TESI DOTTORATO GIANCARLO GENNARO

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Università degli Studi di Palermo Facoltà di Giurisprudenza
Dottorato di ricerca in
Processo di integrazione europea e diritto internazionale
LA GOVERNANCE ECONOMICA DELL’U.E.: I VINCOLI
COMUNITARI GRAVANTI SULLA DETERMINAZIONE
DEI PRINCIPI DI COORDINAMENTO DELLA FINANZA
PUBBLICA E SULLA ARMONIZZAZIONE DEL SISTEMA
TRIBUTARIO NAZIONALE, NELLA PROSPETTIVA DI
ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE
Tutor
Professore Nicola Romana
Candidato
Dottor Giancarlo Gennaro
Coordinatore del dottorato
Professoressa Laura Lorello
XXIV Ciclo A.A. 2010/2011
IUS/06 – IUS/14
1
INDICE
Introduzione ………………………………………………………... 4
Capitolo I
La nuova governance economica europea
1. Premessa: brevi cenni sull’origine dell’Eurozona ……………... 7
2. Alla ricerca delle cause strutturali dell’attuale crisi economica a
livello mondiale: la “deregulation” e l’eccesso di liquidità …… 12
3. I problemi di governance economica dell’U.E. emersi con la crisi 17
4. (Segue) l’emersa inadeguatezza della governance economica europea
22
5. La crisi dei debiti sovrani ed i problemi nella loro gestione con
particolare riferimento al ruolo delle agenzie di rating ………... 26
Capitolo II
Il difficile percorso delle Istituzioni europee per arginare gli effetti
della crisi
1. Gli interventi europei del 2011/2012 per fronteggiare la crisi: il
Patto Euro Plus ……………………………………………... 34
2. Il Semestre Europeo …………………………………….…... 37
3. Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance
nell’Unione economica e monetaria: il “Fiscal Compact” ....…. 39
4. Il Meccanismo europeo di stabilità ………………………….. 59
4.1(Segue): i rapporti tra il M.E.S. ed il Fiscal Compact …….... 66
5. Il deficit di democrazia nei processi di intervento dell’U.E. nella
disciplina della governance economica: la logica intergovernativa 70
6. La natura giuridica dei recenti accordi europei con particolare
riferimento al Fiscal Compact ……………………………...... 77
2
Capitolo III
La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e l’attuazione
del federalismo fiscale in Italia
1. Brevi cenni in merito all’interpretazione dell’art. 81 Cost. preriforma: il “parametro fantasma” di cui al quarto comma ….... 84
2. La Legge costituzionale n. 1/2012: la costituzionalizzazione del
principio di equilibrio di bilancio …………………………….. 89
3. Prime considerazioni critiche in merito al principio costituzionale
del pareggio di bilancio ………………………………………. 96
4. La Legge costituzionale n. 1 del 2012 e l’istituzione dell’Ufficio
parlamentare di bilancio ……………………………………. 101
5. Il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione tedesca 109
6. L’attuazione del federalismo fiscale in Italia alla luce dei vincoli di
origine europea. Brevi cenni sulla piattaforma normativa italiana:
prima della riforma costituzionale del 2001 ………………… 115
6.1 (Segue) dopo la riforma del titolo v, parte II della Costituzione:
dal vecchio al nuovo testo dell’art. 119 ……………….……. 122
7. Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione ………………………… 133
8. (segue) l’attuazione della legge delega n. 42 del 2009 ……….. 145
Bibliografia ……………………………………………….………. 153
3
Introduzione
La grave crisi economica e di fiducia che negli ultimi anni ha
coinvolto diversi Paesi occidentali, di cui molti appartenenti
all’Eurozona, ha messo in evidenza tutte le carenze e la fragilità
dell’Unione economica e monetaria.
Ed invero, nell’area dell’euro si è cercato di realizzare importanti
riforme volte a garantire che l’U.E.M. tenesse fede al proprio acronimo,
costituendo una vera e propria Unione economica e monetaria; gli
eventi hanno dimostrato come sia necessario porre maggiore attenzione
sull’aspetto “Economico” dell’U.E., posto che il coordinamento
economico non è stato abbastanza forte da prevenire l’insorgere di
squilibri macroeconomici e di bilancio all’interno dell’Eurozona.
Con l’obiettivo di comprendere meglio le tematiche oggetto di
questa tesi, appare opportuno soffermarsi brevemente sul significato
che assume il termine “governance” – derivante dal francese gouvernance
– che nel XIII secolo significava governo.
Tale definizione, tuttavia, risulta piuttosto anacronistica posto che
nel corso degli anni tale temine ha cambiato totalmente il suo
contenuto. Inoltre, ai nostri fini non aiutano quelle che sono le possibili
traduzioni in italiano del termine governance con “governanza” o “buon
governo”; risulta ormai pacifico, infatti, che il lemma è stato acquisito
4
dall’italiano (il GDU, diretto da Tullio De Mauro, certifica il 1988 come
data della prima attestazione nell’italiano scritto).
Più precisamente, il citato anglicismo, che propriamente vuol dire
“modo di dirigere, conduzione” e che inizialmente ha battuto e
ribattuto sulle pagine della stampa italiana le piste del mondo
dell’impresa, esprime (a differenza di government che indica sia il governo,
sia l’amministrazione pubblica) “quell’insieme dei princìpi, dei modi,
delle procedure per la gestione e il governo di società, enti, istituzioni, o
fenomeni complessi, dalle rilevanti ricadute sociali” e dunque una
concezione non autoritativa del processo decisionale pubblico,
concezione ravvisata, di volta in volta: nella “risoluzione collettiva dei
problemi” (Osborne & Gaebler); nella “interazione degli sforzi di
intervento di tutti gli attori coinvolti” (Kooiman); nelle tecniche
utilizzate per individuare le organizzazioni e i programmi necessari per
realizzare le mire e le preferenze dei cittadini (Purchase & Hirshhorn)1;
in tecniche e raccordi di carattere legislativo, regolamentare, normativo,
amministrativo di prassi e comportamenti necessari per consentire il
funzionamento complessivo del sistema2; in un “processo di
riallocazione del potere pubblico tra soggetti pubblici e soggetti privati
di vario genere, e un conseguente processo verso il basso di quote
sensibili di potere”3; in una “redistribuzione di autorità e in un
1
Una silloge di definizioni (tra le quali quelle citate nel testo) è riportata in Demers
M., La gouvernance de la gouvernance: Faut-il freiner l'engouement?, in Institut International
des Sciences Administratives, Gouvernance: concepts et applications - Governance: concepts &
applications, edited by J. Corkery, 1999, p.367.
2
Pizzetti F., Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico "esploso", "Le
Regioni", n. 6/2001, p. 1153.
3
FERRARESE M. R, La governance tra politica e diritto, il Mulino, 2010, p. 52.
5
incremento degli attori legittimati, che portano ad un crescente bisogno
di coordinamento”4.
Infine, per ulteriore chiarezza è opportuno tener conto delle
interpretazioni fornite dal Comitato Economico e Sociale europeo
nonché dal Libro bianco della Commissione del 2001. Secondo il
Comitato, infatti, il termine richiama alla mente un’architettura
istituzionale decentrata, dove non agisce un solo centro di potere come
negli stati nazionali, bensì una pluralità di soggetti, sia governativi che
non governativi, che cooperano tra loro per il raggiungimento di fini
condivisi5; secondo il Libro Biano, infine, il concetto di governance
designa le norme, i processi e i comportamenti che influiscono sul
modo in cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto
con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità,
efficacia e coerenza6.
Al fine di ridurre le distanze tra le Istituzioni dell’U.E. ed i
cittadini, rafforzando così la democrazia in Europa, la Commissione si
è posta l’obiettivo di adottare nuove forme di governance volte
all’elaborazione e attuazione di politiche pubbliche migliori e più
coerenti che associno le organizzazioni della società civile alle istituzioni
stesse con un conseguente miglioramento della qualità della legislazione
europea, della sua efficacia e semplicità7.
4
BARBERIS E., Rapporti territoriali:una contestualizzazione della governance sociale in Italia,
“La Rivista delle Politiche Sociali”, n. 1/2010, p. 79. Sul punto, inoltre, cfr.
COGLIANDRO G., La governance economica europea:cronaca di un anno, in Federalismi.it.
5
Comitato economico e sociale europeo, 469^ Sessione plenaria del 16 e 17
febbraio 2011 (GUUE C 107 del 6.4.2001), punto 3.6.1.
6
COM(2001) 428 definitivo/2, p. 8sg
7
http://europa.eu/legislation_sommaries/glossary/governance_it.htm.
6
Capitolo I
La nuova governance economica europea
1. Premessa: brevi cenni sull’origine dell’Eurozona.
Per una più chiara analisi risulta opportuno soffermarsi
brevemente sull’evoluzione del sistema della moneta unica.
La decisione di dare vita ad una unione economia e monetaria,
conferendo ulteriore slancio al processo di integrazione economica
dell’U.E. iniziato nel 1957, è stata presa dal Consiglio Europeo svoltosi
a Maastricht (Olanda) nel dicembre 1991 e poi sancita nel trattato del 7
febbraio 1992; si è così stabilito l’iniziale introduzione dell’Euro a
partire dal 1° gennaio del 1999 esclusivamente per i soli pagamenti non
in contanti e dal 1 gennaio 2002 anche come moneta fisica in
circolazione.
In particolare, gli obiettivi definiti dall’art. 2 del Trattato di
Maastricht possono essere sintetizzati nello sviluppo armonioso ed
equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità ed in
una crescita sostenibile, non inflazionistica, che rispetti: l’ambiente; il
raggiungimento e il mantenimento di un elevato livello di occupazione e
di protezione sociale; la coesione economica e sociale; la solidarietà tra
Stati membri.
Ed ancora, il citato Trattato ha previsto l’introduzione di cinque
criteri di convergenza, e cioè i parametri rispetto ai quali i Paesi devono
essere in regola per essere ammessi alla c.d. “terza fase”, e quindi per
poter introdurre l’euro; ciò al fine di garantire che lo sviluppo
7
economico all’interno dell’Unione economica e monetaria risultasse
equilibrato e non provocasse tensioni.
Tali criteri, individuati in un protocollo siglato a piè di pagina del
Trattato di Maastricht possono essere sì sintetizzati: il primo stabilisce
che il debito pubblico non deve superare il 60% del prodotto interno
lordo; il secondo limita il disavanzo nei conti dello Stato, che non può
superare il 3% del PIL; il terzo impone che l’inflazione debba essere
contenuta entro il limite dell’1,5% della media dei migliori tre Stati
membri; il quarto prescrive che la moneta nazionale deve stare dentro le
fluttuazioni previste dall’accordo di cambio con le altre monete
europee; il quinto prescrive che occorre rispettare, rispetto al tasso di
cambio, i margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di
cambio del Sistema monetario europeo per almeno due anni, senza
svalutazione nei confronti della moneta di qualsiasi Stato membro.
Rispetto ai suindicati parametri, deve essere evidenziato come
l’obiettivo fissato dal trattato di Maastricht non sia un deficit di bilancio
del 3%, bensì il pareggio di bilancio; ed invero, tale soglia verrebbe in
rilievo esclusivamente nei periodi di crisi al fine di permettere ai
Governi di esercitare una politica anticiclica, consentendo il sostegno
dell’occupazione e dello sviluppo8.
Si può dunque affermare che i sopradescritti criteri di convergenza
abbiano la sola funzione di assicurare la stabilità dei mercati all’interno
dell’U.E., senza preoccuparsi dell’aspetto relativo alla loro crescita.
Inoltre, gli stessi criteri prendono in considerazione esclusivamente il
problema degli shock asimmetrici, cioè delle crisi che investono solo uno
o alcuni dei Paesi dell’area, e non anche gli shock simmetrici, invece
8
Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., La piattaforma normativa della governance economica
U.E.: natura giuridica e rilevanza, a livello interno, dei vincoli europei alla finanza pubblica.
Un’ipotesi ricostruttiva, in www.forumcostituzionale.it
8
costituiti dalle gravi crisi che investono tutta l’area monetaria o
addirittura (come quella attuale) tutta l’economia mondiale.
Pertanto, l’integrazione economica ha portato con sé i vantaggi
offerti dalle maggiori dimensioni, da una maggiore efficienza e
robustezza interna per l’economia dell’U.E. nel complesso e per quelle
dei singoli Stati membri con una conseguente opportunità di stabilità
economica, maggiore crescita e maggiore occupazione che sarebbero
andate a diretto beneficio dei cittadini dell’U.E. In altri termini, dunque,
l’U.E.M. ha determinato l’introduzione dei seguenti benefici: un
coordinamento delle politiche economiche tra gli Stati membri; un
coordinamento delle politiche di bilancio, in particolare attraverso la
limitazione del debito e del disavanzo pubblico; una politica monetaria
autonoma gestita dalla Banca centrale europea (B.C.E.); la moneta unica
e l’area dell’euro.
Ed invero, quegli Stati membri dell’U.E. che hanno deciso di
spingere oltre l’integrazione adottando l’euro, erano motivati da diverse
necessità, tra le quali: dare stabilità monetaria, tenere bassa l’inflazione e
i tassi d’interesse, dare solidità alle finanze pubbliche, avere una
trasparenza dei prezzi, eliminare i costi di cambio, rendere fluidi i
meccanismi dell’economia europea, facilitare gli scambi internazionali,
conferire all’U.E. maggiore forza sulla scena mondiale, rendere meno
vulnerabili i paesi sottoposti agli shock economici internazionali.
Tuttavia, a controbilanciare i suindicati aspetti positivi determinati
dall’introduzione della moneta unica sono subentrate due notevoli
implicazioni: a) gli Stati aderenti con la rinuncia ad una propria moneta
non hanno più potuto usare le svalutazioni o le rivalutazioni della
moneta come strumento per riequilibrare la loro bilancia commerciale e
dei pagamenti; b) gli Stati aderenti con la rinuncia alla funzione di
9
emettere moneta attraverso una propria Banca Centrale non hanno più
potuto utilizzare la quantità di moneta circolante ed i tassi d’interesse
per regolare i livelli di inflazione e l’attività creditizia come strumenti di
politica monetaria.
Alla luce di tali brevi premesse, è possibile distinguere i benefici
prodotti dall’introduzione dell’Euro su due livelli, il primo relativo al
sono Mercato unico europeo ed il secondo a livello mondiale.
Ed invero, all’interno dell’Eurozona la moneta unica ha prodotto
nuova forza e offerto nuove opportunità grazie all’integrazione e alle
dimensioni dell’economia dell’area dell’euro, rendendo il mercato unico
ancor più efficiente; prima dell’euro, infatti, erano notevoli le difficoltà
determinate dal cambio delle valute che comportavano costi aggiuntivi,
rischi e una minore trasparenza nelle transazioni transfrontaliere. Con
l’introduzione della moneta unica, invece, le imprese dell’Eurozona
riducendo considerevolmente i costi ed i rischi.
Pertanto, l’esistenza di un unico grande mercato integrato che
utilizza la medesima moneta ha determinato la possibilità di confrontare
i prezzi favorendo gli scambi transfrontalieri e ogni tipo di investimenti,
a beneficio sia dei singoli consumatori alla ricerca del prodotto più
conveniente, sia delle imprese che acquistano il servizio con il miglior
rapporto qualità/prezzo, sia, infine, per i grandi investitori istituzionali
che hanno la possibilità di investire in maniera più efficiente all’interno
dell’Eurozona senza correre il rischio insito nelle fluttuazioni dei tassi di
cambio9.
Sul piano globale, invece, i benefici sono stati determinati dal
notevole peso economico che ha assunto la moneta unica; quest’ultima,
infatti, avendo delle buone capacità di assorbire gli “shock” economici
9
http://ec.europa.eu/economy_finance/euro/why/index_it.htm
10
esterni senza dover pagare con la perdita di posti di lavoro o con un
rallentamento della crescita, ha conferito all’Eurozona una forza di
attrazione nei confronti sia degli investimenti che degli scambi da parte
di paesi terzi.
A distanza di oltre dieci anni dall’introduzione delle monete e delle
banconote in Euro appare possibile tracciare un primo bilancio;
nonostante le difficoltà determinate dalla crisi che ha coinvolto diversi
Paesi aderenti, l’Eurozona nel suo complesso ha beneficiato di
un’inflazione contenuta e stabile e di un mercato interno notevolmente
rafforzato. Inoltre, gli oltre 332 milioni di cittadini che utilizzano la
moneta unica hanno evitato i costi supplementari determinati dal
cambio delle loro valute. L’euro ha anche reso trasparenti le transazioni
transfrontaliere, determinando un miglioramento della concorrenza ed
agevolando il commercio.
In particolare, il raggiungimento di tali risultati positivi può
desumersi anche da alcuni esempi. Ed invero, quello probabilmente più
lampante è costituito dall’analisi del tasso di interesse medio sui titoli
governativi a 10 anni di Italia, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna che
nel 1995 era il 12,1%, ovvero circa il 40% più alto dell’equivalente tasso
medio di Francia e Germania, mentre tale differenza si è ridotta al 2,1%
nel 2003. Solo negli ultimi anni il differenziato è tornato ad aumentare
notevolmente a causa dell’esplosione della crisi del debito sovrano10.
Dunque, nonostante i tragici effetti prodotti dalla crisi economica
(che di seguito saranno analizzati nel dettaglio), l’euro ha consentito che
10
Cfr. Osservatorio di politica internazionale. La governance economica tra squilibri
globali e prospettive dell’Unione Europea: l’interesse italiano, a cura di Franco
Bruni (ISPI e Università Bocconi) e Antonio Villafranca (ISPI) Con contributi di
Carlo Altomonte (ISPI e Università Bocconi di Milano), Fabrizio Galimberti (Il Sole
24 Ore), Francesco Guerrera (Wall Street Journal), Benedicta Marzinotto (Centro
Studi Bruegel e Università di Udine), Lucia Tajoli (ISPI e Politecnico di Milano), in
www.parlamento.it
11
i Paesi dell’Eurozona non fossero esposti a conseguenze ancor più gravi
sia mediante un rafforzamento della governance economica dell’U.E., sia
attraverso un miglior sfruttamento del potenziale dell’U.E.M. che ha
reso più solidi la disciplina di bilancio ed il coordinamento economico11.
Tuttavia, questi ottimi risultati raggiunti con l’introduzione della
moneta unica, oscurando per troppo tempo le divergenze strutturali tra
i Paesi aderenti – offrendogli una protezione verso politiche di bilancio
ed economiche che non hanno saputo spronare la crescita e arginare
una sempre più marcata perdita di competitività – hanno prodotto il
risultato opposto di aumentare le divergenze stesse, soprattutto in
seguito alla crisi del 2008-200912.
Come sostenuto da autorevole dottrina, l’euro si trova così a
pagare
oggi
il
suo
“peccato
originale”,
consistente
nell’aver
erroneamente ritenuto che la sola introduzione di una moneta unica
sarebbe stata in grado di creare una convergenza economica tra i Paesi
aderenti
senza
procedere
al
contempo
a
uno
strettissimo
coordinamento delle diverse politiche economiche13.
11
Sul punto, cfr. Governance economica nell’Unione Europea: Norme economiche
più rigorose per l’euro e l’Unione economica e monetaria, Commissione Europea,
Direzione Generale per gli affari economici e finanziari, Lussemburgo: Ufficio delle
pubblicazioni
dell’Unione
Europea,
2012
On-line:
http://ec.europa.eu/economy_finance/general/pdf/eu_economic_governance_it.p
df
12
Cfr. Osservatorio, op. cit.
13
Cfr. Si veda ALTOMONTE C., VILLAFRANCA A., Not only public debt: towards a new
Pact on the Euro, in ISPI Policy Brief n. 198, ottobre 2010.
12
2. Alla ricerca delle cause strutturali dell’attuale crisi
economica a livello mondiale: la “deregulation” e
l’eccesso di liquidità.
Prima di procedere con l’analisi della crisi economica che ha
colpito l’Eurozona, portando alla soglia del fallimento diversi Paesi
membri e facendo emergere tutti i notevoli problemi della governance
economica
all’interno
dell’U.E.,
appare
opportuno
procedere
preliminarmente alla ricerca delle possibili cause “strutturali” e
contingenti della crisi a livello globale.
Sembrerebbe ormai pacifico che essa sia stata determinata
dall’incontro di due fattori la cui combinazione è risultata devastante: la
deregolamentazione del sistema finanziario e l’eccesso di liquidità.
In merito al primo di tali fattori, meglio noto con il termine
deregulation, si può affermare che esso consiste in quel processo di
snellimento e diminuzione delle regole e delle leggi, nel caso in
questione riferite al sistema finanziario; facendo riferimento ai principi
fondamentali della teoria economica neoclassica, questo modello ha
prodotto una vera e propria rivoluzione dei mercati finanziari.
In primo luogo, la deregulation ha migliorato il funzionamento dei
mercati facilitando gli spostamenti di capitale dai settori in declino verso
nuovi
impieghi
più
redditizi,
incrementando
la
produttività
dell’economia e l’efficienza complessiva del sistema; tanto più alta è la
deregulation quanto maggiori saranno le transazioni all’interno dei mercati
(soprattutto a livello globale).
In secondo luogo, la deregulation ha consentito di offrire agli
investitori nuovi strumenti finanziari sempre più sofisticati e creati su
13
misura in base alle esigenze di ogni operatore, anche non professionista
del settore. Ed ancora, l’introduzione di meccanismi di transazione
sempre più a portata di tutti ha permesso l’ingresso nel sistema
finanziario di numerosi piccoli investitori e di una serie di
comportamenti sempre più spudorati e rischiosi.
In terzo luogo, infine, la deregulation, affiancata ad una rapida e
rivoluzionaria informatizzazione dei mercati finanziari, ha consentito
nuove forme di trading “istantaneo” sulla rete con bassissimi costi di
transazione.
Tuttavia, deve essere evidenziato che la deregolamentazione dei
mercati finanziari, oltre ad una serie di vantaggi, ha portato con se
notevoli e rilevanti aspetti problematici, esaltati in pieno proprio dalla
recente crisi.
Ed invero, la mancanza di regole ha accentuato le normali
caratteristiche del comportamento ciclico dei sistemi finanziari con anni
di crescita in cui si creano e sviluppano rapidissime “bolle”, spinte da
una fiducia cieca nelle possibilità future, ed anni di profonda recessione,
depressione ed incertezza.
Inoltre, l’eccessiva facilità di accesso al credito, se da un lato ha
alimentato la percezione di benessere da parte delle famiglie, in realtà
dall’altro lato ha portato ad una costante alimentazione di bolle
speculative nonché a notevoli problemi in relazione alla difficoltà nel
rimborso, con tutte le conseguenze che ne derivano.
In particolare, tutto ciò ha condotto ad una situazione
eccessivamente rischiosa e precaria diverse famose banche d’affari (le
note “too big to fail”) con una conseguente destabilizzazione dell’intero
sistema.
14
Alla luce di quanto detto si può affermare che la deregulation ha
permesso il moltiplicarsi di strumenti finanziari innovativi sempre più
sofisticati e non trasparenti che avrebbero in teoria dovuto distribuire e
minimizzare il rischio, ma che in realtà hanno determinato la sempre
maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli
investimenti finanziari. Ciò ha spinto gli investitori ad assumere – a
volte anche inconsapevolmente – comportamenti sempre più
speculativi, aumentando in maniera smisurata il rapporto tra
indebitamento e fondi propri (leverage)14.
Come già anticipato, il secondo fattore decisivo per il sorgere della
crisi è quello dell’eccesso di liquidità che dal mercato statunitense si è
esteso progressivamente sugli altri mercati finanziariamente evoluti. Si
può affermare che esso è stato determinato in parte da fasi di politica
monetaria eccessivamente accomodante, in parte da eccessi di risparmio
di diverse regioni del globo15.
Inoltre, si deve evidenziare che ha contribuito all’aumento
eccessivo di liquidità anche quello strano fenomeno che si è verificato
alla fine degli anni ’90 – in seguito allo sviluppo economico della Cina e
di alcuni Paesi dell’Asia ed alla contemporanea crescita dei prezzi del
petrolio – consistente nel riorientamento dei flussi di capitale delle
economie emergenti verso gli Stati Uniti, e cioè dalle economie in via di
sviluppo a quelle già sviluppate (diversamente da quanto previsto dalle
teorie economiche).
Inoltre, come evidenziato da diversi economisti, le origini
dell’eccesso di liquidità possono essere ricondotte già al boom della
14
Cfr. SARACENO F., Le cause di fondo della crisi economica: diseguaglianze e squilibri globali,
in www.aspeninstitute.it
15
In particolare, le regioni con maggiore propensione al risparmio sono state l’Asia
orientale, i paesi del Golfo, e parte dell’Unione Europea.
15
borsa della seconda metà degli anni ’90, nonché alla bolla della new
economy, nella quale la Fed, durante la presidenza di Alan Greenspan, ha
risposto con una riduzione del costo del denaro mai vista, portando i
tassi dal 7% del 2000-2001 all’1% del 2004.
L’effetto
combinato
di
mercati
finanziari
eccessivamente
deregolamentati e di una massa rilevante di risparmio a basso costo in
cerca di collocazione, ha determinato l’esplosione dell’indebitamento di
famiglie e imprese americane; a ciò si è poi aggiunto quello del governo
degli Stati Uniti, interessato in due guerre terribilmente costose (Iraq e
Afghanistan), e in politiche di riduzione delle tasse per gli strati più
ricchi della popolazione.
Come evidenziato da diversi economisti, l’elemento centrale della
crisi è rinvenibile certamente nell’eccessivo indebitamento soprattutto
quando, in seguito alle difficoltà di un settore di dimensione
relativamente ridotta (quello dei prestiti subprime) si è sviluppata una
corsa alla ricapitalizzazione (cosiddetto deleveraging) e quindi un crollo
generalizzato del prezzo delle attività finanziarie16.
Da tutto ciò è conseguito l’ulteriore contagio dal settore
finanziario a quello dell’economia reale tramite la restrizione del credito
da parte di banche sull’orlo del fallimento, nonché il crollo della
domanda di consumatori ed imprese la cui ricchezza si era
volatilizzata17.
16
Così come definiti dalla Borsa Italiana, i subprime sono prestiti o mutui erogati a
clienti definiti “ad alto rischio”. Sono chiamati prestiti subprime perché a causa delle
loro caratteristiche e del maggiore rischio a cui sottopongono il creditore sono
definiti di qualità non primaria, ossia inferiore ai debiti primari (prime) che
rappresentano dei prestiti erogati in favore di soggetti con una storia creditizia e
delle garanzie sufficientemente affidabili.
17
Cfr. F. SARACENO, op. cit.
16
3. I problemi di governance economica dell’U.E. emersi con
la crisi.
Ai fini di una corretta analisi delle questioni relative alla governance
economica emerse negli ultimi anni all’interno dell’U.E. appare
opportuno evidenziare brevemente quella serie di eventi che ha
scatenato gli effetti negativi cui si è accennato.
In particolare, risulta ormai pacifico che l’elemento “detonante” è
riconducibile al fallimento della nota banca d’affari americana Lehman
Brothers nel settembre 2008.
A partire da tale evento si sono susseguiti una serie di ulteriori
accadimenti sfavorevoli che possono essere sì sintetizzati: la grave
recessione del PIL mondiale nel 2008-2009 e soprattutto in Europa (4%); l’inizio della crisi dei debiti sovrani in Europa e la perdita
dell’accesso ai mercati di Grecia, Irlanda e Portogallo; l’intervento della
BCE con operazioni LTRO per aiutare le banche in crisi di liquidità18; la
creazione di due categorie di paesi in Europa: i paesi core del Nord
(Germania, Francia, Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo, Belgio) e
i paesi periferici o del Sud (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, Italia,
ecc..); la grave crisi della Grecia e le decisione nel summit europeo del
21/7/2011 di ristrutturare il suo debito pubblico; la grave crisi di fiducia
sui mercati per Spagna e Italia con l’intervento della BCE nell’estate
18
Così come definito da Il Sole 24 Ore, “il Long term refinancing operation (Ltro in
singla) è una delle operazioni di rifinanziamento operate dalla Bce. La Banca
centrale europea può intervenire sul mercato interbancario prestando denaro agli
istituti in due modalità: Mro (main refinancing operation), operazioni ordinarie di
rifinanziamento di durata settimanale, e Ltro. Queste ultime operazioni
normalmente hanno una durata fra tre e sei mesi, estesa fino a tre anni. La Bce ha
lanciato finora due Ltro a tre anni e ha aperto a un nuovo possibile intervento.”
17
2012, volta ad introdurre lo strumento delle OMT (Outright Monetary
Transaction) per aiutare i paesi in difficoltà.
Pertanto, si può affermare che la crisi del debito in Europa ha
diverse radici riconducibili in parte a fattori esterni – come, ad esempio,
il rallentamento economico e una crescente avversione al rischio da
parte dei mercati finanziari – ed in parte a fattori interni – come, ad
esempio, gli squilibri di bilancio e macroeconomici venutisi a creare in
alcuni paesi dell’U.E. gravati da debiti pubblici elevati e disavanzi
commerciali.
Proprio la combinazione tra un elevato livello di debito pubblico,
un indebolimento della competitività e una crescita economica debole
ha determinato un crescente scetticismo dei mercati finanziari nei
confronti della sostenibilità dei bilanci di alcuni Stati membri
dell’Eurozona19.
A causa del susseguirsi di questi drammatici eventi – dai quali è
conseguita la grave crisi economica e di fiducia che negli ultimi anni ha
coinvolto diversi Paesi occidentali, di cui molti appartenenti
all’Eurozona – sono emerse con estrema evidenza tutte le carenze e le
fragilità dell’Unione economica e monetaria.
Ed invero, se il primo decennio dell’euro è stato caratterizzato da
un buon funzionamento dei sistemi finanziari, lo shock sviluppatosi negli
Stati Uniti, con l’esplosione della bolla finanziaria, ha confermato tutti i
rischi che corre l’Eurozona a causa delle proprie carenze strutturali ed
ha dimostrato chiaramente quanto sia indispensabile porre maggiore
attenzione sulla “E” dell’acronimo U.E.M., poiché il coordinamento
19
Ibidem.
18
economico non è stato abbastanza forte da prevenire l’insorgere di
squilibri macroeconomici e di bilancio all’intero dell’area dell’euro20.
Come evidenziato da parte della stessa Commissione Europea, le
principali lacune emerse in conseguenza della grave crisi economica
hanno riguardato il sistema della governance economica dell’U.E.21
In primis, tali carenze sono rinvenibili nella eccessiva attenzione
posta nei confronti del disavanzo; ed invero, il controllo delle finanze
pubbliche era concentrato sul disavanzo di bilancio su base annua e non
abbastanza sul debito pubblico. E così, diversi Paesi che presentavano
un disavanzo di bilancio annuo ridotto o addirittura segnando un
surplus di bilancio, rispettando le norme dell’U.E., nel corso della crisi
finanziaria hanno dovuto far fronte a difficoltà economiche dovute ad
un elevato debito pubblico. Dunque, si è reso necessario un controllo
più rigoroso di quest’ultimo indicatore.
In secondo luogo, è emersa l’insufficiente sorveglianza della
competitività e degli squilibri macroeconomici: essa, infatti, non è stata
adeguatamente attenta agli sviluppi non sostenibili della competitività e
della crescita del credito, con un crescente indebitamento del settore
privato ed un indebolimento degli enti finanziari che ha condotto
all’esplosione delle bolle immobiliari.
Ulteriore lacuna nel sistema della governance economica dell’U.E. è
rinvenibile nell’applicazione non abbastanza rigorosa delle norme,
nonché nella mancanza di provvedimenti adeguati nei confronti dei
Paesi dell’Eurozona che non le hanno rispettate; sarebbe stato
opportuno un sistema sanzionatorio più severo e più credibile.
20
Ibidem. Sul punto, cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit.
cfr. Governance economica nell’Unione Europea: Norme economiche più
rigorose per l’euro e l’Unione economica e monetaria, Commissione Europea,
Direzione Generale per gli affari economici e finanziari, Lussemburgo: Ufficio delle
pubblicazioni dell’Unione Europea, 2012
21
19
Ed ancora, ha contribuito ad aggravare la situazione della zona
Euro un processo decisionale troppo lento che ha determinato risposte
tardive a sviluppi macroeconomici preoccupanti e che, altresì, non ha
tenuto conto a sufficienza della prospettiva dell’area dell’euro nel suo
insieme.
Infine, altra grave lacuna del sistema della governance economica
dell’U.E. è certamente rinvenibile nella totale assenza di meccanismi di
“finanziamenti di emergenza” in grado di dare un sostegno finanziario
ai Paesi dell’Eurozona che si sono trovati improvvisamente in difficoltà
evitando anche che tali problemi economi si “contagiassero” ad altri
paesi a rischio22.
Tuttavia, si può affermare con certezza come la più rilevante di tali
carenze nel sistema della governance economica sia stata l’assenza di una
vera e propria fiscal union tra i Paesi membri dell’U.E., con la
conseguente mancanza di strumenti d’intervento idonei a far fronte a
crisi di fiducia.
Com’è noto, infatti, per la sussistenza di ogni unione monetaria è
indispensabile, in primis, che la stessa si evolva nel tempo mediante il
graduale passaggio ad un’unione politica vera e propria, nonché
l’esistenza di banche centrali in grado di intervenire durante le crisi
finanziarie, sia mediante offerte illimitate di liquidità idonee a calmierare
i mercati, sia attraverso la cosiddetta preferenza per la liquidità (posto
che una crisi di debito non può risolversi con l’emissione di nuovo
debito)23.
Ed invece i Trattati europei – invero elaborati prima della
globalizzazione – costituivano riflesso e proiezione della “età dell’oro” e
22
23
Ibidem.
Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit.
20
dello spirito di quei tempi «fondante, positivo e progressivo»24.
All’opposto – nell’attuale quadro di emergenza, caratterizzato da
un’impressionante cascata di fenomeni nuovi e negativi – gli Stati
europei si sono ritrovati con un deficit di bilancio maggiore ed un debito
pubblico notevolmente cresciuto, e perciò sono diventati ancora più
dipendenti ed esposti alle scelte dei mercati finanziari ed agli attacchi
della speculazione. Tali Stati, pertanto, hanno registrato una perdita di
competitività delle loro economie reali, tale da rendere impossibile il
risanamento del bilancio pubblico attraverso il classico strumento
dell’aumento delle entrate fiscali, determinato dall’allargamento della
base imponibile.
Come se ciò non bastasse, gli Esecutivi dei Paesi dell’Eurozona si
sono ritrovati anche senza gli ulteriori e fondamentali strumenti
dell’inflazione – che riduce il valore del debito ed aumenta le entrate
fiscali – della svalutazione, delle politiche protezionistiche o dei forti
stimoli fiscali, posto che, con l’istituzione dell’U.M.E., la politica
monetaria è stata sottratta agli Stati membri e trasferita in capo alla
B.C.E., la quale ha assunto il compito principale di assicurare la stabilità
dei prezzi25.
