l`Isola Sospirante

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ANTAS
1
Un nuovo modo
di essere editore.
Sinonimo di coraggio
e determinazione.
PTM Editrice
Prima Tipografia Mogorese
Via dei Mestieri 14, 09095 Mogoro
Provincia di Oristano
Telefono 0783.463976
Fax: 0783.463977
Email: [email protected]
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Il piacevole gusto
della lettura
Diario di bordo:
data astrale 4-11-2314
...continua l’avventura di Antas
Guardo dall’oblò le stelle lontane...
Chiarezza, facilità di lettura e bellezza delle illustrazioni
grafiche e fotografiche. Sin dal giorno della nascita
la direzione editoriale e artistica di Antas si è posta
questi primi, grandi obiettivi dai quali, credo, derivino
inevitabilmente dei risultati: quello delle vendite e,
più in generale, l’indice di gradimento della nostra
testata. Bene, dopo due numeri e mentre lavoriamo
alla chiusura del terzo possiamo già affermare, con una
punta d’orgoglio, che gli obbiettivi sono stati finora
centrati in pieno. Antas, stando almeno ai giudizi che
ci arrivano da voi affezionati lettori (che non siete
solamente sardi ma, con nostra grande soddisfazione,
di ogni parte d’Italia) piace per i contenuti, ma anche
per la sua bellezza estetica. Non è un particolare che
possiamo trascurare, perché il piacevole gusto della
lettura passa anche attraverso la gradevolezza dello
sfogliare le pagine di una rivista. Antas è un giornale
che viene letto e poi conservato come fosse una perla
preziosa: non volendo sembrare troppo presuntuosi
azzardiamo che Antas è anche un giornale da collezionare, consultare nel tempo, e, perché no, consigliare a
chi ancora non lo conosce.
“Spazio, ultima frontiera. Questi sono i viaggi della
nave stellare Antas. La sua missione è quella di
esplorare strani nuovi mondi, alla ricerca di nuove
forme di vita e di nuove civiltà, per arrivare là dove
nessuno è mai giunto prima”.
IL TERZO NUMERO E PINUCCIO SCIOLA
Se c’è un’artista che la nostra terra la sta, invece, facendo conoscere al mondo intero, questi è Pinuccio Sciola,
al quale dedichiamo con immensa soddisfazione la
terza copertina e due articoli di sicuro interesse per
voi lettori. Entrare nella casa-museo di San Sperate e
immergersi nel “magico mondo” di Sciola è un privilegio che lo scrittore Fabio Forma e la nostra Alessandra
Ghiani custodiranno nel loro scrigno dei ricordi più
belli. Ma il terzo numero offre una panoramica ricchissima di contenuti: c’è la seconda, ultima parte dell’intervista al nipote di Grazia Deledda; tantissimo spazio
per la musica (con una lunga, interessante chiacchierata coi Sikitikis, col canto a chitarra dedicato a Mariano
Lilliu e col canto a tenore che vede protagonista Thiesi); per le donne di Sardegna (da Anna Cabras Brundo
a Vanessa Roggeri, da Maria Luisa Congiu alle sorelle
Silvia e Stefania Loriga, fino a Claudia Crabuzza); per il
cinema (con Gianfranco Cabiddu, che ci presenta il suo
nuovo film girata all’Asinara), per il teatro (coi Cada Die
e i BobòScianèl), per la straordinaria forza dei nostri
poeti improvvisatori, primo fra tutti Remundu Piras. E
infine non perdetevi l’intervista al cantautore Davide
Van de Sfroos: dalla chiacchierata con Mariella Cortes
emerge tutto il suo amore per la nostra terra.
Non resta che augurarvi una buona lettura!
Pierpaolo Fadda
Siamo in viaggio da oltre cinque mesi e da pochi giorni
siamo alla ricerca nel quadrante Alpha dell’ultimo
esemplare di cantante post-punk.
La segnalazione del nostro fido informatore Harcat è
sembrata attendibile e precisa come sempre.
“Messaggio Criptato, Codice 1: sul pianeta rosso Vega18
si riuniscono periodicamente gruppi di razza umana
attorno ad una arcaico focolare alimentato da legna di
castagno, il festare si protrae oltre le prime luci dell’alba e
all’unisono si sentono note sprigionarsi da uno strumento a corde pizzicate con cassa di risonanza armonica
affiancate da una potente e graffiante voce di sesso
maschile... fine messaggio.”
Non ci abbiamo pensato più di un minuto: inserite le
coordinate riportate alla fine del messaggio del fido
Harcat, abbiamo spinto i motori della nostra astronave
verso questa nuova scoperta.
Questo è quello che amiamo fare: curiosi come i nostri
predecessori, informiamo e riportiamo periodicamente tutto ciò che la storia della nostra galassia a volte
tiene nascosto. Ed è per questo che la nostra rivista
olografica Antas è ancora la più letta e scaricata dai sistemi centralizzati delle grandi metropoli e compagna
di viaggio dei nuovi esploratori dello spazio.
Mancano circa sei ore al contatto visivo con il pianeta
Vega18. Prima di salire sulla navetta che ci porterà
all’incontro con queste nuove forme di vita, ripeto con
emozione il mio solito gesto scaramantico.
Cerco dentro l’armadio del mio ufficio la scatola contenente l’unico esemplare di Antas in formato cartaceo.
Annuso le pagine leggermente sgualcite e rileggo per
l’ennesima volta i titoli riportati sulla copertina.
Rimango ad osservare affascinato l’immagine di un
signore che posa con dolcezza le sue mani su un oggetto presumibilmente di pietra e sembra ascoltarne
il suono. Pinuccio Sciola è il suo nome e nella banca
dati dell’astronave mi piace rileggere spesso che le sue
opere furono ritrovate sparse in gran parte di un isola
al centro del Mediterraneo denominata Sardegna. Riportano i diari dell’epoca che quando il forte vento di
maestrale soffiava ininterrotto e costringeva la gente
di quella terra a stare chiusa in casa, si sprigionava
nell’aria una musica avvolgente e misteriosa che scacciava tutte le paure.
Simone Riggio
editoriale
ANTAS
03 Editoriale Pierpaolo Fadda e Simone Riggio
04 Sommario
05 In evidenza
APPROFONDIMENTI
06 Mia nonna, Grazia Deledda Pierpaolo Fadda
DONNE DI SARDEGNA
A N TA S
Bimestrale di musica e cultura sarda
N° 3 - Ottobre 2014 - Anno 1
EDITORE
PTM Editrice di Claudio Pia
Via dei Mestieri, 14 09095 Mogoro (OR)
Telefono 0783 463976 - Fax: 0783 463977
Email: [email protected]
Orari: dal Lun. al Ven. 09.00 - 13.00 | 14.30 - 18.30
DIRETTORE
Pierpaolo Fadda
[email protected]
ART DIRECTOR
Simone Riggio
[email protected]
CONSULENTE ALLA REDAZIONE
Manuela Polli
HANNO COLLABORATORO A QUESTO NUMERO
Antonio Caria, Valentina Cebeni, Marta Cincotti,
Mariella Cortes, Fabio Forma, Alessandra Ghiani,
Claudio Loi, Mary Manghina, Giuliano Marongiu,
Giovanni Graziano Manca, Matteo Mazzuzzi, Ghita
Stefania Montalto, Diego Pani, Valeria Patanè,
Valentina Pintor, Giovanni Salis, Deborah Succa,
Salvatore Taras.
PUBBLICITA’ E PROMOZIONE
[email protected]
FOTO COPERTINA
Attila Kleb
FOTO PAGINA ABBONAMENTI
vgstudio / 123RF Archivio Fotografico
STAMPA
PTM - Prima Tipografia Mogorese di Claudio Pia Via dei Mestieri 14 - 09095 Mogoro (OR)
©Antas 2014
tutti i diritti di produzione sono riservati
Registrazione tribunale di Oristano
n° 1/2014 del 21/05/2014
10
13
14
18
20
Anna Cabras Brundo Marta Cincotti
Maria Carta Pierpaolo Fadda
Vanessa Roggeri Alessandra Ghiani
Maria Luisa Congiu Giuliano Marongiu
Silvia e Stefania Loriga Pierpaolo Fadda
PERSONAGGI
24 Mariano Lilliu Antonio Caria
26 Remundu Piras Giovanni Graziano Manca
GLI SPECIALI DI ANTAS
30 Pinuccio Sciola: l’anima del suono Fabio Forma
34 Pinuccio Sciola: il canto della pietra Alessandra Ghiani
SFUMATURE SONORE
38 Davide Van de Sfroos Mariella Cortes
41 Riptiders Pierpaolo Fadda
42 Sikitikis Claudio Loi
FOCUS, ARTISTI IN VETRINA
46
50
52
54
56
Gianfranco Cabiddu Valentina Pintor
Cada Die Teatro Matteo Mazzuzzi
BobòScianèl Mary Manghina
Cunsonos de Tiesi Pierpaolo Fadda
Claudia Crabuzza Giovanni Salis
RECENSIONI DISCOGRAFICHE
57 4 note in libertà con i Punkillonis Pierpaolo Fadda
Akytera Mary Manghina
Elva Lutza e Renat Sette Redazionale
L’armeria dei briganti Pierpaolo Fadda
Perry Frank Diego Pani
Saffronkeira + Mario massa Claudio Loi
Massimo Spanu, Rural Electrification Orchestra Claudio Loi
RECENSIONI LIBRI
60 A colazione con Giovanni Davide Piras Deborah Succa
Dodici chicchi d’uva di Lisa Elisa Valeria Patanè
L’altra di Elvira Serra Valentina Cebeni
I miei canti. Storia e spartiti... di Alessandro Catte Redazionale
Francesco Demuro: un amico... di Cristian Dessena Salvatore Taras
Damnatio di Luca Mastinu Redazionale
fANTAStiche EMOZIONI
63 Jimi Hendrix Ghita Stefania Montalto
Le immagini delle pagine 6, 7, 11, 12, 14, 15, 19, 24, 25, 47, 48, 49, 53, 55, 56,
60 sono carenti di riferimenti riguardo i loro autori: scusandocene anticipatamente, restiamo disponibili per l’aggiornamento dei rispettivi crediti.
in evidenza
foto di Michela Medda
SIKITIKIS
42
Sono la colonna sonora di una città e di un continente ma non professano nessuna ideologia esclusiva. Oltre 15 anni di onorata
carriera dedicata a infrangere le barriere della nostra coscienza musicale. Sono la band che rappresenta nel modo migliore i nostri
tempi dove la Sardegna non è più un prodotto esotico da esportare e neanche uno scrigno da tenere sigillato...
PINUCCIO
SCIOLA
30 38
È un viaggio dentro noi stessi,
alla scoperta di suoni che ci sono
appartenuti, di cui avevamo perso
la memoria...
06
GRAZIA
DELEDDA
14
VANESSA
ROGGERI
DAVIDE
VAN DE SFROOS
L’isola sospirante. Così chiama la
“sua” Sardegna Davide Van de
Sfroos, istrionico cantautore delle
valli comasche...
18 MARIA LUISA 20
CONGIU
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46
GIANFRANCO
CABIDDU
Uno dei massimi esponenti del cinema
sardo. Una carriera prestigiosa la sua,
che vanta importanti riconoscimenti:
l’ultimo il Premio Maria Carta...
SORELLE
LORIGA
26
REMUNDU
PIRAS
Parla l’unico nipote vivente della scrittrice
ANTAS
6
Seconda parte
approfondimenti
Sul filo della memoria
MIA NONNA,
GRAZIA DELEDDA
Il commovente ritorno a Nuoro della salma della
scrittrice nei ricordi di Alessandro Madesani Deledda
testo di Pierpaolo Fadda
Lei venne per la prima volta a Nuoro
nel 1956: cosa ha provato mettendo
piede nella città ai piedi del monte
Ortobene?
Una grande curiosità. Ricordo benissimo quel fine Agosto del 1956: ci venni
in occasione della Festa del Redentore,
anche perché proprio in quell’occasione veniva assegnato il premio Grazia
Deledda, istituito nel 1952. Avevo 17
anni e ho scoperto con mia sorpresa
che quella che vedevo era una Nuoro
ancora straordinariamente“ deleddiana”, esattamente come era stata descritta nei romanzi della nonna. Mi colpì molto il grande sentimento di solidarietà tra le persone a prescindere dal
loro stato sociale e notai che quasi tutte
le donne e gli uomini erano vestiti con
l’abito sardo tradizionale. Non dimenticherò mai quei giorni: fu come scoprire
davvero la grande forza espressiva delle opere della nonna, che riviveva e che
potevo toccare con mano.
Alla fine cosa si decise?
Mio padre Franz diede il benestare
dopo molte riflessioni: inizialmente era
molto riluttante, in quanto nonna non
aveva mai espresso né a voce né per
iscritto il desiderio
di essere sepolta
a Nuoro dopo la
morte. Acconsentì
comunque, ma il
percorso per riportare la salma a Nuoro non fu semplice:
occorre tenere presente che un civile
non può essere sepolto in una chiesa
(la sepoltura era
stata stabilita nella
chiesa della Solitudine) a meno che
non ci sia un’autorizzazione concessa da un’apposita
commissione del
Vaticano. Per questo si fece un vero
e proprio processo
canonico, durante il quale furono
raccolte numerose
testimonianze sulla
vita di nonna; vita
che risultò essere
improntata alla religiosità e cristianità.
Un altro episodio che sicuramente
ricorderà è legato al trasporto della salma di sua nonna da Roma alla
chiesetta della Solitudine: che ricordi ha di quel 21 Giugno 1959?
Bellissimi, e ripensandoci oggi mi emoziono, specie considerando che la stessa Grazia Deledda, dopo che nel 1912
vendettero la casa natale, non tornò
più in Sardegna, nemmeno dopo la vittoria del Nobel, e questo suscitò alcune polemiche. Quando nonna morì fu
Ci racconti del viaggio di ritorno a casa di
Grazia Deledda...
Si pose subito un problema: la salma della
nonna doveva viaggiare in nave, ma proprio
in quel giorno la Tirrenia era in sciopero. Che
fare? Risolse tutto il senatore Mannironi, all’epoca sottosegretario
alla Marina Mercantile, chiedendo che
la salma fosse trasportata in aereo. Fu
il mio primo viaggio a bordo di un velivolo, durante il quale il corpo di nonna venne trasportato dall’aeroporto di
Roma Ciampino a quello di Alghero.
Non dimenticherò mai l’arrivo in Sardegna, ben documentato, del resto,
dai giornali dell’epoca: nel percorso
da Alghero a Nuoro si formò un corteo
impressionante di gente e ricordo che
gli abitanti dei paesi attraversati erano
tutti schierati coi sindaci in prima fila e
gli stendardi dei comuni. La salma arrivò a Nuoro e fu portata in Cattedrale.
Attestato del Premio Nobel
...il percorso per riportare
la salma a Nuoro non fu
semplice: occorre tenere
presente che un civile non
può essere sepolto in una
chiesa...
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sepolta a Roma nel cimitero del Verano,
nella nostra tomba di famiglia, che lei
aveva espressamente voluto a forma di
nuraghe. Un gruppo di persone nuoresi amiche di mio padre insistette molto
per riportare la sua salma a Nuoro: tra
essi ricordo il Prof. Mario Ciusa, l’ Avv.
Pinna e l’Avv. Mastino (Sindaco di Nuoro all’atto della traslazione).
ANTAS
Nella prima parte dell’intervista a Alessandro Madesani Deledda, unico nipote
vivente della grande scrittrice nuorese
Grazia Deledda, ci siamo soffermati con
particolare interesse sugli episodi più
curiosi della vita del Premio Nobel. Abbiamo scoperto alcuni aspetti del suo
carattere, un grande senso dell’ironia e
la straordinaria capacità della scrittrice
di “ritagliarsi” uno spazio per la scrittura
nel primo pomeriggio, dopo avere svolto le faccende domestiche. Nella seconda e ultima parte, Alessandro Madesani
ci parla del suo primo viaggio nella città
natale della nonna, Nuoro, e del ritorno
a casa di Grazia Deledda, quando la salma della scrittrice venne riportata nel
capoluogo barbaricino nel Giugno del
1959. Sono testimonianze dirette ed
emozionanti: un regalo bellissimo per
tutti i lettori di Antas.
Il 21 Giugno si tenne il funerale: il corteo funebre attraversò il quartiere dove
abitava la nonna sostando per alcuni
minuti e proseguì per la chiesa della
Solitudine, dove ad attenderla c’era
mezza città di Nuoro. Ricordo che era
presente anche Antonio Segni, allora
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Furono veramente giornate intense e
indimenticabili per me e, credo, per tutta la Sardegna e in particolare per Nuoro: penso che quello sia stato il giorno
della definitiva riappacificazione tra
Grazia Deledda e la sua tanto amata
città natale.
sua opera più bella e intensa sia La madre, forse perché tratta un tema ancora
molto attuale: il rapporto conflittuale
tra la condizione di un sacerdote e il
suo amore per una donna. Straordinariamente forte è anche la figura della
Qual è, a suo giudizio, l’opera più
bella e intensa di Grazia Deledda ?
Mi fa una domanda molto difficile. Io
sono un estimatore delle opere di mia
nonna, le ho lette davvero tutte. Indubbiamente la più nota è Canne al vento,
che considero un bellissimo romanzo;
anche se personalmente credo che la
foto di Salvatore Selis
ANTAS
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Altro momento importante, l’apertura della bara nel Febbraio del 2007:
immagino l‘emozione…
Per spiegare la ragione dell’apertura
della bara occorre fare un passo indietro al 1959, quando la salma della
nonna arrivò a Nuoro. Al momento
della tumulazione ci si accorse che la
bara proveniente da Roma era troppo
grande per entrare nel sarcofago di
granito nero predisposto nella chiesa
della Solitudine. Immediatamente ci fu
una riunione straordinaria (con le solite
immancabili polemiche) tra mio padre,
il sindaco Mastino, l’allora vescovo di
Nuoro Giuseppe Melas ed il Prof. Ciusa, durante la quale fu deciso di tumulare il feretro sotto il pavimento della
chiesa, perpendicolarmente rispetto
al sarcofago; per fare ciò fu necessario
aprire un varco sul perimetro esterno
della chiesa. Quando, nel 2007, furono
eseguiti alcuni lavori di ristrutturazione
della chiesa della Solitudine si rese necessario trasferire la salma nel cimitero
di Nuoro: al momento dell’ispezione
prevista dal regolamento cimiteriale e,
quindi, dell’apertura della bara, si scoprì non senza sorpresa che il feretro si
era automummificato e ricordo che
all’altezza delle mani venne rinvenuto
un libro, che credo fosse il Vangelo secondo Matteo. Fu una cerimonia molto
importante e non trattenni l’emozione.
...al momento della
tumulazione ci si
accorse che la bara
proveniente da
Roma era troppo
grande per entrare
nel sarcofago di
granito nero...
porto questo cognome con un grande
rispetto per la sua figura, non tanto e
non solo perché è stata mia nonna, ma
perché in realtà io sono un grandissimo
ammiratore di Grazia Deledda come
donna. Mi hanno sempre affascinato la
sua forza e il suo coraggio, la sua storia personale, il suo valore: aveva una
grandissima volontà, sicurezza di sé e
soprattutto uno sconfinato amore per
la sua terra natale.
9
ANTAS
Cosa significa, per lei, portare un co-
gnome così importante?
Faccio una premessa: deve sapere che
finché erano in vita i miei genitori io
non mi sono mai interessato personalmente dei rapporti tra la famiglia Deledda e le autorità o degli avvenimenti
ufficiali che richiedevano la presenza di
familiari della scrittrice Premio Nobel.
Quando ho iniziato a farlo, più tardi, ho
però avvertito immediatamente tutta la grandezza di Grazia Deledda. Io
foto di Salvatore Selis
madre del sacerdote, che vive un vero
e proprio dramma interiore. Il romanzo
ha un finale semplicemente bellissimo
e tuttora rileggo questo libro con grande emozione. Ma le potrei citare anche
altre opere deleddiane a me molto care
come Elias Portolu e Il Paese del vento,
uno degli ultimi romanzi della nonna,
peraltro non ambientato in Sardegna.
donne di Sardegna
La nipote e curatrice
della mostra “Persone
e Personaggi” Marta
Cincotti racconta
Anna Cabras Brundo durante
la realizzazione del busto di
Francesco Cossiga, 1988. Foto di
Sandro Cabras
ANNA CABRAS
BRUNDO
Ritratto d’artista
Allieva di Francesco Ciusa, ha ritratto personaggi famosi come Gigi
Riva, i due Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II, Francesco Cossiga
ANTAS
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testo di Marta Cincotti
“Non dev’essere cosa facile, per un artista dei giorni nostri
che non voglia rinunciare a dire sinceramente di sé e del suo
mondo, in termini onesti e convincenti, sottrarsi alla suggestione di quello che oggi la moda reclama e approva”. Così
scriveva Nicola Valle nel 1973 in un articolo dedicato ad Anna
Cabras Brundo (1919 - 2008), artista cagliaritana che quella
suggestione non l’ha mai seguita. Perché, se a sedici anni il ritratto in gesso del nonno poteva sembrare solo un gioco ben
riuscito, tutti gli altri ritratti realizzati nei sessant’anni successivi sono prova del talento e figli della necessità di esprimerlo.
CREATIVITÀ E SOFFERENZA
Anna Cabras Brundo nasce a Cagliari il 26 novembre 1919 da
Erminio Brundo e Marta Garbati. Il padre, orologiaio di profes-
sione, era un uomo elegante e colto, ma soprattutto un uomo
di ingegno: “Sapeva fare tutto”, come Anna spesso raccontava
orgogliosa. Aveva un’eccellente manualità, una spiccata creatività e vena artistica che lo portava perfino a disegnare e
realizzare personalmente i vestiti e i cappelli per la moglie, i
mobili di casa e gli stessi strumenti da lavoro. Aveva tante e
tali doti che, come raccontava la figlia, si è perso a inseguirle
tutte.
La madre, Marta, più grande di qualche anno del marito, era
una donna mite ma appesantita dal dolore per la perdita di
tre dei suoi figli: Sandro, ammalatosi da piccolissimo, Mimma,
morta tragicamente all’età di sedici anni e Mariano, pilota di
caccia che, ammaliato dai proclami fascisti, a vent’anni partì
per una guerra da cui non tornò mai.
Anna, ragazzina creativa e esuberante,
aveva una mente così brillante che, annoiata dallo studio delle materie scolastiche, data la sua innata estrosità, per
divertirsi amava leggere a voce alta i
testi dei libri scolastici recitandone le
parole all’inverso, grazie alla capacità
di parlare correntemente formulando
le parole al contrario. Due anni prima di
ottenere il diploma il padre, forse intimorito dagli apprezzamenti e dalle lodi
che già la figlia, tra l’altro anche molto
bella, riceveva, decide di ritirarla dalla
scuola.
Tale decisione, che in tutta la sua vita
l’Artista mai perdonò al padre, alimentò
ancor più la sua sete di conoscenza e
sperimentazione.
di meno di cinque anni, anche in tale
periodo non resta inerte. I suoi modelli dell’epoca sono necessariamente e
principalmente i suoi bambini, sia nel
disegno che nella scultura, seppur non
mancano sculture di persone e personaggi pubblici realizzati di norma su
ordinazione, ma sovente per sua scelta,
seguendo l’ispirazione del momento.
ARTE COME MEDITAZIONE, LAVORO,
PREGHIERA
Nel 1958, all’età di 39 anni, entra a far
parte del primo sodalizio di artisti capitanato da Gaetano Brundu, denominato “Studio 58”. Il Gruppo, vario e
disomogeneo, aveva quale fine la sperimentazione, il Credo dell’arte come
storia e non passatempo e la ricerca di
nuove forme, in netto contrasto con la
“teoria del bello” fine a se stesso. Dopo
la partecipazione alla prima mostra collettiva del Gruppo se ne distacca ben
presto, per evidenti diversità di vedute e obbiettivi. Da una parte dei suoi
componenti scaturisce quindi il Gruppo Transazionale; ma la Cabras Brundo,
autentica artista del figurativo, non si ritrova nel manifesto del gruppo e segue
un suo personale Credo. In un appunto
scarabocchiato (tale era la sua calligrafia) definisce l’arte “meditazione, lavoro,
preghiera. Colloquio sempre aperto, inno
universale dai muti accordi vibranti fede,
infinito”.
Pur nella sua apparente fragilità, indipendente, sicura delle proprie capacità
11
Anna Cabras Brundo
accanto al busto del
nonno Domenico
Garbati nel 1936. Foto
archivio famiglia Cabras
Brundo
ANTAS
LO STUDIO DELL’ARTE E LA GUERRA
Frequenta quindi i corsi di disegno e
scultura di Francesco Ciusa, che si accorge immediatamente delle doti della giovane artista apprezzandone le
innate capacità prospettiche, l’istintiva
conoscenza dell’anatomia umana e la
destrezza nel disegno. Abbandonato
il corso dopo soli tre mesi su consiglio
dello stesso Ciusa, che riteneva di non
avere nulla da insegnarle, la Brundo
continua a lavorare e disegnare seguendo solo il suo istinto, senza riguardo per le mode del tempo; istinto che la
porta a rapportarsi al massimo scultore
di tutti i tempi, Michelangelo, suo modello di ispirazione, senza però rinunciare alla sperimentazione di diverse
tecniche pittoriche e del modellato,
secondo la sua vocazione.
