La protezione internazionale nella giurisprudenza della Corte di

MARIA ACIERNO
La protezione internazionale nella giurisprudenza della Corte di Cassazione*
SOMMARIO: 1.- Le fonti
internazionali: L’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo e il diritto d’asilo; 2.- L’asilo
costituzionale in relazione alle fonti internazionali e
di diritto interno: a) l’art. 3 CEDU ed i permessi umanitari; 3.- Il sistema normativo interno di
protezione internazionale dalla L. n. 39 del 1990 alla L. n. 189 del 2002;4.- I Dlgs n. 251 del
2007 e 25 del 2008 : il nuovo quadro delle misure di protezione internazionale;5.- La
giurisprudenza di legittimità sul diritto d’asilo, sul riconoscimento dello status di rifugiato e sulle
altre forme di protezione umanitaria.
1.- Le fonti internazionali: l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e il
diritto d’asilo.
L’analisi del complessivo sistema delle fonti, assumerà come punto di partenza storico –
temporale, l’assetto politico – normativo individuabile dopo la fine della seconda guerra
mondiale. Il diritto d’asilo, indipendentemente dalle modalità di attuazione e dalla capacità
espansiva che ciascun sistema normativo intende attribuirgli, è intrinsecamente connesso alla
scelta della forma democratica dello Stato e si caratterizza perché introduce un regime giuridico
derogatorio più favorevole al titolare del diritto, rispetto alla generale disciplina normativa
dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri. Inoltre la disciplina del diritto d’asilo (sia in ordine
agli sviluppi normativi, sia in ordine agli orientamenti giurisprudenziali delle Corti di ultimo
grado dei singoli Stati) è tendenzialmente condizionata dai principali eventi storico-politici delle
relazioni internazionali.
L’asilo, nel diritto internazionale generalmente riconosciuto, secondo la definizione
proveniente dall’Institut de droit international nella sessione di Bath del 1950 può essere
definito come la protezione accordata da uno Stato, all’interno della propria sfera territoriale
(asilo territoriale) o in altro luogo (asilo extraterritoriale nelle missioni diplomatiche, a bordo di
navi o aeromobili1) ad uno straniero che ne faccia richiesta. Perché si possa parlare di asilo non è
•
•
testo della relazione tenuta all’incontro di studi “Tutela dei nomadi, rifugiati, migranti” organizzato dal
Consiglio Superiore della Magistratura a Roma il 27-29 settembre 2010
1
Per la valorizzazione della discussa categoria dell’asilo “extraterritoriale” Benvenuti, Andata e ritorno per
il diritto di asilo costituzionale, in Diritto Immigrazione Cittadinanza, 2010, 36. Secondo l’autore la
presenza del richiedente. asilo nel territorio dello Stato d’accoglienza non è una condizione necessaria per il
conseguimento del diritto d’asilo, come già affermato dal giudice italiano (Tribunale di Roma sent. 1/10/99
in Diritto Immigrazione Cittadinanza 1999,112 cd. Caso Ocalan) in quanto il nucleo ineliminabile di tale
diritto è costituito dalla possibilità di accedere nel territorio dello Stato al quale si intende richiedere una
misura di protezione internazionale. L’asilo costituzionale, secondo questa tesi, per l’ampiezza del suo
contenuto, non contiene la limitazione costituita dal preventivo ingresso anche illegale nel territorio dello
Stato ed evidenzia in modo palese l’illegittimità dei respingimenti in alto male determinati dall’accordo
italo libico. Per la l’affermazione forte ed inequivoca del diritto di accesso, costruito come condizione di
partenza per l’esercizio del diritto d’asilo Cass. 26253 del 2009 in Diritto Immigrazione Cittadinanza,
2010,146. Nella sentenza si sottolinea la palese illegittimità (o più correttamente la carenza di potere) della
Polizia aeroportuale che respinga all’arrivo il richiedente asilo senza metterlo nelle condizioni di formulare
sufficiente che lo Stato offra allo straniero una qualche forma di rifugio, ma occorre che se ne
assuma la protezione contro ogni forma di ritorsione eventualmente attuata a suo danno.
Premesso che, secondo una parte autorevole della dottrina, non esiste una norma di diritto
internazionale generalmente riconosciuta sul diritto d’asilo2 il primo indice normativo del diritto
d’asilo, all’interno del confine storico – temporale assunto, si ritrova nell’art. 14 della
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo il quale, prevede che ogni individuo ha diritto di
cercare e di godere in altri Stati asilo dalle persecuzioni. Ogni Stato è libero di determinare se ed
a quali condizioni concedere o negare asilo sul proprio territorio. La Dichiarazione non ha natura
cogente, per gli Stati che hanno aderito all’ONU ma è interessante osservare come la condizione
indefettibile per la domanda d’asilo sia l’esistenza di persecuzioni individuali.
L’accento sulla necessità del fumus persecutionis è stato integralmente recepito dalla
Convenzione di Ginevra (firmata il 28/7/1951 e successivamente oggetto di successive
integrazioni, tra le quali la più significativa, quella introdotta dal Protocollo di New York del
1967 che ha esteso l’ambito territoriale dei paesi di provenienza dei rifugiati). La Convenzione è
stata ratificata con la legge n.722 del 1954 ma è stata concretamente attuata soltanto con l’art. 1
della L. n. 39 del 1990 e con il successivo regolamento d’attuazione (D.P.R. n. 136 del 1990).
Con la Convenzione, come esplicitato nello stesso Preambolo si intende proprio dare attuazione
al diritto d’asilo, affermato nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che non
potrebbe trovare riconoscimento senza la cooperazione derivante dal vincolo convenzionale.
Non può, pertanto, dubitarsi che nella Convenzione di Ginevra il diritto d’asilo coincida con
il diritto ad essere riconosciuto rifugiato politico alle condizioni dettate dalla Convenzione che si
fondano, come già evidenziato nell’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
sull’esistenza di persecuzioni attuali o sul fondato timore di persecuzioni individuali. Può essere
riconosciuto rifugiato politico solo chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni
politiche, si trova fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, e
non può o non vuole avvalersi della protezione di questo paese”.
Dal confronto tra la definizione del diritto d’asilo, adottata comunemente nel diritto
internazionale e la specificazione contenuta nelle fonti esaminate emergono i primi elementi di
la propria istanza secondo le modalità stabilite nell’art. 26 del D.lgs n. 25 del 2008 (cd. decreto procedure).
Peraltro, come sottolineato da Pugiotto, Purchè se ne vadano, La tutela giurisdizionale (carente od assente)
nei meccanismi di allontanamento dello straniero, Relazione al convegno nazionale dell’Associazione
italiana dei costituzionalisti, “lo statuto costituzionale del non cittadino” Cagliari 16-17 ottobre 2009
consultabile nel sito www.associazioneitalianacostituzionalisti.it, nella stessa normazione interna è
possibile individuare disposizioni contrastanti i respingimenti in alto mare eseguiti sulla base dell’accordo
italo libico. In particolare l’art. 12 del d.lgs n. 286 del 1998 (con le modifiche apportate dalla l. n. 189 del
2002), comma 9 bis, ter, quater, stabilisce che le navi italiane in servizio di polizia che incontrino in mare
territoriale o “nella zona contigua” una nave che si ritenga adibita al trasporto illecito di migranti può
fermarla, ispezionarla ed eventualmente sequestrarla, conducendola in un porto dello Stato. Tale potere
(comma 9 quater) può essere esercitato anche al di fuori delle acque territoriali oltre che dalle navi della
Marina Militare anche da parte di navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto
internazionale o da “accordi bilaterali o multilaterali”. Secondo l’autore da queste norme si può
agevolmente desumere l’illegittimità dei respingimenti in alto mare e l’obbligo di portare gli stranieri in un
porto italiano al fine di procedere ai provvedimenti individuali di allontanamento o avvio del procedimento
rivolto all’ottenimento di una misura di protezione internazionale. Peraltro lo stesso autore non manca di
osservare che il Decreto interministeriale 14/7/2003 “Disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione
clandestina”prevede all’art. 7 un rinvio nei porti di provenienza ma sottolinea anche che si tratta di una
fonte di rango inferiore alla legge ordinaria e a quella costituzionale (oltre che a quella rinforzata
dall’obbligo di attuazione di Direttiva comunitaria n.d.r.). Al di là del dettaglio normativo, conclude
amaramente l’autore i respingimenti in alto mare costituiscono una palese violazione del principio di non
refoulement e del divieto di espulsioni collettive.
2
Nascimbene, Asilo e statuto del rifugiato, relazione tenuta al Convegno nazionale dell’Associazione italiana dei
costituzionalisti “lo statuto costituzionale dello straniero” Cagliari 16-17 ottobre
2009 consultabile in
www.associazioneitalianacostituzionalisti.it
2
valutazione : l’asilo è un diritto, appartenente alla tipologia dei diritti umani fondamentali, il cui
contenuto minimo consiste non solo nell’ingresso e nel soggiorno presso lo Stato ospitante ma
anche nella protezione, variamente articolata.
Le condizioni di acquisto della titolarità del diritto, come indicato nella Dichiarazione
sull’asilo territoriale, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 14 dicembre 1967, derivano
dalle valutazioni e dalle scelte dei singoli Stati. Tali condizioni, pertanto, non attengono al
contenuto del diritto che ha un minimo comune denominatore, derivante dai vincoli
internazionali degli stati aderenti all’ONU e alla Convenzione di Ginevra, tendenzialmente
coincidente con la definizione di teoria generale del diritto dell’asilo, sopra evidenziata, ma ai
limiti “esterni” all’esercizio del diritto che ciascuno Stato può introdurre.
Il contenuto interno e le condizioni esterne del diritto d’asilo sono però compresenti nelle
definizioni rinvenibili nelle fonti internazionali e costituzionali, anche se l’evoluzione storicopolitica delle relazioni internazionali ha elaborato limiti e condizioni di acquisto del diritto non
esclusivamente fondate sul fumus persecutionis. In questo versante estensivo delle condizioni di
accesso all’esercizio del diritto d’asilo, si colloca l’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo, nell’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo anche in un
decisioni molto recenti3.
La Convenzione non contiene una definizione esplicita del diritto d’asilo, ma all’art. 3
stabilisce che nessuno può essere sottoposto a tortura od a pene o trattamenti inumani o
degradanti. La giurisprudenza della Corte Europea, negli ultimi vent’anni ha esteso il significato
del divieto contenuto nell’art. 3, da quello univocamente diretto verso gli Stati ed avente ad
oggetto l’inibitoria assoluta ad introdurre sistemi di tortura o trattamenti inumani o degradanti,
ad uno più mediato. Nell’orientamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo, il divieto non
opera solo nei confronti degli Stati che pongono in essere i trattamenti contrari ai diritti umani,
indicati nell’art. 3, ma anche nei confronti di quelli che si fossero limitati a respingere od
espellere stranieri verso Stati in cui vi era una situazione attuale o un rischio potenziale di
sottoposizione dello straniero allontanato ai trattamenti in questione. La Corte ha affrontato per
la prima volta la questione dell’estensione degli obblighi derivanti dall’art. 3 anche in favore di
richiedenti asilo che avevano visto negato il diritto azionato, (caso Cruz Varas c. Svezia 20
marzo 1991, serie A n. 201 e Vilvarajah contro Regno Unito del 30 ottobre 1991 serie A n. 215)
e si erano rivolti alla Corte lamentando che l’allontanamento verso i paesi di origine (Cile e Sri
Lanka) li avrebbe fatti esporre ad arresti arbitrari e ai trattamenti vietati dall’art. 3 della
Convenzione. Al di là delle soluzioni dei singoli casi concreti, in queste pronunce la Corte ha
stabilito l’applicabilità dell’art. 3 quando il provvedimento di allontanamento disposto da uno
stato ospitante esponga lo straniero al rischio di trattamenti vietati dalla norma ed ha precisato
che la tutela si estende anche alle violazioni potenziali. Nelle pronunce successive (Caso Cahal c.
Regno Unito) è stato ribadito il carattere assoluto del divieto e l’ininfluenza delle condizioni
ostative al riconoscimento dello status di rifugiato4. A questo riguardo, è stato chiarito dalla
Corte che il diritto non prevede restrizioni e non tollera deroghe ai sensi dell’art. 15 anche in
caso di pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione, per cui nessun rilievo, in tale
contesto, possono assumere i comportamenti della persona interessata, per quanto indesiderabili
e pericolosi possano essere stati, precisando che la protezione assicurata dall’art. 3, è più estesa
di quella prevista dagli artt. 32 e 33 della Convenzione di Ginevra (che affermano il principio di
non refoulement). Il pericolo cui è esposto il richiedente asilo, deve essere valutato al momento
3
Oltre al caso più conosciuto Saadi contro Italia, si segnalano le più recenti decisioni che ricalcano la motivazione
relativa all’assolutezza ed inderogabilità del divieto ex art. 3 CEDU : Ben Keimas c.Italia; Abdelhedi c. Italia; Ben
Salah c. Italia; Hamaraoui c. Italia; Soltana c. Itlaia. Sono, peraltro pendenti ricorsi, ritenuti ammissibili, contro
espulsioni collettive dall’isola di Lampedusa.
4
Sottolinea Nascimbene nella rel. ult. cit. il confronto tra l’assolutezza del divieto ex art. 3 e la derogabilità
mediante il criterio del bilanciamento d’interessi del diritto all’unità familiare stabilito nell’art.8
3
dell’adozione del provvedimento di allontanamento, ma possono incidere anche circostanze
successive e non deve essere motivato da persecuzione.
La Corte ha sempre escluso, in tutte le pronunce riguardanti l’applicazione dell’art. 3 ai
richiedenti asilo, che la Convenzione o i Protocolli consacrino il diritto d’asilo politico ed ha
ribadito di non voler interferire con le valutazione demandate alle competenti autorità nazionali
in ordine al riconoscimento dello status di rifugiato (caso Vilvarajah c. Regno Unito cit.).
I principi esposti hanno trovato piena conferma in una recente sentenza della Corte (Caso
Saadi c. Italia sent. del 28/2/2008), adottata all’unanimità, contrariamente a quanto accaduto nel
precedente caso Cahal contro Regno Unito, nel quale la decisione era stata presa con l’opinione
contraria di sette giudici.
La Corte dopo aver ribadito che la CEDU non tutela il diritto d’asilo, ha riaffermato il
carattere assoluto del divieto anche nel caso in cui il richiedente, indagato e successivamente
assolto per fatti di terrorismo in Italia, sia stato condannato in contumacia in Tunisia per il reato
di terrorismo alla pena di vent’anni. In virtù del decreto legge n. 244 del 2005 il cittadino
tunisino è stato espulso ed è stato destinatario del rigetto della domanda d’asilo. La Corte ha
ritenuto che l’espulsione, sia idonea a determinare una violazione del divieto sancito all’art. 3
quando lo Stato ricevente adotti metodi di tortura e/o trattamenti inumani e degradanti, in quanto
il provvedimento di allontanamento, si pone come antecedente causale idoneo ad esporre
l’individuo espulso al rischio dei trattamenti vietati. Il rilievo della pronuncia si coglie, in
particolare, nella concreta attuazione dell’assolutezza del divieto, che non può subire deroghe
neanche di fronte al pericolo per la sicurezza dello Stato, ravvisabile nella presenza e nella
condotta dell’espulso. E’ esclusa, dal ragionamento della Corte ogni valutazione ispirata al fair
balance con altri diritti concorrenti, contrariamente ai precedenti dei primi anni novanta, nei
quali, all’affermazione assoluta del principio di non refoulement seguiva un giudizio
comparativo dei diritti complessivamente in gioco.
Pur non volendo interferire nella disciplina del diritto d’asilo dei singoli ordinamenti, la
Corte impone agli Stati di offrire protezione agli stranieri che possono essere vittime dei
trattamenti indicati nell’art. 3, se allontanati verso il paese di origine. Così facendo, introduce
una misura di protezione che, al di là della denominazione, non si limita all’ingresso ma
determina nello straniero il diritto di rimanere nel paese presso il quale era stato richiesto l’asilo,
anche se sottoposto a misure restrittive della propria libertà personale, ove fosse ritenuto
colpevole di reati punibili con pena detentiva o pericolo per la sicurezza nazionale. Non può,
pertanto, negarsi allo straniero la concessione di un permesso umanitario fruibile fino a quando
non vengano meno le ragioni del divieto di rimpatrio o allontanamento. Poiché il nostro
ordinamento prevede diverse tipologie di permessi umanitari, conviene affrontare fin d’ora il
problema del grado di vincolatività dell’art. 3, alla luce dell’esaminata giurisprudenza della
Corte Europea, nel nostro sistema delle fonti al fine di comprendere se le autorità amministrative
decidenti e gli organi giurisdizionali di controllo siano tenuti a dare attuazione e ad applicare la
misura di protezione introdotta dalla giurisprudenza della Corte, nella valutazione delle istanze
degli stranieri. Al riguardo, la corretta sistemazione delle norme della Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo, nell’interpretazione vincolante fornitane dalla Corte, si rinviene nelle sentenze
della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007 e risulta ribadito anche in pronunce successive.5
5
N. 39 del 2008; n. 239 del 2009; n. 311 del 2009; n. 317 del 2009 nella quale viene inoltre sottolineato che il
meccanismo d’integrazione delle fonti relative ai diritti fondamentali derivante dalla nuova formulazione dell’art.
