INTRODUZIONE AL DIRITTO DELL’IMPRESA (di G. Figà-­‐Talamanca e A. Genovese) 1. Attività produttive e diritto privato Il fenomeno della produzione industriale di beni e servizi impone un profondo ripensamento delle categorie giuridiche tradizionali del diritto privato. La nozione di diritto soggettivo, quale strumento per regolare l’appartenenza dei beni ai soggetti, e la dogmatica del negozio giuridico, quale veicolo per regolare il trasferimento dei beni tra i soggetti, risultano infatti insufficienti a comprendere e regolare le vicende dell’attività produttiva. La stessa centralità del “soggetto di diritto”, tradizionale nel diritto privato, viene messa in crisi nel momento in cui la ricchezza, piuttosto che caratterizzarsi secondo una logica di appartenenza ad un certo proprietario, si declina in termini di funzione produttiva a cui è destinata e di strumenti utilizzati per tale destinazione. Sicché si determinano le condizioni perché le risorse economiche impiegate in modo preordinato in un certo ciclo produttivo assumano un rilievo giuridico obiettivo (si parla di azienda) che prescinde dalla (o quantomeno si sovrappone alla) “titolarità” dei beni da cui tali risorse sono composte. Anche la “titolarità” del resto, nei contesti economici produttivi, finisce per perdere la tradizionale connotazione “proprietaria” che consente il pieno godimento del bene poiché, piuttosto che sull’appartenenza statica dei beni, la rilevanza giuridica del fenomeno finisce per focalizzarsi sulle regole di governo del valore investito nella produzione e di quello prodotto alla fine del processo. Nell’economia agraria, a ben vedere, lo strumentario concettuale della proprietà potrebbe ancora bastare anche per l’inquadramento giuridico delle attività produttive che vi si svolgono: la proprietà identifica il complesso produttivo fondiario quale “cosa oggetto di diritto”, mentre il risultato della produzione si qualifica naturalmente e giuridicamente come “frutto della cosa”, appartenente, in base alle regole sui modi di acquisto della proprietà al proprietario della cosa madre. Il fondo agricolo sfruttato economicamente resta quindi un bene individuato da ascrivere ad un soggetto che, esercitando le prerogative di godimento del proprietario, ne trae le sue naturali utilità. Non così, invece, nell’economia del commercio, dove la “proprietà” della merce è solamente una vicenda accidentale e comunque transitoria di scarsa rilevanza pratica, Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 1 destinata a risolversi nello scambio; sicché il bene “oggetto di diritto” costituisce solo una fase intermedia di un ciclo produttivo che inizia e termina con somme di denaro investite e ricavate. Nella prospettiva delle utilità di scambio, la proprietà della merce in capo al commerciante risulta operativamente pressoché irrilevante in vista della rivendita, considerando tra l’altro che chi acquista può vantare un titolo di proprietà autonomo rispetto al dante causa, cfr. art. 1153 cod. civ. Da tale punto di vista mette conto anche notare come la rilevanza della proprietà nei contratti di relativi alla distribuzione commerciale si stemperi in una disciplina negoziale alternativa e analitica dei diversi profili operativi che ad essa si associano: rischio del perimento accidentale, rischio della controparte, rischio dell’invenduto, etc. L’atto di acquisto e l’atto di rivendita, pur assumendo ciascuno un rilievo proprio come contratti indipendenti e a effetti reali (come tali idonei a trasferire la proprietà di beni da un soggetto all’altro), rilevano dunque come vicende economiche tra loro funzionalmente collegate poste in essere in vista di un risultato algebrico meramente differenziale: quel che conta nelle operazioni di scambio poste in essere da un commerciante, a ben vedere, non è il singolo atto giuridico inteso come mezzo per ascrivere al “titolare” l’effimera proprietà della merce, bensì la successione di diversi atti come procedimento per determinare il destinatario finale di quel differenziale tra costo e ricavo a cui l’operazione è preordinata. Questo approccio alla materia regolata si può indicare, in sintesi, come approccio in cui la considerazione per il profilo funzionale e unitario dello scopo dell’attività prevale sulla