Frequenta in seguito anche lo studio di
Felice Melis Marini, artista e incisore, di
cui realizza un busto in gesso oggi conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari, e continua da autodidatta a scoprire e perfezionare quelle che
erano la sua dote e la sua passione, che
si esprimevano in un genere lontano
da quei tempi di sperimentazioni e novità artistiche abbracciate, invece, dalla
gran parte degli artisti.
La sua attività subisce un naturale rallentamento nel periodo bellico. In quegli anni difficili sposa Mario, l’uomo
che l’accompagnerà fino alla vecchiaia
sebbene il loro rapporto, frutto dell’incontro di due personalità opposte e
quasi inconciliabili, fosse causa di continue battaglie e tensioni. Nonostante la nascita dei quattro figli nell’arco
ANTAS
12
Anna Cabras Brundo accanto al busto di
papa Paolo VI realizzato per il Seminario
di Cagliari
e determinata nel portare avanti la sua
arte senza compromessi di sorta, ella
quasi ignora il passare delle correnti e
delle mode, continuando a lavorare e
sperimentare e seguendo solo il suo
Credo realista e intimistico. La critica
del tempo, espressione del tentativo di
rottura degli schemi e di rivisitazione
del concetto stesso di arte, fatica a capire lo stile della Cabras Brundo.
Le sue opere, così classiche e pulite,
vengono percepite come una fase
acerba, ipotizzando come necessario
un percorso di crescita teso alla deformazione delle linee scultoree. Pur rimanendo fedele al suo Credo artistico,
gli anni Sessanta sono il periodo delle
sperimentazioni stilistiche.
In questi anni realizza, gli altri, i ritratti
in gesso degli amici scrittori Marcello Serra e Nicola Valle, del pittore Eros
Kara, di Fra Nicola e, nel 1970, quello di
Gigi Riva.
In pittura si trovano i giochi quasi
espressionisti dei ritratti realizzati a olio
con la spatola, grumi di colori accesi e
carichi che in pochi movimenti danno
vita ad atmosfere completamente nuove rispetto alla produzione precedente,
dove per lo più le figlie e lei stessa prestano il loro volto alla tela. In scultura
ottiene nel modellato una resa molto
simile a quella ottenuta in pittura, pizzicando e manipolando sommariamente
la materia, lasciandola a tratti grezza e
sporca, con un forte senso di movimento. Il tratto rispecchia le tensioni dell’animo.
Si amareggiava per non ricevere il giusto riconoscimento, la stima e le lodi,
e non era mai soddisfatta, nonostante
premi, onorificenze e importanti commissioni che via via si succedevano.
Esigeva una maggiore attenzione da
parte della critica, sapeva di meritarla
e non conosceva modestia riguardo il
valore delle sue capacità. Pativa in particolare le limitazioni per la sua condizione di donna, una delle poche tra i
tanti artisti uomini.
Altalenante nell’umore, priva di filtri
inibitori, diceva esattamente quello
che pensava senza mezzi termini, come
se la sua condizione di artista bastasse
a perdonarle anche la meno diplomatica delle sue affermazioni. Implacabile
sui giudizi artistici, non conosceva né
la gelosia per le altrui doti, né la compassione per chi invece risultava privo
di qualsiasi attitudine, ma era sempre
pronta a consigliare e aiutare chiunque
ne avesse avuto bisogno. PERUGIA E CAGLIARI
Dal 1974, all’età di 54 anni, sposati i suoi
Altalenante
nell’umore, priva di
filtri inibitori, diceva
esattamente quello
che pensava senza
mezzi termini
4 figli, decide di dedicarsi finalmente
solo a se stessa e al suo lavoro. Per quindici anni frequenta l’Accademia di Belle
Arti “Pietro Vannucci” di Perugia e così
ogni anno, a luglio, per un mese intero
si riprende i suoi spazi, viali di cipressi e
alberi dalle cime esili e piumose compaiono nei suoi acquerelli e l’arte, per
lei necessità e passione, perde i suoi
connotati più ombrosi per alleggerirsi in un nuovo gioco. Se a Cagliari era
principalmente una ritrattista, a Perugia ritrova il gusto per la leggerezza, il
gioco, lo svago, la sperimentazione.
In questo periodo arrivano le commissioni più importanti da parte di enti
pubblici e religiosi di Cagliari, come
i busti dei sindaci Luigi Crespellani e
Giuseppe Brotzu, oggi esposti presso il Municipio, il busto di papa Paolo
VI realizzato per il Seminario e quello
di Giovanni Paolo II per l’Episcopio, il
grande bassorilievo di San Luca per la
chiesa del Margine Rosso. Nel 1988,
poi, realizza per suo gusto il busto
dell’allora presidente della Repubblica
Francesco Cossiga che, venuto a conoscenza dell’opera, invita la Cabras
Brundo in Quirinale a Roma per ringraziarla, omaggiandola dell’onorificenza
di Grande Ufficiale della Repubblica.
All’età di 72 anni realizza all’interno della Cripta della Chiesa di San Lucifero un
grande bassorilievo raffigurante il Santo e la Chiesa.
Consigliere degli Amici del libro, socia
della FIDAPA e di altri sodalizi culturali,
amava incontrare gli amici artisti e poeti ma non passava giornata senza aver
visto o sentito tutti e quattro i figli e i
cinque nipoti. Sempre di corsa, tra suoi
mille impegni e i tanti lavori che seguiva
anche contemporaneamente, elegante, eccentrica e magnetica, la si incontrava passeggiare per le vie cittadine
con quel suo passo svelto e l’espressione altera. La mano sinistra protetta da
un guanto di pelle teneva il manico della borsetta, la destra restava spoglia, in
tasca per proteggersi dal freddo invernale, ma sempre libera di conservare il
tatto. Mani che per sessant’anni hanno
plasmato nell’argilla i volti di centinaia
di persone, muovendosi con apparente semplicità, spingendo, togliendo, in
una sorta di danza delle sue dita agili e
lunghe, incantando chi ha avuto la fortuna di vederla lavorare.
foto di G. Salis
donne di Sardegna
A Dulce Pontes ed Eugenio Finardi il premio dedicato alla cantante nata ottant’anni fa a Siligo
MARIA CARTA
Una serata speciale nel ventennale della sua morte
lare per tutti coloro che hanno amato
Maria: ricorrono sia il ventennale della
sua scomparsa sia gli 80 anni dalla nascita. E, per l’occasione, la fondazione
Maria Carta ha tributato l’importante
riconoscimento a Dulce Pontes, regina
del fado portoghese ed erede di Amalia
Rodriguez, che ha ricordato: “Ascoltavo i dischi di Maria e mi ha sempre
conquistato per la sua profondità. E
poi amo tantissimo la Sardegna, soprattutto per l’attenzione che ancora sapete riservare al folklore come
identità di un popolo”. Premiato anche Eugenio Finardi, che della Sardegna è ormai quasi un figlio: “Quando
sento la voce di Maria mi vengono le
lacrime agli occhi. Perché lei, Franca
Masu, Elena Ledda, riescono a tenere
in vita quello che io chiamo ‘il Canto
della Madre’. Voci mediterranee, proprio quella di Dulce Pontes e Amalia
Rodriguez, Omm Calzun e Noa. Sono
onorato di ricevere un premio a lei dedicato”.
Altro importante riconoscimento è
andato al regista Gianfranco Cabiddu che ebbe modo di dirigere Maria
Carta attrice nel film “Disamistade”, a
Giampaolo Loddo, al Coro di Usini
che ha festeggiato col premio i 40 anni
di attività, all’associazione Iscandula di
Dante Olianas, al Centro Sociale Culturale Sardo di Milano, alla scrittrice
Bianca Pitzorno. Da sottolineare, infine, un riconoscimento anche per le più
giovani espressioni della scena musicale isolana, come i sassaresi Train To
Roots, impostisi da anni nel panorama
europeo del reggae ma capaci di allargare i loro orizzonti, come testimonia
il loro ultimo lavoro, Growing. E infine
una sorpresa: il giornalista Giacomo
Serreli, che ha condotto la serata con
impareggiabile bravura, ha ricevuto il
premio Maria Carta per la sua straordinaria competenza musicale e l’impegno profuso per la valorizzazione della
figura e l’opera dell’artista di Siligo.
ANTAS
«Il suo bel viso, la fierezza e insieme
la grazia del suo portamento, più che
un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita che ho sempre amato.
Quando la sua voce calda e potente
si alza e riempie lo spazio, si aprono
infiniti orizzonti che scendono nella
storia. Dopo aver conosciuto Maria
Carta, ancora una volta affermo che
i soli grandi uomini della Sardegna
sono state donne». Forse basterebbe
questo bellissimo ricordo di Giuseppe
Dessì per descrivere la straordinaria importanza della figura di Maria Carta. E
domenica 7 Settembre scorso, l’intera
Sardegna ha voluto ricordare Maria nel
suo paese natale di Siligo in occasione
della dodicesima edizione del Premio
a lei intitolato. Perché Maria Carta “era”
la Sardegna. Per la profondità della sua
voce inimitabile, per la fierezza del suo
viso da “madre mediterranea”, per la
straordinaria forza espressiva del suo
portamento. Il 2014 è un anno partico-
13
testo di Pierpaolo Fadda
donne di Sardegna
Intervista alla giovane
scrittrice cagliaritana
Vi racconto la mia Sardegna
VANESSA
ROGGERI
ANTAS
14
Il suo romanzo d’esordio, Il cuore selvatico del ginepro, è alla
quarta edizione. È una storia di lotta alle superstizioni, di cogas,
di odio. Ma anche una storia di forte passione
testo di Alessandra Ghiani
Paura, emarginazione, odio. Ma anche amore e riscatto.
Con Il cuore selvatico del ginepro Vanessa Roggeri racconta
la Sardegna di fine Ottocento, incupita dalla superstizione
e da riti ancestrali, in cui solo l’amore e il raziocinio possono sconfiggere la paura del diverso.
Il cuore selvatico del ginepro narra una storia intensa, pregna di sentimenti forti e contrastanti come l’odio e l’amore e, nel contempo, descrive aspetti poco noti della tua
terra, la Sardegna. Qual è stata la tua fonte di ispirazione?
Da piccola amavo ascoltare i racconti di mia nonna. Lei mi
Ianetta è un nome inusuale. Ha un significato particolare per te?
La scelta dei nomi è sempre un momento critico perché devono avere un
loro significato, racchiudere già in sé la
personalità dei protagonisti. Per Ianetta
è stato difficoltoso, perché è una creatura particolare. Non potevo chiamarla
semplicemente Maria o utilizzare un
altro nome così comune. Ho lasciato
che arrivasse da solo e, dopo qualche
giorno di riflessione, si è fatto strada da
sé. Ma, ripensandoci col senno di poi,
è facile associarlo al nome janas. C’è
stata un’elaborazione naturale dentro
di me che ha portato a dare un’identità, anche attraverso il nome, a questo
personaggio fondamentale che vive a
La Sardegna è una terra antica in cui,
ancora oggi, sopravvivono credenze
e superstizioni. Ti senti più intimorita o affascinata da esse?
Assolutamente affascinata. Già da bambina ne subivo tutto il fascino, derivante
un po’ anche dalla paura suscitata dalle
storie di esseri che mangiano bambini
o dei nuraghi abitati da personaggi fantastici. Da adulta ho cercato di penetrare maggiormente il significato di certe
leggende, di certe figure folkloristiche
quali le cogas o le janas, appartenenti
alla sfera soprannaturale. E ho scoperto
che dietro ci sono secoli di storia che
affonda nel matriarcato, nel principio
della sacralità femminile, principio che
il Cristianesimo ha poi demonizzato
con figure come le cogas, che rapivano i neonati e che, spesso, servivano a
trovare una giustificazione per le morti
bianche. Il fascino scatenato da queste
storie mi ha instillato una curiosità crescente, legata all’amore per la mia terra
e a quel briciolo di irrazionalità e fantasia, di voglia di magia che derivano
dal mio passato e dalla tradizione. Ho
sempre vissuto appieno le emozioni
suscitate da questi racconti.
Nel tuo romanzo gli uomini hanno
quasi un ruolo secondario con l’eccezione di Giuseppe, il giovane medico
che farà breccia nel cuore di Lucia.
Come mai questa scelta?
Perché nella mia esperienza di vita ho
sperimentato il ruolo preminente della
figura femminile all’interno della famiglia. Quello di mia madre, di mia nonna
e addirittura della mia bisnonna che
non ho conosciuto, pur essendo una
presenza molto forte nella mia vita. Ho
sempre sentito raccontare di lei, rima-
15
Il romanzo racconta le vicende di una
famiglia, e delle sorelle Lucia e Ianetta in particolare, legate da un amore
che vive nell’ombra. Quale messaggio hai voluto trasmettere al lettore
attraverso la loro storia?
Ho voluto far riflettere su quanto la
superstizione e l’ignoranza in un ambiente chiuso, in una comunità ristretta quale può essere un paese di fine
Ottocento nel centro della Sardegna,
possano far male alle persone. Quella di Ianetta è una storia di riscatto, di
scardinamento di una certa cultura cristallizzata attraverso i secoli. E questa
capacità di andare oltre le apparenze
è affidato a Lucia, che non crede a ciò
di cui la sua famiglia è, invece, fermamente convinta. Nonostante anche lei
sia figlia del suo tempo e di una certa
mentalità, Lucia supera i propri dubbi,
la negatività che la circonda, quel ripetere continuamente che la sorellina è
una maledetta, una portatrice di male.
E riesce a farlo attraverso l’amore e la
luce della ragione.
contatto con la natura, in modo quasi
selvatico.
ANTAS
parlava della sua vita povera e semplice in una Sardegna d’altri tempi, che
io non ho conosciuto. Attraverso i suoi
racconti e grazie a quello che io ho sperimentato nella mia vita, ho elaborato
un’immagine della Sardegna che poi
ho riversato nel romanzo. La storia di
Ianetta è nata perché volevo narrare
di una bambina ritenuta fonte di malignità, portatrice di morte, con una connotazione sociale fortemente negativa,
ma che, in realtà, era solamente vittima
di superstizioni e di ignoranza.
ANTAS
16
foto di Alessandro Cani
...sono stata fortemente
influenzata dalle
caratteristiche della
famiglia sarda, del
passato e del presente...
sta vedova giovanissima con sei figli,
in possesso solamente di un tetto sulla
testa. Questa donna è dovuta diventare
veramente forte per mandare avanti la
famiglia e dare da mangiare ai figli.
La stessa storia della Sardegna ha,
come punti di riferimento, figure femminili storiche di grande personalità.
Da Eleonora d’Arborea che è la mia
preferita, a Grazia Deledda che ha rotto degli schemi sociali radicatissimi,
alla meno conosciuta Donna Francesca
Sanna Sulis, un personaggio straordinario vissuto nel Settecento, in pratica la prima imprenditrice sarda. Sono
esempi di donne forti, depositarie di saperi antichi e di un
certo potere all’interno della
famiglia. È un potere sotterraneo, di regia, che non è esplicito come quello dell’uomo
che va a lavorare e si espone
a livello sociale. Ma la forza di
chi sta dietro le quinte non è
meno importante.
Sono stata fortemente influenzata dalle caratteristiche
della famiglia sarda, del passato e del presente. Quando
in altri Paesi, ricchi e culturalmente avanzati come l’Inghilterra, le donne non potevano
ricevere un’eredità, in Sardegna si verificava il contrario:
potevano addirittura prendere il cognome della madre. È
sempre stata una terra a sé,
come ci insegna la storia dei
Giudicati.
Nel romanzo utilizzi una
prosa robusta con metafore
e similitudini forti, spesso
legate a elementi naturali
che si intonano perfettamente agli eventi narrati.
In base alla tua esperienza,
scrittori si nasce o si diventa?
Scrittori ci si costruisce. Alla
base deve esserci sicuramente un talento, come per tutte
le forme d’arte. Saper raccontare in modo speciale, saper
narrare senza descrivere, saper cogliere certi aspetti della
vita attraverso la propria narrazione, sono cose che non si
possono insegnare. Si impara
certamente a scrivere attraverso le letture dei classici, dei grandi maestri, e
con tanta pratica. Sono ormai vent’anni
che coltivo questa mia passione e ho visto quanto la mia scrittura sia cambiata
nel tempo rispetto agli inizi: prima era
più ingenua. L’esperienza, unita alla lettura dei classici, sono cose dalle quali
non si può prescindere. Quindi si deve
avere dentro il germe della scrittura,
ma poi bisogna saperlo coltivare.
Quali autori hanno condizionato
maggiormente la tua scrittura?
Ho come modello di riferimento le so-
relle Brontë, in particolar modo Charlotte con il suo Jane Eyre, che considero
un capolavoro. Mi affascina quel tipo
di scrittura, molto passionale, fuori dal
coro. Stiamo parlando di ragazze che
vivevano nella brughiera e, mentre
mi facevo un’idea della loro scrittura,
venivo influenzata anche dalle autrici,
dal loro vissuto, da quello che volevano esprimere. Poi non posso non citare un autore classico della Sardegna,
Grazia Deledda, la cui scrittura è priva di quelle sovrastrutture tipiche di
altri che apprezzo comunque, come
D’Annunzio o Pirandello. I loro lavori li
immagino come un frutto, una pesca.
Hanno quella bella pellicola vellutata
che fa arrivare pian piano alla polpa,
mentre la Deledda arriva direttamente
al nocciolo, trasferendo nelle sue opere la vera essenza della Sardegna. Altri
autori che mi hanno influenzato sono
Giuseppe Dessì col suo Paese d’ombre e
Maria Giacobbe, scrittrice nuorese che
mi ha fatto capire fino in fondo cosa significa essere sardi.
Tre romanzi che, secondo te, ogni
persona dovrebbe leggere.
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, un vero capolavoro della
lingua italiana; Il ritratto di Dorian Gray
di Oscar Wilde, perché in questa società fatua e narcisista questo classico
ha molto da insegnare; L’isola di Arturo
di Elsa Morante, per conoscere tutta la
potenza della scrittura di una delle più
grandi autrici italiane.
Il cuore selvatico del ginepro ha appena compiuto un anno di vita ed è alla
sua quarta edizione. Puoi svelarci
qualcosa sul tuo prossimo romanzo?
Il libro è già pronto, uscirà nei prossimi
mesi e ha una protagonista molto particolare e speciale. È un libro ambientato nella Cagliari della Belle Époque,
che ricorda molto quella raccontata da
Francesco Alziator, mia fonte di ispirazione per questo romanzo. È una storia
con risvolti emozionanti, piena di passioni come piace a me, forse più forte
di quella di Ianetta, perché nasce col
senno di poi e con una maggiore consapevolezza dei meccanismi narrativi,
acquisita grazie all’esperienza de Il cuore selvatico del ginepro.
ANTAS
17
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donne di Sardegna
foto di Claudia Peddis
Incontro con
la cantautrice
di Oliena
MARIA LUISA
CONGIU
la mia vita tra le pagine del tempo
ANTAS
18
testo di Giuliano Marongiu
Ogni volta che passo da Oliena mi vengono in mente le
parole di Elio Vittorini catturate nel suo Viaggio in Sardegna del 1936: “C’è un senso d’approdo nel nostro arrivo dentro quest’aria coperta dagli ulivi”.
Quelle linee di cielo che ritagliano la cornice del Monte
Corrasi sfumano gradualmente sulle asprezze calcaree
argentate dai riflessi del sole. C’è sempre luce sui tetti di
Oliena, nei suoi angoli antichi, nei cortili protetti dalle volate del tempo.
Vive qui, Maria Luisa Congiu, artista tra le più apprezzate,
ma anche madre innamorata di quattro figli che sono entrati nelle sue canzoni e compagna di un marito musicista
che quando la guarda la ricopre di tenerezze.
La sua casa è grande e ti accoglie con generosità. Tra le
cose che si vedono non compare nessuna traccia della
cantante di successo: niente foto o ritratti sulle pareti, targhe o ritagli di giornale in vista, dischi o cimeli di una carriera ultra decennale che possano ricondurre alla pubblica
attività della padrona di casa.
Qui abita Maria Luisa e basta, la donna che difende i suoi
pensieri, che si rifugia nell’intimità dei suoi affetti e nelle
verità che lo spettacolo quasi sempre smantella.
Qui nascono le sue composizioni, le stesse che tutti cantano.
L’estate che si chiude lascia un po’ di amaro in bocca: una
stagione contrassegnata dal comportamento di alcuni
che, molto spesso, trattano l’arte come merce di scambio
e utilizzano le armi della diffamazione quando non possono comprare la libertà e la dignità delle persone.
“Sono i segnali negativi di un mondo che non mi piace
un’artista
che ha
saputo
fondere
tradizione e
innovazione
che ho ripreso dal repertorio di Antonio Nuvoli,
il cantadore di Ploaghe
nato nel 1915 e scomparso di recente a 94 anni; un
uomo d’altri tempi che ha
divulgato con la sua voce
la poesia. “Su mutu ‘e sos
puzones” ha una forza
dirompente sul pubblico
tale da convincermi che le belle cose,
a dispetto del tempo che passa, restano tali per sempre”.
Per la prima volta la cantante di Oliena
parla del nuovo disco, del quale il brano
di Nuvoli è solo un’anticipazione che affianca, ad esempio, Taj Mahal, aperto a
inedite sperimentazioni che “ripassano”
atmosfere orientali accompagnate con
gli strumenti della nostra tradizione.
“Il Taj Mahal è un monumento dedicato all’amore eterno. Per il poeta
filosofo Tagore è una lacrima di marmo poggiata sulla guancia del tempo
che rientra nelle sette meraviglie del
mondo. Probabilmente il suo magnetismo è dovuto anche alla leggenda
che accompagna la sua storia.
Quando
la principessa
Mumtaz Mahal
muore suo marito, l’imperatore Shah Jahan, cade nella
disperazione,
tanto che i suoi
capelli e la sua
barba diventa-
ANTAS
no completamente bianchi in pochi
mesi. Per sciogliere una promessa
che le aveva fatto, l’imperatore costruisce il Taj che inizia nel 1631 e
viene completato dopo 22 anni. La
leggenda narra che a tutti i lavoratori impegnati nella titanica impresa
furono amputate le mani al termine
della costruzione, affinché l’opera
non fosse mai più ripetuta”.
Maria Luisa mentre parla si ascolta, misura le parole, le accompagna con i gesti. Sposta leggermente i capelli di lato
e sorride con timidezza. L’amore muove
le cose, condisce l’esistenza e dentro le
canzoni è destinato a non sfiorire mai,
come un’eterna primavera.
L’amore per gli affetti più vicini e l’amore per il pubblico, che considera l’estensione del suo comunicare con la musica
e con i contenuti che la identificano.
Scende la sera sui monti di Oliena e anche il sole va a dormire.
La notte si apre complice e sussurra i
pensieri che l’artista fa suoi.
Nessuna poesia potrebbe mai nascere
a mezzogiorno o nel frastuono della
vita che corre.
È nell’intimità del silenzio che il cuore
parla e detta le canzoni che Maria Luisa
intona.
19
foto di Claudia Peddis
e che intendo combattere con tutte le
mie forze – dichiara la cantautrice –;
per contro, questo scorcio di autunno
che si apre mi restituisce la gioia di
una serie di concerti meravigliosi, con
tanta gente che mi ha ricambiata ancora una volta di affetto”.
Il momento che Maria Luisa sta vivendo è particolarmente fecondo. Il nuovo
lavoro discografico è quasi pronto e sta
per essere dato alle stampe. Le collaborazioni con Ivana Spagna e Antonella
Ruggiero le hanno consegnato la gratificazione di un confronto che abbatte
le barriere che il mare innalza, per trasferire un dialogo tra sensibilità femminili che attraverso le voci e la musica
comunicano emozioni.
“Non si smette mai di crescere e di
capire ed è sempre più vero che dai
momenti di difficoltà riaffiorano energie che pensavi di non avere o di non
avere più. Per esempio oggi do molto
più valore al contatto diretto con le
persone. Spesso questo mestiere ci
costringe a delegare il nostro destino
e le nostre volontà vengono distorte.
Non succederà più. Grazie a Dio si è
ricreato quel contatto magnetico tra
me e la gente che ha qualcosa di nuovo e di più solido”.
Il suo concerto attraversa la storia musicale di un’artista che ha saputo fondere tradizione e innovazione ma che
soprattutto ha saputo creare un solco
fertile nell’arido panorama dello spettacolo isolano che tende più a generare imitazioni mal riuscite che soluzioni
originali.