117 Cost e dall’obbligo costituzionalizzato di assolvere agli obblighi internazionali mediante il quale le nome
CEDU sono state qualificate regole “interposte”, non può determinare una riduzione del livello complessivo di
protezione dei diritti fondamentali che deriva dal nostro ordinamento costituzionale. Spiega in questa pronuncia la
Corte che la protezione dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non
coordinate ed in potenziale conflitto tra loro in modo che il risultato complessivo dell’integrazione complessiva
delle garanzie deve essere sempre di segno positivo ovvero deve determinare per l’introduzione del principio
desumibile dalla fonte CEDU, un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali; n. 93 del 2010.
4
Nella prima delle due pronunce, la Corte Costituzionale, era stata investita della legittimità
costituzionale di una norma interna, in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo e all’art. 111 nonché 117 Cost., nel testo attualmente vigente che impone l’esercizio
della potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali. La comparazione con l’art. 6 veniva prospettata secondo
l’interpretazione datane in particolare da due sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo,
riguardanti proprio l’applicazione della norma censurata d’incostituzionalità. La Corte
Costituzionale, per risolvere l’incidente di costituzionalità, affronta preliminarmente il problema
della collocazione, nel sistema delle fonti, delle norme della CEDU, escludendo, in primo luogo,
che vi sia un potere di disapplicazione diffuso nel giudice comune delle disposizioni interne
contrastanti con le norme CEDU, essendo tale potere esercitabile solo con riferimento alle norme
comunitarie direttamente applicabili negli ordinamenti degli Stati membri, in virtù della
limitazione di sovranità, costituzionalmente consentita dall’art. 11 Cost., derivante dai vincoli di
partecipazione all’Unione Europea. Questa distinzione, elaborata dalla Corte Costituzionale,
prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 117 Cost., è tuttora valida perché la norma
costituzionale distingue i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” dagli obblighi
internazionali. In secondo luogo, viene esclusa la diretta applicabilità delle norme CEDU, per
effetto dell’art. 10, primo comma, della Costituzione dal momento che l’obbligo di
conformazione alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, riguarda solo il
diritto internazionale consuetudinario, disponendone l’adattamento automatico. Le norme
pattizie esulano, invece, dall’ambito di applicazione dell’art. 10 primo comma, con la
conseguente impossibilità di assumere le relative norme quali diretti parametri del giudizio di
legittimità costituzionale. Ritiene però la Corte che la nuova formulazione dell’art. 117, primo
comma, Cost. condizioni l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi
internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione Europea
dei diritti dell’uomo. Rispetto al sistema delle fonti anteriore alla modifica dell’art. 117 Cost., nel
vigore del quale le norme internazionali pattizie erano inserite nell’ordinamento positivo
mediante le leggi di adattamento, (art. 80 Cost), aventi il rango di norme ordinarie, l’attuale
formulazione “rende inconfutabile la maggior resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi
ordinarie successive (ex sent. n. 348/2007), ed attrae le stesse nella sfera di competenza di questa
Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo
o valutazione sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di
legittimità costituzionale”. Poiché il nuovo art. 117 Cost, non opera soltanto nel rapporto tra lo
Stato e le Regioni ma introduce, in via generale, il dovere di rispettare gli obblighi internazionali
per qualsiasi norma legislativa, è necessario, quando si assume come parametro costituzionale
tale norma, che vengano determinati quali siano “gli obblighi internazionali” ed in quali fonti
interposte si concretizzino. Nel caso delle norme CEDU, sottoposte al vaglio interpretativo della
Corte, l’adeguamento ha ad oggetto la norma intesa come prodotto dell’interpretazione fornitane
dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ciò non significa che le norme
CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumano il rango di norme
pariordinate alla Costituzione, in quanto esse rimangano di grado sub-costituzionale e,
conseguentemente sono assoggettabili a sindacato di costituzionalità. In conclusione, il rispetto
degli obblighi internazionali, imposto dall’art. 117 Cost. rispetto alle norme CEDU deve essere
condotto in modo da verificare se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via
interpretativa tra la norma censurata e le norme CEDU, come interpretate dalla Corte di
Strasburgo ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui al predetto
art. 117 Cost; ed infine se tali norme integratici siano compatibili con l’ordinamento
costituzionale italiano. Nella successiva pronuncia n. 349/2007, il rilievo sub costituzionale delle
norme CEDU, così come interpretate dalla Corte Europea, viene considerato sotto la diversa
angolazione del rapporto con il sistema normativo comunitario. Il rilievo di quest’ultima
pronuncia si coglie anche in un altro passaggio argomentativo, particolarmente incisivo, rispetto
5
alla problematica riguardante il contenuto e la pluralità delle forme di attuazione del diritto
d’asilo. La Corte, afferma espressamente che i giudici comuni, pur non potendo disapplicare
direttamente le norme interne contrastati con quelle CEDU, devono garantire l’applicazione del
sistema di tutela dei diritti fondamentali derivante dalla giurisprudenza della Corte Europea.
La collocazione operata dalla Corte Costituzionale è attualmente da porre a confronto con
l’incidenza nella sistematica delle fonti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
all’esito dell’approvazione, avvenuta il 1/12/2009 del Trattato di Lisbona. Com’è noto il Trattato
conferisce alla Carta lo stesso valore giuridico dei Trattati e, d’altro canto, l’UE aderisce alla
CEDU. Questo rilevante arricchimento delle fonti dei diritti fondamentali apre nuovi scenari in
relazione al sistema di tutela giurisdizionale di tali diritti ed induce in primo luogo a
porsil’interrogativo relativo al grado di vincolatività dei principi contenuti nella Carta
sull’ordinamento interno. I contributi di riflessione ed approfondimento del tema della tutela
multilivello dei diritti fondamentali sono già molto elevati qualitativamente e quantitativamente6
e la problematica è troppo complessa per essere affrontata in questa relazione7. Ciò che si ritiene
utile, invece, illustrare è il contenuto della tutela del diritto d’asilo così come risultante dalla
Carta ed il rilievo che la materia dell’asilo riveste nell’ordinamento dell’Unione Europea. La
carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea afferma all’art.4, con una formulazione
analoga all’art. 3 terzo comma della CEDU, l’assolutezza del divieto di sottoposizione a tortura a
pene a trattamenti inumani o degradanti. (Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o
trattamenti inumani o degradanti). Oltre a questa solenne dichiarazione che, quanto meno nel
contenuto negativo consistente nel diritto a non essere respinti verso, iscrive definitivamente il
principio di “non refoulement” nei diritti umani garantiti dall’Unione Europea, essendo integrata
dal secondo comma dell’art. 198, nella Carta è specificamente riconosciuto, all’art. 18 il diritto
d’asilo. Il contenuto di tale diritto viene desunto per relationem dalle norme della Convenzione
di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status di
rifugiato nonché dal sistema normativo europeo relativo alle misure di protezione internazionale
(Direttiva 2004/83/CE cd. Direttiva qualifiche e 2005/85/CE cd. Direttiva procedure). Come
espressamente indicato nell’art. 18, il diritto d’asilo è garantito “a norma del Trattato sull’Unione
Europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”. Il diretto richiamo ai Trattati9
non è privo di conseguenze ed evidenzia la centralità del diritto d’asilo nell’ambito dei diritti
fondamentali garantiti nell’Unione Europea. Con l’approvazione del Trattato di Lisbona, infatti
la competenza in materia d’asilo è stata integralmente collocata nel Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea ed in particolare nel titolo V, rubricato Spazio di libertà sicurezza e
giustizia. Questa stessa formula, contenuta nell’art. 3 par. 2 del Trattato dell’Unione Europea,
rappresenta uno degli obiettivi dell’Unione Europea e nello stesso tempo viene richiamata
nell’art. 4 par. 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che contiene l’elenco delle
competenze concorrente. Sul piano dell’incidenza e dell’ampiezza dell’intervento delle fonti
comunitarie sul diritto interno si tratta di un cambiamento radicale. In base all’art. 67 del Trattato
6
Vedi anche per gli ampi richiami Scoditti, il giudice comune e la tutela dei diritti fondamentali di fonte sopranazionale,
in Foro It, 2010 V,42; Ruggeri, Corte Costituzionale e Corti Europee : il modello, le esperienze, le prospettive. Relazione
al Convegno del Gruppo di Pisa su Corte Costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4/5/2010
7
Si tratta peraltro di un tema ampiamente trattato nelle ultime annualità degli incontri di studi centrali per la
formazione continua dei magistrati oltre che in sede decentrata.
8 Che con formulazione analoga all’art. 3 del protocollo IV della CEDU, stabilisce che nessuno può essere
allontanato, espulso od estradato verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto alla pena di
morte, alla tortura od altre pene o trattamenti inumani o degradanti
9 Nell’originaria struttura a pilastri delle competenze dell’Unione Europea, la materia dell’asilo era stata
collocata con il Trattato di Maastricht nel terzo pilastro, caratterizzato da competenze limitate in capo alle
istituzioni comunitarie da procedure decisionali caratterizzate dall’unanimità e dal ruolo meramente
consultivo del parlamento; con il Trattato di Amsterdam la materia appartiene al primo pilastro (Circolazione
delle persone, frontiere, visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile) e da luogo al
rilevante numero di Direttive comunitarie afferenti tali materie.
6
sul Funzionamento dell’Unione Europea l’Unione sviluppa una politica comune in materia di
frontiere, visti, immigrazione ed asilo mentre nel precedente art. 62 era prevista una competenza
limitata a dettare norme minime. L’espressa inclusione nella politica comune consentirà di
adottare qualsiasi atto legislativo dell’Unione (Decisioni, Direttive e Regolamenti) e non solo
Direttive come in passato. L’obiettivo, pertanto è la massima armonizzazione anche attraverso
una normazione ad applicazione diretta, sia pure nel rispetto dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità che caratterizzano le competenze concorrenti e con il limite indicato dall’art. 70
TFUE secondo il quale tali competenze non ostacolano l’esercizio delle responsabilità
incombenti sugli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della
sicurezza interna.10
2.- L’asilo costituzionale in relazione alle fonti internazionali e alle fonti di diritto
interno
La Costituzione contiene un’esplicita norma di tutela dell’asilo territoriale : l’art. 10, terzo
comma, nella quale è previsto che “lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Tralasciando le ragioni storico-politiche
che hanno portato ad una formulazione così ampia del diritto11, è opportuno evidenziare che la
dottrina costituzionalistica italiana, fin dai primi commenti della norma costituzionale, ha
qualificato l’asilo come un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile anche in mancanza
di leggi ordinarie d’attuazione, di natura individuale, esercitabile ogni qual volta manchi nel
paese di provenienza la possibilità di esercitare anche soltanto una delle libertà democratiche che
sono garantite nel nostro paese. Il contenuto minimo del diritto, pertanto, non può scendere al di
sotto del diritto d’ingresso e di soggiorno al fine di consentire la presentazione e l’esame della
domanda di asilo alle autorità italiane. Secondo l’ampia formulazione della norma che non
contiene alcun riferimento all’esistenza o al pericolo di persecuzioni, è sembrato alla dottrina
costituzionalistica che il diritto d’asilo abbia un contenuto più ampio del diritto al
riconoscimento dello status di rifugiato e che ricomprenda quegli stranieri che fuggano dal
proprio paese per la necessità di salvare la propria vita, la propria sicurezza od incolumità in caso
di guerre, guerre civili, disordini gravi e generalizzati, con l’eccezione delle situazioni di esodi di
massa, potendo la legge ordinaria fissare un numero massimo complessivo di stranieri ospitabili
con questo titolo. Sulla nozione di “libertà democratiche” la dottrina costituzionalistica oscilla tra
un contenuto minimo che comprende tutti i diritti inviolabili (artt. 2 e 3; art. da 13 a 27) ed un
contenuto massimo che ritiene estendibile la tutela anche alle libertà economiche, al diritto al
lavoro in condizioni non discriminanti ed alla tutela prevista dall’art. 36 Cost. Rientra senz’altro,
nel contenuto minimo della violazione delle liberta democratiche la sottoposizione a tortura o
trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 CEDU e art. 4 carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea. Può, pertanto, ritenersi, parte integrante del diritto d’asilo costituzionale, il
diritto a non essere allontanato verso un paese che pratichi i trattamenti vietati dai citati art. 3
CEDU e 4 Carta dei Diritti, ed inoltre la normativa interna in materia d’immigrazione che
disciplina le condizioni di rilascio dei permessi umanitari (art. 5 comma sesto e 19 del Dlgs n.
286 del 1998,) può essere interpretata anche alla luce della lettura dell’art. 3, fornita
10
Favilli, Il Trattato di Lisbona e la Politica dell’Unione europea in materia di visti, asilo e immigrazione in Diritto
Immigrazione Cittadinanza, 2010, p.13
11
sulle quali: BONETTI-NERI, il Diritto d’asilo – in Diritto degli stranieri a cura di Bruno Nascimbene, Padova,
2004, p.1137 e 1138;; P. BONETTI – Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche
e sugli status di rifugiato, e di protezione sussidiaria, in corso di pubblicazione su Diritto, Immigrazione, Cittadinanza n.
1/2008; D’ORAZIO, voce Asilo (diritto costituzionale), in Encicl. Giur., 1988; C. ESPOSITO, voce Asilo in Enc.
Dir. 1958, p. 222; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975-1976, II, pp. 1049 e 1156; A.
CASSESE, Commento all’art. 10, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca Bologna-Roma, I, pp. 526-531
7
dall’orientamento sopra illustrato della Corte di Strasburgo, senza trascurare il rilievo
interpretativo dei predetti principi sulla giurisprudenza in materia di diritto d’asilo della Corte di
Giustizia dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, con l’auspicio, davvero a portata di mano,
di pervenire all’individuazione di un contenuto minimo comune in negativo (ovvero espresso
sotto forma di divieto) e in positivo in ambito europeo del diritto d’asilo, salve le formulazioni
più ampie e le previsioni di permessi temporanei aggiuntivi nei singoli diritti degli Stati membri.
a) l’art. 3 CEDU (e l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) ed i
permessi di natura umanitaria
Questa indicazione interpretativa, ove accoglibile, è carica di conseguenze pratiche (che
verranno meglio esaminate nel paragrafo dedicato alla pluralità delle misure di protezione
internazionale) anche in ordine alle questioni di giurisdizione. In particolare, se si ritiene che
l’art. 3 CEDU, con il contenuto di tutela “assoluta” che ne dà la Corte (si legga su tale specifico
aspetto, l’opinione adesiva del giudice italiano Wladimiro Zagrebelsky in coda alla sentenza), sia
compatibile con il diritto d’asilo costituzionale e con il complesso dei principi costituzionali in
materia di diritti fondamentali, occorre riesaminare, come è stato puntualmente realizzato dalla
più recente giurisprudenza di legittimità, 12alla luce di questa conclusione, la tradizionale
affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo in tema di permesso di soggiorno,
prevista dall’art. 6 del d.lgs n. 286 del 1998 Al riguardo il tradizionale orientamento che riteneva
assoggettabili al giudice amministrativo anche i permessi di natura umanitaria ritenendo non
superabile la lettera dell’art. 6 e qualificando come discrezionale il potere del Questore al rilascio
o al diniego13 ha subito un netto revirement che deve essere esaminato parallelamente
all’arricchirsi del panorama normativo interno, caratterizzato inizialmente (dall’entrata in vigore
della l. n. 39 del 1990 con le successive modifiche fino all’entrata in vigore del d.lgs n. 251 del
2007) dalla esclusiva disciplina normativa del rifugio politico, accompagnata dalla previsione dei
permessi per motivi umanitari, stabiliti all’art. 5, sesto comma del D.lgs n. 286 del 1998 e
disciplinati (in successione temporale) nei d.pr. n. 394 del 1999 e 303 del 2004 ma
successivamente arricchitosi con il nuovo sistema di protezione internazionale contenuto nel
d.lgs n. 251 del 2007, attuativo della Dir. 2004/83/CE. Questa evoluzione del diritto positivo
interno ha gradualmente ridotto la distanza tra l’ampiezza della tutela costituzionale dell’asilo14 e
l’effettiva limitatezza degli strumenti concreti di protezione umanitaria individuale, azionabili in
via giudiziale. In particolare, l’illustrazione sintetica del regime giuridico, anche di dettaglio, dei
permessi umanitari, consente di comprendere quali siano state le tappe di questa progressiva
riconduzione nell’alveo dei diritti umani di tutte le forme di protezione internazionale
12
Cass. n. 11535 del 2009 e n. 19393 del 2009. Entrambe hanno affermato la giurisdizione del giudice
ordinario sulla domanda relativa al rilascio di un permesso umanitario sia a seguito di revoca del medesimo da
parte del Questore (ex art. 28 lettera d) del d.p.r. n.394 del 1999) sia del Prefetto (ex art. 17 d.p.r. n.303 del
2004) sia come domanda subordinata ma azionata in modo diretto e non a seguito di un diniego dopo quelle
relativa alle altre misure di protezione internazionale e all’asilo ex art. 10, terzo comma Cost.
