Il condominio: proprietà e prerogative del gruppo

QUADERNI
DEL DIRITTO
Il condominio: proprietà
e prerogative del gruppo
di Pierantonio Lisi
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PRESENTAZIONE
Il volume offre una ricostruzione organica dell’istituto della proprietà condominiale in chiave critico-pratica. Rifuggendo ogni concettualismo, si esaminano molte delle affermazioni di principio ricorrenti in materia di condominio,
evidenziandone le contraddizioni e la scarsa capacità di orientare concretamente le decisioni giurisprudenziali e condurre a soluzioni coerenti. Si propone, quindi, una rilettura della disciplina del condominio a partire dai fondamenti dell’istituto e dal suo inquadramento nel sistema dei diritti reali, aspetti
spesso trascurati in favore di approcci che lasciano irrisolta la frammentarietà
con cui spesso sono presentate le questioni condominiali.
Chiarito che la disciplina del condominio attiene ai beni e non alla contitolarità di diritti su porzioni materiali di organismi edilizi, la specificità dello statuto
della proprietà condominiale emerge mediante il raffronto con la disciplina degli ordinari rapporti di vicinato, piuttosto che con quella della comunione. Non
si tarda a scorgere l’elemento caratterizzante del condominio nella presenza di
un’organizzazione cui la legge attribuisce una serie di poteri e di doveri che,
negli ordinari rapporti di vicinato, sono lasciati all’autonomia privata dei proprietari di fondi vicini o all’iniziativa del singolo, il quale può far ricorso unicamente a forme di tutela riconducibili all’azione di arricchimento.
In questa chiave, nel primo capitolo, si espongono i criteri che presiedono
all’individuazione dell’unità immobiliare condominiale intesa come composta
di parti oggetto di proprietà individuale e parti comuni anche ad altre unità
immobiliari. Particolare attenzione è dedicata al cosiddetto titolo contrario
che, operando sul piano degli atti di destinazione, assegna funzioni specifiche
alle diverse parti di cui si compone l’organismo edilizio, anche in contrasto con
quelle suggerite dalla loro struttura. Nello stesso capitolo si affrontano le questioni dei diritti sulle parti comuni, intesi come il riflesso, sul piano della titolarità, della funzione cui ciascuna parte comune assolve.
Nel secondo capitolo si individuano i criteri di determinazione dell’ambito
oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale: dall’esame della disciplina dell’unione e divisione dei condominii si ricavano i margini entro i quali
la determinazione di detto ambito deve ritenersi rimessa all’autonomia collegiale del gruppo dei condomini interessati, anche nei casi di condominii atipici,
come il supercondominio.
Nel terzo capitolo si identifica nel regolamento di condominio assembleare
una prerogativa dell’organizzazione condominiale. Nelle materie che la legge
riserva al regolamento è sempre possibile una modificazione a maggioranza,
anche quando si tratta di un testo predisposto dal costruttore e richiamato in
tutti gli atti di acquisto.
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Presentazione
Nel quarto capitolo si affrontano le questioni dell’esecuzione di opere
nell’edificio condominiale e della modificazione delle destinazioni d’uso. Gli interventi sono distinti a seconda della loro funzione in favore delle proprietà individuali o di parti comuni e del loro carattere necessario o soltanto utile.
Le opere per singole unità immobiliari, salvo che si tratti di interventi di utilità sociale, possono ritenersi lecite solo se non incidono sulle possibilità di utilizzazione delle altre unità immobiliari, ovvero se non recano danno alle parti
comuni o alle altre proprietà individuali, esattamente come accade negli ordinari rapporti di vicinato: l’organizzazione non ha il potere di vietare opere lecite o consentirne di illecite. Con riferimento agli interventi per migliorare la
fruibilità delle parti comuni, invece, la disciplina delle innovazioni, comprese
quelle di utilità sociale, dimostra come – a differenza di quanto avviene per i
rapporti di vicinato – l’interesse di un’ampia maggioranza possa giustificare
una diminuzione del grado di fruibilità delle parti comuni per qualche condomino. Nella stessa direzione conduce l’istituto della modificazione delle destinazioni d’uso delle parti comuni, che consente di rendere del tutto inservibili
secondo la destinazione originaria le parti comuni che ne sono oggetto. La disciplina del perimento parziale o totale dell’edificio, poi, fornisce un utile dato
normativo per ricostruire i doveri dell’assemblea di provvedere alle opere necessarie a preservare o ripristinare la funzionalità delle parti comuni.
Nel quinto capitolo, infine, si esamina la disciplina della ripartizione delle
spese. Individuati il fondamento e i margini di derogabilità convenzionale dei
criteri legali di ripartizione, si verificano i poteri dell’assemblea in ordine alla
determinazione dei contributi. Centrale il ruolo delle tabelle millesimali che,
redatte in applicazione dei criteri di ripartizione legali o convenzionali, costituiscono un importante strumento di gestione per il gruppo: sempre soggette a
revisione per errore, ma pur sempre vincolanti per l’assemblea. Ci si chiede,
quindi, se la disciplina del condominio incida anche sul procedimento di liquidazione del contributo alle spese: se, cioè, come accade per i rapporti di vicinato, occorra un accordo tra tutti i partecipanti oppure sia sufficiente che la deliberazione di ripartizione non sia stata impugnata nei ristretti termini di legge.
Ne risulta un quadro che consente di orientarsi nella eterogenea conflittualità in materia di proprietà condominiale, mediante l’identificazione della natura giuridica delle questioni controverse che, di volta in volta, possono risolversi
nel verificare quali siano le parti comuni e come possano essere utilizzate; chi
siano i partecipanti all’organizzazione; quali i poteri normativi del gruppo e
come i beni condominiali possano essere convenzionalmente conformati; quali
opere il singolo possa eseguire di propria iniziativa e quali possa pretendere
che siano eseguite dal gruppo; quali siano le condizioni di liceità degli interventi deliberati dal gruppo; come si determini il contributo di ciascuno alle spese e
quali siano i poteri del gruppo in materia.
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CAPITOLO I
L’INDIVIDUAZIONE DELL’UNITÀ IMMOBILIARE CONDOMINIALE
E I DIRITTI SULLE PARTI COMUNI
SOMMARIO: 1. Il condominio come fenomeno che attiene ai beni - 2. La pluralità di beni immobili compresi nell’edificio condominiale - 3. L’unità immobiliare condominiale: parti comuni e parti di proprietà individuale - 4. Dalla
presunzione di proprietà comune all’unità immobiliare condominiale come
oggetto di diritti, rapporti e situazioni di fatto - 5. L’individuazione dell’unità
immobiliare condominiale: conformazione dell’organismo edilizio e titolo
contrario - 6. Le varianti del titolo contrario: titolo contrario conformativo;
titolo contrario riserva; destinazione vincolata di unità immobiliari - 7. La rilevanza della prima alienazione sul piano dei beni - 8. L’utilità concreta e
l’utilità giuridica nell’identificazione delle parti comuni - 9. I diritti sulle parti
comuni: il significato della proporzione tra diritto e valore - 10. La misura del
diritto stabilita dal titolo e l’utilità delle parti comuni - 11. L’irrinunciabilità
dei diritti sulle parti comuni
1. Il condominio come fenomeno che attiene ai beni
Sin dalla metà del ’600 si sono presentate questioni giuridiche che oggi
definiremmo tipicamente condominiali, con riferimento principalmente
a edifici che, originariamente unitari, erano stati successivamente divisi
in più unità immobiliari poste su diversi piani 1.
Il codice civile del 1865, poi, ha dettato una disciplina specifica, per
quanto sommaria, per il caso in cui i diversi piani di un edificio appartenessero a persone diverse: soli tre articoli, che contenevano norme di
carattere dichiaratamente suppletivo rispetto ai titoli d’acquisto in materia di ripartizione delle spese e sopraelevazione, significativamente
collocati nella sezione dedicata alle servitù legali, nel paragrafo intitolato
ai «Muri, edifizi e fossi comuni». In effetti, il contesto normativo in cui si
inseriscono lascia emergere la specificità dei fenomeni considerati, costituita dalla presenza di opere o entità naturali che risultano destinate
al contempo all’utilità di beni immobili distinti: dai muri divisori o di cin1
G. GORLA, Un trittico di interesse attuale sull’urbanistica romana tra i secoli XVII e XVIII, in Foro it., 1977, V,
p. 11, nella parte III, intitolata «Aedificia divisa in plures domus, cum separatis portis, scalis, viridariis aliisque
officinis», riferisce che dalla metà del ’600 in Roma si diffondevano edifici divisi verticalmente in più unità
abitative. Tra le questioni irrisolte, quella dell’esperibilità del retratto vicinitatis tra i proprietari di distinte
unità immobiliari comprese nello stesso edificio.
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Capitolo I
ta che esprimono l’utilità comune di separare le due proprietà vicine ai
fossi sul confine che assolvono a quella di scarico comune; dal muro comune che esprime l’utilità di fare da appoggio per travi o costruzioni
realizzate da entrambi i lati ai muri maestri, tetti, lastrici, volte e solai di
edifici composti di più unità immobiliari poste su diversi piani che assolvono a ben più articolate utilità o funzioni comuni 2.
Nel frattempo, in Italia, dai primi del ’900 3, e in particolare dopo la prima guerra mondiale, si è assistito alla realizzazione massiccia di edifici
concepiti, progettati e realizzati come composti da una pluralità di unità
immobiliari disposte su diversi piani 4.
La larga diffusione di costruzioni di questo tipo – anche a seguito
dell’avvio in quegli anni di importanti interventi dello Stato nell’edilizia
residenziale pubblica 5 – ha presto reso evidente l’insufficienza della disciplina codicistica, tanto che nel 1934 6 è intervenuta una legge speciale
per rispondere alle esigenze emerse a seguito del fenomeno edilizio in
rapida espansione.
Successivamente il contenuto di quella legge è stato in larga parte trasposto nel codice civile del 1942, dove si è deciso di collocarlo nel titolo
dedicato alla comunione. Detto titolo, il settimo del terzo libro, si compone di soli due capi: il primo intitolato alla «comunione in generale» e
il secondo al «condominio negli edifici».
A ragione i redattori del nuovo codice civile hanno ritenuto impropria la
collocazione nel codice previgente delle norme sugli «edifizi comuni»
nel capo dedicato all’allora disorganico e per certi versi controverso istituto delle servitù stabilite dalla legge: basti pensare che a proposito di
semplici rapporti di vicinato era evocato il diritto di servitù, in forma di
2
Gli articoli che disciplinano il caso in cui «i diversi piani di una casa appartengono a più proprietari» vanno
dal 562 al 564 e si trovano nella sezione dedicata alle servitù stabilite dalla legge, al par. 2, la cui parte più
corposa è dedicata ai muri comuni. Il paragrafo precedente è dedicato alla disciplina delle acque.
3
I. INSOLERA, Roma moderna, Torino, 1971, p. 15, osserva che Roma, già nell’800, acquisiva un’aria cittadina
tra Campo Marzio e piazza del Popolo, dove da due secoli costruivano gli ultimi arrivati tra i nobili e i primi
arrivati della borghesia. «Il tipo di casa che questi abitano è diverso dai palazzi e dalle case popolari: è la casa
ad appartamenti con la scala in comune che, su un’altezza totale minore di quella dei palazzi patrizi, riesce a
disporre ben cinque piani, abitati da altrettanti proprietari o affittuari».
4
A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 2 ss.
5
U. BRECCIA, Il diritto all’abitazione, Milano, 1980, p. 290 ss.
6
R.D. 15 gennaio 1934, n. 56, convertito in L. 10 gennaio 1935, n. 8, «Disciplina dei rapporti di condominio
sulle case». Il 4 gennaio 1934 era stata approvata la L. n. 53/1934 che regolava i condominii formati dalle
cooperative edilizie destinatarie di contributi statali. Le norme sono state poi riportate nel T.U. 28 aprile
1938, n. 1165, legge fondamentale per l’evoluzione dell’edilizia residenziale pubblica.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
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servitù legale derivante dalla situazione dei luoghi 7. Altrettanto improprio il riferimento alle servitù per i muri sul confine, le acque, i fossi e
anche gli edifici composti di più piani appartenenti a proprietari diversi.
Mentre, tuttavia, la gran parte delle discipline ora richiamate sono state
condivisibilmente riportate nel capo della proprietà fondiaria, quasi interamente dedicato ai rapporti di vicinato, si è deciso di inserire la disciplina del condominio tra le norme che regolano la comunione, in un capo che contiene disposizioni dichiaratamente speciali rispetto a quelle
sulla «comunione in generale», per di più con una norma di chiusura che
rinvia espressamente alla disciplina della comunione per quanto non
espressamente previsto nel capo del condominio negli edifici 8.
Si tratta, con tutta evidenza, di un marcato tentativo di accreditare a livello
normativo il convincimento dottrinale di alcuni studiosi del tempo 9, secondo cui il fenomeno del condominio andrebbe ricostruito sul piano giuridico
– o, se si vuole, ridotto – a una speciale forma di contitolarità tra i condomini di impianti, muri, tetti, fondamenta e altri elementi architettonici
dell’edificio.
L’operazione ha senza dubbio avuto successo. Il riferimento alla comunione, pur variamente intesa, è stato recepito largamente, e per lo più
acriticamente, dalla dottrina successiva 10 e ha spesso condizionato e
7
Per tutti, nei primi anni del ’900, N. GERMANO, Servitù che derivano dalla situazione dei luoghi, Napoli, s.d.,
p. 9 ss., risale alle origini romanistiche dell’istituto delle servitù derivanti dalla situazione dei luoghi, rilevando lucidamente che gran parte della disciplina delle servitù stabilite dalla legge «in sostanza non erano che
modi di esercizio della proprietà».
8
Vedi art. 1139 c.c.
9
In questa sede ci si limita a menzionare l’Autore il cui pensiero ha probabilmente ispirato la collocazione
della disciplina nel codice civile e la formulazione della norma di rinvio alla disciplina della comunione: G.
PULVIRENTI, Servitù prediali, in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. FIORE,
I, Napoli-Torino, 1908, p. 382 ss., il quale – nel vigore del codice previgente, ove le norme sugli «edifizi comuni» erano contenute nel capo dedicato alle servitù stabilite dalla legge – scrive che la disciplina del condominio si riferisca per la gran parte a rapporti di comproprietà: «per fermarci dunque al caso dei muri comuni, chiaramente si vede come la materia avrebbe potuto trovare una collocazione più logica e conveniente accanto alle regole generali della comunione (…). È vero che il legislatore italiano (…) intese raccogliervi i
principii generali dell’istituto, applicabili a tutte le varie forme di comunione, lasciando poi che per ognuna di
queste vigessero norme più particolari nelle sedi loro proprie; ed è vero anche che queste norme particolari
si trovano spesso in contrasto coi principii generali della comunione. Ma ciò non avrebbe impedito certamente un’opportuna coordinazione della materia nostra».
10
Il riferimento alla comunione è largamente diffuso in dottrina: G. BRANCA, Comunione, condominio negli
edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, pp. 358 e 363 ss., afferma che le parti comuni sono
soggette al regime della comunione, avvalendosi del richiamo di cui all’art. 1139 c.c. L’Autore, poi, immagina
un ente collettivo proprietario delle parti comuni; L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V, 3,
Torino, 1956, p. 1 ss., allude a una sorta di regime intermedio tra comunione e proprietà separata; D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960, p. 66 ss., osserva che molte questioni condominiali trovano una soluzione più coerente con le finalità pratiche ove si faccia capo all’istituto della comu-
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Capitolo I
continua a condizionare, anche in giurisprudenza, l’impostazione stessa
di molte questioni giuridiche condominiali, di frequente ridotte a problema di titolarità di porzioni di edificio.
Sul punto, si deve preliminarmente rilevare che non è certo compito del
legislatore stabilire quale sia la natura giuridica di un fenomeno o, più in
particolare, decretare autoritativamente che il tipo di conflitti disciplinati da un certo insieme di norme sia dello stesso genere – o, come nel nostro caso, rappresenti una specie – di quelli considerati in un altro insieme di norme 11.
Basti richiamare la ben più sostanziosa esperienza ricostruttiva maturata
in materia di contratti atipici, che ha ampiamente dimostrato come sia
spesso destinato a rivelarsi illusorio il riconoscimento legislativo del carattere di un insieme di norme come disciplina di un genere 12, anche
quando le disposizioni che si è inteso (co)ordinare regolano fenomeni
della realtà sociale omogenei13.
Tra la situazione di condominio e quella di comunione, per di più, sussiste una insuperabile disomogeneità. È del tutto evidente, infatti, che la
disciplina della comunione regola i conflitti tra una pluralità di soggetti
interessati all’utilizzazione di uno stesso bene o complesso di beni; quella del condominio negli edifici, invece, regola i rapporti tra una pluralità
di soggetti interessati a servirsi di alcune “cose” nel contesto dell’attività
di utilizzazione di distinti beni immobili da parte di ciascuno di essi 14: le
conflittualità che dovessero sorgere potranno rappresentarsi come controversie circa l’inerenza di determinate utilità a uno dei due beni imnione piuttosto che a quello delle servitù; A. FERRARI, Il condominio, in A. DE RENZIS-A. FERRARI-A. NICOLETTI-R.
REDIVO, Trattato del condominio, Padova, 2004, p. 1.
11
Non è questa la sede per soffermarsi sul carattere non vincolante di classificazioni, intitolazioni e definizioni contenute nelle leggi, con particolare riguardo al diritto civile, o sulla distinzione dei compiti degli operatori giuridici (legislatori, giudici, dottrinari). Sul punto, si rinvia a G. TARELLO, L’interpretazione della legge, in
Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo, I, t. 2, Milano, 1980, p. 105, nonché p. 182 ss., il quale – pur tentando
di avvalorare la tesi della vincolatività – riconosce la debolezza delle norme ricavate da enunciati definitori.
12
R. SACCO, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim dir. proc. civ., 1966, p. 785 ss.; G. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 1 ss.
13
Si allude ai contratti o, più in generale, ai negozi giuridici come atti di autoregolamento di privati interessi.
R. SCOGNAMIGLIO, Il negozio giuridico, in ID. Scritti giuridici, I, Padova, 1996, p. 83 ss.
14
M. COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 1967, p. 267 ss. Lo studioso, che ha posto in
chiaro la questione, scrive: «l’esigenza di non confondere la disciplina della comunione con quella del condominio risulta evidente se si considera la natura sostanzialmente diversa degli interessi concreti tutelati dai
due gruppi di norme. In particolare, le norme disposte in tema di divisibilità dell’oggetto, di innovazioni, di
ripartizione delle spese e di formazione della volontà collegiale manifestano che in un caso si tratta di interessi personali, valutati nel rapporto con gli altri soggetti, nell’altro si tratta di interessi reali a utilizzare i piani e le parti comuni, secondo la forma di collegamento di questi beni nell’edificio».
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
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mobili vicini, ossia come questioni che attengono all’oggetto del diritto
o, al più, al suo contenuto, e non certo alla titolarità 15.
Detta profonda disomogeneità, del resto, era ben nota sin dai primi
dell’800. Pardessus 16 mostra con un esempio di rara nitidezza come sia
diversa la situazione giuridica di una stessa “cosa” quando essa – sulla
base della sua destinazione in atto – costituisce un bene autonomo
oggetto di un diritto spettante a una pluralità di persone rispetto a
quando essa deve essere considerata una parte comune a una pluralità
di unità immobiliari. È sufficiente sostituire all’espressione «servitù di
indivisione» quella di «proprietà condominiale» per ottenere una lucidissima e, se vogliamo, innovativa comparazione dei due istituti: «Le
servitù non possono stabilirsi in favor delle persone (…). Un esempio
farà meglio comprendere questa distinzione. Quattro fratelli si dividono le vigne lasciate loro dal genitore e decidono che il pressoio resterà
in comune per sopperire i bisogni rispettivi: questa convenzione creerà
una servitù di indivisione sul pressoio. L’esercizio del dritto di farvi del
vino seguirà le regole ordinarie delle servitù (…). Non potrà ciascuno
fare a questo pressoio altro vino tranne quello delle vigne della sua
quota. Se le aliena, non avrà più dritto al pressoio; il suo dritto passerà
nell’acquirente cotalché di questo pressoio non si potrà punto domandare la licitazione o la divisione; essendovi servitù di indivisione.
Ma poniamo che un pressoio sia stato comprato o costruito da più persone, le quali abbiano stipulato che ciascuna avrebbe un certo numero
di giorni per goderne. Qui non ci ha che comunione (…) non mica servitù
di indivisione. Ciascuno può fare al detto pressoio il vino di quelle vigne
che più gli piaccia durante il numero di giorni a lui attribuito; ciascuno
avrà ancora dritto di provocar la licitazione; coloro che vi si opporranno
non saranno ammessi a far valere né la loro utilità personale, la quale
non potrebbe di fermo esser la causa di una servitù, né l’interesse de’
fondi di cui portano i frutti a quel pressoio; attesoché non in vista di essi
fondi, che non sono punto designati nell’atto, ha avuto luogo l’acquisto
o la costruzione del pressoio.
15
W. BIGIAVI, Regolamento di confini e rivendica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1929, I, p. 244 ss., distingue
chiaramente conflitti tra titoli da conflitti tra fondi. La distinzione è stata recepita dalla giurisprudenza successiva ed è ampiamente richiamata anche oggi (si veda, per esempio, Cass., 22 dicembre 2011, n. 28349).
Sulle controversie che attengono al contenuto del diritto, anziché all’oggetto, si rinvia al par. 8.
16
J.M. PARDESSUS, Le servitù prediali, Napoli, 1863, p. 384: la prima edizione dell’opera in lingua francese risale al 1806.
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Capitolo I
Cotalché nella natura o nell’impiego di questi oggetti e nel modo onde
sono stabiliti i dritti e le obbligazioni reciproche convien cercare se sono
colpiti della servitù di indivisione o della semplice comunione».
Nella varietà delle ricostruzioni giuridiche del fenomeno condominiale,
dunque, sembrano poco significativi i riferimenti alla comunione e decisamente più centrati quelli alla destinazione pertinenziale 17, alle servitù 18, al diritto di superficie 19, alla comunione forzosa 20 o al concorso di
diritti su beni accessori 21. Questi ultimi richiami, infatti, hanno il merito
di collocare gli elementi qualificanti del fenomeno condominiale sul piano dei beni, ossia dell’oggetto del diritto, senza fermarsi a un aspetto –
quello della contitolarità, ovvero dei soggetti – del tutto parziale e comune a fenomeni radicalmente diversi 22.
Non si tratta di una questione di mera eleganza ricostruttiva, ma della
necessaria identificazione degli interessi considerati dalla disciplina in
esame. Riferire il fenomeno condominiale ai beni anziché ai soggetti
significa che in ogni conflitto circa le possibilità di utilizzazione di determinate “cose” o “parti dell’edificio” potranno essere ritenuti rilevanti soltanto gli interessi che derivano a ciascun soggetto dalla sua
situazione – di fatto o di diritto – rispetto a una determinata unità
immobiliare e non da un generico interesse al godimento di un bene 23. Esattamente quanto accade nei rapporti di vicinato, in generale,
17
A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 60 ss., afferma che il collegamento funzionale tra le parti
di edificio di proprietà individuale e le parti comuni corrisponde alla nozione di pertinenza.
18
G. PULVIRENTI, Le servitù prediali, I, in P. FIORE (a cura di), Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, Napoli-Torino, 1908, p. 612 ss., conformemente alla sistematica adottata nel codice civile previgente, ricostruisce il fenomeno del condominio come un complesso di proprietà singole soggette a limitazioni legali analoghe alle servitù legali derivanti dalla situazione dei luoghi.
19
L. SALIS, op. cit., p. 5, riconduce al diritto di superficie la proprietà sui singoli piani o appartamenti.
20
A. VISCO, op. cit., p. 37 s.; J.M. PARDESSUS, cit., p. 281, scorge una servitù di indivisione, ossia una comunione
forzosa, ove in una casa i distinti piani formino altrettante proprietà distinte.
21
In questo senso, R. CORONA, Il condominio negli edifici, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO, U.
MORELLO, III, Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE, Milano, 2012, p. 15 ss.
22
M. FRAGALI, La comunione, t. I, in Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo, XIII, t. 1, pp. 83 e 549 ss., il quale
tratta nella Sua opera tutti i variegati casi di comunione, considera unitariamente il condominio negli edifici,
la comunione di fossi, siepi e segni di confine, identificando il tratto comune ai menzionati istituti nel «vantaggio che più persone traggono da un bene determinato, a causa della sua destinazione essenziale al servizio di altri beni di rispettiva appartenenza».
23
Il riferimento alla necessaria derivazione dell’interesse dalla situazione rispetto ad altro bene è mutuato da
D. BARBERO, La legittimazione ad agire in confessoria e negatoria servitutis, Milano, 1937, p. 55, il quale fonda la realità del diritto di servitù proprio sul rilievo che l’interesse idoneo a diventare il contenuto di un diritto di servitù deve necessariamente derivare al titolare della servitù dalla sua situazione di titolarità del fondo
dominante: un interesse che, con efficace locuzione latina, può definirsi in re intuitu rei. Proprio per questa
ragione nel linguaggio giuridico corrente gli interessi tutelati in materia di servitù si riferiscono ai fondi, cioè
ai beni, e non ai soggetti. Sulla base della sussistenza o meno di un siffatto interesse la Suprema Corte ha ne© Wolters Kluwer
L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
17
e con riferimento alle opere sul confine o alla disciplina delle acque
private, in particolare 24.
Si deve concludere, perciò, che la disciplina dei rapporti tra condomini
aveva trovato una collocazione più appropriata nel codice civile previgente e che, se è vero che si tratta di una disciplina speciale, il genere
dei conflitti che è diretta a risolvere è quello dei rapporti di vicinato,
piuttosto che quello dei rapporti tra la pluralità di contitolari di un diritto su uno stesso bene.
La specificità del fenomeno condominiale, poi, risiede per l’appunto nella particolare conformazione dei beni vicini. Del resto, il legislatore è intervenuto a dar corpo a un vero e proprio istituto non certo per recepire
una teoria giuridica, ma per disciplinare un fenomeno ormai largamente
diffuso, rispetto al quale le risposte offerte dall’ordinamento si rivelavano inadeguate: fenomeno, con tutta evidenza, connesso alla massiccia
realizzazione di un particolare tipo di beni immobili 25 e non certo
all’affermarsi di una nuova forma di contitolarità26.
2. La pluralità di beni immobili compresi nell’edificio condominiale
Il particolare tipo di beni immobili la cui diffusione ha fatto sentire la necessità di una disciplina speciale è l’edificio concepito, progettato e reagato che l’utilità di parcheggiare l’auto sul fondo altrui potesse costituire l’oggetto di un diritto di servitù: «il
parcheggio dell’auto non rientra nello schema di alcun diritto di servitù, difettando la caratteristica tipica di
detto diritto, ovverosia la realità (inerenza al fondo dominante dell’utilità così come al fondo servente del
peso), in quanto la comodità di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedono al fondo non può
valutarsi come una utilità inerente al fondo stesso, trattandosi di un vantaggio del tutto personale dei proprietari», si legge in Cass., 13 settembre 2012, n. 15334, in Giur. It., 2013, p. 5, con nota di G. RISPOLI, Sulla
servitù di parcheggio. Indipendentemente dalle conclusioni cui giunge la Cassazione, riecheggiano chiaramente le parole di Pardessus appena riportate nel testo.
24
M. FRAGALI, op. cit., p. 82, significativamente scrive che le siepi, come il muro divisorio o il fosso e gli alberi
sul confine «sono di vantaggio per entrambi i fondi contigui» e (ID., ivi, p. 550) individua il fatto che
l’ordinamento ha ritenuto idoneo a porre in essere la comunione «nel vantaggio che più persone traggono
da un bene determinato, a causa della sua destinazione essenziale al servizio di altri beni di rispettiva appartenenza», anche a proposito del condominio.
25
A. VISCO, op. cit., p. 38, osserva che il condominio, cui va riconosciuta dignità di istituto giuridico autonomo, non è stato creato dalla mente dei giuristi, ma dalla realtà delle cose, che ci presenta questi edifici come
un tutto organico e inscindibile dal punto di vista architettonico, diviso per piani e legato in una complessa
armonia di servizi. Il diritto, conclude l’Autore, anche in questo caso è intervenuto a regolare un rapporto già
sorto e sviluppato nella tecnica e nella vita sociale.
26
M. COSTANTINO, Il condominio fra proprietà, gestione e responsabilità, in Rass. locazione e cond., 2004, p.
208, rileva che la proprietà comune è solo l’effetto della qualificazione di determinate parti dell’edificio come beni in senso giuridico: l’art. 1117 c.c. considera parti comuni dell’edificio le «parti necessarie all’uso comune» (…) e le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che «servono all’uso comune»; dispone, infine, l’effetto, che consiste nell’attribuzione della proprietà comune ai proprietari delle unità immobiliari che si trovano nell’edificio.
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18
Capitolo I
lizzato come composto da una pluralità di unità immobiliari disposte su
diversi piani.
La prima legge in materia ha determinato il campo di applicazione della
disciplina riferendosi agli «edifici divisi in piani ovvero in singoli appartamenti o locali che appartengono a diversi proprietari» 27. Il richiamo alla divisione, ancora oggi ricorrente nel linguaggio dei giuristi, è del tutto
improprio e riviene dalle esperienze pregresse. Infatti, negli edifici già
concepiti come composti da più unità immobiliari 28, queste non sono affatto il risultato di un atto di divisione di un bene immobile – l’edificio –
originariamente unitario, ma beni immobili venuti a esistenza già distinti
l’uno dall’altro 29.
Se è vero che il condominio è un fenomeno giuridico che attiene ai beni,
un edificio realizzato come composto di più unità immobiliari può dirsi
condominiale sin dalla sua venuta ad esistenza: è un edificio ab origine
condominiale 30.
La conclusione pare smentita da tutta la giurisprudenza che riconduce la
nascita del condominio alla prima alienazione di un’unità immobiliare
compresa nell’edificio condominiale 31: sino a quando la titolarità di tutte
le unità immobiliari continua a far capo a un unico soggetto non sarebbe
nemmeno il caso di parlare di condominio.
In contrario si può rilevare che se la totalità delle unità immobiliari appartengono e sono detenute dallo stesso soggetto, non si pone il problema di dar corpo a un’organizzazione condominiale o di disciplinare i
rapporti tra proprietari o detentori: come si vedrà nel seguito, la nascita
del condominio-organizzazione non può precedere la prima alienazio-
27
Art. 1 del R.D. 15 gennaio 1934, n. 56, convertito in L. 10 gennaio 1935, n. 8, «Disciplina dei rapporti di
condominio sulle case».
28
Il linguaggio del legislatore, laddove si riferiva in modo per certi versi fuorviante all’edificio diviso in piani o
porzioni di piano, dipendeva dalla necessità di affrontare situazioni nuove (gli edifici concepiti e realizzati
come composti da più appartamenti disposti su diversi piani) con gli strumenti anche lessicali del passato, allorquando le questioni relative alle parti comuni a più unità immobiliari si ponevano generalmente a seguito
di atti di divisione di immobili originariamente unitari. Sul punto, vedi nota 1.
29
G. GORLA, op. cit., p. 14, rileva che gli edifici aventi già nel progetto e nell’architettura quella destinazione
ad appartamenti non vanno confusi con le case, anche piccole, accidentalmente divise per piani orizzontali.
Nel secondo caso, i comproprietari dell’originariamente unica unità immobiliare procedono a una divisione
in natura. Nel primo caso, evidentemente, la realizzazione dell’edificio segna la venuta a esistenza di una
pluralità di beni immobili.
30
In tal senso M. FRAGALI, op. cit., p. 88, il quale afferma che «l’acquisto del diritto singolo non costituisce la
comunione, perché preesiste ad esso la destinazione delle cose al servizio di tutti gli appartamenti e i locali
che formano l’edificio: è questa destinazione che, diventando giuridica, è causa della comunione».
31
Ex multis, Cass., 4 ottobre 2004, n. 19829, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, p. 770.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
19
ne 32. Tuttavia, ciò non significa che occorre attendere la prima alienazione per cogliere la presenza di una pluralità di beni immobili compresi
nell’edificio condominiale.
Deve, infatti, considerarsi un risultato acquisito alla cultura giuridica
l’autonomia strutturale e funzionale degli atti di destinazione o di individuazione di beni immobili – con efficacia nell’ambito del solo patrimonio
del suo autore – rispetto al contratto con cui si trasferisce la proprietà o
si concede un diritto su beni immobili, benché gli effetti dei primi si riflettano sul secondo 33.
Basti pensare alla destinazione pertinenziale e agli effetti riflessi sull’atto
di acquisto del bene principale. Non c’è bisogno di attendere
l’alienazione per apprezzare gli effetti dell’atto di destinazione a pertinenza 34. È sufficiente pensare a un contratto di locazione, che – in virtù
di quella destinazione – estenderà i suoi effetti alla pertinenza 35.
In effetti, l’apodittica affermazione secondo cui non c’è proprietà condominiale senza alienazione non è che un corollario della dottrina che
ha voluto ridurre il fenomeno condominiale a questione di contitolarità
di diritti piuttosto che di individuazione di beni immobili: se la situazione
di condominio attiene alla (con)titolarità di alcune parti dell’edificio, allora non c’è condominio fino a quando la proprietà di tutte le parti
dell’edificio è concentrata nelle mani di un unico soggetto.
A parte i rilievi già svolti, in questa sede ci si limita a richiamare il caso di
edifici condominiali le cui unità immobiliari appartengano a un unico
proprietario, ma siano state locate o assegnate a terzi (si pensi
all’edilizia residenziale pubblica) 36: come è ovvio, la posizione del conduttore in un edificio in cui tutte le unità immobiliari appartengano a un
unico soggetto non può essere diversa da quella del conduttore nel caso
in cui le distinte unità immobiliari appartengano a soggetti diversi. Si
32
Vedi cap. 2, par. 4.
La chiara distinzione si deve ad A. AURICCHIO, L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960, p. 86 ss.
34
G. ANDREOLI, Le pertinenze, Padova, 1936, p. 84 ss., significativamente ricostruisce la nozione di unità pertinenziale.
35
A. AURICCHIO, cit., p. 86, nota 41, illustra – come esempio – il caso della destinazione del padre di famiglia.
36
Il co. 16 dell’art. 1129 c.c., a seguito della recente riforma, dichiara espressamente applicabili i precedenti
commi dello stesso articolo anche agli edifici di alloggi di edilizia popolare ed economica realizzati o recuperati in virtù di un intervento pubblico, nonché a quelli realizzati da enti pubblici non economici o società private senza scopo di lucro con finalità sociali proprie dell’edilizia residenziale pubblica.
33
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20
Capitolo I
tratterà in entrambi i casi del conduttore di un’unità immobiliare condominiale 37.
3. L’unità immobiliare condominiale: parti comuni e parti di proprietà
individuale
Si deve alla L. 11 dicembre 2012, n. 220 la sostituzione, nella disposizione che apre la disciplina del condominio e in quasi tutte le norme
del codice civile, della approssimativa e atecnica locuzione di «piano o
porzione di piano» con quella decisamente più appropriata di «unità
immobiliare» per indicare l’oggetto del diritto di proprietà dei condomini. Questioni di stile e di uniformità del linguaggio a parte, il codice
civile si affranca dal riferimento a porzioni della realtà materiale – per
l’appunto i piani o le porzioni di piano – assunti impropriamente a oggetto di diritti, in favore di una locuzione, quella di unità immobiliare,
che evoca chiaramente la nozione di bene in senso giuridico 38, inteso
come oggetto di diritti, rapporti e situazioni di fatto. Il richiamo
all’unità immobiliare, poi, indirizza l’interprete all’approfondimento
dei criteri che presiedono all’individuazione dei beni immobili compresi nell’edificio condominiale e lo sollecita a comprendere di cosa si
componga ciascuna unità immobiliare e in quale rapporto si ponga con
le parti comuni, ossia con quelle “porzioni” di edificio destinate a vantaggio di più unità immobiliari.
Il punto di partenza non può che essere la prima delle disposizioni dedicate al condominio, l’art. 1117 c.c.
La norma si compone di un’unica frase, formulata in modo piuttosto involuto. I soggetti, infatti, sono contenuti nell’elenco numerato e sono
accompagnati da una serie piuttosto confusa di indicazioni esemplificative. Si tratta – riassuntivamente – di tutte le parti dell’edificio destinate
all’utilità comune, compresi gli impianti centralizzati e le aree o i manufatti esterni all’edificio.
Tutte queste “cose”, dispone la norma, sono oggetto di proprietà comune, salvo che il contrario non risulti dal titolo, e sono le parti comuni
dell’edificio cui si riferisce la rubrica dell’art. 1117 c.c. e il testo del suc37
Sulla situazione del conduttore nel condominio si richiama l’ampia riflessione di A. SCARPA, in Il nuovo condominio, a cura di R. TRIOLA, Torino, 2013, p. 1065 ss.
38
M. COSTANTINO, I beni in generale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, vol. 7, Torino, 2005, p.
3 ss., e ivi richiami.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
21
cessivo art. 1117-bis c.c., insieme a una serie di altre norme che non occorre elencare.
In estrema sintesi, le parti dell’edificio destinate all’utilità comune sono
oggetto di proprietà comune.
Il profilo della titolarità, dunque, è solo l’effetto o il riflesso del collegamento funzionale che si istituisce in virtù della destinazione all’utilità
comune 39 e non è di alcun aiuto per cogliere la sostanza del fenomeno:
sarebbe sin troppo ovvio rilevare che, se un condomino alienasse agli altri la propria unità immobiliare, questa diventerebbe oggetto di proprietà comune tra i condomini, ma non certo parte comune.
Per ricostruire la natura e gli effetti giuridici del nesso che si istituisce tra
le singole unità immobiliari e le parti comuni, quindi, occorre considerare le discipline sulle quali si fonda la rilevanza giuridica degli atti di destinazione dei beni, e non certo quelle che regolano i rapporti tra i più
contitolari di un diritto 40.
Si tratta, in particolare, di verificare se la destinazione all’utilità comune
di alcune parti dell’edificio incida sul piano dell’individuazione dei beni
immobili condominiali.
A tal fine, è opportuno prendere le mosse da un dato comune alle principali teorie del condominio che, negli ultimi decenni, si sono confrontate 41: l’autonoma individualità delle parti comuni, che sarebbero veri e
propri beni in senso giuridico.
39
In questo senso, M. COSTANTINO, Il condominio fra proprietà, gestione e responsabilità, in Rass. locazione e
cond., 2004, p. 208, rileva che l’art. 1117 c.c. considera parti comuni dell’edificio le «parti necessarie all’uso
comune» (…) e le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che «servono all’uso comune». Dispone, infine, l’effetto che consegue a tale qualificazione delle cose come beni in senso giuridico: l’effetto
consiste nell’attribuzione della proprietà comune ai proprietari delle unità immobiliari che si trovano
nell’edificio. Nello stesso senso M. FRAGALI, op. cit., p. 550, individua nella destinazione al servizio di altri beni
il fatto che l’ordinamento ha ritenuto idoneo a porre in essere il rapporto di comunione.
40
M. COSTANTINO, L’istituto della proprietà condominiale nella riforma della gestione dei conflitti, in AA.VV.,
L’evoluzione del condominio, a cura del Centro Studi Nazionale ANACI, Milano, 2008, p. 6, rileva che «il quadro normativo di riferimento della disciplina del condominio non è quello della situazione in cui un bene
forma oggetto di un diritto il cui titolo d’acquisto (o “di provenienza”) spetta in comune a più persone. In tal
caso, il diritto si preoccupa di regolare i rapporti tra i partecipanti riguardo al godimento del diritto fin quando spetta in comune. Il quadro normativo di riferimento è quello delle discipline dei beni funzionalmente
collegati, che sono più d’una. Sono giuridicamente rilevanti collegamenti di cose per destinazione, quali gli
asservimenti per ragioni di servizio o di ornamento di una cosa a un’altra, le universalità di mobili, le opere
visibili e permanenti destinate all’esercizio di una servitù apparente e, in genere, situazioni che, nella configurazione (socialmente, economicamente, culturalmente) condizionata della realtà consistono in destinazioni d’uso specifiche».
41
Si rinvia ai richiami contenuti nelle note al par. 1.
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Capitolo I
Nella concezione collettivistica 42, ponendo l’accento sull’organizzazione
del gruppo dei condomini, si giunge a immaginare che un ente dotato di
soggettività giuridica sia proprietario delle parti comuni 43. I sostenitori
delle concezioni individualistiche 44, invece, pongono in risalto la funzione strumentale e accessoria delle parti di edificio, dei servizi e degli impianti di uso comune rispetto alle cosiddette proprietà solitarie, le quali
sono destinate ad assicurare le utilità finali 45.
In entrambe le ricostruzioni le parti comuni sono considerate veri e propri beni in senso giuridico, distinti ed autonomi dalle cosiddette proprietà solitarie, benché a queste legate da vincoli di accessorietà.
Sul piano teorico, l’affermazione sembra una conseguenza ineluttabile
della diversa natura dei diritti di cui le parti comuni e le singole unità
immobiliari sono oggetto per legge 46: proprietà comune, le parti comuni; proprietà individuale, le singole unità immobiliari.
In sostanza, si afferma – o si suppone – che se, per esempio, le scale destinate all’utilità comune sono, per legge, oggetto di proprietà comune e
gli appartamenti, invece, sono oggetto di proprietà individuale, allora
occorre concludere che le scale sono un bene in senso giuridico autonomo rispetto ai singoli appartamenti. Lo stesso discorso può ripetersi
per tutte le parti dell’edificio destinate all’utilità comune: sarebbero beni autonomi le fondamenta, il tetto, la facciata, le strutture portanti eccetera.
L’edificio condominiale, insomma, sarebbe composto da due tipi di beni:
le singole unità immobiliari oggetto di proprietà individuale, da una parte, e le parti comuni oggetto di proprietà comune, dall’altra.
La conclusione non è condivisibile e, soprattutto, non sembra che costituisca una via obbligata dal punto di vista logico-giuridico.
42
La compiuta esposizione e la strenua difesa della teoria dell’ente collettivo si trovano in G. BRANCA, op. cit.,
p. 358 ss.
43
G. BRANCA, op. cit., p. 360.
44
R. CORONA, Contributo alla teoria del condominio degli edifici, Milano, 1973, p. 217 ss., dopo una lucida e
radicale critica delle teorie c.d. collettivistiche, individua nella «proprietà plurima integrale» l’elaborazione
che meglio esprime in termini concettuali il substrato del fenomeno.
45
R. CORONA, Il condominio negli edifici, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO, U. MORELLO, III,
Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE, Milano, 2012, p. 15 ss.
46
R. CORONA, Contributo, cit., p. 67, ritiene che poiché il codice considera oggetto di diversi diritti le parti comuni e gli immobili in proprietà esclusiva, deve necessariamente trattarsi di diverse individualità. La stessa
conclusione è scontata per G. BRANCA, op. cit., p. 358 ss., il quale ritiene che l’insieme delle parti comuni sia
di proprietà di un ente collettivo.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
23
Sul piano metodologico, non appare corretto trarre argomenti circa la rilevanza della destinazione all’utilità comune sul piano dei beni a partire
dagli effetti che la legge ricollega alla stessa destinazione sul piano della
titolarità dei diritti 47. Non appare corretto, cioè, affermare che a ciascuna parte comune destinata all’utilità di più unità immobiliari debba essere riconosciuta un’autonoma individualità in ragione della diversa situazione giuridico-formale che la legge le assegna in ordine alla titolarità 48.
Non si intende, con ciò, contestare il principio secondo cui all’unità del
bene deve necessariamente corrispondere l’unità del diritto, ma si intende rilevare che l’unità del diritto è il riflesso dell’unità del bene, e
non viceversa 49.
