Corso di Management A.A. 2010/2011 Dispense Dispensa 3. La

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Corso di Management
A.A. 2010/2011
Dispense
Dispensa 3.
La funzione finanziaria.
L’ambito del controllo finanziario, economico ed organizzativo
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Capitolo III. L’ambito del controllo finanziario, economico ed organizzativo
Introduzione
1. L‟analisi economico-finanziaria
2. Gli strumenti per la pianificazione economico-finanziaria
Prospetto fonti-impieghi;
prospetto flussi monetari;
piano di cassa;
budget.
3. Le decisioni di investimento e di finanziamento
3.1. La valutazione dei progetti di investimento.
3.2. La scelta delle fonti di finanziamento.
3.3. La potenzialità economico-strutturale dell’impresa.
4. La valutazione delle imprese
La valutazione dell’impresa dagli elementi di bilancio (i principali indici di redditività, i principali indicatori
relativi alla struttura patrimoniale e composizione del capitale-margine di struttura, indici di copertura del
capitale…).
I metodi tradizionali di valutazione (reddituale, patrimoniale, misto, finanziario);
L’ UDCF di Rappaport;
La valutazione mediante i multipli di mercato.
5. La valutazione della performance aziendale
L’eva
La Balanced Scorecard
6. Le crisi d‟impresa come alterazione degli equilibri fondamentali.
Patologia e crisi
Sintomi del disequilibrio
economico
finanziario
patrimoniale
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Introduzione
Le problematiche della finanza aziendale iniziano a svilupparsi come tematica ad autonomo
approfondimento a partire dai primi anni del XX secolo. Nei primi tempi, l‟ambito di applicazione e di
studio di tale funzione riguardava essenzialmente il punto di vista del soggetto finanziatore (in
particolare la banca) e trattava principalmente le questioni relative alle operazioni ed agli strumenti di
finanziamento; sviluppava, cioè, analisi relative alle istituzioni finanziarie, agli strumenti finanziari ed alle
operazioni di finanziamento. Con l‟arrivo, nei primi decenni del „900, dello sviluppo diffuso delle realtà
aziendali, il punto di osservazione cambia e diventa quello del decisore, di colui che compie le scelte
all‟interno dell‟azienda (responsabile finanziario o treasurer) e questo cambiamento di prospettiva
connota gli studi di finanza con l‟accezione di „aziendale‟. Lo svilupparsi di questa disciplina è correlato
all‟importanza data ai processi decisionali aziendali relativi alla scelta delle fonti di finanziamento ed ai
relativi impieghi di capitale, scelte che diventano sempre più importanti, man mano che le imprese
assumono grandi dimensioni. La finanza di questo periodo, quindi, che viene definita “finanza
tradizionale”, valuta in maniera preponderante il reperimento delle fonti utili per effettuare determinati
investimenti e valutarne la convenienza a livello strategico, per cui tralascia le decisioni di carattere
operativo; il compito della finanza tradizionale è, dunque, quello di reperire i finanziamenti per coprire i
fabbisogni generati dalle decisioni strategiche prese dai vertici aziendali, scegliendo le fonti meno
costose possibile. A partire dagli anni ‟50, ma con una maggiore diffusione negli anni ‟70 ed ‟80, inizia
ad affermarsi il concetto di „nuova finanza‟, la cui prima definizione è stata attribuita a Rubinstein, che
si ispira alla teoria del portafoglio ed a quella della utilità1. Tale approccio si è innestato sullo sviluppo
della finanza allargata, che fa ampio ricorso a metodologie matematiche e statistiche per la valutazione e
l‟analisi delle scelte finanziarie. Scopo, infatti, della nuova finanza è la formulazione di teorie e modelli
di equilibrio generali che permettano di spiegare i comportamenti di tutti gli operatori coinvolti nel
processo di allocazione delle risorse in condizioni di incertezza, sulla base di ipotesi semplificatrici e
tramite il metodo della deduzione2. A questo proposito, appare utile richiamare un importante
contributo derivante dalla psicologia ed, in particolare, da due studiosi, Daniel Kanheman ed Amos
La teoria dell‟utilità basa la valutazione delle scelte d‟investimento sulla definizione di una funzione di utilità associata a
ciascun individuo (che rappresenti la sua „avidità‟ e la sua avversione al rischio); la sua prima formulazione è attribuita a
Bernoulli. Tale teoria dimostra che, a date ipotesi, esiste una funzione in grado di rappresentare le preferenze di un individuo
e di ordinare i progetti di investimento tramite un criterio di media-varianza. Tale criterio viene, peraltro, ripreso nella
formulazione della teoria di portafoglio che, invece, è attribuita a Markowitz. Egli sostiene che per costruire un portafoglio
efficiente occorre individuare una combinazione di titoli tale da minimizzare il rischio e massimizzare il rendimento
complessivo del portafoglio e che rientrino in una „frontiera‟ efficiente; per far sì che ciò accada, i titoli che compongono il
portafoglio dovranno essere non perfettamente correlati. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a P. Wilmott, “Finanza
quantitativa”, 2003, Egea.
2 Lo strumento che più facilmente rappresenta le nuove tendenze è il CAPM, Capital Asset Pricing Model, ed i modelli
applicativi che lo sviluppano.
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Tversky e dalla “Prospect theory” che i due autori svilupparono dalla fine degli anni ‟70 in poi e che
ricalca l‟impostazione della teoria dell‟utilità3.
I nuovi modelli, infatti, cercano di proporre soluzioni al problema dell‟allocazione delle risorse ottimale
prendendo in considerazione il comportamento degli investitori, l‟andamento dei mercati finanziari e la
scelta delle tipologie di impieghi. Accanto a tali modelli, inoltre, la finanza ha coinvolto sempre più le
altre funzioni di gestione; in tal senso, sono sempre più frequenti le operazioni svolte con il fine di
garantire la copertura dei rischi aziendali tramite il ricorso a strumenti derivati (future, opzioni, swap…).
Tutto ciò ha portato, a differenza del primo approccio tradizionale, alla necessità di considerare anche
l‟aspetto strategico, oltre a quello operativo. Da qui, un‟evoluzione della finanza sia in senso sistemico,
che comporta, cioè, una visione globale dell‟azienda e delle problematiche finanziarie ad essa legate, sia
in senso specialistico, come utilizzo di strumenti e tecniche sempre più sofisticati. Entrambe queste
tendenze, comunque, hanno come unico fine quello di gestire la dinamica dei flussi finanziari, nel senso
di offrire un supporto determinante nelle scelte di investimento e di finanziamento, sia a livello tatticooperativo che strategico, senza dimenticare le interrelazioni che esse hanno con l‟esterno dell‟azienda (e
con i mercati finanziari in particolare), avvalendosi di tutti gli strumenti che possono essere utili per
migliorare la performance aziendale e ridurre il rischio legato alla specifica attività.
Nella funzione finanziaria come oggi è intesa, pertanto, si comprende il complesso di decisioni e di
operazioni volte a reperire e ad impiegare i fondi aziendali; essa, quindi, può essere definita come l‟area
aziendale che si occupa del governo e della gestione delle risorse finanziarie. Anche se in alcuni casi le
decisioni ad essa legate possono esser prese con una maggiore autonomia e, talvolta, può anche
rappresentare un centro di profitto a sé stante, questa funzione dell‟impresa dovrebbe avere un ruolo
strumentale e di supporto alla gestione caratteristica e perdere, di conseguenza, qualsiasi spinta
speculativa per restringere il suo campo d‟ azione alla selezione delle fonti di finanziamento ed alla
programmazione degli investimenti.
In genere, la funzione finanziaria è ricoperta dal manager finanziario nelle imprese di grandi dimensioni
e dall‟imprenditore stesso in quelle di piccole dimensioni. Il responsabile della funzione finanziaria è
chiamato Chief Financial Officer (CFO) ed, in quanto responsabile, supervisiona le seguenti attività:
amministrazione e bilancio; pianificazione e controllo; finanza4. Attraverso queste leve, il CFO può
esercitare appieno le proprie funzioni e raggiungere gli obiettivi, sia a livello strategico che operativo,
che rientrano nell‟area di tale funzione. Da ciò si deduce che essa rappresenta la funzione che più di
tutte evidenzia la necessità che vi siano processi di pianificazione, programmazione e controllo delle
scelte aziendali e la loro adeguatezza.
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Si rimanda a quanto detto in precedenza in Management sistemico vitale, pp. 11 e ss., Barile.
Geminosrl.it
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L‟aspetto operativo che la funzione deve considerare assieme a quello strategico, come prima indicato,
determina la necessità di fornire sostegno all‟attività industriale, affinché possa fornire risorse ed
incentivare il processo di creazione di valore proprio del business in cui l‟azienda opera. In tal senso, i
tre obiettivi che dovrebbero essere raggiunti sono: coprire il fabbisogno finanziario aziendale;
individuare la migliore allocazione delle risorse ottenute; definire una strategia di sviluppo che non
comprometta gli equilibri aziendali.
La gestione della funzione finanziaria deve, dunque, essere inquadrata sotto diversi profili5:
 un profilo strategico che fa riferimento alla programmazione di lungo periodo degli investimenti
e della loro copertura;
 un profilo tattico/operativo relativo alla implementazione, gestione e controllo delle decisioni
prese nel lungo e nel breve tempo.
Di fatto, quindi, la funzione finanziaria può essere definita come una funzione strategica di supporto,
soprattutto nella ricerca di nuove forme di finanziamento che permettano un sempre maggiore sviluppo
dell‟impresa, nell‟individuazione di opportunità di investimento ad elevato valore aggiunto nonché nel
controllo di performance aziendali.
L‟azione di governo, pertanto, facendo leva sulle potenzialità della struttura per cogliere le opportunità
presenti nel contesto in cui il sistema impresa opera, avrà come fine ultimo quello di garantire la
sopravvivenza dello stesso6. Il fine che generalmente viene attribuito all‟impresa, che può essere
ricercato nella massimizzazione del valore (generalmente azionario7), diventa un obiettivo strumentale a
quello principale che è, appunto, la sopravvivenza; quest‟ultima, d‟altronde, diviene più probabile se il
sistema, tramite l‟azione di governo, riesce a generare valore. Allo stesso modo, l‟obiettivo della
funzione finanziaria può essere individuato nel garantire un ritorno delle risorse investite nell‟impresa
con un maggior valore. Tale accrescimento si verifica quando gli investimenti realizzati sono in grado di
generare nel tempo un rendimento che sia
superiore al costo delle risorse reperite per il loro
finanziamento. In questo caso, si può dire che la gestione finanziaria abbia creato valore. Tale obiettivo,
tuttavia, si complica in scenari, come quello recente, caratterizzati da un‟accentuazione della
competizione su ogni fronte, da un aumento dell‟incertezza, che determina, sul sistema impresa, la
contrazione dei margini di profitto, l‟instabilità dei modelli di business e, di conseguenza, un aumento
del rischio. Le conseguenze di questi cambiamenti
sulla funzione finanziaria diventano evidenti
soprattutto in ambito previsionale; stilare piani e formulare previsioni attendibili che risultino poi utili al
processo decisionale rappresenta un elemento fondamentale, soprattutto se si pensa alla conseguente
S. Sciarelli, 2002, cedam.
G. M. Golinelli, L‟approccio sistemico al governo dell‟impresa, II, 2000, Cedam.
7 La generazione di valore riguarda sempre il valore azionario o può, invece, estendersi ad una nozione che includa l‟intero
sistema impresa? La risposta dipende, ovviamente, dalla rilevanza di ciascuna delle due entità: ogni impresa, infatti, può
individuare nella proprietà o nel sistema in genere l‟interlocutore privilegiato; la scelta dipenderà da quale dei due esercita
una maggiore pressione o è percepito con maggiore importanza, cfr. Golinelli op.cit.
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necessità di indirizzare le strategie aziendali prima ed i processi operativi poi nella giusta direzione.
Secondo l‟approccio seguito, quello finanziario si caratterizza come un „sistema‟, con un organo di
governo ed una struttura operativa, articolata in mercati ed intermediari finanziari, di ordine „L+1‟ (per
cui verrà definito in seguito sovra-sistema), laddove il sistema impresa viene definito di ordine „L‟. I
rapporti tra il sistema impresa ed il sovra sistema finanziario sono determinanti per la finalità di
sopravvivenza del primo; il „meccanismo‟ che regola i rapporti tra queste due entità è quello di rischiorendimento, che determina l‟esigenza che vi sia un‟accurata cultura del rischio all‟interno del sistema
impresa e che l‟organo di governo abbia la capacità di valutare i rischi connessi a scelte strategiche
complesse. Tutte le scelte prese dall‟organo i governo volte ad assicurare la sopravvivenza del sistema
vitale avranno come principali finalità la ricerca di consonanza strutturale e di risonanza sistemica con il
sovra-sistema finanziario, che rappresentano, pertanto, l‟obiettivo ultimo cui una gestione finanziaria
efficiente deve tendere.
Di conseguenza, le sfide future per la funzione finanziaria possono essere evidenziate nella necessità,
per le imprese, di dotarsi di adeguate strutture e strumenti che permettano di ridurre margini di errore
nelle previsioni, di possedere una „abilità finanziaria‟ che sia in grado di utilizzare strumenti e tecniche
finanziarie innovativi, di avere la capacità di anticipare i cambiamenti del mercato tramite una stretta
relazione con gli interlocutori rilevanti del sovra sistema finanziario, tutto orientato a ricercare le
condizioni migliori per tendere a garantire la sopravvivenza dell‟impresa.
Tale impostazione è necessaria per comprendere gli argomenti che saranno trattati in seguito e che
rientrano, per la maggior parte, in scelte di carattere strategico. Il richiamo alla consonanza ed alla
risonanza, strettamente legate ai concetti di varietà informativa precedentemente illustrati, saranno
fondamentali per comprendere in che modo l‟organo di governo prende decisioni relative, ad esempio,
alla composizione ottimale del capitale, alla gestione delle crisi, alla scelta dei metodi di valutazione.
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1. L’analisi economico-finanziaria
Si è detto che l‟obiettivo della funzione finanza è quello di cercare le fonti che riescano a garantire il
migliore ritorno sugli investimenti individuati, sia nell‟ambito delle decisioni strategiche che dei processi
operativi. Per far questo, tuttavia, è necessario che il governo delle fonti e degli impieghi rispecchi i tre
equilibri fondamentali di gestione: economico, finanziario e monetario.
Tali equilibri si formano dalla interazione tra la struttura finanziaria dell‟impresa e la sua posizione di
mercato: i flussi in uscita, infatti, devono trovarsi in equilibrio con i corrispondenti flussi in entrata; le
risorse che derivano da processi più strettamente produttivi devono trovare il loro equilibrio nei mercati
di destinazione tramite la realizzazione dei correlati ricavi; gli investimenti e gli impieghi che
costituiscono componenti dell‟attivo devono trovare la propria copertura nelle corrispondenti fonti di
finanziamento indicate come passività e netto. Meglio, l‟equilibrio economico è l‟equilibrio tra costi e
ricavi: l‟impresa dovrebbe riuscire a generare ricavi che siano almeno uguali ai costi sostenuti;
l‟equilibrio monetario è l‟equilibrio tra entrate ed uscite: i flussi in entrata devono almeno coprire i flussi
in uscita; l‟equilibrio finanziario riguarda la necessità che gli impieghi riescano almeno a remunerare le
fonti. Ad ognuno di tali equilibri, pertanto, è associata una caratteristica dell‟impresa: l‟equilibrio
economico garantisce l‟economicità; l‟equilibrio finanziario la solvibilità; l‟equilibrio monetario la
liquidità8.
Questa logica degli equilibri di gestione ricalca, ovviamente, una visione che ha nel bilancio lo
strumento di riferimento dell‟azienda; i concetti di costo e ricavo, di entrata ed uscita, di investimento,
di finanziamento sono considerati interdipendenti ed impattanti sull‟assetto complessivo d‟impresa.
Nella dottrina statunitense, invece, l‟approccio più diffuso ritiene che le strategie economico-finanziarie
abbiano il compito di massimizzare il valore dell‟impresa per i portatori del capitale di rischio. La
prospettiva, pertanto, è tipicamente finanziaria, anche se le dinamiche dell‟impresa non vengono viste
come staccate, ma come interdipendenti. Secondo, quindi, un‟impostazione differente da quella
tradizionale fin qui proposta9, i principi cardine su cui si basa la funzione finanza sono tre:
 principio di investimento: investire in attività e progetti con rendimento atteso superiore ad
una certa soglia minima di rendimento;
 principio di finanziamento: scegliere una struttura finanziaria che massimizzi il valore di
ciascun investimento e sia in linea con la tipologia di investimento da effettuare;
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Sciarelli, Economia e gestione, Cedam 2002.
Damodaran, Finanza aziendale, Apogeo, 2006.
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 principio dei dividendi: restituire il denaro ai proprietari dell‟impresa ogniqualvolta non vi
siano opportunità alternative redditizie.