13
Cass. S.U. ord. n. 7933 del 2008; 8270 del 2008; 5089 del 2008, quest’ultima con riferimento non al diniego
di permesso del questore ma del Prefetto, con riferimento alla richiesta riguardante il segmento giurisdizionale
del procedimento di riconoscimento dello status di rifugiato). Si trattava di orientamenti contrastati dal
prevalente indirizzo del Consiglio di Stato che affermava la giurisdizione del giudice ordinario in virtù
dell’unicità delle condizioni legittimanti le diverse misure di protezione umanitaria (sent. n. 6765 e 6761 del
2005)
15 L’art. 10 co. 3 Cost. stabilisce che lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica,
secondo le condizioni stabilite dalla legge. Ritiene che le misure di protezione internazionale di derivazione
comunitaria (con particolare riferimento alla protezione sussidiaria) abbiano finalmente dato attuazione all’art.
10, Bonetti, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e
di protezione sussidiaria, in questa Rivista, n. 1.2008 pagg. 13 ss.
8
individuabili nel nostro ordinamento, e come i più recenti orientamenti della Suprema Corte15
abbiano saputo coniugare il quadro costituzionale ed internazionale16 con l’evoluzione del diritto
interno al fine di iscrivere definitivamente nella categoria dei diritti fondamentali e nella
giurisdizione del giudice ordinario anche i permessi umanitari. La ricomprensione nel contenuto
minimo delle “libertà democratiche” tutelate dall’art. 10, terzo comma Cost. dei trattamenti
vietati dall’art. 3 CEDU e 4 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, può condurre ad
ipotizzare che il richiedente asilo cui sia stato negato il riconoscimento dello “status” di rifugiato
(per esempio per l’insorgenza delle condizioni ostative previste dalla Convenzione di Ginevra ed
ora dal Dlgs n. 251/2007) abbia il diritto di richiedere un titolo di soggiorno, se ne ricorrono le
condizioni previste dall’art. 3 CEDU, all’autorità amministrativa competente (nel nostro
ordinamento, il Questore) ed in caso di diniego, al giudice ordinario, potendosi far discendere
dalla assolutezza della tutela prevista dall’art. 3 CEDU ed art. 4 Carta di Nizza e soprattutto
dall’ampiezza del contenuto dell’asilo costituzionale soltanto una situazione giuridica soggettiva
qualificabile come diritto perfetto, non comprimibile per mezzo dell’esercizio discrezionale di
poteri amministrativi, conformabile esclusivamente mediante riserva assoluta di legge e
tutelabile mediante riserva di giurisdizione ordinaria. Nell’originario impianto della l. n. 39 del
1990 era previsto esclusivamente che il questore dovesse rilasciare un permesso temporaneo per
la durata del procedimento di riconoscimento dello status di rifugiato politico allo straniero al
quale era stato consentito l’ingresso a questo fine. Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 286 del
1998, (art. 5, co. 6) nella disciplina giuridica sull’immigrazione viene introdotto il divieto di
revoca o rifiuto del permesso di soggiorno quando vi siano “seri motivi” di carattere umanitario
risultanti dagli obblighi costituzionali17 (art. 10, co. 3 Cost.) ed internazionali (art. 3 CEDU
nell’interpretazione della Corte di Strasburgo)18 assunti dallo Stato italiano, ovvero viene
previsto per la prima volta il rilascio di permessi di natura umanitaria sulla base del principio di
non refoulement anche in presenza di circostanze non qualificabili come persecuzione
individuale ma comunque caratterizzate da un pericolo effettivo per l’integrità psicofisica dello
straniero. Dall’esame della norma risulterebbe attribuito al questore un potere discrezionale
ampio nel rilascio di questa tipologia di permessi, controllabile esclusivamente dal giudice
amministrativo. In realtà se ne farà quasi solo esclusivamente usoesclusivamente in pendenza dei
procedimenti diretti al riconoscimento dello status di rifugiato, limitatamente alla fase davanti
alle Commissioni, essendo quanto mai frequenti, anche alla luce della giurisprudenza di
legittimità, le revoche dopo il diniego della Commissione, nonostante l’impugnabilità della
pronuncia davanti al giudice ordinario. Ma il rilievo dei motivi umanitari si riscontra anche
nell’art. 19, co. 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 con la previsione del divieto di espulsione o di
respingimento (cui non può che conseguire il rilascio di un titolo di soggiorno fondato su ragioni
umanitarie) per lo straniero che «possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di
sesso, di lingua,di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali». All’ampia nozione normativa si è contrapposta per lungo tempo l’orientamento,
ingiustificatamente restrittivo della Suprema Corte, fondato sulla necessità che la condizione del
Paese d’origine dello straniero debba essere attestata mediante un factum principis ovvero
mediante l’avvenuta adozione degli strumenti collettivi di protezione temporanea previsti dal
successivo art. 20 e non possa essere rimessa alla valutazione individuale del giudice (Cass. n.
16. S.U. n. 11535/2009 in Diritto Immigrazione Cittadinanza, 2009, pag. 140; S.U. n. 19393/2009 in id.
2010, 139sez. I n. 26253/09 in id 2010, 145
17. Art. 3 CEDU ed art. 4 della Carta dei diritti dell’Unione europea entrata in vigore definitivamente
nell’UE l’1.12.2009.
17 Ma la giurisprudenza della Corte è stata oscillante: dalla diretta azionabilità dell’art. 10 nelle sentenze n.
4674/1997 e n. 907/1999 in www.italgiuregiustizia.it, alle più restrittive n. 8423/2004, in
www.italgiuregiustizia.it e 25028/2005 in questa Rivista, n. 2.2006 pag. 93. Ha aperto al strada ai nuovi
orientamenti S.U. 27310 del 2008 in Diritto Immigrazione Cittadinanza, n. 2009,127 e le già citate S.U.
n.11535 del 2009; 19393 del 2009; 26253 del 2009 cui deve aggiungersi la recentissima 17576 del 2010
19 Caso Cruz - Varas 20.3.1991; caso Vilvraja 30.10.1991; Caso Saadi 28.2.2008, cit.
9
3732 del 2004 e 28775 del 2005). Tale indirizzo, già superato con la pronuncia n. 16417 del
200719 è stato radicalmente criticato dalla pronuncia delle S.U. n. 19393 del 2009 in quanto
palesemente in contrasto con quello attuale fondato sul pieno ed incomprimibile diritto
soggettivo, appartenente alla categoria dei diritti umani, di richiedere al giudice ordinario non
solo la revisione della valutazione effettuata dalle Commissioni in ordine alle misure di
protezione internazionale previste dall’ordinamento ma anche la valutazione delle condizioni per
il rilascio del permesso umanitario implicitamente rigettato nel provvedimento finale o
rifiutato/revocato dal questore. In una pronuncia ancora più recente20, la Corte richiamando
espressamente l’insegnamento delle S.U. contenuto nella sentenza n. 19393 del 2009, ha
sviluppato ulteriormente le feconde indicazioni contenuti nel precedente delle sezioni unite. Il
caso di specie presenta delle peculiarità che devono essere evidenziate. Si tratta del rigetto di
un’opposizione ad un provvedimento di espulsione fondato sul mancato riconoscimento da parte
del giudice di pace delle condizioni indicate nell’art. 19 primo comma d.lgs n. 286 del 1998. Lo
straniero opponente aveva inoltrato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico
che era stata rigettata dalla Commissione centrale, organo allora competente per tali istanze. Ne
era seguita la revoca del permesso umanitario temporaneo ed il decreto di espulsione. Il giudice
di pace, rilevata l’assenza di un valido titolo di soggiorno aveva confermato il decreto di
espulsione, senza procedere ad alcun accertamento dell’esistenza delle condizioni che
determinano ex art. 19 citato, il divieto di espulsione in applicazione del principio di non
refoulement. (“In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui
lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza,
religione, opinioni politiche condizioni personali e sociali, ovvero possa rischiare di essere
rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”). La Corte, ribadita la
collocazione nella categoria dei diritti umani di tutte le misure anche temporanee di natura
umanitaria, pone quattro rilevanti principi :
a)
evidenzia l’identita’ di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del
diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni
tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali che trova riscontro
nell’espressa disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, primo comma.
motivata sulla base dell’esistenza di una situazione di serio pericolo di persecuzioni.
In secondo luogo
b)
esclude che il divieto di espulsione ex art. 19 citato, operi solo in connessione con
l’art. 20, trattandosi di uno strumento di tutela giurisdizionale individuale.
c)
Ritiene che l’esistenza delle condizioni ostative all’espulsione debbano essere
scrutinate direttamente dal giudice di pace anche quando vi sia stato un diniego da
parte degli organi tecnici (Commissione Centrale prima e Commissioni territoriali
attualmente) demandati all’esame delle istanze di protezione internazionale,
ponendosi in evidente contrasto con gli orientamenti precedenti che richiedevano, ai
fini della ricorrenza delle condizioni ostative all’espulsione ex art. 19, primo comma
del d.lgs n. 286 del 1998, che lo straniero indicasse ragioni sopravvenute o diverse da
quelle poste a base della domanda di protezione umanitaria respinta dalle
Commissioni, in caso di mancata impugnazione davanti al giudice ordinario del
provvedimento di rigetto.
d)
Afferma che l’identità di natura giuridica delle misure di natura umanitaria era
riscontrabile anche nella disciplina normativa vigente prima dell’entrata in vigore
della normazione di derivazione comunitaria (d.lgs n. 251 del 2007 e d.lgs n. 25 del
2008) alla quale attribuisce una funzione definitivamente chiarificatrice della
20. In questa pronuncia la Corte ha esaminato la condizione di persecuzione individuale di uno straniero
omosessuale derivante dalla vigenza di una legislazione fortemente omofoba, fino alla previsione della
detenzione in carcere, nel Paese d’origine.
20 Cass. n. 10636 del 2010
10
unitarietà della categoria, e della sua univoca riconduzione nei diritti umani,
desumendola in particolare dalle norme che introducono la misura della protezione
sussidiaria e dalla previsione che ritiene convertibili in protezione sussidiaria i
permessi umanitari vigenti al momento dell’introduzione del nuovo regime giuridico,
stabilendo tra di esse una vera e propria equivalenza
e)
Attribuisce al giudice di pace il dovere di accertare l’esistenza delle condizioni di
pericolo per l’incolumità psico-fisica del richiedente dedotte a sostegno
dell’opposizione all’espulsione escludendo che tale organo giudiziario possa sottrarsi
a tale sindacato.
Sarà interessante comprendere gli sviluppi di questi nuovi orientamenti, sotto due profili in
particolare.
Il primo riguarda la possibilità che si arrivi ad un definitivo superamento dell’orientamento
fortemente criticabile che non consente allo straniero che ha ottenuto un provvedimento di
rigetto dalla Commissione centrale (o dalle Commissioni territoriali) di far valere le
medesime ragioni in sede di opposizione all’espulsione se non abbia impugnato il
provvedimento di rigetto. Deve essere infatti evidenziato che nella vigenza del regime
giuridico incentrato sull’unicità della misura di protezione internazionale consistente nel
rifugio politico (ex L. n. 39/1990 e successive modifiche d.p.r. n. 394 del 1999) alla
Commissione centrale non era attribuita un’esplicita competenza relativamente
all’individuazione delle condizioni di rilascio dei permessi di natura umanitaria, essendo tale
competenza stata introdotta con il d.p.r. n. 303 del 2004 ed attualmente con il d.lgs n. 25 del
2008. Pertanto, in mancanza di qualsiasi indicazione in ordine a tali misure c’è da chiedersi
come poteva formarsi un “giudicato” anche sulle situazioni idonee al rilascio di permessi
umanitari o al positivo accertamento delle condizioni ex art. 19 d.lgs n. 286 del 1998 sulle
quali la Commissione non si era pronunciata né esplicitamente né implicitamente, peraltro
dotato di un’intangibilità tale da non poter consentire di dedurre le medesime ragioni in un
giudizio avente una finalità del tutto diversa (l’opposizione all’espulsione) in quanto
finalizzato ad ottenere una misura di protezione umanitaria “a carattere negativo, che non
conferisce, di per sé, al beneficiario alcun titolo di soggiorno in Italia, ma solo il diritto di
non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, spettando al
giudice di valutare in concreto la sussistenza delle allegate condizioni ostative all’espulsione
o al respingimento”. (così Cass. n. 10636 del 2010). C’è inoltre da osservare che si verrebbe
a determinare un’ingiustificata disparità di trattamento tra gli stranieri che hanno inoltrato
domanda d’asilo e quelli che non lo hanno fatto perché hanno ottenuto un titolo di soggiorno
di natura diversa. Per i primi l’opposizione all’espulsione fondata sul divieto ex art. 19
primo comma d.lgs n.286 del 1998 deve essere giustificata da fatti diversi da quelli già
allegati od accertati (ma ritenuti insufficienti) davanti alle Commissioni territoriali mentre
per i secondi non vi è alcuna limitazione all’allegazione di ragioni impeditive sulla base del
principio del non refoulement il rientro nel paese d’origine. Infine non può non porsi in
evidenza che il giudizio di opposizione al provvedimento espulsivo e quello da azionare
davanti al Tribunale seguono procedimenti ed hanno costi organizzativi e finanziari diversi.
I profili di possibile incostituzionalità dell’interpretazione dell’art. 19, primo comma,
provenienti dall’orientamento criticato della Suprema Corte sono molteplici. Si tratta di un
orientamento in via di superamento e rimeditazione necessaria in quanto incompatibile con
la collocazione del diritto d’asilo fornita da S.U. n. 19393 del 2009, come rivelato proprio
dalla recente pronuncia n. 10636 del 2010. La possibilità di valutare il permesso umanitario,
disciplinato dal nostro diritto interno, come una delle forme di attuazione pratica del diritto
d’asilo costituzionale, trova, come evidenziato dai nuovi orientamenti delle sezioni unite
sopra illustrati, un forte sostegno normativo nell’art. 32 della l. 189 del 2002 (che aggiunge
gli artt. da 1 bis a 1 septies all’art. 1 della L. n. 39 del 1990,) il quale stabilisce (art. 1 quater
comma quarto) espressamente che le Commissioni Territoriali, investite della decisione
11
relativa al riconoscimento dello “status” di rifugiato
(Commissioni che sostituiscono,
dalla data di entrata in vigore della L. n. 189/2002, la Commissione Centrale) sono tenute a
valutare l’esistenza delle condizioni per la concessione da parte del questore del permesso di
soggiorno previsto all’art 5 comma sesto del Dlgs n. 286 del 1998 ed in particolare, le
conseguenze di un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle convenzioni
internazionali e dell’art. 3 della CEDU. Tale sistema si coniuga senza soluzione di continuità
con quello di derivazione comunitaria.
Anche l’art. 32, comma terzo, del Dlgs n. 25 del 2008 stabilisce che le Commissioni
territoriali quando non accolgano la domanda di protezione internazionale, ma ritengano che
possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, trasmettono gli atti al questore per
l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 Dlgs n. 286 del 1998. Se il permesso di
natura umanitaria, non escluso dal sistema di protezione internazionale introdotto dai Dlgs n. 251
del 2007 e n. 25 del 2008 che hanno recepito la Direttiva 2004/83/CE e la Direttiva 2005/85/CE,
derivante dall’assolvimento di obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato Italiano, sarà
destinato ad entrare nel complessivo giudizio delle Commissioni investite delle domande di
protezione internazionale, anche sotto questo profilo si porrà il problema della corretta
individuazione della giurisdizione, in caso di diniego o revoca del questore, dovendosi valutare
per un verso l’effettiva autonomia del provvedimento amministrativo riguardante il titolo di
soggiorno e dall’altro, la natura giuridica della situazione soggettiva di cui risulta titolare il
richiedente asilo che, in via subordinata, richiede il permesso umanitario in applicazione dell’art.
3 CEDU.
In questo più ampio sistema delle fonti, sottolineato dai più recenti interventi delle S.U. deve
essere, ora, valutata la tradizionale affermazione della mancanza di una legge organica sull’asilo
costituzionale, così come previsto dall’art. 10 Cost. Sul contenuto delle “condizioni stabilite
dalla legge” secondo le quali va riconosciuto il diritto d’asilo costituzionale, la dottrina
costituzionalistica ha avuto poche oscillazioni. La legge ordinaria ha il compito di stabilire le
condizioni qualitative e quantitative del soggiorno (eventualmente limitando gli ingressi o
disponendo modalità specifiche, anche assoggettati a controlli e limitazioni del soggiorno) ma
non può incidere sui requisiti oggettivi per godere del diritto d’asilo, compiutamente individuati
dalla norma costituzionale nell’effettivo (ed individuale) impedimento nell’esercizio delle libertà
democratiche ovvero dei diritti inviolabili, riconosciuti dalla Costituzione e dalle fonti
internazionali patrizie, quali la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Come verrà meglio
illustrato nel paragrafo dedicato agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, la Corte di
Cassazione ha invece sviluppato un orientamento fortemente restrittivo (Cass. sez. I n. 25028 del
2005; n. 18353 del 2006; n. 18940 del 2006 rv. 591592) ritenendo che il diritto d’asilo
costituzionale non abbia un contenuto autonomo ma lo mutui dalla condizione di rifugiato, in
quanto funzionalizzato al riconoscimento del più ampio “status” di protezione internazionale
previsto nel nostro ordinamento.
La linea interpretativa seguita dai sopra citati orientamenti della Corte di Cassazione,
peraltro contrastante con quelli precedentemente espressi dalle S.U. (sent. n. 4674 del 1997 e n.