considerazione per il profilo strutturale e segmentato relativo alla validità e all’efficacia degli atti di cui l’attività si compone e all’appartenenza dei beni che vi sono implicati. La prevalenza del profilo funzionale all’attività rispetto alla qualificazione in termini di “appartenenza” di singole situazioni giuridiche soggettive (beni oggetto di diritto) è ancora più accentuata se si passa dall’intermediazione nello scambio all’intermediazione nella produzione, ovvero alla produzione industriale. Quanto impiegato nel ciclo produttivo è destinato, in un certo senso, a distruggersi o esaurirsi nella produzione, seppure talvolta (ma non necessariamente) i mezzi di produzione si concretizzino in beni oggetto di un’appartenenza “proprietaria. E nella produzione industriale di servizi neppure il “prodotto” risulta idoneo ad essere qualificato come oggetto di proprietà. Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 2 In questo contesto, l’imputazione soggettiva, piuttosto che a regolare l’appartenenza, serve per lo più a dimensionare i profili della garanzia patrimoniale su cui possono fare generale affidamento i terzi e a modulare questa garanzia in funzione limitativa. In questa prospettiva si registra il proliferare, nel nostro settore, di soggetti “artificiali”, la cui dotazione patrimoniale è prestabilita e relativamente limitata e la cui capacità giuridica è specificamente preordinata a circoscrivere il patrimonio sul quale i creditori possono esercitare un’azione esecutiva. E ciò indipendentemente dal profilo dell’appartenenza, che si attua, a ben vedere, al di là dell’intestazione soggettiva, con riguardo ai valori investiti e ai risultati prodotti. Per converso, non mancano i casi in cui la garanzia patrimoniale generale si estende per legge oltre il patrimonio del soggetto debitore (si pensi, alle società di persone con soci illimitatamente responsabili); o si circoscrive ad ambiti costituenti sottoinsiemi del patrimonio del soggetto, definiti in ragione di una data destinazione produttiva. Così accade nel nuovo istituto dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare”, per cui la modificazione del regime di garanzia patrimoniale, piuttosto che con la tecnica tradizionale per “soggetti di scopo”, si attua mediante una deroga espressa alla regola per cui il debitore risponde delle sue obbligazioni “con tutti suoi beni presenti e futuri”, segregando gli elementi del patrimonio pur intestato ad un dato soggetto, in forza di un vincolo di destinazione a specifiche finalità economiche. D’altra parte, pur nella diversità dei presupposti, meritano di essere menzionate in questo contesto anche le disposizioni che consentono ad un creditore di agire, a titolo di responsabilità per il danno, anche nei confronti di un soggetto diverso da quello con il quale è entrato in contatto (si pensi alle regole in materia di gruppi o a quelle che riguardano il socio di società a responsabilità limitata che ha partecipato alla gestione) A sua volta, la capacità di agire, da prerogativa del “soggetto di diritto” che rivendica il potere di disporre del proprio patrimonio, diventa principalmente misura della congruità dell’agire ad un interesse precostituito, e dunque istanza di funzionalità: trattandosi per lo più di verificare se un determinato atto, compiuto da questo o quell’individuo, sia obiettivamente ascrivibile all’attività d’impresa. In altri termini, sarà in discussione non tanto la corrispondenza dell’atto di autonomia privata alla propria volontà, quanto piuttosto la coerenza degli atti di gestione con le relative finalità. Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 3 L’organizzazione dell’attività produttiva si traduce, allora, in organizzazione della produzione giuridica, articolata in processi decisionali e ruoli istituzionali. La preminenza del profilo della produzione di nuova ricchezza rispetto a quello del godimento legato all’appartenenza dei beni determina anche una peculiare conformazione del danno di cui si chiesto il risarcimento. Infatti per valutare come “ingiusto” il pregiudizio riferito a un’attività produttiva il cui risultato non si presta ad essere garantito dall’ordinamento – poiché, come si dirà poco più avanti, esso dipende dall’interazione tra la pianificazione