L’ottica appena descritta, di matrice, appunto, statunitense, è un’ottica totalmente differente
da quella degli equilibri precedentemente proposta, dal momento che tale visione prende come
punto di riferimento gli azionisti e la loro prospettiva di ricevere un ritorno dal possesso di
azioni; le scelte del management, pertanto, saranno prese con l’obiettivo di massimizzare il
valore per tali categorie di soggetti.
E‟ chiaro che, nonostante la prospettiva sia diversa, i requisiti che una struttura finanziaria solida deve
possedere risultano coincidere con l‟impostazione sopra descritta.
Gli equilibri fondamentali, inoltre, sono tra loro interdipendenti per gli effetti che il ciclo ricavi/costi
genera sul fabbisogno di capitale e sui flussi di cassa. Costi e ricavi “anticipati” o “differiti” generano
uno sfasamento temporale tra la manifestazione economica e quella monetaria che rende necessaria
un‟attenta programmazione e gestione delle risorse finanziarie10. La relazione fra il ciclo economico e
quello finanziario dipende dal ciclo monetario dell‟impresa ed, in particolare, dalle dilazioni concesse a
clienti ed ottenute dai fornitori. La relazione fra i due cicli è influenzata in parte dalle prassi commerciali
ed in parte dal potere contrattuale dell‟impresa rispetto agli altri componenti della filiera.
Di seguito, una rappresentazione dei cicli di gestione11.
Anche se la programmazione di competenza dell‟alta direzione e la relativa attuazione nella gestione finanziaria possono
non coincidere, in questa funzione aziendale è più frequente l‟accentramento dei compiti in una Direzione Finanziaria che
partecipa anche alla definizione delle politiche generali di gestione di altre funzioni.
11 F. Fontana, M. Caroli, Economia e gestione dell‟impresa, ed. Mc Graw-Hill.
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Da ciò deriva che l‟impresa ha bisogno di capitali per finanziare i processi di investimento e per far
fronte alla gestione corrente e l‟ammontare di questo capitale varia di entità e tipologia a seconda della
fase in cui essa si trovi; nel caso di costituzione, per creare la struttura aziendale e finanziare le esigenze
di avviamento; in situazione di normale funzionamento, per alimentare il processo di investimento nelle
immobilizzazioni e le altre esigenze di gestione. Generalmente, il fabbisogno di un‟impresa può
riguardare il capitale fisso (immobilizzazioni materiali, immateriali finanziarie, per lo svolgimento dei
processi con riferimento sia alle funzioni di produzione, che e quelle di commercializzazione e di
amministrazione) o il capitale circolante (investimenti che servono per alimentare l‟attività operativa).
L‟intensità del tipo di fabbisogno, ovviamente, dipende sia dalle caratteristiche del settore in cui
l‟impresa opera che dalle sue peculiarità gestionali. La stima del fabbisogno finanziario netto (Attivo
corrente - Passivo corrente) deriva in genere dallo studio della dinamica finanziaria compresa degli
effetti economici della gestione, utilizzando l‟analisi dei flussi di capitale circolante e l‟analisi dei flussi
monetari con lo scopo di conservare sia la solvibilità (equilibrio finanziario) dell‟impresa che la sua
liquidità (equilibrio monetario). Per far sì che le scelte che riguardano la copertura del fabbisogno siano
coerenti con la struttura operativa e finanziaria dell‟impresa, è necessario che rispettino determinati
criteri12:
 omogeneità: tra fonti ed impieghi;
 elasticità: intesa come la possibilità di ampliare le fonti di finanziamento;
 flessibilità: intesa come la possibilità di variare la struttura finanziaria a seconda del fabbisogno;
 economicità: che consiste nello scegliere fonti di finanziamento che massimizzano lo spread tra
costo e rendimento delle fonti.
Nella scelta delle fonti di finanziamento l‟impresa dovrebbe cercare di utilizzare capitali omogenei
rispetto al tipo di fabbisogno da coprire (se l‟impresa ha intenzione di acquistare un bene durevole,
dovrebbe finanziarlo con fonti a lungo termine); spesso il principio dell‟omogeneità non è rispettato a
causa di un eccessivo ricorso a fonti di finanziamento di breve durata per la loro maggiore semplicità di
accesso. La flessibilità permette ad una struttura finanziaria di modificarsi in rapporto all‟evoluzione del
tipo di fabbisogno, sia in termini quantitativi che di tipologia di risorse; essa si traduce nella possibilità
di migliorare il risultato finanziario liberando o attraendo fondi in funzione delle prospettive di ritorno
economico. Una struttura finanziaria, invece, è tanto più elastica quanto maggiori sono le possibilità
quali-quantitative di espanderla. I responsabili della gestione finanziaria avranno più scelte disponibili
per incrementare i fondi aziendali migliorando l'ottimizzazione della scelta delle fonti. Pertanto, se
aumenta l‟indebitamento bancario a breve, la struttura finanziaria diviene più flessibile perché questa
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Sciarelli, Egi, Cedam 2002.
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fonte può essere utilizzata in maniera strumentale alle necessità dell‟impresa; aumentando, invece, la
dotazione di capitale proprio, la struttura finanziaria diviene più elastica perché aumentano le
opportunità di accedere ad altre fonti di terzi (indebitamento). Gli obiettivi precedenti, infine, devono
necessariamente accompagnarsi a quello dell‟economicità: le scelte finanziarie devono tendere alla
massimizzazione del differenziale fra rendimento dell‟investimento e costo del capitale.
Le scelte relative alla struttura finanziaria, da ultimo, devono cercare anche di minimizzare gli oneri
finanziari legati all‟indebitamento ed il rischio finanziario. Tuttavia, la deducibilità degli oneri finanziari
per l‟impresa può, invece, far propendere per un incremento dell‟indebitamento bancario13. Anche gli
effetti della “leva finanziaria”14, in condizioni favorevoli di mercato finanziario e di redditività aziendale,
possono far crescere ulteriormente la convenienza dell‟indebitamento bancario. Il rischio finanziario,
invece, è rappresentato dall‟incapacità di alimentare i processi di gestione caratteristica sotto il profilo
finanziario. Si parla di rischio strutturale, o rischio di insolvenza, se le fonti finanziarie non sono in
grado di coprire gli impieghi; mentre quello congiunturale, detto anche rischio di illiquidità, si collega ad
occasionali carenze di cassa
2. Gli strumenti per la pianificazione economico-finanziaria
Naturalmente, i fabbisogni finanziari o monetari non sono prodotti solo dalle operazioni relative alla
gestione corrente. Più in generale, i fabbisogni possono essere generati da: investimenti in capitale fisso
ed in capitale circolante; rimborsi di capitale proprio; rimborsi di capitale di debito; remunerazioni del
capitale di debito e del capitale proprio. Le fonti di finanziamento, invece, sono invece generate da
operazioni che richiedono la dotazione di risorse finanziarie o monetarie; esse possono dipendere da
numerose operazioni: disinvestimenti di capitale immobilizzato o di capitale circolante; incremento del
capitale di debito o del capitale di rischio; vendita di prodotti o cessione di servizi; remunerazione di
investimenti accessori o complementari a quelli tipici. Nella dottrina sono stati elaborati diversi modelli
di prospetti, finanziari e monetari, per l‟analisi della dinamica dei flussi. Nell‟ottica dell‟assetto
imprenditoriale, tali prospetti rappresentano strumenti di controllo tesi a consentire lo sviluppo
dell‟azienda senza alterarne le condizioni di liquidità. L‟analisi dei flussi considera tipicamente le
variazioni del capitale circolante netto o della cassa. I flussi finanziari, infatti, hanno origine in tutte le
aree di attività e competenza dell‟azienda. Ogni evento che accade nella vita di un‟impresa ha un riflesso
in termini monetari e finanziari, da qui la presenza di una grande varietà di movimenti finanziari che
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14
A tal proposito, è rilevante il contributo di Modigliani e Miller in tema di „irrilevanza‟ della struttura finanziaria.
Questo tema sarà sviluppato più avanti nel testo
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vengono raggruppati in aggregazioni di flussi che hanno la stessa natura. Obiettivo di tale operazione è
verificare il peso di ogni aggregazione sull‟intero movimento finanziario. E‟ possibile ricondurre i
movimenti finanziari a due macro-categorie:
 flussi legati alla gestione corrente (relativi, cioè, all‟attività operativa tipica dell‟impresa);
 flussi estranei alla gestione corrente (relativi, cioè, a tutti quei movimenti che non sono
riconducibili direttamente all‟attività tipica dell‟impresa, come, ad esempio, operazioni
riconducibili alla gestione patrimoniale, finanziaria e straordinaria).
Il prospetto delle fonti e degli impieghi è il documento che si costruisce analizzando tale dinamica dei flussi;
viene costruito solitamente per periodi biennali o triennali e riporta l‟andamento dei flussi finanziari con
l‟indicazione specifica degli impieghi e delle fonti di capitale. Esso permette di valutare sia l‟equilibrio
tra fabbisogno finanziario e fonti di copertura, che l‟omogeneità della struttura finanziaria. Per redigere
il prospetto fonti e impieghi ad un dato anno è necessario utilizzare il conto economico e lo stato
patrimoniale relativi all‟anno in esame e lo stato patrimoniale dell‟anno precedente. Le fonti della
gestione corrispondono al cash-flow finanziario (autofinanziamento) e sono un indicatore della capacità
dell‟impresa di generare nuove fonti tramite la propria gestione operativa; tale grandezza si ottiene dal
conto economico, sommando al risultato netto di esercizio le voci cosiddette accruals ossia che, pur
avendo avuto una manifestazione economica, non hanno dato luogo ad una manifestazione finanziaria
(prevalentemente ammortamenti e accantonamenti). Le altre voci del prospetto, invece, vengono
compilate confrontando i due stati patrimoniali ed analizzando la variazione delle singole voci. In
generale, una variazione in aumento delle attività o una variazione in riduzione delle passività genera un
impiego di risorse, mentre una variazione in riduzione delle attività o una variazione in aumento delle
passività genera una fonte. Fonti ed impieghi infine, si distinguono in correnti e non correnti a seconda
della natura delle poste di stato patrimoniale che variano.
Pertanto, le indicazioni ottenute dal confronto tra i due stati patrimoniali, opportunamente rettificate in
modo da perdere eventuali connotazioni contabili e diventare grandezze finanziarie, danno la misura
dell‟evoluzione della dinamica finanziaria. Diviene, pertanto, possibile analizzare la composizione delle
fonti e degli impieghi, in che modo queste due grandezze si combinino e se possono trovarsi in
equilibrio. Il prospetto, tuttavia, non è in grado di fornire informazioni riguardo al contributo delle
diverse gestioni che si evidenziano nel conto economico, alla composizione delle risorse finanziarie.
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Esempio di prospetto fonti-impieghi.
Il piano di cassa permette di determinare il saldo monetario previsto e valutare la possibilità di coprire gli
eventuali saldi negativi monetari o individuare più favorevoli opportunità di impiego a brevissimo
termine dei mezzi liquidi disponibili. La costruzione del piano, quindi, richiede un‟accurata stima
cronologica delle entrate (incassi crediti, ecc.) e delle uscite di cassa (pagamenti fornitori, imposte,
stipendi, ecc.); dal confronto tra la liquidità ad inizio periodo, le entrate e le uscite del periodo si ha la
stima della liquidità (o del fabbisogno di liquidità) del periodo. Il saldo di fine periodo cassa e banche
va confrontato con gli affidamenti bancari in essere; esso, pertanto, esprime i movimenti finanziari con
riferimento a periodi molto brevi (massimo un mese), al momento terminale della manifestazione
numeraria, ossia all‟incasso (entrate) e al pagamento (uscite). Un‟accurata pianificazione dei flussi di
cassa consente all‟azienda di valutare anticipatamente il fabbisogno di liquidità agevolando in tal modo
la ricerca delle fonti di finanziamento. Del resto, il budget di cassa deve rappresentare uno strumento di
supporto alle decisioni, poiché la valutazione della bontà di queste non può prescindere dal loro
impatto sulla liquidità aziendale. Il piano dei flussi di cassa previsionale riporta le entrate e le uscite
monetarie che si prevede deriveranno dalla gestione del progetto d‟impresa.
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Esso evidenzia la capacità o meno dell‟impresa di sostenere con le risorse a sua disposizione le uscite
previste e quindi, l‟esistenza o meno dell‟equilibrio monetario.
Per costruire il piano dei flussi di cassa è necessario, per ciascun mese, prevedere le entrate e le uscite
monetarie.
Si procede, poi, a calcolare la differenza tra entrate ed uscite e si ottiene, così, il saldo netto
mensile, che sarà un avanzo se le entrate sono maggiori delle uscite oppure un disavanzo, nel caso
opposto.
La costruzione del piano dei flussi di cassa permette, quindi, di individuare la disponibilità o il
fabbisogno di denaro in cassa alla fine di ciascun mese, affinché si possano predisporre le azioni
necessarie per fronteggiare i periodi di maggiore carenza di liquidità.
Esempio di piano di cassa.
Il budget costituisce uno strumento di programmazione e controllo concomitante15.
Il controllo concomitante è una fase del controllo di gestione durante la quale si verifica il raggiungimento degli obiettivi
tramite la produzione di documenti e report inviati alla direzione.
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Ha la funzione di predeterminare obiettivi quantitativi di periodo, che si traducano in misure
economiche e consentano, tramite l‟analisi degli scostamenti, l‟assunzione di decisioni tempestive
finalizzate ad interventi correttivi di gestione, secondo l‟approccio di Direzione per Obiettivi (MBO).
Il processo è articolato e viene sviluppato per blocchi, secondo una logica iterativa ed, ovviamente, con
articolazione infrannuale. Richiamo:La programmazione è il processo di predeterminazione degli
obiettivi, delle politiche e delle attività da compiere entro un determinato periodo di tempo.
Significa assumere in anticipo il complesso di decisioni attinenti alla gestione futura
Da non confondere con il termine previsione, che significa anticipazione dei futuri andamenti di alcune
variabili da cui trarre informazioni per orientare i comportamenti e le scelte aziendali. Non vi è
processo decisorio, ma solo valutazione anticipata di fenomeni interessanti l‟impresa.
3. Le decisioni di investimento e di finanziamento
3.1. La valutazione dei progetti di investimento.
L‟analisi dei progetti di investimento (capital budgeting analysis) ha come scopo quello di individuare quali
investimenti l‟azienda deve intraprendere; per progetto si intende qualsiasi attività dell‟impresa che
comporti un esborso iniziale, un ammontare di flussi di cassa distribuiti su di un periodo di tempo, un
valore finale dell‟investimento a conclusione del progetto. Le scelte aziendali, pertanto, devono
riguardare sia la scelta dei progetti di investimento più favorevoli che la scelta delle fonti di copertura
più adatte a sostenerli. La valutazione degli investimenti utilizza specifiche tecniche di carattere
economico finanziario per stabilire l‟accettabilità di un progetto rispetto a valori che l‟azienda fissa in
precedenza e comparare progetti alternativi e proposte d‟investimento. La scelta di un progetto è
determinata dai ritorni, diretti e indiretti, tangibili e intangibili che esso è in grado di garantire; il
rendimento, infatti, si stima in rapporto al ritorno diretto strettamente economico (differenza fra flussi
in entrata ed in uscita attualizzati), ai vantaggi economici indiretti prodotti in altre aree
dell‟organizzazione aziendale ed in base ritorni di natura non economica ed ai loro relativi effetti sulle
risorse generali dell‟impresa 16 (tali ritorni, tuttavia, possono influire sulla realizzazione del progetto, ma
se non hanno una manifestazione economico-finanziaria non possono incidere sul rendimento17). Per
S. Sciarelli, op.cit.
I vantaggi di tipo indiretto, che possono manifestarsi tramite ritorni di natura non economica, sono tutti quei benefici che
un investimento dà all‟impresa in ambiti della sua attività non direttamente collegati a quello dell‟investimento iniziale; un
esempio potrebbe esser dato dai cosiddetti „ritorni di immagine‟.
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valutare qualsiasi progetto di investimento, bisogna che esso contempli una soglia minima di
rendimento che, per l‟impresa, garantisca almeno la copertura dei costi che da esso derivano e che
riguardano sia la remunerazione della quota capitale che degli interessi.
Vi sono diversi metodi che permettono di valutare i rendimenti derivanti dai progetti di investimento e
sono basati su tecniche strettamente finanziarie; essi, tuttavia, presentano delle criticità. Tali metodi,
infatti, dovrebbero essere in grado, da un lato, di stimare in maniera attendibile i flussi di cassa che un
progetto pluriennale può produrre, sia, dall‟altro, i ritorni, economici o di tipo strategico, che il progetto
avrebbe sull‟intera struttura aziendale. La capacità, quindi, di indirizzare le scelte imprenditoriali
deriverà dall‟utilizzo di una serie combinata di metodi. Le principali metodologie di valutazione dei
progetti d‟investimento sono:

il metodo del periodo di recupero (payback period);

i metodi che utilizzano la valutazione della redditività attualizzata.
Il metodo del pay-back period o del periodo di recupero valuta la rischiosità di un investimento
misurando il tempo in cui gli incassi da esso derivanti, in termini di flussi di cassa positivi, reintegrano
completamente il capitale iniziale investito; l‟azienda, pertanto, preferirà gli investimenti con pay-back
period più basso, dal momento che un capitale investito in una certa attività per un periodo di tempo più
breve è meno esposto a rischi di fallimento. Un investimento, pertanto, è preferibile ad un altro se ha
un periodo di recupero inferiore, mentre si deve scartare quando supera un certo valore-soglia
prefissato (cutoff period). E‟ un metodo che assume un‟importanza maggiore quando il settore produttivo
dell‟investimento è caratterizzato da una forte aleatorietà, dal momento che essa può prolungare il
tempo di recupero dell‟investimento. I limiti principali del metodo, tuttavia, riguardano la difficoltà di
stimare con precisione i flussi positivi derivanti dall‟investimento e la mancata considerazione del valore
finanziario del tempo18.
Il metodo della redditività attualizzata, invece, segue due regole fondamentali:

un euro oggi vale più di un euro domani;

un euro sicuro vale più di un euro rischioso.
Queste regole sono utilizzate per determinare il tasso di sconto (o tasso di attualizzazione) utilizzato per
attualizzare i flussi di cassa netti dell‟investimento. Attualizzare un flusso monetario, perciò, significa
calcolare il valore che esso avrebbe se si manifestasse oggi piuttosto che in futuro; due somme si dicono
equivalenti quando i loro valori, quello presente e quello futuro attualizzato, sono equivalenti. L‟utilità
Il valore finanziario del tempo viene, generalmente, fatto coincidere con l‟applicazione, alle somme analizzate, di un tasso
di interesse che dovrebbe spiegare la preferenza dei soggetti per il consumo presente piuttosto che futuro, riflettere
l‟inflazione e considerare il fattore rischio associato all‟incertezza di avere l‟effettiva disponibilità di quella somma.
18
15
di una metodologia del genere per la valutazione dei progetti d‟investimento è assai evidente. Tuttavia,
la componente più importante da stimare è il tasso da utilizzare; quest‟ultimo corrisponde al costo
opportunità del progetto, cioè al rendimento di un investimento alternativo cui l‟impresa rinuncia per
dedicarsi all‟originario. Esso, pertanto, deve essere fedele misura del cosiddetto „premio per il rischio‟,
cioè dell‟incertezza cui un‟impresa si sottopone scegliendo investimenti a rendimento non certo.
I tassi di investimento che generalmente vengono utilizzati per scontare i flussi di cassa, infatti, possono
essere:
 tassi di interesse corrisposti da investimenti a rendimento certo, che generalmente vengono fatti
coincidere con il rendimento dei titoli di Stato;
 tassi di interesse corrisposti da investimenti a rendimento incerto, che devono rispecchiare il
tempo ed il rischio.
La metodologia della redditività attualizzata fa, ovviamente, riferimento alla seconda tipologia di tassi di
interesse, dal momento che l‟intera attività dell‟impresa è caratterizzata da incertezza e rischio che è
necessario siano riflessi nella scelta dei tassi di sconto. Le due principali metodologie di valutazione
degli investimenti tramite l‟attualizzazione dei flussi sono:
 il metodo del TIR (tasso interno di rendimento);
 il metodo del VAN (valore attuale netto)19.
Il primo calcola il tasso di attualizzazione che uguaglia i flussi di cassa in entrata a quelli in uscita; il
criterio di accettazione preferirà il progetto con TIR superiore al costo opportunità capitale e, tra più
progetti, sceglierà quello con il TIR più elevato.
VAN= C0 + C1
+ C2
+ …. CN
=0
2
N
(1+TIR)
(1+TIR)
(1+TIR)
Il TIR viene calcolato tramite un procedimento iterativo per tentativi, finché l‟equazione sopra riportata
non si annulla. Tuttavia, questo strumento è soggetto ad errori di tipo „matematico‟ insiti nella sua
particolare formulazione; in altre parole, la formula così strutturata non è in grado di distinguere tra le
tipologie di flussi. Un investimento, infatti, genera flussi di cassa positivi, ma può anche generare flussi
di cassa negativi, di cui questa formula non tiene conto; nel caso in cui ciò si verifichi (cioè, un
investimento produce flussi di cassa sia positivi che negativi), ci potrebbero essere più soluzioni che
annullano l‟equazione, dando così luogo al fenomeno che viene definito dei TIR „multipli‟.
19
In inglese NPV, net present value e IRR, internal rate of return.
16
Il VAN, invece, determina il valore attuale del progetto scontando i flussi di cassa con il tasso di
interesse che tenga conto di tempo e rischio; il criterio di accettazione sceglierà il progetto con VAN
positivo più alto. A differenza di quanto detto per il TIR, tale metodo non risente di errori di tipo
puramente „matematico‟, pertanto la soluzione dell‟equazione del VAN sarà sempre una.
La formula del VAN considera, per il primo membro, al numeratore la somma dei flussi di cassa
generati dall‟investimento attualizzati ad un tasso i; quando il rischio del progetto è assimilabile alla
rischiosità degli investimenti in essere, il tasso al denominatore è assimilabile al WACC (weighted average
cost of capital) ovvero costo medio ponderato del capitale20; il secondo membro (C0), invece, è l‟esborso
iniziale che l‟impresa sostiene.
Come si vede dalle formule, il TIR è quel tasso di interesse che uguaglia a zero il VAN, che rende, cioè,
indifferente, per l‟impresa, investire o meno in un determinato progetto. Graficamente, il VAN può
essere rappresentato come una funzione inversa del TIR (quando non si verifica il fenomeno dei TIR
multipli): è, infatti, una curva inclinata negativamente che incrocia l‟asse delle ascisse nel punto che
rappresenta, appunto, il tasso interno di rendimento.
VAN= f(r)
TIR
r
Il costo medio ponderato del capitale si calcola con la media ponderata tra il capitale proprio ed il capitale di rischio propri
di un‟impresa, ponendo come „pesi‟ i rispettivi costi; ipotizzando il capitale K dell‟impresa composto da capitale proprio (E,
equity) e capitale di terzi (D, debt) ed ipotizzando Ke il costo del capitale proprio (cost of equity) e Kd il costo del capitale di
terzi (costo f debt), la formula del wacc sarà così composta:
r = E x Ke + D x Kd
K
K
con K= E+D.
20
17
L‟impresa dovrà confrontare il TIR di ciascun progetto con il costo opportunità del capitale21 e scegliere
quei progetti in cui è maggiore (questo equivale a dire che l‟investimento ha un rendimento superiore al
costo) e, tra più progetti, scegliere quello che ha il TIR maggiore (ovvero il rendimento più elevato). Il
criterio di scelta dei progetti di investimento, inoltre, porterà a scegliere quello che ha un VAN positivo;
ciò significa che il rendimento generato dal progetto, cioè i flussi di cassa attualizzati che esso genera,
sono superiori all‟esborso richiesto.
Il VAN è un metodo molto diffuso nella valutazione dei progetti di investimento, dal momento che
considera una serie di elementi fondamentali: prende come misura di riferimento il flusso di cassa che
viene considerato un indicatore realistico del ritorno generato da un progetto; ciascun flusso viene
scontato a seconda della sua propria distribuzione nel tempo (grazie all‟esponente posto al di fuori nella
formula tra parentesi); il calcolo del tasso di interesse tiene conto del rischio, che si riflette nel calcolo
del tasso posto al denominatore22. Tale metodo, tuttavia, tralascia di considerare alcuni ulteriori
elementi:
 la durata del progetto di investimento: tra progetti alternativi, il VAN tenderà a preferire
progetti con durata maggiore, poiché si distribuiscono su un arco di tempo maggiore;
 il VAN è un metodo di calcolo assoluto, non relativo, nel senso che considera solo l‟ammontare
del valore finale del progetto e non il peso dell‟investimento iniziale (ad esempio, tra due
progetti A e B il progetto A ha un VAN di € 200 mentre B ha un VAN di € 100 ma A ha un
esborso iniziale, supponiamo, cento volte maggiore di B- secondo il VAN, A sarà da preferire a
B); tale limite viene considerato un punto di forza del VAN da coloro che lo valutano un ottimo
metodo, proprio poiché per essi vale solo il valore finale creato;
 non tiene conto delle opzioni reali derivanti dalla scelta di un progetto.
Proprio alla luce dell‟ultimo limite indicato, cioè la mancata considerazione delle molteplici opzioni di
solito derivanti da un progetto, è stata formulata quella che viene definita la teoria delle opzioni reali. In
finanza, le opzioni sono tutte quelle fattispecie il cui valore non è definibile in assoluto, ma dipende dal
Il costo opportunità rappresenta, in genere, la perdita del rendimento relativo ad un‟opportunità non sfruttata; con
riferimento al capitale, esso riguarda la perdita che un‟impresa può subire scegliendo un progetto di investimento piuttosto
che un altro; viene, per questo, anche accostato al rendimento derivante dalla migliore delle alternative disponibili e non
scelte.
22 Il calcolo del rischio inserito nel tasso „r‟ posto al denominatore della formula del VAN deriva dall‟utilizzo della
metodologia del Capm (Capital Asset Pricing Model) che consente di riflettere nella determinazione del tasso di interesse del
capitale di terzi una misura del rischio –indicata dalla lettera greca beta- propria del settore in cui si opera e dell‟investimento
scelto. Per opportuni ulteriori chiarimenti si rimanda ad A. Damodaran, Finanza Aziendale, Apogeo editore.
21
18
valore di un altro elemento, denominato attività sottostante23. In tal caso, si parla di opzioni reali poiché
l‟attività sottostante –l‟investimento effettuato dall‟impresa- è generalmente un‟attività reale (un
progetto) piuttosto che un‟attività finanziaria. Le principali tipologie di opzioni possono essere
qualificate come segue24:

opzione di rinvio di un progetto (option to delay): consiste nella possibilità che l‟impresa scelga
liberamente il periodo in cui effettuare l‟investimento –ad esempio perché coperta da protezioni
di tipo legale o da barriere all‟entrata- la scelta del momento in cui intraprenderlo deriverà,
ovviamente, dalla possibilità di sfruttare al meglio tali vantaggi;

opzione di aumentare la dimensione di un progetto (option to expand): fa sì che, oltre ai flussi di
cassa generati da uno specifico progetto di investimento, si possa considerare il valore di
un‟opportunità (una call su progetti successivi) supplementare creata dallo stesso investimento
iniziale;