Nella sostanza, poi, appare davvero singolare attribuire la qualità di bene giuridico autonomo a quelle parti di un edificio condominiale perfettamente completato e in piena funzionalità che esprimono utilità, già
per ipotesi, incomplete, come per esempio le fondamenta o il tetto.
In proposito è sufficiente rilevare che nessuno dubita del fatto che le
fondamenta e il tetto di un edificio composto da una sola unità immobiliare debbano essere considerate parti di un unico bene immobile. Ebbene, non si vede per quale ragione lo stesso tetto debba acquisire dignità di bene autonomo se copre due unità immobiliari anziché una. Il
tetto – inteso e individuato come quell’elemento architettonico destinato ad assolvere alla funzione di copertura di un fabbricato – esprime necessariamente utilità incomplete e, pertanto, qualunque posizione si assuma in ordine alla vexata quaestio della distinzione tra parti e pertinenze, esso non può essere considerato come bene autonomo, bensì
parte di un bene più esteso (almeno sino a quando continua a offrire
copertura all’edificio) 50.
47
«Invece di considerare prima l’oggetto (fattispecie) e poi la titolarità del diritto su esso (l’effetto), è stato
compiuto il percorso inverso», rileva M. COSTANTINO, Il condominio fra proprietà, cit., p. 208. L’attribuzione
della proprietà comune ai proprietari delle unità immobiliari che si trovano nell’edificio – spiega l’Autore – è
conseguenza della rilevanza giuridica dell’oggetto. Nello stesso senso M. FRAGALI, op. cit., p. 88 (vedi nota
30).
48
In questi termini R. CORONA, Contributo, cit., p. 68 s., nota 46.
49
A. AURICCHIO, op. cit., p. 10 s., nonché passim, si riferisce al menzionato principio di necessaria corrispondenza tra unità del bene e unità del diritto o, in altri termini, al principio di corrispondenza tra unità del bene
e unità della sua situazione giuridica.
50
È certamente vero che la stessa cosa, per esempio un motore, può essere considerata parte (elemento costitutivo) dell’aeromobile quando collocato in esso e bene autonomo prima del montaggio, quando si trova
nella fabbrica di motori. Questo, tuttavia, non significa che la distinzione tra parte di bene e bene autonomo
debba essere cancellata, ma semplicemente che la stessa cosa può presentarsi – in circostanze diverse –
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24
Capitolo I
Allo stesso modo, non si vede come un singolo appartamento al terzo
piano possa essere considerato bene autonomo separatamente dalle
fondamenta dell’edificio in cui si trova, dai muri perimetrali che lo riparano dagli agenti atmosferici e dalle strutture portanti che lo sorreggono.
Si pone, dunque, il problema di conciliare osservazioni critiche di questo
tipo con il dato normativo che, indubbiamente, impone di considerare in
modo differenziato la situazione di titolarità delle parti comuni rispetto
a quella delle unità immobiliari individuali.
A ben vedere, tuttavia, la complessa situazione di titolarità dell’edificio
condominiale può essere agevolmente spiegata se solo si avvia
l’indagine a partire dai beni piuttosto che a partire dai diritti 51.
Per dar conto della rilevanza giuridica, sul piano dei beni, del collegamento funzionale che lega il tetto a due unità immobiliari distinte non è
affatto necessario postulare l’esistenza di tre beni in senso giuridico: le
due unità immobiliari – beni principali – e il tetto, bene accessorio. In
maniera meno artificiosa, si può affermare semplicemente che il tetto è
parte di entrambe le unità immobiliari. In questo senso il tetto è parte
comune: è al contempo parte dell’una e dell’altra unità immobiliare. In
sé considerato non è un bene autonomo, ma un semplice elemento architettonico di quell’entità edilizia che chiamiamo edificio. Ogni unità
immobiliare, per converso, è costituita non solo da quella “porzione di
edificio” cui il proprietario ha accesso esclusivo, ma comprende anche il
tetto, le fondamenta, i muri perimetrali eccetera come sue parti.
Alcuni autori si sono chiaramente espressi in tal senso, affermando limpidamente che le parti comuni devono essere intese come parti di ciascuna e tutte le unità immobiliari alla cui utilità sono destinate 52.
come parte o come bene autonomo. Non è lecito dubitare, insomma, che quando il motore è
nell’aeromobile esso ne sia una parte (l’esempio, un classico, è ripreso da CORONA, op. ult. cit., p. 68). Tornando all’edificio condominiale, potremmo rilevare che è possibile immaginare un vano scale che non conduce ad alcun appartamento: in questo caso, il vano costituirebbe certamente un bene autonomo, benché
allo stato inutilizzabile. Se, però, il vano è destinato a consentire l’accesso a più appartamenti, nulla esclude
che esso debba essere considerato – esattamente come il motore nell’aeromobile – una parte di essi. Non si
tratta di questioni meramente teoriche: A. AURICCHIO, op. cit., p. 7, rileva che, per esempio, la circostanza che
oggetto di controversia sia un bene autonomo oppure solamente la parte di un bene incide sulla qualificazione dell’azione come rivendicazione oppure regolamento di confini (sul tema W. BIGIAVI, Regolamento di
confini, cit., p. 244 ss., il quale distingue conflitti tra titoli da conflitti tra fondi).
51
Vedi nota 47.
52
M. COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 1967, p. 298, afferma che «si deve ammettere che tali cose» (le parti comuni) «sono considerate parti dei piani e porzioni di piano, come oggetto di ciascuno dei diritti di proprietà individuale». R. LUZZATTO, La comproprietà, Torino, 1908, p. 74 ss., a proposito
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
25
Ciascuna unità immobiliare, secondo questa prospettazione, comprenderebbe tutte le parti dell’organismo edilizio di cui il singolo condomino
fruisce contestualmente 53, comuni e non. È ovvio che alle parti di edificio che si trovano oltre la porta di ingresso del singolo appartamento
potrà accedere solo chi ha il diritto di utilizzare l’unità economica che
comprende quell’appartamento. Delle altre parti di edificio, invece, potranno servirsi anche altri condomini, in ragione dei modi e delle forme
in cui si presenta il collegamento funzionale tra il loro appartamento e
ciascuna parte dell’edificio.
L’edificio condominiale, insomma, risulterebbe un’entità (un sol tutto)
solo dal punto di vista architettonico, ma sul piano giuridico si comporrebbe di una pluralità di unità immobiliari che si sovrappongono parzialmente e, perciò, presentano parti comuni.
Anche nel linguaggio corrente, il collegamento funzionale tra parti comuni e proprietà individuali si esprime postulandone l’unitarietà, quando – per esempio – si afferma che le unità immobiliari di un edificio
condominiale hanno fondamenta comuni. Quelle fondamenta, cioè, sono le fondamenta di tutte le unità immobiliari che costituiscono, nel loro
complesso, un’entità architettonica che chiamiamo edificio condominiale.
La ricostruzione di un’unità immobiliare condominiale composta di parti
individuali e parti comuni ad altre unità immobiliari consente, inoltre, di
superare il concetto di accessorietà che, per alcuni, sarebbe proprio delle parti comuni 54.
In proposito, si può osservare che non sempre la funzione delle parti
comuni può realisticamente essere descritta come strumentale rispetto
alle utilità espresse dalle parti destinate all’uso (e pertanto oggetto di
proprietà) individuale.
del cortile comune, rileva che è essenziale determinare non soltanto quali persone siano comproprietarie,
ma a quali cose debba la cosa comune servire. Sarebbe strano – rileva – parlare di quote, dovendosi invece
parlare di cortile che è comune alla casa A, alla casa B, alla casa C e che è estraneo alla casa D: nel condominio il concetto di funzione sostituisce quello di quota.
53
Non ci si riferisce, come ovvio, alla materiale attività di fruizione di chi concretamente occupa l’edificio
condominiale, ma alle obiettive utilità espresse dall’unità immobiliare.
54
La gran parte degli studiosi del condominio ha richiamato il concetto di accessorietà a proposito di parti
comuni. Per tutti, si rinvia a R. CORONA, Contributo, op. cit., p. 79 ss., il quale afferma che l’accessorio rimane
in una posizione intermedia tra la separazione e la completa assimilazione, riprende l’istituto
dell’accessorietà necessaria e sottolinea l’importanza predominante delle proprietà solitarie – destinate ad
assicurare l’utilità finale – rispetto alle parti comuni, intese come beni accessori dotati di propria autonomia
funzionale.
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26
Capitolo I
Il preteso asservimento delle parti comuni a quelle di proprietà individuale, insomma, se pure rappresenta il dato più comune nell’esperienza
del condominio negli edifici, non è una necessità dal punto di vista della
proprietà condominiale. Anzi, non è da escludersi il caso in cui il rapporto di accessorietà possa risultare addirittura ribaltato.
Si pensi a quegli estesi villaggi turistici in cui le parti di uso individuale
paiono destinate unicamente a rendere fruibili gli spazi e i servizi comuni 55. Anche in questi casi si registra la stessa fruizione contestuale di parti comuni e parti di proprietà individuale e non avrebbe alcun senso negare che possa rintracciarsi un’unità immobiliare condominiale solo perché le parti comuni – nel contesto delle utilità complessivamente
espresse – rivestono un ruolo di primaria importanza e non possono essere realisticamente rappresentate come accessori rispetto alle proprietà individuali.
E allora occorre concludere che il concetto di unità immobiliare, piuttosto che quello di accessorietà, meglio esprime la rilevanza giuridica del
collegamento funzionale che lega ciascuna proprietà individuale a ciascuna parte comune, valorizzando il dato incontestabile della fruizione
contestuale 56.
La piscina condominiale, il giardino condominiale, la pineta o il parcogiochi condominiali non servono a rendere possibile o più comodo l’uso
dell’appartamento o della villetta, ma sono pur sempre parti comuni se
sono univocamente destinate a essere utilizzate nel contesto delle attività di fruizione di una pluralità di immobili distinti.
La destinazione alla fruizione contestuale delle diverse parti che la compongono, vero fondamento dell’unità immobiliare, è ovvia e inevitabile
per le cosiddette parti necessarie all’uso comune: nessuno potrebbe
dubitare del fatto che l’utilizzazione dell’appartamento al secondo piano
suppone la contestuale utilizzazione delle fondamenta, delle strutture
portanti, dell’androne eccetera. La stessa fruizione contestuale, tuttavia,
la si riscontra allo stesso modo anche per le parti dell’edificio – o
dell’organismo edilizio complesso – astrattamente separabili e fruibili
55
Per un esempio di scuola, si pensi al caso in cui più soggetti acquistano una piscina dividendosi la proprietà
degli spogliatoi. In questo caso, che presenta diverse analogie con il condominio, la parte comune è certamente preminente rispetto alle parti di proprietà individuale.
56
Il dato della necessaria fruizione contestuale risulta decisivo perché dimostra il difetto di autonomia funzionale sia delle parti di proprietà individuale (si pensi all’edificio privo di strutture portanti) sia delle parti
comuni.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
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autonomamente dalle “proprietà solitarie”, ma in concreto destinate
all’uso dei condomini in quanto condomini 57. La fruibilità separata, infatti, non esclude, anzi suppone l’utilizzazione unitaria. La divisione in potenza suppone l’unità in atto 58.
In alcune sentenze, tuttavia, si è affermato che la piscina o il campo da
tennis dovrebbero considerarsi oggetto di comunione tra i condomini
piuttosto che parti comuni, in quanto beni dotati di autonoma funzionalità: non può trarre in errore sulla natura del diritto di condominio o di
comunione – si legge in un obiter dictum della Suprema Corte 59 – “la
mera collocazione del bene o dell’impianto rispetto all’edificio: una piscina, dei campi da tennis, gli spazi verdi, anche se nel comune parlare
vengono spesso definiti ‘condominiali’, non realizzano che una comunione tra i partecipanti al condominio, perché detti beni – per quanto rendano più amena la porzione di proprietà solitaria o ne possano accrescere il valore economico al di là del mero valore dell’impianto annesso –
non risultano caratterizzati da quella relazione di accessorietà rispetto
alla proprietà solitaria, e ben possono essere oggetto di godimento totalmente svincolato dal godimento di quest’ultima; non costituiscono
parti necessarie per l’esistenza o per l’uso delle unità abitative, né destinate al loro uso o servizio. Senza queste cose in comune le costruzioni
esisterebbero ugualmente e potrebbero del pari essere utilizzate”.
La conclusione non pare il risultato della verifica in concreto della sussistenza del collegamento funzionale tipico del condominio, ma sembra
dettata dalla necessità di evitare che la dottrina dell’accessorietà risulti
57
Vedi 23.
Sul punto si tornerà più avanti nel testo. Per il momento è sufficiente rilevare che nessuna parte comune
del complesso immobiliare condominiale gode di autonomia funzionale sino a quando resta destinata
all’utilità delle unità immobiliari di proprietà individuale. Solo i condomini possono goderne e il loro interesse verso la parte comune è di necessaria derivazione dall’interesse rispetto all’unità immobiliare di cui sono
proprietari (il riferimento alla necessaria derivazione dell’interesse è mutuato da BARBERO, La legittimazione
ad agire in confessoria e negatoria servitutis, Milano, 1937, p. 55). Il campo da tennis condominiale, dunque,
è collegato alle singole unità immobiliari quanto le fondamenta, finché i condomini non decidano per un mutamento di destinazione. Illuminante l’esempio del pressoio esposto da J.M. PARDESSUS, op. cit., p. 384, il quale distingue in modo cristallino il pressoio comune a più fondi, oggetto di proprietà condominiale tra i proprietari di quei fondi, e il pressoio comune a più persone, oggetto di mera comunione. Lo stesso pressoio nel
primo caso è privo di autonomia funzionale, nel secondo ne è dotato (l’esempio è riportato per esteso nel
par. 1).
59
Cass., 3 ottobre 2003, in Foro it., 2004, I, p. 487 nonché in Riv. giur. edilizia, 2004, I, p. 77, con nota di A.
CELESTE, La disciplina giuridica applicabile al sistema fognario destinato al servizio comune di più edifici: la
Cassazione sposa la tesi del c.d. doppio regime per risolvere le problematiche connesse al supercondominio.
La decisione, per altro verso, si segnala per la condivisibile applicazione della disciplina del condominio
all’impianto fognario posto a servizio di più edifici condominiali.
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28
Capitolo I
smentita dai fatti. Un sacrificio sull’altare di una teoria che impone ciecamente di riconoscere un ruolo necessariamente e strettamente strumentale alle parti comuni.
Con questo non si vuol affermare che tutte le piscine, i campi da tennis e
gli spazi verdi che si trovano nei pressi di un edificio condominiale debbano essere considerati parti comuni. Al fine di includere una certa piscina o uno spazio verde nel novero delle parti comuni, infatti, occorre
accertare rigorosamente la effettiva destinazione alla fruizione nel contesto dell’utilizzazione delle unità immobiliari condominiali. Può accadere, infatti, che il costruttore dell’edificio alieni, anche contestualmente,
la proprietà di unità immobiliari condominiali e determinate quote di
proprietà di un campo da tennis adiacente. Quest’ultimo potrà essere
considerato una parte comune se, per esempio, è raggiungibile a piedi
da chi occupa le unità immobiliari comprese nel medesimo complesso
edilizio ed è privo di parcheggio e spogliatoi. Quando, cioè, esistono
chiari e univoci indici che consentono di accertare la sussistenza di un
collegamento funzionale tra lo stesso e le unità immobiliari considerate 60.
Si tratta, come è evidente, di un accertamento di fatto – o, meglio, della
verifica dell’esistenza di un atto di destinazione 61 – che non ha nulla a
che vedere con il carattere accessorio o l’astratta fruibilità separata di
determinate parti del complesso edilizio considerato.
Se, cioè, la piscina è pacificamente destinata all’utilità dei condomini in
quanto condomini, non vi è alcuna ragione per ritenerla sottratta al regime proprio delle parti comuni perché il godimento della stessa non è
strumentale alla fruizione degli appartamenti o, perché, si presta a essere utilizzata autonomamente: la divisione in potenza, lo si ripete, dimostra l’unità in atto 62.
Molti Autori, invece, ritengono di dover distinguere parti comuni inscindibili dalle unità immobiliari perché necessarie per l’esistenza
dell’edificio o di uso necessariamente comune da parti comuni che sono
tali solo per l’accidentale destinazione all’uso comune 63.
60
Sulla rilevanza della situazione dei luoghi ai fini della ricostruzione della destinazione in atto si rinvia al par.
5.
61
Sulla natura e sulle forme che l’atto di destinazione può assumere si rinvia al successivo paragrafo 5.
Vedi il par. 1 e, in particolare, l’esempio del pressoio di Pardessus.
63
G. BRANCA, op. cit., p. 373 ss. e p. 393, a proposito delle pertinenze delle parti comuni; VISCO, op. cit., p. 62
ss., qualifica come pertinenze tutte le parti comuni; R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 44. M. VIETTI,
62
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
29
Si tratta, per le ragioni già esposte, di una distinzione che può avere un
rilievo solo descrittivo o classificatorio 64. Anche la distinzione tra parti e
pertinenze comuni, adottata da qualche Autore, rischia di ridursi a questione meramente terminologica65. Le diverse espressioni utilizzate non
modificano la sostanza delle questioni, quantomeno sul piano
dell’applicabilità della disciplina del condominio. Occorre, innanzitutto,
premettere che in nessun caso potrà correttamente parlarsi di pertinenze dell’intero edificio – che non è un unico bene immobile in senso giuridico – ma, semmai, di pertinenze di ciascuna e tutte le unità immobiliari comprese nell’edificio, ossia di pertinenze comuni 66. Ebbene, siffatte pertinenze comuni resterebbero, in ogni caso, soggette al regime giuridico delle parti comuni fino a quando permanga la loro destinazione
all’utilità comune: per la ripartizione delle spese e per la gestione occorrerebbe in ogni caso riferirsi alla disciplina del condominio, applicabile
non in ragione della supposta maggiore o minore intensità del nesso tra
bene principale e bene accessorio, bensì in ragione della destinazione di
una certa “cosa” all’utilità di una pluralità di unità immobiliari.
Considerazioni in tema di superficie condominiale a verde e costo base, in Giur. it., 1980, I, 2, p. 737, ritiene
che il parco condominiale non costituisca parte integrante degli appartamenti, ma pertinenza di essi.
64
A. VISCO, op. cit., p. 69, ha chiaramente affermato che la distinzione tra le cose indicate nel n. 1 e quelle indicate nei nn. 2 e 3 dell’art. 1117 c.c. non regge perché tutte le parti comuni sono soggette all’identico regime giuridico e che dal punto di vista giuridico parti integranti e pertinenze sono assimilabili.
65
È appena il caso di ricordare che i faticosi tentativi di distinguere sul piano ontologico parti da pertinenze
non hanno condotto ad alcun risultato affidante. In estrema sintesi, si può osservare che gli Autori che hanno ritenuto necessaria la congiunzione fisica affinché possa parlarsi di parte integrante ammettono che il collegamento funzionale che lega le parti al tutto ha l’identica natura e intensità di quello che lega la pertinenza
al bene principale (per tutti, G. ANDREOLI, op. cit., p. 123 ss.). Gli Autori (per tutti L. BARASSI, Diritti reali e possesso, I, Milano, 1952, p. 268 s.) che ritengono inadeguato il mero dato materiale della congiunzione fisica,
affermano che il nesso funzionale tra le parti ha natura diversa dal collegamento pertinenziale, presentandosi con maggiore intensità. Il criterio discretivo adottato da questi ultimi è quello della perfectio, che – nella
versione più evoluta – fa riferimento alla cosa come categoria sociale (in questi termini, Cass., 22 giugno
1974, n. 1899, in Giust. civ., 1974, p. 1380, in cui non si è esitato a riconoscere la possibilità di considerare
l’autorimessa «separata» come parte integrante della casa). Occorre rilevare, tuttavia, che un qualsiasi bene
può essere considerato al contempo completo e incompleto, a seconda della categoria sociale nella quale si
decide di farlo rientrare. Un edificio in campagna potrà essere completo come casa, ma incompleto come villa, perché privo di giardino. Una villa, a sua volta, sarà sempre incompleta come tenuta etc.
Fuorviante appare il riferimento alla scindibilità. Esistono innegabilmente, infatti, parti scindibili esattamente
come scindibili sono le pertinenze (è certo che una striscia di terreno può formare oggetto di vicende circolatorie tra i proprietari confinanti, eppure una striscia è pur sempre una parte) e pertinenze la cui presenza
modifica la qualificazione sociale e giuridica di un bene (il giardino è certamente una pertinenza del fabbricato unifamiliare alla cui utilità è destinato. Se c’è, tuttavia, siamo abituati a chiamare quella casa una villa, se
non c’è la chiamiamo casa o palazzotto). A. AURICCHIO, op. cit., p. 151, rileva che l’unità del bene determina
l’estensione degli effetti degli atti giuridici all’intero, ossia a tutte le sue parti. VISCO, op. cit., p. 63, rileva che
l’art. 818 c.c. dispone lo stesso tipo di estensione degli effetti.
66
L’edificio, si è detto sopra, non è un bene in senso giuridico, ma un’entità meramente architettonica.
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30
Capitolo I
Per quanto attiene alla disciplina delle pertinenze, la cui operatività è
generalmente riferita alle vicende circolatorie 67, la stessa può ritenersi
applicabile anche alle pertinenze-parti comuni, perché pienamente
compatibile – anzi, sovrapponibile – a quella del condominio: così come
gli atti, i rapporti e le situazioni di fatto che hanno per oggetto il bene
principale si estendono alla pertinenza, salvo che il titolo non disponga
altrimenti, anche gli atti, i rapporti e le situazioni di fatto che hanno per
oggetto le proprietà individuali si estendono alle parti comuni, salvo che
il contrario non risulti dal titolo 68.
La ricostruzione dell’unità immobiliare condominiale come composta di
parti comuni e parti oggetto di proprietà individuale, tuttavia, senza
dubbio rende meglio la realtà del collegamento funzionale proprio del
condominio e risponde alla lettera della norma che – conformemente al
linguaggio comunemente in uso – si riferisce alle parti comuni piuttosto
che ai beni o alle pertinenze comuni. Ancor più indicativa della rubrica
dell’art. 1117 c.c. (parti comuni dell’edificio) è la formulazione dell’art.
1117-bis, che si riferisce chiaramente alle «unità immobiliari» che «abbiano parti comuni».
A questo punto, però, occorre tornare alla questione posta all’inizio di
questo paragrafo, e chiedersi se e come sia possibile che un unico bene
immobile comprenda parti oggetto di proprietà individuale e parti oggetto di proprietà comune. L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale secondo i criteri esposti, infatti, sembra in contraddizione con
il principio logico-giuridico secondo cui all’unitarietà del bene deve far
riscontro una situazione giuridica uniforme.
67
Per tutti, E. BASSANELLI, La legge di circolazione delle pertinenze, in Studi in onore di Cicu, Milano, 1951, p.
683.
68
A. VISCO, op. cit., p. 63, rileva che in linea generale non vi sono conseguenze giuridiche apprezzabili nel
qualificare un “pezzo” dell’unità economica come parte piuttosto che pertinenza, quantomeno nel contesto
delle vicende circolatorie. La parte segue il tutto esattamente e a maggior ragione della pertinenza. Ancora,
la stessa servitù – benché costituita in schema autonomo di diritto – può essere rappresentata come una
parte dell’unità economica costituita dal fondo dominante e dalle sue pertinenze. Ebbene, anche la servitù
circola con i beni sui quali è costituita. Anche la servitù può essere comune a più unità economiche. Si pensi
al caso della divisione del fondo dominante (art. 1071 c.c.): la servitù in tali casi può essere considerata –
sebbene con terminologia impropria – parte comune delle unità economiche costituite dai fondi risultanti
dalla divisione. Anche il diritto di servitù, infatti, al pari della destinazione pertinenziale e della destinazione
all’uso comune nel condominio istituisce un collegamento tra beni.
Insomma, gli effetti degli atti di destinazione si apprezzano soprattutto nelle vicende circolatorie (A. AURICCHIO, op. cit., p. 151), ove il titolo d’acquisto (di diritti reali o personali) ha per oggetto non cose, ma intere
unità economiche ed estende i suoi effetti a tutte le parti, i beni o i diritti che le costituiscono, salvo che il
contrario non risulti dal titolo.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
31
È agevole, ora, rispondere che se per parti comuni si intendono le parti
comuni a una pluralità di beni immobili, l’apparente disomogeneità della
situazione di titolarità delle singole unità immobiliari condominiali –
comprensive di parti comuni e parti individuali – è solo il riflesso della
loro particolare conformazione, che si caratterizza per la parziale sovrapposizione di più beni in senso giuridico in corrispondenza, per
l’appunto, delle parti comuni.
Nei punti in cui le distinte unità immobiliari si sovrappongono – proprio
in virtù del principio di uniformità della situazione giuridica dei beni –
confluiscono i diritti che hanno per oggetto le singole unità immobiliari
condominiali 69.
Significativamente e condivisibilmente, infatti, i fautori della cosiddetta
teoria individualistica del condominio, a proposito dei diritti sulle parti
comuni, hanno ritenuto preferibile riferirsi alla categoria del concorso di
diritti 70 piuttosto che all’istituto della contitolarità.
Per intendersi, sulle parti comuni concorrono i distinti diritti (e le situazioni di fatto) che hanno per oggetto le singole unità immobiliari, così
come composte da parti oggetto di proprietà individuale e da parti comuni. Il diritto che ciascuno vanta sulle parti comuni è una parte del diritto che egli vanta sull’unità economica immobiliare di sua proprietà.
Il concorso di diritti sulle parti comuni – e dunque la proprietà comune
delle parti comuni – non è che il riflesso sul piano della titolarità del collegamento funzionale tipico del condominio 71. Detto collegamento dà
luogo a una pluralità di unità immobiliari conformate in modo da risultare parzialmente coincidenti: le singole unità immobiliari, insomma, si
estendono alle parti comuni e risultano sovrapposte parzialmente tra loro; alla sovrapposizione di beni fa riscontro la sovrapposizione di diritti
omogenei.
69
M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 298, afferma che le parti comuni sono «oggetto di ciascuno dei diritti di
proprietà individuale».
70
R. CORONA, op. ult. cit., p. 80 ss., si riferisce specificamente alla categoria del concorso.
71
Per queste ragioni il riferimento alle pertinenze o alla comunione forzosa (A. VISCO, op. cit., pp. 37 e 60 ss.)
in materia di condominio è molto più appropriato di quello alla comunione. Le pertinenze, infatti, indicano
un collegamento funzionale che – di per sé – prescinde dalla titolarità dei diritti che hanno per oggetto il bene principale o la pertinenza. La comunione, invece, attiene esclusivamente alla situazione di titolarità di un
certo bene.
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32
Capitolo I
4. Dalla presunzione di proprietà comune all’unità immobiliare
condominiale come oggetto di diritti, rapporti e situazioni di fatto
Si è già detto che la norma di apertura della disciplina del condominio si
può riassumere nella proposizione secondo cui le parti destinate
all’utilità comune sono oggetto di proprietà comune 72.
In proposito, la giurisprudenza continua a riferirsi a una presunzione di
proprietà comune delle parti destinate all’uso comune che, però, potrebbe essere vinta solo da un titolo contrario 73.
L’improprietà del riferimento alla presunzione è condivisa dalla dottrina
maggioritaria, che generalmente intende la norma come destinata a operare nel contesto delle vicende circolatorie della proprietà. In particolare,
si afferma che la norma attribuisce al proprietario-acquirente del singolo
piano o porzione di piano la proprietà comune delle parti comuni74.
Il titolo d’acquisto determinerebbe il trasferimento delle “proprietà solitarie” e, a questo effetto voluto, la legge sommerebbe l’effetto del contestuale trasferimento in favore dell’acquirente della proprietà comune
sulle parti comuni spettante all’alienante.
Si potrebbe in contrario rilevare che l’acquisto del diritto è sempre un
effetto che la legge collega a un fatto o a un atto 75 e che non appare ragionevole, in linea generale, distinguere gli effetti dell’acquisto in effetti
voluti ed effetti ex lege, quantomeno se esiste una spiegazione che riesce a rendere ragione unitaria del fenomeno.
72
Vedi par. 3.
Nonostante la netta presa di posizione di Cass., SS.UU., 7 luglio 1993, n. 7449, in Corriere giur., 1993, p.
1186, con nota di M. MAIENZA, Le Sezioni Unite “cancellano” la presunzione legale di comunione ex art. 1117
c.c., la giurisprudenza successiva è ricaduta nel richiamo all’istituto della presunzione. Da ultimo, Cass., 4
agosto 2015, n. 16367, in cui si legge “la presunzione di proprietà condominiale del lastrico solare di copertura avrebbe potuto essere vinta solo con la dimostrazione di un titolo di acquisto originario successivo alla venuta ad esistenza del lastrico medesimo”; si esprime analogamente Cass., 26 luglio 2012, n. 13262, in Dir. e
giustizia, luglio 2012, p. 27.
74
Leggono l’art. 1117 c.c. come norma attributiva dei diritti sulle parti comuni gli Autori che rifiutano il riferimento alla presunzione di proprietà comune: per tutti, G. BRANCA, op. cit., p. 369 ss.; A. VISCO, cit., p. 66 ss.;
R. CORONA, Contributo, cit., p. 74 s. M. FRAGALI, op. cit., p. 80 ss., nonché p. 551, rileva che non vi è né dichiarazione normativa di una contitolarità preesistente, né un effetto attributivo ex lege. La legge si conforma alla realtà, «la assume in una posizione recettiva». Lo stesso Autore confuta efficacemente i richiami alla presunzione sia in materia di condominio sia a proposito delle opere che si trovano a cavallo del confine (muri,
alberi, siepi), casi in tutto analoghi alla situazione di condominio in cui il richiamo all’istituto delle presunzioni è contenuto nella legge (artt. 880, 897, 898 c.c.) e afferma efficacemente che «anche la comunione di ciò
che è a cavallo del confine, trova dunque fondamento nella natura delle cose».
75
G. PALERMO, Contratto di alienazione e titolo d’acquisto, Milano, 1974, p. 39 ss., rileva come il passaggio del
diritto reale si verifichi in virtù di una serie di fatti e di corrispondenti valutazioni normative che – operando
sull’intervenuta attribuzione del bene – aggiungono forza vincolante al titolo già vantato dall’acquirente,
rendendolo opponibile erga omnes in quanto poziore.
73
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
33
Ebbene, per quanto attiene al condominio, se è vero che le parti comuni
sono parte di ciascuna unità immobiliare, l’effetto del titolo d’acquisto
non potrà che verificarsi in relazione al tutto 76.
La questione, cioè, non ha nemmeno ragione di porsi. Non ha senso,
cioè, riferirsi alla circolazione delle sole parti oggetto di proprietà individuale, perché il titolo d’acquisto non può che avere per oggetto l’intera
unità immobiliare condominiale che comprende in sé le parti comuni ad
altre unità immobiliari. Non c’è alcun bisogno, cioè, di immaginare che
sia necessario uno specifico intervento della legge per integrare gli effetti del titolo d’acquisto. La norma interviene, per così dire, a monte, dettando i criteri sulla base dei quali deve essere ricostruita la fisionomia di
ciascuna unità immobiliare 77.
L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale, poi, comporta che
essa costituisca nella sua interezza oggetto di diritti o di situazioni di fatto. Conseguentemente, qualsiasi vicenda che determini la costituzione o
il trasferimento di diritti reali o personali nonché l’acquisto o la perdita
del possesso o della detenzione deve correttamente essere riferita a
tutta l’unità economica. Anzi, l’unità economica manifesta la sua rilevanza giuridica proprio nel contesto di queste vicende.
Allora si comprende che il preteso effetto attributivo dell’art. 1117 c.c.
rappresenta solo un profilo del fenomeno, benché il più comune ed evidente: quello relativo alla circolazione del diritto di proprietà.
La stessa contestualità (rectius unitarietà), infatti, si riscontra quando
non si trasferisce la proprietà, ma si concede un diritto personale di godimento o un usufrutto o, ancora, si acquista il possesso o la custodia di
un’unità economica condominiale 78.
Non c’è alcun bisogno, dunque, di leggere l’art. 1117 c.c. come norma
attributiva di diritti ulteriori all’acquirente delle proprietà individuali, distinguendo artificiosamente gli effetti del titolo d’acquisto in effetti voluti ed effetti ex lege 79. Benché la norma, utilizzando il linguaggio della
76
A. AURICCHIO, op. cit., p. 151, rileva che l’effetto si estende all’intera unità immobiliare determinando
l’uniformità della sua situazione giuridica.
77
Sul punto si rinvia al successivo par. 5.
78
Trib. Torino, 19 febbraio 1980, in Giur. it., 1980, I, 2, p. 737, con nota di M. VIETTI, op. cit., a proposito di un
caso in cui si discuteva se il parco condominiale dovesse ritenersi compreso nel contratto di locazione
dell’unità immobiliare condominiale.
79
Si ricorre all’acquisto ex lege allorché all’unità economica risultante dal collegamento funzionale tra beni
non faccia fronte un’unità giuridica del bene: come accade a proposito di pertinenze o servitù. Anche in questi casi si potrebbe dubitare della necessità della duplicazione dei titoli d’acquisto. In questa sede ci si limita
a rilevare che il riferimento all’unità economica consente di indicare cumulativamente il bene immobile nella
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34
Capitolo I
titolarità, ne consideri espressamente solo alcune conseguenze, essa
deve essere interpretata come diretta a sancire l’unitarietà del bene
immobile condominiale. Anche per la destinazione pertinenziale, del resto, gli effetti espressamente considerati dalla legge sono solo quelli indiretti che si riscontrano sul piano degli atti e dei rapporti, e non quelli
diretti che investono i beni. Questo, però, non ha impedito ad alcuni
studiosi di tradurre il dettato normativo nel linguaggio dei beni, riferendosi alla nozione di unità pertinenziale 80.
Affermando che le parti comuni sono oggetto di proprietà comune, insomma, la norma non attribuisce diritti, ma afferma che qualunque diritto o situazione di fatto che abbia per oggetto una unità immobiliare
condominiale si estende anche alle parti comuni. In sostanza, afferma
che l’unità immobiliare condominiale comprende le parti destinate
all’utilità comune e, quindi, che le parti comuni sono parte delle singole
unità immobiliari condominiali alla cui utilità sono destinate.
Pertanto, quando sorge un conflitto circa l’uso di parti di edificio o in ordine alla ripartizione di determinate spese, spesso occorre domandarsi
in quali unità immobiliari quelle parti debbano considerarsi ricomprese,
piuttosto che interrogarsi su chi ne siano i proprietari. Occorre chiedersi,
cioè, di cosa siano parte, piuttosto che chi ne sia titolare 81.
Altrimenti, si rischia di scambiare un conflitto circa la reciproca estensione di unità immobiliari contigue (anzi parzialmente sovrapposte o
coincidenti) per un conflitto in ordine alla titolarità di beni 82.
La contitolarità delle parti comuni, insomma, il loro essere oggetto di
proprietà comune è l’unica risposta possibile alla domanda, spesso malposta, circa l’appartenenza di alcune “parti dell’edificio”.
Molte volte, invece, si prescinde dalla fattispecie e ci si chiede – senza
tanti preamboli – a chi appartengano le fondamenta, la facciata, i balconi eccetera. Si assiste, allora, a dispute surreali che sono risolte sulla basua interezza, le sue pertinenze e le relative servitù, anche quando si voglia dubitare che a tale unità economica faccia fronte un’unità giuridica (l’espressione è mutuata da A. AURICCHIO, op. cit., p. 46 s.).
80
G. ANDREOLI, Le pertinenze, Padova, 1936, p. 84 ss.
81
Il conflitto potrebbe anche attenere al contenuto anziché all’oggetto del diritto di proprietà.
82
W. BIGIAVI, op. cit., p. 244 ss., è l’Autore al quale si deve la chiara distinzione tra conflitti tra titoli e conflitti
tra fondi. La formula è stata recepita dalla giurisprudenza successiva ed è ampiamente utilizzata anche oggi
per distinguere l’azione di rivendica di una parte del fondo vicino dall’azione di regolamento di confini, con le
note importantissime conseguenze sul piano dell’onere della prova, dei mezzi di prova ammissibili e dei poteri del giudice (si veda, per esempio, Cass., 22 dicembre 2011, n. 28349). Per un raffronto in termini di analogia tra le parti comuni condominiali e le opere che si trovano a cavallo del confine, M. FRAGALI, op. cit., p.
88 (vedi nota 74).
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
35
se di considerazioni talvolta lontanissime dalle concrete ragioni del conflitto.
Al fondo, talvolta, vi è il pregiudizio secondo cui, se l’appartenenza è individuale, il proprietario può fare quello che vuole, se l’appartenenza è comune, occorre il consenso di tutti i condomini per ogni modificazione 83.
Questo modo di risolvere le questioni condominiali solo apparentemente semplifica problemi altrimenti complessi. Al contrario, allontana dalla
realtà del fenomeno e apre il campo a conflittualità sterili.
Per comprendere le ragioni del conflitto, infatti, è necessario interrogarsi su modi e forme in cui si atteggia il collegamento funzionale tra le varie parti dell’edificio. Solo in questo modo possono essere decise ragionevolmente le questioni che sorgono in materia di ripartizione delle
spese, di validità delle delibere o di liceità delle opere eseguite da ciascun condomino su parti dell’edificio comuni o di proprietà esclusiva.
Solo a partire dalle forme e dai modi in cui si atteggia il collegamento
funzionale tra le varie parti dell’edificio è possibile ricostruire l’unità
economica immobiliare e la relativa – e per certi versi conseguente – situazione giuridica.
5. L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale:
conformazione dell’organismo edilizio e titolo contrario
Si è rilevato che l’art. 1117 c.c. lega la titolarità delle parti comuni alla titolarità delle parti di edificio di uso esclusivo e che la norma disciplina il
riflesso (rectius uno dei riflessi) della particolare conformazione dei beni
immobili condominiali.
A questo punto, tuttavia, occorre chiedersi sulla base di quali elementi
debba essere ricostruita la fisionomia di ciascuna unità economica immobiliare condominiale.
Come, cioè, si individuino quelle parti dell’edificio che sono comuni a più
unità immobiliari e come si stabilisca a quali unità immobiliari ciascuna
di esse sia comune.
L’art. 1117 c.c. dispone che occorre aver riguardo alla destinazione
all’uso comune 84.
83
M. COSTANTINO, Il condominio, cit., p. 207 ss.
Il riferimento all’uso ha indotto talvolta in equivoco, tanto da portare alcuni Autori a precisare che non rileva l’utilizzazione di fatto, ma l’attitudine funzionale (A. VISCO, op. cit., p. 73; negli stessi termini G. BRANCA,
op. cit., p. 372), ossia la destinazione all’utilità di più unità immobiliari.
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36
Capitolo I
Tutto sommato, nulla di nuovo. L’atto di individuazione di beni immobili
è pur sempre un atto di destinazione economica che definisce il modo di
essere di un’organizzazione produttiva 85. Generalmente si tratta di un
atto di unione o divisione in cui un ruolo centrale è giocato dalla modificazione materiale della situazione dei luoghi. La riconoscibilità esterna,
infatti, è un tratto comune a tutti gli atti di destinazione 86.
Si è già detto che per quanto riguarda il condominio negli edifici concepiti e realizzati come composti di più unità immobiliari disposte su diversi piani, l’individuazione delle singole unità immobiliari non avviene a
seguito di un’attività successiva alla realizzazione dell’edificio da parte
del costruttore. Le diverse unità immobiliari, infatti, vengono a esistenza
già distinte 87.
L’individualità di ciascuna di esse risulta determinata dalla conformazione dell’edificio e dalle destinazioni delle “parti di edificio” denunciate
dalla loro stessa struttura in relazione alle altre, per come concepite e
realizzate, ovvero – mutatis mutandis – dalla situazione dei luoghi 88.
Si è già detto, in proposito, che la giurisprudenza continua a riferirsi al
una presunzione di proprietà comune delle parti destinate all’uso comune, che, però, potrebbe essere vinta da un titolo contrario 89.
Data per acquisita l’improprietà del riferimento alla presunzione, condivisa dalla dottrina maggioritaria 90, occorre intendersi sul livello di operatività del titolo contrario. Generalmente, infatti, ci si limita ad affermare
che esso sia diretto a paralizzare l’effetto attributivo della proprietà comune disposto dall’art. 1117 c.c.
In proposito, tuttavia, non è possibile richiamarsi genericamente
all’autonomia privata. Infatti, se il concorso di più diritti su alcune parti
dell’edificio è una conseguenza della destinazione di quelle parti
all’utilità di una pluralità di unità immobiliari, allora occorre spiegare che
senso abbia la paralisi dell’effetto attributivo per volontà delle parti, se
85
A. AURICCHIO, op. cit., p. 54 ss., classifica l’atto di individuazione tra gli atti di destinazione economica. Sul
punto, cfr. G. MIRABELLI, L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, passim.
86
Entrambi gli Autori citati nella nota precedente ritengono necessario che l’elemento obiettivo degli atti di
destinazione risulti dalla situazione dei luoghi sulla base dei chiari indici normativi forniti dagli artt. 10611062 c.c., con riferimento al requisito dell’apparenza. Cfr. in particolare, A. AURICCHIO, op. cit., p. 61.
87
Vedi par. 2.
88
M. FRAGALI, op. cit., p. 551, rileva che non vi è né dichiarazione normativa di una contitolarità preesistente,
né un effetto attributivo ex lege. La legge si conforma alla realtà, «la assume in una posizione recettiva».
89
Vedi nota 73.
90
Vedi nota 74.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
37
resta ferma la fattispecie che ha determinato quell’effetto, ossia la destinazione all’utilità comune.
È evidente, del resto, che la nuda volontà di evitare (o di determinare)
un effetto giuridico, sebbene contenuta in un titolo d’acquisto, non appartiene al mondo dei fatti giuridicamente rilevanti. Occorre, cioè, comprendere la funzione del titolo contrario, quantomeno per vagliarne la
meritevolezza e la liceità 91. Non è possibile cogliere alcuna funzione o
ragione limitando l’indagine alla nuda volontà di conferire un astratto
assetto della titolarità a parti di beni indipendentemente dal modo in cui
dette parti risultano collegate.
Allora la volontà manifestata nel titolo d’acquisto deve essere intesa
come diretta a operare sulla causa della titolarità, ossia sulla funzione di
alcune parti dell’edificio.
Il titolo contrario, quindi, deve essere inteso come atto di destinazione,
e più specificamente di individuazione, che, accludendo alcune parti di
edificio a determinate unità immobiliari, consente di superare la conformazione dell’organismo edilizio 92.
Esso produce, in definitiva, l’effetto di disinnescare i collegamenti funzionali che risultano dalla struttura dell’edificio: la situazione di titolarità
sarà una mera conseguenza, che deve necessariamente riflettere
91
A. PRINCIGALLI, Striscia di terreno e prelazione agraria, in Foro it., 1988, I, p. 1510 e ID., Individuazione di beni immobili e realizzazione di interessi meritevoli di tutela. La prelazione del proprietario confinante, in Nuovo
dir. agr., 1978, p. 550 ss., a proposito dell’espediente di escludere dalla vendita del fondo agricolo una striscia di terreno al fine di eludere la disciplina della prelazione agraria che, come è noto, opera tra fondi confinanti. Il problema è condivisibilmente impostato affermando la necessità del vaglio di meritevolezza per gli
atti di individuazione dei beni immobili come per qualsiasi altro atto di autonomia privata. È evidente che la
pretesa separazione di una striscia di terreno lunga diverse centinaia di metri e larga poco più di un metro ha
una funzione illecita: eludere la prelazione agraria. Pertanto, la clausola contrattuale con cui si pretende di
escludere la striscia di terreno (ossia una parte del fondo) dall’oggetto del titolo d’acquisto deve ritenersi
nulla, se non inesistente. Ebbene, detta clausola – per le ragioni esposte nel testo – deve ritenersi a tutti gli
effetti assimilabile al titolo contrario di cui fa menzione l’art. 1117 c.c.