907 del 1999) che avevano riconosciuto l’azionabilità diretta davanti al giudice ordinario del
diritto d’asilo, oggi si trova di fronte ad una pluralità di misure di protezione internazionale, sia
introdotte da fonti interne di provenienza comunitaria, sia derivanti dall’applicazione dell’art. 3
CEDU, sia previsti dal T.U. sull’immigrazione (Dlgs n. 286/98) sotto forma di protezione
umanitaria. E’ necessario, pertanto, esaminare il contenuto di questa pluralità di misure di
protezione per offrire la possibilità di comprendere se l’orientamento fondato sulla natura
meramente funzionale (a richiedere le misure di protezione internazionale tipizzate) dell’asilo
costituzionale fondata sull’argomento relativo all’assenza della legge organica invocata dall’art.
10 terzo comma Cost. sia ancora sostenibile alla luce della nuova qualificazione unitaria di tutte
le forme di protezione internazionale di natura umanitaria come diritti umani.
12
3.- Il sistema normativo interno di protezione internazionale dalla L. n. 39 del 1990 alla L.
n. 189 del 2002.
La legge n. 39 del 1990 è stata la prima fonte interna di specifica regolamentazione del
diritto di asilo politico anche sotto il profilo procedimentale, dopo la legge di attuazione della
Convenzione di Ginevra. Nonostante l’espressa utilizzazione, nel titolo, dell’espressione “asilo
politico”, con la L. n. 39/1990 è stato disciplinato esclusivamente il procedimento relativo al
riconoscimento dello “status” di rifugiato, affidandone la giurisdizione, all’esito dell’ineludibile
scansione davanti alla Commissione Centrale per l’asilo, al giudice amministrativo. In questa,
come in altre fonti normative, interne ed internazionali che verranno di volta in volta esaminate,
il termine “asilo” viene usato con una formulazione ampia ed ambigua, non caratterizzante una
specifica misura di protezione internazionale. In dottrina sottolineano la non univocità dell’uso
del termine asilo, nelle fonti normative, interne ed internazionali, su posizioni contrapposte21. E’
pertanto, necessario, qualificare con la previsione di uno specifico contenuto attuativo del diritto
a quale forma di asilo il legislatore abbia voluto riferirsi, atteso che come è stato sottolineato22 il
diritto d’asilo non beneficia di un regime internazionale coerente ed unificato. La predetta non
univocità del termine asilo, ha condotto a conclusioni molto distanti tra di loro, in quanto da un
lato si è ritenuto che questa ambiguità caratterizzasse anche l’asilo costituzionale e che l’art. 10
terzo comma, Cost., andasse letto come l’astratta previsione di un diritto che deve riempirsi di
contenuto esclusivamente mediante una legge ordinaria, avendo altrimenti l’esclusiva funzione
di consentire l’ingresso al fine di verificare l’esistenza delle condizioni di permanenza, stabilite
esclusivamente da norme di diritto interno (e coincidenti nel nostro ordinamento, esclusivamente
con la normativa sul rifugio), mentre dall’altro si è dotato il diritto di asilo costituzionale di
autonomia rispetto alle altre forme di protezione previste dall’ordinamento, ed in particolare
rispetto allo “status” di rifugiato, anche con riferimento all’accesso, diretto, alla giurisdizione
ordinaria (Cass. S.U. n. 4764 del 1997).
Con l’approvazione, nel 1998, del Dlgs n. 286, anche la giurisdizione in ordine al
riconoscimento dello “status” di rifugiato, è passata al giudice ordinario, in quanto è stato
abrogato l’art. 5 della legge n. 39/1990 che indicava il giudice amministrativo come quello
esclusivamente competente per l’esame dei provvedimenti amministrativi in materia di “status”
(Cass. S.U. n. 907 del 1999), mentre è rimasto in vigore l’art. 1 della L. n. 39/1990 ed il
procedimento da svolgersi davanti alla Commissione Centrale per l’asilo, prima di poter
accedere alla giurisdizione. Dopo le pronunce delle S.U del 1997 e 1999, nel quadro normativo
mutato per effetto dell’entrata in vigore del Dlgs n. 286 del 1998, la domanda riguardante il
riconoscimento dello “status” di rifugiato doveva essere proposta, indefettibilmente, davanti
all’Autorità amministrativa, e solo all’esito del diniego poteva essere adita la giurisdizione
ordinaria, mentre la domanda avente ad oggetto l’asilo costituzionale, come misura di protezione
rivolta esclusivamente all’ottenimento di un permesso di soggiorno, non corredato delle garanzie
e prerogative proprie dello “status” di rifugiato e di durata presumibilmente predefinita, salva la
verifica della persistenza delle condizioni indicate nell’art. 10 Cost., poteva direttamente essere
proposta davanti al giudice ordinario, come in concreto si è verificato con le varie pronunce dei
Tribunali al riguardo. La situazione sopra rappresentata, non ha mai assunto i caratteri della
stabilità né sul piano normativo, né con riferimento agli sviluppi degli orientamenti della
giurisprudenza di legittimità. Inoltre, il riconoscimento del diretto carattere precettivo del diritto
d’asilo, non ha avuto, in concreto, la possibilità di svilupparsi in forma diversa dal
riconoscimento dello “status” di rifugiato, perché le modalità d’inoltro della domanda d’asilo al
21
D. CONSOLI e G. SCHIAVONE, L’effettività negata del diritto d’asilo e del diritto al rifugio
politico, in Dir. Citt. Imm. 3/2007 p.; e S. DEL CORE, Diritto d’asilo e status di rifugiato nella
giurisprudenza di legittimità, in Giust. Civ. n. 4/2007 p. 141
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Del Core ult. cit.
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momento dell’ingresso (regolare od irregolare) o successivamente all’estinzione o mutamento di
altro titolo di soggiorno, sono state esclusivamente quelle fissate nell’art. 1 della L. n. 39/1990
(integrate dall’art. 1 del D.P.R. n. 136 del 1990), con esclusivo riferimento alla domanda di
riconoscimento dello “status” di rifugiato. Per l’asilo costituzionale, anche nella fase temporale
in cui a tale misura di protezione internazionale è stata riconosciuta autonomia e diretta
precettività, è, comunque sempre stato necessario, modulare l’ingresso secondo le prescrizioni
della L. n. 39/1990 e del D.P.R. n. 136 del 1990. E’ opportuno sottolineare che l’unica forma
d’ingresso al fine di richiedere asilo prevista normativamente nel nostro paese è stata, prima
dell’intervento del legislatore comunitario, quella indicata nelle citate disposizioni, rivolte
esclusivamente al riconoscimento dello “status” di rifugiato (art. 1 comma quinto L. n. 39 del
1990 ed art. 1 D.P.R. n. 136 del 1990, quest’ultima disposizione in vigore fino al 20 aprile 2005,
in quanto sostituita da tale data dall’art. 2 del D.P.R. n. 303/2004 di attuazione della L. n. 189 del
2002). La mancanza di un procedimento specificamente diretto ad individuare l’autorità
competente, al momento dell’ingresso, a ricevere la domanda avente ad oggetto l’asilo
costituzionale, ha, sul piano fattuale, escluso qualsiasi possibilità di richiedere una misura di
protezione internazionale, diversa dal rifugio politico, al momento dell’ingresso, ed ha
evidenziato quale avrebbe dovuto essere il contenuto ineludibile della legge cui fa riferimento
l’art. 10, terzo comma, Cost. Senza una specifica previsione normativa che consenta l’inoltro di
una domanda diversa dal rifugio politico, al momento dell’ingresso, anche accedendo
all’interpretazione più estensiva dell’art. 10, terzo comma Cost., lo spazio concreto di
applicazione del diritto d’asilo, ha dovuto, comunque ritenersi limitato alla domanda giudiziale
rivolta dall’estero (come nel caso Ocalan) o da parte di chi sia già in Italia regolarmente. Vi è,
però, da sottolineare che anche in questo orizzonte normativo delineato dalla legge ordinaria
vigente, fino all’effettiva entrata i vigore della L. n. 189 del 2002, non sono mancate misure
umanitarie di natura diversa, applicate nel nostro paese. Al riguardo, è opportuno chiarire che
non verrà svolta una disamina analitica delle misure relative agli sfollati e ai cd. esodi di massa,
per le quali l’art. 20 del Dlgs n. 286 del 1998 stabilisce che vengano adottate con Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, misure di protezione temporanea per rilevanti ragioni
umanitarie in occasioni di conflitti, disastri naturali od altri eventi di particolare gravità in Paesi
non appartenenti all’Unione Europea. Nel paragrafo relativo agli orientamenti della
giurisprudenza di legittimità si porranno in evidenza le posizioni assunte dalla Corte in ordine
alle condizioni di operatività del divieto di espulsione stabilito dall’art. 19 Dlgs n. 286 del 1998
anche in assenza di un preventivo factum principis, consistente in un provvedimento di natura
umanitaria a carattere generale, idoneo a giustificare ex art. 20 il predetto divieto. In questa
disamina delle fonti, è opportuno, soltanto, anticipare che agli stranieri rientranti nelle misure di
protezione umanitaria sopraindicate, sono concessi permessi di natura temporanea dal Prefetto
(invece che dal Questore, come per i permessi di natura umanitaria rilasciati per lo svolgimento
del procedimento di riconoscimento dello “status” di rifugiato), revocabili dalla medesima
autorità ed impugnabili esclusivamente davanti al giudice amministrativo (ex art. 9 Dlgs n. 85
del 2003, dettato in attuazione della Direttiva 2001/55/CE relativa alla concessione della
protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati ed alla cooperazione in ambito
comunitario).
Devono, invece, essere esaminate, le misure di protezione umanitaria contenute nel Dlgs n.
286 del 1998, desumibili dall’art. 5, comma sesto e dall’art. 19 del medesimo T.U. A tali
disposizioni si è già fatto cenno nell’analisi dell’art. 3 CEDU anche in considerazione della
posizione giuridica soggettiva dello straniero che ne chiede la fruizione. Ora è necessario
trattarne in correlazione con i permessi di natura temporanea, rilasciati dal Questore, per la
durata del procedimento di riconoscimento dello “status” di rifugiato. Nel sistema normativo che
si sta esaminando, anteriore all’entrata in vigore della L. n. 189 del 2002, alla Commissione
Centrale per il diritto d’asilo non era attribuito il potere di richiedere che il questore rilasciasse
un permesso di natura umanitaria, in presenza delle condizioni desumibili dall’art. 5 comma
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sesto e 19 Dlgs n. 286 del 1998. Normalmente al rigetto della Commissione, seguiva, da parte
del Questore, l’ordine di allontanamento dello straniero, previo provvedimento di cessazione
dell’efficacia del permesso temporaneo in precedenza operante. Sostanzialmente, la durata del
permesso era strettamente condizionata dall’esito della fase amministrativa della domanda di
riconoscimento dello “status” di rifugiato. Nessun automatismo era previsto per la proposizione
della domanda in via giurisdizionale di riesame del rigetto. Altrettanto normalmente, accanto alla
domanda di riesame relativa al rifugio politico, veniva avanzata anche la domanda di asilo ex art.
10, terzo comma Cost, in quanto finalizzata alla concessione di un titolo di soggiorno meno
garantito, fondata sul riscontro delle condizioni indicate dall’art. 5 comma sesto (ed in
particolare le condizioni che rendono operativo il divieto ex art. 3 CEDU o in presenza della
possibilità di persecuzioni, più attenuata del “fondato timore” richiesto dalla Convenzione di
Ginevra) discriminatorie per i motivi indicati dal successivo art. 19.
Da parte dell’autorità amministrativa (il Questore) vi era una sostanziale sovrapposizione
delle due tipologie di permesso di soggiorno, quello temporaneo, a fini di permettere la presenza
dello straniero nel territorio per la durata del procedimento, e quello umanitario, tanto che il
riscontro dei “motivi” umanitari desumibili dai sopra citati art. 5 comma sesto e 19 Dlgs n. 286
del 1998, veniva dedotto davanti al giudice ordinario nei giudizi di opposizione all’espulsione, o
davanti al giudice amministrativo adito ex art. 6, ultimo comma avverso il diniego o rifiuto di
rilascio del permesso per motivi umanitari. Una volta innescato il procedimento di
riconoscimento dello “status” di rifugiato politico, i provvedimenti del questore, relativi al titolo
di soggiorno dello straniero erano strettamente correlati, all’esito del procedimento e non
riguardavano l’autonomo accertamento delle condizioni indicate nelle disposizioni sopraindicate
del Dlgs n. 286 del 1998. Secondo quanto stabilito nel sesto comma dell’art. 1 bis del D.L. n.
416 del 1989, infine, nelle more della decisione del tribunale, adito dopo il rigetto operato in
sede di procedimento amministrativo, il richiedente asilo poteva richiedere, al prefetto, un
permesso temporaneo fino all’esito del giudizio, dal momento che la proposizione del ricorso in
via giurisdizionale non produceva effetti sospensivi. Avverso il provvedimento di rigetto assunto
dal Prefetto, la Corte di Cassazione aveva stabilito che si potesse ricorrere soltanto davanti al
giudice amministrativo (Cass. sez. I n. 6077 del 2005, indirizzo confermato anche dalle S.U: con
sent. n. 5089 del 2008 nel vigore dell’art. 17 D.P.R. n. 303 del 2004) ma la nuova collocazione
dei permessi umanitari nell’alveo dei diritti umani e la decisa opzione per la giurisdizione del
giudice ordinario produrranno presumibilmente effetti modificativi anche sugli orientamenti
sopra indicati avendo anche i titoli di soggiorno rilasciati dal Prefetto natura di permessi
umanitari e dovendo escludersi il riconoscimento di potere discrezionale in questo ambito ad
alcuna autorità ammnistrativa ex S.U n. 11535 del 2009 e 19393 del 2009.
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Gli interventi della giurisprudenza di legittimità sui permessi umanitari
Già con l’entrata in vigore della L. n. 189 del 2002 e del Regolamento di attuazione (D.P.R.
n. 303 del 2004), il quadro normativo ha subito un mutamento non trascurabile, non perché sia
stato espressamente ampliato il numero e la tipologia delle misure di protezione umanitaria
(anche in questa legge l’unico procedimento espressamente disciplinato è quello relativo al
riconoscimento dello “status” di rifugiato politico), come, invece, accadrà con le innovazioni
legislative successive, ma per le differenze procedimentali riguardanti il procedimento di
riconoscimento dello “status” di rifugiato.
In primo luogo, la legge n. 189 del 2002 ha previsto un’articolazione territoriale delle
Commissioni che svolgono funzioni decidenti, ed ha attribuito alla Commissione Centrale che ha
mutato la denominazione in Nazionale, funzioni non decidenti (salvo i casi di revoca o
cessazione dello “status”). In secondo luogo, è stata introdotta, nei casi in cui lo straniero sia
trattenuto nei centri d’identificazione o permanenza, una procedura “semplificata” ancorché
riguardante soltanto la fase amministrativa e non quella giurisdizionale, in ordine alla quale
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nessuna precisa indicazione normativa relativa al rito, viene fornita all’interprete, prima del Dlgs
n. 25 del 2008.
Tuttavia, il profilo di maggiore novità ed incisività, per ciò che riguarda l’ambito di applicazione
e il contenuto dei permessi umanitari, è venuto dalla previsione contenuta al comma quarto
dell’art. 1 quater, nel quale si prevede che le Commissioni territoriali, nell’esaminare la domanda
di asilo valutino l’esistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso umanitario, alla luce
dei parametri indicati nell’art. 5, sesto comma Dlgs n. 286 del 1998, consistenti, come già
rilevato, in seri motivi di carattere umanitario (ancorché non riconducibili al fumus persecutionis
richiesto per il riconoscimento dello status di rifugiato) o desumibili da obblighi di carattere
costituzionale (le condizioni per il riconoscimento, individuale, del diritto d’asilo costituzionale)
o internazionale (il parametro desumibile dal divieto imposto all’art. 3 CEDU, così come
interpretato dalla Corte di Strasburgo). Attesa la indiscussa appartenenza alla categoria dei diritti
umani delle posizioni giuridiche soggettive formanti oggetto della cognizione delle
Commissioni, si può ritenere che non sia necessaria un’esplicita domanda del richiedente asilo,
formulata subordinatamente alla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, così come
l’uso testuale del predicato verbale all’indicativo (le Commissioni “valutano”) induce a ritenere
doveroso per le Commissioni l’accertamento delle condizioni per il rilascio del permesso
umanitario. In caso di accertamento negativo esplicito da parte delle Commissioni, dovrebbe
conseguire l’ordine di allontanamento da parte del questore, e il diniego del permesso di
soggiorno per la successiva permanenza del richiedente asilo nel nostro paese. Questa specifica
evenienza può essere utile per comprendere come sia radicalmente mutato l’esercizio del potere
di rilasciare permessi umanitari da parte del questore nel corso del procedimento di
riconoscimento delle misure di protezione. All’ingresso, senz’altro, in mancanza delle condizioni
ostative per l’inoltro della domanda, il permesso temporaneo del questore è un atto dovuto,
coperto dalla previsione costituzionale del diritto d’asilo, anche nella più recente accezione
restrittiva della Corte di Cassazione (Cass. n. 25028 del 2005). Dopo l’esito negativo del
procedimento accompagnato dall’accertamento negativo delle condizioni per il rilascio del
permesso umanitario, ugualmente al questore non sono riconoscibili poteri discrezionali in
ordine alla valutazione, diversa da quella delle Commissioni, dell’esistenza dei requisiti indicati
nell’art. 5 comma sesto del Dlgs n. 286 del 1998, comprensive per la generale formulazione della
norma, anche dei parametri contenuti nell’art. 19 Dlgs n. 286 del 1998, riguardanti i divieti di
espulsione per ragioni umanitarie. L’individuazione dei poteri del questore si complica, quando,
come è accaduto in concreto, da parte della Commissione non vi sia un’espressa menzione della
valutazione delle condizioni per il rilascio del permesso umanitario. L’esperienza dei casi
sottoposti al vaglio giudiziale, pone in evidenza che il questore, generalmente, dopo il rigetto
della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ordina l’allontanamento dello
straniero, anche quando sia espressamente richiesto il rilascio di un permesso quanto meno per
l’espletamento del procedimento giurisdizionale. Anche in tale seconda ipotesi, di anomala
assenza di valutazione da parte delle Commissioni, il sindacato sul rilascio o il diniego dei
permessi umanitari è attribuito in via esclusiva al giudice ordinario, come definitivamente
affermato da S.U. n. 19393 del 2009. A tal riguardo è opportuno esaminare in modo più
dettagliato le argomentazioni della Corte in ordine alla natura e l’esercizio dei poteri dell’autorità
amministrativa nei procedimenti di riconoscimento di misure di protezione internazionale. Già
nella sentenza delle S.U. n. 11535 del 2009 che si riferisce esclusivamente al quadro normativo
derivante dalla L. n. 189 del 2002 e dal d.p.r. n. 303 del 2004, la Corte, sottolineandone la piena
coerenza con quello di derivazione comunitaria, ha esattamente delineato i poteri degli organi e
delle autorità amministrative che sono tenute ex lege a svolgere funzioni rilevanti nei
procedimenti riguardanti il rilascio di misure di protezione internazionale : «appare evidente che
la previsione dell’art. 32 del d.lgs n. 25 del 2008 è nulla più che una organica ed esplicita
regolamentazione del nuovo rapporto tra accertamento valutativo della Commissione
territoriale e potere del questore che era già chiaramente delineato nella norma introdotta dall’art.