opzione di abbandonare un progetto (option to abandon): consiste nella possibilità di interrompere
il progetto di investimento ed è assimilabile ad una opzione put, dal momento che può essere
utilizzata dall‟impresa come una sorta di assicurazione contro l‟insuccesso di un investimento.
Tale metodo di valutazione degli investimenti permette di considerare le interdipendenze che esistono
tra più progetti che possono interessare l‟impresa; considerare, infatti, le diverse possibilità derivanti
dalla scelta di un singolo progetto come delle opzioni rappresenta un criterio innovativo che non
sempre valuta le possibilità come alternative che si escludono tra loro, ma permette, al contrario, di
considerare le molteplici conseguenze che sono spesso implicite in un progetto e non facilmente visibili.
3.2. La scelta delle fonti di finanziamento.
Finora si è parlato delle scelte di investimento che un‟impresa deve valutare, sostenendo che,
indipendentemente dal metodo utilizzato, essa tenderà a preferire quei progetti che presentano un
rendimento superiore alla soglia definita „accettabile‟ dall‟impresa stessa. Adesso è necessario esaminare
le scelte che un‟impresa deve compiere nel momento in cui decide in che modo finanziare gli
23
In genere, le opzioni vengono distinte in opzioni di tipo call ed opzioni di tipo put; un‟opzione call dà al proprio possessore
il diritto di acquistare l‟attività sottostante ad un prezzo determinato –strike price-; un‟opzione put conferisce al proprio
possessore il diritto di vendere l‟attività sottostante ad un prezzo determinato. Tale diritto, che non è un obbligo, comporta
che il soggetto possessore dell‟opzione la eserciterà solo se il valore del sottostante è maggiore (minore) del prezzo di
esercizio dell‟opzione call (put).
24 Per una disamina più approfondita di questi argomenti si rimanda a Damodaran, Finanza aziendale o a Brealey-Myers,
Principi di finanza aziendale.
19
investimenti e come distinguere tra le sue differenti necessità. A questo proposito, appare opportuno
iniziare con una disamina delle diverse tipologie di fabbisogno che un‟impresa incontra nel corso della
sua attività. Essa finanzia con capitale fisso gli investimenti in immobilizzazioni e con capitale circolante
finanzia il ciclo operativo (acquisti-ciclo produttivo- vendite). Tuttavia, l‟entità del fabbisogno varia,
generalmente, in relazione alla fase in cui si trova l‟impresa: ad esempio, in fase di costituzione essa avrà
bisogno di una maggiore quantità di capitale fisso per l‟acquisto di immobilizzazioni, mentre durante il
normale funzionamento avrà maggior bisogno di capitale circolante che finanzi l‟attività operativa. Il
fabbisogno finanziario può essere studiato come la risultante di quattro tipi differenti di esigenze25:

un fabbisogno strutturale: permanente e legato caratteristiche di struttura dell‟impresa;

un fabbisogno corrente: permanente e legato al volume di attività della gestione corrente;

un fabbisogno straordinario: di lungo periodo, ma destinato a cessare;

un fabbisogno occasionale: collegato a fenomeni congiunturali ed imprevedibili con effetti di breve
periodo.
Come si vede, i primi due sono fabbisogni normalmente prevedibili dall‟impresa; essendo legati al tipo
di attività svolta, riguardano sia la dotazione di fattori ad utilità pluriennale che fattori strumentali allo
svolgimento dell‟attività corrente. I secondi due, invece, sono fabbisogni non prevedibili perché non
direttamente riconducibili all‟attività dell‟impresa, quanto, piuttosto, ad eventi improvvisi relativi al
breve ed al lungo periodo. Le scelte fondamentali che un‟impresa deve compiere, tuttavia, sono legate,
come detto, alle modalità e ad i mezzi con cui essa intende coprire tali fabbisogni. A questo punto,
occorre effettuare una disamina di quelle che possono essere le fonti di copertura degli investimenti a
disposizione dell‟impresa. Il fabbisogno finanziario globale può essere coperto dai mezzi propri, dal
reinvestimento di parte del risultato economico della gestione –quando positivo-, dal finanziamento dei
soci (tutte queste 3 fonti sono di tipo interno), dal finanziamento esterno attinto presso i risparmiatori,
le banche ed i dipendenti. Ciascuna di queste fonti ha delle caratteristiche che la rendono più o meno
adatta alle esigenze di copertura delle imprese; tali caratteristiche, in particolare, riguardano il costo di
ciascuna delle fonti, l‟intensità del legame che ognuna di esse ha con la tipologia di investimento cui è
destinata e la rischiosità di ciascun tipo di fonte. In particolare, tra le fonti proprie –internel‟investimento di capitale proprio risulta adatto per investimenti di lungo periodo, dal momento che il
legame tra questa fonte e l‟attività dell‟impresa è assai stretto (i mezzi immessi nell‟attività d‟impresa
sono destinati ad esservi legati in maniera durevole) come alto è il coinvolgimento dei proprietari per
quanto riguarda la scelta della tipologia di investimento. Simile a questa fonte, per caratteristiche e per
vincoli con l‟attività svolta e con gli investimenti scelti, è, poi, il reinvestimento di una parte degli utili
(fenomeno che viene definito autofinanziamento), che consiste, appunto, nell‟utilizzare una parte dei
25
Sciarelli Op.cit. 2002.
20
profitti conseguiti per lo sviluppo dell‟attività d‟impresa ed ha come scopo quello di trattenere parte del
reddito positivo conseguito all‟interno dell‟impresa, non distribuendolo ai soggetti che ne hanno, a vario
titolo, diritto. La terza fonte propria è il finanziamento diretto dei soci26 –sotto forma di anticipazioni o
sottoscrivendo un prestito obbligazionario- che può essere rimborsato, in genere, in qualsiasi momento
e che viene vincolato all‟impresa per un periodo di tempo medio-lungo.
Per quanto riguarda, invece, le fonti esterne, esse possono essere fornite da investitori istituzionali,
risparmiatori, fornitori e dipendenti. Le tipologie tramite cui reperire risorse sotto forma di credito e
non di mezzi propri sono diverse, ad esempio, per le imprese di maggiori dimensioni, il prestito
obbligazionario, adatto per investimenti di lungo periodo, o, più frequentemente utilizzato da tutte le
imprese, il ricorso al credito bancario. Quest‟ultimo può consistere sia nell‟ordinaria apertura di una
linea di credito che nell‟ anticipazione alla banca su crediti verso terzi o, infine, nella concessione di fidi
allo scoperto.
Questa rapida -nonché incompleta27- disamina delle diverse tipologie di copertura degli investimenti
risulta comunque utile per focalizzare l‟attenzione sul principale problema che un‟impresa deve
affrontare nella scelta delle fonti, cioè la giusta composizione tra mezzi propri e mezzi di terzi. In
particolare, la differenza tra le due tipologie di fonti dipende sia dal costo connesso a ciascuna di esse
che alle politiche aziendali. Si è già detto in precedenza che la differenza tra il costo del capitale di terzi
ed il costo del capitale proprio è che il primo può essere facilmente misurato –e corrisponde, in genere,
al tasso di interesse- mentre per il secondo si calcola il costo opportunità, cioè il costo degli investimenti
alternativi non scelti. Diversa, invece, è la giustificazione che riguarda le politiche aziendali, ad esempio,
la proprietà preferisce il capitale proprio perché non vuole l‟ingresso di nuovi soci nell‟azienda ed il
capitale di terzi evita l‟ingerenza di soggetti esterni nelle scelte aziendali; viceversa, il ricorso a nuovi soci
potrebbe giustificare l‟apertura del capitale a soggetti esterni.
Generalmente, comunque, la scelta tra un adeguato rapporto di composizione tra mezzi propri e mezzi
di terzi viene ricondotto alla ricaduta che ciascuna delle due tipologie può avere in termini di redditività
del capitale investito. Le diverse opzioni disponibili per la scelta delle fonti di copertura degli
investimenti, cioè, vengono valutate in base a come la scelta di un determinato livello di indebitamento
possa avere un migliore effetto sulla redditività del capitale di rischio. Il fenomeno che permette di
valutare tutti questi elementi viene definito “leva finanziaria”.
La scelta delle fonti di finanziamento, pertanto, può essere vista come una variabile dipendente dalla
tipologia di fabbisogno finanziario individuato, considerando quest‟ultimo come una variabile data;
viceversa, il fabbisogno individuato può esser visto come una variabile indipendente che può
La qualifica di interno, in questo caso, riguarda la somministrazione di fonti che incrementano i mezzi propri, anche se
giuridicamente il finanziamento dei soci è considerata una fonte esterna.
27Per approfondimenti si rimanda a Sciarelli, op.cit. pagg. 117 e seg.
26
21
modificarsi a seconda del livello di indebitamento che si vuole raggiungere. In questo secondo caso, la
gestione finanziaria diviene uno strumento nelle mani del management e la scelta del livello di
indebitamento viene valutata come elemento in grado di ampliare la redditività del capitale proprio
tramite la „leva‟ del capitale di terzi.
Si definisce, dunque, effetto leva finanziaria l‟aumento della redditività del capitale di rischio che si verifica
in seguito all‟aumento del livello di indebitamento quando la redditività degli investimenti è superiore al
costo delle fonti di finanziamento utilizzate.
A questo punto appare opportuno introdurre degli indicatori di redditività utili a misurare la redditività
del capitale proprio e del capitale investito e, di conseguenza, l‟effetto leva finanziaria. I due indicatori
di riferimento sono il ROI (return on investment) ed il ROE (return on equity) che misurano, rispettivamente,
la redditività del capitale investito e la redditività del capitale proprio (equity). Sono entrambi dei rapporti
e sono definiti di „redditività‟ poiché hanno entrambi al numeratore una misura di reddito. In formule:
ROI= RO
CI
ROE= RN
CN
dove:
RO= reddito operativo; è il risultato della gestione operativa o caratteristica, il primo risultato che viene
evidenziato dal conto economico redatto in forma scalare tradizionale;
CI= è il capitale investito nella gestione caratteristica; la specificazione è fondamentale e ricalca la
coerenza che c‟è tra numeratore e denominatore;
RN= è il reddito netto, il risultato finale del conto economico, la misura più diretta della redditività
dell‟impresa;
CN= è il capitale netto o patrimonio netto; rappresenta la dotazione di mezzi propri dell‟impresa.
Il ROI rappresenta, quindi, la redditività della gestione caratteristica ed indica, se positivo, che
l‟investimento ha generato un rendimento superiore al suo costo; il ROE, invece, è la misura della
redditività del capitale proprio e misura in che modo gli investimenti effettuati generano redditività in
termini di capitale di rischio. L‟effetto leva finanziaria, cioè l‟effetto positivo dell‟indebitamento, si
misura, pertanto, sulla redditività del capitale di rischio, cioè in termini di aumenti del ROE. In
particolare, il ROE aumenta al crescere del debito, solo se la differenza tra ROI –redditività
22
dell‟investimento- ed “i” –costo dell‟investimento- risulta positiva; in questo caso, significa che la
gestione degli investimenti riesce a generare una redditività operativa considerevolmente superiore al
costo del debito e che, di conseguenza, il rapporto di composizione tra mezzi propri e mezzi di terzi
incide favorevolmente sulla redditività del capitale proprio. Laddove il ROI sia inferiore ad “i” –il costo
dell‟indebitamento è inferiore alla sua redditività-, il ritorno generato dagli investimenti non consente
neanche di remunerare il costo del debito; in questo caso all‟aumentare dell‟indebitamento, si riduce –
anche fino ad essere negativa- la redditività del capitale proprio, indicata dal ROE. L‟effetto del ROI sul
ROE viene spiegato dalla scomposizione di quest‟ultimo in quella che viene definita „catena del ROE‟.
In formule:
ROE= RO x CI x RN
CI
CN RO
Questa formulazione del ROE permette di evidenziare il contributo della leva finanziaria alla redditività
del capitale proprio; in particolare, il primo rapporto (RO/CI) rappresenta proprio il ROI, il secondo
(CI/CN) rappresenta il rapporto di indebitamento espresso in forma indiretta, cioè esprime il rapporto
tra capitale investito –sia proprio che di terzi- e capitale proprio; infine il terzo rapporto (RN/RO)
esprime l‟incidenza del risultato operativo sul risultato complessivo, ovvero quanta parte del reddito
netto è formato dal reddito generato dalla gestione operativa. L‟effetto leva finanziaria sul ROE sarà
positivo quanto maggiore sarà il ROI (ovvero quanto più ROI >i; tale effetto, poi, moltiplicato per il
rapporto di indebitamento avrà un effetto ancora maggiore sulla redditività complessiva dell‟impresa –
sul ROE28. Pertanto, se ROI= i l‟effetto leva finanziaria sarà nullo e non influenzerà il ROE, mentre se
ROI < i l‟effetto leva si ripercuoterà in maniera negativa sulla redditività complessiva dell‟impresa ed
un aumento dell‟indebitamento ridurrà il ROE.
Nonostante la leva finanziaria può essere considerata come uno strumento utile nella valutazione del
livello di indebitamento da tenere, bisogna dire che nella rappresentazione di tale modello, anche a
scopo didattico, sono stati tralasciati alcuni elementi che pure rientrano, in genere, nelle valutazioni
effettuate dal management. In particolare, indipendentemente dagli effetti positivi che l‟indebitamento
può avere sulla redditività complessiva, la scelta della composizione tra mezzi propri e mezzi di terzi
deve tener conto anche di altri fattori, ad esempio:
Va citato, a questo proposito, il contributo di due studiosi premi nobel per l‟economia, Franco Modigliani (nobel nel
1985) e Merton Miller (nobel nel 1990) che va sotto il nome di Teorema di Modigliani-Miller. Tale teorema afferma e dimostra
che, in determinate condizioni, il livello dell‟indebitamento non influenza la redditività complessiva dell‟impresa. Le ipotesi
sottostanti tale modello sono le seguenti: in assenza di tasse, costi legati al fallimento ed asimmetrie informative, in presenza,
cioè, di un mercato perfettamente efficiente, il valore di un‟impresa non è condizionato dalle modalità con cui essa l‟impresa
sceglie le proprie fonti. Non ha, pertanto, alcuna rilevanza se l‟impresa utilizza capitale proprio o di debito. Per
approfondimenti si consiglia Brealey-Myers, Principi di finanza aziendale.
28
23

al crescere dell‟indebitamento vi è una riduzione dell‟utile netto dovuta alla maggiore incidenza
del costo del debito (aumentano gli oneri finanziari);

l‟indebitamento fa aumentare il rischio finanziario dell‟impresa, inteso sia come rischio di
insolvenza (l‟impresa non riesce a ripagare il debito nel medio - lungo periodo) che come rischio
di illiquidità (l‟impresa non ha sufficienti disponibilità liquide nel breve termine);