Con specifico riferimento al titolo contrario nel condominio, richiama il necessario vaglio di meritevolezza V.
COLONNA, Esclusività e partecipazione nel godimento dei beni: il caso del muro maestro in proprietà esclusiva,
nota a Cass., 15 febbraio 1996, n. 1154, in Giur. it., 1998, p. 677 ss., il quale a ragione si interroga sulle utilità
espresse da un muro condominiale in favore del condomino che ne risulti proprietario esclusivo in virtù del
titolo, nonché M. FRAGALI, op. cit., p. 89 (vedi nota seguente). Sul punto si tornerà nei paragrafi seguenti.
92
In questo senso sembra esprimersi, con riferimento alle opere tra due fondi che hanno funzione divisoria,
M. FRAGALI, op. cit., pp. 89 e 553, il quale fonda la proprietà comune delle parti comuni sulla valutazione legale della situazione e riconosce che detta valutazione «muta quando l’esistenza di accordi fra le parti che vi
contraddicono impone di fare un diverso apprezzamento nei limiti in cui a questi accordi si può riconoscere
efficacia». Ancor più chiaramente lo stesso Autore scrive che «il titolo altro non fa che vietare di intendere la
situazione in modo discordante dall’interpretazione che esso le dà, ove dubbi potessero sorgere o venissero
profilati».
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38
Capitolo I
l’assetto del collegamento funzionale istituito in virtù dell’atto di individuazione.
Si tratta, insomma, di individuazione per atti formali, anziché per atti
materiali.
La conclusione è del tutto compatibile con i risultati raggiunti a proposito di pertinenze e destinazione del padre di famiglia 93.
Anche in questi casi vi è un’unità economica immobiliare (sebbene la
pertinenza sia un bene autonomo e la servitù sia costruita in schema autonomo di diritto) e, allo stesso modo, la legge prevede la possibilità che
un “titolo contrario” circoscriva la vicenda circolatoria a una parte di essa, escludendo l’acquisto della pertinenza (art. 818 c.c.) o la costituzione
della servitù (art. 1062 c.c.), benché la pertinenza continui a risultare
obiettivamente destinata a servizio od ornamento del bene principale e
nonostante la presenza delle opere visibili e permanenti che indicano
l’esistenza di una servitù.
Ebbene, in questi casi – sotto questo aspetto affini alla proprietà condominiale – la diversa disposizione (il titolo contrario) è stata intesa come operante a livello di atto di destinazione, piuttosto che come dato
probatorio capace di superare una presunzione o come indice contrario
a un criterio legale di interpretazione della volontà delle parti o, ancora,
come manifestazione di volontà diretta puramente e semplicemente a
paralizzare un effetto attributivo ex lege 94.
93
D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 73, afferma chiaramente che le parti di edificio possono essere considerate
comuni sulla base della loro apparente e univoca condizione di fatto «analogamente a quanto si verifica
quanto alla costituzione delle servitù per destinazione del padre di famiglia».
94
A. DE SANCTIS RICCIARDONE, Destinazione del padre di famiglia e volontà contraria alla servitù, in Giur. it.,
1975, I, p. 299 ss., sottolinea che la dichiarazione contenuta nell’atto di alienazione del fondo deve essere intesa, piuttosto che come fatto impeditivo dell’effetto legale di una fattispecie, come manifestazione del potere del proprietario di disporre in ordine alla destinazione. «Il legislatore ha voluto dare rilievo alla volontà
del proprietario unico dei fondi nel senso di ritenere che la volontà contraria, comunque espressa, stia ad indicare che la destinazione è venuta meno»: il titolo contrario, dunque, appare come atto negoziale e non
negoziale a un tempo. Nello stesso senso, F. CAVALIERE, Destinazione del padre di famiglia e disposizione relativa alla servitù, in Giur. it., 1997, p. 853, il quale sottolinea – in una nota a sentenza adesiva – che la nascita
della servitù è impedita da qualsiasi clausola del contratto incompatibile con la volontà di lasciare integra la
situazione di fatto: quel che conta, insomma, è che dal contratto di alienazione risulti un atto di segno contrario a quello che ha istituito la destinazione, al quale deve essere riconosciuta la stessa natura giuridica dello stesso atto di destinazione. Ancora, G. BRANCA, Destinazione del padre di famiglia e dichiarazione relativa
alla servitù, in Foro it., 1965, I, p. 252, sottolinea che, quando la servitù nasce per destinazione del padre di
famiglia, essa non è l’effetto di una volontà negoziale delle parti tacita o presunta, ma deriva «da una certa
situazione di fatto».
Significativamente, la stessa A. DE SANCTIS RICCIARDONE, Destinazione del padre di famiglia. Presupposti, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1969, p. 556, nota 20, prende a esempio proprio un caso di titolo contrario nel condominio e pone l’accento sul fatto che l’art. 1062 c.c. attribuisce rilievo al risultato dell’atto di destinazione (la
situazione dei luoghi) e non certo a una presunta volontà.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
39
In altri termini, se l’alienante rimuove materialmente la situazione di fatto da cui risulta la servitù o la destinazione a pertinenza o a parte comune, è ovvio che non si pone alcun problema. L’unità economica è stata
disgregata e quella disgregazione si è tradotta in atto mediante la rimozione della situazione esteriormente visibile dalla quale quella unità risultava. Pertanto, gli effetti dell’atto di alienazione non si estendono alla
dismessa pertinenza e la servitù, che non risulta più dalla situazione dei
luoghi, non si costituisce.
Per consentire di giungere a un tale risultato, tuttavia, non vi è ragione
di imporre all’alienante l’onere di provvedere a operazioni materiali di
divisione (rectius disgregazione) dell’unità economica.
Allora, la legge ritiene sufficiente che nel titolo di acquisto si specifichi
che l’oggetto non è l’unità economica in atto (come risultante, cioè,
dall’attuale e apparente organizzazione), ma un’unità economica in potenza che è disegnata (individuata) come priva di alcune “parti”
dell’unità economica in atto.
Insomma, in materia di circolazione dei beni immobili, l’oggetto del titolo d’acquisto si estende a tutta intera l’unità economica in atto, salva la
possibilità di modificarne programmaticamente l’organizzazione mediante un atto formale e senza aver mutato preventivamente lo stato
obiettivo dei luoghi da cui la destinazione unitaria continua a emergere.
In conclusione sul punto, si deve rilevare che il significato precettivo di
queste norme non consiste nell’imposizione di un onere di dichiarare
espressamente qualcosa per vincere una qualche presunzione contraria, ma semplicemente nel consentire alle parti di modificare la conformazione dei beni mediante atti formali nel contesto di vicende circolatorie, disgregando l’unità economica che risulta dalla situazione
dei luoghi.
Tanto più che, talvolta, l’intento di disgregare l’unità economica può risultare dal significato complessivo di un atto, pur in mancanza di una
precisa clausola da qualificare come “titolo contrario”. Un esempio è offerto da un curioso caso giurisprudenziale a proposito della donazione
della nuda proprietà di un appartamento, da frazionarsi in un certo modo, dal genitore ai due figli. Morto il genitore usufruttuario, il quale aveva continuato a fruire dell’appartamento unitariamente, uno dei fratelli
donatari pretendeva di continuare a utilizzare la cucina e il bagno, acquistati a suo dire come pertinenze del suo immobile in mancanza di ti© Wolters Kluwer
40
Capitolo I
tolo contrario, e il corridoio a titolo di servitù, sorta per destinazione del
padre di famiglia in difetto di diversa disposizione 95.
È evidente che, in casi di questo genere, il senso dell’atto è proprio quello di disgregare programmaticamente l’unità economica che risulta dallo
stato dei luoghi. È evidente che ogni riferimento alla disciplina della circolazione dei beni o dei diritti accessori, in casi di questo tipo, perde significato 96.
Tornando alla materia condominiale, poi, occorre rilevare che la questione dell’individuazione si arricchisce di diverse sfumature, presentandosi l’atto di destinazione in forme e modi molto più articolati.
Per le pertinenze e le servitù, tutto sommato, occorre solo stabilire se la
destinazione in atto è stata programmaticamente disinnescata nel titolo
d’acquisto oppure no.
Per il condominio, invece, il titolo può conformare le unità immobiliari
determinando il modo di essere delle parti comuni e delle unità immobiliari condominiali in genere.
Il titolo contrario, insomma, può attribuire alle “cose” (alle parti di edificio) una funzione non suggerita dalla situazione dei luoghi (che può, peraltro, risultare equivoca) e può perfino creare nuove unità economiche
condominiali non apparenti. Il tutto, come è ovvio, compatibilmente con
la funzione di utilità comune cui determinate parti di edificio assolvono
inevitabilmente 97.
Le clausole a tal fine inserite nei titoli d’acquisto assumono, pertanto, le
diverse vesti di seguito illustrate.
6. Le varianti del titolo contrario: titolo contrario conformativo; titolo
contrario riserva; destinazione vincolata di unità immobiliari
Come si è già detto, il titolo può incidere sull’individuazione delle unità
immobiliari condominiali con effetti conformativi: può includere o
95
Cass., 25 febbraio 1998, n. 2016, in Riv. giur. edilizia, 1998, p. 849. Il caso è stato risolto sulla base della distinzione tra parti e pertinenze. Nello stesso senso, Cass., 17 gennaio 1958, in Riv. giur. edilizia, 1958, p. 338,
con nota di E. FAVARA, Vincolo pertinenziale tra immobili.
96
A. DE SANCTIS RICCIARDONE, Destinazione del padre di famiglia. Presupposti, cit., p. 546 ss., a ragione esclude
che possa nascere una servitù per destinazione del padre di famiglia nel caso in cui l’alienazione riguardi una
parte di un fondo originariamente unitario. L’istituto, sostiene l’Autrice, trova applicazione ove vi sia stata la
destinazione di un fondo al servizio di un altro fondo di proprietà dello stesso soggetto perché non può esservi servitù tra due parti di uno stesso bene. Tanto più, si potrebbe aggiungere, che la divisione di un’unità
economica unitaria – quale è il fondo – suppone la disgregazione di tutti i nessi funzionali che collegavano le
diverse parti di esso.
97
In questo senso, V. COLONNA, op. cit., p. 677 ss.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
41
escludere determinate parti di edificio dal novero delle parti comuni a
tutte o ad alcune unità immobiliari 98 mediante l’attribuzione a esse di
funzioni che non risultino denunciate dai segni materiali esteriormente
visibili, ossia dalla situazione dei luoghi.
L’ipotesi più semplice si riscontra nei casi in cui alcune parti dell’edificio,
che pure appaiono destinate all’uso comune, siano incluse solo in una o
alcune unità immobiliari di cui si compone l’edificio, in virtù del titolo
contrario.
Per esempio, il terrazzo, la piscina o il campo da tennis possono essere
collegati per mezzo del titolo alle sole unità immobiliari della scala A
(magari destinate ad uso residenziale), benché sulla base dello stato dei
luoghi risultino accessibili anche dalle unità immobiliari della scala B
(magari destinate a uffici).
Il titolo contrario potrebbe anche limitarsi a offrire una “interpretazione” vincolante di una situazione dei luoghi più o meno equivoca 99.
L’ascensore n. 1, per esempio, può essere dichiarato comune ai proprietari degli appartamenti oltre il ventesimo piano (perché più veloce),
l’ascensore n. 2 agli altri (perché più lento) e l’ascensore n. 3 di proprietà esclusiva del proprietario del piano attico (magari perché consente
l’accesso diretto all’appartamento).
Per le conseguenze della conformazione delle unità immobiliari condominiali sul piano dell’organizzazione condominiale e sui criteri di ripartizione delle spese, si rinvia al seguito (capp. 2 e 5). In questa sede si segnala soltanto che, soprattutto in passato, si è affermato che la cosiddetta destinazione particolare (ossia all’utilità di una sola unità immobiliare) di parti di edificio – ove risultante dalla situazione dei luoghi –
produrrebbe un effetto simile a quello proprio del titolo contrario conformativo: quello di vincere la pretesa presunzione di comunione delle
parti comuni elencate nell’art. 1117 c.c. Non si è mancato di rilevare, in
contrario, che l’elenco di parti comuni contenuto nell’art. 1117 c.c. è
esemplificativo e non tassativo e, soprattutto, che l’art. 1117 c.c. non
contiene alcuna enumerazione di elementi architettonici da presumere
comuni, ma si limita a fare qualche esempio di parti dell’edificio o impianti destinati all’uso comune. Pertanto, al fine di affermare la proprie98
Si allude al condominio parziale. Sul punto si tornerà nel successivo par. 9.
In questi termini si esprime M. FRAGALI, op. cit., p. 553, laddove scrive che «il titolo altro non fa che vietare
di intendere la situazione in modo discordante dall’interpretazione che esso le dà, ove dubbi potessero sorgere o venissero profilati».
99
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42
Capitolo I
tà individuale delle scale che collegano i due piani di un’unica unità immobiliare condominiale non occorre vincere alcuna presunzione di proprietà comune, semplicemente perché l’art. 1117 c.c. si riferisce unicamente alle scale destinate all’uso comune e non a tutti gli scalini presenti nell’edificio 100.
La destinazione particolare indica semplicemente la destinazione di alcune parti dell’edificio all’utilità di una sola unità immobiliare e, per ciò
stesso, esclude a monte l’operatività dell’art. 1117 c.c., che si occupa
espressamente delle sole parti di edificio destinate all’utilità di più unità
immobiliari.
Occorre rilevare, a questo punto, che il titolo contrario non sempre si
presenta come limpidamente diretto ad assegnare determinate funzioni
alle parti dell’edificio cui si riferisce, ma spesso assume la veste di “riserva”. L’alienante, cioè, si riserva la proprietà di parti altrimenti comuni.
Si tratta, evidentemente, di clausole che adottano il linguaggio della titolarità. Diffusa nella prassi, per esempio, è la clausola con cui il costruttore si riserva la proprietà degli spazi destinati a parcheggio. Essa è diretta
a elidere il collegamento che risulta dallo stato dei luoghi tra i posti auto
e le abitazioni. Si è fondatamente dubitato della liceità di clausole di
questo tipo quando le aree sono vincolate a parcheggio a norma della
disciplina urbanistica o anche semplicemente rappresentate come parcheggio comune nel titolo abilitativo edilizio 101. Ove, invece, si tratti di
parcheggi che appaiono comuni semplicemente sulla base della situa100
A. VISCO, op. cit., p. 73, rileva che quando per le sue obiettive caratteristiche strutturali una cosa risulta
destinata all’esclusivo uso e godimento di un condomino non si può più parlare di parti comuni, perché ne
viene meno il presupposto. Nello stesso senso, V. COLONNA, op. cit., p. 677, rileva che la “presunzione” non
opera per quelle parti che non sono strutturalmente e funzionalmente destinate all’uso comune. Vedi altresì
A. CELESTE, Il cd. condominio parziale tra presunzione di comunione, titolo contrario e destinazione particolare, in Rass. locazioni e cond., 2003, p. 470. In tema di scale comuni, Cass., 24 febbraio 1999, n. 1658, in Arch.
locazioni, p. 606, con nota di M. DE TILLA, Presunzione di proprietà condominiale, titolo contrario e destinazione particolare. In Cass., SS.UU., 7 luglio 1993, n. 7449, citata nella nota 72, si utilizza il caso della scala che
serva per accedere a un solo appartamento come esempio chiarificatore: “non può dubitarsi che essa sia di
proprietà esclusiva del titolare di questa unità immobiliare, ma non perché la sua destinazione particolare
superi la presunzione legale di comunione, bensì in quanto in tale caso la scala per le sue caratteristiche
strutturali non rientra proprio nell’ambito delle cose comuni di cui all’art. 1117 del codice civile”.
101
Per tutti, sul punto, vedi M. COSTANTINO, La “liberalizzazione” dei trasferimenti degli spazi per parcheggi di
cui all’art. 41-sexies, l. n. 1150 del 1942 (impune lucrare, alios destituere), in Contratto e impresa, 2007, p.
1461 ss. Per un’ampia rassegna ampia delle diverse tipologie di parcheggi e della loro disciplina si rinvia a: G.
ENRIQUEZ, Le destinazioni di aree a parcheggio e la nullità degli atti di cessione dei parcheggi separatamente
dall’unità immobiliare, in Rass. dir. civ., 2013, p. 76 ss. In particolare, sui parcheggi c.d. Tognoli nell’ambito
degli edifici condominiali si veda: G. ENRIQUEZ, Collegamento funzionale e realizzazione di nuovi parcheggi ex
lege Tognoli, in M. COSTANTINO-A. DE MAURO-C. COLONNA-P. LISI-F.G. VITERBO (a cura di), Destinazioni d’uso e discipline inderogabili nel condominio, Milano, 2014, p. 352.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
43
zione dei luoghi, la clausola produce l’effetto tipico del titolo contrario 102.
Altra clausola ricorrente è quella in base alla quale il costruttorealienante si riserva la proprietà della facciata. È certo che la facciata continua a essere parte comune perché svolge inevitabilmente una funzione di interesse comune 103. L’effetto della riserva, in casi di questo tipo,
non può che consistere nel frazionamento delle utilità che la facciata
esprime. E allora occorre individuare l’utilità della facciata che
l’alienante ha voluto riservare per sé.
Per riconoscere un senso a una clausola e vagliare la meritevolezza di tutela degli interessi sottostanti, infatti, bisogna individuare quale tipo di
sfruttamento in esclusiva possa fare della facciata chi se ne è riservato la
proprietà 104. Solo una volta individuata l’utilità concreta oggetto della riserva, del resto, è possibile risolvere razionalmente gli eventuali conflitti
in ordine alla ripartizione delle spese, alla partecipazione all’assemblea e
all’uso della facciata stessa.
Se, per esempio, si riconoscesse che la funzione della clausola di riserva
della proprietà della facciata consiste nel lasciare al costruttore il diritto
di sfruttamento della stessa per scopi pubblicitari, allora è chiaro che
egli, per esempio, non dovrà partecipare alle spese per la coibentazione
dell’edificio anche se le relative opere sono da eseguirsi sulla facciata 105.
Il conflitto in questi casi sorge per la radicata ritrosia a utilizzare il linguaggio dei beni anziché quello della titolarità. Se, infatti, il titolo, anziché far riferimento in modo rozzo ed equivoco alla proprietà di un elemento architettonico, chiarisse la funzione ulteriore che si intende attribuire a una parte comune, sarebbe più semplice risolvere questioni altrimenti complicate 106.
102
Vedi Cass., 14 novembre 2002, in Rass. locazioni e cond., 2003, p. 327, con nota di M. DE TILLA, Sul titolo
contrario alla presunzione di proprietà condominiale, per un caso attinente a un’area verde antistante la facciata.
103
M. COSTANTINO, Il condominio, cit., p. 208: «il titolo contrario non soltanto non previene qualsiasi conflitto
ma non cancella dalla realtà la natura della facciata: questa continua ad essere elemento strutturale e funzionale dell’edificio, benché risulti dal titolo che forma oggetto di proprietà esclusiva e non comune. Eppure,
talvolta è stato chiesto al proprietario della facciata di concorrere nelle spese per la manutenzione e conservazione dei materiali coibentanti, senza considerare che oggetto del suo diritto non è un bene idoneo a difendere i piani dalle intemperie, bensì una superficie visibile al pubblico».
104
Vedi nota 91 e, in particolare, V. COLONNA, op. cit., p. 677.
105
Vedi nota 103.
106
Non dello stesso avviso pare A. FUSARO, Condominio e destinazione dei beni: problemi e prospettive, in Notariato, 2007, p. 425 ss.
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44
Capitolo I
Proprio in questa direzione si era mosso il disegno di legge di riforma del
condominio approvato al Senato, che all’art. 1117 c.c. aggiungeva un inciso per cui il titolo contrario avrebbe dovuto indicare «a pena di nullità,
l’ulteriore destinazione d’uso» 107 della parte comune cui è riferito: la
nuova formulazione della norma avrebbe imposto al costruttore che si
riserva la proprietà di alcune parti comuni di chiarire quali sono le ulteriori destinazioni possibili avute di mira, contribuendo a offrire certezze
al mercato immobiliare.
Le pesanti critiche di cui la norma è stata oggetto ne hanno determinato
l’eliminazione dal testo definitivo di legge approvato alla Camera. In
realtà, la disposizione avrebbe semplicemente imposto di valutare con
maggior rigore la determinabilità dell’oggetto del titolo contrarioriserva, e non è escluso che a conclusioni analoghe si giunga mediante
una interpretazione sistematica delle norme vigenti 108.
Si deve aggiungere solo che, in casi come quelli appena menzionati, chi
si è riservato la proprietà di una parte comune diventa un condomino
come gli altri, benché la propria unità immobiliare – vero e proprio bene
in senso giuridico, costituito dalla sintesi delle possibilità di utilizzazione
oggetto di riserva109 – si presenti disomogenea rispetto alle altre e collegata alle parti comuni in modo tutt’affatto differente.
Restano da esaminare, perché generalmente accostate al titolo contrario, quelle clausole – di solito richiamate nei contratti di acquisto e inserite in un separato documento intitolato “regolamento di condominio” –
che impongono vincoli di destinazione sulle singole unità immobiliari
condominiali 110.
107
Progetto di riforma della disciplina del condominio approvato al Senato, D.D.L. 26 gennaio 2001, n. 71,
«Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici».
108
Ci si riferisce all’art. 1346 c.c. Sul punto, A. AURICCHIO, op. cit., p. 96 ss., con l’avvertimento che nel caso
che ci occupa l’individuazione del bene immobile-facciata oggetto della riserva non può che individuarsi sulla
base delle sole indicazioni contenute nella clausola contrattuale.
109
Sul punto, V. COLONNA, op. cit., p. 678, rileva che ove in virtù del titolo un muro necessario all’uso comune
sia oggetto di proprietà individuale, nella cosa-muro si possono individuare due distinti beni giuridici, oggetto di distinti diritti.
In passato, si è dubitato perfino della natura reale del diritto di installare insegne pubblicitarie sulla facciata
(Cass., 3 agosto 1951, n. 2352, in Foro it., I, 2, 1951, p. 18, con nota di O. CLAUSI SCHETTINI, Le c.d. servitù irregolari ed il diritto di appoggiare insegne pubblicitarie sulle pareti esterne di un immobile). In casi analoghi, la
giurisprudenza più recente preferisce distinguere una utilizzazione oggettiva da un godimento soggettivo
piuttosto che riconoscere l’esistenza di due distinti beni giuridici. A proposito dell’uso del cortile che al contempo fornisce aria e luce agli appartamenti che vi si affacciano e sia destinato al parcheggio di uno o alcuni
condomini in virtù del titolo, Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, in Corriere giur., 2001, p. 653, con osservazioni di
V. MARICONDA, Cortile comune ed esclusiva di parcheggio.
110
Sul punto si tornerà nel cap. 3, par. 5.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
45
Proprio in ragione di quella contestuale fruizione di parti comuni e proprietà individuali di cui si è detto 111, la destinazione di ciascuna unità
immobiliare incide sul tipo di utilizzazione delle parti comuni e degli impianti comuni: è ben nota l’ampia conflittualità a proposito, per esempio, di gabinetti radiologici, studi dentistici o professionali in genere e,
da ultimo, di bed and breakfast.
Per prevenire questo tipo di conflittualità, pertanto, si sono diffuse nella
prassi clausole che determinano le destinazioni consentite o vietate 112
delle singole unità immobiliari 113 o delle parti comuni 114 o, ancora, clausole che attribuiscono un significato più rigoroso alla nozione di decoro
architettonico dell’edificio 115 o a quella di immissioni intollerabili 116.
In questo modo si tenta di risolvere a monte e in via convenzionale ogni
questione generata dalla incompatibilità o dal basso grado di compatibilità degli usi cui i condomini dovessero destinare le proprie unità immobiliari, con il risultato di predeterminare la qualità delle unità immobiliari condominiali come comprese in un edificio che, in virtù delle stesse,
risulterà più o meno signorile, tranquillo, silenzioso, riservato eccetera 117.
Con riferimento a questo tipo di clausole, occorre preliminarmente rilevare che il riferimento al titolo contrario non è rigoroso sul piano sistematico. È evidente, infatti, che si tratta di determinazioni convenzionali
dei modi di godimento dei beni 118 che, in quanto tali, attengono al contenuto 119 piuttosto che all’oggetto del diritto di proprietà, specifico piano di operatività del titolo contrario. Non è in discussione l’estensione
dei beni, la loro conformazione, bensì il contenuto dei diritti che spettano al proprietario. Se, per l’appunto, egli possa modificare la destinazio111
Vedi precedente par. 3.
Cass., 27 ottobre 2011, n. 22428.
113
Cass., 30 giugno 2011, n. 14460; Cass., 27 maggio 2011, n. 11859, in Dir. e giustizia, 2011, p. 179, con nota
di D. PALOMBELLA, Legittimo il regolamento condominiale che vieta le discoteche; Cass., 20 aprile 2005, n.
8216, in Giust. civ., 2012, I, p. 2891, con nota di P. DEL BUONO, Clausole «regolamentari» e clausole contrattuali nel regolamento di condominio.
114
Cass., 4 aprile 2004, n. 2106, in Il civilista, 2011, 3, p. 40.
115
Cass., 24 gennaio 2013, n. 1748, nonché Cass., 13 giugno 2013, n. 14898.
116
Cass., 18 gennaio 2011, n. 1064, in Giust. civ., 2011, p. 1741; Cass., 7 gennaio 2004, n. 23, ivi, 2004, I, p.
922; Cass., 4 aprile 2001, n. 4963, in Arch. locazioni, 2001, p. 397.
117
A. VISCO, Problemi giuridici attuali sul condominio di edifici, Milano, 1966, p. 49 ss., dedica un intero capitolo all’argomento.
118
Vedi M. COSTANTINO, L’efficacia fra le parti e verso i terzi dei regolamenti di condominio e dei c.d. piani di
lottizzazione e la distinzione dei diritti reali dai diritti di credito, in Casi e questioni in tema di obbligazioni, a
cura di M. SPINELLI, Bari, 1968, p. 47.
119
Sul contenuto del diritto di proprietà si rinvia a M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 123 ss.
112
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Capitolo I
ne del suo bene o svolgere attività che producano immissioni intollerabili o, in genere, procurino un “danno” agli altri condomini: come si vedrà
nel seguito 120, le norme di riferimento sono l’art. 840 c.c., con riguardo
alla proprietà in generale, e l’art. 1122 c.c., con riferimento alla proprietà condominiale in particolare.
Inquadrata nei termini esposti la questione, in questa sede ci si limita a
osservare che troppo spesso si ritiene che i condomini – in mancanza di
una espressa clausola di divieto contenuta nel titolo – siano liberi di modificare la destinazione della propria unità immobiliare a loro piacimento 121. In questo modo si trascura di considerare che il mutamento di destinazione dell’unità immobiliare condominiale potrebbe tradursi in un
mutamento di destinazione delle parti comuni 122.
Più precisamente, occorrerebbe sempre valutare la compatibilità della
nuova destinazione di un’unità immobiliare individuale con le destinazioni, in atto o in potenza, delle parti comuni e delle altre unità immobiliari che risultano dallo stato dei luoghi, oltre che dal titolo.
Da una parte, cioè, non si può desumere, per esempio, che la destinazione delle unità immobiliari a studio professionale sia vietata dal mero
fatto che nell’edificio non siano presenti unità immobiliari con analoga
destinazione. La circostanza, come è ovvio, può essere semplicemente
un effetto del tutto accidentale delle scelte di utilizzazione dei singoli
condomini. Le nuove utilità che alcune parti comuni saranno chiamate
ad assolvere in concreto – si pensi a scale e ascensore che daranno accesso ai clienti – possono risultare già espresse da quelle parti comuni in
base alla loro destinazione, ma semplicemente non fruite fino a quel
momento 123.
Dall’altra, non si può partire dall’ipotesi estrema secondo cui tutte le
destinazioni sono ammissibili, salvo che il contrario non risulti dal titolo. Sarà pur sempre possibile desumere l’incompatibilità di un determinato uso dalla conformazione, dalle qualità e anche dal contesto urbano in cui un determinato immobile si inserisce. Per esempio, pur in
mancanza di qualsiasi clausola contrattuale, si è ritenuto che la desti120
Vedi cap. 4, parr. 2 e 3.
Per tutti, R. TRIOLA, op. cit., p. 239.
122
G. DECARO, Mutamento delle destinazioni d’uso delle singole unità immobiliari: autonomia individuale o
collegiale?, in M. COSTANTINO-A. DE MAURO-C. COLONNA-P. LISI-F.G. VITERBO (a cura di), Destinazioni d’uso e discipline inderogabili nel condominio, Milano, 2014, p. 267 ss.
123
Sulle conseguenze del mutamento di destinazione delle unità immobiliari sul piano della ripartizione delle
spese si rinvia al cap. 5, par. 2.
121
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
47
nazione ad abitazione di un locale in proprietà esclusiva precedentemente destinato ad autorimessa possa risultare illegittima allorché dia
luogo a una situazione di “basso” 124. È stata, invece, ritenuta legittima
la destinazione di un’unità immobiliare condominiale all’attività di bed
and breakfast proprio perché ritenuta compatibile con la destinazione
a civile abitazione, nonostante una clausola richiamata nei titoli
d’acquisto vietasse la destinazione a usi diversi dall’abitazione e dallo
studio privato 125.
Si rinvia ai paragrafi 8 e 10 per due ulteriori figure di titolo contrario.
7. La rilevanza della prima alienazione sul piano dei beni
Si è fatto riferimento, a proposito del titolo contrario, alle clausole contenute nei contratti di alienazione o da questi richiamate (par. 5). Occorre precisare, tuttavia, che la conformazione delle singole unità immobiliari condominiali non può essere determinata, come è ovvio, in occasione di ogni atto di alienazione.
Una volta individuata in un certo modo una unità immobiliare condominiale, composta da parti di edificio di proprietà individuale e da parti
comuni, la stessa non potrà che circolare così com’è, salva una diversa
convenzione da stipularsi tra tutti i proprietari delle unità immobiliari
che presentano parti comuni.
È evidente, dunque, perché la prima alienazione rivesta una importanza
del tutto particolare e perché – sebbene impropriamente – si parli, in
proposito, di atto costitutivo del condominio 126.
Si è già detto che anche quando l’edificio condominiale appartiene ancora a un unico proprietario possono già distinguersi le diverse unità
immobiliari, e che, a rigore, a quell’unico proprietario appartiene non
tanto l’edificio, bensì ciascuna e tutte le unità immobiliari condominiali
di cui esso si compone 127.
124
In tal senso, Cass., 17 aprile 2001, n. 5612, in Riv. giur. edilizia, 2001, I, p. 816, ove si fa leva sulla nozione
di decoro architettonico.
Cass., 20 novembre 2014, n. 24707, in Immobili e proprietà, 2015, p. 151, con nota di L. SALCIARINI, Bed &
breakfast e regolamento di condominio. Rilievo preponderante nella decisione del caso ha rivestito la circostanza che il condominio si sia limitato ad affermare che l’attività di bed and breakfast comporta necessariamente conseguenze pregiudizievoli per gli altri condomini senza supportare una simile allegazione non è
stata con alcun riferimento “qualitativo e quantitativo al tipo di attività in concreto svolta”.
126
Cass., 14 novembre 2002, n. 16022.
127
L’affermazione è evidentemente il frutto della confusione tra vicende dei diritti e vicende dei beni oggetto
di quei diritti. Sulla unità e pluralità dei beni compresi nel patrimonio dello stesso soggetto, A. AURICCHIO, op.
cit., p. 48 ss.
125
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48
Capitolo I
Fino a quando, tuttavia, il proprietario è uno, egli resta libero di modificare l’assetto e le destinazioni di tutte le unità immobiliari e delle parti a
esse comuni, nel rispetto delle discipline edilizie e urbanistiche.
La prima alienazione, invece, segna il momento in cui diventa immodificabile, salvo successivo contratto tra tutti i condomini, l’individuazione
dell’unità immobiliare ceduta, che comporta l’assegnazione delle funzioni a tutte le parti comuni a essa connesse (in virtù della conformazione dell’edificio o del titolo). La situazione, pertanto, resta pressoché cristallizzata a quel momento.
8. L’utilità concreta e l’utilità giuridica nell’identificazione delle parti
comuni
La formulazione dell’art. 1117 c.c., come si è osservato, è piuttosto involuta. I soggetti della frase – le parti dell’edificio necessarie all’uso comune; i
locali per i servizi in comune e le opere destinate, in genere, all’utilità comune – sono contenuti nell’elenco numerato, in coda alla norma. La novella del dicembre 2012, rispetto al testo originario, ha avuto il merito di
anteporre l’indicazione dei criteri di individuazione delle singole tipologie
di parti comuni rispetto alla serie di indicazioni esemplificative.
Si tratta di un mero accorgimento redazionale che rende appena più
scorrevole il testo della norma.
Il legislatore della novella, tuttavia, non ha resistito alla tentazione di
aggiungere nuove indicazioni esemplificative. Tra le parti necessarie
all’uso comune compaiono i pilastri, le travi portanti e le facciate.
Ai locali per i servizi in comune si aggiungono i sottotetti destinati all’uso
comune per le loro caratteristiche strutturali e funzionali nonché le aree
destinate a parcheggio.
Tra gli impianti comuni sono stati espressamente richiamati anche quelli
per il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per
l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo via satellite o
via cavo.
Le nuove indicazioni esemplificative, a rigore, non spostano nulla (come
nessuna specifica portata precettiva riveste l’espresso richiamo alla multiproprietà). Al fine di accertare se un parcheggio o un sottotetto siano
da considerarsi parti comuni occorrerà pur sempre verificare che essi ri-
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
49
sultino destinati all’utilità comune sulla base della loro conformazione o
del titolo 128.
Paradossalmente, anzi, concentrare l’attenzione sui singoli esempi di
parti comuni rischia di esasperare – piuttosto che attenuare – la conflittualità, perché allontana la discussione dalle ragioni per le quali determinate parti dell’edificio si considerano comuni e lascia intendere che si
debba discutere dell’inclusione di determinati elementi architettonici in
un certo elenco o, peggio ancora, della possibilità di far rientrare una
certa opera in questa o quella tipologia architettonica.
Per queste ragioni, non si procederà all’enumerazione delle singole entità architettoniche che costituiscono nella normalità dei casi parti comuni dell’edificio condominiale per chiedersi a chi appartengano.
La conflittualità è sterminata e le questioni diventerebbero incomprensibili se ci si limitasse alla lettura delle massime giurisprudenziali, che – il
più delle volte – non rendono affatto conto della effettiva ratio decidendi e della questione realmente controversa.
Una esposizione casistica ordinata per elementi architettonici correrebbe il rischio di lasciare in ombra le reali ragioni dei conflitti in favore
dell’enunciazione di principi di diritto circa l’astratta titolarità di elementi architettonici degli edifici indicati come cose 129.
Un caso tipico è il sottosuolo dell’edificio. È stato rilevato che – per
quanto non espressamente menzionato nell’art. 1117 c.c. – esso è oggetto di proprietà comune in ragione della funzione di sostegno che contribuisce a svolgere per la stabilità del fabbricato. Pertanto, il proprietario del piano più basso non potrebbe procedere a escavazioni al fine di
ingrandire i propri locali senza il consenso degli altri condomini, altrimenti assoggetterebbe un bene comune al suo esclusivo vantaggio 130.
È evidente che un’argomentazione del genere non ha nulla di razionale
e porta la discussione lontanissimo dalla realtà del conflitto.
Si riconosce che il sottosuolo è parte comune in ragione della funzione
di sostegno dell’edificio per poi concludere che qualsiasi opera sotto il
suolo deve essere assentita da tutti i condomini: anche quando, quindi,
non intralci minimamente la funzione di sostegno.
128
Vedi precedente par. 5.
Vedi nota 109.
130
In questo senso, ex multis, Cass., 5 giugno 2015, n. 11667; Cass., 2 marzo 2010, n. 4965, in Giust. civ.,
2011, I, p. 2687 e Cass., 27 luglio 2006, n. 17141, in Riv. giur. edilizia, 2007, I, p. 948, nonché in Arch. locazioni, 2007, 2, p. 158.
129
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50
Capitolo I
A prescindere dalla necessità o meno del consenso degli altri condomini
per eseguire opere di ampliamento dell’unità immobiliare che si trova al
piano più basso dell’edificio, è certo che la questione non può essere risolta sulla base della funzione di sostegno riconosciuta al sottosuolo
(della quale è pure lecito dubitare).
E allora, quantomeno per impostare correttamente la questione, occorre ammettere che il problema dell’ampliamento dei vani al piano
più basso dell’edificio non ha nulla a che vedere con la proprietà del
sottosuolo, ma – semmai – è una questione relativa alla liceità di
opere eseguite dal singolo a vantaggio della propria unità immobiliare 131.
Analoghi rilievi possono ripetersi a proposito della proprietà dei muri
perimetrali. Non appare corretto fare appello alla funzione di protezione
dagli agenti atmosferici per decidere della possibilità di ricavare un locale commerciale da una cantina trasformando una finestra in porta 132 o
di collegare due appartamenti che fanno parte di edifici adiacenti praticando un’apertura in quel muro 133.
Non si è avuta alcuna difficoltà, per esempio, a riconoscere che la menzione del suolo tra gli esempi di parti comuni contenuti nell’art. 1117 c.c.
non ha nulla a che vedere con la proprietà dei locali interrati o scantinati 134.
Occorre, in ogni caso, considerare che a elementi architettonici come
sottotetti, intercapedini o cortili spesso fa riscontro una pluralità di funzioni comuni o individuali. A ciascuna utilità può corrispondere un bene,
o una parte di un bene, in senso giuridico 135, con una conseguente disomogeneità anche sul piano della titolarità.
131
Si rinvia, sul punto, al cap. 4, sez. I.
Cass., 26 agosto 2015, n. 17145.
133
Ex multis, si segnala Cass., 27 ottobre 2003, n. 16097, in Rass. locazioni e cond., 2004 (con nota di M. DE
TILLA, Apertura nel muro comune di un varco per accedere a proprietà esclusiva), che pone la questione nei
suoi esatti termini: distingue i casi in cui l’apertura è consentita dai casi in cui deve ritenersi vietata a seconda che la modificazione incida negativamente sulle possibilità di utilizzazione delle altre unità immobiliari
condominiali (vedi cap. 4). Vedi anche Cass., 7 agosto 1982, n. 4439, in Foro it., 1982, I, p. 720, con nota di N.
MAZZIA, Unità immobiliare compresa in più edifici e scioglimento del condominio. In dottrina, L. SALIS, Muri
maestri, muri divisori e presunzione di comunione, in Riv. giur. edilizia, 1959, II, p. 3; G. BRANCA, Muri perimetrali… non comuni, in Foro it., 1959, I, p. 790.
134
Cass., 17 agosto 1990, n. 8396, in Arch. locazioni, 1990, p. 697, nonché Cass., 23 luglio 1994, n. 6884, ivi,
1994, p. 92.
135
La pluralità di beni a fronte di una stessa cosa o elemento architettonico può ben presentarsi in conformità della situazione dei luoghi, oltre che per effetto del titolo (sul punto, vedi nota 109). I cortili, oltre che fornire aria e luce alle unità immobiliari che vi si affacciano, possono essere destinati a parcheggio, ove opportunamente attrezzati (Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, cit.).
132
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
51
I cortili, per esempio, servono per dare aria e luce agli appartamenti che
vi si affacciano, ma possono, al contempo, essere destinati anche a parcheggio, ove opportunamente attrezzati: in tal caso, in un certo senso,
sono due volte, e in modo diverso, parti comuni. A questo proposito si è
preferito parlare di destinazione secondaria, proprio per esprimere la
pluralità di utilità disomogenee che il cortile può esprimere nel contesto
delle diverse unità immobiliari condominiali 136. Allo stesso modo, intercapedini 137 e sottotetti 138 possono esprimere specifiche utilità in favore
dei proprietari delle unità immobiliari che vi hanno accesso. Gli stessi
balconi sono al contempo parte degli appartamenti da cui vi si accede
ed elemento decorativo della facciata.
Ben può accadere, quindi, che allo stesso elemento architettonico corrisponda, al contempo, una parte comune e una parte oggetto di proprietà individuale.
Allora, può rivelarsi impossibile stabilire se una certa porzione di edificio
o un certo elemento architettonico possa considerarsi una parte comune – ai fini della ripartizione delle spese o della determinazione delle
modalità d’uso – senza che si specifichi qual è l’utilità, ossia la funzione,
di volta in volta considerata 139.
Pertanto, l’unico modo per stabilire quali siano, in base alla legge, le
parti comuni consiste nell’accertare quali siano, in base alla legge, le
funzioni comuni.
La questione potrebbe apparire di mero fatto: si è citata sopra la illuminante frase di un autorevole studioso, il quale ha affermato che la legge
si conforma alla realtà, «la assume in una posizione recettiva»140.
136
Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, cit.
Cass., 31 ottobre 2014, n. 23304, ritiene illegittima l’apertura da parte del costruttore di due nuovi varchi
d’accesso alle intercapedini. È significativo che dalla sentenza non si possa risalire alla ragione per la quale il
costruttore avesse realizzato detti varchi. Tutta la questione è impostata in termini di astratta titolarità di
porzioni di edificio.
138
Nei sottotetti, alla funzione di isolamento termico (che curiosamente la giurisprudenza maggioritaria ritiene avvantaggi esclusivamente l’ultimo piano anziché l’intero edificio) può sommarsi quella di vero e proprio vano parte di altra unità immobiliare o destinato a servizi comuni (ex multis, Cass., 20 giugno 2002, n.
8968, in Riv. giur. edilizia, 2003, I, p. 363). Idem per le intercapedini che si trovano tra il piano di posa delle
fondazioni e la prima soletta del piano interrato (Cass., 17 marzo 1999, n. 2395) o quelle che circondano e
proteggono l’edificio dall’umidità.
139
M. COSTANTINO, Il condominio fra proprietà, gestione e responsabilità, in Rass. locazione e cond., 2004, p.
208, proprio con riferimento all’elenco contenuto nell’art. 1117 c.c. e alla conflittualità sulle parti comuni
scrive che «nella realtà, non esistono le cose, ma le funzioni».
140
Vedi nota 74.
137
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52
Capitolo I
Sembrerebbe, cioè, che per stabilire se si è in presenza di una parte comune sia sufficiente verificare, in concreto, se una certa parte
dell’edificio – sulla base della conformazione dell’edificio o del titolo –
sia chiamata a esprimere una utilità in favore di una pluralità di unità
immobiliari.
I fatti dimostrano che un’indagine di questo tipo non sempre è sufficiente.
Per esempio, siamo abituati a pensare che il tetto sia una parte comune
perché assolve alla funzione di copertura dell’intero edificio. È pacifico,
dunque, che se si verificano infiltrazioni nell’appartamento all’ultimo
piano, tutti i condomini dovranno farsi carico delle riparazioni necessarie per ristabilire l’efficienza delle opere di impermeabilizzazione. Non si
può negare – tuttavia – che i proprietari delle unità immobiliari ai primi
piani non subiscano alcun danno da piccole macchie di umidità
all’ultimo piano. La riparazione, insomma, potrebbe di fatto non rivelarsi
utile per loro. La ragione per la quale essi devono ugualmente contribuire alle spese per la riparazione consiste nel fatto che le loro unità immobiliari si trovano ad essere protette dall’umidità esterna proprio perché
sovrastate da altre unità immobiliari. Non sarebbe giusto che usufruissero di questa utilità, lasciando al proprietario dell’ultimo piano, per intero, le spese per l’impermeabilizzazione
Lo stesso concetto può esprimersi in termini più precisi affermando che
la legge considera comune e ugualmente importante per tutti – indipendentemente dalla dislocazione delle singole unità immobiliari su un
piano più o meno alto da terra – la funzione di copertura e impermeabilizzazione della sommità dell’edificio.