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32 della legge n. 189 del 200223 […)] di qui l’attribuzione alla Commissione di tutte le
competenze valutative della posizione del richiedente asilo dalla protezione maggiore […] a
quella residuale e temporanea ex art. 5, co. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 con un’organica
previsione che fa venir meno ogni margine di apprezzamento politico delle condizioni del paese
di provenienza (apprezzamento che non può competere ad un organo tecnico quale la
Commissione territoriale) e lascia residuare al Questore nulla più che un compito di mera
attuazione dei deliberati assunti sulla posizione dello straniero assunti dalla Commissione
stessa». Le conseguenze di questa ricostruzione normativa unitaria delle misure di protezione
sono di estrema rilevanza. Il sindacato della Commissione è rivolto «all’accertamento delle
condizioni del diritto alla protezione» ed ha natura tecnica, così come tecnico è l’organo
collegiale. Il riscontro di condizioni ostative al rimpatrio in virtù degli obblighi costituzionali ed
internazionali assunti dall’Italia determina la richiesta di misure attuative da adottarsi senza
alcun potere discrezionale-valutativo da parte del questore, com’è logico che sia all’esito di una
valutazione che riguarda la titolarità ed il riconoscimento di diritti umani. Solo alle Commissioni
spetta “la valutazione della sussistenza del quadro di controindicazioni al rimpatrio formulato
dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia e richiamare tale valutazione come premessa
per l’adozione di provvedimenti di cui all’art. 5, sesto comma T.U. sull’immigrazione significa
assegnare alla Commissione l’accertamento delle condizioni di diritto alla protezione e al
contempo escludere alcun margine di discrezionalità in tale valutazione”. Nessun organo od
autorità è tenuto ad esercitare un potere discrezionale nelle determinazioni relative a qualsiasi
misura anche temporanea di natura umanitaria nell’attuale sistema normativa. Un ulteriore
indizio del consolidato nuovo quadro, fondato sulla qualificazione come diritti umani di tali
situazioni giuridiche soggettive è dato secondo la Corte dal rapporto tra le misure qualificabili
come “permessi umanitari” e la “protezione sussidiaria, così come delineata da una norma di
diritto intertemporale, l’art. 34, quarto e quinto comma del d.lgs n. 251 del 2007. Secondo tale
norma i permessi umanitari che devono essere rinnovati nella vigenza del nuovo regime
giuridico stabilito dal d.lgs n. 251 del 2007 e 25 del 2008 vengono tramutati in protezione
sussidiaria, assumendo così una maggiore stabilità temporale e una precisa definizione delle
facoltà e delle garanzie ad essi connessi. Secondo la Corte questa previsione non ha solo natura
intertemporale ma evidenzia come i permessi umanitari desumibili dal quadro normativo del
T.U. sull’immigrazione (art. 5, sesto comma e 19, primo comma) sono una categoria ad
esaurimento, dovendo essere definitivamente soppiantati dalla cd. protezione sussidiaria. Questa
indicazione che, all’interno della pronuncia costituisce un passaggio argomentativi volto a
rafforzare il decisum relativo alla giurisdizione del giudice ordinario sui permessi umanitari e
non un punto autonomo di decisione, è stata criticata in dottrina24perché ritenuta
ingiustificatamente limitativa del ventaglio delle misure di protezione umanitaria desumibili dal
nostro diritto interno. Effettivamente l’art. 5, sesto comma, non può dirsi abrogato in virtù della
regola di diritto intertemporale sopra delineata, né possono dirsi eliminabili tutte le tipologie di
permessi temporanei che consentiranno al richiedente asilo di attendere l’esito del procedimento
nel nostro territorio quando non ricorrano le condizioni per il trattenimento. Si deve, pertanto
ritenere, che la Corte abbia colto l’esigenza garantista della norma, volta a stabilizzare situazioni
(quelle caratterizzate dal rilascio di permessi temporanei non giustificati dalla pendenza di un
procedimento epr il riconoscimento di una misura di protezione internazionale) caratterizzate da
un’intrinseca precarietà, ormai incompatibile con l’attuale e definitiva qualificazione del quadro
delle misure di protezione internazionale tra i diritti umani. Lo spostamento dei permessi
umanitari nell’alveo dei diritti soggettivi viene definitivamente affermato nella successiva
ordinanza n. 19393 del 2009, con la quale la Corte stabilisce la giurisdizione del giudice
ordinario in ordine alla domanda di rilascio di un permesso umanitario anche nella vigenza
24. Che ha aggiunto l’art. 1 quater all’art. 1 della l. n. 39 del 1990.
Consoli, la giurisdizione per accertare sussistenza e rilevanza dei c.d. motivi umanitari per il rilascio del titolo di soggiorno in
Diritto Immigrazione Cittadinanza, 2009,113
24
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originaria della legge n. 39 del 1990, riconoscendo in via generale ed indipendentemente dalla
disciplina normativa interna, legislativa o regolamentare, che la situazione giuridica soggettiva
dello straniero che richiede una misura di protezione internazionale o un permesso umanitario ha
natura di diritto soggettivo da includere tra i diritti umani fondamentali. Tale diritto che gode
della più alta protezione costituzionale (artt. 2 e 10 Cost.) e internazionale (art. 3 CEDU) non
può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al
potere amministrativo al quale può essere affidato un giudizio di natura esclusivamente tecnica
sull’accertamento delle condizioni per l’adozione della misura di protezione internazionale od il
rilascio di un permesso umanitario mentre il bilanciamento degli interessi o delle situazioni
costituzionalmente tutelate è riservato esclusivamente al legislatore. Fin dall’esordio della
motivazione viene sottolineata dalla Corte l’insufficienza della regolamentazione interna e la
necessità d’integrare il sistema delle fonti alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali
che proprio l’art. 5, co. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 pone a base della valutazione dei “seri
motivi” di carattere umanitario che possono giustificare la richiesta di un permesso temporaneo
di natura umanitaria. Il percorso interpretativo prende l’avvio dall’art. 2 e dall’art. 10 co. 3 Cost.
per iscrivere le richieste di asilo nei diritti fondamentali di rango costituzionale. Prosegue con la
Convenzione di Ginevra25 per evidenziarne la natura di diritti umani e con l’art. 3 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo per desumere una prima rilevante caratterizzazione
dei “seri motivi umanitari” dalla interpretazione della norma fornita dalla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo26 secondo la quale il diritto a non essere rimpatriato in presenza delle
condizioni ostative indicate nel citato art. 3 non può subire compressioni o bilanciamenti
neanche in comparazione con le esigenze di sicurezza interna dello Stato. Si arricchisce, infine,
dell’art. 18 della Carta europea dei diritti, attualmente vigente in tutta l’Unione europea per
effetto dell’adesione al Trattato di Lisbona, che vieta le espulsioni e gli allontanamenti collettivi
in situazioni analoghe a quelle descritte nell’art. 3 della CEDU. La Corte non trascura le fonti
comunitarie e, in aperta continuità con la precedente pronuncia n. 27310 del 2008, afferma che il
sistema normativo delle misure di protezione internazionale di derivazione comunitaria ed, in
particolare, le norme che prevedono una pluralità di forme di protezione internazionale,
affidandone ad un unico organo la valutazione dei requisiti al di fuori del principio della
domanda e con attenzione rivolta esclusivamente alla effettiva condizione del richiedente asilo,
costituiscono uno strumento interpretativo alla luce del quale individuare una lettura
“comunitariamente” orientata del regime giuridico ante vigente.
Ma la vocazione “universalistica” della ricerca delle fonti attraverso le quali riempire di
contenuto la formula “in bianco” dei seri motivi umanitari posti a base dei permessi , viene così
espressa «non sembra dubbio che i motivi di carattere umanitario debbano essere identificati
facendo riferimento alle fattispecie previste dalle Convenzioni universali che impongono al
nostro Paese di adottare misure di protezione e garanzia dei diritti umani fondamentali e che
trovano espressione e garanzia nella Costituzione non solo per il valore dei diritti inviolabili in
forza dell’art. 2 ma anche perché al di là della coincidenza dei cataloghi di tali diritti, le diverse
formule che li esprimono si integrano completandosi reciprocamente nell’interpretazione. (Corte
cost. n. 381 del 1999)». Il valore della dignità della persona umana che è alla base del
riconoscimento e della valutazione delle ragioni umanitarie non può che essere considerato
esclusivamente ed unitariamente dal giudice dei diritti non potendo soffrire regimi differenziati a
seconda della graduazione delle misure di protezione internazionale ed umanitaria richieste dallo
straniero o stabilite officiosamente dal giudice. Con questa ampia impostazione sistematica la
Corte supera l’opposto orientamento espresso dal precedente costituito da S.U. n. 7933 del 2008
26. La Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 è stata ratificata con l. n. 722 del 1954 cui va aggiunto il
Protocollo di New York del 31.1.1967 con il quale l’applicazione è stata estesa anche a Paesi diversi da quelli
dell’Europa dell’est.
27. Caso Cruz - Varas 20.3.1991; Caso Vilvraja 30.10.1991; Caso Saadi 28.2.2008, in Diritto Immigrazione
Cittadinanza, n. 2.2008 pag. 100.
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ritenendo il parametro della legge interna ratione temporis applicabile del tutto insufficiente ad
offrire una soluzione adeguata alle domande di tutela dei diritti umani delle persone. Al riguardo
non costituisce un ostacolo interpretativo insuperabile l’art. 6, co. 10 del d.lgs. n. 286 del 1998,
secondo il quale contro i provvedimenti riguardanti i permessi di soggiorno previsti nell’art. 5, è
ammesso ricorso davanti al giudice amministrativo proprio per la peculiarità dei permessi
umanitari che a differenza delle altre tipologie di titoli di soggiorno contenuta nell’art. 5, ha una
configurazione normativa generica che si riempie di contenuto con la correlata disposizione sui
divieti di espulsione per ragioni umanitarie (art. 19, co. 1 d.lgs. n. 286 del 1998), la quale a sua
volta richiama il quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali che costituisce il
privilegiato sistema di riferimento per i diritti umani. Infine, molto opportunamente, la Corte
sottolinea che la frammentazione della giurisdizione in materia di misure di protezione
internazionale viola il canone della ragionevole durata del processo e, si deve doverosamente
aggiungere, anche del giusto processo perché espone la medesima situazione di fatto al rischio di
decisioni contrastanti ed a giudizi, quale quello davanti al giudice amministrativo, non dotati
degli stessi strumenti processuali a garanzia dei diritti della difesa e del contraddittorio, propri
del giudizio davanti al giudice ordinario.
In conclusione, un tratto caratterizzante i più recenti orientamenti della giurisprudenza di
legittimità riguardanti la condizione degli stranieri è costituito dalla sempre più decisa
affermazione dell’appartenenza dei diritti inviolabili alla persona in quanto tale,
indipendentemente dalla sua nazionalità, origine etnica o geografica, religione o cultura. La
sovraordinazione di questa tipologia di diritti rispetto ai singoli ordinamenti statuali, già
riconosciuta dalla Corte nelle pronunce relative alle violazioni dei diritti umani perpetrate dal
regime nazista (S.U. n. 14199 del 2008 e n. 14201 del 2008, sulla giurisdizione “universale” e
sul carattere recessivo degli altri criteri di radicamento della giurisdizione dei singoli Stati,
derivante dall’assoluta supremazia dei diritti violati), ha avuto un ulteriore, rilevante riscontro
nella pronuncia n. 10504 del 2009, con la quale è stata esclusa l’applicabilità della condizione di
reciprocità stabilita dall’art. 16 delle preleggi ai diritti fondamentali quali quelli alla vita,
all’incolumità ed alla salute che, in quanto riconosciuti dalla Costituzione devono essere
applicati a tutte le persone, senza subire disparità di trattamento per ragioni di cittadinanza
(italiana, comunitaria od extracomunitaria).
Può, conseguentemente, ritenersi un principio tendenzialmente stabile quello secondo il quale
esiste un nucleo di diritti umani contenuti in tutte le Convenzioni relative ai diritti delle persone
sottoscritte dall’Italia27 e riconosciuti con il medesimo grado di assoluta preminenza dalla nostra
Costituzione, i quali godono di un grado di tutela assoluta potendo essere conformati solo dal
contemperamento con interessi di pari rango. L’appartenenza dei diritti inviolabili della persona
ad un sistema tendenzialmente “universale” delle fonti costituisce, pertanto, l’autentico nucleo
logico giuridico dei nuovi orientamenti della Corte sulle misure di protezione internazionale.
L’intervento della Corte non si è limitato alla qualificazione statica della situazione giuridica
dello straniero che richiede una misura di protezione internazionale. In una pronuncia molto
recente 28 la Corte ha iniziato a definirne il contenuto stabilendo che si tratta di un diritto che
deve poter essere azionato fin dall’ingresso anche se illegale all’interno del nostro Paese, in
quanto non suscettibile di alcuna compressione nella fase di accertamento dei requisiti per il suo
accoglimento.
Si tratta della prima pronuncia che affronta il problema della tutela del cittadino straniero che
richiede protezione internazionale al momento del suo arrivo nel nostro territorio. Il richiamo
alla cultura dei diritti umani che è contenuto in questa pronuncia ha un significato ancora più
profondo all’interno del contesto attuale non proprio sensibile alle ragioni dell’accoglienza.
Inoltre la pronuncia rivela il percorso accidentato che lo straniero deve intraprendere (se non
28. Solo per esemplificare: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; la Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo; la Carta dei diritti dell’Unione Europea.
28 Cass. sez. I n. 26253 del 2009 in Diritto Immigrazione Cittadinanza, 2010, 145
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immediatamente respinto all’arrivo o come accade sempre più frequentemente e massicciamente
prima ancora di entrare in territorio italiano) per esercitare il diritto di chiedere asilo. In concreto,
è stato stabilito che lo straniero, giunto clandestinamente e trattenuto per accertamenti all’interno
dell’aerostazione di arrivo, ha il diritto di presentare contestuale istanza di riconoscimento della
condizione di rifugiato politico (idonea a sostenere l’accertamento dei presupposti per qualsiasi
misura stabile o temporanea di protezione internazionale) e di permanere nello Stato, (munito di
permesso temporaneo o ristretto nel Centro d’identificazione) fino alla definizione della
procedura avente ad oggetto la verifica della sussistenza delle condizioni per beneficiare dello
status ovvero della protezione umanitaria. Pertanto il rifiuto, opposto dalla polizia aeroportuale, a
ricevere questa istanza è illegittimo, dal momento che l’Amministrazione è obbligata a recepirla
(e d’inoltrarla al questore per l’assunzione delle determinazioni di sua competenza) astenendosi
da alcuna forma di respingimento e dall’adozione di misure di espulsione che impediscano il
corso e la definizione della domanda presso le Commissioni designate. La formulazione
dell’istanza non consente l’esame preliminare della regolarità od irregolarità dell’ingresso
o la reiezione immediata per il contestuale accertamento di condizioni ostative. L’esercizio del
diritto di richiedere asilo comporta l’obbligo di accertamento, esclusivamente da parte degli
organi competenti, dell’esistenza delle condizioni per il riconoscimento del diritto azionato.