il vantaggio fiscale che deriva dalla deducibilità degli interessi passivi dal reddito imponibile può
essere annullato se l‟impresa chiude l‟esercizio in perdita.
Queste considerazioni, assieme alle riflessioni svolte in precedenza sulle tipologie di fonti a
disposizione dell‟impresa, fanno emergere la difficoltà che i soggetti decisori devono affrontare nel
momento in cui valutano in che modo riuscire a soddisfare le esigenze di investimento nel modo
migliore per la redditività aziendale.
3.3. La potenzialità economico-strutturale dell’impresa.
A questo punto appare utile richiamare un altro degli strumenti fondamentali utilizzati nella gestione
d‟impresa, il diagramma di redditività. Tale tecnica è utile per verificare la capacità reddituale dell‟impresa
in considerazione della struttura dei costi, ovvero del rapporto tra costi fissi e costi variabili e dell‟entità
dei ricavi. L‟attività di ciascuna impresa, infatti, si svolge all‟interno di vincoli esterni (dovuti al contesto
competitivo, ad esempio barriere all‟entrata, all‟uscita,…) e di vincoli interni, tra cui, oltre alla citata
struttura finanziaria, vi è anche,come detto, la struttura dei costi e dei ricavi. Il diagramma presentato in
questo paragrafo è un utile strumento di rappresentazione e di valutazione delle scelte aziendali sulla
relazione costi-ricavi. Il grafico, infatti, si compone dei seguenti elementi: la stima dei costi –fissi e
variabili- sostenuti dall‟impresa e la stima dei ricavi; la relazione evidenziata da questo strumento è
anche definita costo-volumi-risultati, in quanto essa consente di valutare come varia la struttura dei
costi in relazione alla variazione del livello di produzione.
24
Graficamente, i costi fissi (CF) vengono rappresentati da una linea parallela all‟asse delle ascisse, in
quanto il loro ammontare, nel breve periodo, non varia al variare della produzione; viceversa, i costi
variabili (CV) sono rappresentati da una retta che parte dall‟origine degli assi (in quanto in
corrispondenza di un volume di produzione pari a zero i costi variabili sono anch‟essi pari a zero) e la
cui pendenza è pari al coefficiente di variabilità cv (rappresenta la proporzionalità tra il costo variabile
unitario e la quantità prodotta). La retta dei costi totali (CT) è costruita come sommatoria dei punti
delle rette CF e CV, per cui avrà come intercetta verticale il punto di partenza dei costo fissi e come
pendenza la stessa della retta dei costi variabili. La retta dei ricavi (RT) parte dall‟origine degli assi, in
quanto i ricavi sono supposti proporzionali alla quantità venduta, per cui in corrispondenza di una
quantità uguale a zero anche i ricavi saranno uguali a zero. Le rette dei ricavi (RT) e dei costi totali (CT)
s‟incontrano in un punto P, chiamato punto di pareggio (Break-even point), che segnala la grandezza del
volume produttivo e di vendita per la quale costi e ricavi si eguagliano, cioè il profitto è pari a zero. Tale
punto è anche definito „punto di indifferenza‟, in quanto in questo punto per l‟impresa, avendo costi
totali uguali ai ricavi totali (non realizzando, cioè né profitti né perdite), risulta indifferente produrre o
non. Il punto di pareggio, inoltre, determina due aree: alla sua sinistra, l‟area delle perdite, in cui i costi
25
superano i ricavi (anche graficamente, la retta dei costi è superiore a quella dei ricavi) ed in cui per
l‟impresa non risulta conveniente produrre; alla sua destra determina l‟area dei profitti, in cui la retta dei
ricavi è superiore a quella dei costi, per cui per l‟impresa risulta conveniente produrre. In formule:
dove:
In valore:
x‟= costo complessivo;
a= coefficiente di variabilità (costi variabili/ricavi); rappresenta il coefficiente angolare della retta dei
CV;
(1-a)= margine di contribuzione; indica in quale misura i ricavi di vendita „contribuiscono‟ alla copertura
dei costo fissi;
k= costi fissi;
y = ricavi totali;
ay = costi variabili;
Il BEP, calcolato in corrispondenza dell‟uguaglianza tra costi e ricavi x‟=y, sarà dato dall‟equazione :
costi fissi (k)/ tasso di contribuzione (1-a).
In volume:
Ru= ricavi unitari;
Qx = volume di produzione;
CF = costi fissi;
Cvu = costi variabili unitari;
Il BEP calcolato in questo modo sarà dato dal rapporto costi fissi (CF)/margine di contribuzione
unitario (Ru-Cvu).
La differenza di calcolo tra i due metodi sta nel fatto che, nel primo caso, essendo i valori espressi in
termini monetari il metodo a valore può essere utilizzato anche per produzioni diversificate; il secondo
26
metodo, invece, avendo i valori espressi in termini quantitativi, è più adatto a produzioni omogenee. Di
seguito, sono rappresentate due ipotetiche imprese che presentano una diversa struttura di costo; quella
a sinistra a minori costi fissi rispetto a quella di destra. E‟ interessante notare come l‟impresa di sinistra
raggiunge prima il punto di pareggio rispetto a quella di destra; tuttavia, la situazione dell‟impresa di
destra, una volta superato il punto di pareggio, risulta più favorevole in quanto essa riesce a conseguire
margini di guadagno superiori poiché i più elevati costi fissi si dividono sulla maggiore quantità
prodotta. Si dice, pertanto, che un‟impresa con una struttura di costo con maggiori costi fissi è più
rischiosa –in quanto ha bisogno di più tempo per raggiungere il bep- e più profittevole.
Collegata a quanto abbiamo appena detto è anche un‟altra grandezza: il grado di leva operativa.
Quest‟ultimo è rappresentato, nel grafico esaminato, dall‟angolo formato dall‟‟incrocio tra la retta dei
ricavi e quella dei costi (indicato da 1- α) ed è calcolato come il rapporto tra la variazione percentuale
del reddito operativo e la variazione percentuale delle vendite:
G.L.O.= Δ % reddito operativo
Δ % vendite
27
Essa è una misura della relazione tra variazione del reddito e variazione della produzione (indicata dalla
variazione delle vendite); il grado di leva operativa, pertanto, è legato alla struttura dei costi e, in
particolare, all‟incidenza dei costi fissi. Un‟azienda con elevati costi fissi, infatti, avrà un elevato grado di
leva operativa poiché il reddito operativo crescerà in maniera maggiore (e con esso, si ipotizza, la
quantità venduta) rispetto ad un‟azienda che abbia maggiori costi variabili. A tal proposito, il G.L.O.
può essere calcolato come segue e la distinzione tra valore e quantità richiama quella adoperata in
precedenza per il calcolo del b.e.p.:
In valore:
G.L.O = Ricavi totali – costi variabili totali
ricavi totali – costi totali
In quantità:
G.L.O =
RuQx – CvQx
RuQx – CvQx – CF
La formula può essere espressa anche come segue:
GLO = 1+CFO/RO
Al concetto di punto di pareggio, infine, è collegato anche quello di punto di equilibrio finanziario (PEF)
corrisponde a quel volume o valore per il quale i ricavi consentono di coprire almeno i costi monetari.
Si eliminano pertanto dalle formule del BEP i costi non monetari (ad esempio, accantonamenti e
ammortamenti), sottraendoli dai costi fissi e variabili, e determinando pertanto un nuovo punto di
pareggio.
In valore
PEF = costi fissi monetari (k)/ margine di contribuzione (1-a)
dove (a) è calcolato come rapporto tra costi variabili monetari/ricavi
In volume
PEF = costi fissi monetari (CF)/ (Ru- Cv)
dove (Cv) stavolta sono solo i costi variabili monetari
28
Un esempio numerico:
Prendiamo l‟esempio di un impianto usato dalla società Zeta Spa per produrre il prodotto “a”. Il costo
dell‟impianto è di 100.000,00 €. Supponete che ogni singolo prodotto “a” si venda a 75,00 €, e che il
costo
variabile
unitario
sia
di
22,00
€.
Dunque
i
nostri
dati
sono:
p=75; cv= 22; CF=100.000 q=?
Svolgimento:
RT=CT
p*q=CF+cv*q
75q=100.000+22q
75q-22q=100.000
q(75-22)=100.000
q=100.000/53=1886,79
Circa 1887 unità è la quantità bep.
4. La valutazione delle imprese
La valutazione d‟azienda è una problematica fondamentale che l‟economista d‟impresa può affrontare
sia in situazioni di normale funzionamento che in fasi particolari della vita d‟impresa, come in caso di
operazioni straordinarie (fusioni, scissioni, trasformazioni, conferimenti…). Essa è stata oggetto di
approfonditi e diversificati studi in dottrina, che si sono evoluti contemporaneamente al modificarsi
della complessità dell‟oggetto in esame (l‟azienda) e del contesto nel quale essa opera. I primi metodi di
valutazione, infatti, si basavano prevalentemente su elementi di natura empirica; recentemente, poi, si
sono evoluti, grazie anche all‟utilizzo di particolari strumenti mutuati da altre discipline (matematica
finanziaria, statistica) che hanno contribuito a rendere questi procedimenti di analisi e valutazione
sempre più precisi e significativi. I principali criteri di valutazione trovano i loro fondamenti nei
principali indici di bilancio e sono, più di frequente, utilizzati per valutazioni di tipo interno all‟impresa,
avendo come principali referenti il management e gli stakeholder (tra cui rientrano anche gli azionisti).
Il primo metodo di valutazione dagli elementi di bilancio riguarda l’efficienza economica e viene effettuata
tramite tramite l‟analisi dei principali indici di redditività:
 ROI
 ROE
29
Il ROI (Return on investment), come detto già in precedenza, rappresenta la redditività degli investimenti e
viene analizzato, in particolar modo, con riferimento alla convenienza o meno di utilizzare in maniera
conveniente l‟indebitamento per investimenti che garantiscano una redditività maggiore del loro costo29.
E‟ un indice di redditività (ha al numeratore una grandezza di reddito)ed è composto dal ROS
(redditività del venduto) e dal TRC (tasso di rotazione del capitale). La scomposizione del ROI in questi
due indici consente di verificare se le variazioni del ROI dipendono da modifiche della redditività del
venduto o da ad un mutamento del tasso di rigiro del capitale.
ROI= RO = RO X V
CI
V
CI
Il ROE (Return on equity), invece, rappresenta la più immediata misura di redditività per gli azionisti, dal
momento che, come detto sopra, indica in che modo il reddito netto sia in grado di remunerare il
capitale proprio. E‟ un indice di redditività (ha al numeratore una grandezza di reddito); rappresenta la
redditività del capitale proprio. La composizione del ROE permette di evidenziare il contributo di tutte
le gestioni alla redditività dell‟Equity. E‟ composto dal ROI espresso in funzione dell‟utile netto (primi 2
membri dell‟equazione) e dal rapporto di indebitamento.
ROE= RN = RN X V X CI
CN
V
CI
CN
La valutazione d‟azienda tramite indicatori di bilancio, poi, può essere effettuata anche in merito alla
situazione finanziaria, tramite i principali indicatori relativi alla struttura patrimoniale e composizione del
capitale:
 margine di struttura
 indici di copertura del capitale.
Il margine di struttura è una differenza, non un rapporto:
MS= Mezzi propri – Impieghi fissi
Si ricorda, qui, il meccanismo della leva finanziaria in cui se ROI>i all’impresa conviene indebitarsi, in quanto,
facendo leva sull’indebitamento, riceve dagli investimenti effettuati un rendimento (ROI) maggiore del loro costo (i).
29
30
Indica, se positivo, un‟eccedenza delle fonti di finanziamento proprie, cioè non soggette ad obblighi di
rimborso, sugli impieghi fissi (cioè, il grado di solvibilità aziendale). Se negativo, indica una carenza di
fonti finanziarie specifiche a lungo termine.
Il margine di tesoreria è utile, invece, ad un controllo della liquidità dell‟impresa.
MT= Liquidità – Attività a liquidità differita – Passivo corrente
La valutazione d‟azienda, tuttavia, viene utilizzata spesso per soggetti „esterni‟ all‟impresa che abbiano la
necessità di conoscerne il valore. I metodi tradizionali di valutazione possono essere elencati come
segue:
Metodo reddituale;
Metodo patrimoniale;
Metodi misti;
Multipli di mercato;
Analizziamoli nel dettaglio.
Il Metodo reddituale: l’impresa vale quanto produce.
Il metodo reddituale è un metodo dinamico, nel senso che il valore dell‟impresa viene calcolato in base alla
sua capacità di produrre reddito nel futuro; esso si ottiene attualizzando una misura di reddito definito
„normale atteso‟, cioè quello che ci si aspetta l‟impresa sarà in grado di produrre in un lasso di tempo
considerato t, per questo viene classificato anche come metodo sintetico (dal momento che il reddito può
essere considerato la più immediata misura sintetica di performance dell‟impresa). Tale misura di
reddito, tuttavia, viene da alcuni considerata non pienamente indicativa del valore dell‟azienda, in
quanto potrebbe essere condizionata dalle politiche di bilancio (ad es. politiche d‟ammortamento), dalla
durata temporale scelta, dal tasso di interesse individuato (se sia un tasso free risk o se debba, invece,
considerarsi il costo opportunità). Tale metodo, inoltre, viene considerato significativo se l‟impresa ha
performance più o meno costanti nel tempo ed è, pertanto, agevole stimare una misura di reddito che
possa essere un‟adeguata misura delle sue performance future. Il metodo reddituale può essere semplice
o complesso:
Reddituale semplice: W = R
i
Reddituale complesso: W = Σ Rt
(1+i)
31
t
W= valore dell’impresa; R= reddito medio normale atteso; Rt= reddito atteso per l’anno t; i= tasso di attualizzazione.
Il metodo reddituale semplice prevede l‟attualizzazione di una sola misura di reddito definita reddito
medio normale atteso che si ottiene „depurando‟ il reddito dagli elementi straordinari e figurativi che lo
compongono (ammortamenti anticipati, sopravvenienze, spese occasionali…) ed attualizzandolo ad un
tasso i (che comprenda un fattore „r‟ risk free ed un fattore „s‟ di remunerazione del rischio). Il metodo
reddituale complesso, invece, prevede una stima di reddito per tutti i periodi t interessati dalla
valutazione attualizzati al medesimo tasso i (che comprenda, quindi, sia il tasso risk free che la
remunerazione del rischio).
Metodo patrimoniale: l’impresa vale quanto possiede.
A differenza del metodo reddituale, il patrimoniale è un metodo analitico, dal momento che prevede
l‟analisi delle singole voci del patrimonio aziendale e la loro ricostituzione a valore di normale
funzionamento. E‟, per questo, considerato statico, dal momento che il capitale è una grandezza stock e
dà una visione dell‟impresa limitata ad un periodo di tempo; è, inoltre, influenzato dalle politiche di
bilancio nella valutazione degli assets. Per questi motivi tale metodo viene ritenuto più adatto alle
aziende ad alta concentrazione di capitale o capital intensive. Anche il metodo patrimoniale si distingue in
semplice e complesso:
Patrimoniale semplice: W= K
Patrimoniale complesso: W= K+I
W= valore dell‟impresa; K= patrimonio netto rettificato; I= valore degli intangibles.
Il valore del patrimonio netto rettificato si ottiene apportano delle modifiche al valore del patrimonio
netto contabile presente nel passivo dello stato patrimoniale (per quanto riguarda il valore de dividendi,
di immobili e terreni, scorte, spese di ampliamento, al netto dell‟effetto fiscale considerato per ogni
voce).
Metodo misto
E‟ un metodo prevalentemente patrimoniale a cui viene aggiunto il calcolo del sovrareddito; esso
misura la ponderazione tra valore funzionale al reddito e valore funzionale al patrimonio.
W= K + (R - Ki) a n i
W= valore dell‟impresa; K= valore rettificato del patrimonio; R= reddito effettivo; Ki= remunerazione