Diversamente, il divieto di politiche protezionistiche e la
proibizione dei forti stimoli fiscali hanno trovato fondamento,
rispettivamente, nell’esistenza di un mercato unico incompatibile con la
creazione di barriere legali all’importazione di beni e servizi, e
24
Cfr. TREMONTI G., Uscita di sicurezza, Milano, 2012.
Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., op. cit. Sul punto, cfr. PITRUZZELLA G., Chi
governa la finanza pubblica in Europa?, in Quad. cost., n. 1/2012.
25
21
nell’esiguo spazio di manovra che impongono i vincoli finanziari sulle
politiche di bilancio derivanti dall’appartenenza all’Eurosistema26.
Prova ne è il fatto che Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo,
Spagna e Italia si sono ritrovati ad un passo dal riconoscimento
dell’insolvenza, in relazione ai loro elevati stock di debito pubblico; e che
tutta l’Eurozona è stata esposta alla speculazione ed alla diffidenza dei
mercati, che hanno fatto innalzare i tassi di interesse sui titoli di Stato,
rendendo così ancora più costoso il servizio del debito e facendo
peggiorare i conti pubblici.
4. (Segue)
L’emersa
inadeguatezza
della
governance
economica europea.
Alla luce di quanto premesso ed al fine di meglio comprendere le
gravi lacune della governance economica dell’U.E. – soprattutto in seguito
alla dirompente crisi che ha colpito inizialmente la Grecia per poi
diffondersi ad Irlanda e Portogallo, minacciando anche Spagna ed altri
Paesi membri – appare opportuno analizzare tre aspetti: a)
l’inefficacia dei meccanismi di controllo e sanzione del Patto di stabilità
e crescita; b) la necessità di un coordinamento più stringente delle
politiche economiche; c) il bisogno di salvare alcuni Paesi dell’Eurozona
dal fallimento27.
26
Cfr. TARGETTI F., Le vicende della globalizzazione e lo scoppio della crisi finanziaria. Per
una governance dell’economia globale, in AMATO G. (a cura di), “Governare l’economia
globale”, ASTRID, Passigli, 2009, p. 52.
27
Cfr. Osservatorio di politica internazionale, La riforma della governance economica europea, a
cura dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) n. 27, aprile 2011.
22
In merito al primo punto, l’inadeguatezza del Patto di stabilità e
crescita a raggiungere gli obiettivi per il quale tale strumento era stato
istituito era emersa in modo palese già dal momento della sua
previsione; tuttavia, la sua totale inefficacia si è appalesata in modo
dirompente soprattutto in seguito alla crisi greca.
Ed invero, come già detto, questo strumento – adottato per la
prima volta nel giugno del 1997 con risoluzione del Consiglio europeo
di Amsterdam al fine di vincolare il potere tributario degli Stati membri
– era volto essenzialmente a garantire, attraverso sanzioni di natura
economica, l’equilibrio delle finanze pubbliche mediante l’obiettivo del
saldo di bilancio (prossimo al pareggio o positivo), nonché ad evitare
atteggiamenti di “free-riding” da parte di alcuni Paesi membri28.
Proprio per questi motivi, e per escludere anche il rischio di
politiche economiche non rigorose o una minore attenzione ai conti
pubblici grazie alla protezione offerta dall’adesione all’euro, il Patto di
stabilità e crescita individuava meccanismi di controllo e/o sanzione sia
di tipo “ex ante” che “ex post”29.
In particolare, con riferimento ai meccanismi di controllo
preventivi, è stato previsto l’obbligo per gli Esecutivi dei Paesi membri
di sottoporre alla Commissione ed al Consiglio i propri “Programmi di
stabilità” con l’obiettivo di rientrare all’interno dei parametri fissati dal
Trattato di Maastricht.
La crisi, però, ha reso palesi i notevoli limiti di questo tipo di
controllo preventivo, e cioè la mancanza di qualità/veridicità delle
28
Il free riding si verifica quando si ottenere un prodotto o un servizio senza pagarne
il prezzo, anche se ciò non avviene illegalmente; ciò può accadere, ad esempio,
perché certi tipi di beni o servizi sono difficili da fare pagare a tutti coloro che ne
beneficiano.
29
Sul punto cfr. VILLAFRANCA A., Piggybacking PIGS. The future of Euroland after Greek
crisis, in Ispi Policy Brief N. 179, Mar h 2010.
23
informazioni rese dai Governi e l’insufficienza dei parametri economici
presi in esame30. Prova ne è la drammatica condizione della Grecia che,
nel proprio Programma di stabilità del gennaio 2009, dichiarava un
rapporto deficit/Pil pari al 3,7%; nei mesi successivi, tuttavia, apparve
subito chiaro che non solo tale obiettivo era irrealistico ma anche che gli
stessi dati prodotti dall’Esecutivo greco erano non esatti e, addirittura,
in certi casi non veritieri31.
Diversamente, i controlli e le sanzioni di tipo “ex post” previste
dal Patto di stabilità e crescita, unitamente alla procedura per disavanzi
pubblici eccessivi, cercavano di individuare condizioni di bilancio
insostenibili – in termini di deficit – che avrebbero condotto a
meccanismi di controllo aggiuntivi ed a strumenti sanzionatori.
Tuttavia, appare evidente come già prima dell’irruente crisi
economica era prevalso – da parte di Paesi come Francia e Germania –
un orientamento poco severo nei confronti di chi avesse sforato i
vincoli previsti dal Patto, con la grave conseguenza di avere reso tale
strumento totalmente inefficace. A dimostrazione di tale affermazione
basti evidenziare come nonostante le ripetute violazioni dei limiti
previsti del Patto, nessuno Stato membro sia mai stato sanzionato; solo
negli ultimi anni si sta giustamente tornando nella direzione di un
maggior rigore32.
Passando ora ad esaminare il secondo aspetto, appare opportuno
evidenziare come ai fini di un coordinamento più stringente delle
politiche economiche sia necessario imporre un più ampio controllo
30
Basti evidenziare che, ad esempio, scarsissima attenzione è stata attribuita
al risparmio privato o alla quota del debito pubblico detenuta all’estero.
31
Il deficit, infatti, a fine anno ha raggiunto la soglia del 12,7%, mentre il rapporto
debito/Pil è risultato pari al 113.4%, rispetto al 96.3% dichiarato ad inizio anno.
32
Cfr. Osservatorio di politica internazionale, La riforma della governance economica europea, a
cura dell'ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) n. 27, aprile 2011.
24
degli squilibri macroeconomici tra i vari Paesi che hanno aderito alla
moneta unica tenendo conto del posizionamento competitivo del Paese
e della solidità del suo sistema bancario33.
Diversi economisti, infatti, hanno rilevato come una mera
rimodulazione del Patto di stabilità e crescita non sia sufficiente ad
escludere il verificarsi di nuovi default finanziari degli Stati appartenenti
all’Eurozona; solo mediante un più stretto coordinamento delle
politiche economiche – e non solo di quelle di bilancio – sarà possibile
ottenere un equilibrio sistematico tra le diverse economie all’interno
dell’U.E.
Più precisamente, tenendo conto del presupposto per cui
l’obiettivo di una vera e propria fiscal union tra i Paesi membri dell’U.E.
rende indispensabile un adeguato livello di convergenza economica,
diventa quasi indispensabile anche mirare ad una corrispondenza delle
diverse fasi del ciclo economico tra gli Stati stessi, soprattutto con
riferimento alla maggiore economia europea, quella tedesca; se così non
fosse, infatti, l’impatto determinato dalla eventuale decisione di variare i
tassi sull’economia reale dei vari Paesi potrebbe condurre a risultate
controproducenti, come un ulteriore surriscaldamento dell’economia o,
all’opposto, rendendo più complicata l’uscita da una fase recessiva34.
In merito al terzo ed ultimo aspetto, la grave situazione
emergenziale degli ultimi anni ha reso evidente come sia indispensabile,
per assicurare la salvezza dell’intera Eurozona, procedere con attività di
sostegno degli confronti degli stati dell’U.E. che si trovino a rischio
default. Prova ne è il fatto che il 10 maggio 2010 gli Esecutivi degli Stati
dell’Eurozona hanno istituito il Fondo europeo di stabilità, sostituito
recentemente dal Meccanismo europeo di stabilità.
33
34
Cfr. Ibidem
Sul punto ancora Ibidem
25
Inoltre, deve essere evidenziato come le risposte cercate per far
fronte ad innumerevoli “giornate nere” dei mercati, invece di basarsi
sull’intervento delle istituzioni europee esistenti, hanno trovato il
proprio fulcro nella contrattazione intergovernativa tra i grandi Paesi
dell’Unione monetaria – in particolare Germania e Francia – e sono poi
state subite ed adottate dal resto dell’Unione35.
In tale situazione di emergenza, non soltanto ci si è mossi nella
direzione di politiche economiche di supporto ai Paesi in difficoltà, ma
in poco più di dodici mesi sono stati superati limiti che inizialmente
apparivano insormontabili, con l’adozione di strumenti tipici degli Stati
federali.
5. La crisi dei debiti sovrani ed i problemi nella loro gestione
con particolare riferimento al ruolo delle agenzie di rating.
A distanza di diversi anni dall’inizio della crisi economica che ha
investito la maggior parte dei Paesi Occidentali, molti dei quali
appartenenti all’Eurozona, appare possibile analizzare i principali
strumenti utilizzati per fronteggiarla sia da parte dei singoli ordinamenti
nazionali, sia sul livello sovranazionale.
Ed invero, dal punto di vista giuridico sarebbero tre le novità più
importanti da evidenziare, e cioè: un fondamentale ruolo del diritto;
l’intervento sul piano sovranazionale delle Istituzioni europee con
interventi prima di tipo emergenziale e successivamente di tipo
strategico;
la collaborazione ed il coordinamento tra gli Stati e le
35
Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G., po. cit.. Sul punto, cfr. CARLOMAGNO,
Euro. Ultima chiamata, Francesco Brioschi Editore, 2012
26
organizzazioni sovranazionali ed internazionali, tra cui il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca mondiale36.
Tali novità, soprattutto quelle sviluppatesi in ambito europeo,
sono state di particolare importanza ed innovatività posto che le varie
disposizioni previste con il Trattato di Lisbona erano apparse obsolete
già prima della loro entrata in vigore; ed invero, le disposizioni poste a
fondamento dell’Eurozona erano caratterizzate da una politica basata
sull’ideologia della “Comunità dei benefici” e non sulla diversa ed
opposta “Comunità dei benefici e dei rischi”, nella quale i Paesi aderenti
condividono non solo i benefici ma anche i rischi determinati dalla
comunione37.
A conferma di tale peccato originario basti pensare che, sino al
Trattato di Lisbona,
non esisteva tra le disposizioni dell’U.E. un
principio di solidarietà nei confronti degli Stati membri che si trovavano
in situazioni di crisi (ora previsto per particolari ipotesi dall’art. 122
TFUE).
Tuttavia,
risultano
ancora
scarsi
gli
strumenti
previsti
dall’Eurozona per rispondere ai problemi posti dalla crisi del debito
sovrano di diversi Stati, e cioè da quella particolare emergenza che –
distinguendosi dalla crisi dei mutui subprime (cd. subprime mortgage financial
crisis) – si identifica con l’ultima fase della depressione partita nel 2006
dal crollo del mercato immobiliare e proseguita con la crisi bancaria, per
poi estendersi nel sistema finanziario e andando infine a coinvolgere,
per l’appunto, il sovereign debt.
36
Cfr. GORTSOS C. V., Fundamentals of Public International Financial Law, BadenBaden, 2012; NAPOLITANO G., The Two Ways of Global Governance After the Financial
Crisis, Multilateralism versus Cooperation amongst Governments, in International Journal of
Constitutional Law, 2001, n.4.
37
Cfr. PILADE CHITI M., La crisi del debito sovrano e le sue influenze per la governance
europea, i rapporti tra stati membri, le pubbliche amministrazioni, in www.studiolegalechiti.it
27
Ed invero, nonostante i ripetuti interventi delle Istituzioni europee,
l’Unione economica e monetaria europea (E.M.U.) ha dimostrato la sua
incapacità nel superare le tensioni nei mercati dei debiti sovrani di alcuni
suoi stati membri gravati da dissesti finanziari; si fa riferimento alle
situazioni di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Belgio38.
Più precisamente, la Grecia era caratterizzata da conti pubblici
“truccati” e non più sotto controllo, l’Irlanda dalla tragica situazione del
settore bancario con un conseguente e notevole debito privato, il
Portogallo e la Spagna da disavanzi commerciali in via di crescita, l’Italia
ed il Belgio da un notevole rapporto fra debito pubblico e PIL.
La presenza di questi notevoli disavanzi porta con sé ulteriori ed
inevitabili ripercussioni molto forti sia sul piano economico che sociale,
determinate non soltanto dalle conseguenze delle politiche che
dovranno essere realizzate per fronteggiarlo, ma anche e soprattutto al
fatto che tale debito prima o poi dovrà essere ripagato, salvo
dichiarazione di default, con un ulteriore aggravamento della situazione
economica per future generazioni; ed invero, lo normali conseguenze
derivante da un livello di debito insostenibile sono identificabili nella
mancanza di crescita, come conseguenza della combinazione di più
fattori negativi come, ad esempio, l’impatto sulla domanda aggregata,
l’effetto spiazzamento (cd. crowding out, e cioè la riduzione della spesa
privata come conseguenza dell’aumento della spesa pubblica), il
maggiore prelievo fiscale ed il cosiddetto “patto” (unilaterale)
intergenerazionale.
Inoltre, si deve evidenziare come l’incapacità delle Istituzioni
europee di fronteggiare adeguatamente e prontamente la crisi ha
impedito una più rapida uscita dalla stessa situazione emergenziale; basti
38
Si tratta dei cosiddetti Paesi membri periferici.
28
evidenziare che la mancanza di efficienti modalità di sostegno nei
confronti dei Paesi in difficoltà, così come l’affermasi di politiche fiscali
di tipo restrittivo, hanno impedito all’Eurozona di sfruttare la ripresa
economica internazionale, verificatasi tra la fine del 2010 e l’inizio del
2011. L’Unione economica e monetaria europea, infatti, ha registrato in
quella fase temporale da un lato un notevole tasso di crescita da parte
degli Stati centrali (tra i quali un ruolo di primo piano è stato occupato
dalla Germania), dall’altro lato la recessione o la stagnazione di quasi
tutti i suindicati Paesi gravati da debolezze di fondo39.
Ed ancora, diversi economisti hanno evidenziato come l’Eurozona
rischi di essere imprigionata in un circolo vizioso determinato dal fatto
che i Paesi periferici, gravati maggiormente dalla crisi e dalla fragilità dei
propri debiti sovrani, subiscono anche l’ulteriore effetto negativo
prodotto da un non efficiente e puntale sostegno finanziario da parte
degli altri Paesi dell’Eurozona, nonché dall’imposizione di processi di
aggiustamento e di termini contrattuali talmente punitivi da risultare
recessivi nel breve termine ed economicamente e socialmente
insostenibili nel lungo termine40.
Tale situazione, cui deve aggiungersi un ulteriore crescente
vulnerabilità del settore bancario europeo, determina l’impossibilità per i
Paesi periferici di ricollocarsi su un sentiero di crescita con un
conseguente aggravamento del gap economico rispetto ai Paesi centrali
ed un’ulteriore aumento dei costi macroeconomici di coordinamento41.
Ciò premesso, per meglio comprendere la recente crisi economica,
appare opportuno soffermarsi brevemente sull’analisi dell’istituto che ha
39
Sul punto cfr. MESSORI M., La governance economica europea, contenuto nel libro di A.
ZANARDI, La finanza pubblica italiana. Rapporto 2012, Il Mulino.
40
Cfr. M. MESSORI, Op. cit..
41
Cfr. Ibidem.
29
assunto un ruolo fondamentale nel corso della recente crisi economica:
il rating.
Questo istituto – già presente a partire dall’Ottocento – ha iniziato
ad evolversi soltanto nel Novecento, quando il processo di
finanziarizzazione che a partire dal XX secolo sta coinvolgendo
l’economia mondiale, ha dato alle agenzie di rating un ruolo di
fondamentale importanza nel settore della finanza ed in particolare del
credito; più precisamente, tali agenzie sono delle società che mediante
l’analisi di dati finanziari pubblicano dei giudizi e mettono a conoscenza
dei mercati lo “stato di salute” dell’economia di un paese o di
un’impresa, esprimendo una valutazione che determinerà in quale classe
di rischio creditizio rientrerà quell’ente42.
Proprio a causa della forte l’influenza dei giudizi formulati dalle
citate agenzie sui mercati finanziari, si può affermare che esse hanno
partecipato appieno alla crisi dei debiti sovrani, essendo l’informazione
e la fiducia due fattori che muovono la finanza globale.
Quindi, premesso che il rating creditizio è uno strumento
informativo che permette all’investitore di creare il proprio portafoglio
con una cognizione piena dei possibili rischi in cui può incorrere –
evitando anche il ricorso ai cosiddetti professionisti della finanza –
appare ora opportuno evidenziare che, nell’ipotesi in cui un’agenzia
decida di abbassare il rating di un paese (accadimento sempre più
frequente negli ultimi mesi), si innesta un “circolo” che può essere così
sintetizzato: assegnazione un rischio di default più alto al Paese; corsa alla
vendita da parte dei detentori dei titoli di debito pubblico di quel Paese
con conseguente aumento dell’offerta, riduzione del prezzo ed
42
Le agenzie di rating più importanti – detenendo il 95% della quota di mercato
mondiale del rating – sono tre e sono tutte statunitensi: S&P (Standard and Poor’s
Rating), Moody’s (Moody’s Investor Service) e Fitch ( Fitch Ratings).
30
incremento dei saggi d’interesse (al fine di incentivare l’acquisto); a ciò,
infine, seguirà l’incremento della spesa per gli interessi pagati sui titoli di
Stato con ripercussioni negative sui bilanci pubblici, nonché la ancor più
grave perdita di fiducia.
Alla luce della emersa incredibile incidenza del rating nelle
dinamiche economico/finanziarie, l’U.E. ha finalmente compreso
l’importanza di una disciplina ad hoc; fino a qualche hanno fa, infatti, la
Commissione aveva costantemente ritenuto non indispensabile la
predisposizione di una disciplina specifica, in quanto sembrava
sufficiente il ricorso a normative già presenti nell’ordinamento43.
In particolare, nel 2009 è stato approvato da parte del Parlamento
europeo e del Consiglio il Regolamento (CE) N. 1060/2009 sulla base
del presupposto per cui “le agenzie di rating svolgono un ruolo
importante sui mercati mobiliari e bancari mondiali giacché i loro rating
del credito sono utilizzati dagli investitori […] ne consegue che i rating
del credito hanno un impatto significativo sul funzionamento del
mercato e sulla fiducia degli investitori e dei consumatori. È pertanto
essenziale che le attività di rating del credito siano condotte nel rispetto
dei principi di integrità, trasparenza, responsabilità e correttezza
gestionale, affinché i rating utilizzati nella Comunità emessi da tali
agenzie siano indipendenti, oggettivi e di qualità elevata”44.
Il citato Regolamento, dunque, in merito ai meccanismi di rating
disciplina «sia l’attività sia i soggetti, ponendo attenzione sia al tema
dell’indipendenza sia a quello della prevenzione dei conflitti di interesse»
43
Più precisamente, la Commissione faceva riferimento alle seguenti normative: a) la
Direttiva 2003/6/CE relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla
manipolazione del mercato; b) la Direttiva CRD 2006/48/CE relativa ai requisiti
patrimoniale per le banche; C) la Direttiva MIFID 2004/39/CE relativa ai mercati
degli strumenti finanziari.
44
http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:302:0001:0031:IT:PDF.
31
alla luce dei predetti principi di «integrità, trasparenza, responsabilità,
governance ed affidabilità» cui è subordinata la registrazione
obbligatoria di «tutti coloro che intendono svolgere in modo
professionale l’attività di emissione di rating»45.
Tuttavia, nonostante l’introduzione di tale disciplina che ha
consentito di selezionare gli “attori” del sistema di rating, permangono
nel sistema degli aspetti oscuri determinati dal fatto che «società private
di capitale che hanno scopo di lucro» realizzano profitti proprio
«attraverso la vendita dei giudizi di solvibilità»; si tratterebbe, dunque, di
un modello destinato ad incidere sulla integrità del principio “no
taxation without reperesentation”, dal momento che l’agenzia di rating –
attraverso la propria valutazione – si frappone fra elettore e soggetto
politico cercando di “convalidare” impropriamente le scelte di politica
sociale, economica ed internazionale, assunte dallo Stato nell’esercizio
della propria sovranità46.
Proprio con la consapevolezza di tali difetti sembrerebbe emergere
una volontà riformatrice orientata a depotenziare l’importanza assunta
dal rating, attraverso una valutazione del merito del credito effettuata
direttamente dalle Istituzioni finanziarie ed eventualmente subordinata
al giudizio di una (istituenda ed indipendente) agenzia europea.
Per concludere sul punto in esame, evidenziando la persistente
problematicità nella disciplina del meccanismo di valutazione da parte
45
Sul punto cfr. DI MARIA R., Autonomia finanziaria e decentramento istituzionale.
Principi costituzionali, strumenti e limiti, Giappichelli Editore, Torino, 2012; che a
sua volta cita GILA P. e MISCALI M., I signori del rating. Conflitti di interesse e relazioni
pericolose delle tre agenzie più temute dalla finanza globale, Torino, 2012, p. 147. Deve
essere evidenziato che il Regolamento N. 1060/2009 è stato modificato dal
Regolamento (UE) N. 513/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio; tali
modifiche sono state introdotte con l’obiettivo di far comprendere che il rating
esterno non deve essere l’elemento di scelta prevalente ma solo uno dei tanti fattori
da considerare nella costruzione del portafoglio.
46
Ibidem
32
delle citate agenzie private, appare opportuno sottolineare le parole del
Governatore in carica della BCE, nonché ex governatore della Banca
d’Italia, Mario Draghi, il quale ha affermato che “bisognerebbe imparare
a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno
affidamento sui loro giudizi”.
33
Capitolo II
Il difficile percorso delle Istituzioni europee per arginare gli effetti
della crisi
1. Gli interventi europei del 2011/2012 per fronteggiare la crisi:
il Patto Euro Plus.
Sotto lo stimolo dell’emergenza e della pressione dei mercati –
soprattutto a seguito del progressivo deterioramento dell’economia
greca – l’U.E. si è trovata ad un bivio storico: lasciare che la Grecia
fallisse – accertandone l’incapacità a pagare i debiti contratti e mettendo
a serio rischio la sussistenza dell’Unione economica e monetaria –
oppure garantirne il debito; optando (responsabilmente) per tale
seconda opzione, l’U.E. ha voluto dunque adottare delle nuove misure,
volte ad impedire il reiterarsi di un simile squilibrio di bilancio.
E così, attraverso reiterati vertici intergovernativi, riunioni
dell’Ecofin ed accordi del Consiglio europeo, sono state recentemente
approvate alcune misure volte a colmare le lacune della vecchia
disciplina, attraverso innovazioni nel sistema di ripartizione dei poteri di
politica macroeconomica e nell’ordinamento della finanza europea. In
particolare, nel corso del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, è
stato approvato un pacchetto globale di misure intese a rispondere alla
crisi, preservare la stabilità finanziaria e porre le basi di una crescita
intelligente e sostenibile, basata sull’inclusione sociale e tesa a creare
34
occupazione, mirando al rafforzamento della governance economica e
della competitività della zona euro e dell’U.E.
Tra tali misure, un ruolo centrale assume il Patto Euro Plus, volto
a consolidare ulteriormente il pilastro economico dell’Unione
economica e monetaria, apportando un netto miglioramento nel
coordinamento delle politiche economiche, nonché a migliorare la
competitività attraverso l’aumento del livello di convergenza ed il
rafforzamento dell’economia sociale di mercato47.
I principali obiettivi cui s’ispira il Patto Euro Plus per assicurare il
coordinamento delle politiche economiche per la competitività e la
convergenza possono essere sintetizzati nelle seguenti “quattro linee
guida”: 1) stimolare la competitività; 2) stimolare l’occupazione; 3)
concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; 4)
rafforzare la stabilità finanziaria.
Con riferimento al primo punto, ciascun Paese sarà responsabile
degli interventi specifici che sceglie per promuovere la competitività;
particolare attenzione sarà tuttavia dedicata, nel rispetto delle tradizioni
nazionali di dialogo sociale e relazioni industriali, alle misure volte ad
assicurare un’evoluzione dei costi in linea con la produttività ed alle
misure intese a incrementare la produttività.
Riguardo al secondo punto, invece, particolare attenzione sarà
dedicata alle riforme del mercato del lavoro per promuovere la c.d.
“flessicurezza”: ridurre il lavoro sommerso, aumentare la partecipazione
al mercato del lavoro ed all’apprendimento permanente, implementare
riforme fiscali per agevolare l’attività imprenditoriale – quali la riduzione
dell’imposizione sul lavoro – mantenendo però il gettito fiscale globale
nonché, infine, adottare misure volte a semplificare l’accesso al mercato
47
Accordo approvato dai Capi di Stato e di governo della zona euro, nella riunione
dell’11 marzo 2011.
35
del lavoro delle persone che costituiscono “seconda fonte” di reddito
familiare.
In merito al rafforzamento della sostenibilità delle finanze
pubbliche, invece, il Patto Euro Plus – al fine della piena attuazione del
Patto di stabilità e crescita48 – accorda la massima attenzione ai punti
seguenti: recepimento nella legislazione nazionale delle regole di
bilancio dell’U.E. fissate nel Patto di stabilità e crescita; sostenibilità di
pensioni,
assistenza
sanitaria
e
prestazioni
sociali
attraverso
l’allineamento del sistema pensionistico nazionale alla situazione
demografica nazionale, la limitazione dei regimi di pensionamento
anticipato ed il ricorso ad incentivi mirati per assumere lavoratori
anziani (fascia superiore ai 55 anni).
Infine, riguardo al quarto ed ultimo punto, è stata avviata una
riforma generale del quadro dell’U.E. per la vigilanza e la
regolamentazione del settore finanziario, con l’impegno da parte degli
Stati membri di introdurre una legislazione nazionale per la risoluzione
nel settore bancario, nel pieno rispetto dell’acquis comunitario.
Oltre alle questioni sopraindicate, il Patto Euro Plus focalizza la
propria attenzione sul coordinamento delle politiche fiscali a sostegno
48
Il c.d. «Patto di stabilità e crescita», adottato per la prima volta nel giugno del 1997
con risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam, vincola il potere tributario
degli Stati membri ed è volto a garantire, attraverso sanzioni di natura economica,
l’equilibrio delle finanze pubbliche mediante l’obiettivo del saldo di bilancio
(prossimo al pareggio o positivo). Laddove il fine originario del summenzionato
strumento era proteggere la moneta unica da situazioni di instabilità economica
caratterizzanti alcuni degli Stati membri che si apprestavano ad entrare nella c.d.
«area Euro», esso è divenuto invece la concreta risposta dell’Unione europea alle
preoccupazioni circa la continuità nel rigore di bilancio nell’Unione Economica e
Monetaria. E così, i Regolamenti del Consiglio n. 1466/97 e 1467/97 del 7 luglio
1997, con i quali sono state definite le modalità di attuazione, rispettivamente, della
procedura di sorveglianza multilaterale e della procedura sui disavanzi eccessivi,
sono stati recentemente modificati a rispettiva opera dei Regolamenti (CE) del
Consiglio n. 1055 e 1056 del 27 giugno 2005 e, da ultimo, nell’ambito del Six Pack,
da parte rispettivamente dei Reg. n. 1175 e 1177 del 2011.
36
del risanamento di bilancio e della crescita economica: in tale contesto
gli Stati membri si impegnano ad avviare discussioni strutturate sulle
questioni di politica fiscale, in particolare per assicurare che si scambino
migliori prassi e si presentino proposte di lotta contro la frode e
l’evasione fiscale.
Alla luce di tali caratteristiche, si può dunque affermare che il Patto
Euro Plus ha come principale obiettivo il coordinamento delle politiche
economiche per la competitività e la convergenza al fine di: a)
irrobustire l’attuale governance economica, attraverso l’assunzione di
impegni ed interventi concreti, corredati di un calendario di attuazione;
b) stimolare la competitività e la convergenza in settori di intervento
prioritari che rientrano nella sfera di competenza degli Stati; c) assumere
impegni nazionali concreti, tenendo conto delle migliori prassi e dei
parametri rappresentati dalle prestazioni migliori; d) effettuare un
controllo politico sull’adempimento degli impegni presi e sui progressi
verso la realizzazione degli obiettivi comuni; e) rispettare pienamente il
mercato unico nella sua integralità49.
2. Il semestre europeo.
Con la medesima finalità di trovare una soluzione alla
disomogeneità fra la priorità economiche dei vari Stati e quelle delineate
dall’U.E., rafforzando la governance economica dell’U.E., dopo una serie
di proposte avanzate nel corso del 2010 dalla Commissione e
successivamente varate dopo l’approvazione del Parlamento e del
49
Cfr. G. PITRUZZELLA, op. cit.
37
Consiglio europeo, gli Stati membri hanno deciso di istituire il c.d.
“semestre europeo per il coordinamento rafforzato delle politiche
economiche e di bilancio”.
Con
l’introduzione
di
questo
“strumento”
si
ha
una
trasformazione sia del coordinamento delle politiche economiche
nell’Eurozona e nell’U.E., sia di quelle strutturali che da ex post
diventano ex ante.
In particolare, attraverso un quadro organizzativo entro cui
stabilire termini rigidi per la presentazione e l’integrazione delle priorità
economiche comunitarie, espresse dalle “analisi annuali della crescita”
presentate dalla Commissione e da quelle nazionali, inserite nei
programmi di riforma e nei piani di stabilità e convergenza che gli Stati
presentano nei mesi primaverili50.
Più precisamente, il sistema del semestre europeo prevede a partire
dal 2011 un ciclo di cooperazione politica intensa tra le Istituzioni
dell’U.E. ed i 27 Stati membri relativa sia all’agenda economica che alla
sorveglianza sui bilanci, che può essere sintetizzata nella seguente serie
serrata di fasi così temporalmente scandite: presentazione a gennaio da
parte della Commissione dell’indagine annuale sulla crescita51;
elaborazione nel mese di febbraio/marzo da parte del Consiglio
europeo delle linee guida di politica economica e di bilancio a livello di
U.E. ed a livello degli Stati membri; presentazione entro metà aprile da
parte degli Stati membri dei Piani nazionali di riforma (P.N.R., elaborati
nell’ambito della nuova Strategia per la crescita e l’occupazione U.E.
50
Cfr. R. DICKMANN, Le regole della governance economica europea e il pareggio di bilancio in
Costituzione, in www.federalismi.it.
51
Sul punto si deve evidenziare che la presentazione delle indagini annuali relative al
2012 e al 2013 è stata anticipata, rispettivamente, all’autunno 2011 e all’autunno
2012, in considerazione della necessità di prospettare misure condivise ed urgenti
alla crisi economica.
38
2020) e dei Piani di stabilità e convergenza (P.S.C., elaborati nell’ambito
del Patto di stabilità e crescita), elaborati alla luce delle linee guida
dettate dal Consiglio europeo; predisposizione, entro inizio giugno, sulla
base dei P.N.R. e dei P.S.C., da parte della Commissione europea
delle raccomandazioni di politica economica e di bilancio rivolte ai
singoli Stati membri; approvazione nel mese di giugno da parte
del Consiglio ECOFIN – e, per la parte che gli compete, il Consiglio
Occupazione
e
Affari
sociali
–
delle raccomandazioni della
Commissione europea, anche sulla base degli orientamenti espressi dal
Consiglio europeo di giugno; approvazione nella seconda metà
dell’anno (c.d. semestre nazionale) da parte degli Stati membri delle
rispettive leggi di bilancio, tenendo conto delle raccomandazioni
ricevute. Infine, nell’indagine annuale sulla crescita dell’anno successivo,
la Commissione dà conto dei progressi conseguiti dai Paesi membri
nell’attuazione delle raccomandazioni stesse.
Alla luce delle suindicate procedure emerge che il momento della
vera attuazione delle misure – nel corso del secondo semestre dell’anno
– deve quindi essere preceduto da una fase di sincronizzazione dei
programmi di riforma, a livello sia orizzontale (fra gli Stati) sia verticale
(fra l’U.E. ed i Paesi membri) in un contesto di mutua sorveglianza.
3. Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance
nell’Unione economica e monetaria: il “Fiscal Compact”.
Un’ulteriore e rilevante tappa del percorso evolutivo del quadro
normativo, relativo alla governance economica europea, è indubbiamente
39
costituita dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance
nell’Unione economica e monetaria (T.S.C.G.); infatti – come si evince
dall’art. 1 – le parti contraenti, in qualità di Stati membri dell’Unione
europea, convengono di rafforzare il pilastro economico dell’Unione
economica e monetaria, adottando una serie di regole intese a rinsaldare
la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, e segnatamente
attraverso il c.d. “fiscal compact” di cui al Titolo III (artt. 3-8), firmato il
2 marzo 2012 da venticinque Stati, volto a potenziare il coordinamento
delle loro politiche economiche ed a migliorare la governance della zona
euro, sostenendo in tal modo il conseguimento degli obiettivi
dell’Unione europea in materia di crescita sostenibile, occupazione,
competitività e coesione sociale.
Deve essere evidenziato che hanno deciso di non aderire la
Repubblica Ceca e la Gran Bretagna, mentre l’adesione dell’Irlanda è
stata approvata dagli elettori con apposita consultazione52. Ai sensi degli
art. 1, par. 2, e art. 14, gli Stati aderenti che hanno adottato l’euro
(Belgio, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Italia,
Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Slovenia,
Slovacchia e Finlandia) sono vincolati al Trattato dal primo giorno del
mese successivo alla ratifica; gli Stati membri con deroga ex art. 139 del
T.F.U.E. (Bulgaria, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania e
Svezia) o con esenzione (Danimarca, in base ad apposito Protocollo
allegato ai Trattati U.E.) dalla moneta unica possono essere vincolati,
finché dura la deroga o esenzione, solo dalle disposizioni dei titoli III e
52
Ha espresso voto favorevole nel referendum per la ratifica del fiscal compact il
60,3% degli elettori irlandesi. Il no si è attestato al 39,7% ed ha ottenuto la
maggioranza solo in cinque delle 43 circoscrizioni irlandesi, segnalando che il
sentimento anti-europeo è più forte nelle aree più povere di Dublino e nella contea
nordoccidentale di Donegal.
40
IV del Fiscal Compact (riguardanti, rispettivamente, il “Patto di bilancio”
e il “Coordinamento delle politiche economiche e di convergenza”) dalle quali
dichiarino, al momento del deposito del loro strumento di ratifica o a
una data successiva, di voler essere vincolati. Il solo Titolo V
(riguardante la “Governance della Zona Euro”), si applica dalla data di
entrata in vigore del Trattato a tutte le parti contraenti. Infine, il par. 2
dell’art. 14 del Trattato prevede l’entrata in vigore dal 1° gennaio 2013
“a condizione che dodici parti contraenti la cui moneta è l'euro abbiano depositato il
loro strumento di ratifica, o, se precedente, il primo giorno del mese successivo al
deposito del dodicesimo strumento di ratifica di una parte contraente la cui moneta è
l'euro”53.
