www.servizisocialionline.it SEZIONE “ARTICOLI DI SERVIZIO SOCIALE” Quando aiutare stanca: l’assistente sociale e la sindrome da burnout di Francesca Sacco* La sindrome da burnout è definita da Maslach e Leiter come un’erosione dell’anima, un deterioramento che colpisce i valori, la dignità, lo spirito e la volontà delle persone. Tale sindrome è l'esito patologico di un processo stressogeno che coinvolge prevalentemente diversi operatori e professionisti delle relazioni di aiuto (assistenti sociali, infermieri, medici, psicologi, counselors), anche se ultimamente, sembra coinvolgere qualsiasi lavoratore che entra in contatto con persone che vivono situazioni di sofferenza e disagio. Letteralmente il termine burnout significa "bruciarsi lentamente", “scoppiare”, “esaurirsi”. Si tratta di un malessere psicofisico che porta ad assumere atteggiamenti freddi, inadeguati ed incompetenti nelle relazioni quotidiane, inoltre genera un senso di inutilità ed un aumento di disturbi psicosomatici che portano alla chiusura in se stessi. Chi ne è colpito sente di essere senza via d’uscita, di non avere più uno spazio personale. Il soggetto affetto da tale sindrome sente di esaurirsi emotivamente, fisicamente ed anche psicologicamente. Diversi studi autorevoli ritengono si tratti di una malattia in costante aumento. Il termine burnout appare per la prima volta nel mondo sportivo negli anni 30 per indicare la difficoltà o l’incapacità di un atleta nel ripetere e/o mantenere i successi raggiunti in precedenza. Bisogna però attendere gli anni 70 affinché si inizi a parlare di burnout riferendosi ad una sindrome tipica delle helpingh professions. È lo psicologo statunitense Freudenberger nel 1974 a coniare tale termine in ambito sociosanitario. Questi in un articolo pubblicato sul Journal of Social Issues dal titolo Staff burnout lo definisce come “una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale che colpisce chi è impegnato nelle helping professions”, e ancora come uno “stato di fatica o di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita o da una relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Due anni dopo la psichiatra americana Christina Maslach (autrice del Maslache burnout Inventory) descrisse il burnout come “condizione in cui, dopo mesi o anni di impegno generoso, gli operatori si bruciano manifestando un atteggiamento di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza e cinismo”. L’interesse suscitato negli anni nei confronti di tale sindrome, ha portato anche l’organizzazione mondiale della sanità ad occuparsi della questione e nel 1994 l’Oms ha inserito per la prima volta il burnout nella classificazione internazionale delle malattie (ICD-10) nella categoria “Problems related to life-management difficulty” con la definizione di “Stato di esaurimento vitale”. Il burnout si presenta perciò come un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che generano un declino delle risorse psicofisiche e un peggioramento delle prestazioni lavorative. La sindrome da burnout dunque è una reazione ad una situazione di stress cronico tipico dei soggetti che svolgono professioni d'aiuto quando vi è da parte degli stessi professionisti l’incapacità di attivare risposte congrue a tali situazioni di forte stress. È possibile classificare il burnout come una sindrome multifattoriale con manifestazioni specifiche. Il soggetto che ne risulta colpito presenta un peggioramento progressivo dell’impegno nei confronti del proprio lavoro (un occupazione dapprima rilevante ed attraente diviene spiacevole e deludente); un deterioramento delle emozioni (il soggetto colpito prova sentimenti di rabbia, aggressività, tensione e ansia, perdendo ogni passione e motivazione); un problema di adattamento tra la persona e il lavoro (anche se è il posto di lavoro a presentare problemi, i singoli individui avvertono tale squilibrio come una crisi personale). Esistono tre dimensioni specifiche del burnout: esaurimento, cinismo e inefficienza. Quando