispondere ai bisogni umani di attenzione, comunicazione, emozione, empatia,
relazione, partecipazione ed apprendimento. Tali bisogni, infatti, possono trovare
risposta e soddisfazione in quelle “ trasformazioni concrete di situazioni concrete”
nella vita di quei bambini, i cui cammini di conoscenza e crescita sono stati
psicologizzati con varie etichette di presunti ed improbabili “disturbi”. Bambini ed
adolescenti che, invece, per crescere e diventare futuri cittadini avevano ed hanno
anche bisogno di essere guardati con i “nostri occhi” e non solo con quelli degli
esperti del disturbo. Occhi di adulti, esperti di vita, della propria vita come lo siamo
tutti noi, adulti attenti alle storie dei loro piccoli, alle loro emozioni, alle loro biografie, ai
loro bisogni reali e concreti. Occhi che sappiano cogliere, nel loro non conformarsi alle
regole vigenti – sia sociali che apprenditive - il segno di un disagio non imputabile a
bambini ed adolescenti: non imputabile, dunque, a presunti “disordini cerebrali
minimi” che si pretende di fotografare o di millantarne la presenza (perché
indimostrabile scientificamente) nei loro cervelli, al posto di prendere in considerazione
il “film a colori” ( e non il fotogramma in bianco e nero scattato da pseudo-diagnosi)
degli eventi biografici, la storia evolutiva di quel cervello immerso nel suo contesto
biosociale - e non bio-psico-sociale: un prefisso “psico” che è riuscito ad infiltrarsi, tra il
biologico e il sociale, anche in uno strumento così avanzato come l’ICF
(Classificazione Internazionale del Funzionamento della Salute e della Disabilità –
OMS, 2001). Ma l’ICF, nato per correggere la logica patologizzante della precedente
classificazione ICIDH, che faceva derivare dal deficit direttamente l’handicap,
dovrebbe ora correggere anche la logica medicalizzante (psicologizzante) ancora in
vigore nell’ICD10 per quanto riguarda, unicamente, il capitolo sui cosiddetti disturbi
psichici. in realtà, la relazione dialettica del biologico e del sociale è più che
sufficiente per comprendere la complessità della personalità umana e delle diverse
sue condizioni di salute e disabilità, alla luce di una corretta analisi storica e politica
dei rapporti di potere, senza bisogno del filtro interpretativo dello “psic” che, finora, ha
funzionato egregiamente per depistare ed occultare le vere responsabilità
dell’ambiente sociale esterno addossando al singolo la colpa del suo malessere,
cercando di dimostrare , pretestuosamente, l’esistenza di un presunto disturbo in
presunte strutture intrapsichiche ! In realtà la fretta e la disattenzione del mondo
adulto, rende invisibile il macigno che schiaccia il piede ad un bambino, per questo
triste, disattento ed irrequieto, deviando tutta l’attenzione verso una ricerca di un
fantomatico “disturbo psichico”, anziché levare il peso opprimente il bambino che, per
il dolore, a fatica arranca nel suo cammino. Ancora, sarebbe come se, in un bambino
africano che ha il mal di pancia perché denutrito, si andasse a studiare la fisiologia
dell’apparato digerente per trovare una disfunzione - che senz’altro verrebbe trovata anziché nutrirlo con maggiore igiene e cibo e denunciarne la vera causa, ossia le
sperequazioni sociali e lo sfruttamento di un popolo, ridotto alla fame, dall’ingordigia
dei colonizzatori. Così succede anche nella nostra società opulenta, grande
abbondanza di cibo per il corpo (ma solo per i ricchi e per la cui qualità occorrerebbe
aprire un altro sconfinato capitolo), ma inadeguata quantità e qualità di cibo educativorelazionale per la mente, un cibo educativamente ed affettivamente insufficiente od
“avariato” che può dare il via a originali ma difficoltosi e “pericolosi” percorsi di
crescita e conoscenza. In tali situazioni di deprivazione affettiva, educativa e
pedagogica il cervello si arrangia come può: costruisce, temporaneamente, mappe