“In realtà mi sento portatrice sana di
una Sardegna che ha sempre qualcosa da dire. La novità a volte sta
proprio nel riscoprire qualcosa di
noi che attraverso una rilettura del
tempo può restituirci un passato per
niente sepolto. Penso a una canzone
foto di Sandra Zuddas
donne di Sardegna
SILVIA E STEFANIA
LORIGA
ANTAS
20
presentano ELES
Viaggio nel fantastico mondo delle
reginette della moda
testo di Pierpaolo Fadda
La lavorazione di fasce, collane e bracciali create utilizzando pietre preziose
Swarovsky è il brevetto che sta regalando grandi soddisfazioni alle sorelle sassaresi:
l’ultima a indossarle è stata Laura Pausini
21
...è l’apoteosi di
un sogno nato
in Sardegna, la
nascita di un
look fascinoso e
originale...
cielo con un dito; Silvia approfondisce
la sua creatività frequentando il corso
di fashion design all’Istituto Marangoni, mentre Stefania studia da brand
manager all’Accademia del Lusso. E
all’ombra della Madonnina entrano in
contatto con tutte le maggiori case di
moda e i più grandi stilisti della città.
Milano èmil sogno, Milano è il godimento, Milano è il crepuscolo che sa accendere l’arte. Silvia e Stefania colgono
l’attimo e ogni loro creazione ammalia
e conquista la città che corre sempre
veloce e non dorme mai: è l’apoteosi di
un sogno nato in Sardegna, la nascita di
un look fascinoso e originale che fa volare alte le ambizioni delle affascinanti
sorelle, che lavorano prevalentemente
a Milano ma aprono un atelier anche
a Ottava, alla periferia di Sassari, e nel
contempo creano finalmente un loro
marchio: “Era il grande obbiettivo, il
ANTAS
sin da piccole - racconta Silvia - e infatti abbiamo aggiunto ai nostri impegni
scolastici un corso privato di moda a
Sassari: avevamo ben chiaro in testa
che quella era la nostra strada professionale”. Idee chiare, tanto coraggio e
quella scintilla che solo la capitale della
moda sa far scoccare. Le sorelle Loriga
si trasferiscono a Milano, toccando il
foto di Sara Montalbano
Emozioni forti. Talento. Arte. Tuttomade in Sardinia. C’è qualcosa di magico nelle creazioni delle sorelle di Sorso
Silvia e Stefania Loriga, una bellezza
che illumina gli occhi e cattura il cuore.
Arriva alla profondità dell’anima. I loro
capi d’abbigliamento sembrano pitture
eleganti che accarezzano sensazioni
oniriche: c’è dentro tutto il fascino lieve
di una piuma carezzevole, il baluginare
di una caleidoscopica dolcezza. E una
cura maniacale dei particolari. Ogni
frammento d’arte è minuziosamente
curato: il segreto del successo di Silvia e
Stefania è tutta racchiuso nella capacità
di dare forza espressiva alle loro creazioni, di “vedere” con occhi nuovi il futuro
della moda. Perché Silvia, 30 anni, e Stefania, 29, fin dall’età di 12 anni hanno
iniziato a comprare tutte le maggiori riviste di moda, coltivando una passione:
“Disegno e pittura ci hanno attratto
ANTAS
22
foto di Sara Montalbano
...vedere una donna
che sfila in passerella
o semplicemente passeggia per strada con
un finissimo abito di
chiffon e una chiccosa
fascia di Swarovsky fa
un certo effetto...
Un’intuizione geniale, il fiore all’occhiello che proietta il marchio ELES nella
galassia della moda che conta. Vedere una donna che sfila in passerella o
semplicemente passeggia per strada
con un finissimo abito di chiffon e una
chiccosa fascia di Swarovsky fa un certo effetto: ne esalta la femminilità catturandone la grinta. Attrae e scatena
il senso dell’estatica bellezza, come un
fiore che spunta variopinto nel giardino dei sogni. E i sogni portano lontano,
fino a catturare attenzione e curiosità
del variegato mondo dei vip. Perché il
look trendy diventa subito un cult e infatti l’ultima donna che non ha resistito
al fascino del brand ELES è stata nientemeno che la cantante italiana più famosa nel mondo, Laura Pausini, che è
rimasta semplicemente incantata dalle
creazioni delle sorelle Loriga: “Ma prima ancora di loro hanno indossato le
nostre creazioni Raffaella Fico, Cecilia Rodriguez
(sorella della più famosa
show-girl argentina Belen), Elena Barolo, la sassarese Elisabetta Canalis
(vera e propria fan e fresca sposa), Michela Coppa e Cristina Chiabotto”.
Ma Silvia e Stefania, che
conoscono bene il mercato e studiano costantemente le nuove tendenze,
lavorano tantissimo anche
su richiesta, specialmente
nella città di Sassari: abiti
da cerimonia, per signora
e molte creazioni per la
gioia dei bambini, tanto che, sommessamente, la stessa Silvia ammette: “Per
il futuro stiamo vagliando la possibilità di creare una collezione baby”. E allora non resta che scoprire quale nuova
sorpresa hanno in serbo per noi le belle
ed estrose sorelle Loriga: sicuramente
l’apertura di un canale di vendita all’estero, forse una linea uomo e, in prospettiva, la nascita di uno store tutto
loro. Per continuare a sognare.
Contatti www.elesitalia.com
FACEBOOK: eles.italia
TWITTER: Eles Italia
ANTAS
23
foto di Sandra Zuddas
foto di Sara Montalbano
sogno che da bambine accompagnava le nostre giornate - spiega Silvia - e
così nel 2011 nasce ELES, un marchio
che vuole essere glamour e raffinato,
sportivo ed elegante insieme, in due
parole street chic, con un target giovane che va dai 20 ai 40 anni”. Tessuti
e stoffe di qualità (seta, chiffon, jersey),
materiali sintetici di nuova generazione
ed ecco sbocciare fior di collezioni che
fanno l’occhiolino al lifestyle-glamour
urbano, con abiti lunghi ed eleganti
che spesso vanno a combinarsi con
T-Shirt e felpe in un connubio perfettamente riuscito di grintosa raffinatezza.
“Vestibilità da una parte, eleganza
dall’altra - sintetizza Silvia - con un occhio attento alle nuove tendenze e un
nostro brevetto che ci sta regalando
molte soddisfazioni: la lavorazione
di fasce, collane e bracciali create utilizzando pietre preziose Swarovsky”.
personaggi
Canto a chitarra.
Abbiamo incontrato
il “cantadore”
baruminese
MARIANO
LILLIU
Una voce magica nel paese del Nuraghe
“La mia prima gara ufficiale? A Monti con Ireneo Ledda e Nanni Sotgiu,
Bachisio Virdis alla chitarra e Mondo Vercellino alla fisarmonica. La mia
carriera? Un bilancio assolutamente positivo. A quasi ottant’anni mi sentirei
ancora di fare una gara”
testo di Antonio Caria
ANTAS
24
Mariano Lilliu nasce a Barumini l’11 giugno del 1935. A partire
dalla seconda metà degli anni Sessanta è riuscito a ritagliarsi
un ruolo importante nell’ambiente del canto a chitarra benché nella sua zona, la Marmilla, le gare non siano proprio di
casa; anche se è lui stesso a sottolineare come, nel paese de
su Nuraxi, gli inviti ai cantadores non mancassero mai. Lo abbiamo incontrato per ANTAS.
Signor Lilliu, come nasce la passione per questo genere
musicale?
La passione è nata ascoltando “Musica e voci del folklore sardo”, un programma radiofonico in cui venivano trasmessi pezzi cantati da Luigino Cossu, Leonardo Cabizza e tanti altri. Le
prime voci le feci durante alcuni spuntini, dove la chitarra era
sempre presente e offriva ai commensali l’occasione di cantare. Ricordo un particolare: in uno di questi ritrovi fui accompagnato alla chitarra da Mario Mannu, che al tempo risiedeva
a Barumini per lavoro.
Da chi gli fu offerta l’opportunità di fare le prime boghes?
Un giorno incontrai Ireneo Ledda di Santa Giusta che, sapendo che mi dilettavo a cantare in sardo, mi propose di fare due
voci con lui e contattò subito Bachisio Virdis (chitarrista residente a Nuoro ma originario di Orotelli scomparso alcuni anni
fa, NDA). Io accettai e, dal momento che in quei tempi viaggiavo a Cagliari tutti i giorni per il mio lavoro di autotrasportatore, ci incontrammo a Monastir. Lì facemmo due voci e Bachisio mi promise che nel caso fosse venuto a conoscenza di
Come sono stati i primi tempi?
Guardi, le dico sinceramente che non
ho avuto nessuna difficoltà a inserirmi:
sembrava quasi che fossi nato cantadore. Non sono stato aiutato da nessuno.
Formai un gruppo assieme a Giovanni
Spano, Ireneo Ledda, Nanni Sotgiu e
Nigia Carai. Gli strumentisti erano Bachisio Virdis e Mondo Vercellino. Dagli
appassionati e intenditori eravamo
considerati il gruppo di “serie B”. Facemmo un gran numero di gare fino agli
anni Settanta, quando per me avvenne
la svolta: dopo una trasmissione, la già
citata “Musica e voci del folklore sardo”, che feci con Serafino Murru, Aldo
Cabizza alla chitarra e Peppino Pippia
alla fisarmonica negli studi della Rai di
Cagliari, mi cercò il gruppo allora noto
come “dei Cabizza” e decisi di andare
con loro. Vorrei dire anche che sono un
grande appassionato di poesia improvvisata logudorese e in passato mi fu
offerta l’occasione di salire su un palco
con i grandi poeti di allora, come Sotgiu
e Zizi, ma decisi di dare anima e corpo
al canto sardo.
...devo riconoscere
che il mio paese mi
ha aiutato molto
in quest’avventura
e non mi ha mai
ostacolato...
Come tanti si è esibito nella Penisola
e all’estero.
Ho cantato spesso in Germania e in
Francia. Poi ho fatto una tournée in
Svizzera con il gruppo di Sestu e sono
andato due volte in Olanda, oltre a esibirmi in Lussemburgo. Nella Penisola
mi esibii molte volte in un circolo dei
sardi a Torino. Ricordo con particolare
emozione la gara che feci a Farébersviller in Francia nel 1993: quella fu l’ultima
sia per me, sia per Serafino Murru. Con
noi c’era Alessandro Fais, assieme agli
strumentisti Roberto Cadoni alla chitarra e Pietro Madau alla fisarmonica.
Che bilancio trae dalla sua carriera?
Un bilancio più che positivo. Sono contentissimo di ciò che ho fatto, considerando che per emergere nel canto a
chitarra era necessario conoscere alla
perfezione il dialetto logudorese; ma riuscii ad adattarmi perfettamente. Devo
riconoscere che il mio paese mi ha aiutato molto in quest’avventura e non mi
ha mai ostacolato: sono stato invitato
tante volte a esibirmi per le varie feste
organizzate a Barumini. Sa che le dico?
A quasi ottant’anni mi sentirei ancora
di fare una gara.
25
Quindi deduco che fece proprio con
Bachisio Virdis la sua prima gara ufficiale.
Sì. Fu a Monti, dove cantai con Ireneo
Ledda e Nanni Sotgiu, Bachisio Virdis
alla chitarra e Mondo Vercellino alla
fisarmonica. L’anno dovrebbe essere il
1965. Dopo appena un maese ricambiai l’invito agli stessi cantadores e sonadores a Pauli Arbarei e da lì inizio la
mia carriera.
Ci parli un po’ delle sue incisioni discografiche.
All’inizio incisi con la New Cadis, con
Bachisio Virdis alla chitarra e Mondo
Vercellino alla fisarmonica. Quando
approdai al gruppo dei Cabizza incisi
con Aldo Cabizza alla chitarra e Peppino Pippia alla fisarmonica per la casa
discografica Tirsu. Sempre per la stessa
etichetta incisi due audiocassette con
il chitarrista Antonio Marongiu. Assieme a Serafino Murru, incisi dei canti a
sa crabarissa e dei muttos a dispretziu e
anche delle ottave a poesia. Per la casa
discografica Tirsu incisi, inoltre, con i
chitarristi Michele Senes e Pietro Fara e
con i cantadores Bachisio Manca e Giovanni Spano
ANTAS
una gara mi avrebbe invitato; e così fu.
personaggi
26
ANTAS
Ritratto del
grande poeta
estemporaneo
di Villanova
Monteleone
REMUNDU
PIRAS
Quando la poesia
diventa arte immortale
vate imprime nelle parole quando esse
costituiscono risposta da dare a un
ipotetico interlocutore sul palco) che
rimangono indelebilmente scritte sulla
carta delle numerose pubblicazioni che
portano il nome del poeta di Villanova
e nel cuore dei molti sardi che amano
la poesia in limba, sono sufficienti a far
affermare allo studioso Leonardo Sole
che “Remundu Piras deve essere considerato un tramite essenziale nel passaggio
dell’intera cultura poetica sarda dall’oralità alla scrittura, e allo stesso tempo la
sua poesia non può assolutamente essere capita nella sua interezza e complessità, se non teniamo conto che in lui confluisce tutta una plurisecolare tradizione
orale, ma già passata e filtrata attraverso
i codici scritti, e dunque in qualche modo
trasformata sia nelle forme che nei contenuti, rispetto, naturalmente, a un mo-
...si esibì a
Montresta neanche
diciannovenne,
in occasione della
festa di Santu
Cristolu...
dello rigido di oralità3”.
Remundu Piras, in sostanza, visto come
fondamentale punto di snodo tra forme arcaiche poco evolute e una rielaborazione artistica vera e propria che
viene perseguita e matura anche alla
luce di forme letterarie ben più complesse diffuse in contesti culturali differenti. A conferma di ciò, ancora, Giovanni Maria Cherchi scrive che il poeta
villanovese “si è lungamente cimentato
adoperando forme e strutture metriche
elaboratesi in secoli di uso letterario della lingua italiana. Anche la lingua sarda
della poesia di Raimondo Piras non è la
lingua che il medesimo Piras usa nel suo
parlare quotidiano in famiglia, nel lavoro, con gli amici, ecc.: è un linguaggio
specifico, stilisticamente elaborato, e che,
allontanandolo quanto necessario dalla
spontaneità e immediatezza del parlato,
il poeta ha elevato a un grado di letterarietà notevole, frutto di un lungo studio e
di un impegno artistico che è raro trovare4”.
Artista a tutto tondo quindi, e poeta
colto, Raimondo Piras, autore di componimenti che hanno perso l’ingenuità
e la semplicità di una tradizione poetica e stilistica del tutto autoctona che
non ha debiti e legami di alcun genere
con espressioni letterarie ‘altre’. Date le
premesse, quella di tiu Remundu non
si presenta, quindi, come poesia capace solamente di sublimare le vicende
quotidiane della vita rurale e agro-pastorale. Si rinvengono, nello scrivere
confidenziale ma allo stesso tempo raffinato del villanovese, gli echi e le sfumature anche minime di un’esistenza
che si svolge in paese, l’orgoglio della
propria sardità e l’amore sconfinato del
vate per la propria terra. L’opera intera
di tiu Remundu, peraltro, non trascura
osservazioni, valutazioni e commenti
conditi di pungente ironia che si riferiscono a questioni sociali e politiche
di stringente attualità. Lascia senza
parole, poi, in Piras, la straordinaria e,
verrebbe da dire, ‘pittorica’, ‘impressionistica’ capacità di delineare con totale e assoluta attenzione ed esattezza,
come in una comedie humaine dal
tratto peculiare, caratteri e personalità
‘tipiche’ dei numerosi personaggi che
costituiscono l’oggetto di molte delle
sue composizioni (Mastru Pilingas, Unu
ANTAS
L’amico, sul palco e nella vita, di tante
gare poetiche, quel Peppe Sozu bonorvese, classe 1914, in un sonetto
composto in occasione della morte di
Remundu Piras così sintetizza i caratteri
dell’uomo e del poeta villanovese passato a miglior vita1:“Una frunza e laru,
unu fiore/ cheria a t’adornare in cussa
losa/ nendedi: ‘In paghe, Remundu, reposa/ su sonnu eternu ‘e su divinu amore./
De palcu impareggiabile cantore,/ mastru ‘e lirica iscritta, armoniosa,/ interprete ‘e sa vida, in dogni cosa/ abile, intelligente, pensadore./ Est boida, in su palcu
sa cadrea/ ch’as tentu chimbant’annos e
piusu/ e-d-est in lutu sa Sardigna intrea./.
Raimondo Piras, uno dei più grandi
cantori che la lingua sarda abbia mai
conosciuto, è entrato nel mito da molti
anni. Nato a Villanova Monteleone, piccolo centro del sassarese non distante
da Alghero, nel 1905, muore nel 1978
nello stesso villaggio che gli ha dato i
natali. Ineguagliato poeta improvvisatore, esordì nel palco del suo paese
nel 1924; successivamente si esibì a
Montresta neanche diciannovenne, in
occasione della festa di Santu Cristolu, in compagnia di uno dei più grandi
estemporanei di fine Ottocento, l‘ossese Antoni Andria Cucca. Le eccezionali
doti artistiche di Raimondo Piras fanno
sì che oggi l’arte della poesia improvvisata venga identificata nella persona
stessa del poeta di Villanova Monteleone: Raimondo Piras è la poesia sarda
estemporanea, quella le cui parole svaniscono insieme alla polvere dei palchi
nel momento stesso in cui vengono
declamate dal poeta (sul tema della
poesia improvvisata, con rara efficacia
Paolo Pillonca ha osservato che “È destino degli estemporanei che i loro versi
se li porti il vento, anche se c’è qualcuno
che ritiene innaturale fermare su un nastro o su una pagina scritta quello che
è produzione orale e dunque destinata
all’ebbrezza di un’ora, che nasce e muore
in una situazione ben determinata e assolutamente irripetibile.” 2).
E tuttavia si può facilmente osservare
che i materiali poetici lasciatici da tiu
Remundu, siano essi costituiti da spezzoni di registrazioni su nastro oppure
da opere ‘meditate’ come si dice, ‘a tavolino’ (a queste ultime manca necessariamente il requisito dell’‘urgenza’ che il
27
testo di Giovanni Graziano Manca foto per gentile concessione di Domusdejanas editore
chi si cret poeta, Tipos antigos: tiu Juannantoni, Orgogliu ‘e esser giaja sono solo
alcuni esempi5) e il carattere (potremmo definirlo filosofico esistenziale) che
ritroviamo in poesie dal vago sapore
leopardiano come Misteriu6: Cand’a
mie matessi eo domando/paret chi solu
a musca tzega joghe,/paret ch’intenda
néndemi una oghe:/”Deo ti nd’apo atìdu
e ti che mando”./Li naro: “Si ses tue, prite
tando/no ti presentas, po chi t’interroghe?/Ischire dia cherrer a inoghe/da inue
so énnidu e ue ando”./Si finas s’esser meu
m’est ignotu/po chi deo cun megus note
e die/cunviva, si mi nán: “Tue ses chie?”,/
poto risponder: “No mi so connotu”./Naran chi tzeltos connoschen a totu/e deo
no connosco mancu a mie.
Appaiono di grande respiro e ‘universali’ qui e altrove, le tematiche di Piras,
laddove invece il verseggiare nelle opere di altri poeti in lingua sarda sembra
1 - Peppe Sozu, in: Paolo
Pillonca, Remundu Piras,
Domus de janas, Cagliari
2003, p.71.
2 - Paolo Pillonca,
nell’introduzione a:
Remundu Piras, Bonas Noas,
Edizioni della torre, Cagliari
1981, p.11.
3 - Leonardo Sole,
nell’intervento introduttivo
a “Remundu Piras –
Ammentos de su poeta” ,
raccolta degli atti per il 10°
anniversario della scomparsa
del poeta, Editrice Soter,
Sassari 1990, p.15.
ANTAS
28
4 - Giovanni Maria Cherchi,
“Identità sarda nella poesia
di Raimondo Piras”, in La
grotta della vipera, anno XX,
n°68/69 Autunno Inverno
1994, p.13
5 - Poesie che fanno parte
della raccolta Misteriu,
Edizioni della torre, Cagliari
1979.
6 - Da il titolo alla raccolta
Misteriu, cit., p. 21.
più spesso rivolto al limitato microcosmo dal quale il poeta proviene oppure
opera e risiede.
Nella sua attività di compositore di
poesie ‘meditate’ Raimondo Piras fu
spesso artista angustiato dal suo stesso
perfezionismo; dal punto di vista puramente caratteriale, poi, fu schivo ma
allo stesso tempo sempre coerente con
le proprie convinzioni: sia sufficiente,
qui, ricordare le ben note circostanze
che lo videro assente dai palchi delle
feste paesane dal 1932 al 1945. Il ritiro
temporaneo dai palchi di tutta l’isola
inizialmente fu conseguenza delle proibizioni ecclesiastiche e di regime che
vietarono del tutto lo svolgimento delle gare poetiche nelle feste di paese. Fu
in seguito ripristinata dalle autorità la
possibilità per i poeti ‘in limba’ di realizzare tali manifestazioni; continuarono
tuttavia a sussistere proibizioni rivolte a
tutti coloro che in tali manifestazioni si
esibivano, finalizzate a inibire nell’ambito delle competizioni pubbliche ‘a
bolu’ lo svolgimento di tematiche politiche o religiose. Proprio a seguito di
tali divieti Raimondo Piras preferì prolungare il ritiro dalle scene piuttosto
che subire limitazioni alla propria attività artistica. Riprese a calcare i palchi
dell’isola a guerra ormai finita.
Appaiono di
grande respiro
e ‘universali’
qui e altrove, le
tematiche di Piras
ANTAS
29
gli speciali di Antas
Una domenica molto speciale.
Il grande artista di San Sperate raccontato
dallo scrittore Fabio Forma
PINUCCIO
SCIOLA
L’anima del suono
ANTAS
30
testo di Fabio Forma
È un viaggio dentro noi stessi, alla scoperta di suoni che
ci sono appartenuti, di cui avevamo perso la memoria. Vibrazioni che arrivano dal centro della materia, apparentemente
silenziosa, che scuotono prima il cuore, dopo l’anima.
Non saprei descrivere altrimenti la domenica sera passata
in compagnia del maestro Pinuccio Sciola. Classe Quarantadue, nato sotto il segno di Michelangelo, lo avvisto mentre
esce dalla porta a vetri del suo studio/atelier. Vestito come
uno scultore vecchia scuola, l’unico tipo di scultore possibile,
perché chi scava la pietra non può che essere una persona
che non si accontenta della forma, che non ama i fronzoli e
le comodità di plastica. E Pinuccio mi accoglie con un sorriso,
scalzo, coi piedi ben piantati per terra e due occhi azzurri che
hanno visto mezzo mondo, ed ancora paiono librarsi alti sul
paese di San Sperate, sul basso Campidano, sulla Sardegna
tutta, isola unica per tanti aspetti, fra cui quello di cui parleremo ora: le pietre, le più antiche d’Europa, fra le poche capaci
di suonare, da sempre, ma silenti, finché un maestro non è
stato in grado di capirne l’intrinseca potenzialità.
È così che Pinuccio comincia a introdurmi al suo lavoro:
“Quell’oggetto che hai al polso ha un complicato meccanismo basato su un quarzo. La memoria dei computer di oggi,
capaci di immagazzinare miliardi di informazioni, è basata sul
silicio, sulla sua memoria millenaria. Quindi voglio dimostrarti
che le pietre non sono mute come si è creduto, per convenzione, finora. Hanno una voce, e questa deriva dall’origine
della pietra stessa”.
Comincia inumidendosi le mani, robuste ma non callose,
forti ma morbide, mani di un suonatore di pietre. E sfregandole lievemente, con rapidità crescente sulle guglie perfettamente smussate di quell’oggetto, che nell’aspetto ricorda
la tastiera di un pianoforte privo di semitoni, impercettibilmente, più sonoramente poi, quello strumento musicale di
calcare comincia a fischiare, a guaire, catapultandomi in un
secondo dentro una dimensione altra, impensabile fino a un
attimo prima. Come posso trovarmi contemporaneamente a
San Sperate, nel favoloso orto di Pinuccio Sciola, e in un’oscura fossa oceanica, desolata ma a suo modo accogliente, come
l’abbraccio del ventre materno prima che la luce sia luce, e
i suoni siano vibrazioni non filtrate, unicamente trasmesse
“Michelangelo è morto triste perché
la pietra che scolpiva non aveva voce,
quindi non gli poteva parlare. Quando
ho presentato le mie pietre a Firenze,
l’ho fatto davanti alla sua tomba, cosicché, a secoli di distanza, anche lui potesse sentire la voce del marmo”.
È un viaggio affascinante quello cominciato quasi per caso in questa domenica pomeriggio, che so mi resterà
impressa nella memoria molto a lungo.
Un attimo dopo Pinuccio mi fa salire
sulla C4 Picasso (non credo che la scel-
...il suono che emette
è liquido, ricorda i
suoni che sentiamo
quando siamo
sott’acqua...
ta del modello, una spaziosa monovolume simile nell’aspetto generale a un
monolite, e quella dell’edizione intestata a Picasso, padre del cubismo, siano
casuali), e, guidando rapidamente fra
strade anguste che conosce a menadito, mi conduce all’altro suo studio/atelier, questa volta all’aria aperta, in cui
ha radunato, come opere di una mostra
estemporanea, le pietre di dimensioni
maggiori, quelle alte, come lui stesso le
chiama. Quello, per quanto mi riguarda, è il luogo perfetto in cui custodire
tali manufatti, un luogo in cui la mano
dell’uomo ha saputo plasmare ma non
sovvertire l’ordine naturale, intervallando grandi pietre lucenti ad alberi
da frutto, e ancora a pietre più scure e
cupe nell’aspetto: dei bellissimi basalti
che riconosco subito, dato che vivo su
una piana basaltica ai piedi della catena del Marghine, e del monte Santu
Padre, che sovrasta tutto come un gigante silente e benevolo.