le richieste di lavoro aumentano smisuratamente o avvengono cambiamenti importanti a livello lavorativo, il soggetto è colpito da un profondo stress che genera un esaurimento vero e proprio. L’esaurimento genera a sua volta uno sfinimento mentale e fisico, subentra l’incapacità di rilassarsi, creare nuovi progetti ecc. Il cinismo invece è caratterizzato da atteggiamenti sterili, distaccati, superficiali e freddi verso le persone ed il lavoro. Tramite tale atteggiamento il soggetto si crea uno scudo, una barriera per fronteggiare l’esaurimento e lo sconforto non comprendendo in realtà che tale modo di fare può portarlo ad uno squilibrio psicofisico non indifferente e, a perdere il proprio benessere e l’idoneità di lavorare. Terza e ultima dimensione è l’inefficienza. Ci si sente inutili e incapaci. I progetti realizzati appaiono privi di valore o non conformi alle proprie aspettative. Si registra un notevole calo dell’autostima. Tali caratteristiche e dimensioni portano il professionista affetto da burnout a soffrire di una serie di sintomi fisici, psicologici e comportamentali ben definiti dal modello formulato da Perlman e Hartman nel 1982. Nei sintomi descritti dagli studiosi rientrano cefalee, esaurimento fisico, disturbi gastrointestinali, dolori muscolari, astenia, nausea, mal di schiene e tachicardia frequente. In quelli psicologici tristezza e depressione, pessimismo, impulsività, ipersensibilità emotiva e rabbia, isolamento, apatia, rigidità di pensiero, frequenti sbalzi d’umore e disattenzione. Accanto a tali sintomi si registrano una serie di manifestazioni pratiche quali l’allontanamento dai propri colleghi, cinismo nei confronti dei propri utenti, calo dell’entusiasmo iniziale, perdita della consapevolezza del proprio valore, assunzione di alcool e farmaci. Tale situazione non si esaurisce al termine della giornata lavorativa ma continua nella vita privata del soggetto colpito, quest’ultimo si sente privo di energia, trascurato anche all’interno della propria casa, diventa distaccato nei confronti del proprio partner e dei propri figli, vive in una perenne sensazione di stanchezza e demotivazione verso tutto. È quindi possibile parlare di tre categorie di sintomi attraverso cui il burnout si manifesta: comportamenti che testimoniano un forte disinvestimento sul lavoro; eventi autodistruttivi (disturbi di carattere psicosomatico o del comportamento, diminuzione delle difese immunitarie, aumento della propensione agli incidenti, ecc.); comportamenti eterodistruttivi diretti all’utente (indifferenza, violenza, crudeltà, spersonalizzazione, ecc.)È chiaro che tali sintomi non si manifestano da un giorno all’altro. Edelwich e Brodsky hanno elaborato a riguardo un modello di sviluppo del burnout che si snoda in quattro fasi e che ci aiutano a comprendere meglio lo sviluppo di tale sindrome. La prima fase è quella dell’entusiasmo idealistico, in cui l’operatore è incapace di valutare la realtà e idealizza molto le aspettative. Nella seconda fase definita della stagnazione, l’operatore si sente frustato e insoddisfatto del suo lavoro. Si giunge così alla terza fase quella della frustrazione, qui l’operatore inizia a scoraggiarsi e si autoconvince di non possedere le giuste risorse e strumenti per far fronte alle esigenze dei suoi utenti. Nella quarta e ultima fase, quella dell’apatia, l’operatore è demotivato, le prestazioni lavorative perdono di professionalità portandolo alla cosiddetta “morte professionale”. Ma come si giunge a soffrire di tale sindrome? Quali sono i fattori che maggiormente ne determinano lo sviluppo e come si manifesta il burnout nell’assistente sociale? Come e quando bisogna intervenire per lenirne gli effetti sui professionisti? Tra i fattori che possono determinare la sindrome di burnout annoveriamo quelli individuali, socio-demografici e la struttura organizzativa. Nei fattori individuali rientrano determinate caratteristiche personali quali introversione, iperattivismo, autoritarismo, aggressività, la