attesa del capitale; R-Ki = sovrareddito; R-Ki a n i = avviamento.
32
L’UDCF di Rappaport e la teoria del valore
La teoria del valore sostiene che il valore di un asset dipende dal valore dei benefici futuri attesi che tale
asset è in grado di generare. Tale discorso viene traslato nella valutazione d‟impresa, per cui si rende
necessario individuare una buona misura che approssima il valore dei benefici che un‟azienda è in grado
di generare nel tempo. Si è già accennato a quali possono essere i limiti di grandezze quali il reddito ed il
patrimonio, per cui si propone, adesso, l‟approccio di Alfred Rappaport che, nel 1986, propose la
metodologia del DCF (Discounted cash flow). Secondo questa metodologia, il flusso di cassa rappresenta la
migliore approssimazione dei benefici attesi. Tale approccio, partendo da una semplificata
rappresentazione dello stato patrimoniale così realizzata:
Equity
Assets
Debt
prevede due prospettive:
 “equity side” in cui si calcola il valore dell‟equity (patrimonio) come differenza tra Assets
(immobilizzazioni) e valore del debito (Debt);
(E= A-D)
 “asset side” in cui si calcola il valore dell‟intera impresa come somma di equity e debito;
(A= E+D)
Le due prospettive hanno, ovviamente, un valore differente, a seconda del soggetto interessato alla
valutazione. Nel primo caso, infatti, i destinatari sono gli azionisti, interessati al valore del patrimonio
dell‟impresa che ha un effetto anche sul valore delle loro azioni; nel secondo caso, invece, il valore che
si ottiene è un valore che interessa tutti i soggetti coinvolti nella vita dell‟impresa. SI ottengono,
pertanto, due misure di flusso di cassa, uno disponibile per gli azionisti (Free Cash flow to the equità,
FCFE) ed uno operativo (Free Cash Flow to the firm, FCFF), ottenuti dal reddito operativo depurato di
33
tutte le componenti figurative, passando dalla logica che lo determina (una logica di competenza) alla
logica che determina i flussi di cassa (logica, appunto, di cassa).
Le due misure di flusso di cassa sono ottenute come segue:
Ricavi
- Costo del venduto
- Altri costi operativi
- Ammortamento
= Reddito operativo
- Interessi
- imposte
= Utile netto
+ Ammortamenti
- Incremento crediti
commerciali
- Incremento scorte
+ Incremento debiti commerciali
- Flusso investimenti al netto
flusso disinvestimenti
= Flusso di cassa disponibile per gli
azionisti (FCFE)
Ricavi
- Costo del venduto
- Altri costi operativi
- Ammortamento
= Reddito operativo
- Imposte sul reddito
operativo
= NOPAT (Reddito operativo
dopo le imposte)
+ Ammortamenti
- Incremento crediti
commerciali
- Incremento scorte
+ Incremento debiti commerciali
- Flusso investimenti al netto
flusso disinvestimenti
= Flusso di cassa operativo
disponibile (FCFF)
Nella Prospettiva Equity side l‟obiettivo della valutazione è l‟equity, la misura del patrimonio, per cui si
sconta il flusso FCFE. Inoltre, nel calcolo del flusso di cassa si sottraggono gli interessi sul debito, per
cui si ipotizza la irrilevanza della struttura finanziaria30, pertanto viene preferibilmente utilizzato per
stable leverage firms, cioè per quelle imprese che mantengono stabile il loro rapporto di indebitamento
(capitale proprio/di terzi) nel tempo. Nella Prospettiva Asset side, invece, come detto si valuta l‟impresa
nella prospettiva di tutti i soggetti coinvolti nella sua attività, pertanto si sconta il flusso FCFF e si
ipotizza la rilevanza della struttura finanziaria, in quanto il costo del debito non viene sottratto. Tale
metodo si basa sul flusso di cassa operativo disponibile. Il flusso di cassa operativo disponibile rappresenta la
liquidità generata dal core business dell’impresa31. Si tratta, infatti, di una variabile operativa la cui
determinazione risulta indipendente dalla particolare struttura finanziaria dell‟impresa e che non
considera gli aspetti della gestione non caratteristica.
30
Il riferimento qui è alla teoria di Modigliani e Miller esposta in precedenza.
Risultano esclusi da quest‟ultima definizione pagamenti e incassi per costi e ricavi non caratteristici, componenti di reddito
straordinarie e gli oneri finanziari.
31
34
Volendo schematizzare quanto detto finora e tenendo conto delle differenze tra i due metodi, di può
riassumere che:
E (A-D) > E (FCFE) se beneficio del fisco (la struttura finanziaria è RILEVANTE)
Poiché la struttura finanziaria è RILEVANTE e le ipotesi di MM non si verificano:
E (A-D) = E (FCFE) + Valore attuale del beneficio fiscale
Per quanto riguarda, invece, il denominatore, la teoria di Rappaport parte dal presupposto che una
somma disponibile oggi non ha lo stesso valore di una disponibile domani, secondo il proncipio di
attualizzazione di una somma. Poiché abbiamo al numeratore i flussi di cassa, calcoliamo il
denominatore con un principio di coerenza fra i due valori. Il tasso di interesse che sarà al
denominatore deve riflettere il valore finanziario del TEMPO (Time value of money) ed il valore del
rischio. I flussi di cassa disponibili per gli azionisti (FCFE) saranno attualizzato al tasso Ke (costo f
equity), mentre i flussi di cassa operativi disponibili (FCFF) saranno attualizzati al costo medio
ponderato del capitale (WACC) così espressi:
Ke= rf + β (rm-rf)
Metodo del CAPM.
β = premio per il rischio
rf = tasso di interesse risk free
rm = tasso di interesse del mercato
Per calcolare il costo del capitale si seguiranno i tre passaggi successivi: determinazione della struttura
finanziaria obiettivo nel periodo di pianificazione, considerata come proxy della struttura finanziaria ottima
(quella cioè che minimizza il WACC); individuazione del costo di ogni singola fonte di finanziamento;
calcolo del costo del capitale come media ponderata del costo delle singole voci di finanziamento.
WACC= D i + E Ke
Ci
Ci
Con Ci= D+E
Il valore finale ottenuto sarà dato dalla seguente formula:
V= ∑ FCFF + VR + SA –P
WACC
VR= valore dell‟impresa alla fine dell‟implementazione della strategia;
SA=surplus assets: beni non direttamente legati all‟attività dell‟impresa;
P= valore di mercato delle passività.
35
Il valore residuo: È dato dal valore della strategia al termine del periodo a previsione esplicita,
ottenuto attraverso l‟attualizzazione dei flussi di cassa che questa sarà in grado di generare nel
periodo successivo.
Nonostante sia stato un modello fortemente innovativo nella valutazione delle imprese, anche
questo modello presenta dei limiti:
 La stima analitica dei flussi di cassa richiede tempi e costi notevoli;
Non tiene conto delle opzioni reali;
 La stima del Valore residuo non è sempre attendibile poiché troppo proiettata al futuro;
 Non riesca a stabilire chi ha contribuito a creare valore all‟interno dell‟impresa.
I multipli di mercato:
I multipli di mercato, a differenza dei metodi precedenti, che, per la valutazione, partono tutti da
elementi interni all‟impresa (reddito, patrimonio, flussi di cassa), tengono in piena considerazione la
valutazione di un‟impresa che deriva dal mercato. Generalmente, la valutazione tramite multipli di
mercato si può ricondurre a due approcci:
 Metodo delle società comparabili: per valutare un‟impresa si fa riferimento al prezzo delle azioni
di società con essa comparabili;
 Metodo delle transazioni comparabili: per valutare un‟impresa si fa riferimento a transazioni di
pacchetti di controllo di società simili all‟impresa considerata.
I principali multipli di mercato sono
 Price/ earning (prezzo dell’azione/utile per azione): dà un indice del tempo che occorre per
recuperare l‟investimento a pari condizioni di mercato.
 Price/ book value (prezzo dell‟azione/patrimonio netto contabile per azione): dà una misura di
come i singoli assets siano valutati dal mercato.
Ovviamente, affinché la valutazione sia corretta, è necessario che, nello scegliere società o
transazioni comparabili, si tengano in considerazione i seguenti elementi: stesso settore di
appartenenza delle imprese confrontate; stessa dimensione; medesimo stadio del ciclo di vita
dell‟impresa; composizione della struttura finanziaria simile.
36
5. La valutazione delle performance aziendali.
L’eva:
L‟EVA nasce in risposta all‟UDCF come metodo più semplice ed immediato per la valutazione
[Stern&Stewart]. Tale approccio parte da dati contabili (più semplici da calcolare) e considera il costo
del capitale come WACC.
EVA = NOPAT – WACC * CI
EVA= valore creato; NOPAT= (net operating profit after taxes) cioè reddito
operativo al netto dell‟imposizione fiscale; WACC= costo medio ponderato del
capitale; CI= capitale investito (sia proprio che di terzi)
La più importante delle innovazioni introdotte dall‟Eva è che è possibile calcolare l‟EVA per centri di
responsabilità ed individuare quali di essi creano valore, cosa che non è possibile con nessuno degli altri
metodi.
Limiti dell‟EVA:
 Partendo da dati contabili, può essere soggetto a modifiche troppo soggettive;
 Non risolve comunque il problema delle opzioni reali;
 Considera marcatamente la prospettiva degli azionisti;
 E‟ più orientato ai risultati che ai processi che li generano.
La balanced score card:
Questo è uno strumento di valutazione della strategia estremamente rivoluzionario [Norton&Kaplan].
L‟elemento di novità di questo strumento sta nel riuscire a conciliare un‟analisi di tipo quantitativo con
un‟analisi qualitativa. La Balanced score card, infatti, considera performance multidimensionali; a tal
fine, prende in esame quattro prospettive sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
 Apprendimento e crescita (learning and growth)= come mantenere capacità di apprendimento e
miglioramento?;
 Processi interni (business process)= come eccellere nell’attività core?;
 Cliente (customer)= come apparire ai clienti?;
 Prospettiva economico-finanziaria (financial)= come mantenere gli obiettivi economico-finanziari?;
37
Il principale vantaggio di tale metodo è quello di prendere in considerazione le istanze di diversi
stakeholder, mentre il principale punto di debolezza è che non sempre è facile operare una sintesi che
tenga conto in maniera efficace delle istanze che da queste quattro prospettive derivano.
6.Le crisi d’impresa come alterazione degli equilibri fondamentali.
6.1. Equilibrio, squilibrio e crisi.
Il fine principale cui tende l‟impresa, nello svolgimento della propria attività è, come detto
precedentemente, la ricerca della sopravvivenza. Tale obiettivo è raggiungibile anche tramite il
contemporaneo verificarsi dei tre equilibri particolari -economico, finanziario e patrimoniale- che sono
strettamente legati tra loro: i costi ed i ricavi che caratterizzano la gestione economica sono misurati da
flussi in entrata ed in uscita propri dell‟ambito finanziario, i quali, generati dalle operazioni connesse alla
modalità di raccolta ed al rimborso dei finanziamenti, condizionano la struttura patrimoniale.
Il termine equilibrio, pertanto, indica “quello stato di composizione e di funzionamento del sistema nel
quale l‟impresa, nell‟aspetto economico che è fondamentale per il suo fine, ed a cui sono connesse tutte
le altre condizioni, può remunerare tutti i fattori della produzione e conseguire almeno una quantità
minima di reddito economico netto (profitto), avviandosi da tale punto minimo di equilibrio al
raggiungimento di quel reddito che, entro un massimo, l‟imprenditore giudicherà soddisfacente,
secondo il suo tornaconto, misurato in termini di arbitraggio tra impieghi”32.
Il raggiungimento ed il mantenimento nel tempo di queste condizioni di equilibrio rappresentano,
come più volte detto, presupposti essenziali per la continuità dell‟attività d‟impresa, nonché il principio
unico per la sua sopravvivenza.
In questa logica, una situazione di squilibrio può essere definita come quel particolare momento della
vita di un‟impresa in cui gli equilibri fondamentali cessano momentaneamente di verificarsi ed il sistema
si muove, a seconda della sua capacità di risposta e di rinnovamento, verso nuovi e diversi equilibri; se
tale squilibrio è definitivo ed irreversibile, invece, l‟impresa si muoverà verso la disgregazione e l‟uscita
dal mercato, poiché si configurerà uno stato di crisi. L‟insufficiente creazione o addirittura la
distruzione di valore costituiscono i principali e sostanziali indicatori di squilibrio che, quando
32
A. Amaduzzi, L’azienda nel suo sistema operante (a cura di Antonio Amaduzzi), ed. UTET, 2002.
38
raggiunge o supera determinate soglie di rilevanza, diventa espressione del declino dell‟impresa e della
conseguente crisi.
La verifica del raggiungimento degli equilibri particolari diventa, pertanto, l‟indicatore essenziale di
possibili squilibri in atto, il principale indicatore del declino che potrebbe verificarsi, nonché uno
strumento utile di previsione e di prevenzione di situazioni negative che potrebbero tramutarsi in crisi.
Da qui deriva che la ricerca dell‟equilibrio, in condizioni di estrema turbolenza e complessità, non è mai
definitiva, ma muta continuamente forma, presupposti ed effetti33.
L‟impresa deve pertanto imparare a convivere con situazioni di incertezza, in quanto il rapporto tra
azienda e sistema ambientale muta continuamente, si evolve e cambiano, così, le dinamiche di
raggiungimento delle condizioni di equilibrio.
Quando l‟impossibilità di raggiungere gli equilibri persiste e la situazione di squilibrio diventa duratura,
come prima detto, si è in presenza di uno stato di crisi.
La crisi , pertanto, si manifesta come uno stato degenerativo che si esplica nella instabilità della
redditività, nella perdita, in misura rilevante o persino totale, del valore del capitale, con conseguenti
carenze in termini di cassa, in dissesti riguardanti i flussi finanziari, nella perdita della capacità di
ottenere credito generato dalla mancanza di affidamento da parte dei clienti e dei fornitori.
La crisi è, dunque, definita come “la fase acuta, conclamata ed esteriormente apparente del declino, è la
continuazione di una traiettoria negativa delle vicende dell‟impresa che può compromettere
irrimediabilmente le sue condizioni di sopravvivenza sul mercato e in cui, l‟aggravarsi degli squilibri
economici e finanziari è pienamente percepito dall‟esterno. Il deficit finanziario della gestione viene
ulteriormente aggravato dalla perdita di fiducia da parte del mercato e la situazione d‟insolvenza diventa
irrimediabile, senza consistenti interventi di ristrutturazione industriale e finanziaria”34.
Data la gravità conseguente all‟accertamento di uno stato di crisi, è necessario che l‟impresa
predisponga gli strumenti necessari a far sì che sia possibile fronteggiarlo o, perlomeno, rimediare ad
esso. Il tempo assume, a questo proposito, un ruolo fondamentale: è necessario, infatti, cercare di
anticipare e prevedere quei fenomeni che possono essere sintomatici di uno stato di crisi e che, se colti
in tempo, consentono all‟impresa di intervenire tempestivamente per evitare che esso diventi
irreversibile e comprometta in maniera definitiva i suoi equilibri e la sua attività.
Una crisi, infatti, è l‟espressione finale di un deterioramento che ha avuto una manifestazione pregressa
di cui nessuno, però, ha ravvisato segnali; la crisi,quindi, non è un accadimento improvviso, ma è il
frutto della sedimentazione di elementi che rimangono nascosti finché non ci si accorge che essi