Pinuccio mi fa poggiare un orecchio
a questo grande masso i cui tasti sonori
somigliano a giganteschi cubi di Rubik
monocromatici e dalla grana porosa.
Mentre comincia a strofinare un piccolo masso su quei tasti, sento incredibilmente il vociare di una fiamma enorme,
31
Fabio Forma
con Pinuccio Sciola
dall’aria.
Resto stralunato per qualche secondo, in silenzio, dopo che Pinuccio ha
terminato di suonare il suo strumento,
e da oltre quel tavolo di legno, minuto
e anch’esso vibrante sotto il peso delle pietre sonore, mi guarda con aria
complice e sorniona. Non riesco a dirgli
nulla nell’immediato, come mi capita
raramente all’uscita del cinema dopo
aver visto un capolavoro, perché ogni
commento suonerebbe superfluo.
Riprende lui a raccontarmi della
vita di quella semplice pietra lavorata:
“Questo è un biancone di Orosei. “La
sua origine è calcarea, si è formata nel
mare, praticamente è acqua fossilizzata. Il suono che emette è liquido, ricorda i suoni che sentiamo quando siamo
sott’acqua, e differisce dai marmi del
resto d’Italia perché la Sardegna è una
terra più antica. Fra le più antiche d’Europa”. Sembra un dettaglio da poco,
ma non lo è affatto. Con una vena di
orgoglio mi racconta di quando, ospite
a Firenze, davanti a cinquecento persone, ha affermato che Michelangelo è morto triste. Questo perché egli,
scultore sopraffino e di talento smisurato, ha creato sculture assolutamente
perfette, e a queste mancava solo una
cosa: la parola. Quindi Pinuccio mi guida verso un angolo più appartato del
giardino e mi mostra due pietre dalle
dimensioni e dalla lavorazione del tutto simili. Quella a sinistra di un bianco
puro, ma meno lucente. Mi dice, mentre con un piccolo pezzo di marmo salta da un tasto all’altro: “Questa pietra è
un marmo di Carrara, quello utilizzato
da Michelangelo per le sue
sculture”. Mentre scorre fra
i tasti di quell’embrione di
strumento musicale, con
stupore noto che i pochi
suoni emessi non sono
assimilabili a una melodia
compiuta; somigliano più
a rumori di materia grezza.
“Questa invece è un
biancone di Orosei”. Mentre compie lo stesso movimento di prima, onde
sonore cominciano a fluire nell’aria, emettendo il
suono ormai diventato familiare che ricorda quello
dell’acqua e delle profondità oceaniche.
ANTAS
foto di Attila Kleb
La Turandot di Puccini al
teatro lirico di Cagliari.
Pinuccio Sciola dialoga
col critico d’arte Philippe
Daverio.
ANTAS
32
infernale, e in un secondo, chiudendo
gli occhi, vengo trasportato al centro
della terra, fra roccia fusa e magma incandescente, avvolto da un suono più
cupo dei precedenti, bieco e temibile,
baritonale ma pastoso. È difficile descrivere un suono, tanto più se questo rimanda a fenomeni naturali imponenti,
ancestrali, come accade sempre con le
pietre sonore. Sono una persona poco
propensa a enfatizzare un avvenimento o un fenomeno naturale. Ma devo
ammettere che questa domenica atipi-
ca mi sta facendo rivalutare tante cose,
in primis il rapporto con le pietre, che
non sono semplice materia inanimata,
ma la memoria fisica di un passato remoto più vicino e presente di quanto
potessimo immaginare. Pinuccio, dopo
il mio silenzio, riprende a parlarmi di
questa pietra. “È un basalto, frutto della
compressione e fusione della roccia endogena, sputato fuori da qualche vulcano sotto forma di lapilli, o fluito giù
dalla sua bocca attraverso una robusta
colata lavica. Il suo suono ricorda quel-
...ma è nel
momento in cui
un’opera riesce
a suonare alcuni
tasti sconosciuti,
a suscitare
emozioni
indescrivibili, che
diventa arte...
lo del fuoco e della terra”.
Come dargli torto. Quella è una pietra
il cui tempo non ha tempo, la cui memoria resta impressa, incastonata fra le
sue fibre più profonde. Non avevo mai
trovato nulla di umano in una pietra, almeno prima di oggi. Ma è nel momento
in cui un’opera riesce a suonare alcuni
tasti sconosciuti, a suscitare emozioni
indescrivibili, che diventa arte. E queste
semplici pietre mi stupiscono un’ultima
volta, attraverso lo specchio di un’umanità poco numerosa, ma comunque
siano universali, ma l’arte è assolutamente soggettiva.
Ci vuole sensibilità e un udito fino per
amare il suono di uno strumento, ci vogliono soldi per permettersi un oggetto che da solo non potrà dare la felicità,
perché quella va ricercata dentro sé,
prima che nei beni materiali. Ci voleva
un artista non convenzionale, geniale
e sprezzante, per scoprire che le pietre
hanno una voce e possono emozionarci, lì dove non c’è tempo, non c’è musica
e non c’è luce.
33
ANTAS
lanesi, ma che poco hanno a che fare
col mondo della musica e dell’arte. Probabilmente pensano a che figura faranno con amici e colleghi mettendosi in
giardino una pietra di Sciola, e litigano
fra loro, scegliendo fra pietre di grandi
dimensioni, pesanti svariate tonnellate,
per decidere quale sia la più adatta rispetto all’arredamento, o quale presenti la forma più elegante. Poi, mentre mi
allontano, li sento borbottare qualcosa
riguardo l’assicurazione per il trasporto
e, fra me e me, penso che alcune cose
foto di Attila Kleb
rappresentativa del mondo. Dopo di
me, difatti, giunge una coppia di musicisti di Milano. Li seguo mentre sentono
il suono di quelle pietre e si emozionano, glielo leggo in volto. Vorrebbero acquistare una piccola pietra sonora, ma
non ne hanno l’immediata possibilità, e
quasi si disperano, lasciando la tenuta
Sciola con una nuova consapevolezza,
quella derivata dall’aver scoperto un
nuovo strabiliante strumento musicale,
vecchio quanto il mondo. Dopo di loro
giungono altre due coppie, sempre mi-
testo di Alessandra Ghiani
ANTAS
34
Il Canto della Pietra
La memoria dell’universo
Una stretta di mano decisa e densa di calore: così
ha inizio il mio incontro col Maestro Pinuccio Sciola.
Mi lascio condurre alla scoperta del suo giardino
sonoro, in cui la pietra e le piante convivono beandosi della compagnia reciproca. Vi si arriva da una
strada sterrata, ma non vi sono cancelli a delimitare la distesa pacifica di monoliti; vibrano immersi
nella libertà che la natura ha donato loro fin dall’inizio dei tempi, incastonati tra il verde degli ulivi e
le sfumature del cielo.
Ci avviciniamo a un calcare, figlio dell’acqua, e mi
invita ad accostare l’orecchio e a posare una mano
sulla pietra. Mentre lui l’accarezza con un altro pez-
PINUCCIO SCIOLA
gli speciali di Antas
foto di Attila Kleb
La nostra Alessandra Ghiani ci
descrive una giornata particolare
vissuta in compagnia di
zo di materia litica, le vibrazioni si propagano dalle
mie dita verso tutto il corpo e un suono viscerale
raggiunge i miei sensi. È la profondità degli oceani,
il fluire di fiumi antichi che hanno scavato, plasmato e unito sedimenti senza tempo, conservandone
inalterata la memoria primitiva.
Lo guardo meravigliata, priva di parole che possano descrivere la sensazione appena provata, e mi
conduce al cospetto di un altro pezzo di universo.
Questa volta il suono mi porta a un ricordo del
passato, ma il Maestro mi invita a mettere da parte
il conosciuto e a lasciarmi andare. Guidata da lui,
passo dopo passo, ne comprendo il motivo: quei
suoni arrivano da un prima indefinito, e nulla hanno a che fare con quanto creato dall’uomo. Pinuc-
Il canto della pietra
Proseguendo la passeggiata mi conduce nel salotto del suo giardino: due
divani in pietra felicemente disposti
sotto un grande ulivo. Capisco che è il
momento di partire con l’intervista vera
e propria. Tiro fuori la mia lista di domande, mentre lui mi scruta con occhi
incuriositi e guardinghi. L’ultima cosa
che desidera è un’intervista tradizionale, “Perché le risposte migliori sono
quelle a domande mai fatte. Nessuno mi ha mai chiesto di tirare fuori i
suoni dalle pietre. Ecco la risposta a
una domanda mai fatta” mi dice guardandosi intorno. La mia lista di curiosità perde in un istante ogni significato.
Pinuccio Sciola vuole raccontarsi da sé
e, soprattutto, emozionare i suoi interlocutori con i ricordi di una vita intensa
e con la voce delle pietre. Ne siamo circondati, sottili trame di infinito in attesa di una carezza per esprimere la loro
interiorità.
Azzardo comunque una domanda:
“Com’è avvenuto il suo incontro con
...Pinuccio
Sciola non
suona le
pietre, ne
libera il
canto...
il suono della pietra?”
“È stato naturalissimo. Non ricordo il
momento, e a questo proposito, ti faccio io una domanda. Tu ricordi quando hai conosciuto tua madre?”
La mia risposta, superflua, si perde nel
silenzio provocatorio del suo sguardo.
Poi prosegue: “Io sono sempre in lotta perché in tutte le culture il suono
della pietra è associato alla percussione. È un errore enorme. Se picchiamo la pietra, noi sentiamo solo
il rumore del colpo che essa riceve.
I suoni, invece, vengono fuori con le
carezze e più è dolce la carezza, più
è forte l’emozione che la pietra, con
la sua voce, trasmette. Quindi ogni
giorno io lotto per ribaltare concetti
universalmente riconosciuti, quelli
per cui la pietra è dura, rigida, muta.”
È un guerriero Pinuccio Sciola: lo raccontano le sue mani, solide e vive come
le pietre di cui sfiora la pelle. Lo dicono
i suoi occhi, profondi come il canto del
basalto, e le linee del suo viso solcato
35
A un certo punto chiede la parola
un emigrato di Ghilarza, partito manovale e diventato poi un grande
imprenditore, che dice: «Ringrazio
Pinuccio, siamo felicissimi di questa
intuizione. Una scuola internazionale
di questa natura ci inorgoglisce anche
perché, come dicono i geologi, in Sardegna esiste qualsiasi tipo di pietra. E
se un tipo di pietra non esiste lì vuol
dire che Dio, quando ha creato il mondo, se l’è tenuto in tasca!». Questo per
me è un bellissimo ricordo” conclude
compiaciuto.
ANTAS
A un tratto si ferma di fronte a una scultura i cui tagli verticali creano un gioco
di trasparenze incredibilmente affascinante. “La pietra è rigida? Ma dove
sta la sua rigidità?” mi chiede mentre
pizzica le sottili lame presenti nella parte superiore. Vibrano come le corde di
un’arpa, e mi accorgo in quell’istante
di quanto gli aggettivi da sempre usati
per definire le rocce siano inappropriati.
Proseguiamo la passeggiata e si ferma
davanti a un basalto. Prima di ascoltarne la voce mi invita a osservarlo. È scuro come le viscere della terra, trafitto
da piccole gocce bianche di calcare: “È
il cielo stellato” mi dice, invitandomi ad
accostare l’orecchio. Un suono gutturale, profondo, oscuro. Il Maestro comincia a raccontare di alcuni scienziati seriamente interessati alle sue scoperte.
“Ultimamente mi sto occupando dei
suoni siderali. Il mio interesse principale è trasmettere emozioni, ma è un
fatto unico al mondo che queste vengano sposate anche dalla scienza.”
Perché certo, lui è un artista, ma la sua
ricerca va oltre il fine edonistico dell’arte: arriva fino alle origini del tutto che
ci circonda, e sono state le sue pietre a
indicargli il cammino.
Mi spiega che non tutte sono in grado
di esprimersi: solo le più antiche conservano la memoria di quell’inizio, e la
Sardegna possiede una varietà litica
che affonda le radici nell’immensità del
tempo. A tal proposito mi racconta un
curioso aneddoto: “Una quindicina di
anni fa ho presentato la mia scuola
(Scuola Internazionale di Scultura,
attiva dal 1978 a San Sperate, ndr),
rigorosamente anticlassica e antiaccademica, a Parigi. Erano presenti
tantissimi giornalisti e molti Sardi.
foto di Attila Kleb
cio Sciola non suona le pietre, ne libera
il canto.
Mi dirà più tardi: “Le pietre hanno una
memoria. Qualche settimana fa ho
partecipato a un congresso a Pietrasanta, organizzato dalla Facoltà di
Architettura dell’Università di Pisa.
Ho fatto ascoltare le mie pietre e,
mentre parlavo di suoni inediti, una
ragazza mi ha detto con decisione:
«Io non li ho sentiti inediti questi suoni, li ho sentiti molto familiari. Come
se fossero da sempre dentro il mio
dna.» Io ero sbalordito.”
Scena dalla Turandot di
Puccini al teatro lirico di
Cagliari.
36
ANTAS
da emozioni intense, nel bene e nel
male.
“Qualche anno fa ho letto alcuni libri
di Sergio Givone” prosegue, “filosofo
e docente di Estetica. Ho avuto modo
di partecipare con lui a una conferenza sulla pietra e il sacro alla Facoltà Teologica di Cagliari. Io ero lì con
le mie sculture, lui invece ha tenuto
una lectio magistralis dal titolo Il silenzio della pietra. Puoi capire come
mi sentivo io, che ogni giorno cerco
di dimostrare l’esatto contrario. Non
ho avuto modo di fargli cambiare
idea fino all’anno scorso, quando
è stata allestita una mia mostra a
Firenze, dentro la Basilica di Santa
Croce, al cospetto di Michelangelo
e di altri grandi artisti del passato.
La conferenza inaugurale si teneva
nel refettorio del convento, affrescato da Taddeo Gaddi, alla presenza
dell’Assessore alla Cultura del Comune di Firenze. Ho scoperto in quel
momento che si trattava di Sergio
Givone! È arrivato in anticipo e ne ho
approfittato. Gli ho chiesto di avvicinare l’orecchio a una delle mie pietre
e ho cominciato ad accarezzarla. Lui
era meravigliato. Mi ha chiesto: «Ma
come è stato possibile anche soltanto
pensare che dentro una materia muta
per antonomasia ci potessero essere
dei suoni?» Gli ho risposto: «Perché io
sono nato da una pietra.»
Durante la conferenza ho fatto ascoltare il suono delle mie sculture, poi
lui ha preso la parola e ha detto:
«Sciola sostiene di essere nato da una
pietra, e ha ragione. Perché soltanto
uno che è stato lì dentro poteva avere
la percezione di questi suoni e la genialità di farli ascoltare anche a noi»”.
Mentre racconta osservo il suo sguardo:
è pura emozione quella che ne traspare. Anche quando mi dice di aver fatto
ascoltare il canto della pietra a Michelangelo, che di fronte al suo Mosè, tanto realistico da sembrare vivo, avrebbe
detto: “Perché non parli?”
“Non avrebbe potuto in nessun caso”
mi dice il Maestro. “Il marmo statuario
non è molto compatto, quindi non
permette la propagazione del suono. Michelangelo ai suoi tempi non
poteva saperlo, per cui ho deciso di
fargli ascoltare il suono delle mie
pietre. Ho iniziato utilizzando l’archetto di un contrabbasso, per non
svegliarlo di soprassalto. C’era un
silenzio assoluto, io avevo un nodo
alla gola. «Abbiamo potuto constatare che questi non sono solo dei contenitori di opere d’arte, ma sono anche
luoghi di produzione di emozioni,
come Sciola ci ha appena dimostrato»
ha detto la presidente dell’Opera di
Santa Croce quando ho terminato”.
Gli chiedo se gli sarebbe piaciuto lavorare con Michelangelo. Mi risponde di
no. A questo punto sono molto curiosa
di scoprire chi, nel suo percorso artistico e umano, gli abbia lasciato l’eredità
più grande.
“La natura” risponde deciso. “Non
immagini quante volte, mentre accarezzo la pietra, vedo fiumi di lacrime
scendere dagli occhi di chi ascolta.
Io ho una missione, soprattutto da
quando ho fatto le mostre ad Assisi
e sono diventato amico di San Francesco: creare un nuovo rapporto con
la natura. Chiunque varchi il portone
della mia casa e ascolti le pietre, avrà
necessariamente un rapporto diverso con la natura, fatto di più attenzione e rispetto, dal momento in cui
constaterà che perfino le pietre sono
foto di Donovan Frau
...vedo fiumi di
lacrime scendere
dagli occhi di chi
ascolta...
un elemento vivo”.
E vivi sono anche i monoliti del pianeta
Erondàr, nel fumetto fantasy Dragonero, disegnati a immagine e somiglianza
delle sculture sonore del Maestro. In
quell’altrove esse attivano delle strade
magiche.
“Che effetto le fa sapere che le sue opere hanno varcato il confine della realtà?” gli chiedo.
“È piacevole. E poi è questa la cosa
bella, perché i suoni sono oltre la realtà, sono prima della materialità; anzi,
i suoni letteralmente sciolgono la materialità e la durezza della pietra”.
Gesamtkunstwerk*
Il sole è tramontato, ci alziamo per fare
un ultimo giro nel giardino e gli chiedo
della Turandot, l’incompiuta di Puccini
a cui Pinuccio Sciola ha infuso una nuova linfa curandone la scenografia.
L’allestimento al Teatro Lirico di Cagliari
ha avuto un successo quasi inaspettato, fin dalla presentazione curata dal
critico d’arte Philippe Daverio, unito al
Maestro da un rapporto che va ben oltre l’amicizia e di cui ha parlato senza
remore - davanti agli oltre mille spettatori e ai giornalisti intervenuti - ricordando la lotta al tumore che a entrambi
ha portato via lo stomaco.
“È stata la prima esperienza come
scenografo teatrale, ma mi è venuto
naturale”. Mi invita a guardarmi intorno mentre racconta. “L’ho sempre fatto anche qui, con le mie pietre. Non
sono disposte a caso”.
Sarebbe impossibile pensarlo: c’è un’armonia perfetta, come quella che solo la
natura e chi è in profonda sintonia con
essa possono realizzare.
“Quello che mi ha emozionato di più”
aggiunge con entusiasmo “è stato lavorare con persone meravigliose. In
due mesi e mezzo ho imparato tantissimo! Io arrivavo con un progetto
e due giorni dopo avevo una struttura alta nove metri. Una dedizione al
lavoro e una professionalità commoventi: abbiamo fatto un lavoro d’équipe straordinario”.
L’idea wagneriana di opera d’arte totale
ha trovato, in questa interpretazione
della Turandot, la sua ragione d’essere:
musica, drammaturgia, scultura si sono
fuse per dare vita a una nuova dimensione dell’arte, originale, fuori dal tempo. Nel racconto del Maestro non man-
cano le lodi per Simon Corder che, con
le sue luci, ha amplificato la percezione
della poesia insita in questo incontro di
sensibilità diverse.
Gli chiedo se lavorerà ad altre opere
liriche. “Non lo so, io però ne ho già
pronta una”. Sorride, e gli occhi emanano una luce intensa.
Mentre camminiamo mi mostra due
grandi sculture: una raffigura la porta
del carcere in cui è stato imprigionato
Gramsci, l’altra è un omaggio a Maria
Lai. La visita sembra volgere al termine, ma il Maestro mi stupisce ancora.
Accende un faro sotto la seconda e improvvisamente i fili dell’artista ogliastrina, scolpiti nella pietra, prendono vita.
L’illusione del movimento è una magia
che solo l’anima sensibile del Maestro
poteva far scaturire dalla solidità della
pietra.
stato.
Mi invita ancora ad ascoltare. Questa
volta la pietra ha una voce quasi lugubre, il lamento di uno spazio inesplorato: “Questo suono è identico a quello
di Nettuno. Su internet trovi le registrazioni fatte dalla NASA” mi dice. Le
ho ascoltate il giorno seguente, prima
che l’intensità del ricordo scemasse, e
mi sono venuti i brividi. In quelle parti
infinitesimali che sono le sue sculture,
è racchiusa tutta l’immensità dell’universo.
È buio ormai e facciamo per congedarci; lui invece ci fa accomodare dentro
casa. Prende piatti, posate e bicchieri e
divide con noi la sua cena, senza un invito verbale, come se ci conoscessimo
da sempre. Parliamo ancora e ancora, la
sua vita è un arazzo prezioso ricamato
con il filo delle emozioni e noi ne diventiamo parte, seppure per poco.
Prima di andare via il Maestro mi fa
dono di alcuni libri, ricordo materiale di
questo viaggio mistico denso di suggestioni, in cui ho attraversato un tempo
senza tempo che supera il conosciuto e
si perde nell’infinito dello spazio e della
memoria.
*Opera d’arte totale
ANTAS
37
Non si finisce mai di imparare
Ci approssimiamo all’uscita e mi mostra
con orgoglio una moltitudine di piantine nate dalle pietre: “Le ho seminate quattro anni fa il quattro di ottobre, il giorno di San Francesco. Sono
pura poesia”. Eccola ancora, l’armonia
dell’universo.
Le oltrepassiamo e ricorda le visite delle scolaresche: “Non immagini quanto
io stia imparando dai bambini”.
Mi racconta con tenerezza e stupore
di una bimba che, di fronte al suono
delle pietre, ha detto: “Mi ricorda... mi
ricorda qualcosa che non conosco!”
Nell’innocenza di quell’affermazione
c’è tutta l’essenza dell’opera del Maestro, la memoria senza tempo che vive
nella natura e in ciascuno di noi.
Sorride mentre mi parla di un’altra
bambina che, dopo una visita al giardino sonoro, gli ha scritto: Sei più bravo
di Archimede, sei riuscito a fare i colori
di Mondrian senza colori.
“Di per sé è già meraviglioso che
una bambina di sette anni conosca
Mondrian; il fatto che abbia anche
capito il valore pittorico di un segno
più profondo di un altro, di una parte bocciardata rispetto a una liscia,
è assolutamente straordinario” dice
affascinato.
Ormai convinta che sia giunto il momento dei saluti, il Maestro invita me
e mio marito, che mi ha accompagnata
in questo viaggio nella poesia della pietra, a seguirlo a casa sua.
File lunghissime di sculture ci attendono anche lì. Pietra, legno, ferro, ortaggi.
Tutto, fra le sue mani, può assumere
una nuova veste, pur mantenendo inalterata la memoria di ciò che è sempre
Alessandra Ghiani e Pinuccio Sciola in una foto di Donovan Frau
sfumature sonore
foto di Batevents
Il cantautore
lombardo si racconta
ai lettori di Antas
DAVIDE
VAN DE SFROOS
Sardegna, la mia isola del tesoro
“Mi sono innamorato della vostra terra sentendo i Tenores: avevo la pelle
d’oca! Una canzone sulla Sardegna? La chiamerei l’Isola Sospirante”
ANTAS
38
testo di Mariella Cortes
L’isola sospirante. Così chiama la “sua” Sardegna Davide Van
de Sfroos, istrionico cantautore delle valli comasche attivo da
circa vent’anni. Ne parla con un enorme sorriso, ripensando a
quel mal di Sardegna che l’ha in qualche modo plasmato, con
detti, modi di dire e melodie.
Una passione antica, quella di Davide per la Sardegna, che si
mescola a una curiosità insaziabile, per leggende, situazioni,
viaggi e persone. È anche nello spirito dell’ultimo disco, uscito
lo scorso aprile, Goga e Magoga, riferito a un senso di viaggio,
all’andare in un paese molto lontano rifacendosi alle leggendarie popolazioni Gog e Magoga, citate nell’Apocalisse di Giovanni.
Una ricerca costante per un artista completo e visionario, po-
eta di situazioni, storie di persone e luoghi che modula sensazioni e ricordi con canzoni che sembrano voler giocare con l’anima ed esplorarla. In Goga e Magoga si dipingono sentimenti
di nostalgia e di memorie: un artista che guarda – anche – al
suo passato e gioca con immagini intense e metafore narrando un mondo a volte confuso, altre lontano, con personaggi
che sembrano in antitesi gli uni con gli altri ma che, infine, fan
capo alla stessa matassa. Ci sono i ricordi di gioventù di Angel,
meravigliosa ballata che va ad aprire il disco, le nostalgie e i
mille riferimenti di Ki (“Ki ha consumato il suo Dio a furia di
pregarlo e di ripiegarlo”). Nelle 16 tracce Davide Bernasconi
mixa sapientemente, con ritmi tipicamente vandesfrossiani, sensazioni e situazioni nelle quali la struggente voce di
39
Quando ha capito di essersi innamorato della Sardegna?