Altrettanto può ripetersi per i pilastri e i muri portanti, che si ritengono
utili a tutte le unità immobiliari allo stesso modo, benché di fatto si rivelino maggiormente utili – o quantomeno utili per una maggior altezza – per
le unità immobiliari dislocate ai piani più alti: la funzione portante delle
strutture e quella di protezione o chiusura dei muri perimetrali sono per
legge comuni e ugualmente importanti per tutte le unità immobiliari, indipendentemente dalla dislocazione delle unità immobiliari nell’edificio.
È vero che nessuna disposizione di legge prevede espressamente quanto
detto, ma è altrettanto vero che esistono chiari e inequivocabili indici
normativi in tal senso: la menzione, tra gli esempi di parti comuni, del
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
53
tetto, dei muri maestri, delle scale eccetera è incompatibile con una diversa interpretazione della norma.
La legge, dunque, in materia di condominio, non recepisce puramente e
semplicemente le funzioni concretamente assolte dagli elementi architettonici che compongono l’edificio, ma talvolta se ne discosta. Accanto
al criterio che potremmo definire dell’utilità concreta o effettiva – determinata sulla base della conformazione dell’edificio o del titolo contrario – per identificare le parti comuni e determinare il loro modo di essere comuni deve essere considerato anche il criterio dell’utilità giuridica, che opera nei casi in cui il legislatore abbia ritenuto che tutti i condomini – in quanto tutti beneficiari delle economie conseguenti alla conformazione di un certo organismo edilizio o sulla base di considerazioni
di politica del diritto 141 – debbano essere considerati fruitori di una determinata utilità.
Alla luce di quanto detto, risulta davvero incomprensibile l’orientamento
giurisprudenziale che ritiene i sottotetti oggetto di proprietà individuale
laddove assolvano esclusivamente alla funzione di isolare termicamente la
sommità dell’edificio: la funzione di isolamento, si ripete in numerose sentenze, avvantaggia unicamente le unità immobiliari dell’ultimo piano, in
aperta contraddizione con quanto pacificamente si ritiene a proposito di
tetti142.
Si osserva, infine, che – con riferimento agli impianti comuni – la recente
novella, ampliando l’art. 1117 c.c., ha dichiarato oggetto di proprietà individuale i soli collegamenti a valle del punto di diramazione alle singole
unità immobiliari e ha chiarito che in caso di impianti unitari – ossia privi
di diramazioni perché costituiti da fasci di cavi o di tubi – l’intero collegamento sino alla singola utenza deve considerarsi comune, benché – come
è evidente – di fatto serva unicamente l’unità immobiliare cui conduce. Si
tratta, con tutta evidenza, di un altro caso in cui, ai fini della valutazione
dell’utilità delle parti comuni e della ripartizione delle spese, è parso ragionevole prescindere dalla concreta utilità che una certa parte comune
141
Una soluzione di compromesso, per esempio, si è adottata in tema di spese per le scale: non si è adottato
né il criterio dell’utilità concreta, che avrebbe portato a risultati molto gravosi per i proprietari dei piani alti,
né per la completa irrilevanza dell’altezza del piano. Nella Relazione al Codice Civile, infatti, testualmente si
afferma che il criterio è stato adottato «per non gravare troppo sui proprietari dei piani più alti» (si rinvia, sul
punto, al cap. 5, par. 4).
142
Vedi nota 138 nonché, tra le sentenze che ripetono una massima ormai tralaticia, da ultimo, Cass., 12
agosto 2001, n. 17249 e, da ultimo, sebbene il motivo del ricorso fosse inammissibile per ragioni di procedura, Cass., 23 giugno 2015, n. 12959.
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54
Capitolo I
arreca alla singola unità immobiliare isolatamente considerata, e tener
conto del fatto che la particolare conformazione dell’edificio condominiale serve a consentire a tutti i condomini di realizzare economie 143.
In conclusione, occorre rimarcare che il criterio dell’utilità giuridica costituisce l’unica vera specificità – sul piano dell’individuazione dei beni –
del fenomeno condominiale rispetto agli altri rapporti di vicinato. In
molti altri casi la legge richiama i vantaggi o le utilità, ma sempre con riferimento alla effettiva funzione svolta da una certa opera di interesse
comune per una pluralità di vicini: si pensi all’art. 917 c.c., dettato a
proposito di acque private 144, in cui si legge che «tutti i proprietari, ai
quali torna utile che le sponde e gli argini siano conservati o costruiti e
gli ingombri rimossi, devono contribuire nella spesa in proporzione del
vantaggio che ciascuno ne ritrae», o all’art. 1060, co. 3, c.c., che, in materia di servitù, dispone che «se (…) le opere giovano anche al fondo
servente, le spese sono sostenute in proporzione ai rispettivi vantaggi».
La ragione di una tale specificità deve essere rintracciata nell’unitarietà
dell’organismo edilizio condominiale, la cui efficienza economica rispetto alla realizzazione di edifici unifamiliari isolati è valutata complessivamente al momento della progettazione, e non con riferimento a ciascuna unità immobiliare: per esempio, può risultare opportuno, anche al fine di favorire la diffusione di determinate tipologie edilizie, che mediante il criterio dell’utilità giuridica i maggiori vantaggi concreti di cui beneficiano le unità immobiliari meno alte o più riparate siano variamente
distribuiti per legge tra tutti i condomini. Non pare, tuttavia, che le norme sulle quali si fonda l’utilità giuridica di determinati elementi architettonici debbano essere considerate inderogabili: una ulteriore figura di titolo contrario potrebbe disporre diversamente, giungendo anche a dar
vita a utilità giuridiche di origine convenzionale, purché sulla base di ragionevoli valutazioni di tipo analogo a quelle che hanno indotto il legislatore a discostarsi dal criterio dell’utilità concreta. In casi del genere il
titolo contrario finisce per identificarsi con la diversa convenzione in or-
143
Sul punto si rinvia al cap. 5, par. 3.
M. COSTANTINO, Sfruttamento delle acque e tutela giuridica, Napoli, 1975, p. 72 ss., mette in luce le profonde analogie, sul piano dei beni, tra disciplina delle acque private e disciplina del condominio. È il caso di
ricordare che, per effetto dell’art. 1, D.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238, attualmente appartengono allo Stato e
fanno parte del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi
o cisterne.
144
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
55
dine alla ripartizione delle spese cui si riferisce l’art. 1123, co. 1, c.c.
(cap. 5, par. 3).
9. I diritti sulle parti comuni: il significato della proporzione tra diritto
e valore
Esaminati i criteri che presiedono all’individuazione delle unità immobiliari condominiali, occorre ora occuparsi più specificamente della situazione di (con)titolarità che si riscontra con riferimento alle parti comuni 145. A tal fine, non si può prescindere dalla norma in cui lapidariamente si legge che il diritto sulle parti comuni è proporzionato al valore delle
parti oggetto di proprietà individuale (art. 1118, co. 1, c.c.).
Le recenti modifiche apportate alla norma migliorano il grado di appropriatezza tecnica del linguaggio utilizzato, ma non ne chiariscono il significato 146.
La norma sembra distribuire frazioni del diritto di proprietà sulle parti
comuni tra i condomini secondo una certa proporzione. Sennonché, per
le ragioni esposte, le parti comuni non possono essere considerate – né
singolarmente né, tantomeno, in forma aggregata – beni in senso giuridico e, come tali, oggetto di autonomi diritti: la concorrenza di più diritti
di proprietà è solo il riflesso, sul piano della titolarità, del fatto che alcune parti dell’edificio sono al contempo parte di più unità immobiliari:
come si è detto, nel condominio prima che una concorrenza di diritti si
riscontra una sovrapposizione di beni 147.
Se ne dovrebbe ricavare che la misura del diritto di ciascun condomino
sulle parti comuni deve necessariamente riflettere la misura delle utilità
concrete o giuridiche espresse da quella parte comune nel contesto della propria unità immobiliare.
Al fine, dunque, di disciplinare secondo criteri ragionevoli gli interessi
dei condomini sulle parti comuni, bisognerebbe misurare le utilità (necessariamente incomplete) che quelle parti comuni esprimono in favore
di ciascuna unità immobiliare condominiale e, sulla base delle quantità
145
Vedi precedente par. 3.
L’art. 3 della L. 11 dicembre 2012, n. 220, «Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici», pubblicata sulla G.U. n. 293 del 17 dicembre 2012 (le nuove norme sono entrate in vigore il 18 giugno 2013), oltre a
sostituire la locuzione di unità immobiliare a quella di piano o porzione di piano, ha sostituito le parole «cose
comuni» con le parole «parti comuni».
147
Vedi il precedente par. 3.
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Capitolo I
rilevate, distribuire il potere decisionale all’interno del gruppo dei condomini e ripartire i relativi oneri o gli eventuali frutti.
Risulterebbe irragionevole ammettere che i segnalati profili possano seguire strade diverse. La quantità di utilità che una certa parte comune
esprime in relazione a ciascuna unità immobiliare, cioè, deve fornire la
misura del peso del voto in assemblea e quella della partecipazione alle
spese. Altrimenti, si finirebbe con l’affermare che alcuni decidono delle
spese che altri devono sostenere o che qualcuno deve sopportare spese
utili a qualcun altro 148: la misura del concorso nei diritti sulle parti comuni esprime e riassume, sul piano della titolarità, i criteri per la risoluzione delle questioni concrete appena segnalate 149.
Il dato essenziale dal quale prendere le mosse al fine di cogliere il significato della norma, quindi, resta la necessità che il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni corrisponda alla quantità di utilità espresse
da ciascuna parte comune nel contesto della propria unità immobiliare.
Occorre verificare, a questo punto, il senso della proporzione che la legge ha inteso istituire tra diritto e valore.
In proposito, è bene rilevare che il valore cui si riferisce la norma non è
propriamente il valore di mercato, che resterebbe legato alle contingenti quotazioni immobiliari. Il riferimento sembra piuttosto a un tipo di valore che si avvicina al valore d’uso, inteso – tuttavia – in senso obiettivo 150. L’art. 68, disp. att., c.c., infatti, dispone che nella redazione della
tabella dei valori non si debba tener conto né del valore locatizio, soggetto a variazioni di mercato, né dei miglioramenti e dello stato di manutenzione di ciascuna unità immobiliare, che dipendono dall’autonoma
e soggettiva iniziativa di ciascuno 151.
148
Teorizza, invece, che una cosa è il problema dell’appartenenza e altra è quella delle spese G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 486.
149
R. CORONA, Contributo alla teoria del condominio degli edifici, Milano, 1973, p. 220 ss., molto efficacemente afferma che la quota nel condominio – a differenza di quanto accade per la comunione – rappresenta un mero strumento tecnico di cui si avvale la legge per misurare il concorso nelle spese e la partecipazione alla gestione delle cose comuni. L’Autore (ivi, p. 90 ss.) giunge alle conclusioni illustrate nel testo facendo leva sull’istituto del condominio parziale, del quale sottolinea la capitale importanza
nell’indagine circa la natura del condominio. Ancora, R. LUZZATTO, La comproprietà nel diritto italiano, Milano-Torino-Roma, 1908, p. 77, significativamente afferma che nel condominio «il concetto di funzione
sostituisce quello di quota».
150
Non a caso nella scienza economica il valore d’uso è anche indicato come valore d’utilità. In particolare, ci
si riferisce all’utilità soggettiva e individuale per studiare il comportamento sul mercato di chi è portatore di
un determinato bisogno. Nel nostro caso, invece, si tratta di istituire un rapporto di valore d’utilità tra beni
che, prescindendo dai bisogni soggettivi di ciascun proprietario, risulti obiettivato.
151
G. BRANCA, op. cit., p. 400 ss., ritiene che occorre riferirsi al valore delle singole unità immobiliari allo stato
grezzo, argomentando proprio dal disposto dell’art. 68 disp. att. c.c. Già nel corso dei lavori preparatori al
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
57
Si tratta, insomma, di un valore che traduca in termini quantitativi le utilità espresse da ciascuna unità immobiliare. Non a caso il valore d’uso,
nella scienza economica, è anche denominato valore d’utilità. Tanto più
che raramente detto valore si esprime in termini monetari, anche perché quel che importa è il rapporto tra i valori e non la loro determinazione in termini assoluti.
Il contenuto della norma, quindi, può esprimersi affermando che il diritto sulle parti comuni è proporzionato alla quantità di utilità che ciascuna
unità immobiliare esprime.
L’affermazione sembra disattendere le premesse: il diritto sulle parti
comuni è proporzionato alle utilità espresse dalle unità immobiliari individuali e non dalle parti comuni.
Sennonché, occorre riconoscere che le utilità concrete o giuridiche
espresse dalle parti comuni in favore di ciascuna unità immobiliare – a
parità di altre condizioni – sono proporzionali alle utilità espresse da ciascuna unità immobiliare.
Una determinata parte comune, cioè, è tanto più utile per il proprietario
dell’unità immobiliare quanto maggiori sono le utilità espresse dall’unità
immobiliare stessa, a parità di altre condizioni.
Si tratta di un dato che – per quanto logico e collaudato – può risultare
anti-intuitivo per chi approccia il condominio come rapporto tra persone
interessate a usare occasionalmente un certo bene piuttosto che come
collegamento funzionale che conforma i beni e, di riflesso, i rapporti tra i
soggetti interessati all’utilizzazione di quei beni 152.
Il proprietario dell’appartamento di maggior valore dell’edificio, per
esempio, potrebbe non cogliere immediatamente la ragione della sua
maggiore partecipazione alle spese per la manutenzione del portone di
ingresso: perché mai la legge consideri quel portone “più suo” di quanto
non sia del proprietario del monovano sottostante, il quale sembra utilizzarlo allo stesso modo e nella stessa misura.
previgente codice civile fu rilevato che il valore di ciascun piano dovesse essere stimato nella sua condizione
ordinaria: la pittura, l’eleganza e gli ornamenti sono elementi accidentali che – nonostante determinino un
aumento di valore – non si possono ritenere idonei a modificare l’originario assetto delle altre proprietà. La
Commissione propose un testo in cui si precisava che nella determinazione del valore del piano non si dovesse tener conto di abbellimenti e spese di lusso (Raccolta dei lavori preparatori del Codice civile del Regno
d’Italia, VIII, Palermo-Napoli, 1866, p. 1044).
152
Sul punto, si rinvia al cap. 5, parr. 1-2.
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58
Capitolo I
La ragione risiede, per l’appunto, nell’impossibilità di valutare l’utilità
del portone disgiuntamente dal bene immobile a cui è destinato a garantire l’accesso.
È vero che la funzione del portone è omogenea per tutte le unità immobiliari: consentire l’accesso all’appartamento. È altrettanto vero, tuttavia, che l’utilità dell’accesso deve essere considerata inevitabilmente in
relazione al(le utilità espresse dal) bene cui si accede.
L’ottimo stato di conservazione dell’androne, per esempio, incide certamente sul valore di tutte le unità immobiliari, determinando un incremento di valore. È tuttavia evidente che, sul piano quantitativo, il valore aggiunto sarà maggiore – in termini assoluti – per le unità di maggior valore.
A parità di altre condizioni, dunque, l’utilità delle parti comuni è proporzionale al valore di ciascuna unità immobiliare.
Sul piano operativo, dunque, occorre stimare il valore di ciascuna unità
immobiliare e ragguagliarlo alla somma dei valori di tutte le unità immobiliari (art. 68 disp. att. c.c.). La cosiddetta tabella dei valori servirà
per la determinazione del peso del voto in assemblea e per la ripartizione delle spese 153.
Appare chiaro che, sebbene la norma si riferisca al valore dell’unità immobiliare che appartiene al singolo, non si possa che procedere a una
stima delle utilità espresse dall’intera unità immobiliare, comprensiva
delle parti comuni. È sin troppo evidente, infatti, che non è nemmeno
immaginabile una stima attendibile di un’unità immobiliare condominiale a prescindere dalle parti comuni: non è possibile valutare le utilità
espresse da un appartamento privo di scale per l’accesso, di tetto o di
fondamenta.
Ancora, sino a questo momento si è fatto riferimento al valore proporzionale come indice delle utilità delle parti comuni, a parità di altre condizioni. Può accadere, tuttavia, che alcune parti comuni, per la loro conformazione o in forza del titolo 154, siano destinate a servire le unità immobiliari condominiali in misura non proporzionata al valore di ciascuna 155. L’utilità della parte comune, in questi casi, non è proporzionata al
valore dell’unità immobiliare individuale. Il giardino comune, per esempio, esprime utilità in misura maggiore per le unità immobiliari da cui è
153
Si rinvia ancora al cap. 5, par. 8.
Vedi i precedenti parr. 5-6.
155
L’espressione è mutuata dal testo dell’art. 1123, co. 2, c.c.
154
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
59
possibile accedervi direttamente. Occorre chiedersi se, in questi casi, i
diritti su quel giardino continuino a seguire la regola della proporzione
rispetto al valore di ciascuna unità immobiliare.
Per affrontare la questione segnalata è opportuno prendere le mosse
dall’ipotesi estrema, considerando le parti comuni che non esprimono
alcuna utilità per determinate unità immobiliari.
La questione è nota come “condominio parziale” ed è stata da tempo risolta dalla giurisprudenza e affrontata dalla dottrina 156.
Per la verità, la legge del 1934 preveniva ogni disputa sull’argomento,
disponendo pianamente che la proprietà delle cose comuni può essere
comune a tutti o soltanto ad alcuni dei condomini dell’intero edificio
(art. 5, co. 1, R.D.L. 15 gennaio 1934, n. 56). Benché la norma non sia
stata trasposta nel codice civile, da tempo, ormai, si ammette che le
parti di edificio destinate all’utilità di alcune soltanto delle unità immobiliari siano oggetto di proprietà comune tra i soli condomini proprietari
di quelle unità immobiliari, i quali ne sopportano integralmente le spese
e adottano le decisioni relative alla gestione 157.
Al difetto di utilità fa riscontro il difetto di titolarità e, quindi, l’esonero
dalle spese e l’esclusione dalla partecipazione all’assemblea.
In questi casi, dunque, l’ipotesi di partenza resta confermata: quando
l’utilità della parte comune per una singola unità immobiliare è pari a
zero, sarà pari a zero anche la misura del diritto del proprietario di
quell’unità immobiliare su quella parte comune.
A questo punto, quindi, appare chiaro che la misura del diritto debba essere graduata sull’utilità anche quando questa non sia ridotta a zero, ma
semplicemente non risulti proporzionata al valore dell’unità immobiliare
156
Sull’importanza capitale del riconoscimento del condominio parziale ai fini della ricostruzione giuridica
dell’istituto del condominio degli edifici, vedi R. CORONA, op. cit., p. 90 ss. L’Autore esamina le ragioni di fondo che hanno indotto la giurisprudenza ad ammetterne la configurabilità. In giurisprudenza, ex multis, Cass.,
29 gennaio 2015, n. 1680, in Immobili e proprietà, 2015, p. 483, con nota di E. SMANIOTTO, Vendita di unità
immobiliare senza coeva cessione della comproprietà su parti comuni; Cass., 24 novembre 2010, n. 23851, in
Riv. giur. edilizia, 2011, I, p. 484; Cass., 7 giugno 2000, n. 7730, ivi, 2001, I, p. 36, con nota di P. ROLLERI, La
cassazione posa un altro mattone nella costruzione del condominio parziale; Cass., 28 aprile 2004, n. 8136;
Cass., 27 settembre 1994, n. 7885, ivi, 1995, I, p. 331. Per l’indirizzo giurisprudenziale contrario, ormai minoritario, Cass., 6 giugno 1962, n. 1743, ivi, 1962, I, p. 1916, con nota di L. SALIS, Comunione di scale destinate al
servizio di determinati appartamenti, e, più di recente, Cass., 22 febbraio 1996, n. 1357, in Giust. civ., 1996, I,
p. 1309.
157
Da ultimo, Cass., 9 aprile 2014, n. 8836, ha rigettato l’impugnativa della deliberazione in materia di riscaldamento proposta dal condomino che, non servito dall’impianto centralizzato, lamentava la sua mancata
convocazione all’assemblea. La sentenza si segnala perché afferma il principio di corrispondenza tra il potere
decisionale del singolo condomino e la sua partecipazione alla spesa.
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60
Capitolo I
individuale. Tanto più che la stessa legge del 1934 ora citata disponeva
che «la maggiore o minore estensione del diritto dei partecipanti si desume dalla natura e dalla destinazione della cosa» o «dal valore proporzionale dei singoli piani o parti di piano» (art. 5, co. 2).
Il valore proporzionale, dunque, è solo un indice dell’utilità proporzionale di ciascuna parte comune: cessa di essere l’unico parametro utilizzabile per determinare la quantità di utilità espresse dalle parti comuni in favore di ciascuna unità immobiliare allorché si tratti di parti
comuni destinate a servire le singole unità immobiliari in misura diversa. Per definire l’assetto della titolarità di dette parti comuni – come il giardino cui si è accennato nell’esempio – occorrerà quantomeno applicare ai valori proporzionali dei coefficienti correttivi, che consentano di tener conto delle maggiori utilità espresse dalla parte comune di volta in volta presa in considerazione in favore di una determinata unità immobiliare. In questo modo i diritti su dette parti comuni, la partecipazione alle relative spese e la distribuzione del potere
decisionale per la gestione di esse saranno sempre determinati in ragione della diversa quantità di utilità che esse esprimono per ciascuna
unità immobiliare.
La questione delle spese è stata espressamente risolta nel senso indicato dal co. 2 dell’art. 1123 c.c., che impone di tener conto dell’utilità di
ciascuna parte comune per ciascuna unità immobiliare (si rinvia, sul
punto, al cap. 5).
Quanto al profilo del potere decisionale, invece, si registrano opinioni
contrastanti.
I fautori della cosiddetta teoria collettivistica in materia di condominio,
infatti, hanno considerato le parti comuni come «insieme aggregato da
una funzione unitaria» 158, oggetto di un unico diritto di proprietà collettiva spettante per quote ai condomini. Conseguentemente, hanno affermato che a ciascun condomino spetta la stessa “quota” di diritto su
tutte le parti comuni 159.
158
La locuzione è mutuata da Cass., 2 febbraio 1995, n. 1255.
G. BRANCA, op. cit., p. 400, afferma di non vedere una vera e propria differenza tra le cose che si vorrebbe
trattare in un modo e le cose che si vorrebbe trattare in altro modo. L’Autore, inoltre, ritiene inammissibile
che la misura del diritto possa risolversi col criterio dell’uso, inteso come mutevole stato di fatto. Altro, tuttavia, è l’uso di fatto o il concreto godimento, altro sono le utilità obiettivamente espresse da una determinata parte comune. Ciascun condomino, come è ovvio, potrà decidere di giovarsi in misura maggiore o minore delle utilità che gli spettano a seconda delle sue inclinazioni personali.
159
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
61
In questo modo, tuttavia, hanno finito con l’ammettere «la stranezza che
alle spese riguardanti alcune cose concorrono solo taluni condomini,
mentre esse sono deliberate non soltanto da loro ma anche dagli altri (…)
e non è escluso che questi altri costituiscano precisamente la maggioranza»160.
L’approccio individualistico alla natura del condominio – che riconosca
all’organizzazione un carattere meramente strumentale rispetto alla
realizzazione degli interessi di ciascun condomino – consente, invece,
di affermare senza difficoltà che la misura del diritto su ciascuna parte
comune può e deve variare in relazione alla quantità di utilità che essa
esprime in relazione a ciascuna unità immobiliare individuale 161.
Un condomino, per esempio, può essere proprietario nella misura di un
terzo del giardino e nella misura di un dodicesimo del lastrico solare e
può non essere affatto proprietario di una scala, in funzione dell’utilità
che ciascuna di queste parti comuni esprime per la sua unità immobiliare. La misura nella partecipazione alle spese e il peso del voto in assemblea, dunque, varieranno in relazione all’oggetto della spesa o della votazione.
Il senso precettivo dell’art. 1118 c.c., quindi, sembra proprio quello di
istituire un principio di necessaria proporzionalità tra utilità concreta o
giuridica delle parti comuni, misura del diritto sulle parti comuni, potere
decisionale e quota di partecipazione alle spese, salvo voler stravolgere
l’intero sistema dei diritti reali.
160
G. BRANCA, ivi, p. 485 s., difende la sua tesi rintracciando un interesse dei condomini della scala A allo stato di manutenzione della scala B. Tuttavia, anche ammesso che un interesse di questo genere esista, esso di
certo è di intensità incomparabilmente inferiore rispetto a quello dei condomini della scala B all’utilizzazione
della stessa scala B.
161
R. CORONA, op. cit., p. 50, nonché passim, a ragione indirizza la sua indagine alla ricerca dell’utilità effettiva
offerta dalle parti comuni: «un’utilità non meramente astratta, eventuale o artificiosa». Sottolinea che – se
l’interesse costituisce il fondamento e il limite intrinseco della tutela giuridica – il riconoscimento della proprietà comune sulle parti comuni richiede una valida giustificazione sul piano dell’interesse. Su queste basi
fonda il riconoscimento ex lege del condominio parziale, ma afferma anche che non si ammette un diritto
soggettivo privo o dotato di un contenuto più ampio del corrispondente interesse sottostante. Ebbene, posto che l’interesse giuridicamente protetto del proprietario consiste nell’utilizzare il bene secondo la sua natura giuridica (M. COSTANTINO, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli, p. 168 ss., nonché passim), appare una via obbligata l’affermazione del principio di necessaria corrispondenza (o, per esprimersi
con la terminologia del codice, proporzionalità) tra quantità di utilità espresse dalle parti comuni nel contesto di ciascuna unità immobiliare e “quantità” del diritto sulle parti comuni a esse singolarmente connesso.
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62
Capitolo I
10.
La misura del diritto stabilita dal titolo e l’utilità delle parti comuni
Per tutto quanto detto, la misura del concorso dei diritti non può che riflettere le utilità espresse dalle parti comuni nel contesto di ciascuna
unità immobiliare.
Se, cioè, una determinata parte comune incrementa maggiormente il
valore di determinate unità immobiliari sulla base di quanto risulta dalla
situazione dei luoghi o dal titolo, a quella unità immobiliare risulta collegata una “quota” proporzionalmente maggiore di diritti su quella parte
comune.
L’ultimo inciso dell’art. 1118, co. 1, c.c., tuttavia, sembra alludere a un
titolo contrario che si limita a collegare a determinate unità immobiliari
una “quota” maggiore (o minore) di diritti sulle parti comuni in virtù di
una nuda volontà delle parti diretta a conseguire questo effetto giuridico. L’impressione è rafforzata dalla novella del 2012, che ha aggiunto un
inciso iniziale all’art. 68 disp. att. c.c., in cui si specifica che la tabella millesimale esprime il valore proporzionale delle unità immobiliari «ove
non precisato dal titolo ai sensi dell’art. 1118».
È noto, tuttavia, che la volontà degli effetti di un atto di autonomia privata non è un dato giuridicamente rilevante 162. La nuda volontà di un effetto, poi, non consente nemmeno di individuare gli interessi oggetto
dell’atto di autoregolamento al fine di vagliarne la meritevolezza alla
stregua dell’ordinamento giuridico 163.
Ebbene, gli interessi che giustificano l’attribuzione in una certa misura di
diritti sulle parti comuni non possono che riflettere le utilità concrete o
giuridiche espresse dalle stesse parti comuni, anche quando nell’atto si
adottasse il linguaggio della titolarità.
È evidente, allora, che un titolo contrario ai sensi dell’art. 1118 c.c. non
avrebbe senso in relazione a quelle parti comuni che esprimono utilità
connesse unicamente alla loro obiettiva conformazione e alla loro attitudine a incrementare il valore delle unità immobiliari alle quali risulta162
Sul punto ci si limita a richiamare R. SCOGNAMIGLIO, Negozio giuridico. I) Profili generali, in Enc. Giur., XX,
Roma, 1990, p. 4 ss., il quale rileva che le parti del negozio giuridico mirano esclusivamente a realizzare un
risultato pratico: gli effetti sono determinati dalla valutazione normativa di un fenomeno proprio della realtà
sociale. D’altra parte, se si attribuisse rilevanza alla volontà degli effetti, qualsiasi atto, pur privo di una funzione socialmente apprezzabile, potrebbe produrre gli effetti propri di un negozio giuridico.
163
Con specifico riguardo al titolo contrario, si rinvia ai precedenti parr. 6, 8 e 10 nonché agli Autori ivi citati.
Sul vaglio di meritevolezza in materia di diritti reali in genere, L. BIGLIAZZI GERI, Oneri reali e obbligazioni propter rem, in Tratt. Cicu-Messineo, XI, 3, Milano, 1984, p. 63 ss.
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
63
no funzionalmente collegate: si pensi agli elementi decorativi della facciata o alla recinzione comune 164.
Nei casi in cui, invece, le parti comuni esprimono utilità che possono essere variamente distribuite tra i condomini, allora alla ripartizione delle
utilità può provvedere il titolo, in deroga al criterio del valore proporzionale 165.
Se, per esempio, al proprietario del piano attico è attribuita per un quarto la proprietà comune del campo da tennis condominiale, benché la
sua unità immobiliare rappresenti un decimo della sommatoria dei valori delle unità immobiliari, allora quel titolo contrario avrà il significato di
assicurare le utilità espresse dal campo da tennis nella misura di un
quarto al proprietario del piano attico. Occorrerà tenerne conto nel disciplinare le modalità d’uso di quella parte comune e nella ripartizione
delle spese. Si pensi, ancora, all’assegnazione di un certo numero di posti auto nel parcheggio comune: i diritti di ciascun condomino sul parcheggio non potranno che essere proporzionali al numero di posti auto
assegnati a ciascuno 166.
Il titolo cui si riferisce la norma, dunque, sarà pur sempre un titolo contrario conformativo 167 e non potrà ridursi a mera manifestazione della
nuda volontà di attribuire astratti diritti sulle parti comuni in misura non
corrispondente alle utilità da esse espresse nel contesto di ciascuna unità immobiliare. In particolare, si tratterà di un titolo che determina
quantitativamente il godimento di determinate parti comuni: le modalità d’uso saranno in ogni caso stabilite dal regolamento di condominio
assembleare, sempre modificabile con le maggioranze prescritte 168.
164
Salvo che, nel linguaggio della titolarità, si sia voluto derogare alle norme che considerano non l’utilità
concreta di una parte comune, ma la sua utilità giuridica, entro i limiti di ragionevolezza segnalati al precedente par. 8.
165
Sul punto, si rinvia al cap. 4, par. 18.
166
Cass., 16 gennaio 2014, n. 820, incredibilmente afferma che l’assemblea possa distribuire i posti auto ricavati nel cortile in ragione di uno per ciascuna unità immobiliare con una deliberazione che modifica il regolamento di condominio assembleare. Si veda la nota critica di M. BIASI, Criteri di ripartizione del godimento e
modalità d’uso delle parti comuni, in Giustiziacivile.com, 3, 2015.
167
Vedi precedente par. 6.
168
Si rinvia, sul punto, al capitolo 3, par. 2.
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64
11.
Capitolo I
L’irrinunciabilità dei diritti sulle parti comuni
Il testo originario del co. 2 dell’art. 1118 c.c. disponeva che il condomino
non potesse sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per le parti
comuni rinunziando al diritto su di esse.
La novella del 2012 169 ha sostituito detto comma con tre distinti commi.
In particolare, ha dichiarato espressamente irrinunciabili i diritti sulle
parti comuni, ha disposto che i condomini non possano sottrarsi
all’obbligo di contribuire alle spese e ha disciplinato il cosiddetto distacco dall’impianto di riscaldamento centralizzato.
Il testo originario del co. 2 dell’art. 1118 c.c., in effetti, aveva dato luogo
a molteplici difficoltà interpretative.
La norma era sembrata dettata dalla preoccupazione di affermare chiaramente l’inammissibilità, in relazione alle parti comuni nel condominio,
di qualsiasi istituto giuridico analogo alla rinunzia liberatoria – prevista
in materia di comunione (art. 1104 c.c.), di muro comune (art. 882 c.c.) e
di muro di cinta (art. 888 c.c.) – o all’abbandono del fondo servente (art.
1070 c.c.).
Parte della dottrina, tuttavia, aveva teorizzato che la norma non impedisse la rinuncia in sé, ma ne paralizzasse i soli effetti con riferimento alla ripartizione delle spese 170. La rinuncia al diritto sulle cosiddette parti
necessarie all’uso comune avrebbe determinato l’effetto della perdita
del diritto per il rinunziante, ma avrebbe lasciato in vita una comunione
di godimento, sicché sarebbero rimasti inalterati i criteri di ripartizione
delle spese 171.
Nessuno, tuttavia, aveva ben chiarito il senso di una siffatta rinuncia. Intesa nei termini ora esposti, infatti, essa si sarebbe tradotta nel trasferimento in favore degli altri condomini di una vuota titolarità formale di parti
comuni. D’altra parte, restando oscuri gli interessi perseguiti con l’atto di
rinuncia, risultava impossibile anche vagliarne la meritevolezza di tutela 172.
169
Il testo originario dell’art. 1118 c.c. è il seguente: «Il diritto di ciascun condomino sulle cose indicate
dall’articolo precedente è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene, se il titolo
non dispone altrimenti.
Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione».
170
In questo senso, L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V, 3, Torino, 1956, p. 16 ss., nonché
TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 76 ss.
171
In questo senso L. SALIS, op. ult. cit., p. 152.
172
In tal senso G. BRANCA, op. cit., p. 409, il quale si chiede che senso abbia rompere il rapporto con la cosa
comune di cui si dovrebbe poi ugualmente rispondere ogni volta che occorra provvedere alla sua conservazione. Nello stesso senso sembra orientato D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino,
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L’individuazione dell’unità immobiliare condominiale
65
Inoltre, sarebbe stato necessario chiarire anche se essa avrebbe determinato l’alterazione del rapporto tra i valori delle unità immobiliari e
della distribuzione del potere decisionale tra i condomini in assemblea
(fermi restando i criteri di ripartizione delle spese).
La tesi della inammissibilità della rinuncia appariva, pertanto, largamente preferibile, posto che – in ogni caso – sarebbe apparso davvero assurdo riconoscere che il peso per valore del voto in assemblea potesse
essere rimesso alla iniziativa unilaterale del singolo condomino, nonostante le disposizioni dell’art. 1136 c.c. fossero state dichiarate espressamente – e lo sono tuttora – inderogabili dall’art. 1138, co. 4, c.c. 173.
È appena il caso di rilevare, inoltre, che una tale rinuncia avrebbe finito
col conformare in modo anomalo l’unità immobiliare interessata, con effetti opponibili ai terzi e ai successivi aventi causa 174. Non avrebbe avuto
senso, per esempio, ritenere che il condomino rinunziante potesse ritenersi esonerato dalla responsabilità per la rovina dell’edificio ex art.
2052 c.c. per difetto di titolarità delle parti comuni crollate, che egli, tuttavia, avesse continuato a utilizzare e delle cui spese avesse seguitato a
rispondere nonostante la rinuncia.
Allora, la rinuncia al diritto sulle parti comuni avrebbe potuto avere un
senso solo se si fosse tradotta nella rinuncia alle utilità espresse da quelle
parti comuni. Ove, cioè, fosse stata diretta a modificare l’unità immobiliare di proprietà del rinunziante, escludendone alcune parti comuni che vi
erano originariamente ricomprese. Dette parti comuni sarebbero rimaste
parti delle altre unità immobiliari, con conseguenti variazioni della “misura” del concorso dei diritti e alterazione dei rapporti tra i valori: delle utilità dismesse, infatti, avrebbero potuto giovarsi i proprietari delle altre unità immobiliari. Si pensi, per esempio, al caso in cui un condomino rinunci
alla proprietà – e conseguentemente al godimento – del giardino comune. L’anomalia sarebbe rimasta solo in ordine al riparto delle spese.
Anche in queste ipotesi, tuttavia, sarebbe parso preferibile ritenere
inammissibile la rinuncia perché, altrimenti, si sarebbe dovuto ritenere
1960, p. 82, il quale esclude che si possa validamente rinunciare alle parti comuni separatamente dall’unità
immobiliare oggetto di proprietà individuale. In ordine al vaglio di meritevolezza, vedi supra nota 163 e ivi richiami.
173
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che le norme richiamate dall’art. 1138, co. 4, c.c. – tra le quali
è menzionato l’art. 1136 c.c. – non possono essere derogate nemmeno da una clausola contrattuale del regolamento (ovvero da un contratto tra tutti i condomini). Sul punto si rinvia al cap. 3. In giurisprudenza, vedi
Cass., 9 novembre 1998, n. 11268, in Riv. giur. edilizia, 1999, I, p. 710.
174
Sul punto si rinvia al cap. 5, par. 7, nonché a L. BIGLIAZZI GERI, op. cit., p. 63 ss.
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66
Capitolo I
che le unità immobiliari degli altri condomini potessero risultare modificate – se vogliamo ampliate – per effetto dell’iniziativa unilaterale del
rinunziante. La valutazione circa i vantaggi e gli oneri che importa la
modificazione – come l’acquisto – di un diritto reale, invece, non può
che essere rimessa all’autonomia del proprietario-acquirente 175.
Diversa l’ipotesi di rinuncia in favore di alcuni o di un solo condomino
consenziente. In tal caso, però, bisogna riconoscere che la rinuncia si
traduce inevitabilmente in un contratto di trasferimento di diritti sulle
parti comuni.
Il problema, quindi, è estraneo alla materia della rinuncia e attiene alla
possibilità di disporre dei diritti sulle parti comuni in favore di altri condomini o di terzi 176.
175
R. SACCO, Il contratto, in Tratt. Rescigno, X, Torino, 1982, p. 76 ss.; A. ASTONE, Contratto negozio regolamento. Contributo allo studio del negozio unilaterale, Milano, 2009, P. 212, nt. 119, rileva che – nonostante la
presenza di alcuni indici normativi che deporrebbero in senso contrario – i contratti a effetti reali comportano pur sempre oneri e responsabilità a carico del beneficiario e, pertanto, esclude che essi possano perfezionarsi mediante il procedimento di conclusione del contratto ex art. 1333 c.c., fondato sul mancato rifiuto
dell’oblato.
176
Alla questione si accennerà nel cap. 4, par. 15.
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CAPITOLO II
IL GRUPPO E L’AMBITO OGGETTIVO DI OPERATIVITÀ
DELL’ORGANIZZAZIONE CONDOMINIALE
SOMMARIO: 1. L’edificio come ambito oggettivo di operatività
dell’organizzazione condominiale - 2. La divisione di condominii come istituto
riferito alla proprietà condominiale. Critica - 3. La divisione di condominii come istituto riferito all’organizzazione condominiale - 4. La determinazione
dell’ambito di operatività oggettiva dell’organizzazione come prerogativa del
gruppo - 5. I condominii-organizzazione atipici: dal condominio negli edifici al
condominio di condominii - 6. Le norme applicabili ai condominii atipici e il vaglio di compatibilità
1. L’edificio come punto di riferimento per determinare l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
Come è stato da più parti osservato, il termine condominio indica due
distinte realtà giuridiche: la proprietà condominiale e l’organizzazione
condominiale 1.
In questo capitolo ci si propone di verificare come si determina l’ambito
oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale. Con riferimento a quali utilità comuni a più unità immobiliari, cioè, sorgano i poteri e i doveri che la legge assegna all’organizzazione condominiale, al
gruppo 2.
Si è già rilevato nel capitolo precedente che la proprietà comune delle
parti comuni costituisce l’effetto, sul piano della titolarità, della destinazione di determinate parti dell’edificio condominiale all’utilità delle diverse unità immobiliari in esso comprese 3.
Si è anche detto che spesso, tuttavia, vi sono parti comuni destinate
all’utilità di un ristretto gruppo di unità immobiliari comprese
nell’edificio. Dette parti comuni, perciò, sono oggetto di proprietà comune solo tra i proprietari di quelle unità immobiliari: è il caso del cosiddetto condominio parziale 4. Allo stesso modo, è possibile che si ri1
R. CORONA, Il condominio negli edifici, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO, U. MORELLO, III,
Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE, Milano, 2012, p. 11.
2
La parola gruppo è usata in senso atecnico. Non si allude ad alcun tipo di comunità o formazione sociale,
ma si intende indicare solo l’insieme dei proprietari di beni che presentano parti comuni.
3
Vedi cap. 1, par. 3.
4
Vedi cap. 1, nota 156.
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Capitolo II
scontrino parti comuni a unità immobiliari estranee all’edificio condominiale o comprese in edifici condominiali distinti: il riferimento è ai casi
indicati generalmente come ipotesi di supercondominio 5.
Si aggiunga, inoltre, che molte parti comuni – anche quando comuni a
tutti i condomini di un certo edificio e soltanto a essi – esprimono utilità
diverse in favore di determinate unità immobiliari. Il loro modo di essere
parti comuni e la misura dei diritti spettanti ai rispettivi proprietari è diversa in relazione alle diverse utilità che esprimono in favore di ciascuna
unità immobiliare. Ne discendono rilevanti conseguenze sul piano del riparto delle spese (art. 1123, co. 2, c.c.) e del potere decisionale
nell’organizzazione condominiale (il cosiddetto “peso millesimale” del
voto) 6.
La complessa situazione di collegamenti funzionali tra parti comuni e
proprietà individuali, insomma, genera un articolato assetto della titolarità delle parti comuni, che può estendersi oltre l’edificio o restare circoscritto a un ristretto gruppo di proprietari di unità immobiliari comprese
in uno stesso edificio o, ancora, atteggiarsi in modo diverso per ogni singola parte comune.
Portando il discorso alle estreme conseguenze, per ogni parte comune –
in ragione delle utilità da questa espressa in favore delle varie unità immobiliari alle quali è funzionalmente collegata – si potrebbero verificare
diverse forme di concorso di diritti di proprietà, sia sul piano dei partecipanti, sia sul piano della misura del diritto spettante a ciascuno. A ciascuna parte comune, cioè, potrebbe corrispondere uno specifico modo
d’essere della proprietà condominiale, un diverso condominio inteso
come proprietà condominiale.
A ciascun modo d’essere della proprietà condominiale, tuttavia, certamente non corrisponde una distinta e autonoma organizzazione condominiale: non è prevista una distinta sub-organizzazione per ogni condominio parziale; allo stesso modo non è affatto detto che per le parti
comuni a più edifici condominiali si debba necessariamente adottare un
apposito regolamento di condominio o nominare un amministratore 7.
Anzi, il riferimento all’edificio nell’intitolazione del Capo dedicato al
condominio e nella norma di apertura della relativa disciplina induce a
5
Da ultimo, vedi G. BORDOLLI, Il supercondominio, Milano, 2013, p. 1 ss. Sulla specifica nozione di supercondominio si tornerà nel seguito.
6
Vedi cap. 1, parr. 9.
7
R. CORONA, Il super-condominio, Milano, 1985, p. 84.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
69
ritenere che l’ordinamento abbia inteso apprestare un’organizzazione
unitaria a fronte di ogni edificio autonomamente identificabile come tale 8.