del processo produttivo e il mercato – è decisiva e prioritaria la valutazione di antigiuridicità riferita alla condotta che si assume causa del pregiudizio stesso, piuttosto che l’interferenza negativa fra tale condotta e il godimento di un bene oggetto di diritto. Con riferimento a un’attività economica infatti né il recupero del valore della ricchezza investita né il conseguimento di un utile sono pensabili in termini di diritto soggettivo tutelato, cui far corrispondere, secondo uno schema tradizionale per il diritto privato, la responsabilità del terzo in caso di pregiudizio. Nella tutela risarcitoria di tale attività potrebbe dirsi che il disvalore della condotta pregiudizievole, da criterio di imputazione della responsabilità, assurge a discrimine tra la compromissione di un interesse mero (al profitto) e il danno risarcibile. Così, quando si tratti dell’adempimento delle obbligazioni relative alla gestione dell’attività di impresa, è la divergenza della condotta del gestore da canoni obiettivi di “buona amministrazione” (e non solo da regole di legge) ad assumere un'assoluta centralità. Il danno imputabile agli amministratori, piuttosto che commisurarsi all'interferenza della condotta con un diritto leso, si determina in ragione di un raffronto tra il risultato derivato da una gestione non coerente con i principi di buona amministrazione e quel risultato che, in ipotesi, si sarebbe conseguito se gli amministratori avessero agito in conformità ai loro doveri. In altre parole, non è la "perdita" o il "mancato guadagno" in sé che rileva, ma la qualità della condotta cui fa seguito un certo risultato economico. Analogamente, nell’illecito concorrenziale l’antecedente logico del giudizio sulla risarcibilità del danno è costituito dall’antigiuridicità della condotta di mercato del concorrente che lo ha causato. E l’entità del risarcimento del danno spettante all’imprenditore viene commisurata al risultato economico che l’imprenditore (non) ha Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 4 conseguito, confrontato con quello che si stima avrebbe conseguito in uno scenario alternativo e più vantaggioso. Da qui, come vedremo nella debita sede, anche un acceso dibattito sui rapporti fra funzione e metodi economici di quantificazione del risarcimento del danno derivante dall’illecito concorrenziale . 2. Attività produttiva e mercato La produzione di beni e servizi presuppone in principio una pianificazione dell'agire, cioè la predeterminazione di obiettivi e di operazioni funzionalmente correlate agli obiettivi stessi. L’attuazione del processo produttivo programmato richiede poi l’acquisizione della disponibilità delle risorse da impiegare nelle diverse fasi. In altri termini, presuppone e implica l’esercizio di un potere di gestione sui fattori della produzione in vista del risultato produttivo atteso. Si può osservare che l’attività produttiva, nel suo insieme, è volta, in ultima analisi, al soddisfacimento di bisogni di singoli o gruppi. L’attività produttiva può allora qualificarsi come intermediazione tra le risorse e i bisogni che tali risorse possono concorrere a soddisfare. Da un lato dunque la disponibilità di capacità produttiva, dall’altro la messa a disposizione di chi ne abbisogna dei beni e servizi “prodotti”: è tra questi due poli che si sviluppa la gestione del processo produttivo, vale a dire la formulazione del programma e l’attuazione dell’attività pianificata . Peraltro, i bisogni finali al cui soddisfacimento sarà, in definitiva, destinata la produzione possono collocarsi – e si collocano tipicamente, almeno in un’economia di mercato – al di fuori dell’ambito della pianificazione. In altre parole, si può programmare un dato risultato produttivo, ipotizzando che possa rispondere a dati bisogni, ma saranno i destinatari a giudicare l’idoneità di quanto prodotto alle loro aspettative. In un’economia di mercato il raccordo tra l’esito del processo produttivo programmato e il soddisfacimento dei bisogni si realizza mediante uno scambio contrattuale: tecnica in principio idonea a realizzare un’efficiente assegnazione dei beni in corrispondenza ai bisogni, posto che lo scambio si fondi sul libero consenso, quale testimonianza della reciproca soddisfazione delle parti. Da qui anche la necessità di regole giuridiche a tutela della concorrenza e del mercato che salvaguardino la libertà delle imprese produttrici e quella dei consumatori ai quali viene offerta la produzione. Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 5 In linea generale, si scambiano beni e servizi contro denaro (conseguendo ricavi); d’altra parte, anche l’acquisto dei fattori della produzione (materie prime, merci, forza lavoro, macchinari, etc.) si consegue in generale mediante contratti di scambio: denaro contro fattori della produzione (sostenendo costi). Ed è evidente che le condizioni dello scambio (nella specie: prezzi di rivendita e di acquisto), poiché dipendono da variabili esterne (essenzialmente: dalle condizioni di scambio che le controparti saranno disponibili ad accettare), esulano dal potere di gestione del produttore (e, se così non fosse, si riscontrerebbe in capo al produttore, individualmente o collettivamente, un potere di mercato che richiederebbe interventi correttivi proprio a tutela del corretto funzionamento del mercato: vedi infra…). Ne deriva, a monte e a valle della produzione pianificata, una fisiologica incertezza: le condizioni di sbocco della produzione sul mercato, così come le condizioni di approvvigionamento sul mercato, non si prestano ad essere oggetto di pianificazione. Questa incertezza esercita sul produttore una pressione che tende a fargli fare scelte il più possibile efficienti nella fissazione di almeno uno dei termini da cui dipende il risultato dello scambio. A ben vedere infatti il processo gestionale muove dalla cristallizzazione di una delle condizioni dello scambio, a monte (ad esempio: l’acquisto di fattori della produzione ad un dato prezzo) o a valle (ad esempio: l’impegno a fornire servizi ad un dato prezzo nell’appalto), che diventa condizione certa, premessa del programma imprenditoriale intrapreso per essere concluso al momento in cui verranno a fissarsi, nell’incontro fra domanda e offerta di mercato, le condizioni dello scambio relative all’altro estremo (finale o iniziale) del processo (negli esempi: il prezzo di rivendita della merce prodotta; il costo di produzione dei servizi promessi). Il processo produttivo perciò presuppone l’effettuazione di scelte strategiche che, interagendo con il mercato di riferimento, hanno per l’operatore individuale ricadute premianti o penalizzanti e hanno anche per il sistema ricadute positive o negative che riguardano l’allocazione delle risorse e la ricchezza complessiva che si produce. In questo senso, inoltre, il processo produttivo che si sviluppa in un contesto di mercato, muovendo dal certo all’incerto, implica per l’operatore l’assunzione del rischio di impresa, principalmente riconducibile, appunto, all’incertezza in merito alla correlazione attesa tra costi e ricavi. Specificamente, alla possibilità di conseguire, collocando sul mercato beni e servizi prodotti, i ricavi sperati (tali da assicurare quantomeno la Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 6 copertura dei costi sostenuti); ovvero, alla possibilità di reperire sul mercato i fattori della produzione necessari al costo sperato (i.e. quantomeno non superiore al ricavo conseguito). Non sempre, peraltro, la produzione di beni e servizi si colloca sul mercato: può darsi, ad esempio, che i beni o (come più spesso avviene), i servizi prodotti non siano destinati ad essere offerti sul mercato, bensì vengano direttamente messi a disposizione di chi possa averne necessità. Così avviene per molti servizi pubblici, prodotti all’esito di un processo industriale per essere offerti a singoli o collettività senza che si verifichi uno scambio contrattuale, senza incassare dunque un corrispettivo; in questi casi la pianificazione investe anche l’individuazione dei bisogni da soddisfare, determinati a priori, e il ciclo produttivo non si chiude con un ricavo bensì con il conseguimento da parte dei beneficiari dell’utilità programmata; evidentemente tutto ciò presuppone la possibilità di alimentare il processo produttivo, fronteggiando i relativi costi, con risorse di provenienza diversa: ad esempio, entrate fiscali o contributi comunque ricevuti al di fuori di una logica di corrispettività. Dunque, scambio (e, in principio, scambio sul mercato) sul lato