Una mattina camminavo per un campo
di sterpaglie quando, a un certo punto,
sentii un suono venire da lontano e mi
resi conto, avvicinandomi, che si trattava di un gruppo di uomini anziani che,
fuori da una chiesetta bianca, cantavano
tutti insieme a tenores. Non era una festa
o un’occasione particolare. Io rimasi let-
ANTAS
...una passione
antica, quella di
Davide per la
Sardegna, che si
mescola a una
curiosità insaziabile,
per leggende,
situazioni, viaggi e
persone...
teralmente folgorato e questa vibrazione mi fece venire la pelle d’oca. È stato
in quel momento che la Sardegna mi
è entrata dentro con tutti i suoi sapori,
i suoi misteri. Lì ho compreso le parole della Deledda, il gusto del sale e del
mirto... È stato un imprinting, insomma,
in cui ho vibrato come in nessun altro
luogo. Da quel momento, l’affetto delle
persone e il mio voler scavare, di volta
in volta, nelle tradizioni e nei costumi, è
stato costante. Mi piaceva cercare nelle cose non dette:
streghe, detti popolari, carnevali, presenze e tutto quello che riguardava la
storia! Qui devo ringraziare i sardi che
mi fecero conoscere e apprezzar non la
Sardegna turistica, dalla quale mi sono
sempre tenuto lontano, ma quella dei
sardi.
Questa cosa ha creato dentro di me un
collegamento fortissimo! È un po’ quello che succede nel film “Un uomo chiamato cavallo” o in Tex Willer: mi sentivo
parte integrante. Ho capito che ospitalità in Sardegna non significa apertura
indiscriminata, ma che prima si viene
pesati e, in un certo senso, studiati. Ini-
foto di Batevents
Leslie Abbadini si mescola al violino di
Anga e la fisarmonica di Davide Billa per
ritmi avvolgenti che sanno di strade di
campagna e situazioni oniriche, come
nel Calderon de la stria (“La solitudine è
un ventaglio complicato da aprire e chiudere con maestria”) o del caos ordinato
e ritmico di Goga e Magoga nel quale
siamo tutti immersi (“E volevamo tutto
quello che non avevamo, per cercare tutto
quello che non avevamo più”).
Una ricerca, quella di Davide, che si è intrecciata alla cultura dei suoi laghi e alle
tradizioni della nostra Sardegna, terra
dove, la prima volta, a 14 anni, “Rimasi folgorato da quei luoghi e dai sardi: quando certe cose ti entrano dentro
non possono più uscire”.
Non è un caso, dunque, che il titolo del
suo primo dvd sia Ventanas (dal sardo
“finestre”), canzone dell’album del 2001
E semm partii. Sono innumerevoli, poi,
le collaborazioni con Balentes, Tazenda,
Beppe Dettori, Francesco Piu e tanti altri e le occasioni in cui intona, durante
i suoi concerti, Deus ti salvet Maria; Disamistade o altre melodie tipiche della
nostra Isola.
Gente dei laghi e sardi. Entrambi entrati, a pieno titolo, nel suo cuore.
Cosa li accomuna e cosa li divide?
Con i sardi non c’è una diversità tendenziale. Nella mia zona le persone sono
molto bipolari come bipolare è il lago.
Così, si alternano momenti di estrema
allegria e particolari malinconie.
Questo cattura anche me, non te
ne puoi sottrarre. Anche le persone
più spavalde sono capaci di gesti
di grande tenerezza e di giornate
di estrema tristezza e meditazione
solitaria. Questa è una caratteristica di chi vive sui laghi! Vi è, poi, una
grande generosità. Da quel punto
di vista c’è molta affinità con i molti sardi che ho conosciuto dove, da
una diffidenza iniziale da finto scorbutico, dopo è quello che ti viene a
cercare, quello a cui manchi, che ti
invita a casa, capace di grande accoglienza. Il sardo ha una sua integrità che è unica e poi, brilla di luce
propria e la gente questo lo sa bene.
Parliamo di dialetto che, nel suo caso,
rappresenta il filo rosso di un’intera carriera musicale. Far decollare
la musica sarda “in limba” è ancora
complicato. Ci sono, a suo parere, dei
margini per poterle far oltrepassare
il mare?
Secondo me una delle chiavi di successo sta nelle contaminazioni. Prendi
Peter Gabriel e i Tenores di Bitti, per
esempio! In tal caso non si è trattato
di una sperimentazione, quanto di un
vero e proprio lavoro antropologico.
Nella direzione della sperimentazione
e delle collaborazioni si stanno muovendo molto bene i Tazenda e i Cordas
e Cannas. Nel Salento, per esempio,
hanno recuperato una versione della
pizzica andando poi a mescolare suoni
elettronici. Anche Inghilterra e Francia
si stanno muovendo bene in tal senso.
Prendiamo poi le Balentes. Benché usino delle armonizzazioni, il loro gioco
musicale le porta ad avvicinarsi al jazz,
alla fusion, nonostante lo stile sia sempre quello tradizionale. Loro secondo
me, dopo il successo di Cixiri, potrebbero essere delle buone ambasciatrici in
tal senso. Ma non solo contaminazioni:
devono continuare a esistere gruppi
come i Tenores di Oniferi con quel loro
suono antico che adoro! Poi ci sono
quelli come i Sa Razza che utilizzano il
sardo per far rap così come accade in
Bretagna, dove molti gruppi “rappano”
dentro sonorità tradizionali, creando
un ritmo accattivante e multietnico.
Sceglierei proprio la situazione naturale: specchio perfetto per il carattere
della gente. La canzone si intitolerebbe
Isola Sospirante, come ho sempre chiamato la Sardegna, e il testo ruoterebbe intorno a quattro elementi: sughero,
mirto, sale e pietra. Ecco che, con questo poker di elementi, abbiamo il punto
di partenza di tutte le cose. Sughero
come capacità di rimanere lì nel tempo,
assorbire, non essere scalfibile, ma allo
stesso tempo va ricordato che il sughero non puoi spremerlo più di tanto. Pietra antica, eterna durezza, nel senso di
decisione di essere quello che sono in
tutta la mia austerità. Vi è, dall’altra parte, un’estrema dolcezza delle musiche e
delle sensazioni e quindi ecco il mirto e
poi il sale che viene dal mare.
L’intervista originale dalla quale è stato tratto l’articolo è stata pubblicata
sul portale www.focussardegna.com
La copertina dell’ultima lavoro
discografico Goga e Magoga
pubblicato dalla Universal Records
Se dovesse raccontare la Sardegna
con una canzone, come sarebbe?
foto di Roberta Baria
ANTAS
40
zialmente ho preferito essere uno spettatore, parlando poco e acquisendo e
capendo quel che volevo capire. Molte
cose sono molto misteriose e non si
possono comprendere. Da parte mia
c’è sempre stato massimo rispetto e i
sardi l’hanno capito e, pian piano, mi
hanno fatto entrare nel loro mondo.
Ci sono delle storie o leggende alle
quali si è appassionato più di altre?
Mi sento fortunato perché, in un certo
senso, sono stato iniziato. Ho scoperto i sapori del formaggio (casu marzu compreso), del vino, della carne, ho
imparato a non aver paura di assaggiare sapori nuovi, a cucinare questo o
quell’altro piatto. Sono entrato in un’altra dimensione, insomma! Cito spesso
l’invocazione a Maimone ma non è
l’unica tradizione che mi affascina. C’è
quella credenza di mettere il crocifisso
sequestrato dentro il pozzo recitando
un’invocazione (dove la divinità viene
minacciata) per chiedere la pioggia! I
carnevali, poi, esercitano su di me un
enorme fascino! Ho poi imparato che ci
sono tre tipologie di streghe: brujas, cogas e majargias e che, per tenere il male
lontano dalla propria casa, bastano tre
pietre particolari. Com’era? “tres perdas
de fogu…” sfumature sonore
Alla scoperta della giovane band dei
RIPTIDERS
Ritmiche Reggae da Tempio Pausania
voglia di “definirci” o magari la curiosità
di trovare similitudini con band già conosciute. Dal punto di vista degli arrangiamenti e delle sonorità, in fase di scrittura,
ci capita di partire da un’idea già articolata per poi fare qualcosa di più “classico” o anche viceversa, scrivere un pezzo
‘Roots’ che poi pian piano diventa quasi
Dub”. La band tempiese ha suscitato
un’ottima impressione tra gli addetti ai
lavori al Seleni Summer Splash e, come
già accennato, al Sardinia Reggae Festival, definita da loro come un’esperienza
magnifica: “Dopo averlo vissuto per anni
da spettatori, ritrovarsi lì a condividere il
main stage con artisti di grande livello è
stato incredibile - affermano i Riptiders
-; il SRF è ormai, per il nostro genere, uno
dei festival più importanti a livello internazionale e dobbiamo ritenerci fortunati
ed orgogliosi che sia un prodotto di ‘casa
nostra’”. Adesso la giovane band tempiese sta concentrandosi per la realizzazione del primo, attesissimo lavoro
discografico: “Attualmente stiamo lavorando in studio – spiegano - anche se in
realtà buona parte dei brani che stiamo
registrando si può già ascoltare nei nostri
live, ma abbiamo anche degli inediti che
potrebbero far parte del nostro primo lavoro. Al momento, però, non esiste ancora una data precisa di uscita”. Non resta
che attendere con curiosità l’evoluzione artistica di questa band che professa
grande umiltà: “La scena Reggae isolana
vanta una coesione e un’unità d’intenti
non comuni. Essere circondati da artisti
di fama acclarata che ti mettono a tuo
agio, dandoti nel contempo consigli preziosi, è qualcosa di eccezionale”.
ANTAS
Ritmo, tanta creatività e quella travolgente voglia di fare musica. C’è una
nuova stella che brilla nel firmamento
del reggae sardo ed è un piacere farsi
catturare dalla ritmica dei Riptiders di
Tempio Pausania, giovane band che ha
avuto modo di mostrare tutto il proprio
valore al festival Reggae di Cargeghe.
I Riptiders, che nascono a Tempio nel
2011, sono: Marco Serra (voce solista),
Andrea Brandano (tastiere e cori), Mauro Mudadu (chitarra elettrica e cori),
Thomas Gordon (basso e cori), Fabio
Casula (percussioni e cori), Mauro Pes
(batteria) e non amano definire il loro
genere musicale. “È difficile per noi imbrigliare ciò che facciamo all’interno
di uno stile o di una corrente musical
e-spiegano - per questo, molto spesso,
preferiamo usare genericamente la parola Reggae e lasciare a chi ci ascolta la
41
testo di Pierpaolo Fadda
sfumature sonore
SIKITIKIS
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Jimi e Diablo
per scoprire lo straordinario mondo musicale dei
foto di Michela Medda
La colonna sonora della Sardegna
Quindici anni di carriera dedicata a infrangere le barriere della nostra coscienza
musicale. Microstoria di una band che ha scritto il nuovo inno del Cagliari Calcio
ANTAS
42
testo di Claudio Loi
Sono la colonna sonora di una città e di un continente ma
non professano nessuna ideologia esclusiva. Oltre 15 anni di
onorata carriera dedicata a infrangere le barriere della nostra
coscienza musicale. Sono la band che rappresenta nel modo
migliore i nostri tempi dove la Sardegna non è più un prodotto esotico da esportare e neanche uno scrigno da tenere sigillato. Abbiamo sentito Jimi e Diablo per fare il punto sulla loro
storia che è anche la nostra storia e quella dei nostri tempi.
Partiamo dall’inizio. La vostra storia nasce alla fine degli
Novanta del vecchio secolo con un gruppo che si chiama
CaniDaRapina, un nome programmatico che richiama l’estetica di Quentin Tarantino e svela la grande passione
per il cinema e la cultura italiana più disadattata.
(Jimi): Io e Diablo eravamo gli autori delle canzoni dei CaniDaRapina. I nostri vent’anni, la sbornia per il suono c.d. crossover; più che una band era una sorta di contenitore aperto
in cui confluivano influenze musicali, cinematografiche e letterarie, oltre che un gruppo di 6 amici. Splendidi ricordi e la
base di tutto ciò che è venuto dopo.
Nel 2000 diventate Sikitikis e continua la riscoperta dell’Italia più nascosta, del cinema di serie B, della
canzone italiana ma anche di generi
considerati più nobili come il jazz.
Si percepisce la voglia di sfondare il
muro che separa cultura alta e cultura bassa secondo gli standard più
ideologizzati del periodo. Il nome
comincia a circolare anche a livello
nazionale.
(Jimi): In realtà, nei primi due anni di attività, abbiamo lavorato esclusivamente in studio con pochissime esibizioni
dal vivo e sempre e solo in Sardegna.
In questo periodo continua la ricerca
musicale legata al cinema con sonorizzazioni di pellicole ed esibizioni
live. Nel 2004 iniziano le sessioni di
registrazione del vostro primo album sotto la guida attenta di Max
Casacci dei Subsonica di Torino, forse
non a caso una città che ha forti legami con il cinema.
(Jimi): Sì, è vero, il legame con Torino ci
è sempre suonato speciale. Forse corsi
e ricorsi storici lo rendono tale. La sonorizzazione dal vivo di pellicole (o
montaggi di immagini tratte da film) ci
caratterizzava parecchio in quel periodo. Da ricordare in particolare il nostro
“Omaggio a Petri e Volontè” che portammo all’Umbria Film festival e alla
rassegna “Lo sguardo ribelle”, organizzata al Teatro Jovinelli di Roma per il decennale della scomparsa di Gian Maria.
Fuga dal deserto del Tiki esce nel
2005 per Casasonica di Casacci e viene promosso con un lungo periodo
di esibizioni live in tutta Italia. Il suo-
Il disco colpì anche per la totale
assenza di chitarre, un’eresia nel
mondo del rock. Una casualità che
poi è diventata un vostro segno di
riconoscimento e la consapevolezza che nulla è sacro e immutabile.
Altra caratteristica della band è stata quella di curare i dettagli estetici
e la presenza sul palco con la scelta
di vestiti in bianco e nero e tagli che
rimandano al cinema poliziesco (Le
iene di Tarantino rimangono un punto di riferimento). Appaiono in questo periodo anche richiami alla scena
stoner e riferimenti espliciti ai diversi deserti del nostro immaginario (l’isola, il mare).
(Jimi): In quel periodo di laboratorio
aperto che ho citato prima abbiamo
lavorato tanto anche sul suono. La
mia passione era equamente divisa tra
musica da colonna sonora e rock’n’roll
(nella sua accezione più ampia). L’intento era di “sporcare” costantemente
il suono lounge con un’attitudine punk.
Nel frullatore finiva di tutto: da Morricone ai Queens of the Stone Age, ma i
testi in italiano ci obbligavano al confronto con la forma canzone; ecco il
perchè dei nostri omaggi a Celentano,
Mina, Enzo Carella, riletti alla luce del
suono di oggi.
Ancora cinema nel 2006. Enrico Pau
vi coinvolge per Jimmy della collina
43
Nel 2002 la K-Factor di Davide Catinari pubblica un vostro brano nella
compilation 4-Tones che segna l’esordio nel mondo discografico, un
mondo che avete sempre guardato
con estrema cautela.
(Jimi): Si, si trattava di “Il modo migliore”, la prima canzone che abbiamo
scritto. Definivamo il nostro stile come
lounge-core (o loungeabbestia, secondo la definizione del nostro amico ed
ex produttore Max Casacci). Fu la prima occasione di entrare in studio di
registrazione e avere una prima piccola
distribuzione. Partecipammo al MEI di
Faenza e, soprattutto, nacque il primo
link importante con lo studio Casa sonica di Torino, dove il disco fu mixato,
e con Max.
no della band è subito riconoscibile:
una miscela azzeccata di rock delle
origini, psichedelica, surf, hardcore,
funky, melodie nazionali (Celentano,
Mina) che scuote il panorama musicale italiano del tempo. Il rapporto
con Casacci fornisce inoltre la giusta
dose di esperienza e vi permette di
infrangere le barriere geografiche
dell’Isola.
(Jimi): Assolutamente sì. Considera
che eravamo dei trentenni abbastanza
smaliziati al loro primo disco, con tutta
l’eccitazione compositiva ed emotiva
che poteva conseguirne. “Fuga..” è, infatti, il disco al quale sono più affezionato, che mi riflette al 100%, pur con le
sue ovvie ingenuità. Indubbiamente la
distribuzione EMI e il fatto che rappresentasse il numero 00001 del catalogo
dell’etichetta Casasonica fecero si che
il disco e la band avessero una buona
esposizione e circolazione.
ANTAS
Stavamo sviscerando e interiorizzando
il sound delle colonne sonore, italiane
e non, degli anni ‘60 e ‘70 attraverso un
repertorio che andava da Nino Rota
ad Armando Trovajoli, dai fratelli De
Angelis a Piero Umiliani, da Alessandro Alessandroni a Ennio Morricone o
Elmer Bernstein. In tutto ciò il nostro
approccio era però non filologico o
tradizionale, ma sperimentale. Poi abbiamo cominciato a scrivere le prime,
irregolari, canzoni.
e sempre a Torino sonorizzate le immagini di Elio Petri, un vostro punto
di riferimento.
(Jimi): Jimmy della collina è importante perchè rappresenta il nostro primo
lavoro originale per il cinema. È stato
molto bello e stimolante e siamo riusciti abbastanza bene, secondo me, a
restituire in musica le atmosfere del
racconto di Carlotto. Inoltre la colonna
sonora contiene la primissima versione
della nostra canzone Piove deserto, brano molto amato dal nostro pubblico.
Il nuovo disco esce nel 2008, sempre
per Casasonica, dal titolo: B- Il mondo è una giungla per chi non vede al di
là degli alberi, con alcune novità importanti. La band decide di reagire
concretamente alla crisi discografica
ed economica saltando ogni forma
di distribuzione tradizionale ed affidandosi completamente alla distribuzione on-line e alla vendita del
supporto durante i concerti (spesso
fuori dall’Isola). Il prezzo del disco
è volutamente basso nonostante il
prodotto sia di alto livello. Ancora
una sfida al mercato.
(Diablo): Il nostro è stato un ragionamento semplice ed è partito da una
perplessità legata al rapporto fra il
prezzo di vendita dei dischi e l’effettivo
costo di realizzazione. Per stampare un
CD audio in grandi quantità sono sufficienti 2 euro, stando larghi. Il prezzo
di vendita di un disco, raramente è inferiore ai 12. Una band che vuole acqui-
In questo periodo (siamo nel 2009
circa) vi inventate il marchio Brain
Dept, un contenitore che permette
di diversificare le diverse anime del
gruppo e continua il flirt con il mondo del cinema con la realizzazione
della cover di Cuore matto di Little
Tony per la colonna sonora di Cosmonauta, film di Susanna Nicchiarelli. Si
palesa anche un nuovo interesse: il
teatro e la fortunata collaborazione
con le Lucido Sottile, nuova ed effervescente realtà teatrale cagliaritana.
(Jimi): Si, la nostra stessa natura ci porta da sempre alle collaborazioni. Brain
Dept. (Il Dipartimento Cervello) non fa
altro che istituzionalizzare una parte
della produzione dei Sikitikis, che da
questo momento differenziano nettamente la proposta pop da quella legata al cinema. Esempi del nuovo corso
sono le sonorizzazioni “Omaggio al
thriller italiano” (in tempi non sospetti,
ANTAS
44
foto di Shibuya
Nel 2007 tornate in sala di registrazione per il nuovo disco e allargate lo
spettro delle attività extra musicali
collaborando con Wu Ming a dimostrazione che non si può vivere di
sola musica. Casasonica pubblica un
EP dal titolo Rosso Sangue, preludio
al nuovo album.
(Jimi): La collaborazione con Wu Ming
si inserisce, in realtà, in una lista di collaborazioni precedenti, spesso nell’ambito del Marina Cafè Noir, festival di
letterature applicate che si svolge a
Cagliari da 12 anni. Nella fattispecie lavorammo con Wu Ming sull’audio book
e live performance del loro romanzo
“Manituana”. Bella esperienza, seguita
- prima e dopo - da altrettante collaborazioni con Francesco Abate, Massimo
Carlotto o, più recentemente, Marcello
Fois e Michela Murgia.
...abbiamo deciso
di optare per
una filosofia
“Kilometro zero” e
auto distribuire il
disco...
stare il proprio disco da rivendere ai live
o da regalare, lo deve acquistare dal
distributore a una cifra vicina ai 7 euro.
Noi abbiamo soltanto tenuto conto che
il 90% delle nostre vendite avveniva ai
banchetti del merchandising durante il
live. Fatti questi conti abbiamo deciso
di optare per una filosofia “Kilometro
zero” e auto distribuire il disco. Questo
ci ha permesso di venderlo a 6 euro. È
attualmente l’unico fra i nostri lavori
che ha avuto due ristampe.
prima che tornasse di moda riscoprire
i c.d. film di serie B) e “L’uomo con la
macchina da presa”, colonna del cinema moderno russo.
Le belle cose è l’ultimo album prodotto sempre con Manuele Fusaroli, registrato e mixato tra Guspini, Ferrara
e gli Abbey Road Studios di Londra e
pubblicato nel 2012. Un disco dove
si incontrano ancora una volta mon-
Il disco (oltre ai tre componenti storici Diablo, Jimy e Zico) presenta anche un nuovo batterista: Sergio Lasi
detto Lazy. Che è successo?
(Jimi): Non è successo niente di strano:
dopo 11 anni di collaborazione il batterista (e membro originale) Daniele Sulis
ha lasciato la band per dedicarsi all’at-
foto di Michela Medda
tività didattica. Conoscevamo Sergio, e
anche lui ci seguiva da tempo, perciò ci
è sembrato naturale provarlo. La risposta è stata positiva e immediata.
Nel 2014 avete composto il nuovo
inno del Cagliari Calcio. Un’operazione popolare che vi spedisce direttamente tra le braccia della folla e dei
sentimenti più intimi della Sardegna
dopo tanti anni di voli intercontinentali.
(Diablo): Credo che ancora sia il caso
di parlare di “canzone” più che di inno.
Il motivo è semplice. L’inno è una canzone che la gente ha preso a simbolo
e durerà nel tempo. E per questo c’è
bisogno di tempo. Se così sarà, credo
potrebbe diventare l’apice della nostra
carriera in termini emotivi. Sarebbe bellissimo fra 20 o 30 anni, quando i Sikitikis saranno solo il ricordo di qualche
appassionato di musica, andare allo
stadio e sentire quella canzone cantata
da tutti.
45
Nel 2011 continua l’esperienza con
Lucido Sottile, si lavora a nuove composizioni e si cura in modo particolare la parte video con la riuscita collaborazione con il team Shibuya. Inoltre i singoli componenti della band
sono spesso impegnati come dj in
nei club cagliaritani, un’esperienza
che nel tempo diventerà sempre più
assidua.
(Jimi): In realtà la mia esperienza come
selecter precedeva i Siki ed è, anzi, importante per il tipo di approccio che mi
ha dato nel fare musica. Al momento
sto portando in giro il mio dj set “CinematiCA”, totalmente basato su selezioni
da colonne sonore e vintage music.
di apparentemente
lontani: la canzone
italiana classica e le
nuove correnti rock
internazionale. Un
lavoro che nasce e
si sviluppa con l’interazione dei social
network e che è
scaricabile gratuitamente dalla rete.
(Jimi): Le belle cose è
stata
un’esperienza
eccezionale: sin dall’inizio il progetto si è
fortemente radicato
nei social networks,
trovandovi spazio e
condivisione. Musicalmente è un disco
nel quale abbiamo tracciato la nostra
personale via al pop: una ricetta saporita, ma non troppo speziata, in cui convivono la scrittura della forma-canzone
italiana, il suono dei produttori moderni che ci piacciono (Pharrell Williams
su tutti) e un gusto vintage nell’arrangiamento. La fase di mastering presso
i mitici Abbey Road studios è stata la
ciliegina sulla torta e ci ha permesso di
conoscere e vedere in azione Sean Magee, ingegnere del suono che ha lavorato con gente del calibro di Pink Floyd,
Beatles e Blur.
ANTAS
Nel 2010 si lavora al nuovo album
(questa volta senza Casasonica ma
con la label Infecta con distribuzione
Universal) che verrà chiamato Dischi
Fuori Moda con la produzione di Manuel Fusaroli. Un disco che Blow Up
definisce “synth pop ovvero solido
rock dalle tentazioni cantautoriali e
dalle venature punkettose”. Altri ancora lo hanno definito un disco fatto
pensando a Battisti citando Madonna. In ogni caso un disco fresco, travolgente, vintage e contemporaneo
allo stesso tempo senza nessuna remora culturale.
(Jimi): Un disco di transizione, nel quale
due anime dei Siki – quella punk degli
esordi e quella pop che si affaccia prepotentemente – cercano una convivenza difficile.
(Diablo): Dischi Fuori Moda è un disco
che incorpora una particolare magia,
per quanto mi riguarda. Un lavoro in
cui sento ancora lo spirito straordinario
che si è formato durante le fasi di scrittura, arrangiamento e registrazione.