mentali sorprendenti, inedite, alla base di comportamenti spesso inadeguati a
rispondere alle aspettative degli adulti: da queste situazioni - che dovremmo
considerare degne di attenzione e ricerca bio-antropoevolutiva - fino alla loro
medicalizzazione e fissazione in categorie di etichette-disturbi, da parte degli esperti,
il salto è breve. Ma il cervello e la sua mente, così come le cause del suo disagio,
traggono alimento ed affondano le loro radici biosociali nell’ambiente di vita, nel
contesto culturale e storico in cui è immersa - una mente più vasta del cervello -
“Grazie ai nostri grandi cervelli, e presumibilmente alle proprietà della mente e della
coscienza che essi permettono, gli esseri umani hanno creato società, inventato
tecnologie e culture, e nel farlo hanno modificato se stessi, i loro stati di coscienza,
nonché i loro geni. Siamo stati profondamente modellati da queste e, così modellati,
possiamo a nostra volta plasmare i nostri destini e quelli dei nostri figli. Siamo gli eredi
non solo dei geni, ma anche delle culture e delle tecnologie dei nostri antenati (Steven
Rose, 2005, 130). Cause, segni di sintomi, più di natura pedagogica, che clinica,
finalmente comprensibili grazie ad un’analisi e una trasformazione concreta di
situazioni concrete. Bambini, “portatori sani” di disagio che, per vari motivi, sia nella
società che nella scuola, hanno bisogno non solo di tempi educativi e processi di
insegnamento-apprendimento diversificati, ma, soprattutto, di un’attenzione
affettivamente più ricca ed intensa, di quel “rigore e tenerezza” che, a Barbiana, era
alla base dell’infinita e totale attenzione che Don Milani dava ai suoi allievi. Bambine
e bambini che hanno diritto a quell’amore pedagogico e scientifico per la loro crescita
che già Maria Montessori seppe dare loro agli inizi del Novecento e che seppe
trasformare in una pratica estremamente efficace perché animata da grande passione
pedagogica ed umana nei confronti delle diverse forme di intelligenza. Prima medicodonna pedagogista in Italia, Maria Montessori riuscì ad andare al di là delle
diagnosi/etichette psichiatriche dei bambini chiusi in manicomio, per vedere nella
mente di quei bambini, totalmente deprivati di qualsiasi stimolo, le forme
pedagogiche della loro intelligenza, le loro potenzialità apprenditive.
Il Novecento sarà il secolo del bambino…, diceva Maria Montessori, e la sua profezia
in parte si è avverata ma, purtroppo, non sempre in modo positivo …
Nel 1898 Maria Montessori partecipa al primo “Congresso pedagogico italiano”, dove
espone i risultati del suo lavoro pedagogico presso la clinica psichiatrica romana. La
sua tesi - sostenuta con forza e, soprattutto, confortata dai dati sperimentali del suo
lavoro - è che il soggetto “anormale” richiede un intervento che sia prevalentemente
educativo e non medico. Queste sono le parole che fanno parte del discorso che
Maria Montessori tenne al Congresso di Torino, alla presenza dell’allora Ministro
dell’Istruzione:
La scienza procede per osservazione, ma l’osservazione non deve diventare
rassegnazione. Nessun bambino anche se classificato come malato o ritardato può
essere escluso dalla scienza che lo riguarda, la pedagogia, eppure è quello che in
questo paese avviene da sempre, un paese che rinuncia a “curare” (mio: nel senso
di prendersi cura pedagogicamente) i suoi bambini , è un paese che rinuncia al suo
futuro.
Gli antichi buttavano i bambini malati nei burroni, noi li cancelliamo dal mondo
chiudendoli nei manicomi (mio: oggi hanno cambiato il nome, li chiamano “cliniche”,
“comunità”, …o “ville” con nomi di fiori o altre amenità vegetali od animali, … ma la
sostanza resta la stessa con l’aggiunta di un lucroso ricorso agli psicofarmaci) sono
passati 2000 anni ma l’umanità deve ancora vergognarsi di sé stessa. (Dal film “Maria
Montessori , una vita per i bambini”) APEI/2013
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