dell’approvvigionamento dei fattori produttivi, ma non sul versante del collocamento dei beni e servizi prodotti. Non si parla, ovviamente, di servizi che le pubbliche amministrazioni non producono ma si limitino ad acquistare sul mercato per metterli poi a disposizione degli utenti: in questi casi infatti il servizio (o il bene) viene ceduto, in esito al processo produttivo, alla pubblica amministrazione committente con un contratto di scambio, per poi essere offerto magari gratuitamente agli utenti. Il processo produttivo dunque si conclude con un ricavo, corrispondente al prezzo pagato dall’amministrazione committente: diversamente dai casi in cui ai costi della produzione si fa fronte non già con i ricavi programmati ma con entrate di natura fiscale. Peraltro non è solo nell’ambito delle attività delle pubbliche amministrazioni che si riscontrano casi in cui la produzione di beni e servizi non è destinata ad uno scambio sul mercato, bensì a soddisfare direttamente bisogni: così in talune iniziative consortili, in cui le imprese associate si avvantaggiano direttamente dei servizi offerti dal consorzio (che soddisfano, allora, “bisogni strumentali” inerenti ad altri processi produttivi); così pure nell’ambito di talune attività “non lucrative”, volte a soddisfare direttamente interessi e bisogni anche mediante la produzione e l’erogazione di servizi (si tratta, Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 7 allora, tendenzialmente di “bisogni finali” attinenti alla sfera individuale o relazionale dei singoli). D’altra parte, può accadere talvolta che i fattori della produzione (o taluno di essi) siano direttamente acquisiti senza ricorrere a contratti di scambio, ad esempio a titolo coattivo o di volontariato. In queste ipotesi l’attività risulterebbe sollevata dall’esigenza di conseguire ricavi sufficienti a coprire quei costi di produzione che non ha dovuto sostenere. Queste ipotesi (peraltro marginali) non vanno confuse con quelle in cui la disponibilità di taluni fattori della produzione viene conseguita senza sostenere in senso tecnico un costo, ma come apporto (è il caso dei conferimenti d’opera o di beni in natura in società, o quello dell’impiego di fattori della produzione la cui disponibilità preesiste all’inizio dell’attività produttiva, quale la forza lavoro del titolare dell’impresa o i suoi beni personali che vengano destinati all’attività). Infatti, in questi casi la remunerazione di quel fattore della produzione non è esclusa bensì parametrata all’eventuale utile conseguito dall’attività: rimane dunque la necessità di “pagare” quel fattore della produzione conseguendo ricavi che eccedano in misura adeguata i costi sostenuti, cioè di realizzare un utile che possa fare da contropartita alla disponibilità di quel fattore della produzione conferito o messo a disposizione dal titolare. A ben vedere, si tratta di situazioni riconducibili alla vicenda dell’investimento nell’attività economica, sebbene nel caso specifico l’investimento abbia ad oggetto una risorsa produttiva specificamente determinata piuttosto che il denaro da impiegare per acquisire risorse produttive. Ma a parte questi casi, per lo più riferibili all’attività produttiva delle pubbliche amministrazioni che esula dalla sfera degli scambi economici o che si ricollega all’esercizio di pubblici poteri (casi che peraltro non potremo esimerci dall’esaminare nel prosieguo, quantomeno per delineare l’ambito di applicazione della nostra disciplina e i confini di rilevanza delle attività economiche c.d. di interesse generale come attività soggette alle regole dell’impresa e della concorrenza), la pianificazione imprenditoriale deve rapportarsi, sia sul versante dell’approvvigionamento sia su quello della collocazione dei beni o servi prodotto, al mercato. E, come vedremo, è nella disciplina del rapporto tra organizzazione produttiva e mercato che si coglie la specificità del diritto dell’impresa. 