Il Trattato è stato sviluppato in primis dall’apposito gruppo di
lavoro presieduto dal lussemburghese Georges Heinrich54 per poi essere
discusso e negoziato in sede di Eurogruppo e di Consiglio ECOFIN,
tenutisi il 23-24 gennaio 2012, e per essere finalizzato nelle citate
riunioni del Consiglio europeo.
Numerose e di fondamentale importanza sono state le modifiche
apportante al testo originariamente proposto dal groppo di lavoro,
soprattutto in seguito alle pressioni delle diverse delegazioni e del
Parlamento europeo.
Ed invero, si deve evidenziare che, nella seduta del 18 gennaio
2012, il Parlamento europeo aveva deliberato una risoluzione che
criticava aspramente il progetto allora vigente, rilevando quanto segue:
a)
manifesta
perplessità
circa
53
il
ricorso
al
cd.
“metodo
Si deve sottolineare che l’art. 15 del Trattato ammette la possibilità che gli Stati
membri dell’Unione che non abbiano sottoscritto il fiscal compact possano aderire
al Trattato stesso anche successivamente. Gli effetti dell’adesione decorreranno dal
deposito dello strumento di adesione presso il depositario – e cioè il segretariato
generale del Consiglio dell’Unione europea – che informerà le altre parti contraenti.
54
Direttore del tesoro lussemburghese e vicepresidente del Comitato economico e
finanziario.
41
intergovernativo”, ritenendo preferibile e maggiormente efficace il
quadro del diritto dell’U.E. e dunque l’opposto “metodo comunitario”
per realizzare i medesimi obiettivi di disciplina di bilancio e per
realizzare un’autentica fiscal union; b) necessità di una maggiore
valorizzazione del ruolo del Parlamento europeo e dei Parlamenti
nazionali in tutti gli aspetti del coordinamento e della governance in
ambito economico; c) assunzione dell’impegno a integrare l’accordo nei
trattati europei al più tardi entro cinque anni; d) richiesta di politiche per
un’Unione improntate non solo alla stabilità, ma anche alla crescita
sostenibile, attraverso misure destinate alla convergenza e competitività,
project bonds, nonché la previsione di un’imposta sulle transazioni
finanziarie; e) formale riserva di avvalersi di tutti gli strumenti politici e
giuridici per difendere il diritto dell’Unione qualora l’accordo definitivo
dovesse prevedere elementi incompatibili con lo stesso diritto
dell’Unione55.
Il Patto di bilancio, disciplinato dal Titolo III, si inserisce in
un’architettura finanziaria strutturata su sei principali pilastri, alcuni dei
quali già analizzati: il Semestre europeo; il c.d. “Six pack”56; le
55
Sul punto cfr. CAPUANO D., Il Trattato sul fiscal compact, Senato della Repubblica Servizio affari internazionali - Ufficio per i rapporti con le istituzioni dell’Unione europea,
Dossier n. 94/DN 16 aprile 2012.
56
Il “Six pack” è costituito da sei atti legislativi volti sia al rafforzamento del Patto di
stabilità e crescita, sia al rafforzamento della normativa relativa ai quadri di bilancio
nazionali e la sorveglianza in materia di squilibri macroeconomici. Esattamente il Six
pack comprende: Regolamento (UE) n. 1173/2011 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 16 novembre 2011, relativo all’effettiva esecuzione della sorveglianza
di bilancio nella zona euro; Regolamento (UE) n. 1174/2011 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, sulle misure esecutive per la
correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro; Regolamento
(UE) n. 1175/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011,
che modifica il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio per il rafforzamento
della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del
coordinamento delle politiche economiche; Regolamento (UE) n. 1176/2011 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, sulla prevenzione e la
correzione degli squilibri macroeconomici; Regolamento (UE) n. 1177/2011 del
42
disposizioni
relative
alla
sorveglianza
macroeconomica;
la
determinazione di requisiti minimi per i quadri nazionali di bilancio; il
c.d. Patto Euro Plus; un fondo per la stabilizzazione dell’area euro,
istituito, per il triennio 2010-2012, dai Capi di Stato e di Governo
dell’area euro nel maggio 2010, successivamente modificato e poi
sostituito nel corso del 2012, dal meccanismo europeo di stabilità
(M.E.S.) della zona euro, previsto da una modifica dell’articolo 136 del
Trattato sul funzionamento dell’U.E., adottata dal Consiglio europeo
del 24-25 marzo 201157.
Posticipando ad un paragrafo successivo l’analisi relativa alle
modalità dell’approvazione del Fiscal Compact ed alla sua conseguente
natura giuridica, occorre evidenziare le principali novità tecniche
introdotte dal «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance
dell’Unione economica e monetaria».
Da una prima analisi del T.S.C.G. emerge che esso è composto da
un Preambolo e da 16 articoli, suddivisi in 6 titoli: il primo relativo
all’oggetto e all’ambito di applicazione; il secondo relativo alla coerenza
e al rapporto con il diritto dell’Unione; il terzo relativo al patto di
bilancio (il cd. fiscal compact); il quarto relativo al coordinamento delle
politiche economiche e convergenza; il quinto relativo alla governance
della zona euro; il sesto relativo alle disposizioni generali e finali.
Già nel Preambolo del Trattato è possibile scorgere aspetti di
fondamentale importanza come, ad esempio, quello in cui si stabilisce
che la garanzia dell’assistenza nel quadro dei nuovi programmi previsti
Consiglio, dell’8 novembre 2011, che modifica il regolamento (CE) n. 1467/97 per
l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i
disavanzi eccessivi; Direttiva 2011/85/UE del Consiglio, dell’8 novembre 2011,
relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri.
57
Cfr. NUGNES F., Il Fiscal Compact. Prime riflessioni su un accordo ricognitivo, in
www.forumcostituzionale.it.
43
dal Meccanismo europeo di stabilità sarà condizionata, dal 1° marzo
2013, alla ratifica del fiscal compact da parte della parte contraente
interessata e, appena sarà terminato il periodo previsto per la
trasposizione della regola del bilancio in pareggio nelle legislazioni
nazionali (c.d. regola d’oro o golden rule), di cui all’articolo 3, paragrafo 2,
del trattato, sarà condizionata anche a quanto richiesto in detto articolo.
Merita particolare attenzione anche il considerando con cui,
nell’implementazione del Trattato, si richiede il rispetto dello specifico
ruolo delle parti sociali, come riconosciuto nelle leggi e nei sistemi
nazionali, nonché il riferimento al Patto Euro Plus, adottato dai capi di
Stato o di Governo degli Stati membri della zona euro e di altri Stati
membri dell’Unione il 25 marzo 2011, quale strumento che individua gli
aspetti essenziali per migliorare la competitività della zona euro.
Inoltre, tra gli ulteriori principi espressi nel preambolo, e che
costituiscono il presupposto per l’adozione del Trattato, si evidenzia: a)
il desiderio da parte dei Paesi firmatari di favorire le condizioni per una
maggiore crescita economica nell’U.E. e, a tale scopo, di sviluppare un
coordinamento sempre più stretto delle politiche economiche della zona
euro; b) la necessità di fondamentale importanza per gli Esecutivi
nazionali di mantenere finanze pubbliche sane e sostenibili e di evitare
disavanzi pubblici eccessivi al fine di salvaguardare la stabilità di tutta la
zona euro, richiedendo quindi l’introduzione di regole specifiche, tra cui
una “regola del pareggio di bilancio” e un meccanismo automatico per
l’adozione di misure correttive; c) la necessità di garantire che il loro
disavanzo pubblico non superi il 3% del prodotto interno lordo ai
prezzi di mercato e che il loro debito pubblico non superi il 60% del
prodotto interno lordo ai prezzi di mercato o si riduca in misura
sufficiente avvicinandosi a tale percentuale; d) il bisogno per le parti
44
contraenti, in qualità di Stati membri dell’U.E., di astenersi da qualsiasi
misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi
dell’Unione nel quadro dell’unione economica; e) l’obiettivo dei Capi di
Stato o di Governo degli Stati membri della zona euro e di altri Stati
membri dell’Unione europea di integrare quanto prima le disposizioni
del presente trattato nei Trattati su cui si fonda l’Unione europea; f) la
necessità di aggiornare periodicamente gli obiettivi di medio termine
sulla base di un metodo concordato, i cui principali parametri devono a
loro volta essere periodicamente rivisti, in modo da rispecchiare
adeguatamente i rischi delle passività esplicite ed implicite per le finanze
pubbliche, in linea con le finalità del patto di stabilità e crescita; g) che
l’obbligo delle parti contraenti di recepire la “regola del pareggio di
bilancio” nei loro ordinamenti giuridici nazionali, tramite disposizioni
vincolanti, permanenti e preferibilmente di natura costituzionale,
dovrebbe essere soggetta alla giurisdizione della Corte di giustizia
dell’U.E. a norma dell’art. 273 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea; h) che il 26 ottobre 2011 i capi di Stato o di
governo degli Stati membri della zona euro hanno convenuto di
migliorare
la
governance
della
zona
euro,
anche
mediante
l’organizzazione di almeno due riunioni del Vertice euro all’anno, da
convocarsi,
salvo
in
presenza
di
circostanze
eccezionali,
immediatamente dopo le riunioni del Consiglio europeo o le riunioni a
cui partecipino tutte le parti contraenti che hanno ratificato il presente
trattato.
Prima di passare all’analisi del cuore del trattato – relativo al patto
di bilancio – occorre sottolineare che il titolo secondo, composto dal
solo art. 2, stabilisce che il Trattato sarà applicato ed interpretato
conformemente ai Trattati su cui si fonda l’U.E., con particolare
45
riferimento all’art. 4, par. 3, del Trattato sull’Unione europea, ed al
diritto dell’U.E., compreso il diritto procedurale ogniqualvolta sia
richiesta l’adozione di atti di diritto derivato58. Lo stesso T.S.C.G.,
inoltre, potrà essere applicato nella misura in cui è compatibile con i
Trattati su cui si fonda l’U.E. e con il diritto dell’Unione europea; esso
non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione
economica.
Appare di indubbia importanza la precisazione contenuta nel
preambolo, per cui la Commissione – nel momento in cui monitora gli
impegni di bilancio delle parti contraenti del fiscal compact – agisce nel
quadro dei poteri conferiti dagli articoli 121, 126 e 136 del TFUE; ciò
comporta che tutto quello che viene svolto dalla Commissione, in base
ai citati articoli, nel controllo delle posizioni di bilancio degli Stati
membri dell’Unione nell’ambito delle competenze proprie dell’Unione
(e quindi
nell’ambito del patto di stabilità e crescita) avrà anche
l’ulteriore utilizzazione per le finalità previste dal fiscal compact, senza
quindi duplicazioni di attività59.
Passando ora all’analisi del titolo terzo del T.S.C.G. – parte
centrale del Trattato, costituita dal Patto di bilancio (fiscal compact) – si
deve sottolineare che l’art. 3 individua le regole fondamentali del
controllo dei bilanci pubblici degli Stati firmatari, «in aggiunta e fatti
salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell’Unione europea».
58
Secondo l’articolo 4, paragrafo 3, del trattato UE, «3. In virtù del principio di leale
cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente
nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni
misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli
obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli
Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da
qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi
dell’Unione»
59
Sul punto cfr. CAPUANO D., op. cit.
46
Più precisamente, vengono stabilite le seguenti regole: a) la
posizione di bilancio della pubblica amministrazione di ciascuna parte
contraente deve essere in pareggio o in avanzo; b) la regola di cui alla
lett. a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica
amministrazione risulta pari all’obiettivo di medio termine specifico per
il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite
inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno
lordo ai prezzi di mercato60. Ciascuna parte contraente si impegna ad
assicurare la rapida convergenza verso il proprio obiettivo di medio
termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla
Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul
piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio termine e
il rispetto di tale obiettivo verranno valutati globalmente, facendo
riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle
misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità
e crescita rivisto61; c) ciascuna parte contraente può deviare
temporaneamente dal proprio obiettivo di medio termine o dal percorso
di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali. È lo
stesso Trattato a stabilire che per “circostanze eccezionali” si intendono
eventi inconsueti non soggetti al controllo della parte contraente
interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria
della pubblica amministrazione oppure periodi di grave recessione
economica ai sensi del patto di stabilità e crescita rivisto, purché la
60
Ai sensi dell’art. 3, par. 3, lett a), per "saldo strutturale annuo della pubblica
amministrazione" si deve intendere il saldo annuo corretto per il ciclo al netto di
misure una tantum e temporanee.
61
Si deve evidenziare che nel preambolo, è contenuto un considerando con cui le
parti contraenti esprimono il loro supporto a eventuali proposte legislative della
Commissione europea che dovessero rafforzare ulteriormente il patto di stabilità e
crescita introducendo, per i Paesi la cui moneta è l’euro, nuovi parametri per gli
obiettivi di medio termine, in linea con gli obiettivi del nuovo trattato.
47
deviazione temporanea della parte contraente interessata non
comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine (come
stabilito dall’art. 3, par. 3, lett. b); d) quando il rapporto tra il debito
pubblico ed il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato risulta
significativamente inferiore al 60% ed i rischi sul piano della
sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite
inferiore per l’obiettivo di medio termine può arrivare fino a un
disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai
prezzi di mercato; e) in caso di deviazioni significative dall’obiettivo di
medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, sarà
attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Quest’ultimo
include l’obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per
correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito.
Il secondo paragrafo dell’art. 3 stabilisce l’ulteriore principio
fondamentale per cui le regole enunciate al par. 1 acquisteranno piena
efficacia nel diritto nazionale delle parti contraenti non oltre un anno
dall’entrata in vigore del Trattato stesso tramite disposizioni vincolanti e
di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto
fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo
nazionale di bilancio. L’importanza di questo principio si evince anche
dal fatto che riversa i suoi effetti sia sul controllo della Corte di giustizia,
di cui al successivo art.8, sia sulla possibilità di ricorrere all’assistenza
finanziaria prevista dal Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità
(entrambi i punti saranno oggetto di specifico esame qui di seguito).
Ed ancora, il par. 2 dell’art. 3 prosegue affermando che le parti
contraenti devono istituire a livello nazionale il meccanismo di
correzione di cui al paragrafo 1, lettera e), sulla base di principi comuni
proposti dalla Commissione europea, riguardanti in particolare la natura,
48
la portata e il quadro temporale dell’azione correttiva da intraprendere,
anche in presenza di circostanze eccezionali, e il ruolo e l’indipendenza
delle istituzioni responsabili sul piano nazionale per il controllo
dell’osservanza delle regole enunciate al paragrafo 1. Tale meccanismo
di correzione deve rispettare appieno le prerogative dei Parlamenti
nazionali62.
L’art. 4 del Trattato, invece, disciplinando il cosiddetto criterio del
debito, stabilisce che quando il rapporto tra il debito pubblico e il
prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di
riferimento del 60% di cui all’articolo 1 del protocollo (n. 12) sulla
procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai Trattati dell’Unione
europea, le parti contraenti devono operare una riduzione a un ritmo
medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento come
stabilito dell’articolo 2 del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio,
del 7 luglio 1997 (il c.d. “braccio correttivo” del patto di stabilità e
crescita), per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione
della procedura per i disavanzi eccessivi, come modificato dal
regolamento (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 201163.
Come evidenziato da diversi studi, la precisazione che la riduzione
del debito debba avvenire nel rispetto dell’intero articolo 2 del
regolamento (CE) n. 1467/97 risulta essere di fondamentale
importanza.
62
Nella fase di valutazione dei “principi comuni” del meccanismo di correzione
automatica presentati dalla Commissione europea non potrà non essere valorizzata
la nozione di percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine contenuta
all’articolo 5, paragrafo 1, comma 3, del regolamento (CE) n. 1466/97, come
modificato dal six-pack, in cui si afferma che i «progressi sufficienti verso l’obiettivo
di bilancio a medio termine sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo
strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di
entrate».
63
Si precisa che il regolamento (UE) n. 1177/2011, dell’8 novembre 2011 è uno dei
sei atti costituenti il six-pack, entrato in vigore il 13 dicembre 2011.
49
Ed invero, questo paragrafo fa riferimento a diversi parametri che
permettono di ridurre il grado di rigidità del criterio del ventesimo
all’anno della diminuzione dell’eccedenza di debito rispetto al 60%
stabilito; ad esempio, basti pensare alla possibilità di valutare la
riduzione come media nell’ambito di un triennio, e non anno per anno,
oppure di valutare l’influenza del ciclo sull’andamento del debito64.
Inoltre, attraverso il rinvio integrale all’articolo 2 del regolamento
(CE) n. 1467/97, come modificato nel 2011 si consente – nel momento
della valutazione sul percorso di riduzione dell’eccedenza di debito – il
ricorso a diversi fattori molto significativi indicati nei restanti paragrafi
dello stesso articolo, tra i quali: 1) la posizione in termini di risparmi
netti del settore privato (paragrafo 3, lett. a); 2) il livello del saldo
primario (paragrafo 3, lett. b); l’attuazione di politiche nel contesto di
una strategia di crescita comune dell’Unione (paragrafo 3, lett. b); 4)
l’attuazione di riforme delle pensioni che promuovano la sostenibilità a
lungo termine senza aumentare i rischi per la posizione di bilancio a
medio termine (paragrafo 5)65.
L’art. 4, infine, prosegue affermando che l’esistenza di un
disavanzo eccessivo dovuto all’inosservanza del criterio del debito verrà
decisa in conformità della procedura di cui all’articolo 126 del trattato
sul funzionamento dell’Unione europea; in particolare, secondo il par. 6
di quest’ultimo articolo è il Consiglio – su proposta della Commissione
e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di
formulare – a decidere, dopo una valutazione globale, se esiste un
disavanzo eccessivo66.
64
cfr. CAPUANO D., op. cit.
Ibidem.
66
Come evidenziato da Capuano nella citata opera, “il richiamo espresso alla
«procedura di cui all’articolo 126» potrebbe significare che per il fiscal compact –
65
50
Il successivo art. 5 del T.S.C.G. stabilisce che ciascuna parte
contraente che sia soggetta alla procedura per i disavanzi eccessivi ai
sensi dei Trattati su cui si fonda l’Unione europea dovrà predisporre un
programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una
descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per
una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo. Il
contenuto e il formato di tali programmi dovranno essere definiti nel
diritto dell’Unione europea mentre la loro presentazione al Consiglio
dell’Unione europea ed alla Commissione europea per l’approvazione
ed il monitoraggio avranno luogo nel contesto delle procedure di
sorveglianza attualmente previste dal patto di stabilità e crescita.
Ai sensi dell’art. 6, le parti contraenti – al fine di coordinare meglio
le emissioni di debito nazionale previste – comunicano ex ante al
Consiglio dell’Unione europea ed alla Commissione europea i rispettivi
piani di emissione del debito pubblico
Proseguendo con l’analisi del cuore del Trattato, e cioè del titolo
terzo, l’art. 7 obbliga le parti contraenti la cui moneta è l’euro a
sostenere le proposte o le raccomandazioni presentate dalla
Commissione europea, ove questa ritenga che sia stato violato il criterio
del deficit nel quadro di una procedura per i disavanzi eccessivi. Tale
obbligo non opera nel caso in cui venga constatato che la maggioranza
qualificata delle parti contraenti la cui moneta è l’euro – calcolata senza
tenere conto della posizione della parte contraente interessata – si
che è comunque, come il TFUE, un trattato internazionale - l’accertamento
dell’inosservanza del criterio del debito deve avvenire senza che sia possibile […]
l’utilizzazione della regola della maggioranza inversa”. Si precisa che una decisione si
intende adottata dal Consiglio con la citata regola a meno che quest’ultimo, a
maggioranza semplice, non decida di respingerla entro dieci giorni dalla sua
adozione da parte della Commissione. Pertanto, il richiamo alla procedura di cui
all’art. 126 comporterebbe che in Consiglio si dovrà comunque trovare la
maggioranza qualificata affinché la proposta della Commissione sia approvata.
51
oppone alla decisione proposta o raccomandata dalla Commissione
stessa (c.d. “maggioranza inversa”).
Più esattamente, con la predisposizione di questo articolo, le parti
contraenti la cui moneta è l’euro si sono obbligate a verificare – prima
dell’adozione di una decisione nell’ambito della procedura per disavanzi
eccessivi con riferimento al criterio del deficit – che tra le stesse non
sussista una maggioranza qualificata contraria alle proposte o
raccomandazioni della Commissione; solo nell’ipotesi in cui tale
maggioranza non sussista tutte le parti contraenti la cui moneta è l’euro
al fine di evitare la violazione dell’obbligo internazionale di cui
all’articolo 7 – dovranno votare a sostegno delle proposte e
raccomandazioni della Commissione.
Da tale disposizione, inoltre, emergerebbe un travalicamento del
ruolo del Consiglio delineato dall’art.126 TFUE ed un conseguente
rafforzamento del ruolo della Commissione, posto che si procederebbe
all’applicazione della procedura sui disavanzi eccessivi prevista dal
menzionato articolo – oltreché dal regolamento 1466/1997 – soltanto
nell’ipotesi in cui sussista una maggioranza qualificata delle parti
contraenti opposta alle posizioni della Commissione67.
L’art. 8, con il quale si conclude il titolo sul patto di bilancio,
individua le competenze della Corte di giustizia in riferimento alle
procedure per la verifica dell’osservanza degli obblighi previsti in tema
di disavanzo e di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, di cui al
precedente art. 3, par. 2, distinguendo due modalità di ricorso alla Corte
di giustizia: la prima dispone che una o più parti contraenti del Trattato
potranno adire la Corte di giustizia nell’ipotesi in cui la Commissione –
dopo aver presentato tempestivamente alle stesse parti contraenti una
67
Cfr. DI MARIA R. e GENNARO G, op.cit
52
relazione sulle disposizioni adottate da ciascuna di loro, in ottemperanza
all’art. 3, par. 2, e dopo aver posto la parte contraente interessata in
condizione di presentare osservazioni – concluda nel senso che tale
parte contraente non abbia rispettato la relativa disposizione; la seconda
ipotesi, invece, consente ad una parte contraente di adire la Corte di
giustizia anche qualora ritenga, indipendentemente dalla relazione della
Commissione, che un’altra parte contraente non abbia rispettato i
vincoli posti dal Trattato68.
Lo stesso par. 1 precisa, inoltre, che in entrambi i casi la sentenza
della Corte di giustizia è vincolante per le parti del procedimento che,
pertanto, dovranno assumere tutti i provvedimenti che l’esecuzione
della sentenza comporti, entro il termine stabilito dalla Corte stessa69; il
par. 2, infine, prevede che uno degli Stati – nell’ipotesi di mancata
ottemperanza delle sentenze di cui al par. 1 – sulla base della propria
valutazione o della valutazione della Commissione europea, possa
nuovamente adire la Corte di Lussemburgo, chiedendo l’imposizione di
sanzioni finanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione europea
nel quadro dell’art. 260 TFUE.
Ed ancora, qualora la Corte di giustizia constati che la parte
contraente interessata non si sia conformata alla sua sentenza, potrà
comminarle il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità
adeguata alle circostanze e non superiore allo 0,1% del suo prodotto
interno lordo. Le somme che verranno imposte ad una parte contraente
68
Ibidem
Appare evidente come l’assetto prefigurato in questa prima parte dell’articolo 8 sia
stato mutuato dalla disciplina delle procedure di infrazione, specie nella parte in cui
si stabilisce che le stesse siano attivate su iniziativa di uno Stato membro, così come
previsto dall’articolo 259 del TFUE. Tuttavia, si deve evidenziare che la Corte di
giustizia agisce nell’ambito delle sue competenze arbitrali, previste dall’articolo 273
del TFUE, come precisato dallo stesso articolo 8, ultimo paragrafo, e dal preambolo
del trattato
69
53
la cui moneta è l’euro verranno confluite al meccanismo europeo di
stabilità; negli altri casi, i pagamenti saranno invece versati al bilancio
generale dell’Unione europea
Alla luce di quanto appena detto, dunque, non possono sorgere
dubbi sul fatto che tale disposizione abbia introdotto importanti novità
circa il ruolo della Corte nonché riguardo le modalità di ricorso nei suoi
confronti da parte degli Stati contraenti: per quanto maggiormente
rileva in questa sede, basti evidenziare che l’art. 8 del Trattato ha
permesso il superamento del presupposto stabilito dall’art. 259 TFUE,
costituito dal previo parere che la Commissione deve emettere entro tre
mesi dalla domanda che gli viene formulata.
Dopo aver analizzato attentamente la parte fondamentale del
T.S.C.G., costituita dal fiscal compact, si può ora procedere con una
veloce disamina del titolo IV – composto dagli artt. 9, 10 e 11 – che si
riferisce al coordinamento delle politiche economiche e convergenza.
Più precisamente, ai sensi dell’art. 9, le parti contraenti – al fine di
elaborare una politica economica che favorisca il buon funzionamento
dell’unione economica e monetaria e la crescita economica – si sono
impegnate a ricercare una convergenza e una competitività rafforzate,
nonché ad adottare tutte quelle misure necessarie in tutti i settori
essenziali al buon funzionamento della zona euro, perseguendo gli
obiettivi di stimolare la competitività, promuovere l’occupazione,
contribuire ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche e
rafforzare la stabilità finanziaria; il successivo art. 10, invece, fa
rifermino a misure specifiche concernenti gli Stati membri la cui moneta
è l’euro, come previsto nell’art. 136 del TFUE, e alle cooperazioni
rafforzate, come stabilito dall’art. 20 TUE e dagli artt. da 326 a 334
TFUE, nelle materie essenziali al buon funzionamento della zona euro,
54
senza recare pregiudizio al mercato interno; l’art. 11, infine, prescrive
alle parti contraenti – ai fini di una valutazione comparativa delle
migliori prassi e adoperandosi per una politica economica più
strettamente coordinata – di discutere ex ante e, ove appropriato,
coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che
intendono intraprendere. A tale coordinamento partecipano le
istituzioni dell’Unione europea in conformità del diritto dell’Unione
europea.
Particolare importanza assume anche il titolo V del T.S.C.G. che
disciplina la governance della zona euro con gli articoli dal 12 e 13; il
primo prevede la costituzione del cosiddetto Vertice euro, al quale
partecipano i capi di Stato o di governo delle parti contraenti la cui
moneta è l’euro insieme con il presidente della Commissione europea e
con il presidente della Banca centrale europea, che è invitato a
partecipare a tali riunioni informali70.
Tali riunioni dovranno essere convocate quando necessario,
almeno due volte all’anno, per discutere questioni connesse alle
competenze specifiche che le parti contraenti la cui moneta è l’euro
condividono in relazione alla moneta unica, nonché altre questioni
concernenti la governance della zona euro e le relative regole, e gli
orientamenti strategici per la condotta delle politiche economiche per
aumentare la convergenza nella zona euro.
L’art. 12, inoltre, per far fronte alle richieste di partecipazione al
Vertice euro formulate da parte degli Stati contraenti diversi da quelli la
cui moneta è l’euro, i loro capi di Stato o di governo partecipino alle
70
Per assicurare la partecipazione del Parlamento europeo si prevede che il
Presidente di questa istituzione possa essere invitato per essere ascoltato; il
presidente del Vertice euro, inoltre, deve riferire al Parlamento europeo dopo ogni
riunione del Vertice euro.
55
discussioni delle riunioni relative alla competitività per le parti
contraenti, alla modifica dell’architettura complessiva della zona euro e
alle regole fondamentali che ad essa si applicheranno in futuro, nonché,
ove opportuno e almeno una volta all’anno, alle discussioni su questioni
specifiche di attuazione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e
sulla governance nell’unione economica e monetaria.
La preparazione e la continuità delle riunioni del Vertice euro
dovrà essere assicurata dal suo Presidente, in stretta cooperazione con il
presidente della Commissione europea; l’organismo incaricato di
preparare e dar seguito alle riunioni del Vertice euro è invece
l’Eurogruppo e a questo fine il suo presidente può essere invitato a
partecipare a tali riunioni.
Il successivo art. 13, invece, stabilisce che – così come previsto dal
titolo II del protocollo (n. 1) sul ruolo dei parlamenti nazionali
nell’Unione europea allegato ai Trattati dell’Unione europea – il
Parlamento europeo ed i Parlamenti nazionali delle parti contraenti
dovranno definire insieme l’organizzazione e la promozione di una
conferenza dei rappresentanti delle pertinenti commissioni del
Parlamento europeo e dei rappresentanti delle pertinenti commissioni
dei parlamenti nazionali ai fini della discussione delle politiche di
bilancio e di altre questioni rientranti nell’ambito di applicazione del
T.S.C.G.71
71
Deve essere evidenziato che il titolo II del protocollo n. 1, oltre ad essere
composto dal citato art. 9, è costituito anche dal successivo art. 10, il quale si
riferisce precisamente alla conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli
affari dell’Unione (cd. COSAC). Più precisamente, come emerso durante la riunione
dei presidenti COSAC svoltasi a Copenhagen il 30 gennaio 2012 – nello stesso
giorno dell’approvazione del fiscal compact al Consiglio europeo informale – e
come confermato dal vicepresidente della Commissione europea Maros Šefčovič,
sarà probabile che proprio in quel contesto possano essere discusse le tematiche
concernenti la disciplina dei bilanci degli Stati membri.
56
Tralasciando l’esame degli artt. 14 e 15 del T.S.C.G., già descritti in
precedenza, appare ora opportuno soffermarsi sull’art. 16, con il quale si
conclude il Trattato stesso.
In particolare, la citata disposizione contiene la clausola per cui «al
più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente
trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di
attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea
e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure
necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato
nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea».
Il “Fiscal Compact” dunque – in linea con il Patto di stabilità e
crescita, come da ultimo rivisitato nel 2011 – nel proseguire nella
direzione di una concreta declinazione e taratura dei vincoli comuni
sulla base delle specifiche situazioni nazionali, canonizza i margini di
flessibilità all’interno di una disciplina più puntuale e stringente72.
Alla luce di tali caratteristiche, appare evidente che il potere
decisionale in materia di politiche fiscali non sarà più di competenza
delle rappresentanze elette, bensì della tecnocrazia della B.C.E. e dei
Governi riuniti nel Consiglio europeo, con la collaborazione della
Commissione e del Vertice Euro: saranno questi organismi a decidere
“la sostenibilità delle finanze pubbliche” dei Paesi membri, seguendo le
procedure definite dal Patto Euro Plus ed i parametri indicati dal “Six
Pack”.
Alla luce di quanto sopraesposto, emerge che il recente Patto
Fiscale – attraverso una restrizione incisiva della sovranità nazionale
nelle politiche di bilancio ed economiche, anche tramite vincoli di
natura para-costituzionale – si muove in una duplice direzione: da un
72
Cfr. MORGANTE D., Note in tema di “Fiscal Compact”, in www.federalismi.it.
57
lato, è volto a rendere più stringente la disciplina di bilancio e più
pervasiva, integrata e sistematica la relativa sorveglianza da parte delle
istituzioni comunitarie; d’altro lato, cerca di porsi in un’ottica
maggiormente tailormade, che consenta di tradurre le specificità di
ciascun Paese – positive o negative che siano – in una corrispondente
declinazione, più o meno flessibile, delle regole fiscali generali. Ciò al
fine di dare concreta valenza normativa alla convinzione – ad esso
sottostante – che il superamento della crisi economico-finanziaria non
possa che passare attraverso finanze pubbliche più sane, solide, stabili,
coese, che tendano ad omogeneizzarsi sotto il profilo dell’adozione
delle migliori prassi di prudente gestione, sia delle risorse sia del livello
di indebitamento73.
Inoltre, si deve evidenziare come le regole previste in merito al
rigore
di
bilancio
ripropongono
essenzialmente
le
modifiche
costituzionali già adottate nel 2009 in Germania e che, dunque, fanno
ipotizzare una “germanizzazione” delle regole dell’Eurozona, in
coerenza proprio con la leadership sempre maggiore assunta negli ultimi
anni da Berlino nella gestione della crisi economica74
73
Cfr. MORGANTE D., op. cit.
Sul punto, cfr. FABBRINI F., Il Fiscal Compact, in Quaderni costituzionali, 2012, p. 435.
In merito alla riforma dell’art. 109 della Legge fondamentale tedesca, così come
modificato dalla c.d. Föderalismus-Reform II del luglio 2009, si rimanda a PEDRINI
F., La costituzionalizzazione tedesca del patto europeo di stabilità, in Quaderni costituzionali,
2011, pp. 391 ss.
74
58
4. Il Meccanismo europeo di stabilità.
Un ulteriore passo avanti di fondamentale importanza per
fronteggiare la grave crisi attraverso una ristrutturazione della governance
economica dell’U.E. si è avuto sicuramente attraverso l’istituzione del
Meccanismo europeo di stabilità (M.E.S.); anche in questo caso, così
come per gli accordi già esaminati nel precedente paragrafo, i Paesi
dell’Eurozona sono stati costretti ad utilizzare lo strumento del Trattato
internazionale a causa del veto britannico75.
L’importanza di tale strumento emerge già dalle dichiarazioni di
Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo e del Consiglio dei
governatori del M.E.S., il quale ha affermato che “l’avvio del
meccanismo europeo di stabilità rappresenta una tappa fondamentale
nella costruzione del futuro dell’Unione monetaria europea. Lo stesso
M.E.S. sarà sicuramente considerato un elemento rassicurante
all’interno e all’esterno dell’Unione monetaria”76.
Ed invero, il Meccanismo europeo di stabilità, come già
brevemente accennato, è stato previsto al fine di sostituire il Fondo per
la stabilizzazione dell’area euro (F.E.S.F.), istituito dai Capi di Stato e di
Governo dell’area euro nel maggio 2010 per sostenere la crisi
congiunturale che aveva colpito Irlanda, Portogallo e Grecia.
75
Il trattato M.E.S. è entrato in vigore il 27 settembre 2012 e tutti e 17 gli Stati
membri della zona euro lo hanno ratificato entro il 3 ottobre 2012. Più
precisamente, è stato firmato a Bruxelles tra il Regno del Belgio, la Repubblica
Federale di Germania, la Repubblica di Estonia, l’Irlanda, la Repubblica Ellenica, il
Regno di Spagna, la Repubblica Francese, la Repubblica Italiana, la Repubblica di
Cipro, il Granducato di Lussemburgo, Malta, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica
d’Austria, la Repubblica Portoghese, la Repubblica di Slovenia, la Repubblica
Slovacca e la Repubblica di Finlandia.
76
Dichiarazione espressa al termine della riunione inaugurale del Consiglio dei
governatori del M.E.S., tenutasi in data 8 ottobre 2012.