Se, per esempio, un viale dà accesso a sedici unità immobiliari comprese
in due distinti edifici, non è affatto detto – anzi pare doversi escludere –
che ciascun proprietario possa pretendere la nomina di un amministratore ai sensi dell’art. 1129 c.c. Anche se quella del viale è una proprietà
condominiale, non dà luogo a un condominio “negli edifici”. Se, ancora,
un’area situata sul retro di un edificio è comune ai soli proprietari delle
unità immobiliari al piano terra che siano in numero superiore a dieci,
nessuno di essi potrà pretendere la nomina di un amministratore e
l’approvazione di un regolamento di condominio in relazione a quella
parte comune. Ciascuno di essi potrà solo ottenere la nomina di un amministratore e l’approvazione di un regolamento per l’intero edificio,
fermo restando che alle decisioni che riguardano quell’area parteciperanno i soli proprietari del piano terra, secondo i collaudati criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia di condominio parziale.
Pare, insomma, che l’organizzazione non possa che coinvolgere l’intero
edificio perché l’edificio costituisce il punto di riferimento obiettivo cui,
per legge, fa fronte un’organizzazione unitaria: tutti i proprietari di unità
immobiliari comprese in quell’entità architettonica chiamata edificio sono ex lege organizzati in autonomo condominio.
La ragione della scelta del legislatore di dettare una disciplina specifica
per il condominio “negli edifici” e, dunque, di articolare le organizzazioni
condominiali per edifici può essere agevolmente spiegata dal fatto che,
generalmente, entro l’edificio condominiale si manifesta la gran parte
delle questioni di interesse comune tra i proprietari di più unità immobiliari che presentano parti comuni.
Apprestando un’organizzazione unitaria per ogni edificio, perciò, si limitano – per quanto possibile – le situazioni in cui vi sono parti comuni a
gruppi ristretti di partecipanti al condominio-organizzazione (cosiddetto
condominio parziale) o parti comuni anche a soggetti estranei al condominio-organizzazione (cosiddetti condominii atipici, sui quali si tornerà tra breve).
Occorre riconoscere, tuttavia, che vi sono indici normativi che, per un
8
Inoltre, nell’art. 1117 c.c. ci si riferisce alle unità immobiliari dell’edificio e l’art. 1138 c.c dispone che il regolamento è obbligatorio quando “in un edificio” il numero di condomini è superiore a dieci.
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70
Capitolo II
verso, rendono ancor più incerta la nozione architettonica di edificio e,
per altro verso, attenuano l’apparente rigidità del riferimento all’edificio
come ambito di operatività oggettivo dell’organizzazione condominiale:
si fa riferimento alla controversa disciplina della divisione dei condominii, il cui esame è imprescindibile ai fini della prosecuzione dell’indagine.
2. La divisione di condominii come istituto riferito alla proprietà condominiale. Critica
L’art. 61 disp. att. c.c. dispone che quando «un edificio o un gruppo di
edifici» «si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici
autonomi, il condominio può essere sciolto» e possono costituirsi separati condominii. Il tutto per effetto di una deliberazione approvata a
maggioranza dall’assemblea o a seguito di un provvedimento giudiziale
emesso su istanza di alcuni condomini.
La connessione dell’istituto della divisione con la determinazione
dell’ambito di operatività dell’organizzazione condominiale è evidente:
la disciplina delle vicende delle organizzazioni può certamente contribuire a chiarire quale sia l’ambito originario riferibile a ciascuna organizzazione, tanto più che l’art. 61 disp. att. c.c. si apre richiamando espressamente la situazione in cui a più edifici – sebbene costituenti un gruppo
di edifici – faccia fronte un’unica organizzazione condominiale.
Preliminarmente, però, occorre individuare a quale delle distinte realtà
giuridiche la disciplina della divisione dei condominii faccia riferimento.
Occorre accertare, cioè, se la separazione attenga alla proprietà condominiale e, solo di riflesso, all’organizzazione condominiale, oppure se riguardi unicamente l’organizzazione condominiale.
La dottrina 9 e la giurisprudenza10 prevalenti – almeno nelle affermazioni
di principio – paiono orientate decisamente per la prima soluzione. Il te9
Di vera e propria divisione parla A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 78; D.R. PERETTI GRIVA, p.
55, afferma che il legislatore avrebbe inteso ridurre i rapporti di comunione limitando alla più stretta cerchia
possibile il numero dei partecipanti alle parti comuni; L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, Torino, 1956, p. 307, riferisce lo scioglimento alla proprietà condominiale, anche se ammette che «sarebbe privo di ogni utilità far dichiarare l’esistenza di più edifici autonomi in uno stesso edificio o gruppo di edifici se
ciascuno di questi non dovesse essere poi governato in modo autonomo». Sembra, in sostanza, che la funzione dello scioglimento sia essenzialmente quella di una gestione autonoma. Tanto più che, con esso, ci si
limita a «far dichiarare l’esistenza di più edifici autonomi». G. BRANCA, op. cit., p. 419, rileva che la decisione è
rimessa alla valutazione di una maggioranza e ne ricava che la separazione involgerebbe interessi collettivi,
in un campo non lontano da quello del migliore godimento e della ordinaria amministrazione.
R. CORONA, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici, Torino, 2001, p. 122, invece, afferma il carattere ricognitivo della separazione e l’inidoneità della deliberazione a produrre effetti reali.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
71
nore letterale della disposizione, in effetti, indirizza chiaramente
l’interprete in questo senso: l’art. 61 disp. att. c.c. si riferisce alla possibilità di dividere un edificio o un gruppo di edifici in parti. Sembra scontato,
dunque, che l’oggetto della divisione siano i beni e non l’organizzazione
condominiale 11. L’art. 62, co. 1, disp. att., c.c., poi, dispone che può aversi
scioglimento del condominio anche nel caso in cui «restano in comune
con gli originari partecipanti» alcune parti comuni. Pare doversene inferire che altre parti comuni non restano tali tra tutti gli originari partecipanti, ma diventano comuni entro una cerchia più ristretta di condomini,
quelli che «possono costituirsi» in condominio separato.
10
In una risalente pronuncia della Suprema Corte, più volte e da più parti ripresa sia in dottrina sia in giurisprudenza, si legge che “il tenore della norma, riferito all’espressione edifici autonomi esclude di per sé che il
risultato della separazione si concreti in una autonomia meramente amministrativa, giacché, più che ad un
concetto di gestione, il termine ‘edificio’ va riferito ad una costruzione, la quale, per dare luogo alla costituzione di più condominii, dev’essere suscettibile di divisione in parti distinte, aventi ciascuna una propria autonomia strutturale, indipendentemente dalle semplici esigenze di carattere amministrativo”. La Suprema Corte cassa una sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva accolto la domanda di separazione di una
parte dell’edificio che “non impegnava una sola ala, ma si addentrava anche in parte dell’altra, con addentramenti spinti al di sopra e al di sotto della proprietà di altri condomini”. Nella sentenza si chiarisce, insomma, che non può farsi luogo a separazione se le parti risultanti non godano di quell’autonomia strutturale
che consenta di considerarle autonomi edifici. Per quanto il precedente sia rilevante, si deve sottolineare che
in esso si è accertato il difetto di uno dei presupposti richiesti dalla legge per lo scioglimento e che, quindi, la
natura degli effetti della divisione sulla proprietà condominiale – che si danno per scontati – non costituivano punto controverso e oggetto proprio della decisione (Cass., 18 luglio 1963, n. 1964, in Foro it., 1963, I, p.
2125). Gli stessi argomenti – in un caso analogo – sono ripresi in Cass., 1 dicembre 2010, n. 24380, ove si
chiedeva lo scioglimento di una porzione dell’edificio condominiale destinata ad albergo, che occupava solo
alcuni piani dell’edificio. La Suprema Corte ha condivisibilmente rilevato che in nessun caso alcuni dei piani
dell’edificio possono essere considerati come un edificio autonomo. Anche in questo caso, dunque, si è accertata l’insussistenza dei presupposti per lo scioglimento. Negli stessi termini, ancora una volta in un caso in
cui a chiedere la separazione era un condomino proprietario di unità immobiliari adibite ad albergo, Cass., 14
ottobre 2014, n. 21686.
Si afferma in modo netto che lo scioglimento del condominio determina il frazionamento della contitolarità
di diritti sulle parti comuni e si negano i poteri di rappresentanza processuale dell’amministratore nel giudizio in cui si chiede lo scioglimento in Cass., 23 gennaio 2008, n. 1460, in Immob. e proprietà, 2008, p. 247,
con nota di M. MONEGAT, Legittimazione processuale dell’amministratore e scioglimento del condominio.
L’annotatrice rileva che «è pacifico che la domanda di scioglimento del condominio si risolve in una domanda diretta ad ottenere la ridefinizione dei diritti di comproprietà sulle parti comuni del complesso condominiale originario, diritti di per sé attinenti alla sfera giuridica individuale di ciascun membro della collettività
dei condomini».
In modo argomentato, conclude per il carattere meramente ricognitivo, sul piano della proprietà condominiale, dello scioglimento Cass., 7 agosto 1982, n. 4256, in Foro it., 1982, p. 731, con nota di N. MAZZIA, Unità
immobiliare compresa in più edifici e scioglimento del condominio. Cass., 28 ottobre 1995, n. 11276, infine,
configura lo scioglimento del condominio come ipotesi eccezionale e, conseguentemente, esclude la possibilità della fusione di condominii. Nella stessa sentenza si precisa che l’istituzione di un supercondominio tra
più fabbricati non produrrebbe “nessuna modifica al regime delle cose comuni” poiché, vista la pacifica configurabilità del condominio parziale, “i condomini dei singoli edifici continuerebbero ad essere gli unici comproprietari delle parti comuni degli edifici stessi e come tali gli unici legittimati a decidere in ordine alla loro
gestione”.
11
Vedi Cass., 18 luglio 1963, n. 1964, in Foro it., 1963, I, p. 2125.
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72
Capitolo II
La conclusione è ulteriormente rafforzata dall’art. 62, co. 2, disp. att.,
c.c., ove è prospettato il caso in cui l’attuazione della divisione richieda
la modifica dello stato delle cose e l’esecuzione di opere su locali e dipendenze dei condominii. È persino ovvio rilevare che la divisione delle
organizzazioni non richiede mai l’esecuzione di opere.
Se, sul piano letterale, gli argomenti che inducono a riferire la divisione
o lo scioglimento alla proprietà piuttosto che all’organizzazione condominiale appaiono solidi, le conseguenze sul piano sistematico di una tale
conclusione risultano del tutto inaccettabili, sia sul piano puramente
formale, sia su quello più propriamente sostanziale 12. Riferendo lo scioglimento alla proprietà condominiale, occorrerebbe riconoscere natura
di atto di disposizione produttivo di effetti reali alla relativa delibera,
che modificherebbe l’assetto della titolarità delle parti comuni. Si verificherebbe, in sostanza, il trasferimento incrociato di diritti di proprietà
immobiliare tra i vari gruppi di condomini interessati (anche contro la
volontà di alcuni di essi 13). Eppure, l’art. 1138, co. 4, c.c. espressamente
dispone che il regolamento di condominio – che si approva con la stessa
maggioranza richiesta per la deliberazione di scioglimento – non può in
nessun caso incidere sui diritti dei singoli così come risultanti dai titoli
d’acquisto e dalle convenzioni.
Così concepita, inoltre, la deliberazione di scioglimento dovrebbe rivestire
la forma scritta richiesta per i contratti che trasferiscono diritti reali su beni
immobili14 ed essere trascritta nei registri immobiliari ai fini
dell’opponibilità ai successivi acquirenti delle unità immobiliari, anziché
seguire il regime di forma e opponibilità proprio delle delibere condominiali15. Non risulta, tuttavia, che le conservatorie dei registri immobiliari
abbiano mai proceduto alla trascrizione di simili delibere condominiali. Ancora, l’eventuale impugnazione della deliberazione – la cui domanda giudiziale dovrebbe poter essere a sua volta trascritta – andrebbe proposta nei
12
Una critica serrata del riconoscimento di carattere dispositivo ed effetti reali alla deliberazione di scioglimento si trova in R. CORONA, op. cit., p. 129.
13
Si potrebbe anche trattare di una minoranza, posto che è sufficiente l’istanza di un terzo dei futuri partecipanti a uno dei condominii risultanti dallo scioglimento.
14
R. CORONA, op. cit., p. 130.
15
Coerentemente, infatti, VISCO, op. cit., p. 79, ritiene necessaria la trascrizione nei registri immobiliari della
deliberazione di scioglimento.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
73
confronti di tutti i condomini singolarmente e non già
dell’amministratore16.
Infine, sempre sul piano formale, è apparso in contrasto con i principi
regolatori della materia ammettere lo scioglimento di una contitolarità
per effetto di una deliberazione adottata a maggioranza 17.
Se, poi, si passa al profilo più propriamente sostanziale, gli effetti dello
scioglimento sulla proprietà condominiale si rivelano del tutto inconciliabili con il sistema, specie a seguito della recente riforma.
Occorre ricordare, infatti, che la titolarità di diritti sulle parti comuni non
è che il riflesso della destinazione di quelle parti all’utilità comune di più
unità immobiliari 18. Non è nemmeno concepibile, dunque, un trasferimento di diritti sulle parti comuni tra condomini che non si traduca in un
mutamento di destinazione delle parti comuni 19. L’irrinunciabilità dei diritti sulle parti comuni sancita dall’art. 1118, co. 2, c.c. ne è una riprova 20.
Ne consegue che nel caso in cui – anche in virtù di un contratto – un
gruppo di condomini trasferisse a un altro gruppo di condomini diritti su
alcune parti comuni, l’operazione avrebbe un senso se si accompagnasse al mutamento di destinazione di quelle parti comuni, le quali – originariamente destinate all’utilità di tutti i condomini – risulteranno destinate, per effetto del trasferimento, all’utilità del gruppo di condomini
cui quei diritti sono ceduti. Sul punto, ci si limita a rilevare che l’art.
1117-ter contiene una specifica e puntuale disciplina del mutamento di
destinazione delle parti comuni, del tutto incompatibile con quella dello
scioglimento del condominio 21.
Inoltre, riferendo l’istituto alla proprietà condominiale, lo scioglimento
si risolverebbe in una divisione di parti comuni, sebbene i condividenti
non siano singoli condomini ma gruppi di condomini, in aperto contrasto
con il disposto dell’art. 1119 c.c., che – nella nuova e vigente formula-
16
Conferma l’assunto Cass., 23 gennaio 2008, n. 1460, richiamata nella nota 10, che afferma la necessità di
convenire in giudizio tutti i condomini per il caso di scioglimento del condominio in via giudiziale.
17
Tanto si legge nella motivazione di Cass., 7 agosto 1982, n. 4256, in Foro it., 1982, p. 731, che conclude per
l’effetto meramente ricognitivo dello scioglimento.
18
Vedi cap. 1, par. 3.
19
Vedi cap. 4, par. 15.
20
Sulla base del principio di irrinunciabilità dei diritti sulle parti comuni sancito dall’art. 1118 c.c., in Cass., 3
ottobre 2003, n. 14791, si afferma che anche in caso di scioglimento del condominio vi sono parti che sono
condominiali e tali restano.
21
Si rinvia al cap. 4 ogni considerazione in ordine all’art. 1117-ter c.c.
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74
Capitolo II
zione – esclude chiaramente la divisione senza il consenso unanime di
tutti i condomini 22.
Per aggirare l’ostacolo è stata impropriamente richiamata la figura della
divisione parziale 23. Non si può dubitare, infatti, che se un giardino comune a un gruppo di edifici sia diviso in parti e ciascuna di esse sia destinata all’utilità delle unità immobiliari comprese in ciascuno di quegli
edifici, si è in presenza di una vera e propria divisione di parte comune.
Nessun rilevo si può riconoscere alla circostanza che all’originaria proprietà comune non si sostituisca una proprietà individuale ma un’altra
proprietà comune. Si tratterà, infatti, pur sempre di una nuova e diversa
forma di proprietà comune sia sotto il profilo dei partecipanti, sia sotto il
profilo dell’oggetto.
In conclusione, a meno di non voler considerare lo scioglimento del
condominio una grave deroga al disposto degli artt. 1117, 1117-ter,
1118, 1119, e 1138, co. 4, c.c. – oltre che ai principi in materia di scioglimento delle contitolarità di diritti reali – pare preferibile riferire lo
scioglimento alla sola organizzazione condominiale, riconoscendo che
esso lascia immutato l’assetto della proprietà condominiale.
3. La funzione dell’istituto della divisione dei condominii, riferito
all’organizzazione condominiale
Identificato il piano di incidenza della disciplina della divisione dei condominii, la funzione dell’istituto risulta quella di rendere meno rigida –
come si è anticipato in apertura – la scelta legislativa di adottare
l’edificio come punto di riferimento obiettivo cui deve far fronte
un’organizzazione condominiale unitaria.
Si è già detto che vi possono essere parti comuni solo ad alcune delle
unità immobiliari comprese in un edificio e parti comuni a unità immobiliari comuni comprese in edifici diversi.
Nei casi in cui situazioni di questo tipo si presentano in modo variamente combinato, la scelta di fissare rigidamente l’organizzazione condomi-
22
Nella già citata Cass., 7 agosto 1982, n. 4256, in Foro it., 1982, p. 731, si rileva l’incompatibilità con l’art.
1119 c.c. del riconoscimento del carattere dispositivo alla deliberazione di scioglimento del condominio. Per
ulteriori considerazioni sul punto, si rinvia al capitolo 4, par. 19.
23
Il richiamo all’istituto della divisione parziale è utilizzato in un obiter dictum di Cass., 23 gennaio 2008, n.
1460, in Immob. e proprietà, 2008, p. 247, al fine di negare l’applicabilità della disciplina della divisione (art.
1119 c.c.) allo scioglimento del condominio.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
75
niale al livello del dato architettonico rappresentato dall’edificio può
non risultare la più adeguata ed efficiente.
La portata precettiva della norma, dunque, consiste proprio nel rendere
più flessibile il richiamo all’edificio come riferimento obiettivo per determinare l’ambito di operatività dell’organizzazione condominiale,
ammettendo la possibilità di giungere a soluzioni diverse entro i limiti
della ragionevolezza: per esempio, organizzazione a livello di corpo di
fabbrica, di blocco, di complesso edilizio eccetera.
È evidente che – all’interno di ciascuna organizzazione condominiale –
occorre evitare il proliferare sia delle situazioni di condominio parziale,
sia delle situazioni in cui vi siano parti comuni a unità immobiliari che
fanno capo a distinte organizzazioni (e che, per comodità, si possono indicare genericamente come situazioni di condominio atipico), in modo
che – per quanto possibile – le parti comuni siano comuni al maggior
numero di partecipanti all’organizzazione condominiale: basti pensare a
quanto possa essere complicato gestire una riunione assembleare in cui
a ogni votazione debbano partecipare soggetti diversi.
In questo senso – e non certo con riguardo al dato puramente strutturale – deve essere inteso il richiamo alle «caratteristiche di edificio autonomo» contenuto nell’art. 61, disp. att., c.c. È ovvio infatti che, in difetto
di una certa autonomia strutturale, lo scioglimento delle organizzazioni
genererebbe inutili situazioni di condominio parziale e condominio atipico.
A ben vedere, al di là delle affermazioni di principio, la giurisprudenza
pare prevalentemente orientata proprio in questo senso.
Illuminante la sentenza che ha deciso un caso in cui a chiedere lo scioglimento del condominio è stato il proprietario di un albergo disposto su
alcuni piani di un edificio condominiale: una sorta di divisione orizzontale. La Corte d’Appello di Bologna – con valutazioni pienamente condivise
dalla Cassazione 24 – ha rilevato che, in caso di accoglimento della domanda, numerose e importanti parti sarebbero rimaste comuni dopo la
separazione e sarebbe stato necessario “far luogo ad una ragnatela di
limitazioni e servitù” che sarebbe stato “ben difficile costituire e disciplinare per l’avvenire”. La Corte non si è prefigurata affatto vere e proprie
divisioni di parti comuni o mutamenti di destinazione, ma ha immaginato di dover ricostruire la situazione giuridica della titolarità delle parti
24
Cass., 1 dicembre 2010, n. 24380.
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Capitolo II
comuni a partire dalla necessità di considerare l’insieme delle unità immobiliari da separare come un bene immobile unitario da porre in relazione di vicinato con la restante parte dell’edificio: se il condominio si è
sciolto, ma una unità immobiliare rimane legittimamente sovrastata da
un’altra unità immobiliare, allora diventa necessario immaginare un diritto di superficie, una servitù o una qualche altra forma di asservimento
delle unità immobiliari collocate al piano sottostante.
Con tutta evidenza, benché l’impostazione della questione sia viziata da
artificiosi tecnicismi giuridici molto lontani dalla realtà 25, la decisione
consente di cogliere la ragione che impedisce, nei casi come quello in
esame, lo scioglimento dell’organizzazione condominiale: non si tratta di
dividere, ma di riconsiderare – se si vuole, riguardare – l’edificio non più
in modo unitario, ma come diviso in parti dotate di una propria autonomia. L’edificio, è bene ribadirlo, inteso come ambito della gestione
condominiale e non in senso architettonico o come oggetto di diritti di
proprietà.
L’immagine della ragnatela, in realtà, non va riferita all’ipotetico groviglio di diritti reali conseguente alla divisione: le proprietà dei condomini,
difatti, rimangono tali e quali 26; semmai, può raffigurare il risultato
dell’intreccio scriteriato di più organizzazioni condominiali.
25
M. FRAGALI, op. cit., p. 555, afferma che ritenere le fondazioni, i muri maestri, le scale eccetera oggetto di
una conservitù a favore dei singoli partecipanti in sostituzione della comproprietà potrebbe “ridondare in
un’assurdità giuridica: le proprietà individuali risulterebbero intercluse, le singole cose si verrebbero a considerare prive di sostegni statici o comunque strutturalmente incomplete”.
26
È evidente che se si opta per il carattere ricognitivo della deliberazione di scioglimento del condominio sul
piano della proprietà condominiale e si riferisce l’operatività dello scioglimento al condominioorganizzazione, l’ipotesi considerata nell’art. 62, co. 1, disp. att., c.c. che alcune parti «restino comuni con gli
originari partecipanti», piuttosto che un’eventualità, è una certezza.
Se, infatti, la situazione di partenza è un’organizzazione unitaria, evidentemente saranno presenti parti comuni a tutti o alla gran parte dei partecipanti. Ebbene, tali parti – che restano comuni anche dopo lo scioglimento – dovranno continuare a essere gestite da tutti i partecipanti (R. CORONA, Proprietà e maggioranza nel
condominio degli edifici, Torino, 2001, p. 137; G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 423).
La giurisprudenza, abbandonata ormai ogni esitazione, ammette ormai da tempo che, alle parti che “restano” comuni a seguito dello scioglimento, si applica la disciplina del condominio e non della comunione (specifica, sul punto, Cass., 5 gennaio 1980, n. 65, in Riv. giur. edilizia, 1982, I, p. 446. Vedi anche Cass., 2 marzo
2007, n. 4973 nonché Cass., 12 febbraio 1996, n. 1206).
Meno chiara l’ipotesi, considerata al co. 2 dell’art. 62, disp. att., c.c., in cui l’attuazione dello scioglimento richieda l’esecuzione di opere di risistemazione di locali o dipendenze. In tal caso, lo scioglimento può essere
deliberato con la maggioranza propria delle innovazioni e non può essere ottenuto in via giudiziale su istanza
di una parte dei condomini. È stato condivisibilmente rilevato che le opere cui si riferisce la norma non possono essere quelle necessarie a realizzare una situazione di autonomia tra le due parti dell’edificio o del
gruppo di edifici in precedenza insussistente.
Per la verità, non è affatto agevole comprendere in cosa possano consistere dette opere e perché mai esse
possano essere ritenute necessarie, posto che il co. 1 dello stesso art. 62, disp. att., c.c. prevede espressa© Wolters Kluwer
Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
77
In un caso come quello in esame, invero, la costituzione di condominii
separati non darebbe luogo nemmeno a una intricata combinazione di
organizzazioni, ma risulterebbe del tutto inutile per due concorrenti ordini di ragioni. Per un verso, la nuova organizzazione condominiale
avrebbe ben poco da gestire. Per altro verso, non verrebbe meno la necessità di un’organizzazione per gestire le parti che erano e restano comuni a tutte le unità immobiliari comprese nell’edificio 27.
Lo scioglimento, dunque, risulta ragionevole quando vi sono tante situazioni di condominio parziale tra gli stessi partecipanti e poche parti comuni a tutti, sicché non ha senso mantenere un unico amministratore,
un unico rendiconto e un’assemblea formalmente unitaria (benché di
volta in volta variamente composta a seconda delle parti comuni o delle
spese oggetto della delibera). Il caso classico è quello delle ali di grandi
edifici dotate ciascuna di autonome scale e ascensori, che – è bene precisarlo – anche prima di un eventuale scioglimento sono già comuni tra
le sole unità immobiliari cui assicuravano l’accesso 28.
4. La determinazione dell’ambito di operatività oggettiva
dell’organizzazione come prerogativa del gruppo
Riprendendo le fila del discorso, si è constatato che la legge prevede
espressamente l’ipotesi che a un «gruppo di edifici» – in contrasto con
l’intera impostazione della disciplina del condominio “negli” edifici 29 –
possa far fronte un’unica organizzazione e stabilisce che, in virtù di una
deliberazione o su istanza di alcuni condomini, si possa procedere allo
scioglimento di un’organizzazione condominiale unitaria anche quando
essa fa fronte a un unico edificio, purché composto di «parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi».
mente che tra i condominii separati possano permanere parti comuni. In giurisprudenza si è affermato, per
esempio, che non occorre risistemare la facciata o la gronda e il pluviale per attuare lo scioglimento di un
condominio comprendente due corpi di fabbrica attigui (Cass., 19 dicembre 2011, n. 27507). In dottrina, anche alla luce della maggioranza richiesta, si sono richiamate opere dirette ad agevolare una gestione separata, purché non eccedenti la nozione di innovazione, con esclusione di radicali trasformazioni dello stato dei
luoghi (R. CORONA, op. cit., Torino, 2001, p. 134).
27
L. SALIS, op. cit., p. 307, pur riferendo lo scioglimento alla proprietà condominiale, ammette che «sarebbe
privo di ogni utilità far dichiarare l’esistenza di più edifici autonomi in uno stesso edificio o gruppo di edifici
se ciascuno di questi non dovesse essere poi governato in modo autonomo».
28
Per questa ragione non appare condivisibile l’iter logico seguito da Cass., 7 agosto 1982, n. 4256, in Foro
it., 1982, p. 731. Nella sentenza, che pure afferma il carattere ricognitivo dello scioglimento, si fa dipendere
la liceità dell’unione di due appartamenti compresi in distinti corpi di fabbrica dalla circostanza
dell’unitarietà dell’organizzazione condominiale.
29
Il rilievo è puntualmente contenuto in Cass., 18 aprile 2005, n. 8066, in Arch. locaz., 2005, p. 575.
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Capitolo II
La disciplina della divisione dei condominii, dunque, dimostra che la decisione circa il livello dell’organizzazione condominiale, quantomeno
quando si tratta di separare, è rimessa all’autonomia collegiale dei condomini 30, entro i limiti della ragionevolezza segnati dalla possibilità di
rintracciare nelle distinte parti dell’edificio considerato le caratteristiche
di edifici autonomi.
La ricostruzione dell’istituto proposta, tuttavia, fa venir meno le ragioni
che hanno suggerito di considerare la disciplina della divisione del tutto
eccezionale 31. Conseguentemente, la stessa potrebbe applicarsi in via
analogica anche all’unione di condominii.
Non si vede, infatti, per quale ragione i condominii-organizzazione che
fanno fronte a due edifici – dotati ciascuno di propri regolamento e tabelle millesimali – che presentino tante parti comuni 32 da poter essere
considerati un gruppo di edifici ai sensi dell’art. 61, disp. att., c.c., non
debbano poter deliberare la fusione delle distinte organizzazioni condominiali in una sola, con le stesse maggioranze e le stesse modalità
previste per la divisione 33. È evidente che le questioni attinenti alle parti
comuni alle unità immobiliari comprese in ciascun edificio saranno trattate in assemblee convocate pur sempre dall’unico amministratore, ma
composte dai soli condomini proprietari di unità immobiliari comprese
in quell’edificio, secondo i collaudati schemi del condominio parziale.
30
La possibilità che un terzo dei partecipanti a una delle parti “separabili” si attivi in via giudiziale per pretendere lo scioglimento deve ritenersi conformativa dei poteri del gruppo in materia.
31
Vedi la giurisprudenza citata nella nota 10.
32
È appena il caso di precisare che le parti sono comuni non agli edifici – che non sono propriamente beni
immobili ma entità architettoniche – bensì alle unità immobiliari in essi comprese.
33
La giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di esprimersi sul punto. Cass., 28 ottobre 1995, n. 1176,
in Foro it., 1996, I, p. 3182, si è pronunciata in senso contrario: con deliberazione adottata a maggioranza, i
condomini di tre distinti fabbricati hanno formalmente “istituito” un unico condominio. Alcuni, poi, hanno
impugnato la deliberazione, affermando che essa incideva sui diritti dei singoli ed era, pertanto, nulla perché
estranea alle competenze dell’assemblea. Il Tribunale ha accolto l’impugnazione e la Corte d’appello ha riformato la decisione, argomentando proprio sul disposto dell’art. 61, disp. att., c.c. La Suprema Corte, adita
dai soccombenti, ha riconosciuto che l’istituzione di un “supercondominio” non comporta “nessuna modifica
relativa al regime delle cose comuni (…). Poiché, infatti, è ormai pacifica la configurabilità del cosiddetto condominio parziale, i condomini dei singoli edifici continuerebbero ad essere gli unici comproprietari delle parti
comuni degli edifici stessi”. In modo contraddittorio la stessa Cassazione conclude che l’art. 61, disp. att., c.c.
deroga al principio secondo il quale la divisione può essere attuata solo con il consenso unanime dei partecipanti ed è, perciò, norma eccezionale non applicabile in via analogica all’ipotesi inversa della fusione di condominii. Per altro verso, preme rilevare che il caso di istituzione di un supercondominio-organizzazione è impropriamente sovrapposto a quello di fusione di condominii: l’istituzione di un supercondominio, come si
evince dal disposto dell’art. 67, disp. att., c.c., lascia inalterate le organizzazioni dei singoli condominii; a seguito di fusione di condominii, invece, le questioni interne a ciascun edificio si risolvono con l’istituto del
condominio parziale.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
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In questo modo, risulterebbe chiaro che la decisione circa il livello
dell’organizzazione condominiale è una prerogativa del gruppo, che la
esercita entro i limiti della ragionevolezza segnati, da una parte, dalla
possibilità di rintracciare nelle distinte parti dell’edificio le caratteristiche di edifici autonomi e, dall’altra, dalla possibilità che più edifici siano
considerati un gruppo di edifici.
A questo punto, però, occorre chiarire come si determini l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale in presenza di un
gruppo di edifici o di un edificio composto di parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi – ovvero nei casi in cui siano praticabili più soluzioni ragionevoli in relazione al livello del condominio-organizzazione –
in mancanza di una qualunque deliberazione assembleare o pronuncia
giudiziale di scioglimento. A quale livello, cioè, sorga ex lege
l’organizzazione in dette ipotesi, ovvero quando la nozione di edificio come riferimento oggettivo per l’organizzazione condominiale si fa più sfumata.
Deve darsi per scontato, infatti, che non occorra alcun atto formale perché possa ritenersi sorta un’organizzazione condominiale con un proprio
ambito di operatività. In effetti, non si è tardato a riconoscerlo a proposito della nascita di condominii separati a seguito dello scioglimento
dell’originario unico condominio organizzazione: si è pianamente affermato che la nascita dei nuovi condominii è un effetto automatico e non
richiede alcuna formalità 34. In linea più generale, si ritiene comunemente che la costituzione del condominio avviene ex lege per effetto della
prima alienazione di una unità immobiliare condominiale 35.
Un esempio chiarirà il profilo problematico che si vuol far emergere. Si faccia il caso di una pluralità di edifici vicini in relazione ai quali abbia già preso
avvio un’attività di gestione unitaria: unico regolamento di condominio,
unico amministratore nominato nel contesto di un’assemblea unitaria.
In una situazione del genere, lo scioglimento passa attraverso una deliberazione assembleare o un’istanza di un terzo dei proprietari della parte che si intenda separare, purché detta parte possa essere riguardata
34
Per tutti, R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 736.
Per la nascita della proprietà condominiale, si rinvia alle considerazioni svolte nel cap. 1, parr. 2 e 7, ove si
rileva che le unità immobiliari condominiali possono venire a esistenza anche quando appartengono allo
stesso proprietario. È evidente, invece, che l’organizzazione condominiale non può nascere fino a quando
non vi sia pluralità di partecipanti.
35
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Capitolo II
come edificio autonomo e, soprattutto, purché quell’insieme di edifici
possa essere considerato un gruppo di edifici.
Qualora, invece, quell’insieme di edifici non possa considerarsi un gruppo di edifici, si deve riconoscere a ogni singolo condomino la possibilità
di rivolgersi all’autorità giudiziaria affinché sia accertato che a quella
pluralità di edifici non fa fronte un’unica organizzazione. La sentenza che
accogliesse la domanda non scioglierebbe alcunché, ma si limiterebbe a
rimuovere l’incertezza circa l’ambito oggettivo cui, per legge, si estende
l’operatività dell’organizzazione.
I criteri utilizzabili dal giudice di una controversia del genere, per le ragioni ampiamente esposte, non possono che attenere alla ragionevolezza dell’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale,
piuttosto che alle nozioni architettoniche di gruppo di edifici o di caratteristiche di edificio autonomo.
Occorre precisare, tuttavia, che non è affatto detto che vi sia un solo
ambito oggettivo ragionevolmente determinabile per ogni complesso
edilizio. Di certo il giudice che fosse chiamato a decidere in una situazione in cui l’organizzazione condominiale è rimasta in uno stadio latente
deciderebbe tendenzialmente per l’ambito più ragionevole. A fronte, invece, di un’organizzazione che si è compiutamente manifestata mediante, per esempio, l’approvazione di tabelle millesimali o la nomina di un
amministratore, si può fondatamente dubitare che il giudice possa sovrapporre la propria valutazione a quella già espressa del gruppo.
Del resto, la maggioranza richiesta per deliberare lo scioglimento del
condominio è la stessa richiesta per l’approvazione del regolamento o
per la nomina dell’amministratore, e la nomina dell’amministratore
suppone già definito l’ambito oggettivo dell’organizzazione.
E allora converrebbe riconoscere che non solo la divisione e l’unione di
condominii, ma anche la decisione per uno tra i più ambiti ragionevoli di
operatività dell’organizzazione è rimessa all’autonomia collegiale del
gruppo che può operare la sua scelta anche implicitamente, mediante
l’approvazione di una deliberazione che supponga determinato un certo
ambito: è sufficiente un qualunque atto che avvii una gestione continuativa degli interessi comuni, come per l’appunto l’approvazione di tabelle
millesimali o la nomina di un amministratore.
Una deliberazione di questo tipo – se si preferisce – potrebbe essere
considerata come una divisione o una unione di organizzazioni rispetto
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
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al livello di organizzazione sorto ex lege, quello che il giudice avrebbe
determinato in una situazione di organizzazione latente.
In conclusione, occorre accennare a un ultimo profilo problematico. Posto che lo scioglimento del condominio – e la fusione di condominii – è
materia che la legge rimette all’autonomia collegiale del gruppo, ci si
potrebbe chiedere se il titolo – per esempio, un regolamento contrattuale di condominio 36 – possa validamente escluderne l’applicabilità a
un certo complesso immobiliare, sancendo, per esempio, l’indivisibilità
dell’unica organizzazione apprestata.
Pare preferibile ritenere inderogabile la norma che rimette
all’autonomia collegiale del gruppo le scelte in materia, lasciando sempre aperta – anche per i successivi acquirenti – la possibilità di rivedere
in futuro le decisioni prese 37.
Le determinazioni in ordine all’ambito di operatività dell’organizzazione
condominiale, insomma, sono vere e proprie prerogative del gruppo.
Resta fermo, come è ovvio, che ove il titolo dovesse dichiarare comuni a
tutte le unità immobiliari talune parti del complesso edilizio o imporre
stringenti vincoli di immodificabilità a tutela del decoro architettonico,
la scelta di detto livello, cui ancorare l’organizzazione condominiale, ne
risulterebbe condizionata, proprio perché l’ambito di operatività delle
organizzazioni dei singoli edifici risultanti dalla eventuale divisione risultare circoscritto a poche questioni comuni 38.
5. I condominii-organizzazione atipici: dal condominio negli edifici al
condominio di condominii
Le ipotesi esaminate sinora riguardano pur sempre condominii negli edifici, in parti di edifici o in gruppi di edifici. Per tutti questi casi è certa
l’applicabilità delle norme che attribuiscono all’organizzazione condominiale specifici poteri e doveri che, negli ordinari rapporti di vicinato,
sono, invece, lasciati all’autonomia dei proprietari.
In altri termini, come si è avuto modo di rilevare nel precedente capitolo, siepi o muri sul confine, fossi interposti tra fondi o corsi d’acqua che
attraversano più fondi – come, del resto, anche semplici spiazzi comuni
– possono di certo essere considerati parti comuni a più unità immobi36
Per la nozione di regolamento contrattuale di condominio si rinvia al cap. 3, parr. 1 e 5.
Per osservazioni in ordine all’inderogabilità delle prerogative del gruppo, vedi cap. 3, parr. 1-2.
38
Cfr., sul punto, Cass., 18 aprile 2005, n. 8066, in Arch. locaz., 2005, p. 571.
37
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Capitolo II
liari, esattamente come accade per le parti comuni nel condominio 39. I
vicini di volta in volta interessati, tuttavia, non possono approvare un
regolamento di condominio o delle tabelle millesimali, nominare un
amministratore di condominio, convocare un’assemblea di condominio
o approvare a maggioranza l’esecuzione di opere necessarie o anche
semplicemente utili.
A proposito di opere che recano un vantaggio a più unità immobiliari vicine, l’unica regola davvero generale applicabile in tutti i casi è quella
che consente a chi prende l’iniziativa di eseguire opere necessarie di
pretendere che i vicini partecipino alla spesa in ragione del vantaggio
che ciascuno ne ritrae: si tratta, tuttavia, di un rimedio di carattere generale, riconducibile all’azione di arricchimento 40.
In materia di condominio, invece, il legislatore ha voluto istituire rapporti più stretti tra i partecipanti, apprestando una disciplina che assegna al
gruppo una serie di prerogative: poteri e doveri che fanno inderogabilmente capo all’organizzazione condominiale, composta da un organo
collegiale dotato di poteri decisionali e regolamentari (l’assemblea) e, in
via eventuale, da un organo esecutivo cui la legge assegna una seria di
compiti e responsabilità (l’amministratore di condominio).
La ragione risiede nel fatto che, proprio per l’elevato grado di interdipendenza che si registra tra le diverse unità immobiliari 41, l’edificio condominiale richiede una gestione continuativa delle questioni di comune
interesse tra i condomini. Non basta sapere come vanno ripartite le spese per la manutenzione, conservazione o ricostruzione di determinate
parti dell’edificio che tornano utili a più condomini. Occorre stabilire con
chiarezza chi e come deve provvedere all’esecuzione di dette opere e alla gestione dei servizi e degli impianti comuni; occorre disciplinare la
preventiva raccolta dei contributi alla spesa; occorre, anche, consentire
al gruppo di decidere di migliorare o innovare – oltre che conservare – le
parti di interesse comune.
Ribadita la rilevanza della questione, a questo punto ci si deve chiedere
a quali condizioni l’esistenza di parti comuni a una pluralità di immobili –
39
Vedi cap. 1, par. 1.
Oltre alle ipotesi menzionate nel testo, si veda anche l’art. 1069, co. 3, c.c., che – nel caso in cui le opere
eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente giovino anche al fondo servente – dispone
che le spese siano sostenute in proporzione dei rispettivi vantaggi. Sul punto vedi anche cap. 1, par. 8. Sul
comune fondamento dei rimedi citati, si rinvia a L. BARBIERA, L’ingiustificato arricchimento, Napoli, 1964, passim.
41
Vedi cap. 1, par. 8.
40
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
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al di fuori delle ipotesi già considerate degli edifici, delle parti di edifici e
dei gruppi di edifici – determini la nascita di un’organizzazione dotata
delle prerogative proprie della disciplina del condominio.
Si tratta, in altri termini, di stabilire quale sia il campo di applicazione
della disciplina del condominio-organizzazione. Ebbene, l’art. 1117-bis,
aggiunto con la novella del 2012 42, sembra dettato proprio per tale scopo. In detta norma si dichiara espressamente applicabile la disciplina
dettata per il condominio “negli edifici”, in quanto compatibile, in tutti i
casi in cui «più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di
unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo
1117».
La norma, che si riferisce chiaramente alla sola proprietà edilizia, accanto al condominio tipico – quello “negli edifici”, a cui è specificamente
dedicata e intitolata la disciplina codicistica – sembra indicare tre distinte ipotesi di condominio atipico – ordinate dalla più semplice alla più articolata – alle quali applicare la disciplina condominiale all’esito di un
vaglio di compatibilità.
La prima ipotesi, quella di base, è caratterizzata dalla presenza di parti
comuni a più unità immobiliari. Può trattarsi di un semplice spiazzo comune a due abitazioni indipendenti o di un vero e proprio condominio
orizzontale 43.
La seconda ipotesi presenta un grado di complessità superiore perché
riguarda il caso di parti comuni a più edifici, almeno uno dei quali – occorre supporre – composto da più unità immobiliari. Si pensi al caso della divisione di edifici o gruppi di edifici 44 o ai complessi immobiliari formati da più edifici che ab origine presentino parti comuni, ossia alle ipotesi più semplici di supercondominio 45.
Si prevede, infine, il caso in cui una pluralità di complessi immobiliari del
42
Articolo introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220.
Il caso più comune è rappresentato dalle c.d. villette a schiera, ma con l’espressione ci si riferisce generalmente a qualsiasi complesso immobiliare composto da abitazioni unifamiliari. In giurisprudenza, Cass., 4 novembre 2010, n. 22466, in Immob. e propr., 2011, p. 47, con nota di M. MONEGAT, Lastrico solare e condominio orizzontale, nonché Cass., 18 aprile 2005, n. 8066, in Arch. locaz., 2005, p. 571.
44
Se non presentassero parti comuni, non avrebbero mai dato luogo a un condominio unitario.
45
È noto che la giurisprudenza, nell’elaborare la figura del supercondominio, ha trovato un utile appiglio
normativo negli artt. 61 e 62, disp. att., c.c. Si è rilevato che, se le regole del condominio si applicano alle
parti degli edifici che restano in comune dopo il loro scioglimento ai sensi dell’art. 62, co. 1, disp. att., c.c.,
analogamente dette regole devono applicarsi a più fabbricati indipendenti e costituiti in distinti condominii
fin dall’origine, anche se compresi in una più ampia organizzazione condominiale (in questi termini, Cass., 7
luglio 2000, n. 9096, in Corr. giur., 2001, p. 211, con nota di G. GRECO, Supercondominio: relazione di accessorietà e disciplina applicabile). In dottrina, R. CORONA, op. cit., p. 29.
43
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Capitolo II
primo o del secondo tipo presentino parti comuni. Ciascun organismo
edilizio del primo o del secondo tipo pare considerato alla stregua di una
singola unità immobiliare inserita in un contesto condominiale più ampio. In questo senso deve essere intesa la locuzione “condominii di unità
immobiliari o di edifici”: complessi immobiliari, cioè, in cui vi sono parti
comuni – per esempio – a più condominii orizzontali o supercondominii.