L’autorità amministrativa di polizia, in quanto titolare di una potestà discrezionale
amministrativa, non esercitabile, come già ampiamente analizzato nelle pronunce precedenti, nei
confronti delle domande relative a misure di protezione internazionale, deve lasciare lo straniero
in territorio italiano, eventualmente in un Centro d’identificazione, ove ne ricorra la necessità in
modo che sulla domanda si eserciti la discrezionalità meramente tecnica delle Commissioni e il
riesame del giudice ordinario, trattandosi di situazioni soggettive sottratte al bilanciamento e alla
potestà conformativa della PA. Con quest’ultimo, incisivo, intervento si assiste al passaggio da
una concezione “statica” del diritto d’asilo, attenta ad individuare la natura ed il rango della
posizione giuridica soggettiva dello straniero che invoca la protezione internazionale ad un
concezione “dinamica” che si preoccupa della conservazione diacronica delle garanzie di
completezza che caratterizzano l’esercizio del diritto in tutte le complesse fasi del suo
accertamento ed, in particolare, nella fase cruciale dell’accesso alla tutela.
Si può, in conclusione, individuare la progressiva formazione di uno “statuto” del richiedente
asilo con una forte vocazione alla stabilità, dovuta proprio alla natura delle fonti (costituzionali,
comunitarie ed internazionali) che presentano un grado di rigidità molto superiore a quello delle
mutevoli fonti interne, perennemente esposte alle variazioni dell’agenda politica e alle pressioni
demagogiche, come può riscontrarsi dall’esame delle ripetute modifiche legislative in ordine alle
condizioni d’ingresso e di soggiorno nonché di espulsione degli immigrati.
4.- I Dlgs n. 251 del 2007 e 25 del 2008: il nuovo quadro delle misure di protezione
internazionale.
Il Dlgs n. 251 del 2007 (entrato in vigore il 19/1/08), ha attuato la Direttiva 2004/83/CE del
Consiglio, del 29/4/2004, recante norme minime sulla attribuzione a cittadini di paesi terzi od
apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.
Il Dlgs n. 25 del 2008, entrato in vigore il 3/3/2008, ha attuato la Direttiva 2005/85/CE del
Consiglio, del primo dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati
membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Con questo decreto
legislativo sono state riformate tutte le procedure di presentazione, esame amministrativo e tutela
giurisdizionale delle domande di asilo.
20
L’attuazione delle direttive comunitarie è stata salutata molto favorevolmente dalla
dottrina29 in quanto si è ritenuto che le innovazioni normative abbiano determinato, finalmente,
la piena attuazione del diritto d’asilo costituzionale.
In primo luogo, nel nuovo sistema normativo delle misure di protezione internazionale, il
riconoscimento dello status di rifugiato, secondo le condizioni richieste dalla Convenzione di
Ginevra, cessa di essere, nel nostro ordinamento, l’unica forma giuridicamente disciplinata
dell’asilo politico. Accanto ad essa il Dlgs n. 252 del 2007 prevede la protezione sussidiaria,
mentre rimangono vigenti e trovano espresso riconoscimento normativo, in entrambi i decreti
legislativi, nelle forme che verrano esaminate, i permessi di natura umanitaria. La principale
differenza di ordine procedimentale, riguardante da un lato, le due misure regolate espressamente
dalle Direttive (status di rifugiato e protezione sussidiaria) e dall’altro i permessi di natura
umanitaria, risiede nel fatto che i permessi di natura umanitaria possono essere riconosciuti
(come nel vigore nel precedente sistema di normazione) anche in mancanza della presentazione
di una domanda di protezione. A tali forme si aggiunge la protezione temporanea, già
esaminata, di natura eventuale e comunque esclusivamente derivante da un provvedimento
generale di natura eccezionale emesso dal Governo in forma di Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, mediante il riconoscimento, anche officioso, del diritto d’asilo.
In tutte e quattro le ipotesi, il richiedente asilo, a differenza degli altri stranieri
extracomunitari, parrebbe avere un diritto soggettivo all’ingresso quanto meno al fine di far
esaminare la sua situazione alle competenti autorità. L’art. 26 del Dlgs n. 25 del 2008 indica le
modalità di presentazione della domanda di protezione internazionale secondo una modulistica
nuova, predisposta dalla Commissione Nazionale per il diritto d’asilo che tenga conto delle
indicazioni contenute nell’art. 3 del Dlgs n. 251 del 2007, riguardante l’indicazione dei fatti e
delle circostanze necessari per la valutazione della domanda.
Il primo rilevante elemento di novità, non solo di natura semantica, è l’espressa
qualificazione normativa della domanda come domanda di “protezione internazionale” e la
specificazione nell’art. 2 del Dlgs n. 251 del 2007 che la formula contiene sia il riconoscimento
dello status di rifugiato, che la misura della protezione sussidiaria. Questa nuova misura di
protezione può essere riconosciuta a “un cittadino straniero che non possiede i requisiti per
essere riconosciuto rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se
ritornasse nel Paese d’origine o, nel caso di apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva
precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno
come definito nel presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole
avvalersi della protezione di detto paese”. Per danno grave deve intendersi, secondo quanto
stabilito nell’art. 14 del Dlgs n. 251 del 2007 la condanna a morte o all’esecuzione della pena di
morte; la tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel
suo paese di origine; la minaccia grave e individuale alla vita e alla persona di un civile derivante
dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Peraltro,
ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la Direttiva 2004/83/CE contiene una
definizione non dissimile a quella della Convenzione di Ginevra, cui espressamente si richiama,
qualificando come rifugiato il cittadino straniero, il quale, per il fondato timore di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità appartenenza ad un determinato gruppo
sociale o opinione politica, si trova fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non
può, o a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale paese, oppure apolide
che si trova fuori del territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse
ragioni succitate e non può o, non vuole farvi ritorno”. Ma i profili di maggiore innovazione,
rispetto allo stesso status di rifugiato, si colgono nella specificazione degli atti e dei motivi di
persecuzione, contenuti negli artt. 7 e 8 del Dlgs n. 251 del 2007. In particolare sono ritenuti atti
29
BONETTI, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e
di protezione sussidiaria, in Dir. Citt. Imm. N. 1/2008, 12
21
di persecuzione quelli che per la loro natura e frequenza, rappresentano una violazione dei diritti
fondamentali inderogabili ex art. 15 par. 2 della CEDU anche se realizzati con misure di diversa
natura ed anche se attuati medianti provvedimenti legislativi, amministrativi o di polizia
discriminatori, o azioni giudiziarie aventi tali caratteristiche. Molto incisiva la indicazione delle
azioni ritorsive contro il rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto nel quale, lo
svolgimento della funzione in questione potrebbe comportare la commissione di crimini o reati
contro la pace o l’umanità o altri reati desunti dalle cause di esclusione al riconoscimento delle
misure di protezione internazionale previste dalla legge. Ma la maggiore novità si ritrova nella
previsione, tra gli atti di persecuzione, degli atti specificamente diretti verso un genere sessuale e
verso l’infanzia. Il rilievo assunto dall’orientamento sessuale viene confermato anche nell’art. 8
del Dlgs n. 251 del 2007 che nei motivi di persecuzione introduce nella definizione di
“particolare gruppo sociale” verso il quale può dirigersi l’atto persecutorio, anche quello
individuato per l’orientamento sessuale. Non potendo essere esaminati tutti i profili di novità
delle direttive che hanno introdotto una dettagliata disciplina anche delle cause di esclusione o
cessazione delle misure di protezione internazionale e hanno individuato il complesso di diritti e
facoltà che discendono dal riconoscimento dello status di rifugiato o dalla protezione sussidiaria,
si ritiene di limitare l’oggetto d’indagine agli aspetti direttamente incidenti sulla esercizio della
giurisdizione.
Verrà, pertanto, esaminato :
a) il regime dell’onere della prova;
b) il modello procedimentale del giudizio d’impugnazione della decisione della
Commissione;
c) il rapporto tra le misure di protezione internazionale previste dalle Direttive e i permessi
di natura umanitaria già presenti nel nostro ordinamento.
a) Onere della prova
Sul primo aspetto, deve essere premesso che la Direttiva prevede la proposizione di un’unica
domanda, ad oggetto indistinto lasciando all’autorità dello Stato di riconoscere l’esistenza e la
tipologia della misura di protezione da adottare. Per questa ragione è particolarmente rilevante il
modificato regime dell’onere della prova previsto nell’art. 3 del Dlgs n. 251 del 2007. Nella
disposizione, è previsto che il richiedente debba presentare, unitamente alla domanda di
protezione internazionale, o comunque, non appena disponibili, tutti gli elementi di
documentazione necessari a motivarla.
L’esame della domanda è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli
elementi significativi della domanda. Se il richiedente ha già subito persecuzioni o danni gravi o
minacce dirette di persecuzioni o danni gravi, tale iterazione costituisce un serio indizio della
fondatezza del timore di persecuzioni o danni gravi o minacce future. Se il richiedente non ha
fornito la prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non
suffragati da prova vengono ritenuti comunque veritieri se :
il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; è stata
fornita un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi, le
dichiarazioni rese sono coerenti e plausibili e correlate alle informazioni generali e specifiche
riguardanti il suo caso; il richiedente ha presentato la domanda il prima possibile o comunque ha
avuto un valido motivo per tardarla; dai riscontri effettuati il richiedente è attendibile. La
diligenza e la buona fede del richiedente diventano elementi d’integrazione dell’insufficiente
quadro probatorio e criteri di valutazione dell’attendibilità e verosimiglianza delle allegazioni di
fatti e delle dichiarazioni del richiedente stesso. I parametri assunti dalla Direttiva,
corrispondono a quelli contenuti nel Manuale ACNUR, ed operano non solo un rivolgimento
delle ordinarie regole dell’onere della prova ma anche una precisa indicazione dei poteri
22
istruttori officiosi della Commissione e, successivamente del giudice, cui spetta il prioritario
compito di “cooperare” per l’accertamento delle condizioni che consentano allo straniero di
godere della protezione internazionale. Sui poteri-doveri officiosi dell’organo istruttorio, si
tornerà nell’esame del rito (camerale) indicato dal Dlgs n. 25 del 2008 per il giudizio
d’impugnazione. E’ però, opportuno sottolineare che la lettura dell’art. 3 del Dlgs n. 251 del
2007 evidenzia che l’autorità esaminante svolge un ruolo attivo e integrativo nell’istruzione della
domanda di protezione internazionale, del tutto disancorato dal principio dispositivo, proprio dei
procedimenti civili. Anche l’esame della domanda deve essere svolto con la finalità di far
emergere gli elementi rilevanti indicati nelle lettere a); b); c); d); e); dell’art. 3 sopra citato. Agli
stessi criteri devono essere conformati i poteri istruttori del giudice, il quale deve assumere le
informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle
condizioni della protezione internazionale, senza essere vincolato a preclusioni od impedimenti
processuali. Al riguardo l’art. 8, del Dlgs n. 25 del 2008 prevede che ciascuna domanda debba
essere esaminata, alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa il paese di origine dei
richiedenti asilo. La Commissione Nazionale deve assicurare che queste informazioni, anche di
fonte ACNUR, siano sempre messe a disposizione delle Commissioni e siano fornite agli organi
giurisdizionali chiamati a pronunciarsi sulle impugnazioni. Anche da questa precisa indicazione
normativa può desumersi l’ampiezza dei poteri officiosi del giudice in sede d’integrazione
probatoria. Con riferimento alle prove testimoniali, può escludersi che sia necessario, quale
condizione d’inammissibilità, l’articolazione delle circostanze per capitoli separati, o
l’assunzione dei criteri di ammissibilità propri del codice civile. Il giudizio preventivo del
giudice deve essere esclusivamente quello di rilevanza e, tendenzialmente, deve essere di natura
ammissiva, ogni qual volta senza il mezzo istruttorio dedotto dalla parte il complessivo materiale
probatorio risulterebbe insufficiente. Questa mutata fisionomia dei poteri doveri del giudice (e
degli altri organi giudicanti) nei procedimenti aventi ad oggetti il riconoscimento di misure di
protezione internazionale è stata oggetto dell’esame della giurisprudenza di legittimità che, in
alcune pronunce recenti, ha stabilito l’applicabilità di questo innovato regime dell’onere della
prova anche alle domande di riconoscimento di misure di protezione internazionale proposte
prima dell’entrata in vigore dei decreti legislativi delegati di attuazione delle Direttive
comunitarie. Si sono pronunciate, in primo luogo, le sezioni unite con la sentenza n. 27318 del
2008, partendo da una fattispecie nella quale il giudice d’appello nel respingere la domanda
relativa al riconoscimento dello status di rifugiato politico allo straniero, aveva dichiarato
inammissibili i mezzi di prova testimoniale dal medesimo dedotti per difetto di formulazione
tipica. In questa pronuncia la Corte era chiamata a pronunciarsi su tutte le questioni controversie
riguardanti il diritto d’asilo (nel contesto normativo antecedente all’immissione nel sistema delle
fonti della normazione di derivazione comunitaria) : dall’accertamento delle condizioni per lo
status di rifugiato all’azionabilità diretta del diritto d’asilo fino alla giurisdizione sui permessi
umanitari (questione, quest’ultima, successivamente risolta dalle pronunce n. 11535 e 19393 del
2009 ampiamente esaminate). Il decisum della Corte si è fermato all’esame della prima delle
domande senza prendere diretta posizione sull’azionabilità, la natura ed il contenuto del diritto
d’asilo costituzionale ovvero la sua autonomia nel sistema di misure di protezione e permessi
umanitari presenti nel nostro ordinamento anche grazie all’integrazione del sistema delle fonti
per effetto dei principi desumibili dall’art. 3 CEDU ma ha determinato comunque una forte
spinta innovativa in ordine alla natura peculiare del procedimento di riconoscimento delle misure
di protezione internazionale con riferimento, in particolare, ai principi regolanti l’onere della
prova.
In particolare, la pronuncia, pur riguardando una fattispecie regolata da un complesso di norme
non più vigenti, mostra una costante attenzione per le fonti di derivazione comunitaria
attualmente regolanti le misure di protezione internazionale vigenti nel nostro ordinamento. Già
nella reiezione delle eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dal Ministero dell’Interno
la Corte adotta soluzioni che pur essendo fondate sulla corretta individuazione ed applicazione
23
del regime giuridico vigente ratione temporis, sono perfettamente coerenti con il modello
procedimentale attualmente derivante dal d.lgs. n. 25 del 2008. Le Sezioni Unite stabiliscono che
il procedimento giurisdizionale di riconoscimento dello status di rifugiato è stato correttamente
definito con sentenza dal giudice di secondo grado, riguardando lo status delle persone. La
scelta di questo specifico modello di decisione viene giustificata dalla Corte non solo con il
riferimento espresso alla natura della controversia e alla qualità delle posizioni soggettive in
gioco ma anche attraverso il richiamo all’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 che attualmente
richiede la forma della sentenza per questa tipologia di procedimenti in modo da sottolineare la
coerenza e la continuità interpretativa della soluzione prescelta rispetto al modello normativo
successivo. Anche l’individuazione del rito camerale come il modello procedimentale
temporalmente applicabile viene compiuta dalla Corte attraverso un percorso argomentativo
analogo. Nonostante la legge n. 39 del 1990 non contenga l’esplicita indicazione del modello
processuale da adottare nei procedimenti giurisdizionali riguardanti la domanda d
riconoscimento dello status di rifugiato,30 la Corte ha ritenuto, richiamando propri precedenti31
ed in virtù dell’indicazione contenuta nel co. 6 dell’art. 1 della citata legge n. 39 del 1990,32 che
vi sia stata fin dall’originaria disciplina normativa del procedimento relativo al rifugio politico,
l’opzione per il modello camerale. Tuttavia, anche a sostegno di questa soluzione, la Corte ha
ritenuto di sottolineare che nell’attuale regime giuridico procedimentale delle misure di
protezione internazionale, l’art. 35 del d.lgs. n. 25 del 2008 indichi espressamente il rito
camerale «quale modello processuale più aderente alle esigenze di celerità e di semplicità che la
materia relativa al riconoscimento dello status di rifugiato sollecita». In conclusione la Corte ha
colmato il vuoto normativo relativo al modello processuale da adottare per le domande di
riconoscimento dello status di rifugiato politico alle quali non possa essere applicata la nuova
disciplina normativa di derivazione comunitaria contenuta nel d.lgs. n. 251 del 2007 e n. 25 del
2008 (quest’ultimo specificamente destinato alla definizione del rito, del modello di giudizio e
della forma del provvedimento finale), fornendo tre rilevanti indicazioni preliminari :
1) l’ambito di efficacia delle leggi che si sono susseguite: legge n. 39 del 1990, in vigore fino
al 20.2.2005 (data di entrata in vigore della disciplina sul rifugio politico contenuta nella legge
189 del 1992 per effetto del d.p.r. 16.9.2004 n. 303); legge n. 189 del 1992 in vigore dal
20.2.2005 al 19.1.2008 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 251 del 2007) e 3.3.2008 (data di
entrata in vigore del d.lgs. n. 25 del 2005 recante norme processuali);
2) il provvedimento finale del procedimento giurisdizionale relativo alla domanda di
riconoscimento dello status di rifugiato è la sentenza ed è ammissibile il ricorso ordinario per
cassazione ex art. 360 c.p.c.;
3) al procedimento in questione si applica il rito camerale.
In questo modo la Corte ha scelto un’opzione interpretativa fortemente semplificatrice,
fornendo la garanzia di un rito certo chiaro e celere, in una materia come quella processuale
attualmente caratterizzata da una rilevante inclinazione normativa verso la pluralità di riti ed il
continuo mutare delle norme.