59
Il F.E.S.F., infatti, presentava notevoli lacune, quali: la sua
precarietà, essendo la sua durata limitata al triennio 2010/2012; la
scarsità delle risorse di cui disponeva, non permettendo una tutela
adeguata alla gravità degli attacchi della speculazione finanziaria;
l’esposizione al pressing derivante dalle valutazioni compiute dalle
agenzie di rating posto che il fondo si reggeva sulle garanzie fornite dagli
Stati. Il nuovo Meccanismo europeo di stabilità, invece, al fine di
resistere agli attacchi dei mercati finanziari si fonda direttamente sui
versamenti di capitali direttamente da parte degli Stati aderenti77.
Ai sensi dell’art. 3 del Trattato, il M.E.S. ha l’obiettivo “di
mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità,
secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza
finanziaria scelto, a beneficio dei membri del M.E.S. che già si trovino o
rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per
salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e
quella dei suoi Stati membri. A questo scopo è conferito al M.E.S. il
potere di raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o la
conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri
membri, istituzioni finanziarie o terzi”.
In particolare, è stato attribuito al meccanismo europeo di stabilità
il potere di raccogliere fondi mediante l’emissione di strumenti
finanziari o attraverso la conclusione di intese o accordi finanziari o di
altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi78. Dunque,
considerata
l’importanza
di
questo
77
“scudo”
di
protezione
Il MES è alimentato tramite il versamento di quote da parte degli Stati membri
secondo una percentuale ad hoc per ogni Stato. Quest’ultimo, dunque, versa una
cifra e riceve azioni in cambio. L’Italia dovrà versare in scaglioni una percentuale del
17,9% del totale, cioè 125,3 miliardi di Euro, sul totale di 700 miliardi di Euro.
78
Cfr. BILANCIA P., La nuova governance dell’Eurozona e i “riflessi” sugli ordinamenti
nazionali, in www.federalismi.it. Più precisamente, il fondo stabilito per il M.E.S. è di
700 miliardi di euro e la sua capacità di prestito può arrivare a 500 miliardi di euro.
60
dell’Eurozona, il M.E.S. assume le sembianze di un’Istituzione
finanziaria internazionale, con sede a Lussemburgo e a cui partecipano
tutti i Paesi dell’eurozona, benché sia aperta alla partecipazione degli
altri Stati dell’UE79.
Appare evidente, quindi, l’enorme potenzialità di questo strumento
che è in grado di fornire ausilio in diversi modi, e cioè attraverso la
concessione di prestiti, acquistando obbligazioni di Stati membri sui
mercati primari e secondari oppure assegnando prestiti per la
ricapitalizzazione di banche e di altre istituzioni finanziarie.
Tuttavia, controbilancia i suindicati aspetti positivi la complessa e
farraginosa struttura organizzativa di cui il M.E.S. è dotato, ciò a danno
di un più facile accesso ai fondi da parte degli Stati che si trovano in
gravi difficoltà.
In particolare, si tratta di una struttura basata su tre organi
fondamentali:
il
Consiglio
dei
governatori,
il
Consiglio
di
amministrazione ed il Direttore generale, che potrà servirsi di un
segretariato.
Il Consiglio dei governatori è composto da un governatore –
membro del governo dello Stato appartenente al MES e responsabile
delle finanze – o da un governatore supplente (abilitato ad agire in
nome del governatore in caso di assenza di quest’ultimo) nominato da
ciascuno Stato aderente.
Inoltre, il Trattato prevede che possano partecipare alle riunioni
del Consiglio dei governatori – in qualità di osservatori – il
Commissario europeo per gli affari economici, il Presidente della BCE,
rappresentanti di Stati membri non appartenenti all’Eurozona nel caso
79
Cfr. Ibidem
61
in cui partecipino a specifiche operazioni di salvataggio ed anche
rappresentanti di istituzioni internazionali come il FMI.
Le numerose competenze del Consiglio dei governatori sono
elencate, a seconda che debbano essere adottate di comune accordo o a
maggioranza qualificata, rispettivamente dagli artt. 6 e 7 del Trattato80.
80
Più precisamente, ai sensi dell’art. 6 il Consiglio dei governatori adotta decisioni di
comune accordo in merito a quanto segue: a) la cancellazione del fondo per la
riserva di emergenza e il reintegro del suo contenuto al fondo di riserva e/o al
capitale versato, a norma dell’art. 4, par. 4; b) l’emissione di nuove quote a
condizioni diverse da quelle emesse alla pari ai sensi dell’art. 8, par. 2; c) la richiesta
di capitale ai sensi dell’art. 9, par. 1; d) le modifiche dello stock del capitale versato al
fine di adeguare il volume della capacità massima di finanziamento del MES ai sensi
dell’art. 10, par. 1; e) la valutazione dell’opportunità di possibili incrementi del
modello di sottoscrizione del capitale della BCE ai sensi dell’art. 11, par. 3, e le
modifiche da apportare all’allegato I ai sensi dell’art. 11, par. 6; f) la concessione del
sostegno alla stabilità da parte del MES, incluse la politica economica, le condizioni
enunciate nel protocollo d’intesa di cui all’art. 13, par. 3, e la definizione della scelta
degli strumenti nonché delle modalità finanziarie e delle condizioni, ai sensi degli
artt. da 12 a 18; g) il mandato alla Commissione europea per negoziare, di concerto
con la BCE, le condizioni di politica economica cui è subordinata ogni operazione
di assistenza finanziaria, ai sensi dell’art. 13, par. 3; h) la modifica della politica e
delle linee direttrici per la fissazione dei tassi di interesse dovuti per l’assistenza
finanziaria ai sensi dell’art. 20; i) la modifica dell’elenco degli strumenti di assistenza
finanziaria utilizzabili da parte del MES ai sensi dell’art. 19; j) la determinazione delle
modalità per il trasferimento dei sostegni concessi dal FESF al MES ai sensi dell’art.
40; k) l’approvazione delle domande di adesione al MES presentate da nuovi
membri ai sensi dell’art. 44; l) gli adeguamenti del presente Trattato quale
conseguenza derivante dall’adesione di nuovi membri, comprese le modifiche alla
ripartizione del capitale tra i membri del MES ed il calcolo di detta ripartizione quale
conseguenza derivante dall’adesione di un nuovo membro al MES, ai sensi dell’art.
44; m) la delega al consiglio di amministrazione di compiti elencati nel presente
articolo.
Ai sensi dell’art. 7 del Trattato il Consiglio dei governatori adotta a maggioranza
qualificata le decisioni che seguono: a) fissa le modalità tecniche dettagliate per
l’adesione di un nuovo membro al MES ai sensi dell’art. 44; b) decide di essere
presieduto dal presidente dell’Eurogruppo o elegge, a maggioranza qualificata, il
presidente e il vicepresidente del consiglio dei governatori ai sensi del par. 2; c)
redige lo statuto del MES e il regolamento interno del consiglio dei governatori e
del consiglio di amministrazione (ivi incluso il diritto di istituire comitati e organi
ausiliari) ai sensi del par. 9; d) compila l’elenco delle attività incompatibili con le
funzioni di amministratore o amministratore supplente ai sensi dell’art. 6, par. 8; e)
nomina il direttore generale e fissa la data di cessazione del suo mandato ai sensi
dell’art. 7; f) determina altri fondi ai sensi dell’art. 24; g) assume decisioni sulle azioni
da adottarsi per recuperare l’importo dovuto da un membro del MES ai sensi
62
Il Consiglio di amministrazione, invece, è composto da un
amministratore (e da un amministratore supplente) nominati da ciascun
governatore tra persone dotate di elevata competenza in campo
economico e finanziario; inoltre, il membro della Commissione europea
responsabile degli affari economici e monetari ed il Presidente della
BCE possono nominare ciascuno un osservatore.
Al Consiglio di amministrazione spetta il compito di assicurare che
l’attività del M.E.S. sia gestita conformemente ai vincoli previsti dal
Trattato e dallo Statuto del M.E.S. stesso, ad esso delegati dal Consiglio
dei governatori; il Consiglio di amministrazione, inoltre, adotta le
decisioni disposte dal medesimo Trattato o ad esso delegate dal
Consiglio dei governatori. Si tratta, dunque, dell’organo al quale sono
affidate le questioni più tecniche e il suo ruolo dipenderà dal novero di
funzioni che il Consiglio dei governatori deciderà di delegare nella
gestione dell’attività del MES81.
Ai sensi dell’art. 4 del Trattato le decisioni del Consiglio dei
governatori e del Consiglio di amministrazione vengono adottate di
comune accordo, a maggioranza qualificata – costituita dall’80% dei voti
espressi – o a maggioranza semplice; per tutte le decisioni, inoltre, è
necessaria la presenza di un quorum di due terzi dei membri aventi
diritto di voto che rappresentino almeno i due terzi dei diritti di
voto. L’adozione di una decisione di comune accordo richiede
dell’art. 25, par. 2 e 3; h) approva il rendiconto annuale del MES ai sensi dell’art. 27,
par. 1; i) nomina i membri del collegio dei revisori ai sensi dell’art. 30, par. 1; j)
approva la nomina dei revisori esterni ai sensi dell’art. 29; k) revoca l’immunità del
presidente del consiglio dei governatori, di un governatore, di un governatore
supplente, di un amministratore, di un amministratore supplente o del direttore
generale ai sensi dell’art. 35, par. 2; l) stabilisce il regime fiscale applicabile al
personale del MES ai sensi dell’art. 36, par. 5; m) decide su eventuali controversie ai
sensi dell’art. 37, par. 2; n) qualsiasi altra decisione necessaria non espressamente
contemplata dal presente trattato.
81
Cfr. P. BILANCIA, op. cit.
63
l’unanimità dei membri partecipanti alla votazione; le astensioni non
ostano all’adozione di una decisione di comune accordo82.
Infine, l’ultimo organo strutturale del M.E.S. è costituito dal
Direttore generale; questo è nominato dal Consiglio dei governatori con
un mandato di cinque anni, rinnovabile soltanto una volta. Al Direttore
generale spetta la gestione degli affari correnti, sotto la direzione del
Consiglio di amministrazione, del quale è chiamato a presiedere le
riunioni.
Già da una prima analisi dell’organizzazione del Meccanismo
europeo di stabilità, nonché delle modalità di adozione delle decisioni di
sua competenza, emerge la nota e costante criticità di fondo che ha
caratterizzato e continua ad accompagnare questa fase di reazione alla
grave crisi economica da parte dei Paesi dell’U.E., e cioè il cosiddetto
metodo intergovernativo.
In particolare, la principale nota negativa di questo metodo è
certamente la sussistenza di un possibile potere di veto da parte di ogni
singolo Stato membro nell’adozione delle decisioni di maggiore
importanze che richiedono l’unanimità negli ambiti di maggiore
rilevanza del Trattato83. Tuttavia, deve essere evidenziato che proprio al
fine di evitare “ingessature” durante la fase deliberativa è stata prevista
una possibile via di fuga; nelle situazioni di emergenza per la stabilità
finanziaria dell’eurozona – invero individuate dalla Commissione
europea e dalla Banca centrale europea – è possibile adottare una
82
Il Trattato prevede anche una procedura di votazione d’urgenza nei casi in cui la
Commissione e la BCE concludono che la mancata adozione di una decisione
urgente circa la concessione o l’attuazione di un’assistenza finanziaria di cui agli
articoli da 13 a 18 minaccerebbe la sostenibilità economica e finanziaria della zona
euro.
83
Si ricordi che ai sensi dell’art. 4, par. 3, del Trattato, le astensioni non ostano
all’adozione di una decisione di comune accordo.
64
procedura che deroghi al principio dell’unanimità attraverso il ricorso
alla maggioranza qualificata84.
In ogni caso, tenendo in considerazione che nella fase deliberativa
non si utilizza il metodo di un voto per testa, bensì il criterio del voto
ponderato – in relazione al contributo che ciascuno Stato versa al
Meccanismo di stabilità85 – appare evidente che tale sistema garantisce,
in ogni caso, un potere di veto a Germania e Francia; pertanto, anche
nelle ipotesi di votazione a maggioranza qualificata viene comunque
assicurata una leadership franco-tedesca86.
Ulteriore elemento negativo nel M.E.S. – oltre al già ricordato
carattere intergovernativo che attribuisce un ruolo di fondamentale
importanza nell’adozione degli atti di maggiore importanza ai governi
degli Stati membri che operano attraverso il Consiglio dei governatori –
è rinvenibile nella eccessiva complessità delle procedure e della governance
del M.E.S. in contrasto con la necessità di affrontare con tempestività le
situazioni di crisi dei debiti pubblici nazionali; ed invero, gli Stati
firmatari hanno optato per un processo decisionale che assicura un
controllo primario da parte del Consiglio dei governatori e che
attribuisce alle Istituzioni europee – Commissione europea e B.C.E. –
un ruolo fondamentale nell’elaborazione del programma di risanamento
che lo Stato a rischio default e richiedente gli aiuti deve presentare per
ricevere il sostegno finanziario, nonché nel monitoraggio sul rispetto del
programma.
84
In questa ipotesi però la decisione potrà essere adottata raggiungendo la soglia
dell’85% dei voti espressi e non dell’80%, come invece è stabilito per le decisioni
che possono essere adottate in via “ordinaria” a maggioranza qualificata .
85
Esattamente, per quanto riguarda le percentuali, alla Germania spetta il 27,14 per
cento, alla Francia il 20,38 per cento e all’Italia il 17,91 per cento.
86
Cfr. BILANCIA P., op. cit.
65
Nonostante le predette criticità, il Trattato che ha istituito il
Meccanismo europeo di stabilità – rappresentando uno strumento in
grado di assicurare il salvataggio dei Paesi in crisi – costituisce un
notevole passo in avanti sia nella ricerca di una stabilità economica
all’interno dell’Eurozona, sia nella governance economica dell’U.E.
Inoltre, secondo autorevole dottrina, il M.E.S. potrebbe
rappresentare una prima tappa nella creazione di un Tesoro europeo
dotato di una finanza ed in grado di coordinare le politiche economiche
degli Stati membri87.
4.1 (Segue): i rapporti tra il M.E.S. ed il Fiscal Compact.
Come già detto, con il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e
sulla governance nell’Unione economica e monetaria (T.S.C.G.), le parti
contraenti, in qualità di Stati membri dell’Unione europea, hanno
convenuto di rafforzare il pilastro economico dell’U.E.M. – al fine di
fronteggiare la crisi economica – adottando una serie di regole intese a
rinsaldare la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, a
potenziare il coordinamento delle loro politiche economiche e a
87
In tal senso MAJOCCHI A., Verso una finanza federale europea, in www.csfederalismo.it;
più precisamente, secondo l’autore, ai fini della creazione di una finanza federale
europea sarebbe opportuno procedere alla creazione di un Istituto fiscale europeo,
capace di provvedere al salvataggio dei Paesi che rischiano di essere travolti dalla
crisi del debito sovrano. Il passo successivo, invece, dovrebbe concretizzarsi
nell’emissione di eurobond, al fine di fornire mezzi finanziari per sostenere il piano
di rilancio dell’economia all’interno dell’Eurozona. L’ultimo passo, infine, sarebbe
costituito da un bilancio europeo, finanziato con risorse proprie dell’U.E., e gestito
da un Tesoro europeo di natura federale.
66
migliorare la governance della zona euro, sostenendo in tal modo il
conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea in materia di crescita
sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale (art. 1 del
Trattato).
Questo nuovo Patto europeo di bilancio, dunque, per il contenuto
delle sue disposizioni e per il ruolo primario che ha assunto all’interno
dell’Eurozona, presenta una stretta correlazione con il Trattato che ha
istituito il Meccanismo europeo di stabilità.
A dimostrazione di quanto detto basti evidenziare che nel
Preambolo del T.S.C.G. si afferma “l’importanza del trattato che
istituisce il meccanismo europeo di stabilità in quanto elemento della
strategia globale per rafforzare l’unione economica e monetaria” e si
osserva “che la concessione dell’assistenza finanziaria nell’ambito di
nuovi programmi a titolo del meccanismo europeo di stabilità sarà
subordinata, a decorrere dal 1° marzo 2013, alla ratifica del presente
trattato dalla parte contraente interessata e, previa scadenza del periodo
di recepimento di cui all’articolo 3, paragrafo 2 [per la trasposizione
della regola del bilancio in pareggio nelle legislazioni nazionali (c.d.
regola d’oro o golden rule), ndr.], del presente trattato, al rispetto dei
requisiti di tale articolo”.
Si tratta di un condizionamento, fortemente voluto dalla
Germania, per permettere l’assistenza finanziaria del M.E.S. solo agli
Stati che abbiano adottato regole stringenti in materia di disciplina di
bilancio.
Ed invero, durante il negoziato svolto nelle fasi preparatorie del
T.S.C.G., alcune delegazioni avevano manifestato una certa perplessità
nei confronti di un meccanismo di doppia entrata in vigore della
condizionalità, preferendo invece un’unica data per entrambi gli aspetti;
67
tuttavia, il testo finale non ha raccolto queste proposte, mantenendo
dunque integro il meccanismo della doppia condizionalità, riaffermato
altresì nel considerando n. 5 del Trattato sul Meccanismo europeo di
stabilità, sottoscritto a Bruxelles il 2 febbraio 2012 dai 17 Stati membri
della zona euro.
Quest’ultimo, infatti, stabilisce che: “Il 9 dicembre 2011 i capi di
Stato o di governo degli Stati Membri la cui moneta è l’euro hanno
deciso di procedere verso un’unione economica più forte, compresi un
nuovo patto di bilancio e un rafforzamento del coordinamento delle
politiche economiche da attuare attraverso un accordo internazionale, il
trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione
economica e monetaria (“TSCG”). Il TSCG aiuterà a sviluppare un
coordinamento più stretto all’interno della zona euro al fine di garantire
una duratura, sana e robusta gestione delle finanze pubbliche
affrontando quindi una delle principali fonti di instabilità finanziaria. Il
presente trattato e il TSCG sono complementari nel promuovere la
responsabilità e la solidarietà di bilancio all’interno dell’Unione
economica e monetaria. Viene riconosciuto e accettato che la
concessione dell’assistenza finanziaria nell’ambito dei nuovi programmi
previsti dal MES sarà subordinata, a decorrere dal 1° marzo 2013, alla
ratifica del TSCG da parte del membro MES interessato e, previa
scadenza del periodo di recepimento di cui all’articolo 3, paragrafo 2,
del TSCG, al rispetto dei requisiti di cui al suddetto articolo.”
Pertanto, appare evidente che solo gli Stati che hanno deciso di
ratificare il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance
dell’Unione economica e monetaria avranno la possibilità di usufruire
degli strumenti di sostegno previsti dal nuovo meccanismo europeo di
stabilità.
68
Altro punto in comune tra i due Trattati si rinviene
nell’attribuzione di determinate competenze alle Istituzioni europee
nonostante si tratti di accordi internazionali che si muovono al di fuori
del diritto dell’U.E.; anche il Fiscal Compact, infatti, stabilisce un loro
intervento attivo al fine di assicurare il rispetto della regola del pareggio
di bilancio.
Tuttavia, deve essere evidenziato che, a differenza di quanto
previsto dal Meccanismo europeo di stabilità, il T.S.C.G. – imponendo
agli stati aderenti l’introduzione del principio del pareggio di bilancio
con norme di rango costituzionale – ha di fatto affidato agli stessi Stati
firmatari la verifica del rispetto dello stesso principio; più precisamente,
saranno le diverse Corti costituzionali nazionali a controllare che non
venga violata la norma costituzionale.
Ciò comporta notevoli difficoltà sia nel momento in cui si chiede
l’intervento della Corte al fine di valutare una presunta violazione del
parametro, sia nel momento della valutazione vera e proprio, posto che
verrebbe richiesta alla corta una valutazione di merito che esula dalle
competenze e dalle cognizioni proprie della Corte stessa88.
88
Sul punto cfr. SCACCIA G., La giustiziabilità delle regole sul pareggio di bilancio, in Rivista
dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, 2012, fasc. III, in www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.;
Si veda anche PACE A., Il pareggio di bilancio, in Rivista dell’Associazione italiana dei
ostituzionalisti, 2011, fasc. III, in www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.; BOGNETTI G., Il pareggio di
bilancio nella Carta Costituzionale, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti,
2011, fasc. III, su www.rivistaaic.it, pp. 1 ss.
69
5. Il deficit di democrazia nei processi di intervento dell’U.U.
nella disciplina della governance economica: la logica
intergovernativa.
Come evidenziato più volte evidenziato, la maggior parte dei
provvedimenti adottati nell’Eurozona – per far fronte alla crisi
economica che dal 2008 ha colpito gran parte degli Stati occidentali –
continua a soffrire di quella grave criticità di fondo costituita dal
cosiddetto deficit democratico conseguente alla logica intergovernativa.
Ed invero, il sistema della governance – non solo economica –
dell’U.E. appare da sempre non coerente con quei principi di legittimità
democratica che sono invece tipici degli Stati membri.
A dimostrazione di tale assunto è sufficiente ricordare che la
Commissione europea – contrariamente al fondamenta principio della
separazione dei poteri – svolge contemporaneamente attività e poteri di
tipo legislativo, esecutivo e giudiziario89.
Questa particolare strutturazione della governance europea, con
specifico riferimento alle competenze della Commissione europea,
sembrerebbe trovare giustificazione sia nella necessità di tenere conto
delle legislazioni nazionali e degli interessi degli Stati membri prima di
proporre un progetto di legge europea, sia perché risulta indispensabile
assicurare anche gli interessi di quegli Stati meno popolati che
difficilmente riuscirebbero a farsi sentire all’interno del Parlamento
europeo.
89
Più precisamente, la Commissione europea ha un ruolo fondamentale nell’attività
legislativa avendo il diritto (quasi esclusivo) di iniziativa legislativa, partecipa al
potere esecutivo con le migliaia di decisioni esecutive all’anno e, infine, partecipa
anche al potere giudiziario soprattutto in materia di aiuti di Stato e concorrenza.
70
Principalmente per questi ma anche per altre ragioni, dal giorno
della sua fondazione l’U.E. è stata accusata di soffrire del cosiddetto
deficit democratico, non rispettando i principi fondamentali del
costituzionalismo come la separazione dei poteri, i principi del governo
limitato, della dichiarazione dei diritti e dei cosiddetti “pesi e
contrappesi”.
In particolare, sono diversi gli autori che hanno manifestato tale
criticità di fondo; tra questi, Stefano Bartolini sostiene che i termini di
“Costituzione” e di “legittimità” democratica non possono essere
utilizzati con riferimento al diritto dell’U.E. posto che nei Trattati su cui
la stessa si basa i principi del costituzionalismo moderno sono
scarsissimi se non addirittura assenti90.
Ma tra la vasta letteratura che si è occupata di questa tematica
appare opportuno segnalare quanto affermato da Moravcsik e Renaud
Dehosse, due analisti della governance europea; secondo gli autori è
necessario chiedersi se una nuova democrazia sovranazionale europea
debba fondarsi necessariamente sui medesimi principi costituzionali che
hanno ispirato le democrazie parlamentari nazionali.
A tale quesito ha provato a dare risposta – tuttavia senza buon
esito – una tra le più scrupolose Corti costituzionali nella difesa dei
principi democratici, esattamente quella tedesca, nella ormai nota
sentenza del 30 giugno 2009; la Consulta se da una parte ha
riconosciuto che la democrazia sovranazionale europea non può
fondarsi necessariamente sugli stessi principi della democrazia
nazionale, dall’altro lato ha contraddetto questa affermazione quando ha
90
Cfr. Bartolini S., “Taking Constitutionalism and Legitimacy seiously”, articolo
pubblicato nel libro EU Federalism and Constitunalism edito da Andrew Glencross
and Alexander Trechsel, Lexington Books, 2010, pagg. 11-34. In tal senso si
esprime anche un altro analista della “democrazia europea”, SCHMITTER P. C., Come
democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, 2010.
71
affermato che il Parlamento europeo non rispetta nella sua
composizione il principio “one man, one vote” proprio degli Stati
nazionali91.
Proprio al fine di diminuire il detto deficit democratico, vanno
certamente evidenziate le importanti novità introdotte con il Trattato di
Lisbona in merito al funzionamento della governance europea. Tra queste
è opportuno ricordare l’aumento dei poteri legislativi e di bilancio del
Parlamento europeo, lo stretto legame che intercorre tra la scelta del
Presidente della Commissione europea ed i risultati delle elezioni
europee, il maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, la
soppressione dell’anomalia che consentiva alla Commissione europe di
modificare il contenuto di una legge europea senza l’accordo del
legislatore europeo, nonché, infine, l’importante riconoscimento sia
della democrazia partecipativa con il diritto d’iniziativa legislativa – sia
pure indiretto – da parte di un milione di cittadini europei, sia del
carattere vincolante per i tribunali della Carta dei diritti fondamentali
che stabilisce notevoli limita all’azione legislativa europea92.
In ogni caso, nonostante l’introduzione delle suindicate novità,
permangono ancora quelle che vengono considerate le più importanti
“anomalie” della governance europea.
In primis si deve fare riferimento – nonostante le importanti novità
introdotte dal Trattato di Lisbona e degli accordi interistituzionali
conclusi con la Commissione europea – alla mancanza di una reale
capacità rappresentativa degli interessi dei cittadini europei da parte del
Parlamento europeo.
91
Sul punto di veda la Sentenza Bundesverfassungsgericht - BVerfG, 2 BvE 2/08
del 30.6.2009 sulla ratifica del Trattato di Lisbona da parte della Germania ed in
particolare i paragrafi n. 227, 285-286.
92
Cfr. PONZANO P., Democrazia e governance europea, in Centro studi sul federalismo n.
07/2012.
72
Più precisamente, tra i principali fattori che determinano tale
problematica si può fare riferimento: alla procedura elettorale europea,
all’assenza di
veri e
propri
partiti politici
europei, nonché
all’impossibilità per il cittadino europeo di influenzare direttamente la
nomina di un governo europeo e la scelta di un programma di
legislatura. Ed invero, il Parlamento europeo appare costretto in questa
complessità di fondo a causa della necessità di continui negoziati e
compromessi che non consentono ai candidati di fare delle precise
promesse elettorali durante le elezioni europee.
In secondo luogo, invece, occorre evidenziare il diritto quasi
esclusivo di iniziativa legislativa da parte della Commissione europea,
con la previsione del solo obbligo complementare di fornire una
motivazione nei casi in cui rifiuti di dare seguito alle richieste di
proposte legislative emananti dal Parlamento europeo o dal Consiglio
europeo dei Ministri; in ogni caso si deve prendere in considerazione
l’importante dato per cui nella pratica la Commissione da seguito
positivo al 95% delle richieste legislative ricevute dagli Stati membri,
dalle altre Istituzioni e dai gruppi di pressione.
In terzo luogo, infine, tra gli elementi “anomali” della governance
europea, si deve menzionare il ruolo sempre più importante esercitato
dal Consiglio europeo che, con il passare degli anni è passato da una
originaria competenza limitata a dare impulsi alle altre Istituzioni
europee e a decidere gli orientamenti politici generali, ad un ruolo
odierno di gestore permanente dell’Unione economica e monetaria93.
Secondo autorevole dottrina, inoltre, “i poteri perduti in sede
nazionale dalle istituzioni rappresentative vengono poi acquistati in sede
93
Cfr. PONZANO P., op. cit. L’autore evidenzia, infatti, come dall’inizio della grave
crisi economica il Consiglio europeo abbia tenuto oltre ventotto riunioni formali ed
informali con una frequenza quasi mensile.
73
comunitaria da istituzioni non rappresentative o da […] efficienti
tecnostrutture”; ed ancora, “se il centro politico del sistema europeo si
individua nell’organo intergovernativo, […] l’integrazione europea
rischia di passare attraverso scelte intergovernative che, per il solo fatto
di essere compiute in sede comunitaria, sono prive di controlli politici e
costituzionali di cui sono sottoposte nell’ordinamento nazionale”94.
Quanto sin qui premesso in relazione al deficit democratico esplica
piena efficacia anche se si prende in considerazione quel settore più
specifico individuabile nella governance economica dell’Eurozona.
Più precisamente, si può osservare come – a causa sia della
mancanza di vere e proprie competenze dell’Unione nel campo delle
singole politiche economiche nazionali, sia della necessità di mettere in
atto meccanismi di assistenza finanziaria nei confronti degli Stati a
rischio default – negli ultimi anni si sia assistito al “più pesante intervento
[dell’Unione europea, ndr.] nelle responsabilità nazionali dotato della
minore legalità”95.
Basti pensare alla decisione del Consiglio europeo dell’8 giugno
2010 con la quale sono state imposte alla Grecia rilevanti limitazioni
economiche che hanno inciso drammaticamente sulla vita dei cittadini
come, ad esempio, la riduzione delle pensioni, dei giorni festivi, del
numero degli impiegati ed altre misure economiche certamente non
rientranti nella competenza dell’U.E.
Ed ancora, ulteriore esempio può trarsi dalla nota lettera della
Banca Centrale europea del 5 agosto 2011 con cui – andando
certamente oltre le proprie competenze – veniva chiesto all’Esecutivo
94
Cfr. SORRENTINO F., Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Giappichelli
Editore, Torino, 1996, pag. 55.
95
Cfr. HABERMAS J., Questa Europa è in crisi, Laterza, 2012.
74
italiano di provvedere quanto prima alla riforma del sistema
pensionistico e del mercato del lavoro.
Secondo autorevole dottrina, dunque, questi interventi provocano
seri dubbi di legittimità nei confronti dell’Unione europea, trattandosi di
“accordi presi senza alcuna trasparenza e privi di forma giuridica” che
“dovrebbero essere imposti agli esautorati parlamenti nazionali con
l’ausilio di minacce di sanzioni o di pressioni varie”96; altri autori, invece,
hanno evidenziato addirittura la probabile violazione del fondamentale
principio democratico “no taxation without representation” con riferimento
sia alle misure previste dal Meccanismo europeo di stabilità, che alle
misure di austerity imposte agli Stati che beneficiano degli aiuti europei97.
Alla luce di quanto premesso, si può quindi affermare che il
problema del deficit democratico – che da sempre ha caratterizzato la
governance europea – appare ancora più grave se si prende in esame il
settore economico dell’Eurozona, posto che l’adozione di procedure di
aggiustamento dei conti pubblici, imposte dalle Istituzioni dell’U.E. nei
confronti degli Stati membri, comportano un danneggiamento
irrimediabile delle condizioni esistenziali della cittadinanza98.
Ed ancora, in merito alla ratifica dei fondamentali Trattati che
hanno introdotto il fiscal compact ed il Fondo salva-Stati, si deve osservare
che gli Stati firmatari – considerata la stretta interdipendenza tra i due
Trattati – si sono trovati in una situazione per cui non ratificando il
nuovo patto di bilancio avrebbero rischiato di non ottenere i
fondamentali aiuti economici.
96
Cfr. HABERMAS J., op. cit. pag. 81.
Questa critica è avanzata anche da Otmar Issing, ex membro tedesco della Banca
Centrale europea.
98
Cfr. Manzella A., Una democrazia porosa salverà l’Europa, la Repubblica, 18 maggio
2012.
97
75
Risulta essere indispensabile, dunque, una riforma sostanziale delle
regole dei Trattati su cui si fonda il diritto dell’U.E., soprattutto al fine
di evitare lo propagazione di una “reazione di rigetto” da parte dei
cittadini europei ormai esausti della descritta mancanza di democrazia e
trasparenza; le possibili soluzioni proposte dalla dottrina possono essere
sintetizzate in due principali progetti99.
Sulla base del primo progetto di riforma sarebbe opportuno
procedere con la creazione progressiva di una vera e propria Unione
politica europea composta da tutti gli Stati dell’Eurozona, possibilmente
mediante la modifica del Trattato di Lisbona; inoltre, secondo una
corrente di opinione sempre più vasta, al fine di evitare il ricorso al
metodo intergovernativo nell’elaborazione del nuovo Trattato, sarebbe
preferibile che la predetta Unione politica europea venisse varata
attraverso i lavori di un’Assemblea costituente eletta per l’occasione dai
cittadini europei secondo criteri di rappresentanza proporzionale.
Diversamente, il secondo progetto di riforma opterebbe per
un’introduzione di nuovi meccanismi di legittimità democratica senza la
modifica dei Trattati ma con la creazione di un’Unione fiscale che faccia
perno su un Tesoro europeo soggetto al controllo democratico del
Parlamento e che agisca ne quadro in un governo rappresentativo della
volontà popolare, conformemente al principio “No taxation without
representation”100; solo attraverso queste modifiche sarà poi possibile
passare al passo successivo identificabile nella formazione di una
Federazione europea.
99
Cfr. PONZANO P., op. cit.
Cfr. MAJOCCHI A., Dal Fiscal Compact all’Unione fiscale, in G. BONVICINI e F.
BRUGNOLI (a cura di), Il Fiscal Compact, in Quaderni IAI n. 5, settembre 2012, pagg.
45-52
100
76
Infine, per completezza nella trattazione della presente tematica,
appare
opportuno
evidenziare
che
–
al
fine
di
rafforzare
immediatamente la democraticità della governance europea senza
modificare i Trattati, altri autori hanno proposto di adottare tre misure:
a) una procedura elettorale uniforme per le elezioni del Parlamento
europeo in grado di permette lo scambio di candidature e la
presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte di grandi
partiti europei; b) l’impegno da parte degli esecutivi – attraverso una
dichiarazione pre-elettorale – a nominare anche come Presidente del
Consiglio europeo, il Presidente della Commissione europea eletto dalla
Maggioranza del Parlamento europeo; c) una maggiore collaborazione
tra i Parlamenti nazionali ed il Parlamento europeo attraverso l’utilizzo
frequente di “conferenze” e “convenzioni” euro nazionali sulle
questioni di maggiore rilevanza per l’Unione europea in modo da
consentire una rivalutazione del loro ruolo nei riguardi degli elettori e
consentendo un rafforzamento del controllo democratico sulle decisioni
europee101.
6. La natura giuridica dei recenti accordi europei con
particolare riferimento al Fiscal Compact.
Alla luce di quanto sin qui premesso, appare evidente che le nuove
misure relative alla stabilità, al coordinamento ed alla governance
nell’Unione economica e monetaria si collocano al di fuori del sistema
del TUE e del TFUE, posto che sono state adottate mediante un
101
Si esprime in tal senso MANZELLA A., La nuova idea di Unione politica europea, in La
Repubblica, 1 agosto 2012.
77
Trattato intergovernativo predisposto da un gruppo di lavoro (forum)
costituito da rappresentanti dei Paesi membri (non di rango
ministeriale), della Commissione europea, di un osservatore del Regno
Unito e di tre rappresentanti del Parlamento europeo102.