Prima di verificare quale sia, in concreto, la disciplina applicabile ai condominii atipici e in cosa consista il vaglio di compatibilità, è il caso di rilevare che il condominio di edifici o il condominio di condominii o, ancora, le parti comuni a più condominii 46 costituiscono immagini che non riflettono rigorosamente il fenomeno giuridico sottostante. Alle nozioni
architettoniche di edificio o, più in generale, di complesso edilizio condominiale – infatti – non corrispondono beni immobili unitari che, come
tali, possano presentare parti comuni con altri beni immobili dello stesso o di diverso genere 47. La rilevanza giuridica di tali entità attiene al
piano dell’organizzazione: all’edificio fa generalmente fronte – come si è
avuto modo di rilevare – un’organizzazione condominiale tendenzialmente unitaria.
Qualunque sia il grado di complessità dell’organismo edilizio, tuttavia, le
parti comuni – a dispetto del tenore letterale della disposizione in commento – non possono che essere comuni a una pluralità di unità immobiliari e non certo a una pluralità di edifici o di condominii 48.
Accade spesso, per esempio, che taluni elementi architettonici si presentino comuni a tutte (o quasi) le unità immobiliari comprese in determinati edifici condominiali o condominii orizzontali. Basti pensare a
viali d’accesso, recinzioni o, più semplicemente, al giardino situato in un
cortile interno accessibile da più edifici condominiali.
È evidente che quel giardino è comune alle unità immobiliari comprese nei diversi edifici e non certo agli edifici stessi. La circostanza che i
proprietari del giardino possano essere distinti in diversi gruppi a se46
In questi stessi termini si esprime l’art. 67, co. 3, disp. att.
Negli stessi termini, Cass., 7 luglio 2000, n. 9096, in cui – proprio in un caso di supercondominio – si legge
che con il termine edificio non si indica un bene in sé, ma le unità immobiliari in esso comprese.
48
Intendendo alla lettera espressioni di questo tipo, Cass., 20 giugno 1989, n. 2923, in Arch. locaz., 1989, p.
673, ha ritenuto applicabile la disciplina della comunione e non del condominio al terreno circostante i diversi edifici, all'abitazione del portiere e alle vie private del comprensorio sul presupposto del difetto di parti di
proprietà esclusiva. È evidente, invece, che le parti di “proprietà esclusiva” non difettassero affatto, identificandosi con le unità immobiliari comprese in ciascun edificio. Il malinteso nasce proprio dall’improprio significato attribuito al termine edificio. Sul punto, R. CORONA, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici, Torino, 2001, p. 145.
47
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
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conda dell’edificio in cui siano comprese le rispettive unità immobiliari
è, con tutta evidenza, una circostanza neutra sul piano della proprietà
comune del giardino, ma non del tutto irrilevante: i condomini di ciascun edificio saranno generalmente portatori di interessi e istanze
comuni rispetto al giardino, perché tutti ne fruiscono in modo analogo, e potrebbero giungere a determinazioni unitarie rispetto al giardino già all’interno di ciascuna organizzazione a livello di edificio, per
poi intervenire con un rappresentante nelle riunioni dell’organo collegiale chiamato a occuparsi del giardino, che è parte comune a tutte le
unità immobiliari di tutti gli edifici. In questo modo si eviterebbero le
difficoltà connesse alla gestione di organi collegiali composti da numerosi partecipanti e si garantirebbe una concreta possibilità di controllo a tutti.
Si allude, evidentemente, al caso del supercondominio e, in particolare,
alla specifica disciplina dell’organizzazione introdotta con la riforma del
2012 per tutti i casi in cui vi siano parti comuni a una pluralità di unità
immobiliari che fanno capo a distinte organizzazioni condominiali 49: nel
caso in cui i partecipanti siano complessivamente più di sessanta, ciascun condominio-organizzazione deve nominare un rappresentante
all’assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni e per la nomina dell’amministratore 50.
Può accadere, pertanto, che allo stesso organismo edilizio complesso
corrispondano più organizzazioni condominiali di varia ampiezza, in modo che l’organizzazione più ampia (per esempio, il condominio di edifici)
raccolga tutti (o quasi) i partecipanti alle organizzazioni meno ampie
(per esempio, ciascun edificio condominiale).
È bene chiarire che sarebbe del tutto impropria ogni allusione a organizzazioni di secondo livello: l’immagine del condominio di condominii,
dunque, è fuorviante non solo sul piano della proprietà condominiale,
ma anche sul quello dell’organizzazione. Come è noto, infatti, i singoli
partecipanti a ciascuna organizzazione non possono essere considerati
membri dell’organizzazione di secondo livello, i cui componenti sono
49
È bene precisare che l’organizzazione a livello di supercondominio suppone l’esistenza di una pluralità di
organizzazioni condominiali meno ampie. In tal senso, in Cass., 4 dicembre 2013, n. 27233, si legge che ai fini
della sussistenza di un supercondominio è necessario che singoli edifici siano costituiti in altrettanti condominii.
50
Si rinvia, sul punto, a G. TERZAGO, Il condominio, a cura di A. CELESTE, L. SALCIARINI, P. TERZAGO, Milano, 2015,
p. 951 ss. Per un primo provvedimento di nomina giudiziale del rappresentante di edificio, App. Milano, 16
maggio 2015, n. 2755.
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Capitolo II
esclusivamente gli enti che vi hanno dato origine 51. Nel caso del cosiddetto condominio di condominii, invece, è perfino ovvio che i singoli
proprietari di unità immobiliari debbano essere considerati partecipanti
a entrambe le organizzazioni. L’unico e significativo profilo di interferenza tra le due organizzazioni consiste, come si è detto, nella necessità di
nominare un rappresentante per il caso in cui le unità immobiliari siano
complessivamente più di sessanta.
Tornando all’art. 1117-bis, occorre rilevare che l’enumerazione delle varie ipotesi di condominii atipici non è da ascrivere a un vacuo intento
descrittivo, ma deve intendersi come indicazione normativa dei vari livelli ai quali si fissano, nella gran parte dei casi, le distinte organizzazioni
condominiali che possono intrecciarsi negli organismi edilizi complessi.
Anche per i condominii atipici, infatti, occorre chiarire come si determini
l’ambito oggettivo di operatività della o delle organizzazioni: le nozioni
di “pluralità di unità immobiliari”, “pluralità di edifici” e “condominii di
unità immobiliari o di edifici” – cui si riferisce l’art. 1117-bis c.c. – hanno
la stessa natura e funzione che le nozioni di edificio, gruppo di edifici o
parti di edifici che presentano caratteristiche di edifici autonomi – cui si
riferisce l’art. 61, disp. att., c.c. – hanno per il condominio tipico (quello
“negli edifici”) 52.
Le conclusioni, dunque, non possono che essere le stesse cui si è giunti
nel precedente paragrafo: l’ambito di operatività dell’organizzazione è
determinato ex lege in base ai criteri della massima efficienza di gestione del o dei gruppi. Tuttavia, è rimessa all’autonomia collegiale del
gruppo la scelta di un diverso assetto purché i livelli ai quali si fissano le
organizzazioni risultino ragionevoli. Il gruppo può operare la sua scelta
anche implicitamente, mediante un qualunque atto che avvii una gestione continuativa degli interessi comuni, come l’approvazione di tabelle millesimali o la nomina di un amministratore 53. Resta ferma, in ogni
caso, la possibilità di ottenere una pronuncia giudiziale di accertamento
dell’ambito oggettivo di operatività della o delle organizzazioni condominiali cui faccia capo un organismo edilizio più o meno complesso 54.
51
Vedi Cass., 10 marzo 2000, n. 2739, in un caso in cui è stata negata la qualità di socio di un’associazione di
secondo livello a un membro di una delle associazioni di categoria che vi avevano dato luogo.
52
Vedi precedente par. 4.
53
Vedi precedente par. 4.
54
In questo senso, R. TRIOLA, Il nuovo condominio, Torino, 2013, p. 26; A. GAMBARO, Il supercondominio, in
Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO-U. MORELLO, Riforma del condominio, a cura di M. BASILE, Milano, 2013, p. 43, nonché, in giurisprudenza, Cass., 21 febbraio 2013, n. 4340; Cass., 31 gennaio 2008, n.
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
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Entro questi limiti può accogliersi l’opinione degli studiosi secondo i quali il supercondominio può costituirsi soltanto in virtù di un atto formale
e, precisamente, di una deliberazione adottata a maggioranza 55, con
l’avvertenza che non si tratta di un’ipotesi eccezionale, ma di una regola
generale.
6. Le norme applicabili ai condominii atipici e il vaglio di compatibilità
L’ampio dibattito sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni in materia di
condominii atipici si è concentrato, in genere, sull’interrogativo in ordine
all’applicabilità ai supercondominii o ai condominii orizzontali della disciplina del condominio o della comunione.
La prevalente dottrina56 e la giurisprudenza57, per la verità, si sono da
tempo compattamente orientate nel senso dell’applicabilità della disciplina del condominio, pur con qualche indecisione.
I casi sui quali si registra maggiore incertezza riguardano essenzialmente
le “cose capaci di autonomo godimento” 58: ci si riferisce a impianti sportivi, piscine, maneggi, parchi eccetera, presenti principalmente nei grandi complessi edilizi.
La tesi – che ha trovato echi in giurisprudenza, sebbene a livello di obiter
dictum – dell’applicabilità a detti beni della disciplina della comunione si
2305, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 799, con nota di F. ESPOSITO, La sempre problematica figura del “supercondominio”. In senso contrario, R. CORONA, op. ult. cit., p. 87.
55
R. CORONA, Il super-condominio, cit., p. 85, rileva che per decidere in merito all’organizzazione è sufficiente
la maggioranza, perché a maggioranza si assumono tutte le decisioni concernenti la gestione delle cose comuni. Si afferma genericamente che sia rimessa all’autonomia privata la scelta di formare un unico condominio o distinti condominii per ogni edificio, cui affiancare un supercondominio, Cass., 18 aprile 2005, n.
8066, in Arch. locaz., 2005, p. 571.
56
Si sono espressi per l’applicabilità della disciplina del condominio M. BASILE, La normativa legale sulla nomina dell’amministratore in un complesso edilizio, in Nuova giur. civ. comm., 1990, p. 201; A. GAMBARO, Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO, U. MORELLO, III, Condominio negli edifici e comunione, a cura di M.
BASILE, Milano, 2012, p. 103. In senso contrario, F. GIRINO, Il condominio negli edifici, in Tratt. di dir. civ., diretto da P. RESCIGNO, Torino, 1982, vol. 8, p. 344; T. GALLETTO, Appunti sul condominio complesso o «supercondominio», in Riv. giur. ed., 1983, II, p. 342. Per la soluzione del doppio regime, CORONA, op. ult. cit., p. 67.
57
Si esprime chiaramente per l’applicabilità della disciplina del condominio già Cass., 11 giugno 1963, n.
1553, in Riv. giur. ed., 1963, p. 1120, con nota di L. SALIS, Patto di indivisibilità della comunione e regolamento
di condominio. Nella motivazione si richiama una giurisprudenza ancora precedente in tema di cortili comuni
a più edifici. Nello stesso senso, Cass., 18 luglio 1963, n. 1964, in Foro it., 1964, I, p. 2125, Cass., 26 gennaio
1965, n. 147, in Foro it., 1965, I, p. 419. La questione è approfondita in Cass., 5 gennaio 1980, n. 65, in Foro
it., 1980, I, p. 1370. Più di recente, Cass., 19 marzo 1994, n. 2609, in Arch. locaz., p. 536; Cass., 7 luglio 2000,
n. 9096, cit.; Cass., 5 ottobre 2001, n. 12290, in Riv. giur. ed., 2002, p. 94; Cass., 3 ottobre 2003, in Foro it.,
2004, I, p. 487; Cass., 18 aprile 2005, n. 8066, in Arch. locaz., 2005, p. 571; Cass., 31 gennaio 2008, n. 2305, in
Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 799; Cass., 4 novembre 2010, n. 22466, in Immob. e propr., 2011, nonché,
da ultimo, Cass., 21 febbraio 2013, n. 4340 e Cass., 4 dicembre 2013, n. 27233.
58
L’espressione è di R. CORONA, Il super-condominio, cit., p. 40.
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88
Capitolo II
presenta come corollario della ricostruzione dogmatica che vuole le parti comuni in necessario rapporto di accessorietà e strumentalità rispetto
alle unità immobiliari oggetto di proprietà individuale, le sole chiamate
ad assicurare utilità finali 59: al di fuori di questo schema non resterebbe
altra forma di contitolarità che la comunione 60.
La questione è già stata ampiamente affrontata nel cap. 1, ove si è rilevato che non vi è ragione per limitare il collegamento funzionale richiamato dall’art. 1117 c.c. al rapporto di asservimento delle parti comuni
alle proprietà individuali e che appare, invece, preferibile valorizzare il
dato della contestuale fruibilità di parti comuni e proprietà individuali ai
fini dell’individuazione dell’unità immobiliare condominiale 61.
La circostanza, poi, che alcune parti comuni, benché destinate all’utilità
dei condomini in quanto condomini, sarebbero invece astrattamente suscettibili di un “autonomo godimento” (o, se si preferisce, di godimento
fine a se stesso), piuttosto che smentire, conferma l’esistenza di quella
destinazione all’utilità comune di più unità immobiliari che costituisce la
specificità del fenomeno condominiale 62. Lo si ripete, la divisione in potenza suppone l’unità in atto.
59
Si veda, per esempio, un obiter dictum in Cass., 3 ottobre 2003, in Foro it., 2004, I, p. 487, nonché in Riv.
giur. edilizia, 2004, I, p. 77, con nota di A. CELESTE, La disciplina giuridica applicabile al sistema fognario destinato al servizio comune di più edifici: la Cassazione sposa la tesi del c.d. doppio regime per risolvere le problematiche connesse al supercondominio. In motivazione si legge testualmente: “Né può indurre in errore
sulla natura del diritto (di condominio o di comunione) la mera collocazione del bene o dell’impianto rispetto
all’edificio: una piscina, dei campi da tennis, gli spazi verdi, anche se nel comune parlare vengono spesso definiti ‘condominiali’, non realizzano che una comunione tra i partecipanti al condominio, perché detti beni –
per quanto rendano più amena la porzione di proprietà solitaria o ne possano accrescere il valore economico
al di là del mero valore dell’impianto annesso – non risultano caratterizzati da quella relazione di accessorietà rispetto alla proprietà solitaria, e ben possono essere oggetto di godimento totalmente svincolato dal godimento di quest’ultima; non costituiscono parti necessarie per l’esistenza o per l’uso delle unità abitative, né
destinate al loro uso o servizio. Senza queste cose in comune le costruzioni esisterebbero ugualmente e potrebbero del pari essere utilizzate” (la decisione, per altro verso, si segnala per la condivisibile applicazione
della disciplina del condominio all’impianto fognario posto a servizio di più edifici condominiali). Analoghe
affermazioni sono contenute in Cass., 7 luglio 2000, n. 9096, cit., benché nel caso deciso paia ritenersi applicabile la disciplina del condominio a zone verdi “afferenti” a una strada di natura condominiale.
60
Sull’eterogeneità degli istituti di condominio e comunione si rinvia al cap. 1, par. 1.
61
Vedi cap. 1, par. 3.
62
Non appare corretta l’affermazione secondo cui beni del genere – benché accrescano pregio e valore del
complesso immobiliare in quanto suscettibili di fornire comodità, svago e conforto ai residenti – risulterebbero utili per i proprietari piuttosto che per le unità immobiliari (R. CORONA, op. ult. cit., p. 41). Il fatto che
detti beni forniscano utilità per i “residenti” nelle unità immobiliari condominiali – indipendentemente dalla
qualificazione della situazione di godimento di ciascuno – insieme alla innegabile circostanza che detti beni
contribuiscano a incrementare il valore delle singole unità immobiliari costituiscono sicuri indici della sussistenza di un collegamento funzionale che attiene ai beni giuridici (si rinvia, sul punto, al cap. 1, par. 3).
L’astratta autonomia ontologica di detti beni dovrebbe cedere il passo al modo in cui quei beni sono stati
considerati dalle parti: M. COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 1967, p. 287, a proposito
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Il gruppo e l’ambito oggettivo di operatività dell’organizzazione condominiale
89
Per quel che interessa in questa sede, è bene precisare che, nonostante
alcuni commentatori ritengano che il nuovo art. 1117-bis dichiari
espressamente applicabile al supercondominio la disciplina del condominio 63, la nuova norma non è affatto risolutiva sul punto appena segnalato 64, in quanto dichiara applicabile la disciplina del condominio ai
casi in cui si possa riscontrare la presenza di «parti comuni ai sensi
dell’art. 1117 c.c.». La possibilità di qualificare un certo elemento architettonico di un organismo edilizio complesso come parte comune a più
unità immobiliari, dunque, resta affidata alla norma di apertura della disciplina del condominio, cui l’art. 1117-bis si limita a rinviare.
Costituisce, invece, una novità il vaglio di compatibilità cui l’art. 1117-bis
subordina l’applicabilità della disciplina del condominio “negli” edifici alle
ipotesi di condominii atipici, dandosi per già accertata la presenza di parti
comuni a più beni immobili, per l’appunto, ai sensi dell’art. 1117 c.c.
Al vaglio di compatibilità, dunque, deve riconoscersi la funzione di consentire l’applicazione delle sole norme che risultano adeguate alla situazione immobiliare 65 del condominio atipico di volta in volta preso in
considerazione 66. Ci si riferisce, come è evidente, alle sole norme che disciplinano il condominio-organizzazione, tratto caratterizzante lo statuto
della proprietà condominiale 67: si pensi alla disciplina delle innovazioni,
che consente di imporre alla minoranza opere non strettamente necessarie alla conservazione o messa a norma; al regolamento di condominio, in cui si possono disciplinare le modalità d’uso delle parti comuni e
prevedere sanzioni per i trasgressori; alle tabelle millesimali e
all’efficacia delle delibere di ripartizione delle spese, titolo per ottenere
ingiunzioni di pagamento immediatamente esecutive; alla nomina di un
amministratore di condominio, che ciascun condomino può pretendere
se i partecipanti sono più di otto, e alle numerose norme che ne disciplinano compiti e responsabilità; alla speciale deliberazione che consente
di modificare la destinazione d’uso delle parti comuni.
di divisibilità delle parti comuni, ritiene determinante per l’appunto «il modo in cui i beni sono stati considerati dalle parti», richiamando la norma che disciplina la divisibilità delle obbligazioni (art. 1316 c.c.).
63
Vedi G. TERZAGO, op. cit., p. 949.
64
Di diversa opinione sembra A. GAMBARO, op. cit., p. 41, il quale ritiene che la riforma, e l’art. 1117-bis c.c. in
particolare, abbia fatto dell’applicabilità della disciplina condominiale a tutti i casi di condominio atipico un
nuovo punto fermo.
65
L’espressione è di R. VIGANÒ, Trattato di diritto privato, vol. 8, diretto da P. RESCIGNO, Torino, 2005, p. 516.
66
TRIOLA, op. cit., p. 30, ritiene di poter procedere a una valutazione di compatibilità una volta per tutte, anziché caso per caso.
67
Vedi precedente par. 1.
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Capitolo II
Ben prima della riforma si era rilevato che la necessità della nomina di
un amministratore del supercondominio potesse dipendere dalle concrete esigenze di gestione, da valutare caso per caso: se le parti comuni
si riducono a un viale d’accesso o a un impianto idrico o di riscaldamento, la nomina può rivelarsi superflua 68. Nel caso in cui, invece, la situazione dei beni richieda una gestione continuativa, si deve ritenere che
ciascun partecipante possa ottenere la nomina in via giudiziale.
Il vaglio di compatibilità introdotto con la novella consente di recepire
integralmente osservazioni di questo tipo: per un verso apre nuove e
promettenti prospettive di applicazione per la disciplina del condominio
e, per altro verso, ne accentua i caratteri di flessibilità, facendone una
vera e propria disciplina generale dei beni funzionalmente collegati 69
(d)a parti comuni.
68
In questi termini, R. CORONA, op. ult. cit., p. 112.
La locuzione “collegamento funzionale tra beni” è di M. COSTANTINO, L’istituto della proprietà condominiale
nella riforma della gestione dei conflitti, in L’evoluzione del condominio, a cura di Centro Studi Anaci, Milano,
2008, p. 6, il quale rileva che le discipline dei beni funzionalmente collegati sono più d’una: pertinenze, universalità, servitù apparenti e situazioni che consistono in destinazioni d’uso specifiche.
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CAPITOLO III
IL REGOLAMENTO DI CONDOMINIO COME PREROGATIVA DEL GRUPPO
SOMMARIO: 1. Il regolamento di condominio: potere normativo del gruppo e
autonomia contrattuale - 2. Le materie regolamentari come prerogative del
gruppo - 3. L’opponibilità del regolamento ad aventi causa e conduttori - 4. Il
sindacato del giudice sul regolamento - 5. Le cosiddette clausole contrattuali: formazione, contenuto, opponibilità e tutela - 6. La natura della clausola
regolamentare che vieta di tenere animali domestici
1. Il regolamento di condominio: potere normativo del gruppo e autonomia contrattuale
Al regolamento di condominio è dedicato l’art. 1138 c.c., che si apre con
l’imposizione all’assemblea del dovere di formare un regolamento ove i
condomini siano più di dieci 1. Segue l’elencazione delle materie che le
norme del regolamento devono disciplinare.
La portata precettiva della norma è stata spesso individuata nella possibilità per ciascun condomino di ottenere forzosamente l’adozione di un
regolamento che tocchi tutte le materie indicate, sempre nel caso in cui
i condomini siano più di dieci 2.
In effetti, per il caso in cui l’assemblea non provveda all’adozione del cosiddetto regolamento obbligatorio ovvero il regolamento adottato non
rispetti il contenuto minimo previsto dalla legge e risulti, pertanto, in-
1
La dottrina maggioritaria ritiene che nel computo del numero dei condomini non si debba tener conto né
della circostanza che determinate unità immobiliari appartengano in comproprietà a più soggetti (essi conteranno per uno), né che lo stesso condomino sia proprietario di più unità immobiliari (conterà pur sempre per
uno). In tal senso, TRIOLA, op. cit., p. 429; E.V. NAPOLI, G.E. NAPOLI, Il regolamento di condominio. Artt. 11381139, in Commentario Schlesinger Busnelli, Milano, 2011, p. 28; R. CORONA, op. cit., p. 31; L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, Torino, 1959, p. 453. La soluzione interpretativa appare coerente, da una
parte, con l’art. 67, disp. att., c.c., che concede ai più comproprietari di una stessa unità immobiliare un solo
rappresentante e un solo voto in assemblea; dall’altra, con i criteri di computo delle maggioranze dei partecipanti o degli intervenuti (c.d. maggioranze delle “teste”), in base ai quali, pacificamente, si è sempre ritenuto irrilevante che il proprietario di più unità immobiliari conti per uno (art. 1136, co. 2, c.c.).
In questo modo, si evita di ritenere obbligatorio il regolamento di condominio nei casi in cui l’edificio condominiale sia composto da poche unità immobiliari o siano pochi i condomini che devono provvedere alla
gestione degli interessi comuni. Contra D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio delle case divise in parti, Torino,
1960, p. 508, preferisce sempre il riferimento all’elemento oggettivo del numero di unità immobiliari di cui si
compone l’edificio, piuttosto che al numero dei proprietari. G. TERZAGO, Il condominio, Milano, 2003, p. 514,
rileva che la necessità dell’adozione di un regolamento è connessa alla complessità della gestione.
2
G. BRANCA, op. cit., p. 487.
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92
Capitolo III
completo, l’art. 1138, co. 2, c.c. riconosce a ciascun condomino la facoltà di assumere l’iniziativa per la sua formazione o il suo completamento.
La dottrina è divisa in ordine alla possibilità che l’autorità giudiziaria, adita
da uno o più condomini, possa sostituirsi all’assemblea nella formazione
del regolamento obbligatorio 3. La giurisprudenza, pur scarna sul punto,
ammette la formazione giudiziale del regolamento in sede contenziosa
solo quando uno o più condomini, predisposto un testo di regolamento,
abbiano visto frustrata la propria iniziativa ex art. 1138, co. 2, c.c. 4.
Occorre riconoscere, tuttavia, che i casi finora registrati di formazione
giudiziale del regolamento obbligatorio sono davvero pochi e che
l’importanza della norma va ricercata altrove.
Probabilmente bisogna concentrare l’attenzione, piuttosto che sul dovere di formazione, sul corrispondente potere che l’imposizione di quel
dovere suppone: quello di disciplinare determinate materie che la legge
attribuisce e riserva all’assemblea dei condomini.
Non vi è ragione di escludere, infatti, che l’assemblea condominiale possa adottare un regolamento di condominio con contenuti analoghi a
quelli del regolamento obbligatorio, anche quando i condomini non siano più di dieci 5.
Al di là della stretta portata precettiva, dunque, l’art. 1138 c.c. costituisce il dato normativo fondamentale per definire la materia regolamentare, intesa come insieme di questioni che il regolamento di condominio
può disciplinare.
La controversa natura del regolamento di condominio non è un argomento decisivo ai fini della presente indagine 6: per quel che qui interes3
In senso affermativo G. BRANCA, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt.
1100-1139 c.c., Bologna-Roma, 1954, p. 494; D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 513; G. CRICENTI, Regolamento di
condominio adottato dal giudice e limiti alla proprietà esclusiva, in Giur. it., 1994, I, 1, p. 1631, e L. MONTESANO, Regolamento giudiziale di condominio: sentenza determinativa o decreto camerale?, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1996, p. 1009, il quale sostiene l’applicabilità a questi procedimenti, di cui nega la natura contenziosa, della normativa generale dei procedimenti in camera di consiglio, argomentando ex artt. 1139 e 1105,
co. 4, c.c.; M.C. PULSONI, Il regolamento giudiziale di condominio, Padova, 1999, p. 1. Contra L. SALIS, op. cit.,
p. 404; RUSCELLO, op. cit., p. 170; B. MARINA-G. GIACOBBE, Condominio negli edifici, in Enc. Dir., VIII, Milano,
1961, p. 938.
4
Trib. Palermo, 26 marzo 1968. Più di recente, la Suprema Corte ha affermato l’efficacia vincolante nei confronti di tutti i condomini di un regolamento adottato in virtù di sentenza (Cass., 1 febbraio 1993, n. 1218, in
Giur. it., 1994, I, 1, p. 1632).
5
Sulla completa applicabilità dell’art. 1138 c.c. anche al cosiddetto regolamento facoltativo, TRIOLA R., Il nuovo condominio, Torino, 2013, p. 437.
6
La teoria della natura contrattuale – che risale agli studi di L. SALIS, Il condominio negli edifici, Torino, 1959,
p. 357, D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio nelle case divise in parti, Torino, 1960, p. 501, e M. ANDREOLI, I regolamenti di condominio, Torino, 1961, p. 8 – risulta incompatibile con l’efficacia del regolamento nei confronti
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
93
sa, ci si limita a rilevare che il regolamento si presenta come espressione
di un potere normativo che l’art. 1138 c.c. attribuisce all’organizzazione
condominiale 7, contribuendo a disegnare quello che, richiamando studi
classici 8, si potrebbe definire lo statuto della proprietà condominiale.
Prima di esaminare più da vicino in cosa consista la materia regolamentare, occorre rilevare che spesso, nella prassi, gli atti di alienazione di
unità immobiliari, specie per gli edifici condominiali di nuova costruzione, contengono il rinvio ad un documento intitolato «regolamento di
condominio». Detto documento, dal contenuto talvolta eterogeneo, è
generalmente predisposto dall’originario proprietario dell’intero edificio
ed è, perciò, denominato regolamento di origine esterna9.
Per comodità, giurisprudenza e dottrina utilizzano la locuzione «regolamento di condominio» per riferirsi genericamente a quel documento e
poi distinguere, al suo interno, le parti o clausole di natura propriamente regolamentare da quelle di natura contrattuale.
La giurisprudenza – pragmaticamente – ritiene decisivo il contenuto della clausola al fine di accertarne la natura, dando per scontato – almeno
nelle enunciazioni di principio – che a contenuto negoziale corrisponda
volontà negoziale e a contenuto assembleare corrisponda volontà collegiale 10.
dei dissenzienti e degli aventi causa anche in difetto di trascrizione. Per le stesse ragioni non può essere accolta nemmeno la variante del contratto normativo (o dei negozi regolamentari, figura evocata da RUSCELLO, I
regolamenti di condominio, Napoli, 1980, p. 51, quantomeno sul piano funzionale). Condivisibilmente richiamano l’attenzione sul concetto di norma regolamentare E. DEL PRATO, I regolamenti privati, Milano, 1988,
p. 54; TRIOLA, op. cit., Torino, 2013, p. 419 e M. FRAGALI, La comunione, I, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da
CICU MESSINEO, Milano, 1973, p. 500.
7
Indicativamente, l’art. 18, D.P.R. 17 gennaio 1959, n. 2 prevede espressamente la facoltà per gli assegnatari
degli alloggi di tipo popolare ed economico di adottare regolamenti di condominio, attribuendo loro
l’amministrazione dello stabile.
8
F. VASSALLI, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in Studi giuridici, II, Milano, 1960, p. 329, il
quale rileva l’esistenza di statuti diversi della proprietà che «variano assai». L’espressione è ripresa da S. PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, 148, nonché da P. RESCIGNO, voce “Proprietà (diritto privato)”, in Encicl. dir., vol. XXXVII, Milano, 1988, p. 261.
9
Il costruttore, come è ovvio, non è obbligato a predisporre alcun regolamento di condominio: Cass., 23 febbraio 2012, n. 2742, in Dir. e giustizia, 2012, p. 73, con nota di PALOMBELLA, L’atto d’obbligo ma… verso il comune, non verso gli acquirenti.
10
Cass., SS.UU., 30 dicembre 1999, n. 943, in Contratti, 2000, p. 329, con nota di G. TERZAGO, La forma prevista per le modifiche al regolamento condominiale; nello stesso senso la giurisprudenza successiva, Cass., 20
marzo 2015, n. 5657; Cass., 6 maggio 2014, n. 9681; Cass., 4 giugno 2010, n. 13632, in Riv. giur. edilizia,
2010, I, p. 1522; Cass., 8 novembre 2004, n. 21287, in Vita notarile, 2005, p. 257; Cass., 14 novembre 1991,
n. 12173 in Foro it., 1992, I, p. 3046. Del resto, è appena il caso di rilevare che se la giurisprudenza si fosse attenuta alla qualificazione dell’atto suggerita dalle parti e dall’intitolazione dell’atto, avrebbe dovuto concludere per l’inefficacia di tutte le clausole di contenuto “contrattuale”. Per quanto la qualificazione del contratto pacificamente non rientri nella disponibilità delle parti, il nome da loro attribuito a un certo atto e la
forma adottata possono costituire un indizio non secondario del tipo di affare concluso (in tal senso, R. SAC© Wolters Kluwer
94
Capitolo III
In effetti, il riconoscimento della natura regolamentare oppure negoziale di una certa clausola è questione che attiene propriamente alla sua
qualificazione. Se la clausola risulta obiettivamente diretta a determinare convenzionalmente il contenuto del diritto ceduto, a conformare il
bene oggetto del contratto o a istituire un vero e proprio rapporto obbligatorio tra le parti, si tratterà di clausola contrattuale. Se, invece, la
clausola detta una disciplina in ordine a questioni che si intendono pur
sempre lasciare alle future determinazioni della maggioranza dei condomini 11, allora si tratterà di clausola regolamentare in senso stretto.
Le modalità di approvazione del cosiddetto regolamento di origine
esterna (ossia predisposto dal costruttore) sono compatibili sia con la
formazione di una volontà collegiale, espressa nelle forme dell’assemblea totalitaria, sia con la formazione di una volontà negoziale 12. La stessa compatibilità, del resto, potrebbe registrarsi nel caso in cui, nel corso
di un’assemblea, tutti i condomini raggiungessero e sancissero un accordo su determinate questioni.
CO,
Il contratto, tomi I e II, in Tratt. Diretto da Sacco, Torino, 2004, il quale rileva che spesso le parti, indicando il nome di un contratto, vogliono indicare il fascio di norme cogenti e dispositive che il diritto riconnette a
quel contratto).
11
L’art. 1138, co. 3, c.c. dispone che la deliberazione di approvazione o modifica del regolamento deve essere approvata con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio
(quella stabilita dall’art. 1136, co. 2, c.c.). La norma si applica pacificamente anche per l’approvazione di regolamenti facoltativi.
La dottrina maggioritaria ritiene condivisibilmente che la stessa maggioranza qualificata sia richiesta anche in
seconda convocazione (M. DI MARZIO, Codice del condominio, a cura di F. LAZZARO-M. DI MARZIO-F. PETROLATI,
Milano, 2014, p. 641; F. RUSCELLO, op. cit., p. 175 e D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 516). Parte minoritaria della
dottrina, invece, ritiene sufficiente la maggioranza di cui all’art. 1136, co. 3, c.c., pur non richiamato dalla
norma in esame, per le modifiche regolamentari discusse ed approvate in seconda convocazione, limitatamente alle materie per le quali non è richiesta diversa maggioranza (G. BRANCA, op. cit., p. 482).
La giurisprudenza ha escluso che il regolamento possa essere modificato per fatti concludenti, ritenendo richiesta dalla legge la forma scritta ad substantiam. Tanto si è, in passato, ricavato dall’art. 1136, co. 3, c.c.,
che ne prevedeva la trascrizione in apposito registro mai istituito: la nuova formulazione della norma prevede che esso sia allegato al registro dei verbali: Cass., SS.UU., 30 dicembre 1999, n. 943, in Contratti, 2000, p.
329, con nota di G. TERZAGO, La forma prevista per le modifiche al regolamento di condominio, seguita da
Cass., 16 settembre 2004, n. 18665, in Riv. giur. edilizia, 2005, I, p. 771 e Cass., 7 giugno 2011, n. 12291, in
Nuova giur. civ., 2012, p. 28, con nota di M. D’AMICO, “Variante” alla facciata dell’edificio: limiti ed inderogabilità del regolamento condominiale. In dottrina, A. SCARPA, Il regolamento di condominio, in Immob. propr.,
2010, p. 517, dopo una lucida analisi degli argomenti posti a fondamento delle decisioni citate, ritiene che
non sia da escludere la possibilità di un accordo per fatti concludenti concluso tra condomini in ordine alle
modalità d’uso delle parti comuni (o in altra materia regolamentare). In proposito, si rileva che – per quanto
detto al precedente par. 1 – appare preferibile ritenere estranea all’autonomia individuale dei condomini e
inderogabilmente rimessa all’autonomia collegiale del gruppo ogni determinazione in materia regolamentare, ferma restando la possibilità di conversione di eventuali accordi tra tutti i condomini in approvazione di
clausole regolamentari
12
R. TRIOLA, op. cit., Torino, 2013, p. 466.
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
95
In entrambi i casi, per decidere della natura dell’atto o della clausola, risultano decisive le concrete e obiettive circostanze del caso. Se, per
esempio, a seguito di una estenuante riunione di condominio, dopo che
l’assemblea ha deciso di chiedere a un condomino la rimozione di un
condizionatore da costui installato sul suo balcone in modo da recare
pregiudizio al decoro dell’edificio, lo stesso condomino proponga che si
stabilisca che nessuno possa eseguire opere che interessino in qualunque modo le pareti esterne dell’edificio e, per avventura, detta proposta
dovesse raccogliere il voto favorevole di tutti i condomini, appare difficile sostenere che si sia inteso stipulare una convenzione circa l’assoluta
immodificabilità della facciata 13. Se, invece, il divieto di apportare modificazioni è contenuto negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari
comprese in un supercondominio che si presenta come una vera e propria cittadella residenziale improntata a specifici criteri estetici, è evidente che nessun dubbio può sorgere sull’intento negoziale delle parti 14.
Il mero fatto che una deliberazione assembleare sia stata approvata
all’unanimità dalla totalità dei condomini, insomma, non impone di considerare il deciso espressione di una volontà negoziale 15; per converso,
la sede negoziale della stipulazione del primo atto di alienazione non
esclude la natura assembleare del regolamento contestualmente approvato dall’originario unico costruttore e dal primo acquirente.
Se, poi, la deliberazione eccedesse le materie che la legge riserva alla
competenza del regolamento, essa risulterà radicalmente nulla. Se, invece, le parti hanno inteso stabilire negozialmente aspetti della materia
condominiale che la legge riserva al regolamento, quell’accordo potrà –
con tutta probabilità – convertirsi in deliberazione di approvazione di un
regolamento assembleare adottata nel contesto di un’assemblea totalitaria, ma le relative disposizioni resteranno pur sempre modificabili a
13
TRIOLA, op. cit., p. 468, rileva che qualora il regolamento di condominio sia approvato con il voto favorevole
di tutti i condomini, le eventuali limitazioni al godimento delle unità immobiliari individuali che esso contenga non saranno efficaci se non risulta un’espressa volontà dei condomini di volersi impegnare contrattualmente. E. DEL PRATO, Adozione di tabelle millesimali, criteri, usi, deliberazioni, in Giur. it., 2010, n. 2266, rileva
che «unanimità, in sé, non vuol dire contrattualità, ma costituisce un atteggiamento della deliberazione, che
si riflette sulla legittimazione ad impugnarla».
14
Cass., 13 giugno 2013, n. 14898, a proposito di un caso di questo tipo qualifica la clausola di immodificabilità come costitutiva di servitù reciproche.
15
R. CORONA, I regolamenti di condominio, Torino, 2004, p. 116.
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96
Capitolo III
maggioranza nei modi e nelle forme stabilite per il regolamento assembleare 16.
In conclusione, si deve ritenere che nemmeno mediante un contratto
tra tutti i condomini si possa derogare alla norma che attribuisce
all’assemblea il potere di regolare o rivedere la disciplina di determinati
aspetti della materia condominiale: d’altra parte il protrarsi per un tempo indefinito della situazione di condominio impone di rifuggire ipotesi
di immodificabilità assoluta, specie per gli aspetti che attengono alla gestione piuttosto che alla proprietà condominiale 17.
Si tratta, insomma, di una prerogativa del gruppo.
2. Le materie regolamentari come prerogative del gruppo
Prima di esaminare in positivo quali siano le materie regolamentari, è
bene premettere che il co. 4 dell’art. 1138 c.c. dispone che il regolamento di condominio non può incidere in alcun modo sui diritti di ciascun
condomino, così come determinati dalle convenzioni o dai titoli di acquisto. Solo un accordo tra tutti i partecipanti al condominio, cioè, può
determinare il contenuto del diritto di proprietà di ciascun condomino,
stabilire criteri di ripartizione delle spese diversi da quelli legali (art.
1123, co. 1, c.c.), derogare alla disciplina dispositiva 18 in materia di perimento dell’edificio (art. 1128, co. 1, c.c.), sopraelevazione (art. 1127
c.c.), parti comuni 19 (artt. 1117 e 1118 c.c.): si tratta, evidentemente, di
veri e propri contratti che conformano l’oggetto o determinano convenzionalmente il contenuto del diritto di ciascuno: la prima alienazione ne
rappresenta la sede tipica 20.
Rientrano, invece, tra le materie oggetto dei poteri normativi del gruppo:
a) la disciplina dell’uso delle cose comuni, secondo i diritti e gli obblighi
spettanti a ciascun condomino. Si tratta della regolamentazione delle
16
M. COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprietà, Napoli, 1967, p. 310; in giurisprudenza, per la modificabilità delle clausole attinenti alle materie assembleari contenute in un regolamento predisposto
dall’originario unico proprietario, vedi Cass., 14 agosto 2007, n. 17694. In sostanza, le norme che determinano le competenze dell’assemblea devono ritenersi inderogabili.
17
La riforma del 2012 ha previsto che l’assemblea possa, a larghissima maggioranza e a seguito di convocazione con speciali formalità, modificare le destinazioni d’uso delle parti comuni. Sul contenuto dispositivo di
detta deliberazione si rinvia al cap. 4.
18
Cass., 14 novembre 2002, n. 16022; Cass., 7 agosto 2002, n. 11877, in Rass. locaz. e cond., 2003, p. 112,
nonché in Giur. it., 2003, I, p. 1154.
19
Vedi, tuttavia, il cap. 4, parr. 16-18, a proposito della deliberazione ex art. 1117-ter c.c.
20
Sulla rilevanza della prima alienazione di un’unità immobiliare condominiale, si rinvia al cap. 1, parr. 6 e 7.
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
97
modalità d’uso delle parti comuni e, in genere, dell’organizzazione e del
funzionamento dei servizi condominiali.
Il regolamento, per esempio, può disciplinare orari, giorni e modalità
del parcheggio nelle aree comuni a ciò destinate 21, garantendo
l’equilibrio che deve essere conservato tra le possibili concorrenti utilizzazioni del bene comune 22. Il potere normativo del gruppo risponde
alla legittima esigenza di razionalizzare l’uso delle aree destinate a parcheggio 23, ma in nessun caso può portare alla esclusione di alcuni condomini dalla possibilità di servirsi delle parti comuni 24. Nel disciplinarne l’uso, poi, il regolamento deve adottare modalità che riflettano la
misura del diritto di ciascuno sulle parti comuni 25. I consueti richiami al
pari uso della cosa comune e all’art. 1102 c.c. rischiano di condurre a
soluzioni non sempre condivisibili 26. In una recente sentenza, per
esempio, si è ritenuta legittima la deliberazione con cui, nel regolamento di condominio, si è provveduto a distribuire i posti auto ricavati
nel cortile in ragione di uno per ciascuna unità immobiliare, indipendentemente dal valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare e
dalla misura di partecipazione alle spese per il cortile 27. Una conclusione di questo tipo appare poco compatibile l’art. 1138, co. 4, c.c. appe21
Trib. Piacenza, 29 ottobre 1992, in Arch. locazioni, 1993, p. 788.
Cass., 17 luglio 2006, n. 16228, in Giust. civ., 2007, I, p. 2473; Cass., 16 giugno 2005, n. 12873; Cass., 26
settembre 1998, n. 9649; Trib. Modena, 14 febbraio 2006.
23
Cass., 17 ottobre 1998, n. 10289, in Riv. giur. edilizia, 1999, I, p. 252.
24
Trib. Bologna, 5 dicembre 1996, in Arch. locazioni, 1998, p. 584.
25
Cass., 29 dicembre 2004, n. 24146, in Notariato, 2005, p. 361, con nota di C. SABATTINI, Il regime di modificabilità del regolamento di condominio. In detta sentenza si legge chiaramente che se il regolamento non si
limita soltanto alla disciplina dell’uso delle cose comuni in conformità dei diritti spettanti ai singoli condomini, ma pone delle norme che, incidendo sui singoli diritti, si risolvono in una alterazione, a vantaggio di alcuni
dei partecipanti e in pregiudizio degli altri, della misura del godimento che ciascun condomino ha in ragione
della propria quota, nessuna modificazione può essere ammessa senza il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio.
26
Per la critica del consueto richiamo all’art. 1102 c.c. in materia di condominio, si rinvia al cap. 4, sezione 1.
27
Cass., 16 gennaio 2014, n. 820, in Giustiziacivile.com, 3, 2015, con nota critica di M. BIASI, Criteri di ripartizione del godimento e modalità d’uso delle parti comuni. Nella motivazione della sentenza ci si spinge ad affermare che, nell’attuale regolamentazione giuridica del condominio, la misura di utilizzazione della cosa
comune non è in rapporto con la quota maggiore o minore di proprietà del singolo condomino ed è totalmente sganciata dalle tabelle millesimali utilizzate per il calcolo delle spese relative alla gestione del bene
stesso. In sostanza, è ben possibile che le modalità d’uso non riflettano la misura del diritto e che la ripartizione delle spese segua altri e indipendenti criteri. Il contributo alle spese da parte di ciascuno non dipende
dalle utilità espresse dalle parti comuni, le quali non dipendono dalla misura del diritto. È appena il caso di rilevare che se un approccio alla disciplina del condominio di questo genere dovesse prendere piede, le decisioni apparirebbero sempre più difficilmente comprensibili e prevedibili, con inevitabile aumento della conflittualità. Basti pensare, per rimanere al caso deciso dalla sentenza citata, a come possa essere applicata la
distribuzione dei posti auto in ragione di uno per ogni unità immobiliare nel caso in cui una o più delle unità
immobiliari comprese in quel condominio siano frazionate (o fuse).