31. Contrariamente a quanto contenuto nella successiva legge n. 189 del 2002 che con l’art. 32 ha aggiunto
all’art. 1 del D.L. n. 416 del 1989 così come convertito nella legge n. 39 del 1990, gli artt. da 1 bis a 1 septies,
contenenti invece significative innovazioni sul piano procedimentale applicabili però solo dall’entrata in vigore il
20.2.2005, del d.p.r. n. 303 del 2004.
32. Cass. n. 2091 del 2005 e n. 18353 del 2006. In entrambe le pronunce l’opzione per il rito camerale
conduce la Corte a ritenere che il provvedimento finale debba assumere la forma del decreto e,
conseguentemente possa essere impugnato solo ai sensi dell’art. 111 Cost., con esclusione del vizio di
motivazione.
33. Il co. 6 dell’art. 1 del D.L. n. 416 del 1989, così come risultante dal testo coordinato della legge n. 39 del
1990 prevede l’adozione del “ricorso” giurisdizionale avverso il respingimento dello straniero che richiede di
essere dichiarato rifugiato politico. Va soltanto ricordato che al momento dell’entrata in vigore della legge n.
39 del 1990 il giudice dello straniero era esclusivamente il giudice amministrativo.
24
La scelta del rito camerale non incide soltanto sull’esigenza di celerità e speditezza del
procedimento giurisdizionale ma influenza anche il rapporto tra il giudice e le parti. In
particolare il giudice ha poteri istruttori officiosi più intensi che nel rito civile ordinario perché il
procedimento non è scandito in fasi rigidamente predeterminate e caratterizzate da preclusioni
operanti sull’allegazione dei fatti e dei mezzi di prova. Il ricorrente è vincolato dal principio
della domanda e dal generale dovere di allegare i fatti costitutivi ma la flessibilità interna al
procedimento non impone il rispetto a pena d’inammissibilità delle regole riguardanti la tipicità
dei mezzi di prova e delle forme di assunzione degli stessi. Proprio quest’ultimo profilo è stato
esaminato dalla Corte. Il giudice di secondo grado aveva dichiarato inammissibili le prove
testimoniali formulate dal ricorrente perché non articolate nelle forme rituali. La Corte ha
censurato questa decisione di cruciale rilevanza sul rigetto finale della domanda azionata, con
un’ampia argomentazione fondata solo in parte sull’inapplicabilità delle regole dell’istruzione
probatoria del processo ordinario al procedimento camerale.
La parte centrale dello sviluppo argomentativo della pronuncia riflette la consapevolezza della
Corte in ordine al rilievo delle fonti comunitarie e l’importanza centrale attribuita alla funzione
“adeguatrice” di tali fonti sul complesso delle disposizioni interne riguardanti le materie di
competenza comunitaria. Le Sezioni Unite assumono come punto di partenza l’art. 1, co. 5 della
legge n. 39 del 1990, secondo il quale lo straniero deve rivolgere istanza motivata e, in quanto
possibile, documentata, all’ufficio di polizia di frontiera. La norma è stata generalmente
interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in modo rigoroso, secondo i generali criteri di
riparto dell’onere della prova fissati dall’art. 2697 c.c. La prova dell’esistenza dei requisiti posti
a base del riconoscimento dello status di rifugiato doveva, pertanto, essere fornita dall’istante e,
pur tenendo conto delle difficoltà frequentemente determinate dalle condizioni di allontanamento
o fuga dal proprio paese, non poteva configurarsi un «diritto al beneficio del dubbio né un
obbligo dell’amministrazione di smentire con argomenti contrari le ragioni addotte dall’istante»
(così la pronuncia in motivazione). Analogamente non potevano essere ritenute sufficienti le
attestazioni provenienti da terzi estranei al giudizio o richiami al notorio circa situazioni politicoeconomiche di dissesto del paese di origine o persecuzioni dirette verso intere etnie e non verso
singoli. Doveva, infine, essere fornita dal richiedente la prova della sua credibilità, attesa
l’ininfluenza delle indicazioni provenienti dal Manuale dell’ACNUR (Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati), volte a sollecitare l’esaminatore della domanda di asilo ad
utilizzare i più rilevanti mezzi a sua disposizione, in quanto prive di valore normativo.
L’indicazione normativa relativa alla valutazione dell’oggettiva possibilità per l’istante di
documentare la sua condizione non aveva sostanzialmente inciso sull’applicazione puntuale del
principio dell’onere della prova, se non per il ricorso alla prova presuntiva così come accade per
tutti gli altri giudizi civili.33 Su questo restrittivo quadro degli strumenti probatori utilizzabili al
fine di accertare l’esistenza dei requisiti necessari per ottenere lo status di rifugiato politico, è
intervenuta la normativa comunitaria sopra esaminata, della quale la Corte ha dato ampia
contezza nello sviluppo argomentativi della pronuncia, sottolineando il dovere di cooperazione
del giudice nell’accertamento delle condizioni richieste dalla legge, mediante l’acquisizione
d’ufficio,34 di tutte le informazioni rilevanti. La diligenza e la buona fede del richiedente
diventano elementi d’integrazione del quadro probatorio insufficiente, determinando un «chiaro
rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio».
In questo sistema normativo, aggiunge la Corte, caratterizzato dalla proposizione di
un’indistinta domanda di protezione internazionale e dal correlativo potere del giudice di
scegliere la tipologia della misura adeguata al caso di specie, deve escludersi la valutazione di
ammissibilità del mezzo istruttorio richiesto dal ricorrente, secondo le regole codicistiche,
34. Cass. n. 26822 del 2007 con la quale è stata ritenuta insufficiente l’asserzione del richiedente relativa alla
sua appartenenza alla minoranza etnica curda e non adeguatamente documentata la condizione persecutoria
attestata solo da indeterminate fonti di stampa; in termini n. 26378 del 2005; n. 2091 del 2005.
35. Nel nostro ordinamento è utilizzabile lo strumento previsto dall’art. 213 c.p.c.
25
dovendosi invece dare ingresso a tutti i mezzi di prova senza i quali il materiale istruttorio
acquisito sarebbe insufficiente.35
Nonostante l’inapplicabilità diretta del nuovo regime dell’onere della prova si ritiene,
affermando un principio che incide in generale sul sistema complessivo delle fonti, che le
disposizioni comunitarie in ragione del loro carattere incondizionato e della precisione del loro
contenuto impongono un’interpretazione della norma interna conforme ai principi della
Direttiva. L’obbligo di adottare tutti i provvedimenti generali e particolari atti a garantire il
risultato cui tende una Direttiva si rivolge anche agli organi giurisdizionali, imponendo loro «di
interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e della finalità della Direttiva».
L’adeguamento interpretativo, secondo la Corte, non si limita al diritto positivo di diretta
derivazione comunitaria ma si estende anche alle norme precedenti la Direttiva se relative alla
materia su cui il legislatore comunitario è intervenuto. L’elemento di novità introdotto dalla
Corte nel sistema delle fonti consiste nell’applicazione più estesa del principio
dell’interpretazione conforme, più volte ribadito dalla Corte di giustizia, finora relativo alle sole
norme interne introdotte per recepire le Direttive comunitarie. Tale principio deve, invece,
«sollecitare il giudice nazionale» ad adottare una interpretazione del diritto interno che non sia
incompatibile o contraria all’obiettivo di tutela cui mira la Direttiva. Oltre al principio
dell’interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice è vincolato all’interpretazione
comunitariamente orientata in tutti i settori della normazione interna “sensibili” all’intervento
comunitario anche quando la specifica disposizione non sia la diretta attuazione di una Direttiva.
Alla luce di questi principi viene censurato il giudice di secondo grado, per non aver considerato
nella valutazione dell’onere della prova a carico del richiedente il criterio della possibilità,
comunque contenuto nell’art. 1, co. 5 della legge n. 39 del 1990, attraverso il quale sarebbe stato
agevole interpretare la norma coerentemente con i richiamati principi comunitari. In particolare
la Corte d’appello avrebbe dovuto valorizzare la circostanza accertata della lingua curda parlata
dal ricorrente, della professione religiosa sciita dallo stesso dichiarata e soprattutto avrebbe
dovuto dare accesso alle prove per testi richieste dalla parte se il quadro probatorio era stato
ritenuto insufficiente anche in considerazione della formalizzazione propria del rito camerale e
del potenziamento dei poteri istruttori del giudice propria del rito.
Con la scelta interpretativa adottata, la Corte ha mostrato di essere pienamente consapevole
dell’esigenza di adeguare i principi processuali alla natura dei diritti azionati e alle oggettive
difficili condizioni che ne caratterizzano l’esercizio anche in sede di tutela giurisdizionale. Con
questa pronuncia è stata data rilevanza al principio di prossimità della prova anche nel campo dei
diritti umani muovendo dalla considerazione che l’intervento integrativo officioso del giudice
non debba essere impedito di fronte a situazioni di estremo disagio e disparità delle armi nel
reperimento dei mezzi di prova. È auspicabile che la sensibilità dimostrata dalla Corte non si
arresti al diritto d’asilo ma si estenda al complesso dei diritti fondamentali degli stranieri ed, in
particolare, che la tutela giurisdizionale sia assicurata tenendo presente, anche in sede
interpretativa, l’intero quadro delle fonti costituzionali, comunitarie ed internazionali secondo
l’indicazione della Corte costituzionale,36 senza il quale non è attualmente possibile assicurare un
livello di tutela adeguato. Questo nuovo orientamento in tema di onere della prova ha trovato
ulteriori puntuale applicazione in un’altra recentissima pronuncia (l’ord. n. 17576 del 2010) che
merita di essere segnalata anche perché delinea nel dettaglio le regole procedimentali del giudizio di
cassazione delineate nell’art. 35, comma 14 del d.lgs n. 25 del 2008 (con le modifiche introdotte
36. L’ampiezza dei poteri istruttori del giudice è ribadita nell’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008 il quale richieda
che ogni domanda di asilo debba essere esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate sulla
situazione del paese di origine che devono venire acquisite dall’autorità esaminatrice autonomamente.
11. Sentenze nn. 348 e 349 del 2007 con le quali la Corte costituzionale ha qualificato come norme
interposte i principi della CEDU nell’interpretazione vincolante della Corte di Strasburgo, ritenendo,
conseguentemente che le norme interne con essi contrastanti debbano essere assoggettate al vaglio di
legittimità costituzionale
26
dall’art. 1 comma 1 lett.M del d.lgs 159 del 2008 e poi dall’art. 1, comma 13 lettera C della l. 94 del
2009. Il caso riguardava la domanda di protezione internazionale azionata da un cittadino turco di
etnia curda, nei confronti del quale era stato spiccato ordine di arresto in contumacia nel suo paese
per propaganda terroristica.
La Corte di Appello aveva respinto la domanda rilevando, tra l’altro che tale circostanza rivelava
soltanto che nel paese d’origine dello straniero venivano repressi i movimenti terroristici al pari di ciò
che avveniva in altri paesi. Su tale specifico aspetto la Corte di Cassazione appunta la sua censura
osservando che la valutazione del giudice di merito si era fondata esclusivamente su una valutazione
della scarsa credibilità soggettiva del richiedente “dimenticando totalmente di adempiere ai doveri di
ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche officiosa e di complessiva valutazione
anche della situazione reale del paese di provenienza” come imposto dall’art. 8, terzo comma del
d.lgs n. 25 del 2008. Si precisa, infatti, nella sentenza che “ciascuna domanda deve essere esaminata
alla luce d’informazioni aggiornate sulla situazione del paese d’origine del richiedente asilo,
informazione che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a
pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”. Nel sottolineare il rilievo e la centralità del
dovere di cooperazione del giudice la Corte si è posta in aperta linea di continuità con la pronuncia
delle S.U. n. 27310 del 2008 e ha stabilito che vi può essere persecuzione politica anche quando
vengano adottate sanzioni penali a carico del richiedente asilo se tali sanzioni colpiscono la libertà di
manifestazione del pensiero e non sono giustificate dall’effettivo coinvolgimento in attività
d’incitamento all’odio e alla violenza. Il medesimo principio ricorre in una recentissima sentenza
CEDU (decisione 22 giugno 2010 causa Bingol contro Turchia) richiamata in motivazione.
In conclusione “il ricorso avverso il diniego della protezione internazionale deve scrutinare la
situazione di persecuzione addotta dall’interessato verificando in linea generale, ed avvalendosi dei
suoi poteri d’indagine ed informazione, la situazione del paese […] e deve considerare la posizione
personale del richiedente anche alla luce della documentata adozione di una misura cautelare
giurisdizionale per propaganda a favore di organizzazione terroristica, al proposito scrutinando il
fatto ascritto od accertato e la sua riconducibilità all’area di legittima espressione del dissenso od a
quella dell’incitamento alla violenza”. Lo stesso richiamo al dovere di accertamento officioso del
giudice si può riscontrare nella già esaminata ordinanza n. 10636 del 2010 con riferimento al
sindacato del giudice di pace in sede di opposizione all’espulsione fondata sul divieto ex art. 19,
primo comma d.lgs n. 286 del 1998 e nella sentenza n. 26253 del 2009 ove è espressamente
affermata l’applicabilità dei principi contenuti nella pronuncia delle S.U. n. 27310 del 2008 nel
procedimento di opposizione all’espulsione davanti al giudice di pace unitamente all’attribuzione a
tale organo giudiziario di poteri istruttori officiosi, peraltro ritenuti del tutto compatibili con il rito
adottato ed anzi desumibili dagli artt. 312 e 320 c.p.c.
b) Il procedimento d’impugnazione davanti al giudice ordinario
L’art. 35 del Dlgs n. 25 del 2008 contiene, per la prima volta, una puntuale disciplina del
giudizio davanti al giudice ordinario. In primo luogo l’espressa denominazione del Capo V
“Procedure d’impugnazione” e l’intitolazione dell’art. 35 “Impugnazione”, sembrano costituire
seri indici della natura impugnatoria della fase giurisdizionale e la limitazione dell’accertamento
giudiziale ai motivi indicati dalle parti. Ma l’indicazione non è univoca. Il decimo comma del
medesimo articolo stabilisce espressamente che il tribunale, in composizione monocratica (ex
quarto comma dell’art. 35), senta le parti e assuma tutti i mezzi di prova necessari prima di
decidere con sentenza se riconoscere al ricorrente lo status di rifugiato o la protezione
sussidiaria, o invece, respingere la domanda. Il rito da seguire è quello camerale. La
proposizione del ricorso produce l’effetto di sospendere l’efficacia del provvedimento
27
impugnato.37 Questa, insieme alla chiara indicazione del rito, da seguire anche davanti alla Corte
di Cassazione (“La Corte di Cassazione pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 cod. proc.
civ.”); costituisce una novità d’indubbio rilievo ma la portata della disposizione si coglie solo se
raccordata con il quarto comma dell’art. 32. In questo articolo è previsto che per effetto della
decisione negativa della Commissione, alla scadenza del termine per l’impugnazione, il
richiedente asilo è obbligato a lasciare il territorio nazionale. La misura coercitiva è eseguita dal
questore, ex art. 14 comma quarto, sia per i richiedenti asilo, trattenuti nei centri
d’identificazione e di permanenza temporanea, mediante accompagnamento coattivo alla
frontiera, (art. 13 comma quarto Dlgs n. 286 del 1998) che per quelli titolari di permesso di
soggiorno per richiesta asilo (ma si applica l’art. 13 comma quinto del Dlgs n. 286 del 1998). Ne
consegue che oggi la sospensione, determinata dalla proposizione dell’impugnazione, impedisce
l’esecuzione dell’ordine di allontanamento che scaturisce dalla decisione della Commissione. La
norma non esclude, però, che il richiedente asilo sia titolare di un altro titolo di soggiorno anche
in forma di permesso umanitario. In questo caso la pronuncia di rigetto non produce l’effetto
automatico di far procedere il Questore all’esecuzione dell’allontanamento mediante il
procedimento per l’esecuzione delle espulsioni (art. 13 comma quarto e quinto Dlgs n. 286 del
1998). L’effetto sospensivo non si produce se la domanda è stata dichiarata inammissibile dalla
Commissione ma può essere proposta istanza di sospensiva davanti all’autorità giurisdizionale.
L’effetto sospensivo automatico si determina solo con la proposizione del ricorso in primo
grado. In secondo grado è possibile proporre l’istanza di sospensiva alla Corte d’Appello.
Molti erano i dubbi, riguardanti il procedimento che residuavano nel pregresso regime
giuridico del procedimento giurisdizionale ma i più recenti orientamenti della Corte hanno
fugato e incertezze più significative, anche se può ingenerare confusione la duplicità degli organi
giudiziari competenti e la non univocità del modello processuale da seguire (cui si aggiungono,
con non poche diversità nella struttura e nell’articolazione del procedimento le domande per
coesione familiare) va osservato che la scelta del procedimento camerale non era univoca tra i
giudici di merito. La Corte di Cassazione aveva ritenuto ammissibile il ricorso ex art. 111 Cost.
(Cass.n. 18353 del 2006), escludendo l’estensione delle censure ammissibili al vizio di
motivazione, implicitamente prendendo posizione sulla correttezza del rito camerale senza però
escludere l’ammissibilità del ricorso ordinario, ma rimaneva aperto il problema dell’onere della
prova e dell’adottabilità delle regole stabilite nel manuale ACNUR, oggi fatte proprie dalla
Direttiva e risolte anche con riferimento al sistema normativo previgente dalle S.U. con la
pronuncia n. 27310 del 2008. Infine regole di dettaglio sul procedimento camerale in sede di
legittimità relativo ad una domanda di protezione internazionale sono state enunciate dalla citata
pronuncia n. 17576 del 2010.