Più precisamente, dopo la costituzione di detto forum, i lavori sono
proseguiti secondo la seguente cadenza: il 15 dicembre 2011 è stata
presentata una prima bozza di “trattato internazionale per un’unione
economica rafforzata”, predisposta dal Servizio giuridico del Consiglio
su incarico del Presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy; il 19
dicembre 2011 il testo è stato sottoposto ad una prima analisi da parte
del gruppo di lavoro che ha fissato al 29 dicembre il termine per la
presentazione di eventuali proposte di modifica da parte dei
partecipanti; entro tale termine, hanno presentato proposte di modifica
il Governo italiano, il Parlamento europeo, la Commissione europea, la
B.C.E. ed alcuni Stati membri, tra cui Francia e Germania; il forum ha
dunque analizzato le proposte di modifica nella riunione del 6 gennaio
2012, unitamente ad una seconda versione del progetto predisposta dal
Servizio giuridico del Consiglio, al fine di recepire alcune proposte
emendative; una ulteriore versione modificata è stata presentata il 10
gennaio, in vista di una riunione del gruppo di lavoro svoltasi il 12
gennaio 2012; il 19 gennaio, in seguito alla precedente riunione, è stato
predisposta un’ulteriore bozza, con la quale il gruppo di lavoro ha
terminato la propria attività; il testo predisposto dal forum è stato
esaminato dall’Eurogruppo il 23 gennaio e dal Consiglio ECOFIN del
24 gennaio 2012, e giudicato come una “buona base per la discussione”
per il Consiglio europeo nella riunione straordinaria del 30 gennaio;
102
On. Elmar Brok, Germania, Partito Popolare Europeo; Roberto Gualtieri, Italia,
Socialisti&Democratici; Guy Verhofstadt, Belgio, Liberaldemocratici; Daniel CohnBendit, Germania, Verdi, in qualità di membro sostituto.
78
infine, dopo ulteriori negoziati, è stata presentata una nuova versione
alla riunione del Consiglio Affari generali del 27 gennaio, approvata
definitivamente, con alcune modifiche, dai Capi di Stato e di Governo il
30 gennaio e poi firmato il 2 marzo scorso.
Deve essere evidenziato, tuttavia, che questa modalità di accordo
ha sin da subito suscitato immediate critiche, manifestate in particolare
dai tre rappresentanti del Parlamento europeo nella seduta del 21
dicembre 2011, basate sull’assunto che – diversamente da quanto
ritualmente accade nelle procedure di modifica dei Trattati europei –
negli
accordi
intergovernativi
non
viene
sufficientemente
ed
adeguatamente garantita la partecipazione del Parlamento europeo103.
Si deve ritenere che la scelta di adottare tali misure economiche
attraverso un Trattato intergovernativo sia stata (quasi) obbligata, sia
perché si registrava l’assenza del requisito dell’unanimità – necessario
per la modifica dei Trattati già vigenti – sia perché le misure per il
coordinamento di bilancio e delle politiche economiche devono essere
adottate con norme di rango primario; tutto ciò, nonostante che il
rapporto del Presidente Van Rompuy (in attuazione del mandato del
Consiglio europeo del 26 ottobre 2011) prevedesse l’adozione di tali
misure mediante la modifica del Trattato sul funzionamento dell’Unione
nonché del Protocollo n. 12 allegato al TFUE, relativo alla procedura
sui disavanzi eccessivi (da adottare mediante una decisione unanime del
Consiglio dell’UE, su proposta della Commissione e previa
consultazione del Parlamento europeo, senza necessità di ratifica da
parte dei Paesi membri).
103
Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2012, approvata con 521 voti
a favore e 124 contrari, con la quale si chiedeva l’introduzione nel Trattato, di «una
traccia che indichi la futura adozione di obbligazioni europee» posto che «la
disciplina di bilancio, nonostante sia la base per una crescita durevole, non può da
sola provocare una ripresa economica».
79
Si può inoltre ragionevolmente affermare che le predette
osservazioni – presentate dai rappresentanti del Parlamento europeo –
abbiano indotto delle successive e rilevanti modifiche volte, da un lato,
a rimandare l’attuazione del coordinamento e della governance alla
legislazione secondaria – garantendo così la partecipazione del
Parlamento nei modi e tempi previsti – e, dall’altro, a dichiarare l’intento
di compiere, ai sensi dell’art. 16 del Trattato, entro cinque anni
dall’entrata in vigore (i.e. gennaio 2013) i passaggi necessari per il
recepimento dei contenuti del Trattato nel quadro normativo europeo;
nonostante tali modifiche, tuttavia, permangono le perplessità
relativamente all’armonizzazione delle disposizioni del Trattato in
oggetto con le disposizioni del Trattato di Lisbona e dell’architettura
finanziaria delineata dagli ultimi interventi normativi104.
Pertanto – preso atto della impossibilità di raggiungere, in seno al
Consiglio europeo, un accordo tra tutti i 27 Stati membri sulle
modifiche da apportate ai trattati vigenti, in ragione dell’opposizione
paralizzante del Regno Unito, nonché della rinnovata esigenza di elevare
a livello primario disposizioni in materia di bilancio e di coordinamento
delle politiche economiche – il nuovo Trattato internazionale è stato
negoziato e stipulato al di fuori del quadro istituzionale dell’Unione
europea e delle procedure previste per la modifica dei Trattati, con
particolare riferimento all’art. 136 T.F.U.E.
Quest’ultimo, infatti, afferma che per contribuire al buon
funzionamento dell’Unione economica e monetaria e in conformità
delle pertinenti disposizioni dei Trattati, il Consiglio adotta – secondo la
procedura pertinente, tra quelle di cui agli artt. 121 (relativo al
coordinamento delle politiche economiche) e 126 (relativo ai disavanzi
104
Ibidem.
80
eccessivi) con l’eccezione della procedura di cui all’art. 126, par. 14 –
misure concernenti gli Stati membri, al fine di rafforzare il
coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio ed elaborare
gli orientamenti di politica economica, vigilando affinché siano
compatibili con quelli adottati per l’insieme dell’Unione e garantendone
la sorveglianza.
La principale problematica legata all’adozione di un Trattato
intergovernativo per le sopracitate misure economiche consiste nella
creazione di differenti regimi giuridici tra Stati aderenti e non: in specie
viene a configurarsi una situazione per cui le disposizioni contenute nel
c.d. “Six Pack” – rientrando nell’ordinamento europeo – sono
applicabili a tutti gli Stati dell’Unione, mentre le disposizioni del
Trattato in commento si applicherebbero soltanto ai 25 Paesi
aderenti105.
Proprio con la finalità di limitare quanto più possibile la distanza
tra l’aspetto intergovernativo del suddetto Trattato ed il diritto dell’U.E.,
l’art. 2 dispone che le parti contraenti «applicano e interpretano il
presente trattato conformemente ai trattati su cui si fonda l’Unione
europea, in particolare all’art. 4, paragrafo 3, del trattato sull’Unione
europea, e al diritto dell’Unione europea, compreso il diritto
procedurale ogniqualvolta sia richiesta l’adozione di atti di diritto
derivato»; ed ancora, il secondo paragrafo prosegue precisando che esso
«si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati cu cui si fonda
l’Unione europea in materia di unione economica». La medesima finalità
può riscontrarsi anche nell’art. 16, secondo il quale «al più tardi entro
cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla
base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione,
105
Cfr. NUGNES F., op. cit.
81
sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del
trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per
incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico
dell’Unione europea».
Nonostante le citate disposizioni, permango però le perplessità
riguardo alla portata meramente dichiarativa delle stesse, soprattutto
considerando il contesto normativo delineato dall’art. 126 del TFUE e
dal precedente “Six Pack”; rispetto ad esso, infatti, l’art. 2 non fornisce
– né potrebbe fornire – ulteriori strumenti o procedure di
rafforzamento106. Ed invero, autorevole dottrina ha osservato che si
tratta di disposizioni che «would not have the effect to induce the Member States
parties to the Agreement to omit applying its provisions once it has come into effect:
the Euro Summit would meet, the acts of the Commission under Article 126
TFEU and the Regulations of the Six-Pack would get the agreed support or even be
applied as binding law»107.
Alla luce di quanto premesso – e cioè considerando la natura
intergovernativa del recente Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e
sulla governance nell’Unione economica e monetaria e trovandoci,
dunque, di fronte ad una fonte del diritto estranea all’ordinamento
dell’Unione – si comprende meglio il ruolo che nelle procedure di
attuazione del “Fiscal Compact” è attribuito sia alla Commissione, sia
alla Corte di giustizia: tale Trattato, infatti, non può certamente
modificare poteri e competenze delle istituzioni europee disciplinati dal
Trattato sul funzionamento dell’U.E. e dal Trattato sull’U.E., pena la
violazione del divieto di aggiramento degli stessi. Più precisamente,
sarebbe questo il motivo per cui si è deciso di non attribuire
106
Ibidem.
Cfr. PERNICE I., International agreement on a rein-forced economic union legal opinion, 9
gennaio 2012, www.whi.eu.
107
82
direttamente alla Commissione il potere di trascinare in giudizio gli Stati
membri accusati di aver violato i suddetti parametri economici, ma ci si
è affidati alla regola che per cui saranno i singoli Stati membri a
denunciarsi vicendevolmente; permangono dubbi peraltro riguardo a
quale organo dovrà imporre il rispetto delle sanzioni eventualmente
irrogate dalla Corte di giustizia.
Le problematiche legate alla natura ibrida del Trattato sulla
stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e
monetaria – determinate dalla sua estraneità al diritto dell’Unione
europea – produrranno quasi certamente seri problemi applicativi:
l’unico antidoto sembrerebbe, pertanto, quello di provvedere nel più
breve tempo possibile ad adottare, in conformità del Trattato sull’U.E. e
del Trattato sul funzionamento dell’U.E., tutte le misure necessarie per
incorporare il suo contenuto nell’ordinamento giuridico dell’U.E.
83
CAPITOLO III
La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio
1. Brevi cenni in merito all’interpretazione dell’art. 81 Cost.
pre-riforma: il “parametro fantasma” di cui al quarto
comma.
Da quanto è stato sin qui detto appare chiaro come – già in seguito
all’accordo Euro Plus, in connessione con le altre fonti comunitarie –
sia stato previsto, in materia di bilancio nazionale, una sorta di
fondamento giuridico di natura pattizia o, quantomeno, un sostanziale
impulso sicché gli Stati firmatari procedessero alla modifica del diritto
nazionale in conformità alle nuove disposizioni sulla governance europea.
Ed ancora più esplicito in tal senso è stato il testo del Trattato sulla
stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e
monetaria che ha previsto che «le regole enunciate nel paragrafo 1
producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi
un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni
vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui
rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo il processo
nazionale di bilancio [corsivi aggiunti, ndr.]» (art. 3, par. 2).
Tralasciando in questa sede le riforme costituzionali e le modifiche
al diritto interno in materia di bilancio, adottate da alcuni degli Stati
membri dell’U.E. – asseritamente conseguenti alla stipula dei
84
menzionati accordi108 – si ritiene di analizzare brevemente, invece, la
disciplina italiana in materia di bilancio, con particolare attenzione alla
recente legge costituzionale sul pareggio di bilancio.
È nell’art. 81 Cost. che possono essere individuate le specifiche
disposizioni in materia di spesa pubblica e bilancio: più precisamente il
citato articolo – prima della recentissima riforma – disponeva che «con
la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi
tributi e nuove spese» (co. 3) e che «ogni altra legge che importi nuove o
maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte» (co. 4).
Quest’ultima
diposizione,
fin
dall’entrata
in
vigore
della
Costituzione – sia per il numero, sia per la difficoltà dei problemi
sollevati – aveva attirato l’attenzione di tanti studiosi del diritto, nonché
operatori politici e parlamentari: si pensi che – in seguito alle numerose
discussioni registrate durante le prime due Legislature – nel 1959 i
Presidenti delle due Camere incaricarono un apposito Comitato
interparlamentare di studiare nuovamente le questioni relative
all’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 81, allo scopo di giungere
ad una «chiarificazione definitiva». E tuttavia neanche tale iniziativa
ebbe buon esito sicché, alla vigilia dell’ultima seduta del Comitato, era
riportata una notizia di agenzia secondo la quale «le divergenze di
opinioni emerse durante i lavori del Comitato si sono rivelate di tale
entità da rendere difficile giungere a conclusioni cui possa aderire la
maggior parte dei componenti del Comitato»109.
108
In ciascuno Stato membro questo tipo di normativa ha assunto a livello interno
una specifica denominazione come, ad esempio, Schuldenbremse in tedesco, techo de
gasto in spagnolo, règle d'or budgétaire in francese, balanced budget amendment oppure debt
brake in inglese.
109
Notizia riportata in una nota intitolata Il Comitato di studio per l’art. 81, pubblicata
in Il Globo del 6 ottobre 1969, pag. 5.
85
Sul punto appare opportuno rammentare le risalenti – eppure
attuali – considerazioni sviluppate da Valerio Onida: «sul terreno […]
delle considerazioni più strettamente giuridiche, non sembra si possano
rinvenire, nel nostro ordinamento, elementi normativi tali da giustificare
l’affermazione secondo cui Governo e Parlamento sarebbero
giuridicamente vincolati a non deviare dal criterio del pareggio di bilancio»110. Tale
tesi trovava fondamento nella considerazione per cui – ove la
Costituzione avesse voluto imporre un simile obbligo di pareggio – lo
avrebbe disposto espressamente111; e dunque, secondo l’Autore, «tutto il
sistema del nostro bilancio – che la Costituzione ha in sostanza recepito
dall’ordinamento preesistente – prescinde da un ipotetico vincolo
giuridico al pareggio, che è sempre stato considerato un fatto di natura
politica, il quale investe la responsabilità essenzialmente politica dei
massimi organi che intervengono nell’elaborazione e approvazione del
bilancio, Governo e Parlamento»112.
Negando pertanto la sussistenza di un vero e proprio obbligo di
mantenere in pareggio il bilancio, piuttosto si sarebbe potuto ritenere
che il medesimo costituisse «principio ispiratore e scopo della norma di
cui all’art. 81, 4° comma» con il fine di garantire una tendenza al
pareggio, nel senso che «il legislatore costituente abbia voluto affermare
l’obbligo di Governi e Parlamenti di fare ogni sforzo verso il pareggio»113.
110
Cfr. ONIDA V., Le leggi di spesa nella Costituzione, Milano, 1969, p. 437 e ss. (corsivo
aggiunto).
111
Cfr. BUSCEMA S., Copertura e costituzionalità delle leggi che comportano nuove o maggiori
spese, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1955. Anche DUS R.,
L’interpretazione dell’art. 81 della Costituzione, in Rassegna parlamentare, 1959; quest’ultimo
rileva al riguardo l’assenza nell’ordinamento italiano «di una norma esplicita» che
preveda l’obbligo del pareggio di bilancio.
112
Cfr. ONIDA V., op. cit., pag. 451.
113
Sul punto, cfr. Lettera del Presidente della Repubblica Einaudi al Ministro del Tesoro Pella
(13 dicembre 1948), in appendice alla Relazione del Comitato di studio delle norme di
applicazione del 4° comma dell’art. 81 della Costituzione, Roma, marzo 1961, doc. n. 6.
86
Analizzando la ratio e la portata obiettiva della citata disposizione,
poteva dunque escludersi la sussistenza del detto obbligo per il
Governo ed il Parlamento: in primis perché, da un punto di vista
rigorosamente giuridico, non era ipotizzabile un obbligo costituzionale
di «tendere al pareggio», potendo al massimo configurarsi tale tendenza
in un programma o in un’azione politica; in secundis, perché pur «a voler
scorgere nell’art. 81, 4° comma, una norma programmatica, ci si
troverebbe di fronte non già ad un principio, sia pure generale,
suscettibile di costituire il termine di confronto e il metro di paragone
della legittimità di singole leggi ordinarie (di spesa o di bilancio), bensì
ad un obiettivo di politica finanziaria, rispetto al quale l’idoneità di singoli
provvedimenti a conseguirlo o meno sarebbe difficilmente valutabile alla
stregua di precisi criteri giuridici, ma potrebbe risultare solo da una globale e
complessiva valutazione d’ordine eminentemente politico-economico»114.
Dopo aver sviluppato tali premesse logico-giuridiche, Onida
arrivava dunque alla conclusione per cui il principio posto a
fondamento del (vecchio testo) dell’art. 81, co. 4, Cost. «è assai più
semplice e più generale, ed egualmente valido quale che sia
l’orientamento di politica economica e finanziaria che si ritenga
preferibile; è il principio per cui, nel proporre e nel deliberare una spesa,
non può prescindersi dall’esame del problema – necessariamente legato
alla spesa – dei mezzi finanziari necessari per affrontarla, inquadrando
[…] il singolo provvedimento nella visione generale degli obiettivi che si
vogliono perseguire, delle necessità cui si deve soddisfare, dei mezzi di
cui
114
concretamente
si
dispone»
attraverso
Cfr. ONIDA V., op. cit., p. 457 (i corsivi sono aggiunti).
87
una
sorta
di
«responsabilizzazione» delle delibere di spesa e senza il vincolo di una
rigorosa politica di pareggio115.
Ugualmente, in ordine alle eventuali conseguenze sull’equilibrio dei
bilanci annuali, il combinato disposto dai co. 3 e 4 dell’art. 81 Cost. era
ritenuto da Onida un mero «obiettivo politico» e non invece un
«obbligo giuridico»: perché appariva difficile, ovvero impossibile,
l’attuazione di un simile obbligo giuridico per l’evidente contrasto – in
chiave storico-politica – con la «realtà» effettiva di circostanze cicliche e
congiunturali
che
possono
imporre,
puntualmente,
politiche
economiche diverse dal pareggio; e perché il principio del pareggio
comunque «non rappresenta […] l’ottimo, né un obiettivo politicoeconomico meritevole di essere sempre e comunque perseguito» tanto
per il suo carattere “relativo” e limitato ad un intervento di breve
termine, quanto perché non determina una diretta corrispondenza fra
entrate ed uscite116.
È in un simile contesto normativo – caratterizzato da una discussa
interpretazione delle disposizioni costituzionali, nonché dalla presenza
115
Ibidem. A margine delle superiori considerazioni dottrinali, altra tappa
fondamentale nell’evoluzione interpretativa dell’art. 81 Cost. è stato l’indirizzo
giurisprudenziale elaborato dalla Corte costituzionale – e ripetutamente confermato
in numerose pronunce, sì da rappresentare ormai «giurisprudenza consolidata» –
che ha determinato il venir meno del «baluardo rigoroso ed efficace voluto dal
legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla
leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate» (cfr. CORTE COST., SENT.
1/1996). La Consulta peraltro, oltre a permettere la copertura finanziaria mediante
l’indebitamento, sconfessava anche l’interpretazione che riteneva effettivamente
costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio; ed è dimostrazione
dell’effetto dirompente di tale indirizzo giurisprudenziale, l’esplosione del debito
pubblico italiano – aumentato di oltre il 200% proprio nel breve periodo
immediatamente successivo alla citata sentenza – coperto tramite l’emissione di
titoli del debito pubblico, al fine di realizzare immediate disponibilità di cassa. Sul
punto cfr. CORONIDI F., La costituzionalizzazione dei vincoli di bilancio prima e dopo il patto
Europlus, in www.federalismi.it.
116
Cfr. ONIDA V., op. cit., p. 443. Sul punto, in merito alla critica delle teorie del
pareggio di bilancio cfr. STEVE S., Lezioni di scienza delle finanze, 4° ed. Padova, 1962.
88
di un c.d. “parametro fantasma”, costituito proprio dall’art. 81, co. 4,
Cost. – che deve essere dunque inserita l’imponente disciplina europea
che, a partire dal Trattato di Maastricht, ha introdotto rilevanti vincoli
nella politica economica di ciascuno Stato membro117.
2. La legge costituzionale n. 1/2012: la costituzionalizzazione
del principio di equilibrio di bilancio.
Dopo ripetuti dibattiti costituzionali e progetti generali di riforma
elaborati a partire dalla prima metà degli anni ’80 – mossi dalla necessità
di ridurre l’enorme distanza della finanza italiana dai parametri europei,
in connessione con la crisi economica e finanziaria internazionale in
corso e dalla volontà di fornire un’immagine stabile del Paese (i.e. la
“Commissione Bozzi”, nel 1985; la “Commissione De Mita–Iotti”, nel
1993; la “Commissione D’Alema”, nel 1997) – il disegno di legge
costituzionale sul pareggio di bilancio è stato definitivamente approvato
dal Senato, il 17 aprile 2012, con una maggioranza tale da evitare il
possibile ricorso al referendum costituzionale118.
117
CAIANIELLO V., Corte costituzionale e finanza pubblica, in Giur. It., 1984, IV; ed
ancora, R. DI MARIA, Aspettando la costituzionalizzazione del principio del “pareggio di
bilancio”: brevi considerazioni sulla natura giuridico-economica del medesimo e rilievo di alcune
questioni (ancora) aperte sulla sua potenziale ricaduta, a livello sia interno sia sovranazionale, in
www.forumcostituzionale.it.
118
In particolare, il disegno di legge costituzionale è stato definitivamente approvato
con una maggioranza superiore ai due terzi costituita da 235 voti favorevoli, 11
contrari e 34 astenuti. Tra i partiti a favore della riforma P.d.l., P.d. e Terzo polo
(costituito da U.d.c., F.l.i., A.p.i.); contrari, invece, Lega ed I.d.v. (anche se nei tre
precedenti passaggi del ddl costituzionale tra Camera e Senato avevano votato a
favore); astensione da parte di Coesione nazionale-Grande Sud.
89
Pare allora opportuno, ovvero indispensabile, procedere ad una
breve analisi del nuovo testo, che sarà applicato a decorrere
dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014 (cfr. art. 6).
Deve innanzitutto evidenziarsi come il testo della legge
costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012 (pubblicata nella G.U. n. 95 del 23
aprile 2012) – rubricato «Introduzione del principio del pareggio di
bilancio nella Carta costituzionale» – abbia modificato non soltanto il
citato art. 81, bensì anche gli artt. 97, 117 e 119 Cost., con rilevanti
novità di ordine sostanziale, volte ad incidere sulla complessiva
disciplina di bilancio, con riferimento sia a quello statale sia a quello
delle pubbliche amministrazioni in generale e degli Enti locali.
La disposizione “portante” del testo è certamente l’art. 1 che –
modificando in modo rilevante l’art. 81 Cost. – ha introdotto importanti
novità: ai sensi del co. 1, lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le
spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi
favorevoli del ciclo economico; il co. 2, poi, limita il ricorso
all’indebitamento al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e
– previa autorizzazione delle Camere, adottata a maggioranza assoluta –
al verificarsi di eventi eccezionali; i successivi tre commi hanno invece
confermato (tendenzialmente) il contenuto dei co. 1, 2 e 4 del vecchio
testo costituzionale, e cioè il principio della necessaria copertura
finanziaria delle leggi, la competenza esclusiva delle Camere relativa
all’approvazione annuale con legge del bilancio e del rendiconto
consuntivo presentati dal Governo, nonché la disciplina dell’esercizio
provvisorio del bilancio; l’ultimo comma del nuovo testo dell’art. 81,
infine, prevede la formazione della fondamentale legge di contabilità
generale.
90
È dunque possibile affermare, rispetto alle premesse disposizioni,
che il fine del pareggio del bilancio debba essere raggiunto tramite il
mezzo dell’equilibrio dei bilanci: si può infatti constatare come il
principio del pareggio di bilancio – al quale deve mirare lo Stato al fine
di assicurare «l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio» –
debba essere inteso in senso “strutturale”, e cioè in modo da tenere
conto delle fasi positive o negative del ciclo economico119. Più
precisamente, il Legislatore costituzionale ha previsto (saggiamente) la
possibilità di fare ricorso a politiche anticicliche e stabilizzatori
automatici attraverso il ricorso a bilanci in avanzo o in pareggio –
secondo i criteri stabiliti dall’U.E., depurando il saldo nominale dalla
componente ciclica – durante le fasi in cui la congiuntura economica è
favorevole,
ed
esclusivamente
all’opposto
nelle
fasi
di
fare
avverse120.
ricorso
Ed
all’indebitamento
ancora,
il
ricorso
all’indebitamente viene limitato solo «al verificarsi di eventi eccezionali»
con l’ulteriore vincolo costituito dalla preventiva autorizzazione di
entrambe le Camere da adottare a maggioranza assoluta.
Come evidenziato da autorevole dottrina, la riforma dell’art. 81
Cost. non mira dunque (esclusivamente) al rientro del debito pubblico o
al risanamento dell’attuale situazione di emergenza della finanza
pubblica, bensì cerca di ottenere da una parte l’equilibrio dei bilanci
pubblici e, nel caso dello Stato, il vincolo di equilibrio tra entrate e
spese, e d’altra parte il ricorso all’indebitamento soltanto in limitate
ipotesi circostanziate121.
119
Cfr. Dossier n. 551 del Servizio Studi della Camera dei Deputati. Sul punto
CABRAS D., Il pareggio di bilancio in Costituzione: una regola importante per la stabilizzazione
della finanza pubblica, in www.forumcostituzionale.it.
120
Ibidem.
121
BRANCASI A., L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di
revisione affrettata della Costituzione, in www.forumcostituzionale.it.
91
E tuttavia, proprio con riferimento al co. 2, la summenzionata
dottrina evidenzia una rilevante imprecisione tecnica nell’utilizzo, da
parte del Legislatore costituzionale, del termine “indebitamento”:
questo può essere ricondotto, infatti, alle operazioni di indebitamento
(art. 3, co. 17, l. 350/2003) o al saldo di bilancio che non tiene conto di
una serie di spese come, ad esempio, quelle necessarie per restituire il
debito in scadenza (art. 25, co. 7, l. n. 196/2009). Il medesimo comma
peraltro – oltre a contenere termini tecnici approssimativi – ad una
prima lettura appare di incerta formulazione nel suo complesso: la
disposizione, infatti, prevede una deroga al divieto del ricorso
all’indebitamento (i.e. «al fine di considerare gli effetti del ciclo
economico e […] al verificarsi di eventi eccezionali») che dovrebbe
operare a condizione che l’entità di “indebitamento netto” corrisponda
alle maggiori spese o minori entrate dovute agli effetti negativi del ciclo
economico122.
Il co. 3 – ai sensi del quale «ogni legge che importi nuovi o
maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte» – conferma poi,
sostanzialmente, il principio della necessaria copertura finanziaria delle
leggi; appare però evidente come il testo novellato tenda a rafforzare
tale principio, posto che il reperimento dei mezzi di copertura per
disposizioni “onerose” dovrà avvenire immediatamente, e non più
122
Ibidem. Secondo Brancasi, il fatto che la proposta di legge [ora legge
costituzionale, n.d.r.] parli di “ricorso” a proposito di “indebitamento” dovrebbe
lasciare intendere il riferimento alle operazioni e non al saldo; in tal senso la norma
descriverebbe, invero, il percorso di rientro del debito pubblico; un percorso però
«talmente rigoroso da risultare assolutamente impraticabile, poiché comporterebbe
che i titoli in scadenza ogni mese andrebbero restituiti senza la possibilità di
rinnovarli neppure per una minima parte. Non rimane quindi che riferire al saldo
“indebitamento netto” la limitazione prescritta della norma, la quale, consentendo il
rinnovo dei titoli in scadenza, non produce alcuna riduzione del debito
complessivo».
92
tramite successivi provvedimenti inseriti nella legge di stabilità o in altri
provvedimenti di manovra.
Infine, il co. 6 prevede la nuova “legge di contabilità generale”,
ovvero il contenuto della legge di bilancio (i.e. norme fondamentali e
criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese, nonché la
sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni) stabilito con
legge da approvare a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna
Camera – entro il 28 febbraio 2013, ai sensi del successivo art. 5, co. 3 –
e nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale.
Alle premesse e sostanziali modifiche all’art. 81 Cost. si
aggiungono quelle agli artt. 97, 117 e 119.
In primo luogo l’art. 2 della legge costituzionale introduce la
seguente premessa all’art. 97 Cost.: «le pubbliche amministrazioni, in
coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio
dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»; il Legislatore
costituzionale ha dunque inteso estendere i nuovi principi di natura
economico-finanziaria a tutte le pubbliche amministrazioni – proprio in
ragione del ruolo di fondamentale importanza dalle stesse assunto nella
quadratura dei conti statali pubblici – precisando altresì come i
medesimi debbano essere interpretati ed applicati in coerenza con
quanto disposto dall’ordinamento dell’U.E.
In secondo luogo l’art. 3 della riforma – modificando l’art. 117
Cost. – trasferisce la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» dal
co. 3 al co. 2, e cioè dalla competenza “concorrente” a quella
“esclusiva” dello Stato, al fine di assicurare una maggior tutela al
principio cardine della riforma costituzionale123.
123
Alla luce di tale modifica dovrà essere rivisto – si ritiene – anche l’indirizzo
giurisprudenziale della Consulta, che ha ripetutamente affermato che «spetta allo
Stato, in sede di legislazione concorrente, la determinazione dei principi
93
In terzo luogo l’art. 4 – con riferimento all’autonomia finanziaria
di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e
Regioni, di cui al co. 1, art. 119 Cost. – inserisce l’obbligo per i
menzionati Enti di rispettare l’equilibrio dei propri bilanci e di
concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari
derivanti dall’ordinamento dell’U.E.; l’intenzione del Legislatore
costituzionale pare, pertanto, di conformare anche la disciplina relativa
agli Enti territoriali al nuovo principio dell’equilibrio di bilancio,
costituzionalizzando
il
principio
del
concorso
dei
medesimi
all’ottemperanza degli obblighi di natura economico-finanziaria di
matrice europea. Nella stessa disposizione si sancisce, peraltro,
l’integrazione del co. 6 dell’art. 119: Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni possono infatti ricorrere all’indebitamento (per
finanziare spese di investimento; c.d. golden rule) soltanto «con la
contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che
per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio
di bilancio».
In quarto ed ultimo luogo, la “nuova” disciplina del pareggio
(rectius, equilibrio) di bilancio è modulata dalle previsioni di cui all’art. 5
della legge di revisione costituzionale: i primi due commi indicano gli
elementi essenziali della summenzionata legge di contabilità generale (i.e. la
legge ordinaria rinforzata, richiamata dall’ultimo comma dell’art. 81
Cost.) per la definizione del «contenuto della legge di bilancio», delle
«norme fondamentali» e dei «criteri volti ad assicura l’equilibrio tra le
entrate e spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso
fondamentali nella materia compresa nella endiadi espressa dalla indicazione di
“armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario” (art. 117, terzo comma; art. 119, secondo comma, della
Costituzione riguardante i “tributi e le entrate propri” delle Regioni ed enti locali)»;
cfr. CORTE COST., SENT. 17/2004.
94
delle pubbliche amministrazioni»124; il co. 4 ribadisce, poi, la
competenza delle Camere circa la «funzione di controllo sulla finanza
pubblica con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese,
nonché alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche
amministrazioni».
124
Tra i principali punti che dovranno essere definiti, giova menzionare:
l’accertamento delle cause degli scostamenti rispetto alle previsioni, distinguendo tra quelli
dovuti all’andamento del ciclo economico, all’inefficacia degli interventi e agli eventi
eccezionali, con l’individuazione del limite massimo di tale scostamento al
superamento del quale occorrerà intervenire con misure di correzione; la definizione
delle gravi recessioni economiche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali quali
eventi eccezionali – ai sensi dell’art. 81, co. 2, Cost. – al verificarsi dei quali è
consentito il ricorso all’indebitamento non limitato; l’istituzione presso le Camere,
nel rispetto della relativa autonomia costituzionale, di un organismo indipendente al
quale attribuire compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di
valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio. Sul punto occorre precisare che
(probabilmente) il nuovo organismo indipendente sarà simile al Congressional Budget
Office (Cbo), ovvero l’Agenzia federale statunitense che opera nel Congresso fin dal
1974 con la finalità principale di esaminare e fornire stime sia sulle uscite previste
nell’ambito del processo di redazione del bilancio federale, sia riguardo le uscite
derivanti da nuove proposte di legge. Inoltre, ai sensi dei co. 1 e 2 del citato art. 5, la
legge di contabilità generale dovrà disciplinare, per il complesso delle pubbliche
amministrazioni, in particolare: le verifiche, preventive e consuntive, sugli
andamenti di finanza pubblica; l’introduzione di regole sulla spesa che consentano
di salvaguardare gli equilibri di bilancio e la riduzione del rapporto tra debito
pubblico e prodotto interno lordo nel lungo periodo, in coerenza con gli obiettivi di
finanza pubblica; le modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo
economico o al verificarsi degli eventi eccezionali di cui alla lettera d) del presente
comma, anche in deroga all’art. 119 Cost., concorre ad assicurare il finanziamento,
da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle
funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali. Ed ancora: il contenuto della
legge di bilancio dello Stato; la facoltà dei Comuni, delle Province, delle Città
metropolitane, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano di
ricorrere all’indebitamento, ai sensi dell’art. 119, co. 6, secondo periodo, Cost., come
modificato dall’art. 4 della presente legge costituzionale; le modalità attraverso le
quali i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano concorrono alla sostenibilità del debito del
complesso delle pubbliche amministrazioni.
95
3. Prime considerazioni critiche in merito al principio
costituzionale del pareggio di bilancio.
Alla luce di quanto premesso, appare evidente come il varo del
disegno di legge costituzionale rappresenti uno dei tasselli fondamentali
della “risposta italiana” agli impegni presi in sede europea, con la stipula
del “Fiscal Compact” in data 2 marzo 2012; più precisamente, con la
descritta riforma costituzionale, l’Italia – dopo Germania e Spagna – è
stato il terzo Paese, fra le principali economie dell’Eurozona, ad attuare
le previsioni di quell’accordo.
Pur senza entrare nel merito degli aspetti prettamente economicofinanziari del nuovo assetto costituzionale, si può affermare come il
Legislatore costituzionale abbia inteso bilanciare due opposte istanze:
rispettivamente, la necessità di dimostrare – ai mercati finanziari ed ai
Paesi europei – che la sostenibilità delle finanze pubbliche costituisce un
punto fondamentale della politica interna, nonché condiviso da una
larga maggioranza; l’esigenza di non irrigidire (eccessivamente) il
contenuto della Costituzione con norme tecniche e di dettaglio.
Diversamente da quanto è accaduto in Germania infatti, le disposizioni
introdotte con la recente legge costituzionale – per divenire pienamente
efficaci – necessitano di un supplementare intervento del Legislatore
(ordinario: la c.d. “legge quadro di contabilità”) perché sia definito «il
contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti
ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la
sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni».
Medio tempore deve tuttavia riconoscersi che alcuni principi, cui si
ispira il testo di riforma costituzionale italiano, sono già stati oggetto di
96
analisi critiche, anche da parte di illustri economisti: in specie è stato
affermato che «aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel
caso fosse approvato un emendamento sul pareggio del bilancio, quale
un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose».