22
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Capitolo III
na richiamato, ove si precisa chiaramente che l’uso delle cose comuni
e la ripartizione delle spese devono essere disciplinate dal regolamento «secondo i diritti e gli obblighi di ciascuno».
In relazione ai servizi, la decisione di sopprimere il portierato, previsto
dal regolamento di condominio, come anche quella di istituirlo, è stata
ritenuta attinente a materia tipicamente regolamentare28. Tuttavia,
qualora l’attuazione della decisione comporti la necessità di procedere a
modifiche della destinazione d’uso di parti comuni, la giurisprudenza
tende a richiedere la più ampia maggioranza richiesta per le innovazioni 29. Alla luce del nuovo art. 1117-ter appare preferibile lasciare distinti i
due profili: quello attinente al servizio, sul quale l’assemblea decide con
la maggioranza richiesta per la modifica del regolamento di condominio,
e quello attinente alla destinazione delle parti comuni, sul quale occorre
una deliberazione ai sensi dell’art. 1117-ter. Beninteso, se si decide di
sopprimere il servizio di portierato, l’eventuale alloggio del portiere potrà essere concesso in locazione a maggioranza 30. Con deliberazione ex
art. 1117-ter – sempre che ne ricorrano i presupposti, ossia che il ripristino del servizio risulti un’opzione sostanzialmente da scartare –
quell’alloggio perde la sua qualità di parte comune – che gli deriva dalla
destinazione all’utilità comune ex art. 1117 c.c. – per diventare oggetto
di comunione ordinaria tra i condomini 31;
b) la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a
ciascun condomino. Il regolamento di condominio votato a maggioranza
certamente non può stabilire criteri di ripartizione delle spese diversi da
quelli legali 32.
L’art. 1223 c.c., infatti, dispone espressamente che la ripartizione delle
spese avvenga in proporzione al valore della proprietà di ciascuno, «salvo diversa convenzione»33.
28
Cass., 5 ottobre 2001, n. 12290, in Foro it., 2001, I, p. 3522; Cass., 29 marzo 1995, n. 3708, in Arch. locazioni, 1995, p. 849; Trib. Milano, 14 maggio 1990, ivi, 1990, p. 750.
29
Cass., 17 giugno 1997, n. 5400, in Arch. locaz., 1997, p. 1254; Cass., 25 marzo 1988, n. 2585, in Foro it.,
1988, I, p. 1870. Sulle interferenze tra modificazione delle destinazioni d’uso delle parti comuni e innovazioni, vedi cap. 4, par. 16.
30
La concessione in locazione di una parte comune di cui non sia possibile l’uso diretto è ritenuta dalla giurisprudenza attinente all’ordinaria amministrazione: Cass., 22 luglio 2004, n. 13763, in Arch. locaz., 2004, p.
741, e, da ultimo, Cass., 21 febbraio 2014, n. 4216.
31
Vedi cap. 4, par. 16, a proposito della deliberazione ex art. 1117-ter c.c.
32
Sancisce la nullità della clausola del regolamento che deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese, da
ultimo, Cass., 6 novembre 2014, n. 23688.
33
Cass., 19 marzo 2010, n. 6714, in Giust. civ., 2010 I, p. 1646; Cass., 17 gennaio 2003, n. 641, in Riv. giur.
edilizia, 2003, I, p. 1147.
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
99
Il riferimento, quindi, è verosimilmente alle tabelle millesimali, che – a
norma dell’art. 68 e 69, disp. att., c.c. – sono allegate al regolamento di
condominio e redatte in applicazione dei criteri legali e convenzionali di
ripartizione delle spese 34;
c) la tutela del decoro dell’edificio. È pacifico che né il singolo condomino (art. 1122 c.c.) né i condomini in virtù di deliberazione
dell’assemblea approvata con le maggioranze prescritte (art. 1120 c.c.)
possano eseguire opere che rechino pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio. La giurisprudenza, poi, ha chiarito che il decoro architettonico proprio di ciascun edificio può risultare dalla situazione dei
luoghi o da un titolo contrario che, anche in veste di clausola contrattuale di un regolamento di origine esterna, può stabilire perfino
l’immodificabilità dell’intero organismo edilizio condominiale 35.
La dottrina, poi, non ha mancato di rimarcare che la disposizione in
commento non si riferisce al decoro architettonico, ma al più ampio
concetto di decoro, che comprende anche il cosiddetto decoro morale
dell’edificio 36. La norma di regolamento che impone di non sciorinare i
panni da finestre e balconi, per esempio, è stata ritenuta diretta alla tutela di un generale principio di decoro 37.
Ammesso che il regolamento possa vietare e sanzionare contegni ritenuti indecorosi nel contesto di determinati edifici condominiali, occorre
verificare se, in nome della tutela del decoro, una norma regolamentare
possa validamente incidere sulle possibilità di godimento e utilizzazione
delle singole unità immobiliari 38.
Parte della dottrina risponde affermativamente, ritenendo che la maggioranza abbia il potere di disciplinare anche l’uso delle proprietà individuali, purché lo faccia nell’interesse comune 39. È bene ricordare, però,
che il regolamento non può «menomare» i diritti di ciascun condomino
(art. 1138, co. 4, c.c.).
34
Vedi cap. 5, parr. 8-12.
Cass., 13 giugno 2013, n. 14898; Cass., 24 gennaio 2013, n. 1748; 23 maggio 2012, n. 8174; Cass., 6 ottobre
1999, n. 11121, in Arch. locazioni, 2000, p. 432.
36
M. FRAGALI, cit., p. 495. Argomenta ex art. 1120, co. 2, c.c., A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p.
527.
37
Cass., 16 ottobre 1999, n. 11692, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, p. 76; Trib. Reggio Emilia, 4 marzo 1993, in
Arch. locazioni, 1994, p. 132.
38
A. VISCO, op. cit., Milano, 1964, p. 527.
39
L. SALIS, op. cit., p. 429; A. VISCO, op. cit., p. 536.
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100
Capitolo III
Se ne ricava che il regolamento può disciplinare senza modificare, esattamente come già visto a proposito della determinazione delle modalità
d’uso delle parti comuni. Ebbene, in materia di decoro dell’edificio, la
regolamentazione potrebbe essere diretta a stabilire preventivamente
le modalità di esecuzione di determinate opere, in modo che tutti i condomini vi si uniformino con risultati nel complesso più armonici. Si pensi
all’installazione di antenne, parabole o condizionatori 40.
Nei casi in cui, poi, il regolamento preveda il divieto assoluto di determinati tipi di intervento, occorre rilevare che potrebbe trattarsi di disposizioni ridondanti, che solo apparentemente investono, disciplinandoli, interessi di natura reale di ciascun condomino. In effetti, per stabilire se
una clausola regolamentare sia diretta a modificare effettivamente le
possibilità di utilizzazione dei beni in proprietà esclusiva o comune, è
necessario ricostruire la condizione giuridica di partenza degli stessi beni. Insomma, determinate attività o destinazioni possono risultare incompatibili con le qualità proprie di un determinato edificio. Allora il divieto è a monte, e non trae la propria forza vincolante dalla disposizione
regolamentare che lo prevede, ma dalla natura stessa dei beni 41. Illuminante, sul punto, è una risalente ed inedita pronuncia della Suprema
Corte in cui si legge: “la condizione giuridica del proprietario del singolo
appartamento di un immobile in condominio, anche senza una specifica
limitazione contrattuale dell’uso, non è perfettamente identica a quella
del proprietario esclusivo di tutto l’immobile che trova il suo limite solo
nell’uso illecito che egli faccia della sua proprietà, giacché il modo di
usare la cosa propria trova sempre una limitazione nella destinazione
che la cosa stessa ha in relazione alle altre parti dello stabile di proprietà
comune” 42.
40
Su tutte le questioni attinenti all’installazione di condizionatori, inclusi gli aspetti connessi al regolamento
di condominio, A. BUZZANCA, L’installazione dei condizionatori negli edifici condominiali. Normativa e contenzioso, in L’installazione dei condizionatori negli edifici condominiali, a cura di I. MEO, Milano, 2012, p. 7 ss.
41
Per esempio, pur in mancanza di qualsiasi clausola contrattuale, si è ritenuto che la destinazione ad abitazione di un locale in proprietà esclusiva precedentemente destinato ad autorimessa possa risultare illegittima perché pregiudizievole per il decoro dell’edificio, dando luogo a una situazione di “basso”. In tal senso,
Cass., 17 aprile 2001, n. 5612, in Riv. giur. edilizia, 2001, I, p. 816.
42
Cass., 20 maggio 1936, in VISCO, op. cit., p. 528.
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
101
Certamente ridondanti sono le disposizioni regolamentari – della cui legittimità la giurisprudenza non dubita – con cui si vietano ai condomini
interventi pregiudizievoli per il decoro architettonico dell’edificio 43;
d) l’amministrazione. Il riferimento è alla gestione dei beni e servizi comuni. Si pensi alle norme su amministrazione e funzionamento
dell’assemblea e a quelle che disciplinano le modalità di manutenzione
delle parti comuni 44.
Una disposizione regolamentare può derogare alla norma di cui all’art.
1130 c.c., sottraendo all’amministratore il potere di decidere in ordine al
compimento di atti conservativi delle parti comuni dell’edificio per conferirlo in esclusiva all’assemblea 45; può estendere, ma non limitare il potere, di rappresentanza processuale dell’amministratore 46; può imporre
ai condomini di comunicare ogni variazione di indirizzo o atto di trasferimento della rispettiva unità immobiliare (art. 1130, n. 6, c.c.) 47 o vietare che un partecipante rappresenti in assemblea più di un certo numero
di condomini (art. 67, disp. att., c.c.) 48;
e) le sanzioni per la violazione di norme regolamentari. L’art. 70, disp.
att., c.c., nel testo originario, disponeva che il regolamento potesse stabilire, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino a un massimo di cinque centesimi di euro per le infrazioni a disposizioni regolamentari (vedi anche art. 63, disp. att., c.c.).
Sono state ritenute nulle, perché contra legem, eventuali disposizioni
del regolamento di condominio che prevedano sanzioni pecuniarie di
importo superiore 49.
Non è mancata qualche pronuncia della giurisprudenza di merito in senso contrario 50. Tali decisioni hanno fatto discendere la derogabilità del
limite posto dall’art. 70, disp. att., c.c. dal successivo art. 72, disp. att.,
43
Cass., 18 agosto 1986, n. 5065, in Riv. giur. edilizia, 1987, I, p. 183, in un caso in cui il condominio aveva
chiesto la rimozione di doppi infissi in anticorodal. In analoga fattispecie, Cass., 3 settembre 1998, n. 8731, in
Foro it., 1999, I, p. 598.
44
G. BRANCA, op. cit., p. 484.
45
Cass., 8 settembre 1997, n. 8719, in Vita notarile, 1998, p. 178.
46
App. Napoli, 16 febbraio 2011.
47
Cass., 21 agosto 2003, n. 12298, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, p. 494.
48
Trib. Milano, 15 giugno 1989, in Arch. locaz., 1991, p. 157; Cass., 28 marzo 1973, n. 853, in Giur. it., 1973,
1, p. 1258.
49
Cass., 21 aprile 2008, n. 10329, in Arch. locazioni, 2008, p. 472; Cass., 26 gennaio 1995, n. 948, in Foro it.,
1995, I, p. 1846; da ultimo, Cass. 16 gennaio 2014, n. 820, cit., ha ritenuto – a maggior ragione – illegittima la
norma regolamentare che disponeva la rimozione forzata dei veicoli parcheggiati fuori posto a spese del
condomino trasgressore.
50
G. conc. Caserta, 22 luglio 1985; G. conc. Caserta, 12 giugno 1985.
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102
Capitolo III
c.c., che non contempla tale norma tra quelle inderogabili. La questione
è stata portata anche innanzi alla Corte costituzionale, che l’ha dichiarata manifestamente inammissibile 51.
Il legislatore del 2012 52 ha voluto restituire ai condomini la possibilità di
stabilire nel regolamento sanzioni che potessero produrre un qualche effetto deterrente e ha, quindi, innalzato il limite massimo delle sanzioni a
duecento euro e, in caso di recidiva, fino a ottocento euro. Il D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modificazioni, nella l. 21 febbraio
2014, n. 9, tuttavia, ha rimesso all’assemblea – anziché, come in passato,
all’amministratore 53 – l’irrogazione della sanzione (art. 70, disp. att., c.c.).
3. L’opponibilità del regolamento ad aventi causa e conduttori
Le norme regolamentari sono efficaci 54 nei confronti di tutti i condomini, dei loro aventi causa e dei conduttori.
Dottrina e giurisprudenza a ragione hanno escluso la necessità della trascrizione 55 del regolamento assembleare nei pubblici registri immobiliari 56. L’opponibilità delle disposizioni in esso contenute è ricollegata da
alcuni autori alla natura propter rem delle obbligazioni che producono 57
e da altri alla loro stessa natura normativa.
È pacifico che i regolamenti condominiali vincolino direttamente e immediatamente i conduttori 58, anche nel caso in cui siano modificati nel
corso del rapporto di locazione 59.
51
C. cost., 11 dicembre 1997, n. 388.
Vedi art. 24 della L. 11 dicembre 2012, n. 220.
53
Cass., 26 giugno 2006, n. 14735, in Arch. locazioni, 2006, p. 513.
54
Occorre precisare che, in virtù del richiamo all’art. 1107 c.c., si ritiene che il regolamento produca effetti
dopo lo spirare del termine decadenziale di impugnazione (art. 1107, co. 2, c.c.) o con il passaggio in giudicato della sentenza che disattenda l’impugnazione (R. TRIOLA, op. cit., p. 456).
55
Il testo originario dell’art. 1138, co. 3, c.c. prevede, invece, la trascrizione nei registri – mai istituiti – di cui
agli artt. 1129, ult. co., e 71, disp. att., c.c. La novella del 2012 ha cancellato la disposizione, prescrivendo che
il regolamento di condominio sia allegato al registro indicato dall’art. 1130, co. 7, c.c.
56
L. SALIS, op. cit., p. 407; A. VISCO, op. cit., p. 545; G. BRANCA, op. cit., p. 488; perplesso F. GIRINO, Il condominio negli edifici, in Tratt. Rescigno, VII, Torino, 1982, p. 396; C. SABATTINI, op. cit., p. 361. In giurisprudenza,
Cass., 26 gennaio 1998, n. 714, in Foro it., 1999, I, p. 217.
57
M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 305. L’Autore osserva come, al fine di respingere l’opinione che fa riferimento all’arcaico istituto dell’onere reale, sia sufficiente notare che il soggetto passivo è individuato attraverso la situazione di godimento della cosa; la tutela è assicurata da un’azione personale verso l’obbligato,
che risponde con tutto il suo patrimonio; il contenuto si determina in base alla durata della situazione di godimento e non si estende alle prestazioni maturate in precedenza, arg. ex art. 63, disp. att., c.c. Nello stesso
senso G. BRANCA, op. cit., p. 486; cfr. VISCO, op. cit., p. 527.
58
A. DE RENZIS-A. FERRARI-A. NICOLETTI-R. REDIVO, Trattato del condominio, Padova, 2008, p. 873.
52
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
103
Il conduttore di una unità immobiliare dell’edificio condominiale può essere convenuto dai condomini – senza che questi siano tenuti ad agire
nei confronti del locatore proprietario del bene – per l’uso non conforme al regolamento condominiale che il conduttore faccia delle cose comuni 60 o dell’unità immobiliare tolta in locazione 61. Il condomino locatore, tuttavia, resta responsabile in solido con il conduttore della propria
unità immobiliare per le violazioni ad opera di quest’ultimo 62.
Appare necessaria la partecipazione al giudizio del proprietario laddove
l’attività del conduttore si traduca nell’affermazione di diritti in contrasto con quanto risulti dalle clausole regolamentari di natura contrattuale
e a effetti reali. Ciò non toglie, tuttavia, che il conduttore possa essere
convenuto in giudizio sulla base di un’azione personale 63.
4. Il sindacato del giudice sul regolamento
L’art. 1138, co. 3, c.c. rinvia all’art. 1107 c.c. per l’impugnazione del regolamento. Detta norma prevede che assenti e dissenzienti possano impugnare il regolamento entro trenta giorni, che decorrono dalla deliberazione per i dissenzienti e dalla comunicazione per gli assenti 64.
Parte della dottrina distingue l’impugnazione del regolamento
dall’impugnazione della deliberazione di approvazione e, ancora,
l’impugnazione del regolamento soggetta al termine decadenziale di trenta
giorni dall’azione o dalla questione di nullità del regolamento o di determinate clausole di esso 65.
59
Il rilievo è di A. SCARPA, Condominio e locazione, in Il nuovo condominio, a cura di R. TRIOLA, p. 1074, il quale
rimarca il ruolo subalterno del conduttore in relazione all’efficacia del regolamento nel quadro di una disciplina nel complesso insoddisfacente dei rapporti tra organizzazione condominiale e locazione di immobili.
60
Cass., 6 aprile 1991, n. 3600, in Arch. locazioni, 1991, p. 533.
61
Cass., 13 dicembre 2001, n. 15756, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, p. 307.
62
Si ritiene che il locatore sia tenuto non solo a imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, ma altresì a prevenire le violazioni e a sanzionarle anche avvalendosi della tutela contrattuale (Cass., 16 maggio 2006, n. 11383; Cass., 27 gennaio 1997, n. 825, in Arch. locazioni, 1997, p. 431). La giurisprudenza ha finora escluso che il conduttore possa essere colpito da sanzioni
regolamentari (Cass., 17 ottobre 1995, n. 10837, in Foro it., 1996, I, p. 952).
63
Cass., 29 agosto 1997, n. 8239, in Giur. it., 1998, p. 1340.
64
Deve ritenersi applicabile anche a detto termine la sospensione feriale in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1 della L. 7 ottobre 1969, n. 742, già dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art. 24 Cost. nella parte in cui non estende la sospensione disposta per i termini processuali anche al termine di cui all’art. 1137 c.d. per l’impugnazione di delibere dell’assemblea di condominio
(Corte Cost., 2 febbraio 1990, n. 42, in Giur. it., 1990, I, 1, p. 1026). In tal senso, M. DI MARZIO, op. cit., p. 647.
65
TRIOLA, op. cit., p. 449; M. DI MARZIO, op. cit., p. 647. Scettici sull’utilità di distinguere l’impugnazione del
regolamento dall’impugnazione della deliberazione di approvazione A. CELESTE-A. SCARPA, Riforma del condominio, Milano, 2012, p. 223.
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Capitolo III
Per i profili che attengono al procedimento di formazione, occorrerà impugnare la deliberazione di approvazione ai sensi dell’art. 1137 c.c. 66; nei
casi in cui, invece, il regolamento contenga deroghe agli artt. 1118, co. 2,
1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 c.c., 63, 66, 67 e 6867, disp.
att., c.c. ovvero incida sui diritti di alcuni condomini o si ponga in contrasto con norme imperative, sarà possibile in ogni tempo farne valere
l’inefficacia. Residuano i casi in cui, pur non essendo contrario alla legge e
attenendosi alle materie a esso riservate, il regolamento possa risultare il66
Si rinvia, sul punto, alla nota sentenza Cass., SS.UU., 7 marzo 2005, n. 4806, in Giur. it., 2005, p. 2042, con
nota di E. BATTELLI, Nullità ed annullabilità delle delibere condominiali (gli effetti della mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea).
67
Gli elenchi di norme inderogabili dal regolamento sono contenuti negli artt. 1138, co. 4, c.c. e 72, disp. att.,
c.c. Alcuni autori, con vari argomenti, ritengono che nemmeno con un contratto tra tutti i condomini le norme elencate possano essere derogate (L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, Torino, 1959, p.
220, il quale ritiene che un’eventuale deroga muterebbe la figura del condominio delineata dal legislatore e
consentirebbe regolamentazioni arbitrarie; M. ANDREOLI, I regolamenti di condominio, Torino, 1961, p. 64, afferma che la deroga frustrerebbe la finalità del legislatore di dettare una disciplina omogenea dei rapporti
per tutelare interessi collettivi e conclude che un’eventuale deroga sarebbe nulla per contrasto con norme
imperative; G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982,
p. 673, richiama i lavori preparatori e sottolinea che nell’art. 1138, co. 4, c.c. si afferma che le norme elencate «in nessun caso» possono subire deroghe dal regolamento di condominio). Altri ritengono necessario vagliare caso per caso l’eventuale nullità della deroga contrattuale (R. CORONA, Il regolamento di condominio,
Torino, 2004, ritiene che gli artt. 1138, co. 4, c.c. e 72, disp. att., c.c. possono riguardare solo i regolamenti
che il codice civile espressamente disciplina, cioè i cosiddetti regolamenti assembleari. L’estensione
dell’inderogabilità, dunque, non avrebbe carattere necessario. Sulla stessa linea R. TRIOLA, Il nuovo condominio, Torino, 2013, p. 478, il quale rileva che la questione della validità della deroga contrattuale debba essere
risolta sulla base dell’art. 1322 c.c.).
Probabilmente il problema non ha ragione di porsi perché, se si verte in materia regolamentare,
all’eventuale deroga non potranno che riconoscersi la natura e gli effetti propri delle clausole regolamentari
in senso stretto (G. BRANCA, op. cit., p. 673, rileva che la deroga da parte del regolamento assembleare ha un
senso per le materie regolamentari).
In giurisprudenza, al di là delle affermazioni di principio (Cass., 9 novembre 1998, n. 11268, in Riv. giur. ed.,
1999, p. 711 e Cass., 26 maggio 1990, 4905, in Riv. giur. ed., 1991, p. 27, si pronunciano per l’inderogabilità
assoluta delle norme richiamate), si è avuto modo di affermare l’inderogabilità assoluta delle norme che disciplinano la composizione dell’assemblea (Cass., 28 settembre 1994, n. 7894, in Foro it., 1995, I, p. 1223, a
proposito della composizione dell’assemblea del supercondominio), ma si è al contempo affermata la piena
legittimità della norma regolamentare che limiti il potere di partecipazione all’assemblea mediante rappresentante, nonostante l’espressa inclusione dell’art. 67, disp. att., c.c. nell’elenco contenuto nell’art. 72, disp.
att., c.c. (Cass., 11 agosto 1982, n. 4530, in Arch. locaz., 1982, p. 656, distingue il diritto di farsi rappresentare
in assemblea dalla regolamentazione delle concrete modalità di esercizio dello stesso diritto).
Argomentando dalla mancata menzione dell’art. 68 disp. att. tra le norme inderogabili, invece, si è affermato
che le tabelle millesimali possono indicare il valore cumulativo di una pluralità di unità immobiliari (Cass., 19
ottobre 1988, n. 5686, in Arch. locaz., 1989, p. 40). La decisione, con tutta evidenza, non appare condivisibile
e testimonia soltanto la pericolosità degli elenchi. Non si vede, infatti, come si possa ritenere derogabile dal
regolamento una norma che ne disciplina il contenuto obbligatorio: «il regolamento deve precisare», disponeva l’allora vigente art. 68, disp. att., c.c.
L’utilità concreta di entrambe le disposizioni che elencano norme inderogabili, dunque, risulta alquanto
dubbia.
Per un verso, la mancata inserzione nell’elenco potrebbe essere dovuta alla estraneità alla materia regolamentare; per altro verso, la espressa menzione potrebbe lasciare spazi al potere normativo del gruppo.
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
105
legittimo ed essere impugnato nei termini previsti dall’art. 1107 c.c.
Si deve escludere il sindacato del giudice nel merito delle scelte regolamentari dell’assemblea 68. Tuttavia, possono estendersi al regolamento di
condominio i risultati cui è pervenuta la giurisprudenza che, in tema di vizi
delle delibere assembleari, ha riconosciuto la rilevanza dell’eccesso di potere e delle sue varie figure sintomatiche: sviamento di potere, difetto, illogicità o irragionevolezza della motivazione, travisamento o erronea valutazione di fatti, difetto di istruttoria69. Con riferimento a disposizioni regolamentari, si potrebbe pensare al caso di turni per l’uso dei posti auto
condominiali inutilmente e inspiegabilmente farraginosi o a norme sulla
gestione irragionevoli o inutilmente dispendiose.
Per il caso di regolamento incompleto, appare preferibile ritenere che
qualunque condomino possa, in ogni tempo, attivarsi per il completamento, piuttosto che ammetterne l’impugnativa nei ristretti termini di
legge 70.
La giurisprudenza, davvero scarna e risalente sul punto, pare orientata a
richiedere il litisconsorzio di tutti i condomini nel giudizio di impugnazione del regolamento di condominio, sia per le cosiddette clausole assembleari, sia per quelle cosiddette contrattuali 71. Il fondamento di tale
orientamento appare, tuttavia, malcerto, specie alla luce della riforma
che – recependo il decisum di una nota sentenza delle Sezioni Unite 72 –
ha espressamente affermato la rappresentanza dell’amministratore nei
giudizi per la revisione delle tabelle millesimali (art. 69, co. 2, disp. att.,
c.c.) 73.
Ci si è interrogati, infine, sul potere del giudice dell’impugnazione di
colmare il vuoto regolamentare conseguente all’accoglimento della domanda, quantomeno per quanto attiene al contenuto obbligatorio del
68
M. DI MARZIO, op. cit., p. 650.
Cass., 21 febbraio 2014, n. 4216; Cass., 14 ottobre 2008, n. 25128; Cass., 3 dicembre 2005, n. 28734; Cass.,
5 novembre 1990, n. 10611; Cass., 27 gennaio 1988, n. 731, in Vita not., 1988, p. 249; Cass., 27 giugno 1978,
n. 3177, in Foro it., 1978, I, p. 2763, con rilievi critici di G. BRANCA. In dottrina, A. CELESTE, L’eccesso di potere
nelle delibere condominiali ed i limiti del sindacato da parte dell’autorità giudiziaria, in Arch. locaz., 2003, p.
769.
70
R. TRIOLA, op. cit., p. 449. Sul punto, vedi precedente par. 1.
71
Cass., 30 marzo 1990, n. 2590, in Riv. giur. edilizia, 1991, I, p. 27; nello stesso senso, con riferimento a
clausole indubbiamente contrattuali, Cass., 29 novembre 1995, ivi, 1996, I, p. 479.
72
Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, in Giur. it., 2010, n. 2266, con nota di E. DEL PRATO, Adozione di tabelle millesimali, criteri, usi, deliberazioni.
73
In dottrina, TRIOLA, op. cit., p. 450, ritiene che la controversia rientri tra quelle relative alle parti comuni.
69
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106
Capitolo III
regolamento 74. Nella sostanza, la questione si riduce alla possibilità di
chiedere contestualmente l’annullamento e il conseguente completamento del regolamento di condominio. Richiamando quanto detto a
proposito di formazione giudiziale del regolamento, in questa sede si ribadisce che appare preferibile limitare l’intervento sostitutivo del giudice ai casi di inerzia dell’assemblea, difficilmente ipotizzabile nel caso in
questione (anche considerato che il ristretto termine decadenziale stabilito dalla legge non consente di apprezzare una eventuale inattività
dell’assemblea a fronte delle rimostranze del condomino assente o dissenziente).
5. Le cosiddette clausole contrattuali: formazione, contenuto, opponibilità e tutela
Il procedimento di formazione delle clausole contrattuali non può che
coincidere con quello della formazione del contratto.
Si è già detto che molto spesso le clausole contrattuali sono contenute
in un testo predisposto dall’originario unico proprietario e richiamato
negli atti di alienazione delle singole unità immobiliari 75.
Il regolamento contrattuale di condominio, anche se non materialmente
inserito nel testo del contratto di compravendita delle singole unità immobiliari, fa corpo con esso allorché sia espressamente richiamato ed
approvato, di modo che le sue clausole rientrano per relationem nel
contenuto dei singoli contratti di acquisto e vincolano gli acquirenti 76.
Mediante clausole contrattuali i condomini possono regolare ogni tipo
di rapporto tra loro, entro i limiti propri dell’autonomia privata 77.
74
Ritiene insito nella funzione stessa dell’impugnazione il potere del giudice di sostituire le disposizioni contestate con altre ritenute più idonee, R. TRIOLA, op. cit., p. 454; su posizioni analoghe, M. FRAGALI, op. cit., p.
523. Escludono un simile potere del giudice M. ANDREOLI, cit., p. 153 e G. BRANCA, op. cit., p. 219.
75
R. CORONA, op. cit., p. 123.
76
Cass., 31 luglio 2009, n. 17886, in Arch. locazioni, 2010, I, p. 58; Cass., 16 febbraio 2005, n. 3104, in Riv.
giur. edilizia, 2005, I, p. 1463; Cass., 3 luglio 2003, n. 10523, in Contr., 2004, p. 31; Cass., 25 ottobre 2001, n.
13164, in Arch. locazioni, 2002, p. 292; Cass., 21 febbraio 1995, n. 1886. Da ultimo, Cass., 20 marzo 2015, n.
5657, ribadisce che solo il richiamo a un regolamento esistente consente di ritenere che quest’ultimo faccia
parte per relationem di ogni singolo atto di acquisto: del tutto insufficiente l’incarico conferito al costruttore
di redigerne uno contenente cosiddette clausole contrattuali. In un caso analogo, il mandato conferito al costruttore di redigere un regolamento di condominio contenente clausole contrattuali è stato a ragione ritenuto nullo per indeterminabilità dell’oggetto (Cass., 11 aprile 2014, n. 8606). In effetti, a rigore, non vi è ragione di ritenere aprioristicamente nulla una clausola contrattuale solo perché il suo contenuto non è determinato al momento della stipulazione dell’atto. È sufficiente che sia anche solo determinabile, fermo restando che la determinabilità ex uno latere equivale alla assoluta indeterminabilità.
77
R. CORONA, op. cit., p. 114. Si è ritenuta radicalmente inefficace la clausola contrattuale che impedisce il distacco dall’impianto di riscaldamento condominiale. In tal senso, Cass., 29 settembre 2011, n. 19893, Dir. e
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
107
Occorre, tuttavia, distinguere le clausole che, disciplinando interessi di
natura reale, conformano la proprietà condominiale da quelle che, pur
riguardando l’uso di parti comuni o individuali, sono dirette a soddisfare
bisogni personali 78. Le prime, una volta trascritte, saranno opponibili ai
successivi acquirenti; le altre, viceversa, produrranno effetti meramente
obbligatori e non saranno opponibili ai successivi aventi causa, se non in
virtù di loro adesione 79.
Disciplinano certamente interessi di natura reale le clausole dirette a includere o escludere determinate parti di edificio dal novero delle parti
comuni 80, quelle che determinino le destinazioni consentite o vietate81
delle singole unità immobiliari 82 o delle parti comuni 83 o, ancora, quelle
che attribuiscano un significato più rigoroso alla nozione di decoro architettonico dell’edificio 84.
Clausole di questo tipo sono diffusissime e devono il loro successo
all’attitudine a prevenire i conflitti generati dalla incompatibilità o dal
basso grado di compatibilità degli usi cui i condomini destinano le rispettive unità immobiliari. La predeterminazione delle destinazioni consentite o vietate, inoltre, consente di definire la qualità delle unità immobiliari condominiali come comprese in un edificio più o meno signorile, tranquillo, silenzioso, riservato eccetera 85.
giustizia, 2001, p. 429, con nota di PALOMBELLA, Legittimo il passaggio dall’impianto di riscaldamento centralizzato a quello autonomo. A esse non è stata ritenuta applicabile la disciplina delle condizioni generali di
contratto. Inoltre, la giurisprudenza ha più volte affermato che le norme richiamate dall’art. 1138, co. 4, c.c.
(artt. 1118, co. 2, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136, 1137 c.c.) non possono essere derogate nemmeno da
un regolamento contrattuale. Sul punto, vedi Cass., 9 novembre 1998, n. 11268, in Riv. giur. edilizia, 1999, I,
p. 710.
78
M. COSTANTINO, L’efficacia fra le parti e verso i terzi dei regolamenti di condominio e dei c.d. piani di lottizzazione e la distinzione dei diritti reali dai diritti di credito, in Casi e questioni in tema di obbligazioni, a cura di
M. SPINELLI, Bari, 1968, p. 47.
79
Cass., 3 luglio 2003, n. 10523, in I contr., 2004, p. 31; Cass., 9 agosto 1996, n. 7353, in Giur. it., 1997, I, 1, p.
1392. In dottrina, A. SCARPA, Regolamento del condominio ed obblighi per il conduttore, nota a Cass., 20 giugno 2010, n. 10185, in cui si ammette la possibilità che il conduttore aderisca a clausole contrattuali del regolamento non opponibili al locatore e si afferma che – a tal fine – non è sufficiente il richiamo al regolamento contenuto nel contratto di locazione.
80
Cass., 11 novembre 2002, n. 15794, in Riv. giur. edilizia, 2003, I, p. 917.
81
Cass., 27 ottobre 2011, n. 22428.
82
Cass., 30 giugno 2011, n. 14460; Cass., 27 maggio 2011, n. 11859, in Dir. e giustizia, 2011, p. 179, con nota
di D. PALOMBELLA, Legittimo il regolamento condominiale che vieta le discoteche; Cass., 20 aprile 2005, n.
8216, in Giust. civ., 2012, I, p. 2891, con nota di P. DEL BUONO, Clausole «regolamentari» e clausole contrattuali nel regolamento di condominio.
83
Cass., 4 aprile 2004, n. 2106, in Il civilista, 2011, 3, p. 40.
84
Cass., 17 giugno 2015, n. 12582; Cass., 24 gennaio 2013, n. 1748; Cass., 13 giugno 2013, n. 14898.
85
A. VISCO, Problemi giuridici attuali sul condominio di edifici, Milano, 1966, p. 49 ss., dedica un intero capitolo all’argomento.
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108
Capitolo III
L’individuazione delle destinazioni vietate o consentite può avvenire anche con riferimento alla specifica funzione del divieto, come accade allorché il regolamento precluda qualsiasi uso che comporti attività rumorose 86 ovvero altre immissioni (art. 844 c.c.) anche al di sotto della soglia
della normale tollerabilità 87, purché il contenuto della clausola non risulti assolutamente indeterminato 88.
Del resto, la ragionevolezza e la meritevolezza della clausola può essere
valutata solo in relazione alla sua concreta funzione: non avrebbe senso
vietare una serie tassativa di destinazioni e non anche destinazioni che
determinino identici profili di potenziale incompatibilità con le destinazioni delle altre unità immobiliari, allo stesso modo in cui non avrebbe
senso ritenere vietata una certa destinazione anche quando, in concreto, inidonea a incidere sulle possibilità di utilizzazione e sulle qualità delle altre unità immobiliari89.
Le categorie giuridiche adoperate dalla giurisprudenza per descrivere il
fenomeno sono diverse. Oltre che obbligazioni propter rem, si parla talvolta di oneri reali 90 e, più spesso, di servitù reciproche 91.
La dottrina che per prima si è liberata dai timori suscitati dal principio
del numerus clausus dei diritti reali non ha esitato ad affermare che
l’efficacia delle clausole contrattuali che disciplinano interessi di natura
reale è quella di dar luogo a vincoli di destinazione di natura reale 92. In
maniera analoga si esprime qualche pronuncia giurisprudenziale 93.
Stabilire se una clausola produca o meno effetti reali ha, inoltre, altre importanti conseguenze. Sul piano della tutela, solo se le clausole contrattuali hanno l’effetto di conformare le unità immobiliari condominiali, determinandone le destinazioni d’uso, ciascun condomino potrà reagire
86
Cass., 4 febbraio 1992, n. 1195, in Giust. civ., 1992, I, p. 2407.
Cass., 18 gennaio 2011, n. 1064, in Giust. civ., 2011, p. 1741; Cass., 7 gennaio 2004, n. 23, ivi, 2004, I, p.
922; Cass., 4 aprile 2001, n. 4963, in Arch. locazioni, 2001, p. 397.
88
Cass., 20 giugno 2012, n. 10198; Trib. Milano, 31 dicembre 2005, in Arch. locazioni, 2006, p. 430; Cass., 26
maggio 1990, n. 4905, in Riv. giur. edilizia, 1991, I, p. 27.
89
VISCO, cit., p. 60 ss., pone in rilievo come i divieti possano assumere connotati di intolleranza se intesi come
avulsi dalla loro concreta funzione e dalla concreta ricorrenza di un pregiudizio, anche non patrimoniale, per
gli altri condomini.
90
Vedi Cass., SS.UU., 30 dicembre 1999, n. 943; Cass., 21 maggio 1997, n. 4509, in Arch. locazioni, 1997, p. 823.
91
Cass., 13 giugno 2013, n. 14898, a proposito della clausola di immodificabilità di ogni singola unità immobiliare, richiama le servitù reciproche in ossequio al principio del numerus clausus delle obbligazioni reali. Vedi
Cass., 15 aprile 1999, n. 3749, in Giust. civ., 2000, I, p. 163, con nota di M. DE TILLA, Sulle limitazioni del regolamento contrattuale di condominio: servitù prediali ed oneri reali.
92
M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 316.
93
Cass., 4 febbraio 2004, n. 2106; Trib. Napoli, 11 novembre 1983, in Rass. dir. civ., 1985, p. 539.
87
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Il regolamento di condominio come prerogativa del gruppo
109
contro qualsiasi attività contraria con un’inibitoria reale costruita sul modello della negatoria e pretendere il risarcimento degli eventuali danni 94.
Ancora, non vi sono ragioni per escludere l’applicabilità della disciplina
dettata a tutela dei consumatori con riferimento ai regolamenti contrattuali predisposti dall’originario unico proprietario 95 che alieni le unità
immobiliari nell’esercizio della sua attività di impresa (artt. 33 ss., D.Lgs.
6 settembre 2005, n. 206, Codice del Consumo) 96. Di recente, del resto,
la Corte di Giustizia ha ritenuto applicabile detta disciplina alle compravendite immobiliari 97.
Non pare, tuttavia, che le norme a tutela dei consumatori possano applicarsi anche alle clausole che producono effetti propriamente reali,
quelle, cioè, che conformano l’oggetto del contratto di alienazione o determinano il contenuto del diritto ceduto. L’accertamento
dell’inefficacia di clausole di questo tipo, infatti, coinvolgerebbe inevitabilmente tutti gli altri condomini, alterando (le qualità del) l’oggetto del
loro acquisto. Conviene, dunque, limitare l’ambito di applicazione di
queste norme alle clausole contrattuali dirette a produrre effetti propriamente obbligatori tra acquirente (o acquirenti) e alienante 98. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla clausola con cui le spese condominiali per
le unità immobiliari invendute sono poste a carico degli acquirenti o a
quelle che intervengano sulla responsabilità contrattuale o extracontrattuale del costruttore 99.
94
È ovvio, del resto, che anche la situazione di condominio può costituire l’occasione per il verificarsi di danni ingiusti e che, spesso, per risolvere questioni lato sensu condominiali, non è necessario chiamare in causa
la tutela dei diritti reali. Esemplare Pret. Torino, 27 dicembre 1990, in Arch. locazioni, 1992, p. 855.
95
La giurisprudenza, pur risalente, ha escluso l’applicabilità dell’art. 1341 c.c. ai regolamenti contrattuali predisposti dal costruttore, ritenendo che il richiamo contenuto nel contratto di alienazione sia operato da entrambi i
contraenti (c.d. relatio perfecta). In tal senso, Cass., 14 gennaio 1993, n. 395, in Arch. locaz., p. 531.
96
Si rinvia, sul punto, all’ampia analisi di C. BELLI, Le clausole vessatorie ed il regolamento “contrattuale” di
condominio, in I contratti nel condominio, a cura di C. BELLI, I. MEO, Milano, 2012. Sul tema, A. SCARPA, Le clausole vessatorie nel regolamento di condominio, in Rass. locaz., 1999, p. 481.
97
Corte Giust. UE, 16 gennaio 2014, C-226/12, suppone l’applicabilità della disciplina delle clausole abusive
alle compravendite immobiliari. Nella specie, si trattava della clausola che spostava sul consumatoreacquirente l’obbligo del pagamento di un’imposta sull’incremento di valore dell’immobile, gravante per legge sull’alienante.
98
BELLI, cit., p. 62, rileva che il regolamento contrattuale risulta talvolta «indirizzato a disciplinare non solo i
rapporti tra i singoli proprietari ma anche i rapporti tra condomini e venditore attraverso l’utilizzazione di
clausole estranee alla funzione tipica del regolamento».
99
L’esempio è di A. CELESTE, Regolamento contrattuale e tutela del consumatore condominio, in Imm. e dir.,
2011, 10, p. 24.
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110
Capitolo III
6. La natura della clausola regolamentare che vieta di tenere animali
domestici
Con la novella del 2012 100 si è aggiunto un ultimo comma all’art. 1138
c.c., in cui si stabilisce che le norme del regolamento non possono vietare di tenere animali domestici in casa.
La nuova norma, che ha suscitato grande attenzione da parte dei media ed
è stato l’unico oggetto di dibattito parlamentare in aula a Montecitorio, interviene in un momento in cui la giurisprudenza prevalente ritiene che il
divieto di tenere animali domestici disciplini interessi di natura reale. Il divieto contenuto in un regolamento contrattuale, perciò, sarebbe pienamente valido e conformerebbe la proprietà condominiale, dando luogo
alla valida costituzione di servitù reciproche 101. Non sarebbe sufficiente,
pertanto, la maggioranza richiesta per l’approvazione o la modifica del
regolamento di condominio assembleare per introdurre il divieto o modificare la clausola contrattuale che lo imponesse.
Non è chiaro se il legislatore abbia voluto avallare i risultati di questa
giurisprudenza oppure abbia inteso riconoscere che tenere presso di sé
un animale domestico è un diritto indisponibile della persona, e che,
pertanto, esso non può essere cancellato da una contraria volontà, sia
essa collegiale o contrattuale.
Questa seconda soluzione appare preferibile 102 sia per i dubbi che continua a suscitare la ritenuta idoneità delle clausole che impongono simili
divieti a produrre effetti reali, sia perché il divieto di tenere animali domestici formulato in termini assoluti e a prescindere da qualsiasi concreto interesse alla quiete condominiale assume connotazioni di intolleranza che possono – già sulla base del diritto vigente – far dubitare della
sua meritevolezza di tutela 103.
100
Art. 16 della L. 11 dicembre 2012, n. 220.
Cass., 15 febbraio 2011, n. 3705, in Riv. giur. edilizia, 2011, I, p. 876, con nota di DE TILLA, Regolamento
contrattuale e divieto di tenere animali domestici nell’appartamento.
102
In tal senso si è espressa la dottrina maggioritaria, anche sul rilievo che nell’articolo in commento il comma
relativo al divieto di tenere animali domestici è posto a ridosso di un elenco di norme ritenute non derogabili
nemmeno per effetto del consenso negoziale di tutti i condomini. In tal senso, M. DI MARZIO, op. cit., p. 660. Si
erano espressi per la nullità di clausole contrattuali di contenuto analogo per difetto di meritevolezza, già prima
della riforma, A. CELESTE-L. SALCIARINI, Il regolamento di condominio e le tabelle millesimali, Milano, 2006, p. 313.