In conclusione si possono così sintetizzare le certezze processuali riguardante il segmento
giurisdizionale relativo ai procedimenti aventi ad oggetti domande di protezione internazionale :
a) giurisdizione del giudice ordinario anche sui permessi umanitari che possono
conseguentemente essere validamente azionate in via subordinata e gradata dopo le domande
aventi ad oggetto le misure legalmente tipizzate di protezione internazionale e la domanda di
asilo costituzionale ex art. 10, terzo comma Cost. ove si ritenga tale strumento dotato di
autonomia
37
L’orientamento dei giudici di merito, emerso nel corso dell’incontro di studi ove si è svolta la presente
relazione è stato nettamente favorevole alla natura non impugnatoria del procedimento giurisdizionale, tenuto
conto in particolare degli ampi poteri del giudice, non solo di natura istruttoria ma anche di qualificazione
giuridica della domanda, non inferiori a quelli delle Commissioni. Secondo le prescrizioni normative del d.lgs
n. 25 del 2008 (cd. decreto procedure) le Commissioni hanno l’obbligo di verificare l’esistenza delle
condizioni per il rilascio di misure umanitarie anche diverse da quelle richieste dalla parte e di richiedere al
Questore l’emissione di permessi umanitari, al di là ed oltre le domande specificamente formulate dalla parte
richiedente. Il giudice, di conseguenza risulterà dotato dei medesimi poteri.
28
b) il procedimento giurisdizionale è assoggettato al rito camerale in tutti i gradi del giudizio
e si chiude con sentenza.
c) il giudice ha il dovere di accertare senza limitazioni istruttorie derivanti dall’applicazione
del principio dispositivo, l’esistenza di condizioni che giustifichino l’adozione di una misura di
protezione internazionale anche non richiesta, non potendo il sindacato giurisdizionale di merito
avere ad oggetto un potere di cognizione più limitato di quello delle Commissioni;
d) il procedimento s’instaura con il deposito del ricorso ed il contraddittorio viene instaurato
in forma esclusivamente officiosa mediante fissazione dell’udienza camerale con decreto
notificato all’interessato o comunicato al p.m. e alla Commissione competente
e) la pronuncia n. 17576 del 2010 fissa infine le seguenti puntuali regole relative al
procedimento camerale in Cassazione
a) al ricorso si applicano gli artt. 360, 360 bis, 365 (necessità che il ricorso sia sottoscritto
da avvocato iscritto all’albo die cassazionisti, munito di procura speziale), 366 (contenuto
del ricorso) cod. proc. civ.
b) Il procedimento si introduce con deposito del ricorso presso la cancelleria della
Cassazione nel termine perentorio di trenta giorni dalla notifica, a cura della cancelleria
della Corte d’Appello, della sentenza che ha deciso sul reclamo ai sensi dell’art. 35
commi,11, 12 e 13.
c) L’instaurazione del contraddittorio avviene, in forma esclusivamente officiosa, mediante
fissazione dell’ udienza camerale con decreto presidenziale, notificata, a cura della
cancelleria della Corte alle parti (Il Ministero dell’Interno presso la Commissione
competente, Il P.G. presso la Corte d’appello;il P.G. presso la Cassazione)
d) Il rito camerale richiamato dall’art. 35, comma 14 del d.lgs n. 25 del 2008 è
incompatibile con la procedura prevista dall’art. 380 bis cod. proc. civ.
e) Il procedimento è, altresì incompatibile con la proposizione di un’impugnazione
incidentale, attesa l’inesistenza di un impulso di parte a fini acceleratori
f) E’ necessario proporre autonomo ricorso nel termine di trenta giorni dalla notifica della
sentenza, da riunirsi ex art. 335 cod. proc. civ. a quello principale
g) Le parti possono svolgere le proprie difese mediante deposito di controricorso nel
termine di venti giorni dalla notificazione a cura della cancelleria della Corte del decreto
di fissazione d’udienza.
h) Il controricorso non deve essere notificato alle altre parti né dal controricorrente né a cura
della cancelleria.
Va, infine, rilevato, che il Dlgs n. 25 del 2008, contiene al Capo VI una specifica
disposizione transitoria, l’art. 38. In tale disposizione è previsto che fino all’entrata in vigore dei
regolamenti d’attuazione, trovano applicazione “in quanto compatibili” le disposizioni di cui al
D.P.R. n. 303 del 2004. La previsione della clausola di compatibilità, evidenzia il grado
d’innovazione del nuovo complesso normativo e postula, l’implicita abrogazione di tutte le
disposizioni pregresse, ancorché astrattamente applicabili, in virtù della norma transitoria, se non
compatibile con il nuovo sistema plurale di protezione internazionale, quali quelle relative al
procedimento giurisdizionale e all’onere della prova.
5. - La giurisprudenza di legittimità sul diritto d’asilo, sul riconoscimento dello status di
rifugiato e sulle altre forme di protezione umanitaria.
L’esame della giurisprudenza di legittimità in materia di diritto d’asilo deve partire dalla
sentenza delle S.U. n. 4674 del 1997 con la quale sono stati affermati i seguenti principi di diritto
:
29
a) l’art. 10, terzo comma Cost., attribuisce direttamente allo straniero un vero e proprio
diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che ne disciplini le
condizioni di esercizio dal momento che la norma costituzionale delinea con sufficiente
chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo,
individuando nell’impedimento delle libertà democratiche la causa di riconoscimento del diritto;
b) la mancanza di una disciplina normativa di attuazione non comporta l’applicabilità al
diritto d’asilo, del regime giuridico proprio dello status di rifugiato. Il precetto costituzionale e la
normativa sui rifugiati politici, non coincidono dal punto di vista soggettivo, perché la categoria
dei rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo, ponendo come
indefettibile condizionale l’accertamento del fondato fumus persecutionis;
c) lo status di rifugiato determina il riconoscimento di diritti e garanzie ben più estese del
diritto d’asilo costituzionale che, invece, determina soltanto il diritto all’ingresso nel nostro
paese;
d) la giurisdizione sul diritto d’asilo costituzionale, in quanto svincolato anche
funzionalmente dal riconoscimento dello status di rifugiato è del giudice ordinario (nel 1997 la
giurisdizione avverso il provvedimento negativo emesso dalla Commissione Centrale per il
diritto d’asilo, inerente esclusivamente lo status di rifugiato, era quella amministrativa).
La Corte afferma un orientamento, in ordine all’asilo costituzionale, del tutto coerente con le
posizioni della dottrina nettamente dominante, esaminate nel primo paragrafo e ne dà atto in
motivazione. Al riconoscimento del diritto d’asilo costituzionale, corrisponde la diretta
azionabilità davanti al giudice ordinario, quale esclusivo giudice dei diritti fondamentali,
nonostante la diversa indicazione normativa per i rifugiati. Con questa pronuncia la Corte
anticipa il quadro normativo successivamente introdotto nel nostro ordinamento, e considera
esistenti quanto meno due misure di protezione internazionali ancorché fortemente differenziate
nel regime giuridico, essendo l’una (l’asilo costituzionale), intrinsecamente non dotata di uno
stabile titolo di soggiorno ma presumibilmente finalizzata all’ottenimento di un permesso di
natura umanitario, non ancora normato al momento della pronuncia, ma successivamente
introdotto con il Dlgs n. 286 del 1998 (art. 5 comma sesto e 19).
L’orientamento sopra indicato, viene ribadito da Cass. S.U. n. 907 del 1999, nella quale, in
sede di regolamento di giurisdizione (nella vigenza del Dlgs n. 286/1998), si afferma la
giurisdizione del giudice ordinario sia per le domande di asilo sia per quelle relative al
riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto l’accertamento giudiziale, relativo a diritti
perfetti, ha carattere meramente dichiarativo. Il coincidente orientamento di queste due pronunce
ha contribuito a produrre la proposizione di un numero non esiguo di domande giudiziali, volte,
specificamente ed autonomamente, al riconoscimento del diritto di asilo costituzionale che hanno
trovato positivo riscontro da parte dei giudici di merito sia in ordine all’ammissibilità, fuori
discussione dopo l’interpretazione dell’art. 10, terzo comma, Cost., da parte delle Sezioni
Unite38, sia in ordine al fondamento della domanda, con riferimento al criterio discretivo,
desumibile dalla diretta natura precettiva dall’art. 10 Cost. Proprio dall’impugnazione di una
pronuncia di merito relativa al diritto d’asilo costituzionale, è scaturito il pìù recente indirizzo,
adottato dalla prima sezione della Corte, in modo pressoché unanime nell’ultimo triennio. La
pronuncia che ne offre il quadro più esauriente è la n. 25028 del 2005. Secondo la Corte, in
assenza di una legge organica sull’asilo politico, che in attuazione del dettato costituzionale, ne
fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti, ed in considerazione del fatto che le
norme che si sono succedute, hanno regolato esclusivamente la categoria del rifugiato politico, il
diritto di asilo deve intendersi non tanto come un diritto alla permanenza e protezione nel nostro
paese, ma esclusivamente come un diritto all’ingresso, funzionalizzato al riconoscimento dello
status di rifugiato. Viene, con questa pronuncia, negata autonomia al diritto d’asilo, in quanto
38
(Trib. Roma, 12/6/2000 in Dir. Citt. Imm. N. 1/2001 p. 78; Trib. Torino 28/5/2001 n. 4763 in Dir. Cittt.
Imm. N. 3/2001 p.96; Trib. Bologna 11.12.2001 in Dir. Citt. Imm. N. 1/2002 p. 137.),
30
risolutivamente condizionato al mancato accoglimento della domanda relativa alla qualità di
rifugiato. In sostanza, la posizione del richiedente asilo non è diversa da quella del titolare di un
permesso temporaneo per la durata del procedimento volto al riconoscimento dello status di
rifugiato. Nella motivazione, la Corte poggia la propria soluzione sull’ambiguità del termine
asilo e sulla sua assimilazione in molti testi normativi alla condizione del rifugiato politico e, pur
riconoscendo immediata precettività all’art. 10 Cost., terzo comma, esclude che la norma
costituzionale, possa, in assenza di una legge attuativa, dar vita ad un titolo di soggiorno diverso
dal permesso temporaneo che può essere concesso solo a seguito della proposizione, nelle forme
di legge, della domanda relativa al rifugio politico. La Corte non si pone, nel caso di specie,
anche perché non sollecitata dalla fattispecie, il problema dell’esistenza e della natura giuridica
dei permessi umanitari – non strettamente finalizzati allo svolgimento del procedimento di
riconoscimento dello status di rifugiato – desumibili dall’applicazione dell’art. 5, comma sesto e
19, comma primo Dlgs n. 286 del 1998 e, conseguentemente esclude che al momento
dell’assunzione della decisione, potessero coesistere nell’ordinamento diverse tipologie di
misure di protezione internazionale, ritenendo applicabile solo la disciplina normativa del
rifugio. Il ridotto spazio applicativo delle misure di carattere umanitario indicate nelle norme
sopra richiamate, era stato già affermato dalla Corte nella sent. n. 8423/2004, secondo la quale,
la domanda di asilo, se non accompagnata dalla richiesta di concessione di un permesso di
soggiorno temporaneo, finalizzato alla proposizione della domanda e allo svolgimento del
procedimento di riconoscimento dello status di rifugiato, non può costituire ostacolo
all’espulsione, non potendo il giudice ordinario valutare l’esistenza di condizioni corrispondenti
a quelle indicate dalla norma. Anche in questa pronuncia è negata alla radice l’esistenza di una
pluralità di misure di protezione internazionale, attuative del diritto d’asilo costituzionale ed è
sostanzialmente vanificato il divieto di espulsione stabilito all’art. 19, primo comma del Dlgs n.
286 del 1998, nonostante, sotto il profilo testuale, i presupposti di operatività del divieto non
siano coincidenti con quelli posti a base del riconoscimento dello status di rifugiato soprattutto in
considerazione degli obblighi internazionali e costituzionali, individuabili, in particolare nell’art.
3 CEDU. Lo stesso orientamento si rinviene nella pronuncia n. 3732 del 2004, nella quale viene
escluso il divieto di espulsione, in mancanza di un titolo di soggiorno, in questo caso consistente
in una misura di protezione temporanea, da adottarsi con DPCM alle condizioni indicate nel
successivo art. 20. L’orientamento è confermato nella sentenza n. 28775 del 2005. Anche in
questa pronuncia, viene escluso che dal Dlgs n. 286 del 1998 possano trarsi misure di protezione
umanitaria non derivate da una condizione già riconosciuta od in via di riconoscimento, in via
amministrativa, idonea a giustificare il divieto di espulsione. La Corte ritiene che il divieto di
espulsione previsto dall’art. 19 debba essere interpretato in correlazione con l’art. 20, con la
conseguenza che il pericolo di persecuzione deve risultare da una misura di protezione
temporanea adottata dall’autorità politico-amministrativa e non può essere oggetto di autonoma
cognizione da parte del giudice.
L’orientamento indicato nella pronuncia sopra citata n. 25028 del 2005, viene integralmente
confermato nelle pronunce n. 18353 e 18940 del 2006. Nella prima delle due pronunce,
caratterizzata da un’ampia panoramica delle fonti internazionali cui l’Italia deve ritenersi in
diversa misura vincolata, viene posta in evidenza l’assenza nella CEDU, di un’espressa norma di
tutela del diritto d’asilo, meritevole di protezione diretta. Ma, come è stato osservato nei
precedenti paragrafi, l’affermazione deve essere riesaminata alla luce della giurisprudenza della
Corte di Strasburgo sull’art. 3 CEDU. Non può, infatti, negarsi che la Corte Europea dei diritti
dell’uomo abbia sempre affermato di non potere interferire nella regolamentazione interna del
diritto d’asilo, trattandosi di materia estranea al suo esame ma, allo stesso modo, ha ritenuto
tutelabile in via assoluta ed indipendentemente da condizioni ostative, derivanti anche da serie
ragione attinenti alla sicurezza dello Stato, il divieto di allontanamento dello straniero verso lo
Stato d’origine quando esista il rischio della sottoposizione alla pena di morte, alla tortura o a
trattamenti inumani o degradanti. La recente affermazione di questo principio, unita all’incisiva
31
innovazione normativa relativa alla pluralità delle misure di protezione internazionali tipizzate
nel nostro ordinamento forniscono nuovi elementi di valutazione dell’orientamento attualmente
unanime nella prima sezione della Corte. Ma anche l’indirizzo relativo all’inoperatività dei
divieti di espulsione per motivi umanitari, in mancanza di una preventiva richiesta, quanto meno
di un titolo di soggiorno, giustificato dalle medesime ragioni, deve essere riesaminato alla luce
della previsione normativa, tra le funzioni delle Commissioni territoriali per il riconoscimento
delle misure di protezione internazionale, anche delle condizioni idonee alla concessione di un
permesso umanitario ex art. 5, sesto comma, Dlgs n. 286 del 1998. Da un lato, la tendenza
normativa, sembra quella di unificare, in un unico procedimento ed in un unico organo
decidente, la formulazione delle domande riguardanti il riconoscimento delle misure di
protezione internazionale e i permessi giustificati da ragioni umanitarie, previsti dal citato art. 5,
sesto comma, Dlgs n. 286 del 1998, in quanto fondate sui medesimi criteri di accertamento e su
un’identica rappresentazione di fatto che può dare luogo ad una varietà graduata di
provvedimenti di accoglimento che vanno dallo status di rifugiato, alla richiesta al Questore del
rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dall’altro, la pluralità di misure di
protezione di carattere umanitario, sembrano rappresentare finalmente una concreta attuazione
del diritto d’asilo costituzionale anche sotto il profilo procedimentale. Rimane aperto il problema
della diretta azionabilità del diritto d’asilo costituzionale, a contenuto non coincidente con le
misure di protezione internazionale tipizzate, attualmente esclusa dalla giurisprudenza di
legittimità,anche come causa ostativa all’espulsione. I più recenti orientamenti ampiamente
esaminati nei paragrafi che precedono sembrano però avere in larga parte colmato le lacune
determinate dalla mancanza di una legge organica sull’asilo costituzionale e dal contenuto molto
restrittivo del diritto secondo gli orientamenti da ultimo esaminati.
La pluralità delle misure di protezione intenazionale da una lato e la giurisdizione del giudice
ordinario sui permessi umanitari ex art. 5 comma sesto d.lgs n. 286 del 1998 dall’altro hanno
contribuito a creare un sistema di tutela giurisdizionale tendenzialmente completo, non essendo
agevole individuare situazioni individuali che non siano riconducibili quanto meno ai “seri
motivi umanitari” di cui all’art. 5, sesto comma valutabili alla stregua dei principi elaborati dalla
CEDU sull’ art. 3 della Convenzione. Si tratterà piuttosto di verificare se la giurisprudenza di
merito che utilizzerà gli ampi poteri officiosi di cui gode anche e soprattutto nel riconoscere il
diritto all’adozione di permessi umanitari disposti ex officio nei casi in cui non si ravvisino le
condizioni per il riconoscimento della protezione sussidiaria in particolare nel campo della
compressione del dissenso e della libera manifestazione del pensiero, certamente da ricondurre
nella categoria delle “libertà democratiche” tutelate dall’art. 10 terzo comma Cost.
Maria
Acierno
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