E ciò, per le ragioni che possono essere sì sintetizzate: chiudere ogni
anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni; sarebbe
impedito al governo federale di ricorrere al credito per finanziare il
costo delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e sviluppo, della
tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere
della nazione; il Congresso sarebbe incoraggiato ad approvare
provvedimenti privi di copertura finanziaria delegando gli Stati, gli Enti
locali e le aziende private nel trovare le risorse finanziarie al posto del
governo federale; sarebbero favorite dubbie manovre finanziarie (quali
la vendita di terreni demaniali e di altri beni pubblici contabilizzando i
ricavi come introiti destinati alla riduzione del deficit) e altri espedienti
contabili con il conseguente aumento di relative controversie; oltre che
nei periodi di recessione, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare
la crescita economica anche nei periodi di espansione dell’economia,
giacché gli incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione –
anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito – sarebbero
ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa
di pari importo125. Pertanto, alla luce di tale indirizzo, «non c’è alcuna
125
Il riferimento è agli otto studiosi – tra i quali, cinque premi Nobel per l’economia
– che hanno invitato pubblicamente il presidente Obama a respingere qualsiasi
proposta di modifica alla Costituzione statunitense, volta ad introdurre il vincolo del
pareggio di bilancio; e ciò, proprio a causa degli effetti negativi e dei rischi che tale
principio potrebbe comportare. La lettera è stata firmata da: KENNETH ARROW,
premio Nobel per l’economia 1972; PETER DIAMOND, premio Nobel per
l’economia 2010; WILLIAM SHARPE, premio Nobel per l’economia 1990; CHARLES
SCHULTZE, consigliere economico di J.F. Kennedy e Lindon Johnson, animatore
della Great Society Agenda; ALAN BLINDER, direttore del Centro per le ricerche
economiche della Princeton University; ERIC MASKIN, premio Nobel per
97
necessità di mettere al Paese una camicia di forza economica» con
l’introduzione del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione,
essendo sufficiente lasciare che «Presidente e Congresso adottino le
politiche monetarie, economiche e di bilancio idonee a far fronte ai
bisogni e alle priorità, così come saggiamente previsto dai […] padri
costituenti».
Nel merito della riforma italiana, deve poi essere evidenziato
un’ulteriore falla della descritta riforma costituzionale determinata dalla
mancanza di alcun meccanismo sanzionatorio per l’ipotesi di
sforamento dei limiti stabiliti dal vincolo del pareggio di bilancio; non si
comprende, insomma, quali potrebbero essere le eventuali conseguenze
del mancato rispetto del nuovo art. 81 Cost., se non quelle di una
“mera” responsabilità politica, peraltro diversa anche da quella già
prevista dalla legge delega in materia di federalismo fiscale126.
In particolare, tenendo ben presente lo stretto legame che
intercorre tra la disciplina di bilancio e la struttura politica dello Stato,
appare opportuno chiedersi se la garanzia giurisdizionale della regola del
pareggio formulata nel nuovo art. 81 Cost. sia una previsione dotata di
effettività.
Ed invero, secondo autorevole dottrina «la giustiziabilità di tale
regola appare per più versi accidentata e ciò non è dovuto a elementi di
casualità, ma rappresenta, in qualche misura, il riflesso di una quasi
inevitabile scarsa coercibilità giuridica delle norme costituzionali sul
bilancio», posto che «la previsione di un vincolo generale all’equilibrio
fra entrate e spese [pone] problemi acuti di controllabilità giuridica
l’economia 2007; ROBERT SOLOW, premio Nobel per l’economia 1987; LAURA
TYSON, ex direttrice del National Economic Council.
126
Cfr. art. 17 lett. e), legge delega n. 42/09, “Delega al Governo in materia di
federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”.
98
rispetto a ciascuna delle fasi nelle quali si articola il sindacato di
costituzionalità delle leggi, e cioè: i modi di accesso alla Corte;
l’accertamento del rapporto di incompatibilità fra oggetto e parametro
del giudizio (e in particolare la rilevazione dell’inosservanza della regola
del pareggio); gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità della
legge di bilancio, anche con riferimento alla loro dimensione
temporale»127.
Ulteriori voci critiche infine evidenziano come tutte le recenti
modifiche, adottate per rispondere alla crisi economica, abbiano fatto
perno sull’idea che l’austerità possa essere “espansiva” – orientamento
sostenuto anche da diversi economisti neoliberisti italiani128 –
tralasciando invece le politiche per la crescita e lo sviluppo.
E tuttavia, dall’analisi dei dati economici relativi ai Paesi europei
costretti all’austerità (i.e. Spagna, Irlanda, Italia e Grecia), si evince come
tali politiche stiano ottenendo risultati di segno opposto, peggiorando la
situazione e conducendo ad una più rapida recessione (prova ne è lo
stesso declassamento operato da Standard and Poor’s nei confronti di
diversi Paesi dell’Eurozona). I sostenitori di queste critiche – rifacendosi
alle teorie keynesiane – sostengono che l’inasprimento delle politiche
restrittive attraverso i nuovi accordi europei rischiano di aggravare
ulteriormente la già tragica situazione europea: in particolare,
sembrerebbe pacifico il sillogismo economico per cui le politiche di
austerità – riducendo il reddito nazionale – comporterebbero per lo
Stato il rischio di ricevere meno gettito del previsto dalle imposte, non
127
Cfr. SCACCIA G., La giustiziabilità della regola del pareggio di bilancio, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it
128
Sono portavoce della citata teoria gli economisti Alberto Alesina e Francesco
Giavazzi. In particolare, nell’ottobre 2009 il primo pubblicò un paper molto criticato
in cui presentava alcuni casi di “austerità espansiva”; sul punto cfr. A. ALESINA e S.
ARDAGNA, Large Changes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending, in The national bureau of
economic research.
99
riuscendo così a ripagare il debito pubblico che, nel frattempo, sarà
diventato insopportabile rispetto al PIL decrescente.
Pertanto, per gli economisti di matrice keynesiana, al fine di porre
un freno alla crisi, è indispensabile l’adozione di un piano di sviluppo e
di spesa pubblica – come “timidamente” fatto dal Presidente Obama –
nel tentativo di far ripartire la crescita.
Deve comunque osservarsi che la circostanza per cui un aspetto
fondamentale della riforma è stato riservato ad una futura disciplina di
dettaglio, rende particolarmente difficile stabilire al momento quali
saranno i reali effetti della riforma costituzionale; può semmai
affermarsi, intanto, che la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio
produrrà degli effetti dirompenti riguardo la futura attuazione delle
regole economico-finanziarie, sia di matrice europea sia di origine
interna; inoltre risulterà indispensabile la predisposizione di un forte
coordinamento
ex
ante
tra
Stato,
Enti
locali
e
pubbliche
amministrazioni, in modo da assicurare il principio fondamentale
dell’equilibrio complessivo dei conti ad ogni livello.
In ordine alle rassegnate riforme economico-finanziarie imposte
dall’U.E. nei confronti di ciascun Stato membro, è lecito infine chiedersi
«se possa ritenersi ancora effettivo il principio di sovranità (nazionale) in
materia fiscale; oppure se non vi sia già stata una significativa cessione
di autonomia politica statale», in specie determinata dall’obbligo di
coordinamento preventivo delle politiche economiche, dai vincoli
economici di origine pattizia e dai rigidi controlli operati dalle istituzioni
europee129; ed invero, appare pacifica la crescente perdita di
responsabilità politica da parte dei Parlamenti nazionali soprattutto in
materia di bilancio pubblico.
129
In tal senso DI MARIA R., op. cit. Cfr. anche PITRUZZELLA G., op. cit.
100
E però i nuovi vincoli e limitazioni di sovranità di origine europea
– determinati sia in sede istituzionale sia in sede intergovernativa, e che
impongono non pochi sacrifici ai Paesi, come l’Italia, già gravati da un
eccessivo stock di debito pubblico – sembrano essere indispensabili, in
effetti, per la costituzione di un nuovo modello di governance (economica)
europea, grazie al quale uscire definitivamente dall’attuale crisi.
Come correttamente precisato in dottrina, infatti, i prossimi ed
indispensabili passi dovranno consistere nel mettere lo Stato sopra la
finanza e la finanza sotto gli Stati, ovvero fare prevalere le regole
sull’anarchia ed avviare grandi progetti di investimento pubblico per il
bene comune130.
4. La Legge costituzionale n. 1 del 2012 e l’istituzione
dell’Ufficio parlamentare di bilancio
Come già detto nei paragrafi precedenti, la crisi dei debiti sovrani
ha fatto emergere tutte le lacune e le debolezze della normativa europea
di settore; per questo motivo, negli ultimi anni, si è registrata una forte
spinta verso una ristrutturazione della governance economica dell’U.E.
soprattutto al fine di rafforzare il controllo plurilaterale in merito alle
politiche economiche nazionali e di diminuire l’asimmetria tra l’unicità
della politica monetaria e la pluralità delle politiche di bilancio e
strutturali; si è dunque cercato di migliorare il procedimento di
applicazione delle norme ampliando i requisiti minimi per i fiscal
130
Cfr. G. TREMONTI, op. cit., pag. 165 e ss.
101
frameworks (quadri di bilancio) nazionali e garantendo, così, la
sostenibilità delle finanze pubbliche.
Più precisamente, negli ultimi anni è emersa l’esigenza di
“aggiornare” i quadri di bilancio nazionali con la nuova definizione,
sotto diversi aspetti: le regole di bilancio (fiscal rules), la pianificazione di
bilancio a medio termine, il coordinamento di bilancio, i consigli fiscal
indipendenti,
il
monitoraggio
del
bilancio
e
le
proiezioni
macroeconomiche e di bilancio131.
Ed è in questo contesto di riforma generale delle regole della
governance economica che si è riproposto un tema di fondamentale
importanza, al centro del dibattito già dalla metà degli anni Novanta,
quale l’istituzione del Consiglio fiscale indipendente, spinti dal desiderio
di adattare alla sfera della politica di bilancio le esperienze fatte dalle
banche centrali in tema di politica monetaria; tale dibattito, tuttavia, si
accorse sin da subito che alle istituzioni di bilancio indipendenti –
diversamente da quanto previsto per le banche centrali – non poteva
certamente essere attribuito il compito di decidere in merito alla politica
di bilancio, decisione che riflette un mandato di rappresentanza tra
elettore ed eletto132.
Pertanto,
il
fondamento
economico
dei
Consigli
fiscali
indipendenti, esistenti già da molto tempo in diversi Paesi (come
Olanda, Belgio e Stati Uniti), sarebbe stato individuato nella necessità di
aumentare la trasparenza delle decisioni pubbliche consentendo –
attraverso la riduzione delle asimmetrie informative e dell’opacità
determinata da eventuali comportamenti opportunistici – l’aumento del
131
Cfr. LOIERO R., La nuova governance europea di finanza pubblica e il ruolo dell’Ufficio
parlamentare di bilancio, in www.federalismi.it
132
Senato della Repubblica, Servizio del bilancio, L’istituzione dell'Ufficio parlamentare di
bilancio, XVII legislatura, Nota breve n. 2, Aprile 2013.
102
costo di reputazione connesso con l’adozione di cattive politiche e
migliorando la capacità degli elettori di premiare i “buoni” policy-makers;
e così, attraverso il miglioramento della trasparenza determinata
dall’analisi sui temi della finanza da parte dei Consigli fiscali di bilancio
si dovrebbe giungere ad un aumento dei reputation costs connessi con
l’adozione di cattive politiche133.
Inoltre, si deve evidenziare che un altro possibile rischio
determinato dalla carenza di una corretta analisi sui temi della finanza –
compito ora rientrante tra le competenze dei suddetti Consigli – sarebbe
determinato dal rischio dei cosiddetti shortemism, ovvero dalla negativa
tendenza assunta dal decisore politico che appare indotto ad essere più
attento agli effetti delle proprie decisioni nel breve piuttosto che nel
medio lungo periodo; ed invero, il politico “moderno” sembrerebbe più
propenso a valutare le misure di politica economica soprattutto sulla
base del consenso ottenuto nell’immediato da parte dell’opinione
pubblica134.
In particolare, autorevole dottrina ha evidenziato come solo
delegando l’attività informativa ad un Consiglio fiscale indipendente sia
possibile escludere un eccesso di ottimismo da parte dei responsabili
politici circa la crescita futura nell’ambito della politica di bilancio,
nonché la conseguente sopravvalutazione delle proprie capacità di
influenzare il tasso di crescita135.
133
Ibidem.
Cfr. LOIERO R., Op. cit.
135
Cfr. DEBRUN X., Democratic Accountability, Deficit Bias, and Independent Fiscal Agencies,
IMF Working Paper no. 11/173. Si vede, inoltre, DENK. O., Italy and the Euro Area
Crisis: Securing Fiscal Sustainability and Financial Stability, OECD Economics
Department Working Papers, No. 1065, OECD Publishing;
l’autore, a titolo esemplificativo, evidenzia come al momento dell’introduzione
dell’Euro, le proiezioni formulate dall’Esecutivo e contenute nei programma di
stabilità (PS) relative alla crescita del PIL per l’anno successivo hanno sovrastimato
la crescita del PIL reale in 10 anni su 14.
134
103
Il ruolo positivo determinato dalla istituzione dei Consigli fiscali di
bilancio – prodotto, dunque, da una maggiore trasparenza di bilancio –
è stato sottolineato anche da parte dell’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (O.C.S.E.).
Più precisamente, un gruppo di lavoro costituito proprio in ambito
O.C.S.E. ha individuato un elenco di principi cui tali organismi di
bilancio indipendenti dovrebbero conformarsi, e cioè: la condivisione di
valori di riferimento: condivisione dei valori di riferimento da parte di
tutto lo spettro politico (local ownership); indipendenza e non-partisanship
(che viene chiaramente distinta dalla bi-partisanship); il mandato, con
indicazione di funzioni elencate dalla Legge, ma con autonoma capacità
di definire il proprio programma di lavoro, in connessione con il
processo di bilancio; risorse stabili, adeguate alle funzioni assegnate;
accountability verso il Parlamento, prevista nel rispetto dell’indipendenza
funzionale
dell’organismo;
accesso
all’informazione
rilevante;
trasparenza nello svolgimento della propria attività, con adeguata
pubblicità delle proprie analisi e rapporti; capacità di comunicazione,
con la stampa la società civile e gli altri soggetti di riferimento;
valutazione esterna delle proprie analisi136.
Prima di analizzare la Legge costituzionale che ha introdotto
l’Ufficio parlamentare di bilancio in Italia, appare opportuno
soffermarsi brevemente sulla disciplina europea posta a fondamento di
tale organismo.
In particolare, da una prima analisi del quadro normativo europeo
appare evidente la recente tendenza volta a rafforzare la governance
136
Public Governance and Territorial Development Directorate - Public
Governance Committee, OECD principles for indipendent fiscal institutions, 12
February
2013,
http://www.pbodpb.gc.ca/files/files/Revised%20IFI%20Principles_EN%20-%2013-Feb-13.pdf
104
economica attraverso la trasposizione degli obiettivi e dei principi
comunitari in elementi propri dell’ordinamento interno di ciascuno
Stato membro.
In merito all’istituzione dei Consigli fiscali di bilancio, già con il
cosiddetto six pack – approvato dal Consiglio dell’Unione europea l’8
novembre 2011 – si è prevista l’introduzione di nuove e più rigorose
regole di bilancio, accompagnate dall’istituzione dei predetti organismi
indipendenti; ed invero, l’articolo 6 della direttiva 2011/85/UE, da
recepire entro il 31 dicembre 2013 – concernente i requisiti per i quadri
di bilancio degli Stati membri e volta ad individuare le caratteristiche
necessarie dei sistemi nazionali di contabilità pubblica e di statistica, i
requisiti delle previsioni economiche e di bilancio e i requisiti dei quadri
di bilancio di medio termine – dispone che le regole di bilancio
prevedano,
tra
l’altro,
“il
controllo
effettivo
e
tempestivo
dell’osservanza delle regole, basata su un’analisi affidabile e
indipendente, eseguita da organismi indipendenti od organismi dotati di
autonomia funzionale rispetto alle autorità di bilancio degli Stati
membri”.
All’interno del medesimo quadro normativo europeo, un ulteriore
riferimento alla costituzione dei predetti organismi indipendenti con la
funzione di monitorare il rispetto delle regole di bilancio è previsto dal
regolamento n. 473 del 2013; l’obiettivo dell’Unione europea è quello di
far divenire tali fiscal council un elemento comune e stabile dei sistemi di
finanza pubblica nazionali degli Stati membri.
Ulteriore riferimento ai Consigli fiscali di bilancio è rinvenibile
anche nell’articolo 3, paragrafo 2, del Trattato sulla stabilità, il
coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria che,
con riferimento al meccanismo automatico di correzione degli
105
scostamenti di bilancio, dispone che la Commissione europea dovrà
individuare i principi comuni, oltre che per la disciplina di tale
meccanismo, in merito al ruolo e all’indipendenza delle istituzioni che, a
livello nazionale, dovranno provvedere al monitoraggio del rispetto
delle regole di bilancio stabilite dal Trattato.
Ed ancora, altra particolare e fondamentale regola che riguarda i
suddetti organismi e che si ritrova all’interno dei cosiddetti common
principles – già predisposti dalla Commissione europea per l’attuazione
del Fiscal compact – è quella del comply or explain: nell’ipotesi in cui gli
Esecutivi nazionali decidano di non conformarsi alle valutazioni
formulate dagli organismi indipendenti in merito all’attivazione ed
all’attuazione del meccanismo automatico di correzione degli
scostamenti di bilancio, compreso il regime delle clausole di
salvaguardia legate al verificarsi di eventi eccezionali, saranno obbligati a
spiegare pubblicamente le ragioni delle loro scelte politiche riferendo al
Parlamento su richiesta degli organi parlamentari137.
Infine, anche il cosiddetto two pack ha imposto agli Stati membri la
costituzione di organismi indipendenti con la funzione e lo scopo sia di
tenere sotto controllo il rispetto delle regole di bilancio, sia di assicurare
137
Cfr. LOIERO R., Op. cit. Più precisamente, il punto 7 (Role and independence of
monitoring institutions) dispone che: Independent bodies or bodies with functional autonomy
acting as monitoring institutions shall support the credibility and transparency of the correction
mechanism. These institutions would provide public assessments over: the occurrence of
circumstances warranting the activation of the correction mechanism; of whether the correction is
proceeding in accordance with national rules and plans; and over the occurrence of circumstances for
triggering, extending and exiting escape clauses. The concerned Member State shall be obliged to
comply with, or alternatively explain publicly why they are not following the assessments of these
bodies. The design of the above bodies shall take into account the already existing institutional
setting and the country-specific administrative structure. National legal provisions ensuring a high
degree of functional autonomy shall underpin the above bodies, including: i) a statutory regime
grounded in law; ii) freedom from interference, whereby the above bodies shall not take instructions,
and shall be in a capacity to communicate publicly in a timely manner; iii) nomination procedures
based on experience and competence; iv) adequacy of resources and appropriate access to information
to carry out the given mandate. European commission, com(2012) 342 final,communication from
the commission, Common principles on national fiscal correction mechanisms.
106
che le previsioni macroeconomiche – sulle quali trovano fondamento le
scelte di finanza pubblica – siano realistiche e non ottimistiche, grazie
anche alla loro formulazione proprio da parte dei citati organismi
indipendenti di bilancio.
Alla luce di quanto premesso, appare ora possibile analizzare i
caratteri essenziali dell’Organismo indipendente per l’analisi e la verifica
degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza
delle regole di bilancio – Ufficio parlamentare di bilancio (U.P.B.),
istituito in seguito a quanto previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera f)
della legge costituzionale n. 1 del 2012, che, come già detto, ha
introdotto nella Costituzione italiana il principio dell’equilibrio dei
bilanci delle pubbliche amministrazioni.
Più precisamente, l’istituzione di tale U.P.B. si è avuta attraverso la
cosiddetta legge rinforzata n. 243 del 2012, che ha anche provveduto
alla
regolamentazione
delle
caratteristiche
principali,
quali:
la
composizione dell’organo di vertice, il mandato, la dotazione di risorse
umane e strumentali, la libertà di accesso all’informazione.138
L’Ufficio – che lavora in assoluta autonomia e con piena
indipendenza di giudizio e di valutazione – è costituito da un Consiglio
composto da tre membri (di cui uno con funzioni di presidente), che
vengono nominati con decreto adottato d’intesa dai Presidenti del
Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nell’ambito di un
elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni parlamentari
competenti in materia di finanza pubblica a maggioranza dei due terzi
dei rispettivi componenti.
Riguardo le funzioni di detto Ufficio, l’art. 18 dispone che,
attraverso l’elaborazione di proprie stime, esso effettua analisi, verifiche
138
Si vedano gli articoli 16-19 della legge n. 243 del 2012, di attuazione della Legge
costituzionale n. 1 del 2012.
107
e valutazioni in merito a: a) le previsioni macroeconomiche e di finanza
pubblica; b) l’impatto macroeconomico dei provvedimenti legislativi di
maggiore rilievo; c) gli andamenti di finanza pubblica, anche per
sottosettore, e l’osservanza delle regole di bilancio; d) la sostenibilità
della finanza pubblica nel lungo periodo; e) l’attivazione e l’utilizzo di
alcuni istituti previsti dal nuovo quadro di regole europee, con
particolare riferimento al meccanismo correttivo ed all’autorizzazione in
caso di evento eccezionale; f) ulteriori temi di economia e finanza
pubblica rilevanti ai fini delle analisi, delle verifiche e delle valutazioni
di cui al presente comma.
L’Ufficio, inoltre, è chiamato a predisporre analisi e rapporti anche
su richiesta delle Commissioni parlamentari competenti in materia di
finanza pubblica; al fine di garantire la piena trasparenza e pubblicità
delle analisi è stata anche prevista la pubblicazione delle relazioni e delle
valutazioni sul sito internet.
Di particolare rilievo è anche la disposizione prevista dal terzo
comma dell’art. 18, in base al quale, qualora, nell’esercizio
delle
funzioni appena descritte, l’Ufficio parlamentare di bilancio esprima
valutazioni significativamente divergenti rispetto a quelle del Governo,
su richiesta di almeno un terzo dei componenti di una Commissione
parlamentare competente in materia di finanza pubblica, quest’ultimo
illustra i motivi per i quali ritiene di confermare le proprie valutazioni
ovvero ritiene di conformarle a quelle dell’Ufficio.
Alla luce di quanto premesso, appare evidente come le regole
previste dalla Legge costituzionale n. 1 del 2012, nonché dalla legge
rinforzata di attuazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, siano
poste in un rapporto di stretta complementarietà ed integrazione con la
108
legislazione europea che diviene in tal modo fondamentale ai fini
dell’interpretazione e dell’applicazione dell’intera riforma costituzionale.
Più precisamente, anche se tali organismi sono sprovvisti di veri e
propri poteri sanzionatori, essi si pongono al “crocevia della
riconfigurazione interistituzionale tra esecutivi e parlamenti” nell’ambito
della nuova governance europea; ed invero, anche se la loro attività deve
certamente essere svolta con modalità tali da non circoscrivere il raggio
d’azione e la responsabilità degli organi politici, l’ente indipendente deve
comunque essere in grado di indurre l’Esecutivo a motivare ed
approfondire maggiormente le ragioni e i risultati attesi dalle proprie
scelte, al fine, dunque, di assicurare al Parlamento un più efficace
esercizio della funzione di controllo sull’operato dei governi139.
5. Il principio del pareggio di bilancio nella costituzione
tedesca
Come evidenziato da autorevole dottrina, la riforma costituzionale
– prevista nel Gesetz zur Änderung des Grundgesetzes (Artikel 91c,
91d, 104b, 109, 109a, 115, 143d) del 29 luglio 2009 – che ha modificato
la Grundgesetz introducendo un freno al debito pubblico (c.d.
Schuldenbremse), costituisce attualmente un imprescindibile punto di
riferimento per qualsiasi iniziativa normativa di analogo tenore in
ragione di alcuni fattori: in primis, «per il primario ruolo politico che la
Repubblica federale di Germania svolge all’interno dell’Unione
europea»; secondariamente, «per la peculiare attenzione che il legislatore
139
Cfr. LOIERO R., Op. cit.
109
costituzionale tedesco ha sempre mostrato nei confronti della c.d.
costituzione finanziaria, che disciplina con inusuale precisione i rapporti
finanziari tra Federazione (Bund) e Stati membri (Länder)»; ed ancora,
«per l’apparente cambio di marcia che questa riforma implica, ove solo
si pensi che le precedenti regole costituzionali in materia di bilancio, in
particolare la c.d. golden rule introdotta con la riforma costituzionale
del 1969, hanno consentito alla Germania di sviluppare intensamente il
carattere di socialità della propria forma di stato»; infine, «per le
legittime domande sul rapporto di causa-effetto tra la riforma
costituzionale e il contesto economico internazionale»140.
La riforma, dunque, si è inserita in un contesto caratterizzato da
una spinta organizzazione federale, in cui i Länder – anch’essi vincolati
alla golden rule – non sempre si sono distinti per le rigorose politiche di
bilancio, nonché da una politica centrale improntata verso la riduzione
della pressione fiscale – e conseguentemente anche delle entrate – che
ha reso più difficoltosa la gestione del notevole debito pubblico
accumulatosi fino a quel momento141.
Più precisamente, prima delle due riforme costituzionali federaliste
del 2006 e del 2009, la Legge fondamentale tedesca prevedeva il
semplice principio del pareggio tra le entrate e le spese nella
predisposizione del bilancio (art. 110, comma 1); con la prima riforma
140
Cfr. BIFULCO R., Il pareggio di bilancio in Germania: una riforma costituzionale
postnazionale?, in Rivista associazione italiana dei costituzionalisti, in www.rivistaaic.it.
L’autore rileva come l’adozione della regola della golden rule – permettendo il ricorso
al debito solo per le spese in conto capitale – nonostante abbia fatto registrare una
diminuzione dell’indebitamento solo parziale, ha comunque contribuito alla
costruzione dello Stato del benessere, attraverso notevoli investimenti pubblici nelle
infrastrutture e nell'istruzione pubblica.
141
Più precisamente, la Germania ha un’esposizione debitoria che rispetto al
prodotto interno lordo si registra intorno all’83,2%; il debito tedesco, inoltre, è il
terzo debito pubblico lordo più alto del mondo in valore assoluto ammontamdo a
2080 miliardi e superando di 236 miliardi quello italiano (dati relativi al mese di
settembre 2013).
110
del federalismo (cd. Föderalismusreform I) – introdotta nell’agosto del
2006 – è stato previsto il nuovo quinto comma dell’art. 109 (Separazione
di competenza tra la Federazione e i Länder; principi in materia di bilancio) che
ha disposto una responsabilità congiunta della Federazione e dei Länder
per il rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione della
Germania al Patto di stabilità europeo, disponendo che le sanzioni per
la violazione delle disposizioni sulla conformità alla disciplina di
bilancio, di cui all’art. 126 TFUE, siano sostenute, rispettivamente, in
misura del 65% dalla Federazione e del 35% dai Länder142.
Ciò premesso, si può ora passare ad analizzare la citata riforma
costituzionale
del
2009
–
seconda
riforma
del
federalismo
(Föderalismusreform II) – contenuta nell’art.109, c.3, L.F., che al primo
periodo stabilisce letteralmente che i bilanci della Federazione e dei
Länder, di norma, devono essere portati in pareggio senza ricorrente al
prestito, prevedendo così un freno all’indebitamento (Schuldenbremse) e
superando la regola della golden rule.
In particolare, deve essere evidenziato come mentre per la
Federazione il Legislatore costituzionale tedesco abbia previsto solo un
ristretto margine di manovra, posto che il principio è considerato
rispettato «se le entrate da prestiti non superano la soglia dello 0,35 per
cento del prodotto interno lordo nominale»,
per i Länder,
diversamente, non abbia lasciato lo stesso spazio sulla componente
142
Quest’ultima quota, inoltre, viene ulteriormente suddivisa in due fasce
percentuali: è infatti previsto che tutti i Länder rispondano in via solidale del 35% in
rapporto alla rispettiva popolazione, mentre il restante 65% ricada sui Länder che
hanno causato la sanzione, in proporzione alla rispettiva responsabilità oggettiva.
Sul punto cfr. Servizio Biblioteca - Ufficio Legislazione straniera, Il principio del
'pareggio di bilancio' negli ordinamenti costituzionali di Francia, Germania e Spagna,
http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/App11026.htm
111
strutturale del debito, anche se la Legge fondamentale rimette
all’autonomia normativa degli stessi la disciplina dei dettagli143.
Tale stringete disposizione nello svolgimento delle politiche di
bilancio
prevista
esclusivamente
per
i
singoli
Länder
trova
giustificazione nell’obiettivo di evitare che essi possano dichiarare il
fallimento (cd. “bailout”) e mira ad «accentuare il ruolo della Federazione
di garante delle uniformi condizioni di vita – clausola che, come è noto,
caratterizza lo stato sociale tedesco –, anche perché essa, a differenza
dei Länder, può comunque agire sul versante delle entrate
finanziarie»144.
La riformata disciplina costituzionale, inoltre, tenendo in
considerazione la dimensione ciclica, stabilisce che nella formazione del
bilancio si dovrà tenere conto delle fasi di ripresa o di declino
determinate
dagli
andamenti
congiunturali
che
deviano
dalla
normalità145; un’ulteriore ipotesi di eccezione al principio del pareggio di
bilancio è prevista nelle ipotesi di disastri naturali o emergenze
straordinarie.
Nella citata disposizione, inoltre, si prevede che le deroghe al
principio del pareggio di bilancio che determinano il superamento dei
limiti posti al ricorso al prestito dovranno essere autorizzate da una
143
Si veda l’art.109, c.3, nonché l’art.115, c.2, LF
Cfr. BIFULCO R., op. cit,. pag. 3
145
Letteralmente l'art.115, c.2, per.3, LF, recita: “Zusätzlich sind bei einer von der
Normallage abweichenden konjunkturellen Entwicklung die Auswirkungen auf den
Haushalt im Auf- und Abschwung symmetrisch zu berücksichtigen”. Più
precisamente, nelle ipotesi in cui il bilancio federale richieda il ricorso ad un
indebitamento pubblico superiore ai parametri stabiliti, gli scostamenti del ricorso
effettivo al credito dalla soglia massima consentita vengono registrati su un
apposito conto di controllo; gli addebiti che superano la soglia dell’1,5% rispetto al
prodotto interno lordo nominale devono essere quindi ridimensionati, tenuto conto
dell'evoluzione del ciclo congiunturale
144
112
deliberazione, adottata a maggioranza assoluta, del Bundestag e alla
presentazione di un piano di ammortamento.
Il Legislatore costituzionale ha poi disposto un’ulteriore deroga
alla regola del pareggio di bilancio nei confronti dei cinque Länder di
Berlin,
Bremen,
Saar,
Sachsen-Anhalt
e
Schleswig-Holstein,
predisponendo a loro vantaggio anche una serie di aiuti di
consolidamento tra il 2011 ed il 2019 per un importo totale
corrispondente ad 800 milioni di euro; la distribuzione di tali somme –
chiaramente disciplinata dall’art. 143d, c.2, L.F. – risulta subordinata alla
predisposizione di adeguate misure di riduzione dei rispettivi deficit al
fine di un rientro totale entro la fine del 2020, nonché risulta
assolutamente preclusa nel caso di dichiarate emergenze di bilancio.
Analizzando la normativa costituzionale tedesca che disciplina il
bilancio, non può non essere evidenziato il ruolo fondamentale che
viene attribuito in materia al Bundesrat, organo attraverso il quale
i Länder partecipano al potere legislativo. Ed invero, la seconda camera
interviene in un serie di ipotesi, tra cui: l’adozione delle decisioni di
somministrazione dei predetti aiuti ai cinque Länder, posto che a tali
stanziamenti deve essere presupposto un accordo amministrativo in
applicazione di una legge federale che richiede l’approvazione del
Bundesrat (Art.143d, c.2, per.3, LF); la predisposizione della disciplina
di dettaglio in materia di bilancio mediante una legge federale;
l’adozione delle due leggi che disciplinano la concreta ripartizione degli
oneri finanziari, legati ai suddetti aiuti di consolidamento, tra
Federazione e Länder (Art.143d, cc.2 e 3, LF); l’adozione delle
disposizioni volte a regolare le questioni dirette ad escludere
un’emergenza di bilancio.
113
Tali rilevanti competenze del Bundesrat permangono nonostante
la precedente riforma costituzionale del 2006 abbia di fatto limitato
l’intervento di questo organo al fine di semplificare l’iter di formazioni
delle leggi, nonché di liberare la maggioranza di governo dalle frequenti
ostruzioni realizzate dalla seconda camera – spesso caratterizzata da una
maggioranza di colore diverso rispetto a quella presente nell’asse
Governo federale – Bundestag146.
Deve inoltre essere evidenziato come il Legislatore costituzionale
– al fine di assicurare un controllo continuo sulla gestione del bilancio
federale e dei Länder – abbia attribuito ad un organo specifico, il
Consiglio di stabilità (Stabilitätsrat), il ruolo tecnico e di supporto alle
decisioni di bilancio da parte dei partiti politici; più precisamente, tale
organo è composto dal Ministro federale delle finanze, dai Ministri delle
finanze dei Länder, dal Ministro federale per l’economia e la tecnologia.
Le riunioni del Consiglio si terranno in base alla necessità, ma
almeno due volte l’anno; inoltre, per l’adozione delle decisioni – che
devono obbligatoriamente rese pubbliche – è necessario il voto della
Federazione cui devono aggiungersi i due terzi dei Länder.
Alla luce di quanto premesso, così come osservato da autorevole
dottrina, questa riforma costituisce “la prima riforma costituzionale
postnazionale”, posto che – anche se è stata indubbiamente predisposta
con riferimento ai conti pubblici interni – sembrerebbe essere stata
pensata in un’ottica europea e forse globale; ed invero, proprio
all’interno di questi più ampi livelli ordinamentali che la riforma ha
146
Cfr. ARROYO GIL A., La reforma constitucional de 2009 de las relaciones financieras entre
la Federaciòn y los Länder en la Republica Federal de Alemania, in Revista d'Estudis
Autonòmics i Federals, 10, 2010
114
finito per svolgere i propri effetti, pur se, ovviamente, in forma
indiretta147.
6. L’attuazione del federalismo fiscale in Italia alla luce dei
vincoli di origine europea. Brevi cenni sulla piattaforma
normativa italiana: prima della riforma costituzionale del
2001
Prima di analizzare le problematiche relative alla realizzazione del
federalismo fiscale in Italia a causa dei vincoli economici di matrice
europea e, soprattutto, del mancato completamento del processo di
unificazione europea, appare opportuno soffermarsi brevemente
sull’esame della piattaforma normativa su cui lo stesso si fonda.
In primis, si deve evidenziare che il federalismo fiscale è un termine
di origine anglosassone (fiscal federalism) che individua la distribuzione
delle funzioni di prelievo e di spesa tra i diversi livelli di governo in
maniera da realizzare la dimensione ottimale dei servizi pubblici nonché
il modo di ridurre le differenze delle entrate autonome rispetto alle
necessità di spesa dei governi subcentrali.
Generalmente il federalismo fiscale può essere introdotto in
qualsiasi ordinamento statale che si sviluppi su vari livelli di governo: il
governo centrale, il quale ha la sovranità legislativa e fiscale su tutto il
territorio, i governi regionali, che sono competenti per certe funzioni a
livello intermedio e i governi locali che soddisfano i ‹‹bisogni pubblici
locali››; tendenzialmente al governo centrale spetta la gestione dei servizi
147
Cfr. BIFULCO R., op. cit.