possono essere altamente nocivi per lì equilibrio d‟impresa. La vita dell‟impresa, infatti, è influenzata dai
cambiamenti dell‟ambiente nel quale essa opera e risulta, di conseguenza, caratterizzata da un continuo
33
34
Si ripresenta qui il concetto di equilibrio instabile di cui si è parlato nella precedente nota 25.
G. Bertoli, Crisi d’impresa, ristrutturazione e ritorno al valore, Egea, Milano, 2000.
39
cambiamento e da continue evoluzioni che ai primi si adattano. Una delle fondamentali competenze dei
soggetti che operano all‟interno di un‟impresa, pertanto, è quella di riuscire a distinguere quando è in
atto un processo di crisi e prendere le decisioni necessarie.
6.2. Crisi e declino.
Si è detto che la manifestazione di uno stato di crisi si ha contemporaneamente ad una situazione di
prolungato disequilibrio. Appare, comunque, utile operare una distinzione tra alcuni termini che
vengono generalmente utilizzati per indicare una situazione di difficoltà dell‟impresa, ma che sono
diversi dal concetto di crisi. La prima distinzione da fare è quella tra crisi e declino.
Il declino è definito come una performance negativa in termini di “distruzione di valore”; così, si dice
che l‟impresa è in declino quando perde valore nel tempo. Il declino si ha non solo presenza di
rilevazioni di manifeste perdite economiche, ma anche in presenza di una contrazione, di una sensibile
riduzione e deterioramento dei flussi economici.
Non vi è, comunque, declino quando le perdite reddituali sono occasionali e temporanee; è necessario,
infatti, che queste siano sistematiche ed irreversibili e riguardino non solo le performance passate ed
attuali, ma influenzino anche quelle future; la perdita di capacità reddituale, pertanto, unita
all‟accrescimento dei rischi d‟impresa, superata una certa soglia, determina una situazione di declino35.
Esso, inoltre, non è solo contrazione degli utili o limitazione della capacità reddituale; può essere
causato anche da un‟assenza di capacità di prevedere o interpretare dei fenomeni che possono essere
precursori dello stato di crisi. Da ciò deriva che un‟impresa in declino, tramite un‟accurata attività di
previsione svolta dal management, può essere risanata e non far degenerare il suo stato in crisi. La fase
di declino, pertanto, può essere evitata tramite la prevenzione o la modifica delle strategie aziendali in
modo tempestivo.
La crisi, invece, è uno stadio successivo e più grave del declino, o la diretta conseguenza di esso, nel
caso in cui l‟impresa non riesca a stabilire procedure di riorientamento.
Il declino, pertanto, se non opportunamente previsto e fronteggiato, genera uno stato di crisi, dalla
quale l‟impresa può uscire o non uscire: il primo caso sarà possibile con la predisposizione di strategie
di turnarond; il secondo, invece, causerà la cessazione dell‟attività d‟impresa.
35
L. Guatri, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, ed. Egea, Milano, 1995.
40
L. GUATRI, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, Egea, Milano, 1995, pag. 17.
Nonostante tale distinzione si proponga di individuare e definire con certezza i concetti di crisi e di
declino, non sempre è agevole riuscire a distinguere tra tali due fattispecie.
Il declino, infatti, può anche rappresentare un passaggio fisiologico nella vita di un‟impresa, in funzione
della naturale evoluzione dell‟attività da essa esercitata, cui si accompagnano processi di ristrutturazione,
riconversione, rivitalizzazione, che non sono sempre sintomatici della perdita di equilibrio. La crisi, al
contrario, è connotata dal carattere di persistenza e di generalità, compromette, cioè, tutto il sistema e la
struttura di un‟impresa.
6.3. Crisi e insolvenza.
Un‟ulteriore differenza che bisogna sottolineare è quella tra stato di crisi e stato di insolvenza. La
necessità di operare tale specificazione nasce da due fattori, il primo di natura giuridica, il secondo di
matrice economico-aziendale.
Dal punto di vista giuridico, infatti, lo stato di insolvenza costituisce il presupposto oggettivo del
fallimento36 e si sostanzia nella incapacità del soggetto imprenditore di far fronte regolarmente alle
proprie obbligazioni. Tale definizione, tuttavia, non rientra nel campo di analisi di questo lavoro;
appare, pertanto, più significativa la differenza tra insolvenza in senso economico-aziendale e crisi.
Da questa prospettiva, l‟insolvenza consiste in uno squilibrio tra flussi finanziari in entrata ed in uscita,
da cui deriva una incapacità dell‟impresa di pagare normalmente i propri debiti. L‟importanza della
36
Art. 5 legge fallimentare.
41
distinzione tra crisi e stato di insolvenza sta nel fatto che la manifestazione duratura di quest‟ultimo non
può esistere senza che vi sia un sottostante squilibrio economico. L‟equilibrio fondamentale di gestione,
infatti, è l‟equilibrio economico; di conseguenza è molto difficile che si verifichi una crisi di esclusiva
matrice finanziaria.
Generalmente, infatti, una insolvenza duratura ha radici economiche (legate, ad esempio, al
decadimento dei prodotti, ad inefficienze operative, a cause di mercato)per cui, anche se si ripristinasse
l‟equilibrio finanziario, non si riuscirebbe comunque ad eliminare le cause sottostanti che sono,
appunto, economiche. La crisi finanziaria, pertanto, è sempre un riflesso del disequilibrio tra costo e
ricavi che, per il legame che è stato più volte sottolineato, si traduce in aspetti finanziari37. Da qui si
deduce che una manifestazione di insolvenza che non dipenda da fattori economici, non può
configurare uno stato di crisi, dal momento che basterà ripristinare l‟equilibrio finanziario, senza che ciò
comporti crisi. A ciò deve aggiungersi che l‟impresa può anche attraversare crisi di natura finanziaria
che derivino, ad esempio, da scelte errate afferenti all‟indebitamento.
Naturalmente, in queste
situazioni, l‟elemento patologico può essere rimosso con più facilità di quanto non accada nel caso di
crisi economiche, dal momento che queste ultime producono anche squilibri finanziari.
6.4. Fisiologia e patologia d’impresa.
Facendo riferimento ad un parallelismo biologico, l‟impresa in ordinario funzionamento che riesca a
raggiungere l‟equilibrio generale tramite i tre equilibri particolari è un‟impresa in uno stato fisiologico; al
contrario, l‟impresa che non si trova in questa condizione è in uno stato patologico.
Per spiegare, tuttavia, il passaggio da uno stato fisiologico ad eventuali situazioni critiche bisogna
precisare che non necessariamente un‟azienda in condizione di squilibrio potrà essere interessata da uno
stato di crisi, a meno che tale situazione perduri nel tempo e non vi siano, nel breve periodo, segnali che
preannunciano una inversione di tendenza.
Non si può, pertanto, affermare che lo squilibrio sia sinonimo di gestione carente mentre l‟equilibrio sia
indice di una gestione di successo; la crisi, infatti, è sempre la risultante della realtà dinamica, complessa
ed articolata che caratterizza il sistema aziendale. I rapporti di interdipendenza che l‟azienda stabilisce
con il sistema ambiente, la necessità di adattarsi ai cambiamenti, nonché l‟inadeguatezza di modelli
strategici, gestionali ed organizzativi, porta ad una carenza di flessibilità ed a tensioni derivanti dal
“L‟aspetto finanziario della crisi si può considerare preminente solo in due ipotesi o momenti della vita
aziendale: nella fase di avvio, allorché l‟insufficienza di mezzi propri può impedire la nascita dell‟impresa, o in
quella di sviluppo dimensionale, quando la crescita è superiore alla capacità finanziaria dell‟imprenditore”, S.
Sciarelli, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento delle piccole e medie imprese,Cedam, Padova, 1995, pag. 11.
37
42
mancato perseguimento delle finalità aziendali, tutte cause di uno stato di disarmonia e tensione che si
riflettono sulle condizioni di equilibrio economico – finanziario dell‟azienda.
La crisi d‟impresa, infatti, ha carattere di globalità, nel senso che interessa tutte le aree gestionali
dell‟impresa e ne compromette tutti gli equilibri, essendo la risultante di un processo di degenerazione
che riguarda la totalità dell‟impresa. Si sostiene, infatti, che le principali caratteristiche di una crisi
aziendale, nonché le principali cause della sua invadenza e totalità, siano tre: threat, time and surprise38. Il
primo elemento riguarda l‟entità della „minaccia‟, cioè la rilevanza che una crisi ha nella compromissione
degli equilibri di fondo, nel senso che essa interessa in maniera seria e rilevante la globalità del sistema
impresa. Il secondo elemento, il „tempo‟, riguarda, invece, la possibilità di reagire alla manifestazione
della crisi; essa, infatti, pur essendo, come detto prima, il risultato della sedimentazione di processi
negativi, esplode all‟improvviso e richiede limitato tempo di azione e velocità di decisione, onde non
compromettere in maniera definitiva gli equilibri d‟impresa. Il terzo elemento, infine, riguarda la
„sorpresa‟, cioè la percezione improvvisa del momento di difficoltà aziendale; essa, infatti, si presenta
come un elemento straordinario nella vita di un‟impresa, pertanto esige comportamenti di risposta e di
reazione di carattere straordinario. Nell‟arco della vita di un‟impresa, pertanto, diventa fondamentale
rendersi conto in anticipo di quali potranno essere le situazioni che, degenerando, potrebbero portare a
stati di crisi ed agire per tempo; tali stati, infatti, determinano la necessità di prendere decisioni
fondamentali, che siano soddisfacenti, in intervalli di tempo assai ridotti.
Il passaggio, pertanto, da uno stato fisiologico ad uno stato patologico è graduale e spesso rimane
latente, fino al momento in cui non arriva a compromettere in maniera evidente gli elementi strutturali
del meccanismo d‟impresa, causando gravi stati di inefficacia ed inefficienza di gestione.
6. 5. Tipologie di crisi.
Per comprendere quali siano gli elementi che determinano una crisi aziendale e compromettono gli
equilibri d‟impresa, si può fare riferimento ad alcune classificazioni che di tale fenomeno sono state
proposte dalla dottrina aziendale.
In questa sede si farà, in particolare, riferimento a due classificazioni proposte da altrettanti autori, che
individuano, rispettivamente, una differenza tra crisi ad origine interna e crisi ad origine esterna ed un
percorso evolutivo della crisi39.
V. Herman, Threat, time and surprise: a simulation of international crises, in Charles F. Hermann (ed.) International
Crises: Insights from Behavior Research. New York: Free Press 1972.
39 L. Guatri, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, Egea, Milano, 1995.
38
43
La prima formulazione teorica riguarda, come detto, la distinzione tra cause di origine interna e cause di
origine esterna che influiscono sul sistema azienda; tale sistema che, come più sopra detto, è un sistema
di tipo aperto, subisce le influenze dell‟ambiente in cui è inserito, per cui eventuali disfunzioni di tale
contesto esterno, si ripercuotono sul sistema azienda, causando squilibri. Va, comunque, precisato che
le crisi imputabili esclusivamente a fattori esterni sono limitate, giacché è sempre possibile identificare
in elementi interni le mancate risposte a problematiche riguardanti avverse condizioni di mercato. Le
due prospettive, esterna ed interna, infatti, sono strettamente interdipendenti, dal momento che è
innegabile che una crisi di settore può essere superata grazie all‟attività del management, come, al
contrario, in caso di assenza di quest‟ultima, può contribuire a peggiorare la situazione generale
dell‟impresa.
L‟autore distingue tre tipologie di crisi a matrice esterna40:
o Crisi settoriali, che investono intere aree dell‟economia o particolari settori; esse, quindi,
dipendono dalla mutevolezza insita nelle porzioni di mercato in cui l‟impresa va a collocarsi e
dalla conseguente incapacità di quest‟ultima di adattarsi a tali cambiamenti.
o Crisi ecologico-ambientali, le quali sono principalmente dovute a pressioni e/o disposizioni di
natura normativa che impediscono o limitano fortemente lo svolgimento dell‟attività di impresa
così come essa era stata inizialmente prevista e sviluppata.
o Eventi catastrofici che minano in maniera quasi irreparabile l‟equilibrio economico delle imprese a
seguito, per esempio, di disastri naturali o tecnologici di grave entità.
Le crisi di natura interna, invece, sono individuate dall‟autore tra le seguenti:
o Crisi da inefficienza produttiva, riguardanti gli aspetti produttivi che si differenziano a seconda dei
vari settori, con riferimento ad una configurazione sproporzionata tra costi sostenuti e redditi
prodotti. Ciò accade prevalentemente in quei settori maturi, in cui risulta fondamentale
perseguire discreti margini e vantaggi di costo, data la presenza di numerosi competitors. Questa
tipologia di crisi è spesso caratterizzata da un appesantimento delle spese generali e dai costi
della struttura aziendale che nascondono sprechi di risorse, politiche non rigorose né controllate
nella fase di approvvigionamento dei fattori produttivi.
o Crisi strategiche. Le responsabilità di tali crisi, che si manifestano solitamente con livelli di
assoluta gravità, viene generalmente individuata nelle scelte del management e/o della proprietà,
40
S. Sciarelli, La crisi d’impresa. Il percorso gestionale di risanamento delle piccole e medie imprese, Cedam, Padova, 1995.
44
in relazione alla composizione del portafoglio di attività e relativamente all‟assetto competitivo,
anche in termini di condotte che l‟impresa ha scelto di tenere. Se la crisi si manifesta con una
pronunciata rigidità strutturale, elevati e imprecisati costi amministrativi, vuoti di capacità
produttiva, perdita di controllo e burocratizzazione del sistema decisionale, la scelta obbligata è
una semplificazione strutturale con uno snellimento del set di costi generali. In parte diverso è il
fenomeno di crisi conseguente a scelte estreme e non vincenti nella diversificazione, qualora
queste risultino incorrelate e incoerenti rispetto all‟orientamento di fondo dell‟impresa. Questi
limiti si evidenziano soprattutto allorquando l‟impresa intraprende un percorso di
internazionalizzazione e, come dimostra l‟evidenza empirica e per certi versi anche il caso di cui
ci occuperemo, è spesso necessario una rifocalizzazione sul core business per tornare ad essere
vincenti in un quadro altamente globalizzato. Ancora diversa natura presenta invece una crisi
legata all‟attività principale dell‟azienda o core business, a cui, sovente, ne consegue il necessario
abbandono del settore e l‟accertamento dell‟opportunità o meno di intraprendere un
riconversione produttiva, la qual cosa implicherebbe un processo di risanamento alquanto
complesso e il supporto di un piano formale di elevatissimo grado di dettaglio e
formalizzazione.
o Crisi dimensionali. Tali tipologie riguardano le aziende dotate di scarsa flessibilità strategica ed
operativa, spesso causata da elevate dimensioni che aumentano la rigidità strutturale. I processi
di crescita legati al tipo di attività svolta determinano una resistenza al cambiamento che limita
le possibilità di sviluppo dell‟impresa.
o Crisi competitive o di posizionamento. Riguardano la modalità con cui l‟impresa si inserisce nelle aree
competitive del mercato; una crisi di questo genere deriva da errori compiuti nella fase della