Credo sia il disco dove la band ha trovato la perfetta sintesi fra scrittura col
nervo scoperto e suono pop.
foto di Nico Salis
focus cinema
A tu per tu col regista sardo
impegnato nel montaggio
del suo ultimo lavoro
cinematografico
GIANFRANCO
CABIDDU
Il nuovo film “La Stoffa dei sogni” girato
nell’isola dell’Asinara
Shakespeare e Eduardo De Filippo come fonte d’ispirazione.
Il regista: ”Esperienza molto positiva, è una storia che mi portavo dietro da
tanto tempo e alla quale tenevo moltissimo”.
Nel cast Ennio Fantastichini e Sergio Rubini
ANTAS
46
testo di Valentina Pintor
Gianfranco Cabiddu è uno dei massimi esponenti del cinema
sardo. Una carriera prestigiosa la sua, che vanta importanti riconoscimenti: l’ultimo il Premio Maria Carta, conferitogli il 7
settembre a Siligo, paese natale dell’artista sarda. Abbiamo
incontrato il regista proprio in questa occasione per parlare
con lui del suo ultimo film, girato nell’incantevole isola dell’Asinara: La stoffa dei sogni.
Siamo alla 12esima edizione del Premio Maria Carta: che
ricordo hai di questa grande donna con la quale hai lavorato nel tuo primo lungometraggio del 1989, Disamistade?
Maria è stata una sorta di sorella maggiore che mi ha in qualche modo accompagnato, sostenendomi anche psicologicamente. Quando l’ho conosciuta ero molto giovane, mentre
L’Asinara come l’isola incantata
dell’opera shakespeariana: quanto
ha di magico questa terra? Perché
hai scelto di girare il tuo film proprio
lì?
L’Asinara ha un enorme potenziale magico: è un’isola meravigliosa e terribile
allo stesso tempo. Credo che tra i mem-
IL CAST DE “LA STOFFA DEI
SOGNI”
Sergio Rubini, Ennio Fantastichini, Alba
Gaia Bellugi, Renato Carpentieri, Teresa
Saponangelo, Ciro Petrone, Francesco Di
Leva, Nicola Di Pinto, Adriano Pantaleo,
Lino Musella, Maziar Firouz, e con la
partecipazione straordinaria di Luca
De Filippo figlio del grande Eduardo
De Filippo, Jacopo Cullin, Giampaolo
Loddo, Fiorenzo Mattu, Carlo Valle,
Vanni Fois, Giammaria Deriu e Michele
Cabizzosu.
bri della troupe non ce ne sia stato uno
che non abbia subito punture di vespe
o zecche! Ma nonostante questo sono
rimasti tutti amaliati: l’isola è imprescindibile, come un personaggio del film:
uno dei motivi principali per cui l’ho
scelta, lottando con le unghie e con i
denti per arrivarci, è perché a questa
terra è legato un grande pezzo di storia
del Novecento italiano: la Prima Guerra
Mondiale con i suoi prigionieri, le guerre coloniali, la Seconda Guerra Mondiale, i sanatori, le BR, la mafia... Si può
raccontare il mondo anche dalla Sardegna e non per forza raccontare solo ciò
che è, per così dire, geneticamente di
Sardegna.
Hai scelto due topoi abbastanza diffusi in letteratura: il naufragio e l’isola semi deserta. L’ambientazione, in
particolare, caratterizzata dall’iso-
47
Nel film una compagnia di teatranti e camorristi naufraga sulle coste
dell’isola dell’Asinara. La tempesta di
Shakespeare e L’Arte della commedia di Eduardo De Filippo sono state due evidenti fonti di ispirazione.
In che modo l’attore napoletano ha
influenzato la visione e la genesi del
tuo film?
Mi interessava moltissimo servirmi di
Shakespeare per raccontare anche un
pezzo della storia della Sardegna dal
un punto di vista particolare di un’isola
come l’Asinara: un’isola-carcere. L’idea
dell’isola colonizzata, contenuta nell’opera di Shakespeare, era uno spunto
interessante per riflettere, senza usare
slogan “politici”, ma rimanendo fedelissimi al testo shakespiriano, un pezzo
di storia sarda, di occupazione di una
terra, di esproprio. Il tutto veniva a intersecarsi con l’idea di voler raccontare
la distinzione del vero dal falso, tra chi è
veramente attore e chi non lo è. Le parole di Shakespeare sono ancora oggi
molto attuali e, al tempo stesso, era
per me naturale ricollegarmi e riuscire
a portare in scena qualcosa di simile a
ciò che avevo fatto da ragazzo insieme a Eduardo De Filippo. Ho avuto la
fortuna di lavorare per lui per sei anni,
e tra le tante cose anche alla versione
audio proprio della Tempesta. Questo
impriting - e specialmente il testo della
commedia -che lui stesso ha tradotto in
napoletano antico e che io ho seguito
passo per passo- mi sembrava contiene
una grande verità rispetto all’uso della
lingua, una lingua madre “naturale” per
la recitazione, e quindi potesse essere
anche una sorta di omaggio al genio di
Eduardo. Shakespeare scrive parole che
prendono vita se recitate in scena, parla
di cose, di uomini ma spesso si tende a
museificarlo, mentre la forza di Eduardo è stata squisitamente linguistica:
tradurre l’opera shakespeariana nella
propria lingua, che suona e funziona in
scena. L’aspetto linguistico era uno di
quelli che mi stava molto a cuore, anche in relazione alla Sardegna.
ANTAS
Hai appena terminato di girare il tuo
ultimo film, La stoffa dei sogni, che
vede la partecipazione, tra gli altri,
di Sergio Rubini ed Ennio Fantastichini: un cast d’eccezione. Com’è stata questa esperienza lavorativa?
È stata molto positiva, perché è una
storia che mi portavo dietro da tanto
tempo e alla quale tenevo moltissimo.
La particolarità del copione – la sua
ambientazione particolare insieme
all’amicizia che mi lega da anni ad alcuni attori ha fatto sì che riuscissimo a
mettere in piedi, in maniera direi eccezionale, un equipaggio che ha accettato di compiere un’avventura estrema:
abbiamo girato all’Asinara vivendo per
tutto il periodo delle riprese sul posto,
con la linea internet che funzionava a
singhiozzi, così come la rete dei cellulari. Così dovrebbe essere un film: un
viaggio in barca dove si tira su l’ancora
e si salpa per andare in mezzo al mare,
senza tutti gli appigli della routine quotidiana, di una situazione normale. Direi che tutto questo è un vantaggio per
un regista.
foto di Giovanni Salis
lei era già una interprete musicale di
prima grandezza e un’attrice affermata: aveva lavorato con Rosi, Zeffirelli e
anche con Coppola ne Il Padrino, oltre
ad aver fatto teatro. La sua esperienza
e il suo coraggio mi hanno aiutato a delineare l’archetipo di madre portata in
scena nel mio film: una sorta di madre
mediterranea, figura importantissima
in rapporto alla storia che intendevo
raccontare.
ANTAS
48
foto di Gilles Cannatella
lamento, ha influito sulla psicologia
dei personaggi?
La tempesta racconta già tutto e non
escludo, in un moto di affetto, che la
rotta che traccia Shakespeare e l’isola
di cui parla potesse essere proprio la
Sardegna, perchè il tragitto va da Tunisi a Napoli. Mi piace pensare che abbia
pensato proprio a noi. Quindi l’ambientazione ha influito moltissimo, perché
l’Asinara è un’isola fuori dal mondo
dove abita Calibano, che parla un’altra
lingua ed è il proprietario dell’isola poi
occupata da Prospero, che a sua volta è
lì esiliato. Rende molto profondamente
l’idea del destino dell’uomo, perché se
è vero che la pacificazione che caratterizza La Tempesta, la risoluzione dei
nodi, la vittoria dell’umanità e del perdono sulla vendetta sono importanti
in generale, per un’isola “chiusa” sono
ancora più importanti. Tutti devono
farsi perdonare qualcosa: così come coloro che hanno isolato Prospero dopo
averlo defraudato del suo regno ed
esiliato, è Prospero stesso a dover farsi
perdonare di aver rinchiuso nell’isola
...in realtà il suono
e la musica per
me hanno un
ruolo importante:
ho iniziato come
musicista...
la figlia Miranda e aver assoggettato
Calibano e Ariele, suo schiavo. Liberare
queste persone e liberare se stessi sono
concetti veicolati in tutta La Tempesta
e questo ha rappresentato per me un
elemento-guida. Paradossalmente, è il
film più politico che abbia mai girato
sulla Sardegna.
Durante la tua lunga carriera hai ricoperto diversi ruoli, da quello di regista a sceneggiatore, e ti sei cimentato in vari generi cinematografici: dal
drammatico Disamistade a Il figlio di
Bakunin, Disegno di Sangue fino al
documentario Passaggi di tempo e
Sonos ‘e memoria.
In realtà il suono e la musica per me
hanno un ruolo importante: ho iniziato
come musicista. Sono laureato in Etnomusicologia con una tesi sui rituali
di possessione in India... Tutto un altro
pianeta. Contemporaneamente ho lavorato a lungo in teatro e sono arrivato
al cinema occupandomi di documentari etnografici, sempre seguendo la
linea dell’antropologia. Pian piano ho
iniziato a usare la finzione per raccontare storie, con una forte componente antropologica. Ho incrociato i due
aspetti nello spettacolo Sonos et Memoria, film di montaggio con immagini di
repertorio della Sardegna dagli anni ‘20
agli anni ‘50 accompagnate da musicisti che suonavano dal vivo. In seguito
ho incrociato i miei due amori, cinema
e musica, e ho fatto un documentario,
Passaggi di tempo. Mi divido un po’ ma
la mia natura è, in fondo, quella di musicista.
Da dove nasce l’esigenza di sperimentare per un’artista?
Forse dalla curiosità verso l’umanità e
da un rifiuto inconscio della carriera. Ho
sempre voluto fare cose nuove, incontrare altra gente. Non mi è mai interessato il meccanismo in base al quale se
faccio questo e funziona lo rifaccio: ero
molto più curioso di nuove avventure,
avere altre esperienze. In questo Maria
Carta è stata un esempio: l’ho vista a
teatro, al cinema, l’ho sentita cantare,
scriveva poesie meravigliose e ha scritto
anche saggi antropologici. Sono la curiosità e la voglia di toccare altre corde
che ti spingono ad avventurarti e a non
fossilizzarti sulla routine.
per la musica, essendo artisti validissimi
e per fortuna diversi, che questi concorressero insieme e potessero creare una
sorta di polifonia, rendendoci in questo
modo tutti più ricchi. Criticare frettolosamente, dire Facciamo solo Cannonau o
solo Vermentino non rende più ricchi, ma
più poveri e molto più omologati.
La stoffa dei sognI. Shakespeare, proprio ne La tempesta, affermava: “Siamo fatti anche noi della stessa materia di cui sono fatti i sogni”. È ispirandoti a questa frase che hai scelto il
titolo del tuo film?
Sì, moltissimo. Un po’ perché evanescente, un po’ perchè “sognato” e inafferrabile. Anche dai noi sardi, perchè no?
Quando è prevista l’uscita del film?
Abbiamo appena iniziato a montarlo e
riusciremo a finirlo non prima di gennaio. Vedremo poi che vita avrà: se verrà
presentato in un festival o uscirà prima
nelle sale.
ANTAS
49
foto di Gilles Cannatella
Se ti dovessimo far scegliere i due film
del panorama cinematografico sardo
passato e presente che apprezzi di
più, cosa risponderesti?
Ce ne sono molti, due sono pochi. Ma
imprescindibile è sicuramente a Banditi
a Orgosolo, che ci ha regalato la forza di
un racconto epico. E poi c’è Padre padrone, che ho apprezzato molto ed è stato
importantissimo per me. Penso che la
forza di una cultura, in questo caso quella della Sardegna, stia nella sua diversificazione. Per fare un paragone pensiamo
al vino: la sua forza è emersa quando
abbiamo capito che ne esistono tante
varietà e che queste sono in grado di arricchirci. Così come, se facciamo un parallelo con la musica, ne esistono tante
sfaccettature. Maria Carta, ad esempio,
cantava in logudorese, ma anche in campidanese. Il difetto che possiamo avere è
pensare che uno vale più dell’altro e che
il Cannonau sia più buono del Marsala o
del Vermentino: allora si potrebbe pensare: Facciamo solo Vermentino. Giovani
registi si stanno affacciando al mondo
del cinema e hanno avuto riscontri importanti: da Pau, a Mereu, a Columbu,
con esiti diversi l’uno dall’altro, anche
molto distanti rispetto a ciò che ho fatto io. Mi piacerebbe, come per il vino e
foto di Baromatta
focus teatro
50
ANTAS
Il direttore artistico
Giancarlo Biffi racconta
i 32 anni di attività
CADA
DIE
TEATRO
Testo di Matteo Mazzuzzi
Il teatro contemporaneo che punta sull’innovazione
L’ATTORE AL CENTRO Ma quali sono
gli elementi della poetica di Cada Die
che hanno fatto la fortuna del gruppo? La strada scelta è il teatro di ricerca e della contemporaneità che punta
all’innovazione: «Anche portando in
scena Antigone bisogna tenere conto del
contesto in cui si vive, cercando di far interagire il teatro con le contraddizioni del
moderno e puntando a raccontare qualcosa di importante». Il concetto di base
è uno, la centralità dell’attore: «Uno
spettacolo teatrale può fare a meno di
tante cose: scenografie, costumi, musica,
luci, testo. L’unica cosa che non può mancare è l’attore, che non è mai servo di scena. Alcuni dicono che il teatro sia morto:
forse non è l’arte più in voga, ma finché
ci sarà uno spettatore che vuole ascoltare
una storia ci sarà sempre un attore pronto a soddisfarlo».
SARDEGNA E ITALIA La programmazione di Cada Die Teatro abbraccia
tutti i contesti geografici: regionale,
nazionale, internazionale. Gioiello della programmazione regionale, ma con
l’ambizione di un confronto sempre più
nazionale e internazionale, è il “Festival
dei Tacchi”, esempio virtuoso di un teatro capace di raggiungere il territorio.
Biffi ne racconta la genesi: «Quando
abbiamo ricevuto i finanziamenti ministeriali per progetti di innovazione e contemporaneità abbiamo pensato ai due
punti più disagiati dell’Isola: il Sulcis e
l’Ogliastra. Abbiamo scelto quest’ultimo
per una serie di ragioni. In primo luogo,
alcuni di noi sono originari della zona.
Inoltre, a differenza del Sulcis, l’Ogliastra
non è mai stata industriale: è il luogo più
selvaggio della Sardegna, un’isola nell’Isola. In più abbiamo avuto la fortuna
di trovare politici locali intelligenti che
hanno scommesso sulla nostra proposta». Tale combinazione di fattori ha
consentito di proporre un’idea di teatro
e di Sardegna differente, rendendo un
servizio culturale, economico e pubblicitario al territorio ogliastrino.
A livello nazionale Cada Die Teatro è
riconosciuto dal Ministero per i beni
e le attività culturali come compagnia
di teatro di ricerca. Nonostante alcune
difficoltà legate all’insularità, i rapporti
con le compagnie della Penisola sono
ottimi. Ne è un esempio l’Øscena Festival, un progetto condiviso con il Teatro
Stabile della Sardegna e nato dall’esigenza di esplorare quel che si muove
nei più giovani teatri delle altre regioni
d’Italia: «La manifestazione di quest’anno, prevista tra il 10 e il 12 ottobre, ospiterà sei compagnie siciliane - spiega
Biffi -. Pur essendo solo un antipasto
del movimento teatrale siciliano offre la
possibilità di verificare lo stato dell’arte
in altri contesti, verificando differenze e
uniformità».
LE PROSPETTIVE INTERNAZIONALI
Anche il contesto internazionale sta
aprendo nuovi scenari grazie al progetto teatrale “Meeting the Odyssey” che
coinvolge soggetti di altre 10 nazioni
europee, dal Mar Baltico al Mar Mediterraneo. Si tratta di una manifestazione europea articolata in tre anni, in cui
un equipaggio artistico internazionale
alla guida del veliero estone “Hoppet”
darà vita a un’Odissea contemporanea
che approderà in 20 porti d’Europa
fino a raggiungere Itaca: «Incontreremo
migliaia di person, e porteremo in scena
le storie dei luoghi. L’anno prossimo toccherà a noi curare una delle grosse produzioni internazionali che faremo debuttare nella prossima edizione del Festival
dei Tacchi». Con Hoppet attraccata al
porto di Arbatax, Cada Die è pronta al
viaggio e a sentirsi ambasciatrice della
Sardegna in Europa.
BIOGRAFIA
Il Cada Die Teatro nasce a Cagliari nel
1982. Lavorando per un teatro che fosse il
più vicino possibile alla realtà, la compagnia
ha individuato nella centralità dell’attore
l’elemento principale della sua poetica
teatrale. In quest’ottica il tentativo di
costruire un teatro “popolare” ha portato
all’analisi di tematiche forti e vicine al
vissuto, espresse con linguaggio semplice
ma senza abbandonare la ricerca di nuovi
modelli di comunicazione. Di particolare
rilevanza è la produzione per il teatroragazzi, nata con il desiderio di confrontarsi
con una comunità, quella dei bambini e dei
ragazzi, eccezionale per attitudine all’ascolto
e immediatezza delle risposte.
51
democratico permette di occupare un
territorio artistico molto vasto.
ANTAS
foto di Barbara Locci
foto di Marina Magri
Cada die. Un’idea di rinnovamento
continuo, quotidiano, come il fiore
che si cambia in tavola ogni giorno:
«È il pensiero che sta dietro il nostro
lavoro. Un teatro contemporaneo, non
statico, che sceglie di vivere ogni giorno
come l’ultimo. Dopo 32 anni posso dire
che questa filosofia ha pagato». Quando
parla di Cada Die Teatro, la compagnia
di cui è direttore artistico, Giancarlo
Biffi è raggiante. Da quel 1982, anno di
fondazione del gruppo teatrale, la strada percorsa è tanta. Cada Die ora è una
cooperativa che dà lavoro a 17 persone,
gestisce il centro d’arte e cultura “La Vetreria” a Pirri, manda avanti una scuola
di arti sceniche e organizza attività di
teatro a livello regionale, nazionale e
internazionale con oltre 120 repliche
all’anno. Ma all’inizio c’era solo un insieme di amici che voleva fare teatro: «Arrivai in Sardegna nel novembre del 1981
per lavorare a una tesi di laurea sul teatro
in Sardegna - racconta Biffi - e poco tempo dopo conobbi Pierpaolo Piludu, Zelinda Roccia e gli altri. Decidemmo di fare
teatro professionalmente e, non avendo
un teatro, iniziammo con un progetto di
spettacoli da fare in strada per cavalcare
quest’arte come mestiere». Nella compagnia convivono stabilmente i mille
volti dell’arte teatrale. C’è chi lavora con
i ragazzi disabili, chi fa ricerca sui bombardamenti a Cagliari, chi fa teatro per
i bambini. E proprio questo principio
focus teatro
foto di Gian Marco Porru
Vi presentiamo
l’estrosa compagnia
teatrale sassarese
Comicità esilarante e impegno sociale
BOBÒSCIANÈL
ANTAS
52
testo di Mary Manghina
Il mio incontro con i BobòScianèl risale a un paio di anni fa.
Un sabato sera invernale, uno dei tanti in cui si cerca sempre
un’alternativa valida per spezzare la routine quotidiana della
settimana. Ed è così che mi ritrovai a partecipare a una delle
loro “cene con delitto”. Una casualità che mi lasciò profondamente colpita dalla loro capacità e competenza nel saper
coinvolgere e divertire il pubblico con semplicità e naturalezza quasi disarmanti. I BobòScianèl nascono formalmente nel
2008, principalmente dall’idea dei due fondatori, Laura Calvia
e Daniele Coni, reduci da una precedente collaborazione che
risale al 2002. La formazione attuale è composta anche da
Luca Dettori, Carlo Valle, Antonella Masala, Valentina Sanna
e Tiziana Santercole. Ogni componente ha alle spalle esperienze e un percorso formativo articolato e in continua evoluzione. Ed è proprio questo che distingue nettamente i Bobò
Scianel nel panorama artistico teatrale isolano.
L’IMPEGNO NELLA FORMAZIONE
Oltre a essere interpreti e autori dei propri spettacoli (Daniele
Scianel, per molti aspetti determinanti
nella riuscita della rappresentazione.
Da maggio a settembre si sono svolte
varie repliche, tutte con un successo di
pubblico assoluto.
IL TEMA DEL FEMMINICIDIO
Ma da bravi interpreti e attori i BobòScianel sanno anche affrontare e portare
in scena testi più impegnativi e drammatici, che toccano temi sociali tristemente attuali come il femminicidio. Ed
è con “Una grande storia d’amore”, scritto sempre da Daniele Coni e interpretato da Laura Calvia, che nel marzo scorso, a Ozieri, in anteprima per l’incontro
“Racconti di donne”, hanno dato prova
di grande capacità artistiche, lasciando
un commosso consenso in platea.
Attesissime le prossime date, il 16, 17 e
18 dicembre al Teatro Civico di Sassari,
dove potremo vedere in scena l’ultima
creazione di Daniele Coni ancora, peraltro, in fase di scrittura. Laura ci anticipa
qualcosa riguardo la trama: l’ambientazione è una boutique di un famoso
brand internazionale, dove si evolve
una storia di intrecci tra commessi e
clienti; tutto sempre arricchito da comicità e ilarità, in perfetto stile Bobò
Scianel. Anche in questo caso vedremo
interpreti alcuni allievi dei corsi.
Brevi cenni biografici: Laura Calvia e
Tiziana Santercole sono laureate in arti
drammatiche presso l’Accademia Internazionale “Circo a Vapore” di Roma;
sia Daniele Coni che Laura Calvia hanno frequentato diversi corsi in Italia e
all’estero con Philippe Gaulier, Michael
Margotta, Emmanuel Gallot Lavallèe,
Ted Kaiser, Malaki Bogdanov, perfezionando e approfondendo metodologie
e tecniche. Tutti gli altri componenti
provengono da esperienze pluriennali
in diversi palcoscenici e da varie formazioni precedenti.
53
te architettata dagli stessi stravaganti
inquilini e da un’arcigna portiera. I testi
sono interamente scritti e curati da Daniele Coni e la regia è di Laura Calvia.
COMICITA’ ESILARANTE E GUSTO
DELL’IMPROVVISAZIONE
Le loro performance, rappresentate
un po’ in tutta l’Isola, hanno sempre
lasciato il segno. La comicità esilarante
e la capacità di portare avanti un testo,
sfociando spesso in improvvisazioni
sempre attinenti e divertenti, rendono
ogni spettacolo unico. Ed è forse per
questo che ogni appuntamento a teatro è sempre un sold out assicurato! Negli ultimi quattro anni la compagnia ha
messo in scena - si contano più di 400
repliche - una serie di spettacoli incentrati nel ramo del giallo e del delitto con
“Messaggio dal mondo dei morti” e “Il
giorno più bello”, che trovano originalità assoluta nel fare del pubblico parte integrante della rappresentazione.
Si tratta, infatti, di uno spettacolo che
si svolge all’interno di una cena vera
e propria, in cui gli spettatori sono gli
stessi commensali ai quali si mescolano
e integrano gli attori, coinvolgendoli e rendendoli parte integrante della
commedia. Una rivisitazione personale
del classico “week end con il morto” tra
sotterfugi, segreti inconfessabili, porte
che cigolano e battute divertenti; tutto
condito da un’immancabile ironia. Ci
sono poi, naturalmente, trasposizioni
teatrali come “Nessuno escluso”, “Il giorno più bello” e “Delitto dall’aldilà”.