115
pubblici ad utilità indivisibile, mentre ai governi locali spettano i servizi
ad utilità localizzabile e divisibile.
Volendo trovare la definizione del federalismo fiscale è possibile
dire che si tratta della teoria che studia il decentramento delle funzioni
pubbliche secondo efficienza allocativa, sulla base dell’autonomia fiscale
ed amministrativa degli Enti locali entro i limiti della solidarietà
nazionale, la quale comporta trasferimenti perequativi.
L’attuazione di tale teoria in un ordinamento statale comporta il
rispetto di alcuni principi fondamentali: decentramento sul fronte non
solo della spesa ma anche delle entrate, diffusione multilivello dei poteri
decisionali tra i quali prevale il potere normativo d’imposizione,
maggiore responsabilizzazione politica e gestionale degli amministratori
locali148.
Altro caposaldo essenziale per la sua realizzazione è il principio di
sussidiarietà che implica un riassetto istituzionale rispondente al
modello europeo di federalismo fissato dallo stesso Trattato di
Maastricht nel quale si afferma che “lo Stato deve intervenire solo nelle
materie riguardo alle quali gli enti sottordinati, nell’ambito delle
rispettive competenze, non possono decidere ed agire con efficacia”.
Ulteriori principi su cui si basa il federalismo fiscale sono: il
principio di efficienza, in base al quale ogni amministrazione locale è
chiamata a decidere in termini di costi e benefici e quindi ad agire di
conseguenza; il principio di responsabilità, grazie al quale i cittadini
sono messi in grado di controllare, indirizzare e giudicare l’operato dei
loro amministratori per ciò che riguarda le decisioni di entrata e di
spesa; il principio di solidarietà che impone l’intervento perequativo a
favore delle regioni e degli enti locali più poveri per il finanziamento dei
148
Si esprime in questi termini GALLO F., Enciclopedia giuridica del diritto, alla voce
“Federalismo fiscale”.
116
diritti fondamentali di cittadinanza sociale. L’attuazione del principio di
responsabilità è inoltre agevolata dalla combinazione del criterio del
beneficio con quello della capacità contributiva dato che si rende
direttamente percepibile il collegamento tra i prelievi subiti ed i vantaggi
derivanti dalle spese149. È solo applicando tutti i principi citati che un
ordinamento
tributario
può considerarsi
improntato ai valori
dell’autonomia e della partecipazione democratica.
Da quanto appena detto è possibile sviluppare sinteticamente due
considerazioni. In primis, se le funzioni di spesa sono finanziate in
prevalenza attraverso i trasferimenti è possibile che l’ente locale non si
sforzi di contenere i costi nei limiti dell’efficienza tecnica; se invece a
finanziare sono i contribuenti locali lo sforzo fiscale richiesto loro li
stimolerà a vigilare che le spese vengano effettuate, conformemente alle
loro preferenze, secondo economicità. La seconda considerazione è che
applicare rigorosamente l’autonomia finanziaria porterebbe, a parità di
prestazioni, a tassare di meno i contribuenti degli enti locali più ricchi,
rispetto a quelli più poveri, data la maggiore materia imponibile. Inoltre,
gli Enti locali adempiono anche a funzioni di interesse nazionale che
sarebbe incongruo fossero finanziate dai contribuenti locali. Perciò i
trasferimenti perequativi statali sono necessari per ragioni di equità150.
Il federalismo fiscale, inoltre, deve presupporre la conquista di
valori come autonomia e trasparenza che, pur non coincidendo con la
assoluta libertà di istituire tributi con presupposti propri e diversi per
ogni regione e ogni ente locale, interpretino i principi della riserva
relativa di legge (art. 23 Cost.) e dell’autonomia finanziaria regionale
sancita dal riformato art. 119 della Costituzione in modo meno rigido e
149
Cfr. GALLO F., ibidem.
Si esprime in questi termini STEFANI G., Economia della finanza pubblica, CEDAM,
1999.
150
117
alla luce del principio comunitario di sussidiarietà (art. 3B del Trattato di
Maastricht), del principio costituzionale di autonomia politica (art. 5
Cost.) e nel senso della massima espansione del potere di
autoregolamentazione151. È necessaria quindi l’affermazione della teoria
per cui l’offerta centralizzata dei beni pubblici non è da privilegiare
perché ostacola l’adeguamento dei servizi alle esigenze locali e attenua
l’associazione tra imposte pagate e prestazione dei servizi, rendendo il
controllo politico dei cittadini-contribuenti meno diretto ed efficace152.
Ciò premesso, si deve evidenziare che Wallace Oates, uno dei
massimi studiosi mondiali del federalismo fiscale, in un suo recente
saggio ha detto che in Italia l’impulso verso la decentralizzazione si è
spinto talmente oltre da prevedere una vera e propria proposta di
separazione della nazione in due stati indipendenti153.
Tuttavia, nella prima fase economica italiana – a partire dagli anni
’70 – si è sviluppata una straordinaria combinazione tra politica e
finanza, denominabile “democrazia del deficit”, che ha portato
all’illusione che la ricchezza finanziaria non fosse una alternativa ma
addirittura la base costitutiva dello Stato sociale. Per ottenere tale
illusione il potere finanziario è stato prima manipolato da uno Stato
posto sopra il mercato, poi rafforzato dal potere di debito e da un
Parlamento che da storico controllore della spesa dei sovrani è divenuto
esso stesso il sovrano della spesa, infine usato per creare l’illusione di
uno Stato sociale non solo gratuito ma addirittura redditizio sia in
termini economici che politici. Tutto ciò si è ottenuto tramite la
151
Ibidem.
Cfr. GALLO F., ibidem.
153
Cfr. OATES W., An essay on Fiscal Federalism, in Journal of Economic Literature vol. 3,
1999. Viene infatti così tradotto dall’inglese: “And in Italy the movement toward
decentralizazion has gone so far as to encompass a serious proposal for the
separation of the nation into two independent countries”.
152
118
concentrazione del potere finanziario nel solo Stato centrale;
l’azzeramento dell’autonomia finanziaria degli enti locali trasformati in
puri centri di spesa; lo sviluppo nel modo più radicale possibile del
potere finanziario con una tassazione di tutto il prodotto redditizio e
una sua redistribuzione in forma di spesa pubblica; la costituzione di
una legislazione fiscale basata su regimi fiscali che grottescamente
costituivano a favore dell’evasore uno scudo insuperabile contro il fisco
stesso154.
In questa fase storica, dunque, le Regioni si sono così trovate
nell’impossibilità di esercitare la loro potestà tributaria garantita dalle
norme costituzionali, se non in limitati casi di autodeterminazione delle
aliquote; in questo modo, le sole entrate tributarie attribuite alle stesse
dalla legge n. 281/70 erano costituite da forme di sovraimposizione o
scomposizione di tributi nazionali allora vigenti, con un rilievo
quantitativo marginale155.
Le finalità di un modello finanziario così distaccato dai precetti
costituzionali sono da rintracciare nell’idea che solo in questo modo era
possibile porre sotto controllo l’evoluzione della spesa e raggiungere
livelli uniformi di offerta di servizi essenziali sul territorio nazionale.
Tuttavia, questo modello, non si è rivelato sicuramente efficace
rispetto all’obbiettivo dell’eguaglianza nel godimento dei diritti sociali;
infatti, nonostante livelli di spesa uniformi sul territorio nazionale, sono
rimaste profonde divergenze nella qualità di tali servizi tra Nord e Sud.
154
Cfr TREMONTI G. e VITALETTI G., Il federalismo fiscale, Laterza, Bari, 1994
È opportuno sottolineare come il completamento dell’ordinamento regionale si
sia realizzato solo con la legge delega del 22 luglio 1975 n. 382 e con il
conseguente D.P.R. 24 luglio 1977, n. n. 616 il quale ampliò le funzioni regionali e
locali forse oltrepassando il limite delle materie, comunque legittimamente, per
pacifica giurisprudenza costituzionale. Tuttavia, lo Stato si riprese ben presto parte
delle attribuzioni trasferite o delegate attraverso numerose leggi di settore.
155
119
Altro effetto negativo fu la forte deresponsabilizzazione delle
Regioni che spendevano più di quanto assegnato, sapendo che lo Stato
centrale sarebbe poi intervenuto ex post per ripianare i debiti contratti.
Solo a partire dagli anni ’90, con la percezione del totale fallimento
del modello centralizzato, si ebbero le prime riforme in materia fiscale. I
primi interventi legislativi (l. n. 398/90, d.lgs. n. 502/92, l. n. 549/95)
mirarono all’introduzione di addizionali regionali, alla regionalizzazione
dei contributi sanitari e, infine, alla soppressione di tutti gli storici fondi
di trasferimento, ad eccezione del Fondo sanitario nazionale, che
vennero sostituiti con un Fondo perequativo di tipo verticale non
vincolato e con una compartecipazione all’accisa sulle benzine. La vera
svolta si è però avuta solo con l’emanazione del d.lgs. n. 446/97 che ha
introdotto l’IRAP, l’addizionale IRPEF e contemporaneamente abolito i
contributi sanitari e altri tributi locali e nazionali (ILOR, ICIAP,
imposta sul patrimonio netto delle imprese, tassa di concessione
governativa sulla partita IVA, tasse di concessione comunale). In questo
modo si sarebbe dovuto garantire alle Regioni maggiori margini di
autonomia. Tuttavia, una serie di discrasie impositive combinate al
minor gettito ottenuto dall’IRAP nella sua prima fase applicativa
rispetto alle previsioni, hanno determinato una divaricazione tra i
principi che volevano guidare la riforma e le concrete realizzazioni
dell’autonomia impositiva. In particolare, è rimasta insoluta la
contraddizione tra un modello centralistico di sanità e l’attribuzione del
suo finanziamento e della sua gestione alle Regioni.
Fondamentale per la conclusione del periodo di riforme degli anni
’90 e per l’attuazione di un primo vero decentramento fiscale, fu la legge
delega n. 133 del 1999. Tramite questa si volle soddisfare due esigenze
fondamentali: garantire certezza riguardo alle risorse disponibili,
120
allentando la dipendenza dai trasferimenti erariali, e costruire un sistema
di perequazione che realizzasse in modo trasparente gli obiettivi di
solidarietà interregionale156. A tale legge delega il Governo ha dato
attuazione con il d.lgs. n.56/2000, intitolato “Disposizioni in tema di
federalismo fiscale”; con questa riforma si è ottenuto sia un consistente
aumento dell’autonomia regionale, sia una corretta interpretazione
dell’art. 119 Cost.
Altro aspetto fondamentale del nuovo sistema di autonomia
finanziaria regionale è stato quello del nuovo meccanismo di
perequazione. Al fine di garantire la realizzazione di obiettivi di
solidarietà interregionale è stato, infatti, istituito il Fondo perequativo
nazionale destinato ad essere alimentato dalla compartecipazione
all’IVA, e strutturato in base alla popolazione residente, alla capacità
fiscale, ai fabbisogni sanitari e alla dimensione geografica di ogni
Regione. Proprio questo sistema perequativo è stato segnato, quindi, da
una significativa evoluzione, risultando ora basato su criteri noti alla
teoria economica e non più su una redistribuzione in base alla spesa
storica e su una logica di uniformità finanziaria. È stato così
riconosciuto per la prima volta il “valore della differenza”, essendo stato
156
La legge delega individuava cinque punti fondamentali: abolizione dei
trasferimenti alle Regioni a statuto ordinario, salvo specifiche eccezioni; sostituzione
dei finanziamenti soppressi con un aumento dell’addizionale IRPEF e dell’aliquota
dell’accisa sulle benzine, nonché attraverso l’istituzione di una compartecipazione
IVA; definizione delle linee essenziali di un nuovo modello perequativo da
strutturarsi attraverso meccanismi rapportati alla capacità fiscale relativa ai principali
tributi e alle compartecipazioni ai tributi erariali, alla capacità di recupero
dell’evasione fiscale e al grado di copertura dei bisogni sanitari; istituzione di un
Fondo perequativo nazionale, la cui fonte di finanziamento viene indicata nella
compartecipazione IVA ed eventualmente nella quota di compartecipazione
all’accisa sulla benzina; rimozione dei vincoli di destinazione delle risorse proprie
regionali (IRAP e addizionale IRPEF) anche sul versante della sanità.
121
stabilito che le discrasie di basi imponibili tra le diverse Regioni non
devono essere livellate, ma solo perequate.
Nel complesso il d.lgs. n. 56 del 2000 ha quindi determinato un
importante passo avanti nel processo del regionalismo italiano: il
sistema dell’autonomia finanziaria ha infatti ricevuto, dopo diversi
decenni, una configurazione aderente al dettato costituzionale, idonea a
garantire alle Regioni, sul piano teorico, una autonomia di spesa non
inferiore a quella dei livelli intermedi operanti nella maggior parte degli
ordinamenti federali157.
Tuttavia, nonostante questi importanti passi avanti, sono rimasti
vari problemi applicativi e aspetti critici. Il principale di questi riguarda
proprio il sistema perequativo che sembra assumere un carattere ibrido,
non essendo strutturato come un reale sistema orizzontale. È mancata,
infatti, l’istituzione di un organo politico che fosse capace di gestire e
superare il conflitto distributivo e di garantire la rappresentanza degli
interessi coinvolti.
6.1 Dopo la riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione:
dal vecchio al nuovo testo dell’art. 119.
Il processo di federalismo italiano ha compiuto, anche se con il
permanere di notevoli contraddizioni, un notevole salto in avanti con
l’approvazione della l. cost. n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della
Parte seconda della Costituzione italiana, seguita al referendum
confermativo del 7 ottobre 2001.
157
Così, BUGLIONE, Le deleghe sul federalismo fiscale. Verso Regioni più autonome o
più autoreferenti?, in Le istituzioni del federalismo 1999, 591.
122
Le modifiche introdotte rispetto al vecchio testo della Costituzione
sono numerose e riguardano, tra le altre: la ripartizione dei poteri
legislativi e dei poteri di amministrazione tra i diversi livelli di governo
presenti in Italia; i mezzi di finanziamento di Regioni ed enti locali e le
regole di perequazione; la possibilità di forme di autonomia
differenziata per le Regioni a statuto ordinario.
Per alcuni aspetti, il nuovo testo della Costituzione propone novità
che non trovano riscontro nel testo del 1948. Si tratta delle attribuzioni
alle Regioni della competenza esclusiva su alcune fondamentali materie,
dell’utilizzo di regole finanziarie uniformi per tutti i livelli di governo
(Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), nonché della
opzione per forme di autonomia differenziata e della attribuzione delle
funzioni amministrative, in via prioritaria, agli enti locali, Comuni in
particolare, in attuazione del principio comunitario della sussidiarietà.
Per altri aspetti, le innovazioni proposte dalla riforma hanno solo
natura evolutiva. Le materie a legislazione concorrente, per le quali le
Regioni sono chiamate a rispettare i principi fondamentali fissati dalla
legislazione statale, assumono così un ruolo di maggiore rilievo, le
regole di perequazione sono ridefinite e le conseguenze delle diversità
economiche nelle diverse Regioni sono affrontate con nuovi criteri.
La grande bipartizione sancita dalla nuova formulazione dell’art.
117 Cost. tra legislazione esclusiva e legislazione concorrente, di fatto,
aumenta significativamente la potestà legislativa delle Regioni, essendo
ora la potestà legislativa esclusiva dello Stato circoscritta alle materie
elencate nel secondo comma. Interviene, inoltre, il nuovo art. 120 Cost.
che riserva allo Stato centrale tutte quelle materie concernenti i diritti
civili e sociali che attengono alla determinazione e alla tutela dei livelli
123
essenziali di prestazioni che devono essere garantiti indistintamente a
tutti i cittadini ovunque essi risiedano.
Si può ritenere che, dopo la riforma costituzionale del 2001, i
poteri delle regioni a statuto ordinario risultano notevolmente ampliati;
in particolare l’art. 117 Cost. attribuisce loro in via esclusiva una potestà
legislativa residuale “per ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”.
Uno
dei
principali
motivi
ispiratori
dell’intera
riforma
costituzionale è stato sicuramente quello di adeguare la finanza delle
Regioni e degli Enti locali a regole più direttamente riconducibili
all’istituto del federalismo fiscale. Innovazione fondamentale, infatti, è
quella contenuta dall’art. 119 Cost., contenente i principi finanziari che
regolano la finanza delle regioni e degli Enti locali, che introduce il
principio della “territorialità dell’imposta”; in questo modo, nelle
intenzioni del legislatore costituzionale, detti Enti territoriali dovrebbero
sostenersi con mezzi propri e cioè tramite l’esercizio di una autonoma
attività di imposizione tributaria posta in essere sul proprio territorio.
L’originaria formulazione dell’art. 119 della Costituzione attribuiva
alle Regioni ‹‹autonomia finanziaria›› non precisando però se questa
fosse riferita alle entrate, alle spese o ai saldi di bilancio. In questo
modo, grazie anche alla prudenza della Corte costituzionale,
nell’interpretare tale nozione di autonomia finanziaria si è sempre
riconosciuto al legislatore nazionale il potere di fissare dei limiti
nell’impostazione dei bilanci regionali, soprattutto nei casi in cui le
norme statali erano finalizzate al raggiungimento di obbiettivi macroeconomici sui saldi di bilancio del settore pubblico, sulla crescita delle
spese o sull’aumento delle entrate fiscali.
124
Nel nuovo testo, dopo le parole ‹‹autonomia finanziaria›› sono
aggiunte le parole ‹‹di entrata e di spesa››. Non è molto chiaro cosa si
intenda con questa qualificazione dato che le parole ‹‹autonomia
finanziaria›› si riferiscono, nell’impiego che comunemente si fa di
quest’espressione, sia alle entrate che alle spese e quindi anche alle
procedure di formazione e gestione del bilancio. Forse, con queste
parole aggiuntive, si vuole sottolineare che nella nozione di autonomia
finanziaria deve essere inclusa anche l’autonomia impositiva, una
precisazione diretta ad evitare che lo Stato assegni tributi propri alle
Regioni, senza consentire loro di disporre di autonomia e flessibilità
nella fissazione delle aliquote, o anche nella determinazione delle basi
imponibili.
Tuttavia, nel nuovo testo permangono dei limiti all’autonomia
finanziaria derivanti dalle norme sul coordinamento. Mentre il vecchio
testo prevedeva che l’autonomia finanziaria delle Regioni fosse
coordinata con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni
attraverso forme e limiti stabiliti da leggi della Repubblica, peraltro mai
emanate se non facendo ricorso volta per volta alle singole leggi
finanziarie, il nuovo testo dell’art. 119 Cost. prevede una forma di
coordinamento verticale in base alla quale ‹‹Le Regioni hanno risorse
autonome (…) secondo i principi di coordinamento della finanza
pubblica››. Non sembra che questa espressione intacchi in modo
rilevante il preesistente rapporto tra autonomia finanziaria e principi di
coordinamento. Non è venuto meno, infatti, il potere del legislatore
nazionale di indirizzare, per ragioni di governo dei flussi finanziari del
settore pubblico, le politiche di bilancio delle Regioni o di condizionare
la struttura formale dei bilanci regionali.
125
È interessante evidenziare che la materia del coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario appartengono alla competenza
legislativa concorrente delle Regioni. Tuttavia è impossibile immaginare
un doppio regime di legislazione in materia dato che mancano gli spazi
materiali per avere un ulteriore livello di legislazione regionale, oltre
quello statale, sul medesimo argomento.
Punto fondamentale della riforma costituzionale è quello che
riguarda l’autonomia tributaria. Il vecchio testo, nonostante avesse
attribuito alle Regioni, tra le loro fonti di entrata, tributi propri, non ha
mai consentito in concreto una vera autonomia dal momento che
l’unica forma di flessibilità riguardava la possibilità di manovrare le
aliquote all’interno di un intervallo definito da un valore minimo e uno
massimo158; solo negli anni più recenti è stato consentito alle Regioni di
intervenire anche su qualche aspetto della determinazione della base
imponibile e della individuazione dei soggetti all’obbligo tributario. Il
nuovo testo, invece, si esprime con un linguaggio più forte affermando
il principio che gli enti decentrati ‹‹dispongono di risorse autonome,
stabiliscono e applicano tributi propri››. Il passaggio dalla forma passiva
del vecchio testo (‹‹alle Regioni sono attribuiti››) a quella attiva del
nuovo art. 119 Cost. (‹‹le Regioni stabiliscono››) sembrerebbe deporre a
favore del riconoscimento alle Regioni della possibilità di introdurre
autonomamente, a prescindere cioè da una legge statale, nuovi tributi.
In altre parole, la tesi della non necessità della legge statale istitutiva, che
sotto la vigenza del vecchio testo appariva altamente problematica,
sembrerebbe ricevere un maggior supporto testuale. Tuttavia, come già
detto, tale impostazione deve essere ridimensionata dalla riserva allo
Stato dei principi fondamentali del coordinamento tributario regionale;
158
Cfr. GIARDA P., Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte
alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 6/2001, pag. 1434.
126
permane la possibilità per le regioni di istituire tributi regionali alle sole
basi imponibili non soggette a tassazione da parte dello Stato.
A conferma di questa supposizione, inoltre, si deve considerare
che il testo del comma 2 dell’art. 119 Cost., nel prevedere la possibilità
di stabilire e applicare tributi ed entrate proprie non è riferita solo alle
Regioni ma anche agli altri enti locali, i quali non avendo potestà
legislativa non possono essere titolari di quella potestà impositiva
riservata dall’art. 23 Cost. ai soggetti titolari di potestà legislativa.
Bisogna così escludere che la disposizione del comma 2 possa avere il
significato di legittimare un autonomo potere di istituzione di tributi a
favore di tutti gli enti territoriali autonomi in esso menzionati (Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni); il potere impositivo delle
Regioni deve invece essere ricavato dal riferimento ai soli tributi statali
contenuto nella lett. e) del comma 2 dell’art. 117 Cost. e dal generale
rovesciamento del criterio della residualità in relazione alla potestà
legislativa. Dall’analisi dell’art. 119 Cost., in particolare, è pacifico che il
finanziamento delle autonomie locali è destinato a compiersi
principalmente attraverso i tributi istituiti con legge statale, se non per
alcuni margini di ulteriore autonomia lasciati aperti dai principi del
coordinamento statale e dalla previsione della potestà legislativa
regionale residuale.
Ulteriori spazi, inoltre, sembrano ricavarsi dal nuovo testo laddove
aggiunge l’espressione ‹‹applicano›› a quella ‹‹stabiliscono››: è possibile
che con questa formulazione si sia voluta riconoscere alle Regioni
un’autonomia tributaria estesa anche ad aspetti della politica fiscale e a
fasi del procedimento del prelievo (liquidazione, riscossione ed
accertamento), sempre nei limiti stabiliti dai principi statali di
coordinamento.
127
Altra importante differenza tra la vecchia e la nuova formulazione
dell’art. 119 Cost. riguarda l’attribuzione alle Regioni di ‹‹quote di tributi
erariali››, prima della riforma, e la ‹‹compartecipazione al gettito di tributi
erariali riferibili al loro territorio››, dopo la riforma. Se ad una prima
analisi le due espressioni potrebbero sembrare simili, in realtà sono
molte le differenze; la prima, infatti, ha un carattere più generale della
seconda. La nuova formulazione prevede che il gettito tributario
complessivo deve essere prima ripartito su base regionale e poi essere
assegnato, data l’aliquota di compartecipazione, alle singole Regioni o
enti locali. Tuttavia, questa nuova disposizione, per essere attuata
necessita di una legge ordinaria che definisca meglio cosa bisogna
intendere con l’espressione ‹‹riferibili al loro territorio››; non è ben
chiaro, infatti, se si vuole fare riferimento al gettito prodotto nel
territorio regionale dalle attività localizzate nella Regione, al gettito
associabile al reddito dei cittadini residenti nella Regione o al gettito
riscosso nella Regione.
Proseguendo con l’analisi dell’art. 119 Cost., si nota come il terzo
comma abbia stravolto i criteri di perequazione. Il vecchio testo, infatti,
era caratterizzato da un criterio per cui i proventi delle quote dei tributi
erariali dovevano essere accantonati in un Fondo perequativo da
ripartire tra le Regioni, in modo da garantire che per ciascuna di esse, la
somma delle entrate proprie e della quota di tale fondo consentisse di
finanziare le spese necessarie a soddisfare i ‹‹bisogni››; la nuova
formulazione, invece, fa riferimento a un criterio legato alle capacità
fiscali per abitante e caratterizzato dal fatto che il gettito dei tributi
propri e delle compartecipazioni affluisce alle Regioni ove i redditi sono
prodotti, anziché affluire ad un fondo accantonato sul bilancio statale.
In questo modo, i proventi delle compartecipazioni al gettito dei tributi
128
erariali non sono più la fonte di alimentazione del fondo perequativo da
ripartire in base ai ‹‹bisogni››, ma concorrono essi stessi a formare quelle
diversità nelle entrate pro-capite delle diverse Regioni o territori, che
devono essere corrette dall’azione del fondo perequativo. Tuttavia, la
norma costituzionale nulla dice riguardo le modalità di funzionamento
dello stesso; ci si chiede, infatti, se le quote del fondo devono eliminare
o solo ridurre le differenze di entrata causate dalle differenze
interregionali nella capacità fiscale. Nonostante questo, una lettura
combinata nel nuovo testo del secondo e del terzo comma dell’art. 119
Cost. porta al convincimento che il costituente abbia inteso conservare,
almeno in parte, le differenze nei gettiti pro-capite prodotti dalla
diversità delle basi imponibili dei tributi regionali. Sarebbe una vera
contraddizione
avere
introdotto
il
criterio
di
attribuire
le
compartecipazioni alle singole Regioni in relazione al gettito prodotto
nei loro territori per poi eliminare, con le quote del fondo perequativo,
le differenze interregionali che derivano dalla sua applicazione.
Passando ora all’analisi del quarto comma del riformato art 119,
possiamo affermare che questo può essere correttamente interpretato
solo grazie alla coerenza tra il 2° e il 3° comma dello stesso articolo.
Solo così, infatti possiamo affermare che la norma, nell’affermare che
‹‹Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono
ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di
finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite››, si
riferisce all’insieme degli enti citati nell’articolo piuttosto che a ciascuno
di questi. Deve quindi essere il sistema regionale nel suo complesso a
ricevere finanziamenti adeguati a coprire i costi di produzione e di
attivazione delle funzioni sulla base di livelli di spesa definiti prima del
trasferimento delle funzioni alle Regioni. Non sarebbe ipotizzabile
129
invece la tesi contraria e cioè che la somma di tributi propri,
compartecipazioni e fondo perequativo, deve finanziare integralmente i
livelli di spesa delle singole Regioni; in questo modo, infatti, non si
saprebbe su quale base calcolarli con il rischio di riportare le nuove
regole di finanziamento verso quelle previste dal vecchio testo preriforma.
Andando avanti in questa rapido studio del nuovo art. 119 della
Costituzione non si può non focalizzare l’attenzione sui contributi
speciali previsti dal quinto comma. Anche in questo caso la riforma è
servita per dare maggiore incisività a questa forma di intervento centrale
dal momento che, il vecchio testo, troppo debole e generico in questa
materia, non aveva consentito alcuna forma di attuazione legislativa. Nel
nuovo testo, invece, tali contributi speciali hanno un rilievo particolare
in relazione al fatto che devono essere destinati a provvedere a scopi
diversi dal normale esercizio delle funzioni regionali, promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale rimuovendo nel
contempo gli squilibri economici e, infine a favorire l’effettivo esercizio
dei diritti della persona. I contributi speciali non sono più il risultato di
una formula di perequazione delle capacità fiscali, ma esprimono
l’interesse dello Stato nelle attività di spesa e nei servizi erogati dalle
Regioni sulla base di una valutazione dei ‹‹bisogni›› del cittadino e dei
territori. Le finalità che il nuovo testo assegna ai contributi speciali
consentono anche di precisare che le risorse dello Stato destinate a
finanziare il normale esercizio delle funzioni regionali devono tradursi
in contributi senza vincolo di destinazione. In via pratica, il ‹‹normale
esercizio›› delle funzioni previsto dal quinto comma, sembra fare
riferimento a una nozione di standardizzazione dei livelli di attivazione
delle funzioni attribuite, per quanto attiene sia ai livelli quantitativi sia
130
agli aspetti qualitativi. Essendo caduto il riferimento ai ‹‹bisogni››
presente nel vecchio testo, non c’è più ragione di imporre vincoli di
destinazione sulle quote del fondo perequativo assegnate alle Regioni
più povere. Non avrebbe senso lasciare alle Regioni più ricche, che si
finanziano con tributi propri e compartecipazioni, piena autonomia
nell’utilizzo delle loro risorse e imporre alle Regioni più povere, che
dipendono dalle quote del fondo perequativo per l’esercizio delle loro
funzioni, vincoli di destinazione sulle risorse assegnate. I vincoli di
destinazione sono propri di finanziamenti statali assegnati sulla base dei
‹‹bisogni››.
L’ultimo comma dell’art. 119, infine, statuisce che Regioni ed Enti
locali possono ricorrere al debito solo per finanziare spese
d’investimento; viene così introdotta la golden rule. È quindi esclusa la
possibilità per le Regioni di contrarre mutui per finanziare spese
correnti, incluse le spese per il ripiano dei disavanzi di aziende sanitarie
e aziende di trasporto. Sono varie le ragioni teoriche che giustificano
questa regola. La più antica si basa sull’idea che l’investimento dovrebbe
essere in grado di generare maggiori entrate attraverso le tariffe per l’uso
dell’infrastruttura; le tariffe consentirebbero di pagare il servizio del
debito senza aggravi di tassazione sulle generazioni future di
contribuenti. La seconda ragione è che il bene capitale, quand’anche
non generasse ricavi monetari, produce utilità ripetuta nel tempo ed è
quindi corretto che il suo costo sia ripartito, attraverso le maggiori
imposte richieste per il servizio del debito, anche sulle generazioni
future.
L’art. 119 conclude con il riconoscimento alle Regioni ed agli Enti
locali di un loro patrimonio derivante dallo sfruttamento e dalla
131
dismissione dei relativi beni. Il sesto comma, inoltre, impedisce anche
allo Stato di concedere alle Regioni garanzie sui prestiti da loro contratti.
Dopo questa analisi del riformato art 119 della Costituzione, in
sintesi è possibile affermare che in esso vengono definite regole di
finanziamento delle Regioni a statuto ordinario che si caratterizzano:
per la accentuazione, rispetto al vecchio testo, del ruolo delle entrate
proprie; per la precisazione che le compartecipazioni al gettito dei
tributi erariali affluiscono alle Regioni nel cui territorio sono prodotte;
per la definizione di un principio di solidarietà interregionale basato
sulla perequazione delle capacità fiscali; per la scelta di finanziare la
perequazione attraverso le quote di un fondo perequativo da attribuire
alle Regioni più povere senza vincolo di destinazione; per la mancanza
di un criterio quantitativo sulla misura della perequazione; per
l’individuazione di contributi speciali, aggiuntivi rispetto alle entrate
derivanti dai tributi propri, dalle compartecipazioni e dalle quote del
fondo perequativo, diretti a favorire l’effettivo esercizio dei diritti della
persona e a ridurre gli squilibri economici territoriali; per il
mantenimento di una posizione equivoca sul finanziamento del
‹‹normale esercizio›› delle funzioni; per l’incertezza se l’effettivo
esercizio dei diritti della persona e la riduzione degli squilibri territoriali
debbano o possano essere considerati obiettivi esterni al ‹‹normale
esercizio›› delle funzioni; per l’incertezza che le varie disposizioni
determinano sulla scelta dello schema di perequazione, se di tipo
‹‹orizzontale›› o ‹‹verticale››159.
159
Cfr. GIARDA P., cit., pag. 1449.
132
7. Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in
attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.
Alla luce di quanto premesso, appare evidente che il novellato
testo dell’art. 119 Cost., oltre a stabilire che le Regioni e gli enti locali
sono dotate di autonomia finanziaria di entrata e di spesa, prevede un
sistema strutturato sul principio del finanziamento integrale delle
funzioni attribuite da parte dei diversi livelli di governo con l’aggiunta di
alcuni correttivi di tipo perequativo; si stabiliscono, inoltre, risorse
aggiuntive ed interventi speciali in favore di singoli enti territoriali o di
gruppi di enti territoriali.
Ed ancora, in seguito alla riforma costituzionale, Comuni,
Province, Città metropolitane e Regioni risultano dotati di un proprio
patrimonio attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge
dello Stato; è stato altresì riconosciuta l’autonomia finanziaria anche nei
confronti degli enti locali, nonché l’apertura ad un modello di
federalismo fiscale di tipo solidale.
In virtù di quanto previsto dal combinato disposto degli articoli
117 e 119 della Costituzione, mentre è di competenza esclusiva statale la
potestà legislativa in materia di sistema tributario e contabile dello Stato
e di perequazione delle risorse finanziarie, risulta invece di competenza
concorrente la materia del coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario.
Pertanto, così come evidenziato dalla Corte costituzionale, risulta
evidente la necessità di un basilare intervento da parte del legislatore
statale che “al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà
non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi,
133
ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e
definire gli spazi ed i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà
impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed enti locali”160.
Tuttavia la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 102/2008,
ha fatto segnare un passo in avanti verso la possibilità per le Regioni a
statuto speciale di istituire tributi “propri”; in particolare, è significativo
il passaggio in cui la sentenza precisa che mentre “lo Stato ha
competenza legislativa esclusiva in materia di sistema tributario dello
Stato”, le Regioni hanno “potestà legislativa esclusiva nella materia
tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato, con
riguardo, beninteso, ai presupposti d’imposta collegati al territorio di
ciascuna Regione e sempre che l’esercizio di tale facoltà non si traduca
in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle
cose tra le Regioni (art. 117, quarto comma, e 120, primo comma,
Cost.)”. La sentenza, riconoscendo una competenza legislativa esclusiva
regionale nelle materia tributaria non espressamente riservata allo Stato,
afferma quindi l’esistenza di una pluralità di sistemi o sottosistemi
tributari161, derivante dalla circostanza che la competenza esclusiva
statale appare limitata solo al sistema tributario dello Stato e ai principi
fondamentali del coordinamento del sistema tributario tout court162.
Da qui deriva un’altra importante ed inedita precisazione: quella
per cui fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento
alle Regioni a Statuto ordinario è fatto “divieto di istituire o disciplinare
160
Cfr. sentenza n. 37/2004 della Corte costituzionale. Sul punto di veda BRANCASI
A., La finanza regionale e locale nella giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della
Costituzione, in Dir. Pubbl., 2007.
161
Cfr. GALLO F., Prime osservazioni sul nuovo art. 119 della Costituzione, in Rassegna
tributaria, 2/2002, 589 ss.
162
Si esprime in questi termini ANTONINI L., La Corte costituzionale definisce contenuti e
limiti dell’autonomia impositiva delle Regioni con la sentenza n. 102/2008, in Federalismo
fiscale, 2/2008.