3. Le fonti Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 8 I rapporti contrattuali riferiti all’attività produttiva sono disciplinati in gran parte dal diritto comune dei contratti. Peraltro la pertinenza del rapporto contrattuale all’attività di impresa può assumere un particolare rilievo, quale presupposto di applicazione inderogabile o integrativa di discipline speciali, ad esempio, quelle relative ai contratti con i consumatori e alla tutela dei consumatori nei confronti delle pratiche commerciali scorrette in genere (cfr. il Codice del Consumo – d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 -­‐ e altri testi riferiti a specifici prodotti o servizi destinati ai consumatori o ai risparmiatori) o quelle relative ai contratti fra imprese in cui una sia la parte “forte” e l’altra la parte “debole” del contratto (cfr. la disciplina della subfornitura nella l. 18 giugno 1998, n. 192, con la previsione dell’abuso di dipendenza economica e alcune recentissime previsioni contenute nel d. l. n. 1 del 2012 in fase di conversione). Altre volte, è la disciplina generale del contratto a essere modellata sul presupposto della sua pertinenza all’attività produttiva: così ad esempio per i contratti di lavoro (normalmente funzionali all’attività di impresa), o per i contratti bancari e assicurativi (che presuppongono l’esercizio dell’impresa bancaria o assicurativa e che sono essenzialmente strumenti per l’esercizio di attività soggette a una normativa primaria e secondaria molto permeante). Ma oltre alle fonti del diritto dei “contratti di impresa”, un ruolo specifico nell’ambito delle fonti del diritto commerciale va riconosciuto alle regole che riguardano la posizione dell’impresa quale organizzazione produttiva che opera nel mercato, nonché ai suoi rapporti con gli altri operatori del mercato. Il principio costituzionale della “libertà di iniziativa economica” (art. 41 Cost.), da questo punto di vista è la base della materia e, va però oggi letto e sviluppato nelle sue implicazioni, sia alla luce dell’art. 117 Cost. sia alla luce delle disposizioni dei Trattati dell’Unione europea. L’art. 117 Cost., infatti, dopo la riforma costituzionale del 2001 (l. cost. 18 ottobre 2001, n.3), indica la tutela della concorrenza, come modo di funzionamento del mercato, fra le materie per cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva, e definisce espressamente -­‐ a livello costituzionale -­‐ la concorrenza come un bene giuridico da tutelare . In rapporto ai Trattati dell’Unione europea, nella versione entrata in vigore il 1 dicembre 2009, del Trattato di Lisbona, il principio costituzionale in parola è rilevante invece in una dimensione più ampia essendo, a livello europeo, obiettivo fondamentale Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 9 dell’Unione il perseguimento di una “economia sociale di mercato fortemente competitiva” (cfr. l’art. 3 del Trattato UE) in grado di coniugare crescita economica e coesione sociale. Per l’affermazione di tale paradigma peraltro le imprese e la concorrenza giocano un ruolo fondamentale, come testimoniano le norme antitrust europee, tutte confermate e trasfuse, con il Trattato di Lisbona, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (cfr. TFUE artt. 101 ss.). Del resto, l’impianto originario del Trattato istitutivo della CEE, volto innanzitutto alla creazione di un “mercato unico” di dimensione europea, attribuiva alle imprese degli Stati membri un ruolo di attori principali di questo processo. Libertà di circolazione di beni e servizi prodotti, di capitali da investire nella produzione, di lavoratori da impiegare; ma anche libertà di stabilimento per le attività produttive in tutti i Paesi della comunità, sono i principi la cui positiva affermazione ed effettiva tutela giuridica, nella seconda metà del secolo scorso, hanno portato all’integrazione europea che oggi conosciamo a vari livelli. Fra le fonti del diritto commerciale, dunque, un posto di assoluto rilievo è occupato da atti normativi di diritto europeo dell’economia, delle imprese e dei contratti. E in questo ambito, certamente una posizione di centralità va riconosciuta alle regole europee sulla “capacità giuridica” e sulla “capacità di agire” cui si faceva cenno sopra: regole con cui si individuano i “soggetti” intestatari dei rapporti (con le relative implicazioni quanto ai compendi cui si riferisce la garanzia patrimoniale) e le condizioni alle quali gli atti compiuti da determinati individui possano essere riferiti ai soggetti medesimi. Si tratta di regole prevalentemente ascrivibili all’area tematica del diritto delle