tendenza a porsi obiettivi irrealistici. Quelli socio-demografici parlano di determinate predisposizioni; le donne ad esempio hanno un rischio maggiore di “ammalarsi” di burnout rispetto agli uomini così come il non avere un partner stabile fa registrare un tasso di caduta elevato, inoltre è nei primi anni di lavoro che la probabilità di cadere in tale sindrome risulta essere più alta. Terzo e ultimo fattore è la struttura organizzativa. All’interno dell’organizzazione di lavoro si ha una distribuzione dei ruoli che spesso sono avvertiti come incompatibili con il proprio ruolo professionale. Ciò provoca numerose tensioni aumentate da una serie di motivi; ambiguità di ruolo (insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione), conflitto di ruolo (esistenza di richieste che l’operatore ritiene non adatte alla sua formazione), sovraccarico di lavoro, assenza di equità, orari di lavoro troppo pesanti da sostenere, mancanza di stimoli, crollo del senso di appartenenza, scarsa remunerazione. Esistono dunque diverse ragioni, sia personali sia relative all’organizzazione di lavoro, che possono portare l’assistente sociale a soffrire di burnout. Per quanto concerne la sfera personale bisogna tenere a mente che l’assistente sociale è un professionista della relazione di aiuto che nel suo agire ricorre all’utilizzo di metodologie di intervento e strumenti propri della professione. È essenziale perciò che un assistente sociale per svolgere correttamente il proprio ruolo possieda una buona preparazione oltre a godere di un ottimo equilibrio personale. Fondamentale per giungere a tale obiettivo è la formazione, da intendersi non solo come l’acquisizione di tecniche ma anche come la capacità di saper gestire il proprio lavoro, relazionarsi con le altre figure professionali, comunicare con l’organizzazione, dare importanza al proprio vissuto personale. L’assistente sociale che svolge il proprio lavoro all’interno di un’organizzazione è coinvolto nelle dinamiche interne ed esterne proprie di quest’ultima vivendone le difficoltà. Il professionista avverte un contrasto tra la natura del suo lavoro (autonomia gestionale negli interventi di aiuto) e la natura del lavoro (esecuzione delle politiche dell’Ente). Su di lui pesano carichi di lavoro eccessivi dovuti ad un incremento di attività, carenza di risorse e personale, ciò genera in lui frustrazione, scarsa fiducia, sensazione di non aver una giusta ricompensa al proprio lavoro sia in termini economici che per ciò che concerne il riconoscimento del ruolo. L’assistente sociale denuncia una non equità nel trattamento da parte dell’organizzazione, vede il suo ruolo intaccato, vive una crisi del senso di comunità e di appartenenza con i colleghi di lavoro. Di tale forma di burnout ne è responsabile l’organizzazione. È proprio quest’ultima a dover fronteggiare il problema sia per il benessere del professionista ma anche per il proprio stesso interesse in quanto il perdurare di tale crisi genera costi elevati che in un modo o nell’altro si riflettono negativamente sul sistema stesso. È comprensibile dunque capire perché la risoluzione del fenomeno dovrebbe essere affrontata sia a livello organizzativo che a livello individuale. In letteratura ci sono molte strategie per la prevenzione del burnout, molto conclamate sono quelle della Maslach che indica la necessità di focalizzarsi sia sull’individuo sia sul luogo di lavoro. La tesi che accomuna tali teorie è quella che sostiene la necessità di puntare sulla promozione dell'impegno nel lavoro, non solo riducendo gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro stesso ma tentando di incrementare quelli positivi. Tra le strategie note per aumentare l’impegno ricordiamo quelle che accrescono l’energia, l’efficacia e quelle che rimandano ai lavoratori l’autonomia delle decisioni da prendere. A livello individuale invece risulta produttivo rivolgersi da parte della singola persona ad un professionista in grado di fornire gli