Fra gli ultimi lavori da ricordare “Gulash
& Camomilla”, commedia ambientata
negli anni ’50 che parte dalle quinte di un vecchio teatro in decadenza,
dove tre attori si apprestano a portare
in scena un melodramma. Una nota
di merito va anche a Mattia Enna che
cura le scenografie e i costumi dei Bobò
ANTAS
Coni è autore della maggior parte delle
rappresentazioni portate in scena dalla
compagnia), i BobòScianèl si propongono come punto di riferimento anche
per la formazione di giovani attori professionisti. La loro, infatti, non è semplicemente una passione, ma anche e
soprattutto un impegno, un lavoro per i
quali sono costanti la preparazione personale e la formazione che, con competenza, sanno insegnare a chiunque
voglia avvicinarsi con consapevolezza
al teatro. La dimostrazione della loro
capacità di essere non solo attori professionisti ma anche validi insegnanti
è data dalla stessa Valentina Sanna,
“reclutata” proprio attraverso i corsi di
formazione teatrale privati. A parte diversi laboratori tenuti fin dagli esordi
per conto di scuole ed Enti regionali, è
già da circa tre anni che i membri della
compagnia ripropongono i loro corsi
privati aperti a tutti (principianti e non),
che riprenderanno anche quest’anno
a ottobre con l’introduzione di un livello avanzato, dedicato proprio a chi
li segue da più tempo e ha già acquisito le nozioni basilari. La fine di ogni
percorso “scolastico” è contraddistinta
da una rappresentazione in cui gli interpreti sono gli stessi allievi (chiamati
affettuosamente da Laura “scianellini”)
come accaduto per le sessioni passate, durante le quali è stato portato in
scena “Recitando gli stili”, costruzione
di cinque corti teatrali per cinque stili
distinti: tragedia, melodramma, farsa,
commedia romantica e realismo moderno; lo stesso numero di attori per
ogni corto, in apparenza la narrazione
di storie differenti, ma in realtà con lo
stesso identico testo. E ancora “Condominio 123”, che racconta le ultime ore
di vita domestica di un intero palazzo
prima di una catastrofe, coscientemen-
focus tradizioni
Un nuovo tesoro discografico
nel paese del Mejlogu
Successo della nuova
pubblicazione della Pro Loco
ANTAS
54
testo di Pierpaolo Fadda
La copertina racchiude l’essenza dell’arte ed ha un impatto di
straordinaria bellezza. L’opera “Cavalli nei Serrenti” del grande
Aligi Sassu apre con un atmosfera di giochi e colori lo scrigno
dei tesori della musica e cultura di Thiesi, che si apre a tutta
la Sardegna per regalarci una nuova perla preziosa. E’ il Cd
“Cunsonos de Tiesi”, una raccolta , che vede protagonisti Su
Cunsonu Thiesinu, Su Cunsonu Santu Juanne e Su Cunsonu
Nostra Segnora de Seunis, ha il potere di valorizzare uno dei
tanti “siddados” tipici del paese, il canto a più voci che a Thiesi viene chiamato “A Cunsonu”. “Thiesi, a differenza degli altri
paesi del circondario, ha mantenuto questa modalità espressiva antica e melodiosa conservando forme musicali uniche,
quali sa maestralina: ciò è potuto accadere per il perseverare
nel paese di un’altra passione e capacità artistica, quella di
comporre versi di riflessione ma soprattutto estemporanei - a
bolu-, per le cui gare era indispensabile l’accompagnamento di un coro e, dunque, la musica e il canto si presentavano
come un mezzo al servizio dell’espressione poetica”. Lo scrive
la presidente dell’attivissima Pro Loco Giovanna Chesseddu
nella presentazione dell’importante lavoro discografico, pro-
Cunsonu Tiesinu
Cunsonu N. Segnora de Seunis
2) Cunsonu S. Juanne
Boghe de note 3:42
Su dillu 2:19
Sos tres res 4:57
Maestralina 4:39
3) Cunsonu N. Segnora de Seunis
Boghe de note 3:43
Mutos 3:01
Maestralina 5:38
Gosos de N. Segnora de Seunis 3:08
4) Frammenti
Boghe de note (T. Soro, D. Serra, P.
Uneddu, G. Pala). 1975 2:42
Maestralina (A. Ninniri, G. Spissu, F.
Ruda, A. Melone) 1961 01:35
Mutos (F. Carta, L. Vargiu, T. Canu, N.
Uneddu) fine anni ’70 1:16
55
IL DISCO CUNSONOS DE TIESI
1) Cunsonu Tiesinu
Boghe de note 3.36
Maestralina 5:01
Su ballu cantadu 3:21
Gesus in allegria 2:53
ANTAS
LA RACCOLTA
La raccolta Cunsonos de Tiesi è costituita dal repertorio diffuso ovunque:
sa Boghe de note, sos mutos, Sos Tres
Res, Gesus in allegria e dal canto tipico,
sa maestralina; a questi si aggiungono
Sos Gosos de Nostra Segnora, su ballu
cantadu e su dillu, per ricordare una tradizione dimenticata, dato che in questi
ultimi decenni a Thiesi il ballo veniva
accompagnato da voce, chitarra e/o fisarmonica.
Il CD documenta quanto questa modalità canora sia stata e continui ad essere
radicata nel paese: accanto a frammenti di registrazioni amatoriali del passato,
fatte in circostanze del tutto casuali e
improvvisate, proponiamo le interpretazioni dei tre cori attualmente in attività che, nell’occasione, hanno scelto di
cantare testi di autori Thiesini. Tutti, fin
da ragazzi, hanno frequentato e cantato insieme agli adulti seguendone le
orme e così coltivano e tramandano la
stessa passione che ha radici lontane: di
canti, suoni, vita e amicizia, cunsonantzia appunto.
Cunsonu S. Juanne
dotto dalla stessa Pro Loco, registrato
da Sandro Fresi negli studi “Sa Punta” di
Thiesi nel Maggio del 2014, mixato da
Mario Francesconi nello studio Ziqqurat, mentre il segretario di produzione è
Bastiano Lai, grande esperto di musica
a cui si deve la primogenitura di questa
importante produzione discografica
destinata a rimanere nella storia thiesina. Anche perché da sempre, in paese
“le occasioni per poetare/cantare non
mancavano: quelle canoniche quali
l’ultimo giorno dell’anno e l’Epifania,
ma anche feste familiari, patronali o
relative al lavoro come ad esempio la
tosa delle pecore. Non erano esibizioni di gruppi organizzati ma cori spesso
costituitisi al momento, espressione del
piacere di cantare tra amici e amatori: di
fatto però, costituivano anche parte di
quella “scuola impropria” così chiamata
da M. Pira – costituita dal paese stesso
- che educava davvero, poiché introduceva i giovani nella realtà, tramandando valori, modi di essere, tecniche del
fare. Dunque scuola di vita e di lavoro
ed anche di poesia e canto: i giovani
ascoltavano, imparavano dagli adulti
che, mentre armonizzavano e affinavano i loro ruoli nel coro, li invogliavano e
indirizzavano”.
CLAUDIA
CRABUZZA
Una voce sarda al Premio Tenco
foto di Piergiorgio Annichiarico
focus eventi
La cantante
algherese si esibirà
come ospite
ANTAS
56
testo di Giovanni Salis
Avrà un sapore isolano la prossima edizione del Premio Tenco (la 38°) dedicata alla canzone d’autore, in programma
dal 2 al 4 Ottobre al Teatro del Casinò
di Sanremo, organizzata dal Club Tenco che quest’anno avrà per tema “le
Resistenze” (resistenze al potere, chiaramente, ma anche nell’arte, nella
musica, nella creatività, nel costume,
nel linguaggio), con la presenza fra i
protagonisti della cantante algherese
Claudia Crabuzza. Un traguardo prestigioso e un sogno che si realizza, quello
raggiunto dall’apprezzata interprete
sarda che, da spettatrice appassionata
di musica d’autore, aveva partecipato a
diverse edizioni passate, sia per la storia
e l’importanza di questo premio nato
nel 1974 per omaggiare il talento di
Luigi Tenco (scomparso tragicamente
il 27 gennaio 1967), sia per la presenza
di una serie di importanti artisti invitati a prendere parte alla rassegna che
quest’anno rendeva omaggio a grandi
autori internazionali. Claudia Crabuzza,
infatti, si esibirà come ospite d’eccezione (accompagnata da una formazione
residente e insieme al cantautore catalano Enric Hernaez) in cartellone con
artisti del calibro di Vinicio Capossela,
Eugenio Finardi, Pierpaolo Capovilla,
Dente, Brunori Sas, Paola Turci, Dioda-
to, Chiara Civello, Alessio Lega, Têtes
de Bois e tanti altri. La partecipazione
al Tenco rappresenta un importante
riconoscimento per la cantante algherese co-fondatrice del gruppo dei Chichimeca, giunta a questo traguardo
dopo un lungo e significativo percorso artistico iniziato nel lontano 1982,
quando aveva solo 7 anni e già cantava
nel coro Giovani Solisti di Alghero diretto dal maestro Paolo Ligia di Sassari,
passando per il classico pianobar, attraverso poi l’esperienza formativa con i
Tazenda (sua la voce per due stagioni
dal 2000 al 2001), sino alla realizzazione
di un progetto personale e unico come
quello del gruppo dei Chichimeca,
co-fondati nel 2000 e con all’attivo tre
cd dal 2002 al 2012: Barbari, Luce-Nur
e l’ultimo Cuore?. Altri riconoscimenti
sono venuti dalla realizzazione di diversi progetti artistici dedicati a grandi
autori sudamericani quali Victor Jara,
Violeta Parra o Atahualpa Yupanqui, tra
cui “Violeta Azul” (che gli è valso il Premio Maria Carta insieme alla chitarrista
Caterina Fadda), e di importanti lavori
discografici e documentaristici sulla
valorizzazione della canzone in lingua
algherese, come l’opera realizzata con
l’autore algherese Claudio Gabriel Sanna “Un home del país”, dedicato alla fi-
gura di Pino Piras, autore algherese al
quale da alcuni anni dedica insieme ad
alcune associazioni locali il concorso
dedicato ai nuovi autori in lingua minoritaria. E proprio con una canzone
dell’autore scomparso nel 1989, Qui triste que és la tarde, nel 2012 si è aggiudicata a Udine, insieme a Claudio Gabriel
Sanna, il “Suns”, premio europeo della
canzone in lingua minoritaria.
Attualmente Claudia si divide, sempre
con coerenza etica e rispetto dei diritti umani e della natura, fra gli impegni
musicali (l’ultimo progetto che l’ha vista impegnata in studio è stato la registrazione di un brano di Lou Reed per
una antologia con diversi interpreti che
ha contribuito ad aprire definitivamente la strada del Premio Tenco), il lavoro
a tempo pieno di mamma (ha dato alla
luce tre bellissimi bambini), e la passione per la buona tavola a “lL Botteghina”,
una piccola enogastronomia aperta
ad Alghero diversi anni fa, dove gli ingredienti sono sempre quelli dell’originalità e della vicinanza alle diversità
attraverso pranzi e cene di piatti cucinati solo con prodotti locali, da lavorazioni artigianali del nostro territorio o
del commercio Equo e Solidale e con
l’utilizzo di prodotti ecologici e biodegradabili.
PUNKILLONIS
Eclissi
2014 - Pick UP Records/Bella Casa Music/Punkillonis
Genere: post-punk/garage
Aspettavamo con una certa curiosità Eclissi, il terzo lavoro discografico dei Punkillonis.
Tra post-punk e garage, il nuovo lavoro della band sarda è un pugno allo stomaco, una
fotografia spietata e senza veli della nostra epoca. Registrato e mixato presso il Golia
Recording Studio di Assemini (Cagliari) da Fabrizio Atzeni e dagli stessi Punkillonis,
Eclissi è il terzo album ufficiale della band sarda, uscito il 9 settembre 2014 per Pick
Up Records/Bella Casa Music/Punkillonis. Il disco prosegue il percorso iniziato con i
precedenti Eternit (Autoprodotto, 2006) ed Eurasia (La Grande Onda/Bella Casa Music,
2009), sviluppandolo ulteriormente. Si va dal post-punk al garage, fino ad avvicinarsi
alla componente poetica e a tratti melodica dei grandi cantautori italiani. A livello
sonoro Eclissi è un disco aggressivo, più contemporaneo e maturo rispetto ai lavori precedenti della band. Nel lavoro del quintetto
sardo il nuovo millennio è prepotentemente presente: lo si sente dalla ruvidità del suono e dal peso delle parole, come a voler
rimarcare che non c’è tempo da perdere, che tutto questo caos ha bisogno di ordine, di una soluzione che ristabilisca l’equilibrio
e di uomini coraggiosi, purtroppo sempre più rari e celati da una massa informe ignara e impotente. Allo stesso tempo nel disco
dei Punkillonis risuona l’eco degli anni ‘80, punto di riferimento importante per la band, se non altro per la purezza e la semplicità
delle armonie e la schiettezza dei testi.
Abbiamo incontrato Igor “Stravy Paz” Lampis, chitarrista e autore della band.
Come mai sono passati ben cinque anni dal precedente
disco, Eurasia?
Il vantaggio di essere prodotti da una piccola etichetta
indipendente è anche quello di non dover sfornare dischi
per sole ragioni economiche. Considerando poi il fatto che
il mercato discografico è in forte crisi, non avrebbe senso
stamparli a distanza ravvicinata. Nel nostro caso ci sono
voluti cinque anni per riuscire a mettere in musica quello che
Il disco non è certamente di facilissimo ascolto, però farà
contenti gli estimatori del post-punk e del garage: è questa
la nuova via musicale dei Punkillonis?
Non abbiamo mai fatto niente per compiacere il pubblico e
abbiamo sempre evitato come la peste ogni tipo di etichetta
che ci è stata affibbiata per semplificare un discorso molto
più ampio. Questo spesso è stato controproducente, ma
noi siamo fatti così. Diffidiamo di chi dice che non ascolta
quel genere o quell’altro per scelta: non la riteniamo
una mossa intelligente. Se mi piace una cosa l’ascolto a
prescindere dall’etichetta, poi è logico che ognuno di noi ha
delle preferenze. Io amo il punk, il noise e un certo tipo di
cantautorato italiano, ad esempio. Chi ci segue sa che siamo
puri, che facciamo ciò che ci sentiamo di fare, e ci segue
perché si trova sulla nostra stessa frequenza, ossia rifiutare
di appartenere a una massa informe che non ragiona più
con la propria testa. Tornado ai generi, in fin dei conti, già dal
periodo di Eternit, per gusto puramente personale, abbiamo
sempre avuto una vena garage e post-punk, che con Eurasia
è diventata più rock; ora abbiamo messo insieme il tutto e ne
è venuto fuori Eclissi: un disco dai suoni duri, ma comunque
carico di melodia, forse anche più dei dischi precedenti.
Progetti futuri per la band?
Ora ci concentriamo sulla promozione di Eclissi. Ci ha richiesto
cinque anni di lavoro: non possiamo che impiegare tutte le
nostre energie su questo disco, che di fatto lo è nel vero senso
della parola perché, oltre a essere uscito nel classico formato
CD, è stato stampato anche in vinile, cosa di cui andiamo
molto fieri. Stiamo organizzando un po’ di date in Italia e
all’estero e questo richiede grossi sforzi. Si sa, fare musica in
Sardegna non è facile, ma la passione ci porta a superare ogni
ostacolo. Speriamo di continuare per molto tempo ancora.
Che il Pazuzu sia con noi!
[Pierpaolo Fadda]
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57
Parlami di Eclissi: è il disco della maturità per i Punkillonis?
Rispetto ai precedenti sì, ma non nella sostanza, quanto nella
forma! Se prima c’era qualcuno che poteva azzardarsi a dire
che i Punkillonis non sanno suonare (tra l’altro solo perché il
nome richiama il punk, e nella credenza popolare chi suona
punk non sa suonare) dovrà sicuramente ricredersi perché
questo disco spacca di brutto, e non siamo solo noi a dirlo!
Per quanto riguarda i testi, sono solo più diretti e l’ironia,
che non manca mai nei nostri pezzi, forse è più velata e
richiede sicuramente una maggiore attenzione all’ascolto,
ma il succo è lo stesso. Noi non raccontiamo storie: facciamo
fotografie che possono infastidire, ma questo è il nostro
modo di comunicare; tutto il resto non ci interessa. Fuggiamo
dall’applauso facile: ci vorrebbe poco per averlo, ma non ci
darebbe l’energia che serve sul palco e per andare avanti.
avevamo da dire. Noi non abbiamo forzato la cosa e abbiamo
fatto bene!
ANTAS
ANTAS
foto di Francesco Veroni
recensione dischi
4 NOTE IN LIBERTÀ con i Punkillonis
recensione dischi
AKYTERA
ANTAS
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Akytera
2014 – Autoprodotto
Genere: progressive sperim. funk/
metal
Dare una definizione precisa senza limitare ciò che questa band vuole rappresentare non è semplice. Gli AKYTERA nascono a
Ittiri nel 2012 e sono Enrico Salvatore Porcheddu (voce), Luigi Cau (chitarra), Alessandro Galia e Daniele Manca alla sezione
ritmica (basso e batteria). Da allora lavorano come un’unica mente alla creazione di
melodie che riescono a toccare anche nello spazio di un unico brano generi come il
progressive per poi sfociare in uno sfogo
di puro metal che ricade successivamente
in un funk più leggero. Un esperimento
perfettamente riuscito la ricerca di inserire
effetti che vanno sempre ad accompagnare l’ascolto come in un viaggio attraverso
mondi apparentemente sconosciuti ma
dall’aria familiare, che rassicurano l’ascoltatore attraverso note che rispecchiano
la realtà del mondo vissuto a cui si fa costantemente riferimento. I temi trattati appunto riprendono spesso le problematiche
della società attuale, dalla violenza sulle
donne alla pedofilia, ma introducono un
prepotente e insistente richiamo anche al
mondo della letteratura “di spessore” come
un invito alla cultura e alla conoscenza intese come bagaglio personale di cui poi
ognuno trae la propria interpretazione.
Si ritrovano infatti molti richiami e vere e
proprie citazioni di opere di scrittori del
calibro di Ungaretti, Tolstoj o Baudelaire.
L’introduzione di Demagogia per esempio
è tratta da “Guerra e Pace”, magistralmente
interpretata da Enrico, la voce degli AKYTERA che apporta alla band la sua esperienza
teatrale. L’intento è sempre quello di dare
spunti di riflessione importanti, insinuare
dubbi su situazioni scontate e dare l’input
a trovare diverse chiavi di lettura della società attuale. I brani che ritroviamo in questo primo album dall’omonimo titolo sono
sette. Uno tra i brani più rappresentativi è
probabilmente Gaia dove si può proprio
toccare con mano la sensazione di viaggiare attraverso diversi generi nell’arco di uno
spazio così ridotto senza restare mai delusi
del viaggio ma semplicemente affascinati
dalla sapiente miscela di note e stili non facilmente accumunabili ma sapientemente
amalgamati.
Mary Manghina
ELVA LUTZA
RENAT SETTE
Amada
2014 – Autoprodotto
Genere: world music
Sarete sorpresi, affascinati e convinti da
questo disco (Amada) che vede per la prima
volta riuniti il duo sardo Elva Lutza (Nico
Casu e Gianluca Dessì autori di un bellissimo disco d’esordio che ha catalizzato l’interesse della critica nazionale e internazionale)
e il cantante provenzale Renat Sette. Sorpresi dalla ricchezza dei repertori musicali
provenzale e sardo, due culture forti, ancora
intatte, che toccano l’anima nel profondo.
Affascinati dall’originalità della proposta,
che mescola il canto tradizionale e l’improvvisazione jazzistica, dà un volto nuovo
all’immaginario mediterraneo e smonta gli
stereotipi che le musiche tradizionali spesso
portano con sé. Convinti che un’opera artistica possa essere insieme fuori dal tempo
ma del tutto contemporanea, minoritaria e
universale e collocarsi al confine fra i margini e la popolarità. In questo senso, il lavoro
scaturito dalla collaborazione fra questi tre
traghettatori, regala un nuovo respiro alle
musiche della tradizione, si pone come un
atto di resistenza alla standardizzazione delle musiche mediterranee e apre una porta
per la conoscenza e il riconoscimento delle
culture sarda e provenzale. Amada comprende un compendio di questi repertori;
brani sacri, sardi e occitani, canti di scherno, ballate di guerra e d’amore, l’omaggio a
Maria Carta nel ventennale della morte con
Maire Nostra (Ave Mama ‘e Deu), la citazione
della Corsicana in “A la Guerra”, la serenata
di Amada Gioventude. Fra gli ospiti del disco la cantante catalana Ester Formosa e il
dub-producer Frantziscu Medda “Arrogalla”
che ha arricchito il mélange strumentale
Redazionale Antas
L’ARMERIA DEI BRIGANTI
Il complesso di R.
2013 – L’osteria sonora
Genere: Jazz Manouche - Gypsy
Swing
Ascolto il nuovo disco della band cagliaritana L’Armeria dei Briganti e il pensiero corre veloce al Jazz Manouche e al
geniale Django Reinhardt, ma sarebbe
davvero limitativo fermarsi alle prime impressioni. Il complesso di R. è in realtà una
caleidoscopica miscela di generi musicali:
lo swing anni ‘30 certo, l’eclettismo tzigano,
una chiara passione per la canzone francese e una venatura rock, ma soprattutto
quella forma-canzone che varca i confini
della musica e diventa teatro: piccole tragedie personali oppure affreschi geniali
che raccontano storie di tutti i giorni con
uno stile unico e inimitabile. L’ironia è dosata con sapienza dalla band che possiede
buon gusto e una grande raffinatezza negli
arrangiamenti, curati nei minimi dettagli. I
membri del gruppo si mostrano originali
e scanzonati fin dalle presentazioni nella
loro pagina ufficiale: “L’Armeria dei Briganti è una band di sette elementi che suona,
globalmente, 32 corde, 3 pelli e 2 piatti. E
poi canta”. Ed eccoli i sette elementi: Renzo Cugis (Voce e Chitarra), Samuele Dessì
(Chitarra e Voce), Andrea Murru (Chitarra,
Mandolino e Voce), Stefano Piras (Chitarra,
Ukulele e Voce), Andrea Lai (Contrabbasso
e Voce), Diego Deiana (Violino e Fisarmonica), Mario Marino (Batteria). Ma torniamo
al disco: tredici tracce ricche d’ispirazione,
senza cedimenti, un singolo molto bello
(Quando ti sei sposata), mentre l’apice
della creatività (almeno per quanto mi riguarda) viene raggiunto con la stupenda
L’uomo montato al contrario che vede la
partecipazione del maestro Celso Valli, raffinato pianista. Una song intensa, arrichita
dalla bella voce della cantante cagliaritana
Chiara Figus. Disco caldamente consigliato
e una raccomandazione finale: ascoltate
dal vivo l’Armeria dei Briganti. Siamo certi
che non ve ne pentirete!
Pierpaolo Fadda
Cause and effect
Denovali Recorsd - 2013
Genere: Elettronica, Ambient, jazz
Diciamo subito che registrare per la tedesca Denovali è già una garanzia. Da alcuni
anni questa etichetta sta riuscendo a dare
voce alle correnti più intime e nascoste
della musica contemporanea. In catalogo
troverete jazz obliquo, ambient, elettronica, minimalismo, distopie dance e altre
facezie di questo genere. Saffronkeira e il
nome d’arte di Eugenio Caria che già nel
recente passato aveva pubblicato il bellissimo doppio album A New Life per la stessa
etichetta: un lungo viaggio tra elettronica
esoterica, suggestioni space ereditate in
modo inconscio dai nuovi corrieri cosmici
tedeschi e sguardo comunque rivolto al
futuro. L’incontro tra Saffronkeira e Mario
Massa, trombettista jazz di lungo corso
molto attento al coté più intimo e nascosto
della musica (tra Jon Hassell e Don Cherry),
è stato quasi inevitabile. Lo stesso Massa ha
sempre flirtato con le correnti elettroniche
più avanguardiste e trovarsi di fronte a forze nuove peraltro provenienti dalla stessa
isola è stato un dono del cielo. La confezione è quella tipica della Denovali che cura
nei minimi dettagli anche l’aspetto visual
con copertine scure solcate da immagini
indefinibili, frammenti di sogno e scorie di
grafica postindustriale curate da Thomas
Hack. La Denovali consiglia l’ascolto di
Cause and Effect agli amanti di personaggi
come Murcof, Erik Truffaz, Max Richter, Nils
Peter Molvaer, Toshinori Kondo, DJ Krush.
Mica male come programma e il suono
del CD è proprio figlio legittimo di queste
esperienze ultramoderne come sintetizza
il bugiardino che accompagna l’album:
“L’elettronica di Saffronkeira e la tromba di
Mario Massa creano un panorama musicale che si muove tra caldi suoni ambient e
brani alquanto astratti, tra inni emozionali
e minacciose tempeste sonore”. Insomma
una produzione che ben rispecchia l’universo musicale contemporaneo fatto di
produzioni locali ma perfettamente condivisibili su scala planetaria. Un disco che
travalica l’anagrafe, le singole esperienze, i
generi e che regala paesaggi sempre diverse anche dopo ripetuti ascolti. Claudio Loi
MASSIMO SPANU
RURAL ELECTRIFICATION
ORCHESTRA
The Sleepwalker
Improvvisatore Involontario- 2013
Genere: Jazz moderno per piccola
orchestra a km 0
La Rural Electrification Orchestra è un large ensemble composto da nove elementi
diretti e coordinati dal contrabbassista
Massimo Maso Spano. Ci avevano lasciati
Col fiato sospeso, il loro primo album, delizioso pastiche di jazz moderno, hard bop,
electrojazz e, soprattutto, energia e potenza mitigata da arrangiamenti sapienti e
temi che si fanno ricordare, come quando
torna la luce dopo un blackout. Massimo
Maso Spano sta compiendo un piccolo
miracolo italiano fatto di fatica, genialità e tanta costanza. Gestire un gruppo di
nove elementi non dev’essere tanto facile,
soprattutto in questi tempi, in cui sembra
che l’arte e la cultura siano quanto di più
superfluo possa esistere. Ben venga, quindi, questa orchestra, a ricordarci che la vita
è fatta anche di sentimenti, di speranze, di
idee. L’artista è un sonnambulo che vive
quando gli altri dormono, che ci scuote
con la sua testarda volontà di superare i
limiti fisici dell’esistenza e quest’album è
il manifesto programmatico di un’estetica
che parte dal basso per arrivare a risultati
incredibili.