scelta del segmento in cui essa si posiziona o nella sua incapacità di reagire ad eventuali novità
nelle modalità di competizione all‟interno del segmento stesso.
Nonostante questa distinzione fra crisi a matrice esterna e crisi a matrice interna bisogna, comunque,
specificare che essa risulta utile per cercare di distinguere le cause, ma comunque non può esserci una
netta separazione tra l‟impresa e l‟ambiente in cui essa opera; i comportamenti aziendali, infatti, sono
spesso frutto di modificazioni avvenute nel contesto esterno, così come, in presenza di eventi
particolarmente negativi, sarà necessario dotarsi delle professionalità necessarie a favorire processi di
sviluppo ed evoluzione, evitando la crisi.
45
L‟altra classificazione di crisi di cui più sopra si è parlato riguarda la definizione di una sorta di ciclo
evolutivo della crisi aziendale41 che può risultare utile sia per cercare di comprendere quali siano gli
elementi che maggiormente sono interessati dalla crisi, sia per sviluppare, eventualmente, un piano di
intervento che tenga conto delle specificità e del livello di gravità cui essa è giunta e dei rimedi da porre.
Tale percorso, che è più specificamente riferibile a crisi di natura economica, si sviluppa in quattro stadi:
i primi due stadi corrispondono alla fase di declino dell‟impresa, come più sopra definito; il terzo ed il
quarto stadio rappresentano la manifestazione della crisi in senso stretto,in cui le perdite economiche si
riflettono all‟esterno determinando, per l‟azienda, perdite di credito e di fiducia.
Il primo stadio è definito di incubazione, la quale si manifesta nei primi segnali di decadenza, di squilibri e
di inefficienza aziendale, sintomi spesso difficili da individuare. Questa difficoltà deriva, spesso, dalla
tendenza dei soggetti interni all‟impresa a “rifiutare” l‟insorgere o la eventuale esistenza di sintomi di
decadenza, oppure dal fatto che, in una prospettiva complessiva e globale, elementi di debolezza
potrebbero risultare compensati da punti di forza, con la conseguenza che eventuali segnali negativi
sfuggono all‟analisi del quadro generale dell‟azienda.
L‟impresa che, in presenza di tali segnali, riuscisse a comprendere l‟esistenza di criticità di gestione
riuscirebbe a trarre vantaggi da questa tempestività, al fine di riuscire a porre in essere gli interventi
necessari per rimuovere tali elementi negativi e riportare la situazione alla normalità.
Il secondo stadio è definito della maturazione del declino; esso si manifesta nella perdita di flussi
reddituali e di valore del capitale. Questo secondo stadio è certamente più grave di quello
precedentemente individuato, dal momento che interessa i due valori –reddito e capitale- più
sintomatici dello stato di salute dell‟impresa. Se essa non riesce ad accertare questa fase di sviluppo di
situazioni critiche, giungerà alla fase seguente, che definisce la crisi vera e propria.
Il terzo stadio, infatti, è quello delle ripercussioni delle perdite sui flussi di cassa, che si attenuano o diventano
negativi e della diminuzione di credito e di affidabilità dell‟impresa.
E‟, questo, il cosiddetto „momento finanziario‟, che rappresenta la manifestazione esterna delle
difficoltà dell‟impresa, anche se viene spesso confuso con la cause stessa della crisi. Esso comporta una
riduzione graduale delle riserve e del capitale sociale, che viene progressivamente eroso per coprire le
perdite pregresse; questo contribuisce a far ridurre la fiducia finanziaria nell‟impresa e ne penalizza il
ricorso al mercato del credito.
Il quarto stadio coincide con la fase acuta e l‟esplosione della crisi, che lede in modo definitivo tutti gli
stakeholder dell‟impresa. Da qui, l‟impresa attraverserà fasi di insolvenza e, successivamente, di dissesto,
che comprometteranno inesorabilmente l‟equilibrio generale di gestione.
Come già detto nei precedenti paragrafi, l‟insolvenza consiste nell‟incapacità, da parte dell‟impresa, di
far fronte alle scadenze, agli impegni assunti e alle proprie obbligazioni. La crisi, pertanto, non è più un
41
L. Guatri, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, ed. Egea, 1995.
46
evento esclusivamente interno all‟impresa, ma si manifesterà all‟esterno tramite effetti palesi che
investiranno tutti gli interlocutori dell‟impresa (incapacità a fronteggiare le scadenze, perdita di fiducia e
di credito, sfaldamento della struttura organizzativa, riduzione progressiva della clientela). In questa
situazione qualsiasi intervento riparatore appare di difficile implementazione, spesso tardivo e con
probabilità di successo assai ridotte, in ogni caso, comunque, dovrebbe riguardare aspetti profondi della
struttura aziendale, soprattutto la composizione del capitale ed il gruppo manageriale.
All‟insolvenza, poi, può seguire il dissesto, situazione in cui l‟impresa conosce uno stato degenerativo
avanzato, caratterizzato da una condizione di permanente squilibrio patrimoniale, influenzato dalle
precedenti condizioni di squilibrio economico e finanziario. La disgregazione di tutto il sistema
aziendale diviene, così, un processo ineluttabile e nessun intervento di risanamento o salvataggio risulta
possibile, a meno che vi sia la volontà dei creditori di acconsentire a tagli delle loro esposizioni oppure
senza il ricorso a procedure concorsuali42.
Le procedure di risanamento eventualmente iniziate in questa fase del declino aziendale sono
caratterizzate da enormi difficoltà ed hanno scarsissime probabilità di successo, se si considera che
elementi quali la credibilità e l‟immagine dell‟azienda sono compromesse in maniera il più delle volte
irrecuperabile.
L‟elemento comune a questi quattro stadi di avanzamento della crisi d‟impresa sta nella capacità del
management dell‟impresa di riuscire a prevedere o meno i sintomi che li caratterizzano; l‟elemento
fondamentale, infatti, in tali situazioni è la tempestività del management di riuscire ad individuare tali
segnali ed a proporre interventi immediati di recupero.
L‟obiettivo di un approccio economico – aziendale al risanamento delle crisi aziendali, pertanto, che è
quello proposto in questo lavoro, è quello di cercare di accrescere il più possibile la sensibilità
dell‟impresa nella percezione dei segnali, anche minimi, di criticità, i quali derivano, senza dubbio,
dall‟analisi dei principali documenti contabili con i quali l‟impresa comunica con l‟esterno.
6.6. Sintomatologia della crisi: le cause economiche.
A questo punto appare utile cercare di individuare quali possano essere le cause che influiscono
negativamente sull‟equilibrio dell‟impresa e ne compromettono il funzionamento. Poiché la prospettiva
adottata in questo lavoro è, come detto, di matrice economico-aziendale, risulta chiaro che gli elementi
che maggiormente minano il normale andamento dell‟impresa vengono individuate tra gli elementi che
L‟accenno alla possibilità che ad una crisi irreversibile d‟impresa segua il fallimento con le relative procedure,
volontarie o coatte, pur esulando dal campo di questo lavoro, appare comunque dovuto, dal momento che nella
realtà le due fasi –accertamento economico-aziendale e procedimento giuridico- sono inscindibilmente collegate.
42
47
normalmente ne caratterizzano il funzionamento dal punto di vista dei costi/ricavi e delle
entrate/uscite. Come si è detto a proposito dell‟equilibrio generale d‟impresa, nonostante esso sia la
risultante di tutte le forze che agiscono all‟interno di essa, è comunque possibile individuare un
momento „anteriore‟, quello economico, che rappresenta la condizione prima e prioritaria di stabilità
generale. Appare, pertanto, coerente iniziare a parlare di cause economiche della crisi di un‟impresa,
come elementi determinanti per il suo verificarsi. Si è detto che la condizione affinché si verifichi
l‟equilibrio è l‟uguaglianza tra costi e ricavi; tale condizione, ovviamente, rappresenta l‟espressione finale
di una serie di valori che riguardano la gestione dell‟impresa nel suo complesso. Ognuna delle due voci,
infatti, è composta da tutti i valori che compongono la struttura aziendale: i ricavi, ad esempio,
dipendono dalla quantità di prodotto venduto, dai prezzi di vendita, dai canali distributivi prescelti; i
costi, invece, sono influenzati dai materiali acquistati, dalla composizione della produzione, dal numero
di dipendenti, ecc43. La composizione di tali voci, pertanto, risulta composta da una serie di fattori che
finiscono con l‟influenzarne sia l‟equilibrio che lo squilibrio e, quindi, eventualmente, la crisi. Pertanto,
dopo aver analizzato gli indicatori dell‟equilibrio economico, è utile individuare quali sono gli elementi
che compongono le singole voci di tali indicatori e come essi possano negativamente influenzare
l‟equilibrio d‟impresa. Tali indicatori sono stati individuati in alcuni ratios che presentavano come
elemento comune una quantità reddituale al numeratore; in questa sede, si farà specifico riferimento al
principale di tali rapporti, il ROE, che rappresenta l‟indice di redditività del capitale proprio e contiene
in sé anche gli altri indicatori di redditività delle singole gestioni44. L‟indicatore principale dell‟equilibrio
economico, pertanto, viene ad essere la redditività del capitale proprio, inteso come riferimento di
performance per i detentori di capitale di rischio (soci). I fattori, pertanto, che influenzano tale indice
sono: la redditività del capitale investito (a sua volta scomposta tra redditività delle vendite ed il tasso di
rotazione del capitale investito), il tasso di indebitamento, il costo dei mezzi di terzi ed il tasso di
incidenza della gestione extracaratteristica. Ognuno di questi indici risulta composto dalle voci di costi e
di ricavi che formano il Conto Economico, per cui qualsiasi valore in esso presente influenza la
redditività complessiva e, di conseguenza, eventuali squilibri.
6.6.1. Sintomatologia della crisi: le cause finanziarie.
Si è detto che l‟equilibrio particolare da cui dipende la situazione di generale fisiologia dell‟impresa è
quello economico; esso, tuttavia, è strettamente legato alle dinamiche finanziarie che ne misurano le
Non si fa, per ora, riferimento alla distinzione tra costi fissi e costi variabili.
Si fa specifico riferimento a quella che viene definita la „catena del ROE‟ che, appunto, mette in correlazione
gli indici di redditività di ciascuna delle gestioni: ROE (RN/CN)= ROI x leverage ratio x incidenza della gestione
extracaratteristica= RO/CI x CI/CN x RN/RO.
43
44
48
componenti. Accanto, quindi, a cause economiche, è necessario fare riferimento a cause di crisi di tipo
finanziario, pur se rimane valida la considerazione secondo cui la separazione tra tali due momenti, se
risulta agevole in teoria, nella pratica è molto più difficile da distinguere. I fattori di natura finanziaria
che originano una crisi, pertanto, decretano l‟assenza dell‟uguaglianza tra entrate ed uscite che
rappresenta la condizione prima dell‟equilibrio economico. Per studiare, quindi, i sintomi di squilibri
finanziari bisogna analizzare gli elementi fondamentali che caratterizzano questa fase della gestione
dell‟impresa ed individuare quali sono gli elementi che negativamente incidono su di essa.
Generalmente, le situazioni che configurano uno squilibrio finanziario sono individuate nelle seguenti45:
o grave carenza di mezzi propri e corrispondente prevalenza di mezzi di terzi (eccessivo ricorso al
leverage);
o marcata presenza di indebitamento a breve rispetto alle altre tipologie di fonti;
o mancanza di omogeneità tra fonti di finanziamento ed impieghi (gli investimenti a lungo
termine vengono finanziati da fonti a breve e viceversa);
o insufficienza o scarsezza di riserve di liquidità;
o scarsa o nulla capacità dell‟impresa di contrattare le condizioni dell‟indebitamento;
o difficoltà a rispettare le scadenze relative a pagamenti verso fornitori o enti.
L‟incidenza del debito e la sua composizione, come si vede dall‟elenco, è senza dubbio il fattore che
maggiormente incide sulla gestione finanziaria dell‟impresa. La tipologia di fonti che l‟impresa sceglie
(capitale proprio o capitale di terzi), infatti, incide in termini di oneri sulla gestione economica,
contribuendo a rafforzare il legame tra momento economico e momento finanziario di cui più volte si è
parlato.
In termini di indici, lo squilibrio finanziario si manifesta in46:
o rigidità eccessiva degli investimenti con una forte prevalenza delle immobilizzazioni che indica
un‟esposizione al rischio dell‟impresa a fronte di particolari turbolenze ambientali;
o forte indebitamento aziendale, segnale di rischio finanziario, particolarmente grave se definito
da una prevalenza del debito a breve termine;
o il capitale circolante netto o margine di disponibilità (pari alla differenza tra attività e passività correnti),
che costituisce una prima misura della solvibilità a breve termine dell‟impresa, se di segno
negativo evidenzia che la copertura di parte dell‟attivo immobilizzato avviene mediante poste
del passivo corrente;
45
46
L. Guatri, Turnaround: crisi, declino e ritorno al valore, ed. EGEA, 1995.
Cfr. P.Bastia, Pianificazione e controllo dei risanamenti aziendali, ed. Giappichelli, 1996.
49
6.6.2. Sintomatologia della crisi: le cause patrimoniali.
Connesse alle cause di crisi economiche e finanziarie, sono quelle patrimoniali. Si è già detto, a
proposito dell‟equilibrio patrimoniale, che esso può definirsi „riflesso‟, in quanto esso è la risultante
delle scelte che prioritariamente influenzano i precedenti due equilibri.
Le cause di eventuali dissesti di origine patrimoniale, tuttavia, vanno ricercate nella composizione e
nella struttura del patrimonio, in particolare per quanto riguarda la consistenza del capitale proprio. A
tale scopo, si riportano di seguito due indici che riguardano la struttura del patrimonio. Nonostante
riguardino elementi considerabili di natura finanziaria, essi vengono generalmente analizzati per studiare
la composizione del patrimonio; pertanto, considerare tali elementi come indicatori di possibili squilibri
di tipo patrimoniale conferisce, come detto, a tale tipologia di crisi una natura, appunto, „riflessa‟.
La struttura del patrimonio, in genere, è analizzata principalmente tramite due differenze:
o il margine di struttura (pari alla differenza tra capitale proprio e attivo fisso) che appare fortemente
negativo a causa di un capitale proprio basso e da una accentuata esposizione debitoria a cui è
stato necessario far fronte (tale situazione è detta di sottocapitalizzazione); in questi casi si è in
presenza “di una inadeguatezza del capitale di proprietà rispetto agli sforzi investitori
dell‟impresa”47;
o il margine di tesoreria (pari alla differenza tra liquidità immediate e differite e il passivo corrente)
esprime la capacità dell‟impresa di far fronte al pagamento dei debiti a breve mediante attività
circolanti liquide; esso può essere negativo, senza che ciò comporti squilibri, ed evidenziare
andamenti naturalmente variabili nel corso della vita dell‟azienda. Il suo andamento, tuttavia, va
monitorato assieme a quello del margine di struttura, al fine di verificare la eventuale presenza
di situazioni patologiche a livello finanziario o patrimoniale.
47
Ibidem.
50
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