strumenti idonei per giungere ad una corretta consapevolezza del problema, per poter aiutare a comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo, al fine di modificare il proprio comportamento e avviarsi verso una soluzione del problema. Per prevenire la Sindrome di burnout, si rende opportuno ottimizzare la gestione del tempo dei lavoratori, affinché essi possano rigenerarsi dal punto di vista fisico ed emotivo. È necessario il sostegno dell’equipe, interagire e confrontarsi con la stessa, così come è di vitale importanza l’intervento, il supporto e la vicinanza della famiglia, da realizzarsi tramite una corretta comunicazione. Nel momento in cui un operatore è affetto da tale sindrome è necessaria altresì una variazione radicale nella propria vita professionale. Nel campo dei servizi sociali è suggerito cambiare il tipo di utenza, dedicarsi all’organizzazione, diventare formatori, iscriversi ad una scuola di formazione, divenire supervisori e scrivere testi. Uno strumento molto utile è la respirazione, circolare e connessa, valida per portare la consapevolezza al proprio corpo, rigenerarsi, scaricare le tensioni, la rabbia, il senso di nullità, le delusioni, il senso di insoddisfazione prodotte del lavoro. Tale forma di respirazione aiuta ad aumentare la consapevolezza su ciò che è la propria situazione attuale, permette di comprendere che è necessario “abbandonare” un po’ quell’ambiente per prendersi cura di se e poter recuperare le energie. Un altro modo utile per scaricare ansia e stress tramite il proprio corpo è ad esempio svolgendo un’attività che piaccia e appassioni come il nuoto, la corsa, il ballo, la passeggiata, ecc. Si è rivelato utilissimo difatti quando ci si sente demotivati ed afflitti, ritagliarsi un piccolo spazio personale in cui coltivare i propri interessi e le proprie passioni, lasciando per quel momento il lavoro da parte. Solo così si possono recuperare le energie e solo così’, quando nella nostra mente regna la quiete e non il caos, è possibile svolgere bene il nostro lavoro ed essere veramente d’aiuto al prossimo. Quando si ha la consapevolezza di essere vittime di burnout è possibile ricorrere a sedute di psicoterapia individuale ed a interventi di supervisione, strumento utilissimo per fronteggiare situazioni di forte stress, ansia e insicurezze. È appurato da diversi studi l’effetto positivo nel tenere un diario di bordo in cui annotare emozioni, stati d’animo, sensazioni, perplessità ed ogni percezione avvertita durante l’intervento con l’utente. Registrare ogni pensiero, dubbio ed incertezza aiuta a fronteggiare meglio la situazione. Inoltre, la supervisione è uno strumento utile verso se stessi e verso i colleghi. Condividere un nostro malessere con un collega, significa confrontarsi con qualcuno che svolgendo il nostro stesso lavoro può capirci al meglio. Essere ascoltati, condividere determinate emozioni aiuta ad avere il giusto sostegno per superare la situazione di crisi. Particolare importanza ha la supervisione professionale, da attuare attraverso la partecipazione a gruppi di supervisione bisettimanale o mensili o tramite un percorso di psicoterapia. Oggi i rischi derivanti dalla sindrome in questione (problemi di salute, produttività ridotta, declino generale della qualità di vita personale e professionale) rappresentano un prezzo troppo alto da pagare. E' dunque consigliabile l'adozione di un approccio preventivo per affrontare il problema burnout. Del resto come scrisse Maslach “Un grammo di prevenzione vele quanto mezzo chilo di cura.” Francesca Sacco Assistente sociale specialista BIBLIOGRAFIA Albano U. (2002) Tesi “Il burnout nel servizio sociale italiano” in Asit servizio sociale su Internet. Baiocco R. (2004) Il rischio psicosociale nelle professioni di aiuto: la sindrome del burnout negli operatori sociali, medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi, psicoterapeuti e religiosi, Edizioni Erickson, Trento. 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