Oltre al leader, l’orchestra di Maso Spano
raccoglie nel suo silos artisti affermati e
giovani promesse del nostro jazz: Matteo
Marongiu al secondo contrabbasso, Maurizio Piasotti alla tromba, Marcello Carro,
Alessandro Angiolini, Francesco Sangiovanni e Maurizio Floris ai sax di varia natura, Elia Casu alle chitarre, Roberto Migoni
alla batteria. Per chi segue il jazz di casa
nostra si capisce che si tratta di braccianti affidabili ed esperti e vederli al lavoro
è appagante. Proprio dal vivo l’orchestra
dà il meglio (spesso con l’aggiunta di altri
giornalieri), proponendo in scaletta brani
scelti dai due album. Per quanto riguarda
il disco, troviamo dieci composizioni originali in cui è difficile trovare punti deboli e so per certo che Spano ha già pronte
altre tracce per successivi lavori. Il suo è
un piano quinquennale che prevede non
solo l’elettrificazione delle campagne, ma
un costante lavoro di persuasione e convincimento tramite il jazz. Charlie Haden,
il grande contrabbassista recentemente
scomparso citato nei ringraziamenti, sarebbe fiero del suo allievo. Claudio Loi
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Musica per scomparire. Più che la scomparsa, le prime note di questo disco richiamano una nuova nascita. Come un fiore che
schiude a poco a poco i propri petali, la
prima traccia Ultramarine materializza gradualmente davanti all’ascoltatore un mondo sonoro complesso, estremamente sfaccettato, che accompagnerà l’intero ascolto
dell’opera. Difficile pensare che dietro la
scrittura e la registrazione di queste dodici
tracce, edite dall’etichetta tedesca Idealmusik nel 2012, si celi un solo compositore e musicista. Eppure ad aver composto
tutte le musiche, ad aver suonato chitarre,
basso, piano, organo, sintetizzatori, percussioni e drum machine, è solo il giovane
Perry Frank, all’anagrafe Francesco Nicola
Perra, musicista iglesiente già impegnato
in diverse formazioni rock, che, dopo essersi fatto notare per alcuni demo che ben
focalizzavano l’attenzione sulle sue doti
compositive, ha esordito come solista sulla
lunga distanza proprio con questo Music to
disappear. Un lavoro di scrittura musicale
fine ma allo stesso tempo audace, che affonda le proprie radici nella ambient music, soprattutto quella di fine anni ’80, ma
che si lascia permeare delle influenze più
disparate, in un gioco di continuo rinnovamento e giustapposizione di elementi
melodici e ritmici di diversa natura. Ottimo l’uso delle dinamiche (Candlelight è un
ottimo esempio in questo senso): Francesco
si diverte a costruire piccoli mondi di durata variabile fra i due e i cinque minuti, veri
e propri soundscaping, dove sembra che il
musicista voglia instilli nei brani dei precisi
stati d’animo, dei mood che spesso mutano all’interno di uno stesso pezzo, quasi
umanizzandolo, dotandolo di una parabola di vita propria. Sarà anche per questo
che il disco è circolato ampiamente nel
sottobosco underground europeo, fatto sta
che Perry Frank ormai gode di un discreto
successo, soprattutto (come accade spesso
con questo genere di produzioni) fuori dallo stivale (A Music to disappear ha fatto seguito un Ep nel 2013, The Neptune Sessions,
per l’autunno 2014 è invece programmata
l’uscita di un nuovo full lenght). Un talento
tutto sardo da ascoltare con concentrazione, da assaporare in ogni sua più piccola
sfumatura. Diego Pani
SAFFRONKEIRA +
MARIO MASSA
ANTAS
PERRY FRANK
Music to disappear
Idealmusik Label - 2012
Genere: Ambient music
Anno 2012
0111 Edizioni
EURO 16,00
Giovanni Davide Piras è nato nel 1981 a Oristano e risiede da
sempre a Terralba.
Ha mosso i suoi primi passi nella scrittura come allievo dello scrittore e sceneggiatore Bepi Vigna. Nel 2013 il suo racconto “Sogno
infinito” è stato tra i finalisti del concorso letterario “CartaBianca”
ed è stato poi pubblicato da Taphros editore nel volume Il cla-
Il giovane scrittore terralbese ha deciso di ambientare il suo primo romanzo a Montevecchio, precisamente nel periodo storico
che va dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale. Sin dalle prime
pagine abbiamo l’impressione di immergerci totalmente in quel
particolare periodo storico, grazie alla capacità dell’autore di descrivere con maestria vicende, paesaggi e personaggi. È stato definito un romanzo corale e verista: l’intreccio è caratterizzato dal
susseguirsi di vicissitudini legate ai numerosi personaggi coinvolti nel racconto e le ambientazioni in miniera ricordano quelle
verghiane di Rosso Malpelo. La potente famiglia Minghetti, il maresciallo Troise e la sua bella figlia Ginevra, con i tanti lavoratori
della miniera e le loro tragedie, le sofferenze, i soprusi, le lotte
e gli amori, ci permettono di rivivere e conoscere ancor meglio
un pezzo importante della storia della nostra isola. Per capire se
una forma di riscatto è davvero possibile dobbiamo attendere
pazientemente le ultime pagine, e lasciarci sorprendere da un
finale per niente scontato.
(Deborah Succa)
A COLAZIONE CON...
GIOVANNI DAVIDE PIRAS
sente nella mia bacheca (ride). Forse sono nato con il gene della
scrittura.
Cosa rappresenta la scrittura per te?
Scrivere per me significa comunicare, esternare quello che sento
cercando di farlo arrivare agli altri. Eppure, nonostante poi un libro diventi proprietà comune nel momento della pubblicazione,
per me resta intimo. Quando il mondo reale mi delude mi rifugio
nella scrittura a dialogare con i miei personaggi, che non mi tradiscono mai. La cosa più bella è riuscire a regalare un po’ delle
mie stesse emozioni ai lettori. Questo per me è scrivere!
ANTAS
ANTAS
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Personaggi e trama complessi e luoghi accuratamente dettagliati. Quanto tempo ha richiesto la stesura di Petali di Piombo?
Dietro ogni romanzo che prende spunto da avvenimenti e luoghi
realmente esistiti c’è sempre alle spalle un durissimo lavoro di
ricerca. Ho dovuto scandagliare con molta cura il periodo minerario a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Ho anche avuto
la possibilità di intervistare qualcuno degli ultimi minatori sopravvissuti. Tra stesura, revisioni ed editing siamo intorno ai tre
anni di lavoro. Potrebbe sembrare tanto ma, considerando che
la scrittura mi è possibile solo nei ritagli di tempo libero, poteva
andare peggio.
Come ti sei avvicinato al mondo della scrittura?
Non saprei dirlo di preciso. Da bambino adoravo quando i miei
genitori o i nonni mi raccontavano le fiabe. Nella calza della Befana preferivo fumetti e libri più che dolci, e per Natale chiedevo sempre audiocassette con incisi dei racconti da ascoltare nel
mangianastri. Dopo aver letto Padre padrone di Gavino Ledda,
all’età di nove anni, scrissi il mio primo racconto, intitolato “Viaggio nel sottosuolo”. Alla maestra piacque così tanto che lo inviò
a un concorso. Vinse. Quel Premio letterario è ancora l’unico pre-
Stai lavorando ad altri progetti?
Dopo Petali di piombo ho già concluso altri due romanzi e un terzo è in dirittura d’arrivo. Il mio agente letterario sta lavorando
per riuscire a cedere i diritti a qualche editore. Purtroppo l’ottimo
riscontro di lettori e critica verso il mio esordio non è garanzia
di nulla: ogni romanzo fa storia a sé ed essere pubblicati, oggi, è
molto difficile perché ci sono tanti autori di talento. Comunque
sono fiducioso, incrociamo le dita!
(Deborah Succa)
recensioni libri
GIOVANNI DAVIDE
PIRAS
Petali di piombo
vicembalo ben temperato. Ha collaborato come articolista con il
sito informativo “Bell’Italia for you”. Il romanzo Petali di Piombo,
edito dalla “0111 edizioni”, è la sua opera d’esordio.
A 45 anni Belisa si trasferisce dalla Sardegna a Madrid con marito, figli e una situazione lavorativa soddisfacente. Si ritrova a fare
i conti con ormoni impazziti e riscopre il suo corpo, il desiderio e
una pressante esigenza di sperimentare con l’eros. Lo fa chattando, con incontri al buio, facendo sesso virtuale con sconosciuti e
incontrando donne disponibili a nuove sensazioni erotiche. Lisa
Elisa racconta la libertà sessuale di una donna matura con la libertà narrativa e leggera di chi non possiede pregiudizi e di chi si è
ELVIRA SERRA
L’altra
Anno 2014
pp. 135
Mondadori - Strade Blu
EURO 16,00
La storia de l’Altra, l’amante,
e Darcy, l’uomo perfetto imperfettamente coniugato con prole.
Cronaca spietata di un amore straordinario, seppure non convenzionale, tratteggiato con una scrittura elegante, asciugata
di ogni ridondanza inutile; sono i sentimenti i protagonisti della
storia, La storia stessa. Quella di un’amante, appunto, figura tanto vituperata cui l’autrice nuorese restituisce corpo e soprattutto
ALESSANDRO CATTE
I miei canti. Storia e spartiti della coralità di scuola
nuorese
Anno 2014
Edizioni Il maestrale
EURO 24,90
È uscito a Settembre l’attesissimo libro del cantante, compositore
e direttore di coro nuorese Alessandro Catte intitolato I miei canti.
Storia e spartiti della coralità di scuola nuorese. Riportiamo le
note della breve presentazione in retrocopertina curata dalla
casa editrice il Maestrale di Nuoro.
Erede e attuale esponente della coralità sarda di scuola nuorese,
Alessandro Catte ne ricostruisce in questo libro le vicende ufficiali
emozioni, sentimenti puri, che la rendono apprezzabile anche
agli occhi di mogli d’acciaio. Perché l’amore se autentico non ha
padrone, e non si può circoscrivere all’interno di un cerchio d’oro.
Non si imbriglia nel tulle di un abito bianco, ma vola alto, oltre le
convenzioni degli uomini.
L’amante vive una storia travagliata di cui nessuno si cura, pronto
con l’indice puntato sul suo presunto marchio d’infamia, quello
della “rubamariti”, come se un marito fosse una sorta di proprietà
da poter sottrarre col favore delle tenebre. Eppure è lei, l’amante,
la più fragile nella spietata matematica dei sentimenti; lei quella
delle rinunce, delle mezze festività, delle attese tradite. Lei quella
confinata nell’ombra in favore di chi il ruolo ufficiale di compagna se lo è meritato sul sagrato di una Chiesa.
L’Altra di Elvira Serra non fa sconti, a nessuno; è la storia di una
donna che conosce il suo posto nella società, i suoi limiti, e nelle
sue tante fragilità dimostra tutta la bellezza sfaccettata e potente
dell’essere Donna. Donna, esatto: con la d maiuscola.
(Valentina Cebeni)
e quelle sotterranee, passando in rassegna i protagonisti (voci,
compositori, musicisti, poeti) di questo nuovo corso della polifonia
sarda iniziato negli anni ‘50 del Novecento, esemplificandolo con
corredo di spartiti attraverso i brani più celebri: da A s’andira a Sa
Còzzula, da Deus ti salvet Maria a Su perdonu, da Adios Nugoro
amada a Non potho reposare. Un percorso collettivo e personale
insieme, dove il “miei” del titolo abbraccia il senso d’appartenenza ai
“canti” tradizionali e l’invenzione da parte di Catte di “canti” nuovi,
prosecuzione e rigenerazione di quelli tradizionali. I miei canti è un
libro versatile: racconto storico, memoria; utile al semplice curioso,
al cultore e al professionista della coralità che trova qui un repertorio
di ben 50 partiture. Corredano il volume immagini che ritraggono
luoghi e volti di questa avventura moderna ma ormai storica nella
musica vocale sarda. Il libro, le cui prefazioni sono curate da Marco
Lutzu e Bepi De Marzi, si arricchisce di un’appendice: “Quell’Ave
Maria”, dedicata all’indimenticabile Maria Antonietta Chironi. Il
volume sarà presentato sabato 11 ottobre 2014 presso il teatro
Centro polifunzionale in Via Roma a Nuoro. (red.Antas)
61
Anno 2013
pp. 154
Happy Hour Edizioni Milano
EURO 12,50
lasciata indietro le rivendicazioni femministe senza rinnegarle.
La trama del racconto corre veloce e senza sdolcinature, spesso
tipiche del genere, e trova il culmine in un epilogo tanto sorprendente quanto tragico. Fa da sfondo una Madrid vitale, colta e ricca
d’occasioni stimolanti: dalle conferenze su Octavio Paz nella “Casa
de America” al pornoshop per donne “Los placeres de Lola”, luogo
accogliente e gradevole nel quartiere multietnico di Lavapiés. Lisa
Elisa usa con sapienza lo stile contratto del linguaggio in chat. Ci
sono passaggi esilaranti, come quello sui pornoannunci che è un
piccolo capolavoro di riflessione linguistica. Una loro importanza
trovano anche le citazioni di canzoni che aiutano ad immaginare
la provenienza culturale e la formazione politica della protagonista. Lisa Elisa non è il nome dell’autrice, che ha preferito firmare
con uno pseudonimo questo suo primo romanzo, in cui “si parla
di sesso come si fa a volte tra amiche….” Amiche di Lisa, infatti,
sono anche “le guardie del corpo” che presentano il libro in una
sorta di reading scoppiettante che difende l’identità della scrittrice. La casa editrice di Milano Happy Hour pubblica per scelta
(coraggiosa di questi tempi) “storie vere che sembrano inventate e
storie inventate che sembran vere”. Inserendo tra i suoi titoli Dodici
chicchi d’uva Happy Hour ha fatto volare, con un nome inventato,
una scrittrice vera. (Valeria Patanè)
ANTAS
ANTAS
LISA ELISA
Dodici chicchi d’uva
CRISTIAN DESSENA
Francesco Demuro:
l’amico con la “A”
maiuscola
S’annu 2013
pp. 207
Euro 15,00
A iscrìere una biografia
de Frantzischinu Demuro
podet pàrrere una cosa
mai cantu fàtzile. Non bi
cheret fantàsia meda pro
la presentare comente
una paristòria ispantosa:
sa de unu pitzinnu cun
sa boghe divina chi, galu
minore, conchistat sas chimas de su su cantu sardu logudoresu
pro non si firmare prus, faghendesi onore comente tenore in sos
prus importantes teatros de sa lirica internatzionale.
Ma sa chi proponet Crìstian Dessena no est una biografia. Est
unu contu chi tocat su coro, unu contu de amistade e sentidos
in ue leant tretu sos ùrtimos 30 annos de istòria de su “càntigu a
TRADUZIONE - Scrivere una biografia di Franceschino Demuro
può sembrare qualcosa di fin troppo facile. Non occorre grande
fantasia per presentarla come una favola straordinaria: quella di
un bimbo dalla voce divina che, giovanissimo, conquista le vette
del canto sardo logudorese per poi non fermarsi più, esibendosi
come tenore sui più importanti palcoscenici della lirica internazionale. Ma quella proposta da Cristian Dessena non è una biografia: è un racconto commovente di amicizia e sentimenti dove
trovano spazio gli ultimi trent’anni di storia del “cantu a chiterra”.
Vi si colgono tutte le sensazioni di chi questo mondo lo conosce
bene perché lo ha vissuto dall’interno, con le prime timidezze,
la paura di sbagliare sul palco, le emozioni, l’ammirazione per i
maestri e soprattutto per il suo idolo e grande amico. C’è spazio anche per i ricordi dei primi amori, tutto filtrato attraverso
LUCA MASTINU
Damnatio
ANTAS
ANTAS
6262
Anno 2013
pp. 212
Sillabe di Sale
EURO 15,00
Questo romanzo vi tormenterà. Mettete insieme un passionevole canto di Maria Callas nella sua celebre interpretazione della
Casta Diva di Bellini, una tragica scia di sangue, un pizzico di sacro eccellentemente inserito come dominante e un concetto di
bellezza che solo un uomo ispirato può disegnare senza sbavature: Damnatio è tutto questo. Le pagine del libro - presentato lo
scorso giugno a Milano dallo scrittore e presentatore televisivo
Andrea Pinketts, letteralmente folgorato dall’opera di Mastinu
Custa la leghimus in sardu
chiterra”. Si b’agatant totu sas sensatziones de chie connoschet
bene custu mundu ca l’at vìvidu dae intro, cun sas primas timidesas, sa timòria de faddire in subra de su palcu, sas emotziones
e s’ammiratzione pro sos mastros e, mescamente, pro s’ìdolu sou
e amigu mannu. B’at logu finas pro sos ammentos de sos primos
amores, totu ammaniadu pro mèdiu de sa mirada de unu pitzinneddu de Orosei, chi creschet in una famìlia in ue su talentu
pro sa mùsica est iscritu in su dna. Su babbu Pietrinu, amantiosu
mannu de custu genere traditzionale, trasmitit a sos fìgios sa passione sua. Su primu frade, Claudio, mastru de chiterra clàssica, est
puru unu professionista de sa fisarmònica. Su segundu, Franco,
est unu cantadore chircadu in totue in s’Ìsula. E isse, Crìstian, est
unu bravu pianista conchitostu chi s’agatat a fàghere sos contos
cun sas disauras de su destinu. Una sorte chi, si dae un’ala paret generosa pro sa bundàntzia de sas capatzidades, dae s’àtera
fàghet pagare su contu cun s’iscoberta de una maladia fea. Ma
un’amistade sintzera e sos afetos familiares sunt sa mègius meighina. Su testu est bene iscritu e curret bellu che abba de riu.
Sos balàngios chi s’ant a otènnere dae sos libros ant a andare in
benefitzèntzia a su tzentru Aias de Orosei.
lo sguardo di un ragazzino di Orosei che cresce in una famiglia
dove il talento per la musica è scritto nel dna. Il padre Pietrino,
grande cultore di questo genere tradizionale, trasmette ai figli la
sua passione. Il primo fratello, Claudio, maestro di chitarra classica, è anche un professionista della fisarmonica. Il secondo, Franco, è un “cantadore” apprezzato in tutta l’Isola. E lui, Cristian, è un
ottimo pianista dal carattere ostinato che si ritrova a fare i conti
con le dure avversità del destino. Una sorte che, se da un lato
sembra generosa per elargizione di attitudini, dall’altra presenta il conto con la scoperta di una terribile malattia. Ma una vera
amicizia e gli affetti familiari sono la migliore medicina. Il testo è
scorrevole, spontaneo e ben scritto e i proventi delle vendite del
libro saranno devoluti in beneficienza al Centro Aias di Orosei.
(Salvatore Taras)
alla recente Fiera del Libro di Torino - scorrono come i fotogrammi di un film. Tutto si apre con la trascrizione di un documento
originale: una conversazione radio datata 1977 in cui un anonimo spettatore annuncia in diretta di aver assistito a un massacro
consumatosi in una villa. Da quel momento conoscerete la protagonista, Rebecca Ariete, e verrete catapultati nei fatti del 1976. Ex
adepta dei Non Serviam, spietata setta satanica, Rebecca decide
di abbandonarne le fila e condurre una vita dignitosa per continuare ad amare la propria figlia, Gemma. La sinistra fratellanza
uccide la bambina davanti ai suoi occhi. Seguirà una vendetta
senza precedenti e dal sapore teatrale, grazie al lessico tagliente
di Rebecca, che si batterà per stanare ogni singolo membro della
setta. Non vi ritroverete con un normale intreccio sviluppato in
terza persona: la cornice sarà un’intervista. Sì, perché tutto viene
raccontato nei giorni nostri a una giornalista intraprendente, Carol Violante, dalla stessa Rebecca, oramai anziana e non vedente,
agli arresti domiciliari e con un nuovo nome: Italia.
Luca Mastinu, originario di Silanus, è anche autore di Più forte del
mondo, romanzo semifinalista nel Concorso Letterario RAI «La
Giara» 2012.
(Redazionale Antas)
fANTAStiche emozioni
Le grandi firme scrivono per noi
Ghita Stefania Montalto
Giornalista, Scrittrice,
Critico Cinematografico.
Scrive per News Cinema
Rivista.
JIMI HENDRIX
È stato presentato Jimi: All Is By My Side, un film di John Ridley che racconta la storia del grande chitarrista
averle fatte vivere in ogni modo possibile, attraverso qualsiasi parte del
suo corpo, quasi fosse un vero e proprio amplesso con una donna. Jimi,
che a Woodstock, dinanzi al mondo intero, ebbe il coraggio spudorato
di reinterpretare e distorcere, provocatoriamente, The Star-Spangled Banner, l’inno degli Stati Uniti, considerato dagli americani come un vero e
proprio inno sacro e in quanto tale intoccabile e inviolabile.
Durante la realizzazione del film Ridley non ebbe, però, vita facile: gli
eredi di Hendrix, infatti, pare gli abbiano impedito di accedere al repertorio musicale originale del musicista di Seattle. Questo spiega il perché
manchino totalmente, all’interno del film, filmati e brani originali. Tra
i critici c’è chi, invece, gli ha rimproverato di non essere stato in grado
di riprodurre la vera magia di Hendrix, la più nota, l’Hendrix di Woodstock, di Voodoo Child e di Monterey, che suona la sua Stratocaster bianca ad occhi chiusi, completamente immerso nel suono del suo blues,
come se fosse in un totale stato di trance. L’intento del regista, però, era
un altro. Ridley, infatti, segue una strada diversa, non convenzionale, realizzando un biopic che mette in luce una parte fondamentale della vita
di Jimi. Un anno cruciale che precede quelli che lo hanno visto diventare
poi una vera e propria leggenda, affermandolo nella scena musicale
della Swinging London per poi farlo approdare sul palco di Monterey,
con un concerto storico ed indimenticabile, che lo ha definitivamente
consacrato, consegnandolo alla storia.
Jimi aveva un grande sogno da realizzare: portare la sua musica verso
orizzonti sconosciuti e crearne una che fosse quasi cosmica, ma si ritrovò
invece con le ali spezzate e una morte prematura pronta ad accoglierlo
a soli 27 anni. Era il 18 Settembre del 1970. Sono trascorsi 44 anni dal
giorno della sua morte, quando venne ritrovato senza vita in circostanze
poco chiare, ma la sua carriera artistica in realtà non si è mai conclusa
davvero, perché lui e la sua musica rimarranno per sempre immortali.
“Quando non ci sarò più non smettete di mettere su i miei dischi”.
Ghita Stefania Montalto
ANTAS
È stato presentato in anteprima assoluta al Toronto International Film Festival, per poi aprire la decima edizione del Biografilm Festival tenutosi a
Bologna lo scorso 6 Giugno. Jimi: All Is By My Side è un’opera coraggiosa,
scritta e diretta da John Ridley, che ha recentemente vinto un Premio
Oscar per la sceneggiatura del film 12 Anni Schiavo.
Qui al suo esordio come regista, Ridley si cimenta per la prima volta
nella realizzazione di un film che mai nessuno, prima di lui, aveva osato
fare, raccontando la storia di uno dei più grandi miti della musica rock/
blues di tutti i tempi, Jimi Hendrix, focalizzando la sua attenzione sugli
anni 1966 e 1967, che rappresentano il periodo che precede la nascita e
la consacrazione del mito Hendrix. Sono gli anni in cui ha inizio, infatti,
la sua carriera artistica, quando girava, ancora sconosciuto, per i locali
di New York per far conoscere la sua musica, originale e a tratti geniale,
come poi si rivelò anche lui nel breve arco della sua vita, durata solo ventisette anni, ma furono anni decisamente intensi, vissuti sempre al limite
e con il piede costantemente premuto sull’acceleratore.
Jimi: All Is By My Side mostra il lato più umano di Hendrix, le sue incertezze, le insicurezze, l’uomo più riservato, fragile e forse meno conosciuto. Un mito che rivive attraverso i gesti e le movenze di uno straordinario
André Benjamin, rapper degli Outkast, in questo film perfettamente
in grado di rendere omaggio ad un’icona della musica come Hendrix,
mettendone in risalto la personalità folle, i tratti più intimi e le caratteristiche meno conosciute di un uomo timido, a tratti svagato, ma al tempo
stesso determinato. È incredibile la somiglianza fisica che Benjamin ha
con Hendrix in questo film, talmente perfetta da emozionare il pubblico
con la sua performance impeccabile, ricercata e curata nei dettagli, risultando perfettamente convincente.
Jimi, il mito per eccellenza, la leggenda del rock, colui che Rolling Stone
mise al primo posto nella classifica dei migliori chitarristi di tutti i tempi.
La mano sinistra di Dio, il folle che, in preda al blues, quasi ne fosse posseduto, bruciava e distruggeva sul palco le sue amate Stratocaster, dopo
63
foto di Wonder Pictures
La nascita di un mito, tra blues e follia
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