società: ciò in quanto la provvista di risorse all’impresa e la gestione delle attività produttive si avvale, in via prevalente, dello strumento della società. Non è casuale, del resto, che l’iniziativa legislativa comunitaria in tema di imprese si sia sin dal principio focalizzata sui profili del diritto delle società che riguardano direttamente la posizione dell’organizzazione imprenditoriale sul mercato: profili riconducibili, appunto, alla capacità giuridica (intesa anche nella prospettiva della garanzia patrimoniale) e alla capacità di agire (attraverso gli amministratori preposti), significativamente ricondotti a meccanismi di pubblicità. Ma non è solo in relazione al diritto delle società che si coglie l’importanza e si afferma il primato delle fonti comunitarie del diritto commerciale. L’opzione per una dimensione “comunitaria” del mercato, cui l’Italia ha aderito sin dai trattati istitutivi delle comunità Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 10 europee, implica l’adozione di regole volte a salvaguardare il funzionamento del mercato: da una parte disciplinando (e in parte accentrando nelle istituzioni comunitarie) le iniziative dei poteri pubblici idonee ad interferire con il funzionamento del mercato, dagli aiuti pubblici alle imprese agli acquisti delle pubbliche amministrazioni, alla concessione di diritti esclusivi su risorse o su attività, alle regole per lo svolgimento di attività economiche di interesse generale; dall’altra, intervenendo per contrastare l’esercizio di “potere di mercato” da parte delle imprese e per promuovere un confronto concorrenziale vivace ed effettivo fra imprese che, come si accennava, contribuisce all’efficienza produttiva e all’ottimale allocazione delle risorse. Il diritto europeo dell’economia, delle imprese e dei contratti ha dunque, da una parte, modellato e armonizzato le legislazioni nazionali con le Direttive, dall’altra parte, affiancato queste legislazioni con le disposizioni dei Trattati e con i Regolamenti. Residua peraltro un ambito significativo di regole proprie dell’attività delle imprese rimesse agli ordinamenti nazionali, e tuttora fuori dal processo di “armonizzazione comunitaria”. Si tratta di un corpo normativo di una certa importanza, che concerne non pochi aspetti dell’operatività dell’impresa: dai meccanismi rappresentativi e di imputazione non riconducibili al diritto societario, ma attinenti all’organizzazione interna dell’impresa; alle regole volte a favorire l’unità funzionale del complesso produttivo in caso di trasferimento dell’azienda. Una considerazione a parte va poi riservata alle discipline tuttora in principio essenzialmente nazionali, sebbene soggette ad un forte impulso di armonizzazione comunitario e internazionale – ossia alle discipline che riguardano i diritti esclusivi su segni distintivi, invenzioni, opere dell’ingegno e altre innovazioni; e alla disciplina, essenzialmente nazionale anche essa, dell’insolvenza dell’impresa (che pure, a certe condizioni– c. d. insolvenza transnazionale -­‐ richiede un binario almeno europeo di svolgimento). Le fonti del diritto commerciale comprendono diversi insiemi di norme riferibili alle attività produttive, dunque, con presupposti di applicazione non sempre condivisi e con una specifica gerarchia di rilevanza. Sicché, quando si parla di “diritto dell’impresa”, occorre chiedersi di volta in volta, ai fini dell’applicazione di questa o quella disciplina, cosa sia “impresa” e poi a quali specifiche “imprese” si riferisca effettivamente la norma e come sia ponga in relazione, oltre che con le norme interne pari ordinate o sovraordinate, anche con numerose norme di diritto europeo sovraordinate. Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 11 Non va infine trascurata l’importanza che, ai fini della disciplina di taluni rapporti fra imprese, in determinati contesti socio economici, possono rivestire regole contrattuali alternative al diritto statuale e in continua evoluzione, tratte dall’esperienza delle transazioni internazionali e a cui si fa comunemente riferimento, in virtù della tradizionale vocazione sovranazionale delle attività commerciali, con il termine di “lex mercatoria”. Figà-­‐Talamanca e Genovese – Introduzione al diritto dell’impresa – febbraio 2012 12