134
tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso
presupposto”. Non si tratta di una precisazione scontata, se viene
considerata per quello che non dice. La sentenza, infatti, riconosce
implicitamente alle Regioni ordinarie la possibilità di istituire tributi
propri pur nelle “limitate ipotesi di tributi propri aventi presupposti
diversi da quelli dei tributi statali […] in forza del quarto comma dell’art.
117 Cost., anche in mancanza di un’apposita legge statale di
coordinamento, a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia
con la Costituzione, rispettino ugualmente i principi dell’ordinamento
tributario, ancorché solo ‹‹incorporati››, per così dire, in un sistema di
tributi sostanzialmente governati dallo Stato (in tal senso, ancora, la
sentenza n. 37 del 2004, nonché, in via generale, la sentenza n. 282 del
2002)”.
La precisazione, quindi, assume un carattere di fondamentale
importanza dal momento che la giurisprudenza costituzionale non
aveva mai esplicitato la possibilità di legiferare nell’ambito dei tributi
propri in assenza delle legge statale di coordinamento. Sul solco di
questa precisazione s’indirizza anche la legge delega sul federalismo
fiscale, che riconosce un notevole margine di manovra a Regioni ed
Enti locali riguardo ai tributi propri, sia derivati che autonomi: anche in
relazione ai primi si prevede infatti una rilevante possibilità di manovra
riguardo ad aliquote, deduzioni, detrazioni e specifiche agevolazioni.
Ed è in tale contesto che il 29 Aprile del 2009 è stato
definitivamente approvato dal Senato il disegno di legge sul federalismo
fiscale tanto atteso quanto discusso negli ultimi anni.
Oltre che di grande importanza per i suoi contenuti, tale legge
delega ha un valore fondamentale anche dal punto di vista politico;
l’approvazione è infatti seguita a un largo consenso parlamentare, un
135
lungo dialogo con le Regioni e gli Enti locali, e non a un colpo di mano
della maggioranza163. Dietro questo largo favore vi sono almeno due
buone ragioni: l’opinione condivisa sulla necessità, non più rinviabile, di
attuare la principale leva della riforma federale del 2001; la
consapevolezza, altrettanto diffusa, che si tratta solo di un piano di
lavoro, perché i contenuti essenziali dovranno essere scritti in un
secondo momento.
Prima di procedere con l’analisi della citata legge delega, appare
opportuno premettere che in Italia il federalismo è partito prima con la
legge Bassanini che ha attuato un decentramento amministrativo con un
vero e proprio rovesciamento della clausola della residualità, e poi con
la riforma costituzionale del Titolo V, Parte II della Costituzione che ha
attuato il decentramento legislativo. La situazione che si è così realizzata
è stata segnata da un decentramento molto forte, al pari di altri Paesi
come il Canada, non supportato dagli strumenti necessari per gestirlo; è
infatti mancato un Senato federale espressione delle Regioni (elemento
questo che ha prodotto l’esplosione del contenzioso costituzionale) e un
federalismo fiscale. Situazione questa, analoga a quella spagnola postfranchista, segnata dal dissesto dei conti pubblici e risolta proprio con
l’introduzione del federalismo fiscale.
Anche in Italia, dunque, si è resa indispensabile una struttura
finanziaria decentrata che segua la ripartizione delle competenze
amministrative e legislative dato che non può più funzionare un sistema
in cui lo Stato copre sempre i deficit finanziari delle Regioni con una
163
Si noti ad esempio che le fondamentali riforme costituzionale del 2001 e del
2005, che hanno stravolto l’assetto istituzionale in seguito a importantissime
modifiche, sono state approvate solo per pochi voti a favore e non sulla base di
un largo consenso parlamentare. L’approvazione delle leggi a colpi di maggioranza
nonché la continua delegittimazione con la ripetuta corsa alla cancellazione delle
riforme fatte precedentemente dall’avversario politico, sono stati gli elementi
caratterizzanti della seconda Repubblica, con un grave danno per il Paese.
136
conseguente e continua deresponsabilizzazione degli amministratori
locali164; è di fondamentale importanza quindi ripristinare un legame tra
responsabilità finanziaria e responsabilità politica che consenta ai
cittadini di esercitare un potere di controllo.
L’ambito di intervento della legge delega sul federalismo fiscale è
identificato dal suo art. 1 nel quale, appunto, si afferma che “La
presente legge costituisce attuazione dell’art. 119 della Costituzione,
assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città
metropolitane e garantendo i principi di solidarietà e coesione sociale, in
maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il
criterio della spesa storica e di garantire la loro massima
responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo
democratico nei confronti degli eletti”. Già in questo primo articolo si
registra la prima coordinata fondamentale della legge e cioè il passaggio
dalla spesa storica al costo standard per il finanziamento delle funzioni
di Regioni ed Enti locali. Questo principio viene poi ribadito anche
dall’art. 2, secondo comma, lett. l) in base al quale tra i criteri e principi
direttivi generali vi è appunto il “superamento graduale, per tutti i livelli
istituzionali, del criterio della spesa storica a favore: 1) del fabbisogno
standard per il finanziamento dei livelli essenziali di cui all'articolo 117,
secondo comma, lettera m), della Costituzione, e delle funzioni
fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera p), della
Costituzione; 2) della perequazione della capacità fiscale per le altre
funzioni”. In particolare, in base alla spesa storica si considera quanto è
stato speso in passato per la produzione di quel determinato servizio e
su questa cifra si baserà il finanziamento dello stesso per l’anno
164
Tale deresponsabilizzazione degli amministratori degli enti locali è legata anche
alla abolizione dei controlli sulle delibere comunali in seguito alla riforma del
Titolo V.
137
successivo; il costo standard, invece, identifica la somma per il
finanziamento di un determinato servizio facendo riferimento alla
media del prezzo o del costo dello stesso a livello nazionale. In questo
modo non verranno più finanziate le inefficienze dato che se una
Regione vorrà continuare a produrre un servizio non efficiente dovrà
provvedere a finanziarlo tramite un aumento della pressione fiscale a
livello locale tenendo conto di tutte le conseguenze che ne
seguiranno165. Ed ancora, la legge in esame “reca disposizioni volte a
stabilire in via esclusiva i principi fondamentali del coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il
funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore
capacità fiscale per abitante nonché l’utilizzazione delle risorse
aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119,
quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree
sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo
economico del Paese”.
Passando ora all’esame dell’art. 2 della legge in esame si nota come
il Legislatore si sia preoccupato di fissarne i principi e i criteri direttivi
principali; della lunga elencazione fatta dal legislatore è opportuno
evidenziare i seguenti punti: “autonomia di entrata e di spesa e maggiore
responsabilizzazione amministrativa, finanziaria e contabile di tutti i
livelli di governo”; “attribuzione di risorse autonome ai comuni, alle
province, alle città metropolitane e alle regioni, in relazione alle
rispettive competenze, secondo il principio di territorialità e nel rispetto
del principio di solidarietà e dei principi di sussidiarietà, differenziazione
165
In questo modo saranno poi i contribuenti locali a valutare la necessità della
spesa e la sua efficienza avendo così un vero potere di controllo; viene creato così
un legame tra la responsabilità finanziaria e quella politica dal momento che alla
fine del mandato gli amministratori locali saranno rieletti se hanno fatto bene o
sostituiti nel caso contrario.
138
ed adeguatezza di cui all'articolo 118 della Costituzione; le risorse
derivanti dai tributi e dalle entrate propri di regioni ed enti locali, dalle
compartecipazioni al gettito di tributi erariali e dal fondo perequativo
consentono di finanziare integralmente il normale esercizio delle
funzioni pubbliche attribuite”; “prevedere l’obbligo di pubblicazione su
siti internet dei bilanci delle regioni, dei comuni, delle province e delle
città metropolitane, tali da riportare in modo semplificato le entrate e le
spese pro capite secondo modelli uniformi concordati in sede di
Conferenza unificata”; “previsione che la legge regionale possa, con
riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello
Stato: 1) istituire tributi regionali e locali; 2) determinare le variazioni
delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città
metropolitane possono applicare nell'esercizio della propria autonomia
con riferimento ai tributi locali di cui al numero 1); 3) valutare la
modulazione delle accise sulla benzina, sul gasolio e sul gas di petrolio
liquefatto, utilizzati dai cittadini residenti e dalle imprese con sede legale
e operativa nelle regioni interessate dalle concessioni di coltivazione di
cui all'articolo 19 del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625”;
“individuazione, in conformità con il diritto comunitario, di forme di
fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove
attività di impresa nelle aree sottoutilizzate”.
In particolare,
quest’ultimo punto consentirebbe l’introduzione nel nostro sistema
della fiscalità di vantaggio; si tratta di uno strumento fondamentale
tramite il quale si cerca di attrarre le imprese nelle zone meno sviluppate
del Paese grazie a forme di detassazione, deduzioni, esenzioni o di altre
forme di agevolazioni fiscali. In questo modo le imprese italiane non
avranno più interesse a spostarsi in Stati esteri con minore pressione
fiscale, essendo sufficiente il trasferimento nella Regione che offre il
139
trattamento finanziario migliore con un conseguente beneficio sia per la
Regione stessa che ha tratto capitali, sia per lo Stato che non li ha
persi166.
Passando ora all’analisi del cuore della legge delega per l’attuazione
del federalismo fiscale in Italia – descritta dal Capo secondo – appare
opportuno evidenziare temi fondamentali tra i quali la determinazione
dei principi e dei criteri direttivi relativi ai tributi delle Regioni, alle
compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, alla determinazione
dell’entità e del riparto del fondo perequativo a favore delle Regioni
stesse.
Più precisamente, l’art. 7, nell’individuare i principi ed i criteri
direttivi relativi ai tributi delle regioni e alle compartecipazioni al gettito
dei tributi erariali, afferma in primis che “le regioni dispongono di tributi
e di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, in via prioritaria a
quello del’IVA, in grado di finanziare le spese derivanti dall’esercizio
delle funzioni nelle materie che la Costituzione attribuisce alla loro
166
Fino a un recente passato, a livello UE l’esigenza di definire forme regionali di
fiscalità di vantaggio era stata sacrificata sull’altare di un’interpretazione
eccessivamente rigida del divieto comunitario di aiuti di Stato, con particolare
riguardo alle modalità di accertamento del requisito della ‹‹selettività territoriale››.
Questa circostanza, aveva sostanzialmente privato gli Stati europei della possibilità
di fronteggiare adeguatamente la concorrenza fiscale, non solo rispetto ai
competitori extraeuropei, ma anche nei confronti degli stessi nuovi arrivati a
seguito del progressivo allargamento del mercato comune europeo, oggi esteso a
molti Paesi a bassa fiscalità. Negli ultimi tempi, con la sentenza della Corte di
Giustizia 6 settembre 2006 (causa C-88/03) relativa alle Azzorre, è stata
legittimata la possibilità di introdurre a livello regionale forme di fiscalità di
vantaggio subordinandola all’esistenza di un serio regime di federalismo fiscale. A
tal fine sono stati individuati tre requisiti: quello dell’autonomia istituzionale, per
cui le misure devono essere adottate da un ente dotato, sul piano costituzionale, di
uno Statuto politico e amministrativo distinto da quello dello Stato centrale; quello
dell’autonomia decisionale; quello dell’autonomia finanziaria, per cui le misure
non devono essere compensate da sovvenzioni o contributi provenienti da Stato
centrale. La Corte ha chiarito, inoltre, come una volta attuata la riforma del
federalismo fiscale, sussistano anche in Italia le condizioni per realizzare forme di
fiscalità regionale di vantaggio.
140
competenza esclusiva e concorrente nonché le spese relative a materie
di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le regioni
esercitano competenze amministrative”. La lettera b) del primo comma,
inoltre, si preoccupa di stabilire cosa deve intendersi per “tributi della
Regione”, cercando così di porre un freno all’incessante contenzioso
costituzionale sviluppatosi negli ultimi anni su questo oggetto; in specie,
“per tributi delle regioni si intendono: 1) i tributi propri derivati, istituiti
e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni; 2) le
addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali; 3) i tributi propri
istituiti dalle regioni con proprie leggi in relazione ai presupposti non già
assoggettati ad imposizione erariale”. Il legislatore prosegue accertando
la possibilità per le Regioni, in riferimento al primo dei tre tipi di tributo
regionale, di modificare con propria legge le aliquote e di disporre
esenzioni, detrazioni e deduzioni nei limiti e secondo criteri fissati dalla
legislazione statale e nel rispetto della normativa comunitaria, nonché, in
riferimento al secondo tipo di tributo regionale, la possibilità di
introdurre variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e di
disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla legislazione statale. Si tratta
di un principio che è diretto a valorizzare fortemente l’autonomia
impositiva regionale, permettendo alle Regioni di sviluppare proprie
politiche fiscali, sia nei confronti delle imprese che delle situazioni
personali. Incentivare fiscalmente certe categorie di imprese, il rispetto
di standard ambientali, o i soggetti non profit che svolgono una
funzione sociale, può così diventare contenuto pieno di una politica
fiscale regionale. In questo modo, quindi, l’autonomia impositiva
regionale può svilupparsi ‹verso il basso›› in chiave incentivante.
Tuttavia, la stessa autonomia sarà costretta a svilupparsi verso l’alto,
aumentando entro certi limiti l’imposizione, nel caso di cattive gestioni,
141
ad esempio perché non si riduce al costo standard la spesa per
determinati servizi, cioè non ci si preoccupa di rimediare a quelle
inefficienze per cui uno stesso servizio in altra Regione viene a costare,
alla stessa qualità, molto di meno. Autonomia e responsabilità sono
pertanto virtuosamente coniugate, valorizzando la possibilità di
razionalizzazione della spesa e il controllo democratico degli elettori
regionali167.
L’art. 7, inoltre, mentre alla lettera d) stabilisce le modalità di
attribuzione alle Regioni del gettito dei tributi regionale istituiti con leggi
dello Stato e delle compartecipazioni ai tributi erariali in conformità al
principio di territorialità di cui all’art. 119 della Costituzione168, alla
lettera e) conclude affermando che “il gettito dei tributi regionali
derivati e le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali sono senza
vincolo di destinazione”.
Il successivo art. 8 si occupa invece di individuare i principi ed i
criteri direttivi necessari al fine di adeguare le regole di finanziamento
alla diversa natura delle funzioni spettanti alle Regioni, nonché al
principio di autonomia di entrata e di spesa fissato dall’art. 119 della
Costituzione; il Legislatore, in base a quanto prescrive la lett. a) dell’art.
8, dovrà provvedere a classificare le spese connesse a materie di
competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, esclusiva
regionale, nonché delle spese relative a materie di competenza esclusiva
statale, in relazione alle quali le Regioni esercitano competenze
167
Si esprime in tal senso L. ANTONIMI, La nuova autonomia finanziaria regionale
nel disegno di legge AS 1117, in Federalismo fiscale, 2/2008.
168
Secondo tale disposizione tali modalità devono tenere conto: 1) del luogo di
consumo, per i tributi aventi quale presupposto i consumi; per i servizi, il luogo di
consumo può essere identificato nel domicilio del soggetto fruitore finale; 2) della
localizzazione dei cespiti, per i tributi basati sul patrimonio; 3) del luogo di
prestazione del lavoro, per i tributi basati sulla produzione; 4) della residenza del
percettore, per i tributi riferiti ai redditi delle persone fisiche.
142
amministrative; “tali spese sono: 1) spese riconducibili al vincolo
dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione [e cioè
relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio]; 2) spese non riconducibili al vincolo di cui al numero 1); 3)
spese finanziate con i contributi speciali, con i finanziamenti
dell’Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali di cui all’articolo
15”.
Secondo la lett. b) dello stesso articolo, inoltre, i decreti legislativi
attuativi, dovranno anche definire delle modalità per cui le spese
riconducibili al vincolo dell’articolo 117, secondo comma, lettera m),
della Costituzione siano determinate nel rispetto dei costi standard
associati ai livelli essenziali delle prestazioni fissati dalla legge statale in
piena collaborazione con le Regioni e gli Enti locali, da erogare in
condizioni di efficienza e di appropriatezza su tutto il territorio
nazionale. Continuando in riferimento alle medesime spese, le aliquote
dei tributi e delle compartecipazioni destinate al loro finanziamento
devono essere determinate al livello minimo assoluto sufficiente ad
assicurare il pieno finanziamento del fabbisogno corrispondente ai livelli
essenziali delle prestazioni, valutati secondo quanto previsto dalla lett.
b), in una sola Regione; devono anche essere definite le modalità per cui
al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni nelle Regioni ove
il gettito tributario è insufficiente concorrono le quote del fondo
perequativo. È importante sottolineare che nelle spese di cui al comma
1, lettera a), numero 1), dell’art. 8 (e cioè quelle relative alla
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio), sono
comprese quelle per la sanità, l’assistenza e, per quanto riguarda
143
l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative
attribuite alle Regioni dalle norme vigenti.
Come già detto, altro tema fondamentale disciplinato dal Capo
secondo della legge delega è la determinazione dei principi e dei criteri
direttivi in ordine alla determinazione dell’entità e del riparto del fondo
perequativo a favore delle Regioni. In base all’art. 9 della legge in esame,
i decreti legislativi attuativi, in relazione alla determinazione dell’entità e
del riparto del fondo perequativo statale di carattere verticale a favore
delle Regioni, in attuazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e
119, terzo comma, della Costituzione169, devono rispettare determinati
requisiti. In particolare, tale fondo perequativo deve essere alimentato
dal gettito prodotto da una compartecipazione al gettito dell’IVA
assegnata per le spese riconducibili al vincolo della determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, nonché da una
quota
del
gettito
derivante
dall’aliquota
media
di
equilibrio
dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche
per le spese che invece non sono riconducibili al vincolo precedente
(cioè quello dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione). Inoltre, le quote del fondo devono essere assegnate senza
alcun vincolo di destinazione.
Nei decreti attuativi, inoltre, si dovrà tenere conto del principio di
perequazione delle differenze delle capacità fiscali in modo tale da
ridurre adeguatamente le differenze tra i territori con diverse capacità
fiscali per abitante senza alterarne l’ordine e senza impedire la modifica
169
Rispettivamente, i citati articoli della Costituzione affermano che la
perequazione delle risorse finanziarie appartiene alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato e che “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza
vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”
144
nel tempo conseguente all’evoluzione del quadro economicoterritoriale. In specie, le risorse del fondo devono finanziare la
differenza tra quanto necessario a coprire le spese per la sanità,
l’assistenza e, per quanto riguarda l’istruzione, le spese per lo
svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle Regioni dalle
norme vigenti, calcolate nel rispetto del costo standard, e il gettito
regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle
variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria
nonché dall’emersione della base imponibile riferibile al concorso
regionale nell’attività di recupero fiscale, in modo da assicurare
l’integrale copertura delle spese corrispondenti al fabbisogno standard
per i livelli essenziali delle prestazioni.
8. (Segue) L’attuazione della legge delega n. 42 del 2009.
Alla luce di quanto premesso, dunque, la riforma prospettata dal
legislatore mira alla realizzazione di un sistema di finanza in cui le
Regioni e gli Enti locali ricavino proprio dal territorio su cui insistono la
maggior parte delle risorse necessarie al proprio finanziamento,
assicurando
così
una
maggiore
responsabilizzazione
degli
amministratori locali e garantendo comunque il carattere solidaristico
del sistema.
Premesso che le deleghe previste dalla suindicata legge risultano
formalmente attuate, si deve comunque evidenziare che a loro volta i
provvedimenti di attuazione hanno demandato – per l’attuazione del
145
nuovo modello di relazioni finanziarie tra Stato, Regioni ed Enti locali –
ad una complessa serie di ulteriori rinvii ad atti amministrativi.
Ciò premesso ed ai fini di una migliore comprensione del sistema
delineato dai decreti legislativi attuativi della legge delega n. 42 del 2009,
appare opportuno effettuare una breve sintesi dei principali profili
innovativi170.
Il primo atto normativo emanato in esecuzione della citata legge
delega è stato il d.lgs. 28 maggio 2010, n. 85 recante “Attribuzione a
comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio
patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n.
42”, pubblicato nella G.U. n. 134 del giorno 11 giugno 2010; tale
provvedimento ha disciplinato il cd. federalismo demaniale e cioè “quel
fenomeno devolutivo, accessorio al federalismo fiscale, che consiste nel
trasferimento agli enti territoriali di beni di proprietà dello Stato”171.
Più precisamente, al fine di valorizzare il patrimonio pubblico
mediante l’attribuzione dei beni dello Stato agli enti territoriali che si
impegnano a valorizzarli, nell’interesse delle collettività locali, con il
citato decreto legislativo è stata prevista una complessa procedura per
giungere al trasferimento dei predetti beni dello Stato, ad eccezione di
specifiche categorie, che si fonda sul criterio della territorialità e tiene
conto di specifici principi e criteri altresì precisati nel medesimo decreto.
170
La descrizione didascalica dei decreti di attuazione costituisce una sintesi di
quanto riportato sul portale web dedicata all’attuazione del federalismo fisclare,
www.portalefederalismofiscale.gov.it, nonché da quanto dedotto nella Relazione
semestrale sull’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale n. 42/2009, approvata dalla
Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale nella seduta del
22 gennaio 2013, www.camera.it.
171
Cfr. ANTONIOL M., Il federalismo demaniale: il principio patrimoniale del federalismo
fiscale, Padova, 2010, p. 7; in particolare, l’Autore precisa che con l’espressione “enti
territoriali” si riferisce all’insieme di Comuni, Province, Città metropolitane e
Regioni.
146
Come evidenziato da autorevole dottrina, dunque, il federalismo
demaniale è un federalismo di “valorizzazione”, nel quale i beni sono
restituiti ai Comuni alla cui storia sono legati, alle Province e alle
Regioni
che
possono
meglio
valorizzarli,
assumendosene
la
responsabilità di fronte ai propri elettori172.
Si deve però evidenziare che tale decreto, a causa delle complessità
del procedimento per l’individuazione delle diverse categorie di beni e
per il successivo trasferimento, è rimasto sostanzialmente inattuato173.
Il notevole ritardo nell’attuazione della normativa, secondo il
Governo, è stato determinato dall’indispensabile coinvolgimento – ai
fini dell’acquisizione delle intese e dei pareri imposti dal decreto
legislativo – sia da parte di tutte le amministrazioni che curano la
gestione dei beni, sia in sede di Conferenza Unificata.
Il secondo provvedimento da analizzare è il d.lgs. 17 settembre
2010, n. 156, “Disposizioni recanti attuazione dell’articolo 24 della legge
5 maggio 2009, n. 42 e successive modificazioni, in materia di
ordinamento transitorio di Roma Capitale”, pubblicato nella G.U. n.
219 del giorno 18 settembre 2010.
Tale decreto provvede a dettare una disciplina degli organi di
governo di Roma Capitale, ente territoriale previsto in sostituzione del
Comune di Roma, rinviando invece – per la completa attuazione
172
Cfr. ANTONINI L., Il primo decreto legislativo di attuazione della legge
n. 42/2009: il federalismo demaniale, in Federalismi.it, n. 25/2009, p. 2.
173
Esattamente, ha trovato attuazione solo l’articolo 5, comma 5, del decreto, in
merito al c.d. federalismo demaniale culturale. Inoltre, Sul punto occorre precisare
che le modalità per giungere al trasferimento dei beni si articolano diverse in fasi,
che prevedono – in base alla trasferibilità o meno del bene – un decreto di
individuazione dei beni da trasferire poi su domanda degli enti interessati con un
ulteriore provvedimento.
147
dell’art. 24 della legge sul federalismo fiscale – a successivi
provvedimenti amministrativi, ancora non adottati174.
Il terzo decreto di attuazione della suindicata delle delega è stato il
d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216, “Disposizioni in materia di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città
metropolitane e Province”, pubblicato nella G.U. n. 294 del giorno 17
dicembre 2010; in estrema sintesi, tale provvedimento ha ad oggetto la
determinazione del fabbisogno standard – definito come l’indicatore
che, unendo efficienza ed efficacia, consentirà la valutazione dell’azione
pubblica – cui si dovrà tener conto nella individuazione sia dei costi
standard, sia dei livelli essenziali da garantire con riferimento a ciascuna
delle funzioni individuate, in via provvisoria, dal medesimo decreto175.
Il quarto decreto emanato in attuazione degli articoli 11, 12, 25, 26
della legge delega – esattamente il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23,
“Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale”, pubblicato
nella G.U. n. 67 del giorno 23 marzo 2011 – è volto a disciplinare il
rapporto economico tra lo Stato centrale e gli enti locali in modo da
consentire ai Comuni la possibilità di ottenere nuove entrate mediante
forme di tassazione versate e trattenute in loco176.
174
Tali rinvii riguardano aspetti particolarmente importanti quali, ad esempio, cui la
disciplina del trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie
all’esercizio delle funzioni amministrative conferite a Roma Capitale, nonché la
determinazione del maggior onere derivante dall’esercizio delle funzioni connesse al
ruolo di capitale della Repubblica.
175
Sul punto cfr. BUGLIONE E., FILIPPETTI A., Le recenti disposizioni sul federalismo
fiscale: prove di autonomia nella finanza locale in Comuni e Regioni, in Rivista telematica
ISSIRFA, Sezione Studi in materia di finanze e tributi, 2012, www.issirfa.cnr.it.
176
Occorre evidenziare che in attuazione del decreto legislativo sono stati approvati
i seguenti provvedimenti di attuazione: Decreto del Ministro dell’Interno 4 maggio
2012, recante “Fondo sperimentale di riequilibrio ai comuni delle regioni ordinarie,
per l’anno 2012”; D.P.C.M. 13 giugno 2012, recante “Determinazione della
percentuale di compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto
spettante ai comuni delle regioni a statuto ordinario per l’anno 2012, in attuazione
dell’articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23”; D.P.C.M. 17
148
Il quinto provvedimento attuativo – più precisamente, il d.lgs. 6
maggio 2011, n. 68, “Disposizioni in materia di autonomia di entrata
delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard del settore sanitario”,
pubblicato nella G.U. n. 109 del giorno 12 maggio 2011 – si inserisce
del quadro delle disposizioni relative al fisco regionale, al fisco
provinciale ed ai costi e fabbisogni standard nel settore sanitario
prevedendo le linee guida per l’attuazione della compartecipazione degli
enti locali all’Irpef, all’Irap ed all’Iva, nonché rivedendo i meccanismi
delle addizionali e regolando i principi entro cui sarà possibile istituire le
nuove tasse di scopo da parte di province e città metropolitane; la
nuova disciplina, inoltre, stabilisce che
il fabbisogno standard del
settore sanitario venga determinato in coerenza con il quadro
macroeconomico e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli
giugno 2011, recante “Disposizioni attuative degli articoli 2, comma 4, e 14, comma
10, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, recante disposizioni in materia di
federalismo fiscale municipale, in materia di attribuzioni ai Comuni delle regioni a
statuto ordinario della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto
per l’anno 2011”; Decreto del Ministro dell’Interno 21 giugno 2011, recante
“Riduzione dei trasferimenti erariali (art. 2, comma 8, del Decreto legislativo 14
marzo 2011, n. 23)”; Decreto del Ministro dell’Interno 21 giugno 2011, recante
“fondo sperimentale di riequilibrio (art. 2, comma 7, del Decreto legislativo 14
marzo 2011, n. 23)”; Decreto del Ministero dell’Economia e Finanze 26 novembre
2010, recante “Disposizioni in materia di perequazione infrastrutturale, ai sensi
dell’articolo 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42”; Decreto del Ministro
dell’Economia e delle finanze 15 luglio 2011, in attuazione dell’articolo 2 comma 10
del decreto; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 30 dicembre 2011,
in attuazione dell’articolo 2 comma 6 del decreto; Decreto del Ministro
dell’Economia e delle finanze 30 ottobre 2012, in attuazione dell’articolo 9 comma 6
del decreto; Decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze 8 marzo 2013,
recante “Attuazione dell’articolo 2, comma 10, lettera b), del decreto legislativo 14
marzo 2011, n. 23, in materia di federalismo fiscale municipale”; è stata altresì
emanata la Circolare dell’Agenzia delle entrate del 7 aprile 2011 sulla modalità di
esercizio dell’opzione per l’applicazione del regime della cedolare secca e sulle
modalità di versamento dell’imposta, in attuazione dell’articolo 3, comma 4, del
decreto. Si deve altresì precisare che diverse disposizioni del decreto legislativo
risultano ad oggi ancora inattuate.
149
obblighi a livello europeo, distinguendo la quota destinata alle regioni a
statuto ordinario da quella destinata ad enti diversi177.
Il sesto decreto attuativo – il d.lgs. 31 maggio 2011, n. 88,
“Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per
la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell’articolo 16
della legge 5 maggio 2009, n. 42”, pubblicato nella G.U. n. 143 del
giorno 22 giugno 2011 – individua lo strumento per la rimozione di
squilibri economici, sociali, istituzionali e amministrativi del Paese nel
Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS), rinominato Fondo per lo
sviluppo e la coesione; si cerca in tal modo di prevedere nuovi
strumenti procedurali idonei a rendere più efficace la politica di
riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese.
Il settimo decreto attuativo – il d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118,
“Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli
schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed
organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge n. 42 del 2009”,
pubblicato nella G.U. n. 172 del giorno 26 luglio 2011, modificato da
ultimo dalla legge di stabilità 2013 (legge n. 228/2012) – provvede a
dettare nuove disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi
177
Cfr. IACOVIELLO A., Il punto sull’attuazione del federalismo fiscale nella XVI legislatura
(febbraio 2013), in Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo
Severo Giannini, www.issirfa.cnr.it. Inoltre, occorre segnalare in attuazione del
decreto i seguenti atti: D.P.C.M. del 12 aprile 2012, recante “Soppressione dei
trasferimenti erariali alle province” (attuazione dell’articolo 18, comma 3); D.P.C.M.
del 10 luglio 2012, recante “Determinazione dell’aliquota della compartecipazione
all’imposta sul reddito delle persone fisiche delle province e delle regioni a statuto
ordinario, in attuazione dell’articolo 18, comma 1, del decreto legislativo 6 maggio
2011, n. 68” (attuazione dell’articolo 18, comma 1); Decreto Dir. Gen. Finanze 3
giugno 2011 (attuazione dell’articolo 17, comma 2); Provvedimento del Direttore
dell’Agenzia delle Entrate del 29 dicembre 2011, prot. n. 178484/2011 (attuazione
dell’articolo 17, comma 3); Decreto del Ministro dell’Economia del 30 dicembre
2011 (attuazione dell’articolo 18, comma 5); Decreto del Ministero dell’Interno del 4
maggio 2012 (attuazione dell’articolo 21, comma 3); Decreto del Ministero
dell’Interno del 23 dicembre 2012 (attuazione dell’articolo 21, comma 3).
150
contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni e degli enti locali al fine
di assicurare maggiore omogeneità e possibilità di confronto tra i bilanci
degli enti territoriali, ivi compresi i conti del settore sanitario178.
Infine, l’ultimo provvedimento che completa la normativa
attuativa del federalismo fiscale finora emanata – il d.lgs. 6 settembre
2011, n. 149, “Meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni,
province e comuni, a norma degli articoli 2, 17 e 26 della legge n. 42 del
2009”, pubblicato nella G.U. n. 219 del giorno 20 settembre 2011 – al
fine di dare seguito ai criteri di responsabilità ed autonomia che
denotano la nuova governance degli enti territoriali, introduce elementi
sanzionatori nei confronti degli enti che non rispettano gli obiettivi
finanziari e, all’inverso, sistemi premiali verso gli enti che assicurano
qualità dei servizi offerti e assetti finanziari positivi; in particolare,
occorre menzionare il cd. “fallimento politico” nei confronti dei
rappresentanti istituzionali ritenuti responsabili del dissesto del proprio
ente (Regioni, Provincie, Comuni)179.
178
In attuazione di alcune disposizioni del citato decreto legislativo sono stati
emanati i seguenti provvedimenti attuativi: D.P.C.M. del 28 dicembre 2011,
“Individuazione delle amministrazioni che partecipano alla sperimentazione della
disciplina concernente i sistemi contabili e gli schemi di bilancio delle Regioni, degli
enti locali e dei loro enti ed organismi, di cui all’articolo 36 del decreto legislativo 23
giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto); D.P.C.M. del 28
dicembre 2011, “Sperimentazione della disciplina concernente i sistemi contabili e
gli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, di
cui all’articolo 36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione
dell’articolo 36 del decreto); D.P.C.M. del 25 maggio 2012 (pubblicato sulla G.U. n.
129 del 5.6.2012), “Individuazione delle amministrazioni che partecipano alla
sperimentazione della disciplina concernente i sistemi contabili e gli schemi di
bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro enti ed organismi, di cui all’articolo
36 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del
decreto); Decreto del Ministro dell’Economia e Finanze del 13 luglio 2012,
“Esclusione dalla sperimentazione prevista dall’articolo 36 del decreto legislativo 23
giugno 2011, n. 118” (attuazione dell’articolo 36 del decreto).
179
Si deve evidenziare che allo scopo di superare i ritardi che si sono poi determinati
nell'applicazione delle nuove disposizioni, sono state recentemente introdotte
151
Alla luce di quanto premesso appare dunque evidente come la
realizzazione del modello di federalismo fiscale delineato dalla l.d. n.
42/2009 sia ancora lontano da una piena attuazione; ed invero, sebbene
quasi tutti i provvedimenti previsti dalla stessa siano stati già emanati, i
decreti attuativi a loro volta hanno previsto numerosi ulteriori rinvii a
successivi provvedimenti, molti dei quali relativi proprio agli elementi
essenziali del federalismo fiscale.
Inoltre, a tale problematicità si deve aggiungere anche
l’indispensabile obiettivo del contenimento della spesa pubblica, da
raggiungere solo attraverso la razionalizzazione dell’organizzazione
dello Stato coerentemente con l’auspicato processo di decentramento
delle funzioni a livello territoriale.
Ed ancora, al fine di ridare organicità al sistema delle relazioni
finanziarie tra Stato, Regioni ed enti locali – compromesso dalle
sovrapposizioni della normativa di tipo emergenziale che ha marciato in
senso contrario al modello in via di definizione – appare palese la
necessità di ulteriori interventi che consentano ricentralizzazione del
sistema della finanza pubblica per fronteggiare la crisi economica
internazionale; basti pensare che nell’ultimo periodo della XVI
legislatura hanno visto la luce diversi provvedimenti in materie
riconducibili al federalismo fiscale, tra cui la disciplina di province e città
metropolitane, il sistema della finanza comunale nonché il sistema dei
meccanismi
premiali
e
sanzionatori,
dando
luogo
ad
una
sovrapposizione di modelli contrastanti180.
alcune modifiche al provvedimento mediante il decreto legge 10 ottobre 2012, n.
174.
180
Cfr. IACOVIELLO A., op. cit. Più precisamente, secondo l’Autore, “per la gestione della
crisi si è ritenuto necessario accentrare la gestione del sistema finanziario, provocando in via di prassi una “deviazione”
dal percorso di attuazione del federalismo fiscale, con conseguente incertezza nella definizione del modello
italiano”.
152
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