103
Cass., 26 marzo 2008, n. 7856, in Giust. civ., 2009, I, p. 1995; VISCO, cit., p. 60 ss., il quale, negli anni sessanta, richiama il mutamento dei costumi a proposito dell’apertura di un night club in un locale compreso in
un edificio condominiale. Sulla stessa scia, si può rilevare che negli ultimi decenni si è assistito a un crescente
e diffuso apprezzamento sociale per la cura degli animali domestici.
101
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111
CAPITOLO IV
CONSERVAZIONE E MODIFICAZIONE DELLE PROPRIETÀ INDIVIDUALI
E DELLE PARTI COMUNI
SOMMARIO: Sezione I - Le opere per le singole unità immobiliari - 1. Le opere
su parti di proprietà o uso individuale - 2. Il danno nei rapporti di vicinato e
le lacune della norma dettata specificamente per il condominio - 3. Le opere
per le singole unità immobiliari: il danno a parti comuni e proprietà individuali come soglia di liceità - 4. L’applicabilità al condominio della disciplina
dei rapporti di vicinato - 5. Il dovere di informazione preventiva e il ruolo del
gruppo - 6. Le opere di utilità sociale per le singole unità immobiliari - 7.
Un’inedita prerogativa del gruppo: l’imposizione di cautele o ragionevoli
modalità alternative di esecuzione dell’opera - Sezione II - Le opere per le
parti comuni - 8. Le opere necessarie per le parti comuni: dalla ricostruzione
alla manutenzione - 9. Le innovazioni come interventi migliorativi non necessari per le parti comuni - 10. L’inservibilità delle parti comuni secondo la
loro destinazione come soglia di liceità - 11. Le innovazioni e il condominio
parziale: condomini avvantaggiati e condomini svantaggiati - 12. Le altre innovazioni vietate: il pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza dell’edificio e
l’alterazione del decoro architettonico - 13. Le innovazioni gravose o voluttuarie e le innovazioni in senso improprio - 14. Le innovazioni di utilità sociale e le discipline di settore - Sezione III - Le modificazioni delle destinazioni
d’uso - 15. La modificazione della destinazione d’uso e il frazionamento delle
unità immobiliari condominiali - 16. La modificazione della destinazione
d’uso di parti comuni e la dismissione della loro destinazione originaria - 17.
Le condizioni di ammissibilità della deliberazione e l’inderogabilità della disciplina: una nuova prerogativa del gruppo - 18. La distribuzione tra i condomini delle nuove utilità e gli eventuali rimedi indennitari - 19.
L’indivisibilità delle parti comuni
SEZIONE I – Le opere per le singole unità immobiliari
1. Le opere su parti di proprietà o uso individuale
Individuato l’oggetto della proprietà condominiale nell’unità immobiliare composta di parti comuni ad altre unità immobiliari e di parti oggetto
di proprietà individuale, occorre ora occuparsi del suo contenuto.
L’attenzione si concentrerà sulla disciplina delle opere e delle modifica© Wolters Kluwer
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Capitolo IV
zioni delle destinazioni d’uso, posto che le forme di esercizio del diritto
che si risolvono nell’attività di utilizzazione dei beni secondo la loro destinazione economica in atto non sollevano particolari profili problematici e che, sotto questo profilo, la situazione di condominio non presenta
alcuna specificità rispetto agli ordinari rapporti di vicinato1. Saranno
esaminate separatamente – perché diversa ne è la disciplina – le opere e
i mutamenti di destinazione che attengono alle proprietà individuali da
quelli che attengono alle parti comuni, ponendo in rilievo – per le prime
e i secondi – quali spazi la legge riservi all’autonomia proprietaria, da
una parte, e quali prerogative riconosca all’organizzazione, dall’altra.
Avviando l’indagine dalle opere che attengono alle singole unità immobiliari, appare subito evidente che la norma di riferimento è l’art. 1122
c.c., intitolato, per l’appunto, alle «opere su parti di proprietà o uso individuale».
Il testo della disposizione si riferisce alle opere nelle unità immobiliari
oggetto di proprietà individuale.
La riforma del 20122 ha provveduto – oltre che a sostituire alla locuzione
«piano o porzione di piano» quella più appropriata di unità immobiliare
– a estendere la stessa disciplina anche alle opere “nelle” parti di edificio
oggetto di proprietà individuale in virtù di un cosiddetto titolo contrario3.
In questo senso deve essere interpretato l’approssimativo riferimento
alle «parti normalmente destinate all’uso comune», ma «attribuite in
1
Molto spesso nel linguaggio comune – e talvolta non solo – si annoverano tra le questioni o le liti condominiali conflitti che trovano nella situazione condominiale sono l’occasione e che, in effetti, possono
verificarsi negli stessi termini tra proprietari o detentori di immobili semplicemente vicini. Si pensi alla
copiosa microconflittualità generata da rumori molesti, al di sopra o al di sotto della soglia di liceità; dalla
propagazione di fumi o odori o dall’incuria per la propria unità immobiliare. Talvolta, poi, l’improprietà
dei riferimenti è doppia: per un verso, ci si riferisce a immissioni condominiali come se la situazione condominiale modificasse la disciplina delle immissioni (vedi successivo par. 4); per altro verso, si richiama
l’istituto delle immissioni per dirimere conflitti che nulla hanno a che vedere con la determinazione del
contenuto del diritto di proprietà ai sensi dell’art. 844 c.c. (sul punto, M. COSTANTINO, Contributo, cit., p.
197 ss.). R. TRIOLA, op. cit., p. 195, rileva che «il problema si sposta sulle persone». Non si può che prendere atto del fatto che in equivoci del genere è incorso anche il legislatore che, all’art. 7 c.p.c., ha assegnato
al giudice di pace la competenza in materia di immissioni condominiali, intendendo probabilmente riferirsi proprio alla microconflittualità causata da rumori e odori molesti dovuti a comportamenti devianti
piuttosto che alle questioni connesse all’incompatibilità o al basso grado di compatibilità delle forme di
utilizzazione delle singole unità immobiliari.
2
La L. 11 dicembre 2012, n. 220, «Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici», ha sostituito integralmente il testo dell’art. 1122 c.c. Il testo anteriore alla riforma è il seguente: «Art. 1122. Opere sulle parti
dell’edificio di proprietà comune. Ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non
può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio».
3
Vedi precedente cap. 1, parr. 5-6.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 113
proprietà esclusiva» o «destinate all’uso individuale»4. Come è evidente,
tuttavia, si tratta di una precisazione inutile, dato che, ai fini della disciplina in esame, non importa se la singola unità immobiliare sia stata individuata come tale in virtù della conformazione dell’organismo edilizio
o di un titolo contrario5.
Ebbene, secondo la norma in esame, le opere “nelle” singole unità immobiliari possono essere eseguite autonomamente da ciascun condomino senza necessità di alcuna autorizzazione assembleare.
Come si vedrà di seguito, invece, le modificazioni delle parti comuni che
si risolvano nel mutamento di destinazione d’uso o in innovazioni di parti comuni passano attraverso una deliberazione assembleare (artt. 1117ter, 1120, 1121 c.c.); ove, poi, non ricorrano le condizioni previste dalla
legge o le modifiche esorbitino da detti campi, occorre il consenso della
totalità dei condomini.
Il singolo condomino, dunque, può intervenire nella sua unità immobiliare eseguendo le opere che ritenga opportune, purché non rechi
danno alle parti comuni ovvero – ha aggiunto la novella del 2012 –
pregiudichi la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico
dell’edificio.
2. Il danno nei rapporti di vicinato e le lacune della norma dettata specificamente per il condominio
In linea generale, si può osservare che il tenore letterale dell’art. 1122
c.c. evoca il disposto dell’art. 840 c.c., secondo cui «il proprietario può
fare qualsiasi (…) opera che non rechi danno al vicino». La dottrina ha
chiarito che detta norma non risolve conflitti di appartenenza in ordine
a ciò che si trova al di qua o al di là del confine, sopra o sotto il suolo, e
4
Sulla sostanziale identità delle due ipotesi (uso individuale/proprietà esclusiva, rectius individuale) quando
è sufficiente richiamare il lastrico solare. G. TERZAGO, Il condominio – Trattato teorico-pratico, Milano, 2003,
659, afferma chiaramente che, a proposito di lastrico solare, uso esclusivo e proprietà esclusiva sono da considerare sinonimi.
5
Le parti “normalmente” destinate all’uso comune sembrano identificarsi con l’appartenenza a determinate
tipologie di elementi architettonici: le scale, gli ascensori, il tetto, i muri. In questo modo, tuttavia, la norma
confonde l’interprete, attirando l’attenzione sugli esempi contenuti nell’art. 1117 c.c. anziché sulla destinazione all’utilità comune, che costituisce l’essenza del fenomeno condominiale. Molto più opportunamente,
avrebbe potuto limitarsi a richiamare le unità immobiliari oggetto di proprietà individuale, posto che le parti
di edificio oggetto di titolo contrario o sono accluse a più estese unità immobiliari o costituiscono esse stesse
autonome unità immobiliari. D’altra parte, il fatto che una certa parte di edificio sia destinata all’utilità individuale in virtù del titolo o della conformazione dei luoghi non incide in alcun modo sul suo modo di essere
parte di una unità immobiliare o essa stessa autonoma unità immobiliare. Quel che conta ai fini della norma
in commento è che si tratti di unità immobiliare condominiale (si rinvia, sul punto, al cap. 1, par. 3).
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Capitolo IV
non ha nulla a che vedere con il danno ingiusto, ma conforma l’interesse
protetto del proprietario in relazione a quello del proprietario vicino.
Esclude, insomma, dal contenuto del diritto di proprietà ogni attività di
utilizzazione che rechi danno al vicino, ossia che pregiudichi forme di
sfruttamento attuali o potenziali di cui è suscettibile il fondo vicino6.
In effetti, la giurisprudenza7 ha chiarito che il danno cui si riferisce l’art.
1122 c.c. ben può consistere nella riduzione delle possibilità di utilizzazione delle parti comuni per gli altri condomini. L’espresso richiamo a
stabilità, sicurezza e decoro dell’edificio – certamente appropriato – non
esaurisce, dunque, le ipotesi di danno alle parti comuni: qualunque apprezzabile diminuzione del grado o delle forme di fruibilità delle parti
comuni, infatti, può essere considerata un danno8.
L’art. 1122 c.c., dunque, ripete il disposto dell’art. 840 c.c., adattandolo al
fenomeno della proprietà condominiale: le opere prese in considerazione
sono solo quelle eseguite “nelle” proprietà individuali e il riferimento al
fondo vicino è sostituito dalla menzione delle sole parti comuni.
Del tutto estraneo all’ambito di applicazione di questa disciplina il caso
del danno alle parti comuni cagionato nel corso dell’esecuzione dei lavori sulla unità immobiliare individuale, pianamente riconducibile al campo
della responsabilità aquiliana9: in ipotesi del genere non si tratta di sta6
M. COSTANTINO, Esercitazione su nevrosi per richiami impropri a nozioni astratte, in Studi in onore di Piero
Schlesinger, II, 2004, Milano, p. 875 ss. Sui diritti di sfruttamento del sottosuolo e del soprassuolo intesi come utilità potenziali, v. anche C.F. GABBA, Della proprietà usque ad sidera et inferos. Considerazioni intorno
all’art. 440 del Codice civile italiano, in ID., Questioni di diritto civile, I, Milano-Torino-Roma, 1909, p. 127 ss.
7
Da ultimo in Cass., 3 gennaio 2014, n. 53, in Immob. e proprietà, 2014, p. 259, nella cui motivazione si richiama anche la novella del 2012, si legge che il danno ex art. 1122 c.c. non va limitato esclusivamente al
danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa
comune, ma deve essere esteso anche al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili dalla cosa comune, anche se di ordine edonistico od estetico, per cui ricadono nel
divieto tutte quelle modifiche che costituiscono un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato.
Nello stesso senso, Cass., 11 febbraio 2005, n. 2743, in Arch. locaz., 2005, p. 574. In dottrina, R. TRIOLA, Il
nuovo condominio, a cura di TRIOLA, Torino, 2013, p. 334, nonché P. GIUGGIOLI, M. GIORGETTI, Il nuovo condominio, Milano, 2013, p. 164, che configurano il decoro architettonico come bene immateriale comune.
Cass., 28 maggio 2007, n. 12491, rigetta la domanda di ripristino di un balcone sul presupposto che le opere
realizzate dal condomino proprietario di esso non sottraggono aria e luce al vano scale e non ne diminuiscono, quindi, il grado di fruibilità.
8
La soglia di liceità degli interventi, dunque, è la più severa, quella tipica dei rapporti di vicinato. Come si vedrà nel seguito, la disciplina del condominio è più permissiva per interventi ritenuti di utilità sociale (art.
1122-bis) e per le innovazioni delle parti comuni, consentite purché non rendano del tutto inservibile la parte comune interessata per uno o più condomini (parr. 9-10).
9
Contra G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p.
445, il quale ritiene che la norma riaffermi un principio generale con riferimento al caso in cui la cosa danneggiata sia anche (pro parte) di proprietà del danneggiante. Si era pronunciato per la totale inutilità della
norma G. SCADUTO, Della comunione in generale, in Commentario del codice civile, diretto da M. D’AMELIO, Firenze, 1942, p. 908.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 115
bilire cosa il singolo condomino abbia il diritto di fare, ma come debbano essere eseguiti certi lavori. Se, spostando una parete interna, il singolo condomino rovina il tetto10, gli altri condomini potranno pretendere il
risarcimento del danno, ma non la rimozione dell’opera che resta pienamente lecita. La norma in esame, invece, è diretta proprio a stabilire
quali opere il condomino abbia il diritto di eseguire e quali no, e dispone
che il condomino «non può eseguire le opere che recano danno»: nel
caso in cui un tale danno dovesse riscontrarsi, l’opera risulterà illecita –
in quanto esorbitante dal contenuto del diritto di proprietà sull’unità
immobiliare – e il condomino potrà essere condannato alla riduzione in
pristino.
Per quanto detto finora, la formulazione dell’art. 1122 c.c. risulta lacunosa.
In primo luogo, essa si riferisce alle sole opere che il singolo condomino
può eseguire nella propria unità immobiliare, senza occuparsi delle opere che ciascun condomino può autonomamente eseguire sulle parti comuni11.
In secondo luogo, la norma esclude espressamente dal contenuto tipico
del diritto di proprietà del condomino le sole opere che rechino danno
alle parti comuni, alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico
dell’edificio, ma non si occupa delle opere che rechino danno alle altre
proprietà immobiliari individuali12.
10
L’esempio è di G. BRANCA, op. cit., p. 445.
Nella Relazione al codice civile si afferma che non si è ritenuto di disciplinare i limiti entro cui deve contenersi l’uso delle parti comuni «poiché tali limiti sono già stabiliti dall’art. 1102 del c.c.».
12
D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960, p. 148, a ragione rileva che quanto a illiceità non si può far differenza fra danno alle cose comuni e danno alle cose di altro proprietario: se l’art.
1122 c.c. si è limitato a riferirsi al primo caso, la ragione risiede nel fatto che il secondo rientrava nei principi
comuni che regolano i rapporti fra proprietà, indipendentemente dal fatto che essi si trovino in un edificio
condominiale. Nello stesso senso G. TERZAGO, Il condominio. Trattato teorico-pratico, Milano, 2003, p. 192 ss.
Al contrario, L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V, 3, Torino, 1956, p. 50, ritiene necessario
distinguere le opere che il singolo condomino non può compiere sulle cose comuni nella sua qualità di condomino, dalle opere che non può compiere né sulla cosa propria né sulla cosa comune in quanto dannose
per le cose di proprietà esclusiva degli altri condomini. Nello stesso senso, A. VISCO, Le case in condominio,
Milano, 1964, p. 160, afferma che le limitazioni che riguardano la proprietà dei singoli trovano la loro giustificazione nei rapporti di vicinato che, per forza di cose, sono più intensi e frequenti per il fatto stesso che le
proprietà individuali confinano orizzontalmente. G. BRANCA, op. cit., si riferisce all’art. 1102 c.c. per valutare
la liceità di opere in relazione alla tutela dell’integrità delle parti comuni e ai rapporti di vicinato con riferimento al rapporto tra appartamento e appartamento. R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 231, riferendosi al danno ingiusto determinato dall’uso illecito delle parti comuni, ritiene sostanzialmente inutile la norma.
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Capitolo IV
Occorre, a questo punto, verificare se le segnalate lacune possano essere colmate mediante un’interpretazione razionale e sistematica o con il
ricorso all’analogia.
3. Le opere per le singole unità immobiliari: il danno a parti comuni e
proprietà individuali come soglia di liceità
Si è detto che l’ambito di applicazione dell’art. 1122 c.c. sembra circoscritto alle sole opere che il singolo condomino esegue entro le mura
dell’unità immobiliare oggetto di proprietà individuale. Resterebbe affidata ad altre norme, invece, la disciplina delle opere sulle parti comuni.
Nella pratica, tuttavia, la distinzione si è dimostrata fuorviante e per nulla agevole13.
In effetti, non si vede come si possa stabilire se l’apertura di una finestra
sul cortile o di una porta nell’androne siano opere eseguite sulle parti
comuni o all’interno della porzione di piano di proprietà individuale e
non si vede come da questa circostanza si possano far dipendere valutazioni in ordine alla liceità dell’opera14.
Allora, piuttosto che discettare su immaginarie e astratte linee di confine che percorrerebbero muri, solai o balconi per accertare se l’opera
13
PERETTI GRIVA, op. cit., p. 141, rileva come la teoria della proprietà comune dei muri maestri non consente
di spiegare a quale titolo si debba riconoscere ai singoli condomini un maggior diritto, almeno per la parte interna di essi, in corrispondenza dei rispettivi appartamenti, posto che – in teoria – ciascun partecipante
avrebbe il diritto di servirsene allo stesso modo. L’Autore è costretto ad ammettere che occorre un certo artificioso sforzo per ricostruire una ideale suddivisione del godimento di quelle parti comuni estraneo al criterio generale della quota dedotta dal valore del piano.
14
In due recenti sentenze, la Suprema Corte è giunta a conclusioni apparentemente opposte, proprio perché
le questioni oggetto dei giudizi sono state impostate come casi di uso più o meno intenso del muro perimetrale. Nella sentenza del 14 maggio 2014, n. 10606, la Cassazione ha affermato che il condomino non può
collegare due appartamenti che si trovino in edifici condominiali diversi praticando un’apertura nel muro perimetrale. Nella sentenza del 16 maggio, n. 10852, si afferma che il condomino può autonomamente installare su un muro perimetrale un ascensore esterno a servizio della propria abitazione. Eppure, anche in questo
caso è stato evidentemente necessario praticare un’apertura nel muro perimetrale. Come è ovvio, nel primo
caso – sul quale si tornerà al par. 15 – la questione attiene alla possibile maggiore utilizzazione, da parte del
condomino autore del collegamento, del vano scale e di tutte le parti comuni che assicurano l’accesso
all’unità immobiliare (la quale, per effetto del collegamento, risulta più estesa). Nel secondo, invece, la questione attiene al decoro architettonico e all’eventuale diminuzione di aria e luce che l’opera potrebbe determinare per parti comuni o unità immobiliari individuali. Solo esaminando i diversi profili segnalati si possono adottare soluzioni ragionevoli. Non certo discettando della proprietà comune dei muri perimetrali.
Meno di recente, Cass., 18 febbraio 1998, n. 1708, ha ritenuto uso abnorme del muro perimetrale l’apertura
di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento e altra unità immobiliare compresa in
altro edificio. Cass., 10 febbraio 1981, n. 843, invece, ha ritenuto legittima l’apertura di una seconda porta di
ingresso a un appartamento sul pianerottolo. Come è evidente, nella soluzione di questioni di questo tipo gli
argomenti che fanno leva sull’astratta titolarità di elementi architettonici nascondono l’effettiva ratio decidendi in favore dell’enunciazione di principi astratti.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 117
coinvolge o no parti oggetto di proprietà comune e decidere della disciplina applicabile sulla base dei risultati dell’indagine, conviene cercare di
cogliere il reale e concreto significato precettivo della norma.
A tal fine, è necessario preventivamente individuare gli interessi che
l’opera della cui liceità si discute è diretta a realizzare: ossia verificare a
quali unità immobiliari l’opera torni utile, piuttosto che interrogarsi
sull’astratta titolarità di porzioni di edificio15. Successivamente, bisogna
identificare e valutare quali interessi la realizzazione dell’opera pregiudichi.
D’altra parte, è evidente che opere necessarie, per esempio, ad assicurare la stabilità dell’edificio possono doversi eseguire dall’interno di singoli appartamenti e che a dette opere non può certamente provvedere
il singolo condomino di propria autonoma iniziativa16.
E allora appare molto più agevole e sensato distinguere opere dirette ad
arrecare utilità a singole unità immobiliari da opere dirette ad arrecare
utilità a tutte le unità immobiliari17. Ossia, opere “per” le (piuttosto che
opere nelle) singole unità immobiliari da opere “per” le (piuttosto che
sulle) parti comuni.
Queste ultime, come si è accennato, sono disciplinate dagli artt. 1117ter, 1120, 1121 e 1128 c.c.18.
Le prime, invece, costituiscono precisamente l’oggetto dell’art. 1122 c.c.
Sulla base di un’interpretazione sistematica e razionale di detta norma,
dunque, l’ambito di applicazione della stessa deve ritenersi esteso a tutte le opere “per” le singole unità immobiliari, sia che esse si eseguano su
parti di edificio di proprietà individuale sia che esse si eseguano su parti
comuni.
La giurisprudenza, tuttavia, ha preferito un’interpretazione acriticamente letterale e, confortata anche dalla Relazione al codice civile, ha sempre ritenuto necessario il riferimento all’art. 1102 c.c. per decidere della
liceità di qualsiasi opera dovesse lambire le parti comuni, circoscrivendo
l’ambito di applicazione dell’art. 1122 c.c. alle sole opere “nelle” cosiddette proprietà solitarie19.
15
Vedi cap. 1, par. 4.
Salvo il caso di spese urgenti, espressamente disciplinato dall’art. 1134 c.c.
17
Per il caso di condominio parziale, il riferimento sarà alle opere che arrecano utilità alle unità immobiliari
che hanno in comune una certa “parte” di edificio (vedi cap. 1, par. 9).
18
Oltre che dalla disciplina delle opere di manutenzione e ricostruzione delle parti comuni.
19
I richiami giurisprudenziali sono superflui, posto che il riferimento all’art. 1102 c.c. è un vero e proprio topos in tutte le decisioni che riguardano le opere per le singole unità immobiliari.
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Capitolo IV
Sennonché il disposto dell’art. 1102 c.c., nonostante l’espresso richiamo
alla disciplina della comunione contenuto nell’art. 1139 c.c., non si attaglia alla proprietà condominiale20.
In proposito, occorre preliminarmente rilevare che le opere che ciascun
partecipante può eseguire autonomamente sul bene in comunione sono
disciplinate dal secondo periodo del co. 1 dell’art. 1102 c.c., e non dal
primo, cui generalmente si riferiscono la giurisprudenza e la dottrina
maggioritaria.
Infatti, l’ultima parte dell’art. 1102, co. 1, c.c. dispone che ciascun comproprietario può apportare a proprie spese le modifiche dirette al «miglior godimento della cosa comune».
Poiché, tuttavia, nella comunione ordinaria il bene oggetto di diritti
spettanti a più persone è uno e uno solo, l’opera eseguita dal singolo –
obiettivamente valutata – non potrà che giovare a tutti o a nessuno:
poiché tutti possono fare «parimenti uso» della cosa comune, tutte le
opere eseguite “sulla” cosa comune sono necessariamente opere “per”
la cosa comune. La norma, infatti, non considera nemmeno l’ipotesi in
cui l’opera eseguita dal singolo comproprietario sul bene in comunione
possa pregiudicare le possibilità di utilizzazione del bene da parte degli
altri, che – invece – è esattamente la questione di cui ci stiamo occupando.
Pertanto, la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie – alla ricerca di
una norma sulla base della quale individuare le opere consentite al singolo per la propria unità immobiliare, ma “sulle” parti comuni – hanno
dovuto far ricorso al disposto dell’art. 1102, co. 1, primo periodo, c.c. alterandone il significato.
Detta norma dispone che ciascun comproprietario «può servirsi della
cosa comune (…) purché non impedisca agli altri partecipanti di farne
parimenti uso secondo il loro diritto».
È evidente, tuttavia, che il servirsi o l’usare indicano l’attività di godimento del bene in comunione e non eventuali modificazioni od opere
eseguite per iniziativa del singolo (disciplinate dal periodo seguente della stessa norma)21.
20
Per la differente natura giuridica degli istituti della comunione e del condominio, vedi cap. 1, parr. 1 e 3.
M. COSTANTINO, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli, 1967, p. 159 ss., distingue la tutela
dell’interesse del proprietario diretta a difendere l’integrità del contenuto del suo diritto all’utilizzazione del
bene dalla tutela che spetta a chiunque si veda intralciare una lecita attività di godimento (sia esso lo stesso
proprietario, l’usufruttuario, il possessore, il conduttore ecc.). Nel primo caso la tutela si qualificherà reale,
21
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 119
D’altra parte, il condomino che installa una canna fumaria sulla facciata
dell’edificio, per esempio, non si serve di essa, non la usa, ma esegue
un’opera su di essa che la modifica, alterandone l’aspetto.
Per decidere se l’opera debba ritenersi consentita non basterà verificare
se essa impedisca agli altri condomini di fare altrettanto: se comprometta, cioè, l’utilità potenziale della facciata come appiglio per l’installazione di future canne fumarie.
Occorrerà stabilire preliminarmente, invece, se quell’opera pregiudichi
l’utilizzazione in atto della facciata da parte degli altri condomini, intesa
come prospetto dell’edificio22.
A ben vedere, si tratta di considerazioni in tutto identiche a quelle imposte dall’art. 840 c.c. al fine di valutare la reciproca conformazione delle
proprietà vicine: ciascun vicino può eseguire qualsiasi opera che non
pregiudichi le modalità di sfruttamento (attuali o potenziali) del fondo
altrui23.
Resta confermato anche alla prova dei fatti, dunque, che l’art. 1102 c.c.
– che è norma diretta a comporre interessi personali al godimento di un
certo bene valutati nel rapporto con altri soggetti – non può essere richiamato per determinare il reciproco contenuto di diritti su beni distinti, anche se vicini24 (rectius parzialmente sovrapposti25).
A questo punto, occorre interpretare l’art. 1122 c.c. estendendone il
campo di applicazione a tutte le opere per le singole unità immobiliari,
sia che esse si eseguano su parti di edificio di proprietà individuale, sia
che esse si eseguano su parti comuni. Altrimenti non resta che applicare
in via analogica l’art. 840 c.c., che rappresenta un riferimento normativo
decisamente più appropriato rispetto all’art. 1102 c.c.
In effetti, la giurisprudenza ha raggiunto risultati perfettamente compatibili con quanto detto.
nel secondo personale. Ne discende una differenza qualitativa tra utilizzazione e godimento. Ebbene, ove si
tratti di accertare se una determinata opera per una singola unità immobiliare costituisca esercizio del diritto
di proprietà del condomino, è evidente che il conflitto si svolge sul piano dell’utilizzazione e non del godimento. Lo stesso Autore, ivi, p. 284, ritiene impropri i riferimenti alla comunione in materia di condominio,
proprio sulla base del rilievo secondo cui la disciplina della comunione regola interessi personali al godimento del bene comune in concorso con altri soggetti, mentre la disciplina del condominio regola gli interessi
reali all’utilizzazione delle distinte unità immobiliari.
22
Vedi Cass., 31 luglio 2013, n. 18350, nella cui motivazione si menziona il nuovo testo dell’art. 1122 c.c.
23
M. COSTANTINO, Esercitazione su nevrosi, cit., p. 875 ss.
24
Vedi supra, nota 19.
25
Sulla sovrapposizione delle unità immobiliari condominiali, vedi cap. 1, par. 3.
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120
Capitolo IV
Per esempio, al fine di decidere se il condomino possa installare un serbatoio nel sottosuolo del cortile, si è ritenuto necessario verificare che
l’opera non alteri «l’utilizzo del cortile praticato dagli altri condomini» (ossia non incida sul modo di utilizzazione in atto) e che non impedisca analoga installazione da parte di altri (ossia non pregiudichi utilità potenziali)26.
Ancora, l’apertura di una nuova porta nell’androne è stata ritenuta lecita in quanto non interferisca con le modalità di utilizzazione
dell’androne stesso da parte degli altri condomini27.
Qualsiasi apertura praticata nei muri esterni è stata ritenuta lecita se
non pregiudica l’eventuale funzione portante del muro o il decoro
dell’edificio. Significativamente, si è affermato che sono vietate le opere
che riducono «le utilità detraibili dalle parti comuni anche se di ordine
edonistico od estetico»28.
Perde significato, dunque, la distinzione stessa tra opere nelle unità immobiliari e opere sulle parti comuni: tutte le opere “per” le singole unità
immobiliari sono lecite se non pregiudicano l’utilizzazione in atto o le
utilità potenziali delle parti comuni.
A questo punto, occorre occuparsi della seconda delle lacune segnalate:
l’art. 1122 c.c. esclude dal contenuto del diritto di proprietà del condomino le opere che rechino danno alle parti comuni nonché alla stabilità,
alla sicurezza e al decoro architettonico dell’edificio, ma nulla dispone in
ordine alle opere che rechino danno ad altre unità immobiliari29.
Probabilmente la precisazione è apparsa perfino pleonastica30.
Richiamando quanto detto nel cap. 1, par. 3, si potrebbe rilevare che tra
il danno alle parti comuni e il danno alle altre unità immobiliari non c’è
alcuna differenza qualitativa, poiché le parti comuni sono pur sempre
parte di ciascuna unità immobiliare condominiale e, pertanto, il danno
alle parti comuni si traduce pur sempre in un danno alle altre unità immobiliari condominiali. L’unica differenza consiste nel fatto che – nel caso di danno alle parti comuni – gli strumenti di tutela possono essere attivati anche dall’organizzazione condominiale.
26
Cass., 22 agosto 2002, n. 12262, in Rass. locazioni e cond., 2003, p. 107.
Cass., 26 marzo 2002, n. 4314.
28
Cass., 19 gennaio 2006, n. 1076, in Giur. it., 2005, I, p. 2067.
29
Il Progetto di riforma della disciplina del condominio approvato al Senato, D.D.L. 26 gennaio 2001, n. 71, nel riformulare l’art. 1122 c.c. aggiunge l’espresso riferimento alle opere che recano danno alle altre unità immobiliari.
30
Vedi supra, nota 12.
27
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 121
Anche per il caso di opere che rechino danno alle proprietà individuali,
dunque, devono valere le regole dettate per quelle che rechino danno
alle parti comuni.
A una tale conclusione si può giungere – anche questa volta – interpretando estensivamente la norma in commento come diretta a vietare
tutte le opere per le singole unità immobiliari che rechino danno alle altre, e non solo quelle che rechino danno alle parti comuni, oppure applicando analogicamente l’art. 840 c.c. Del resto, una larga parte della dottrina ritiene che i rapporti tra condomini che non coinvolgano le parti
comuni si riducano senza residui a rapporti di vicinato31.
Per le stesse ragioni vanno condivise la dottrina e la giurisprudenza che
hanno ricompreso nell’ambito di applicazione dell’art. 1122 c.c. anche il
mutamento di destinazione della singola unità immobiliare che non
comporti l’esecuzione di opere32.
Infine, occorre segnalare che talune opere eseguite nelle singole unità
immobiliari di proprietà individuale possono mettere a rischio la stabilità
dell’edificio e la sicurezza delle persone: si pensi alla realizzazione di
soppalchi o di tramezzature che sovraccarichino le strutture portanti, o
all’installazione di impianti elettrici pericolosi.
Per tali ragioni, il progetto di Riforma del condominio approvato al
Senato nel 2011 aveva previsto l’introduzione di un’apposita norma,
l’art. 1122-bis c.c., che sanciva espressamente il divieto di realizzare o
mantenere impianti od opere che non rispettassero le condizioni di sicurezza stabilite dalla legge. La norma, inoltre, disciplinava un procedimento diretto a far fronte alle situazioni di pericolo, che coinvolgeva
la figura dell’amministratore e favoriva la soluzione stragiudiziale degli
31
Per tutti, G. BRANCA, op. cit., p. 360 ss., il quale chiaramente afferma che la disciplina del condominio viene
in rilievo solo allorché le relazioni tra le proprietà delle singole porzioni di piano toccano le parti comuni. Altrimenti, se ne deduce, si tratta di meri rapporti di vicinato.
32
Facendo leva sul pregiudizio per l’estetica del fabbricato, si è – per esempio – considerata illecita la trasformazione di un’autorimessa in abitazione, in quanto il mutamento di destinazione avrebbe determinato la
creazione di una «situazione di “basso”». Vedi anche Cass., 17 aprile 2001, n. 5612, in Arch. locaz., 2004, p.
506; Cass., 29 aprile 2005, n. 8883, in Arch. locaz., 2006, p. 85. Si richiama a detto precedente Cass., 27 ottobre 2011, n. 22428, in cui si afferma che il mutamento di destinazione della singola unità immobiliare non
può considerarsi illecito solo perché determini una più intensa utilizzazione delle parti comuni, purché non
risulti alterato l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, da parte degli altri condomini.
Al di là del principio di diritto ormai tralatizio secondo cui il mutamento di destinazione della singola unità
immobiliare è lecito se non comporti l’esecuzione di opere dannose, pare – dunque – che la giurisprudenza
non escluda che il danno alle parti comuni – inteso come intralcio alle concorrenti attività di utilizzazione –
possa essere determinato anche dal mero mutamento di destinazione, pur in difetto di opere in sé dannose.
Per le conseguenze sul piano della ripartizione delle spese, si rinvia al cap. 5, par. 2. Vedi anche, in argomento, cap. 1, par. 6 nonché il seguente par. 15.
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122
Capitolo IV
eventuali conflitti assegnando un ruolo centrale all’organizzazione
condominiale. Il ricorso all’autorità giudiziaria si sarebbe reso necessario solo qualora l’amministratore fosse rimasto inerte a fronte di
fondate segnalazioni di pericolo o il condomino avesse negato immotivatamente l’accesso alla propria unità immobiliare per la verifica della situazione di sicurezza da parte dell’amministratore e di un tecnico
nominato di comune accordo. Eseguite le necessarie opere, il condomino interessato avrebbe dovuto consentire l’accesso dell’amministratore per la verifica.
La norma è stata completamente eliminata nel corso dell’esame del disegno di legge alla Camera: conseguentemente occorrerà continuare a
far ricorso agli ordinari strumenti di tutela apprestati dalla legge per i
rapporti di vicinato come, per esempio, la denunzia di nuova opera e
danno temuto, ferma restando la possibilità di ricorrere alle altre forme
di tutela, anche urgente, attivabili per salvaguardare la sicurezza delle
persone.
4. L’applicabilità al condominio della disciplina dei rapporti di vicinato
Se è vero che l’art. 1122 c.c., da una parte, e l’art. 840, co. 1, c.c.,
dall’altra, ricorrono entrambi alla nozione di danno, che per la sua indeterminatezza e gli ampi margini di valutazione delle circostanze lasciati
al giudice potrebbe senz’altro ritenersi una clausola generale33, è altrettanto vero che la valutazione della liceità dell’opera eseguita dal condomino o dal vicino è affidata anche ad altre norme, rispetto alle quali il
richiamo al danno funge da norma di chiusura: l’art. 1122 c.c., per il
condominio, si riferisce alle figure appena più definite di pregiudizio per
stabilità, sicurezza o decoro architettonico dell’edificio; la disciplina dei
rapporti di vicinato, invece, si compone di un complesso di regole che,
spesso, lasciano poco spazio alla valutazione delle circostanze del caso,
perché predeterminano rigidamente le condizioni di liceità dell’opera: si
allude, evidentemente, alla disciplina delle distanze.
33
Non è questa la sede per approfondire la questione delle clausole generali. Sul punto, ci si limita a rinviare
a L. MENGONI, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. critica di dir. priv., 1986, p. 5 ss.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 123
Si è posto, dunque, il problema di verificare se anche queste altre norme
dettate per la proprietà fondiaria e per la proprietà edilizia possano ritenersi applicabili al condominio negli edifici34.
La giurisprudenza prevalente sul punto, pur con accenti diversi, ha generalmente affermato l’inapplicabilità delle norme sulle distanze il cui rispetto dovesse risultare nel singolo caso irragionevole, ovvero la cui osservanza dovesse ritenersi incompatibile con la proprietà condominiale
negli edifici35: una tesi che potremmo definire intermedia tra l’applicazione cieca di tutte le norme sulle distanze e l’affermazione della radicale inapplicabilità della stessa normativa, sul presupposto della prevalenza – in materia – della disciplina dettata per l’uso delle cose comuni.
Se la questione è ormai pacifica per i casi in cui è tecnicamente impossibile il rispetto delle distanze nell’edificio condominiale, come per le distanze dei tubi dal confine (art. 889 c.c.), occorre qualche chiarimento in ordine alla valutazione di compatibilità cui si riferisce la giurisprudenza, con
particolare riferimento alle distanze per l’apertura o l’ampliamento di vedute e la realizzazione di pensiline, balconi, sporti, tettoie36 eccetera.
Una parte della dottrina, infatti, ritiene che la disciplina dell’utilizzazione
delle parti comuni viaggi su un piano parallelo rispetto a quello della disciplina delle distanze legali37, e alcune recenti pronunce ripetono che,
in caso di contrasto tra disciplina delle distanze e disciplina delle modificazioni delle parti comuni eseguite a vantaggio di singole unità immobi34
B. BIONDI, Disciplina del condominio e limiti legali della proprietà in senso verticale, in Foro it., 1957, I, p.
940, a ragione rileva che la legge disciplina i rapporti di vicinato «considerando il frazionamento fondiario in
senso orizzontale (…), ma lo sviluppo che ha assunto il frazionamento in senso verticale impone una disciplina dei rapporti di vicinanza in senso verticale. (…) I proprietari dei singoli piani non cessano di essere vicini
sol perché i rispettivi fondi si trovano non uno accanto all’altro, ma uno sopra l’altro». In mancanza di specifiche disposizioni, conclude l’Autore, si applicheranno le norme dei consueti rapporti di vicinato «naturalmente finché applicabili e con gli opportuni adattamenti».
35
Hanno fatto leva sulla compatibilità con la conformazione della struttura dell’edificio in condominio, Cass.,
12 ottobre 1962, n. 2691, in Giust. civ., 1961, p. 36; Cass., 11 novembre 2005, n. 22838; Cass., 15 dicembre
1984, n. 6585; Cass., 21 maggio 2010, n. 12520.
36
Cass., 16 gennaio 2013, n. 955, ha ritenuto illecita – perché realizzata in violazione delle distanze prescritte
dalla disciplina delle vedute – la copertura di una terrazza costruita dal proprietario del primo piano. La Suprema Corte, cassando la sentenza resa in grado di appello, ha escluso la possibilità di un generico contemperamento tra interesse alla riservatezza e interesse a esercitare l’affaccio, ritenendo applicabile la disciplina
delle distanze dalle vedute.
37
R. TRIOLA, op. cit., p. 274, dopo aver respinto come poco chiare tutte le ricostruzioni che ricorrono a valutazioni di compatibilità, complementarietà o contemperamento, ritiene corrette solo le soluzioni estreme e si
pronuncia a favore della radicale inapplicabilità della disciplina delle distanze alla realizzazione di opere sulle
parti comuni eseguite dal condomino in favore della propria unità immobiliare. Si tratterebbe di norme che
operano su piani completamente diversi. G. BRANCA, op. cit., p. 453, rileva che non vi è ragione per cui i vicini
debbano osservare determinate precauzioni quando li separa, per esempio, un muro divisorio, e non osservarle se hanno in comune anche il tetto o altre parti di edificio.
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124
Capitolo IV
liari, debba prevalere quest’ultima: il che, a ben vedere, equivale ad affermare la radicale inapplicabilità della disciplina delle distanze nel condominio38.
Come si è accennato, le norme sulle distanze determinano il contenuto
normale del diritto di proprietà fondiaria stabilendo in modo generalmente rigido39 e con caratteri di reciprocità quali opere rechino danno al vicino
e quali no. Non è ammessa la prova contraria: la parte convenuta in giudizio per l’illegittimo ampliamento di una veduta, per esempio, non può efficacemente difendersi dimostrando l’assenza di un concreto pregiudizio alle possibilità di utilizzazione del fondo vicino, ovvero l’assoluta carenza di
concreto interesse dell’altra parte a pretendere il rispetto delle distanze40.
Se, dunque, si ritenesse radicalmente inapplicabile la disciplina delle distanze nel condominio, per ogni opera eseguita dal singolo condomino –
sempre che non pregiudichi stabilità, sicurezza e decoro architettonico
dell’edificio – occorrerebbe verificare in concreto se essa possa ritenersi
dannosa per gli altri condomini oppure no, alla stregua dell’art. 1122 c.c.
o dell’art. 840 c.c.41, senza la possibilità di ricorrere a nessun parametro
che possa semplificare l’indagine e aumentare il grado di prevedibilità
della decisione.
La valutazione di compatibilità, invece, apre la strada a un’applicazione
che potremmo definire analogica della disciplina delle distanze nel condominio.
In sostanza, in prima battuta si verifica se nel singolo caso gli interessi
coinvolti siano omogenei rispetto a quelli considerati dalla norma che
impone determinate distanze o se, invece, la situazione condominiale
imponga di valutare diversamente quegli interessi42.
Quindi, nel primo caso, la norma sulle distanze troverà senz’altro applicazione43, con la conseguenza che chi ne ha chiesto il rispetto non sarà
38
Per tutte, Cass., 30 maggio 2012, n. 5140; Cass., 18 marzo 2010, n. 390, in Giust. civ., 2010, I, p. 1040.
Salvo l’art. 890 c.c., in materia di distanze per depositi nocivi e pericolosi (in argomento, v. U. MATTEI, La
proprietà immobiliare, Torino, 1993, p. 246 ss.).
40
Almeno fino a quando la giurisprudenza resterà ancorata a una lettura sostanzialmente abrogativa della disciplina degli atti emulativi. Sul punto si rinvia alle considerazioni di M. COSTANTINO, Contributo, op. cit., p. 60 ss.
41
M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 166 s., rileva che l’art. 840, co. 2, c.c. contiene una norma di carattere
generale che opera nei casi non regolati di conflitto fra proprietario e terzi.
42
Nella stessa direzione si era mosso il progetto di riforma approvato al Senato, che nell’art. 1117-bis c.c., al
co. 2, dichiarava inapplicabili le norme sulle distanze, salvo che la condizione dei luoghi non lo avesse richiesto. Nell’esame del disegno di legge alla Camera, tuttavia, la norma è stata inopinatamente eliminata.
43
G. BRANCA, Distanze legali e condominio, in Foro it., 1952, I, p. 1166, rileva che il mero fatto che due unità
immobiliari siano condominiali non può consentire di disapplicare la disciplina delle distanze in situazioni in
cui ricorre la ratio della singola norma che impone determinate distanze.
39
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 125
tenuto a fornire la prova di un concreto ed effettivo pregiudizio; nel secondo caso, invece, chi si oppone all’opera dovrà dimostrare un apprezzabile diminuzione delle utilità attuali o potenziali della propria unità
immobiliare – comprensiva di parti comuni – al fine di vedersi riconosciuto lo jus opponendi44.
Sulla base di argomenti di questo tipo è stata ritenuta inapplicabile la disciplina delle distanze a balconi e pensiline o in relazione alle opere realizzate per la trasformazione di balconi in verande. La liceità di tali interventi, in effetti, è stata valutata considerando l’eventuale apprezzabile
pregiudizio al decoro architettonico o all’aspetto estetico dell’edificio,
oltre che la diminuzione di luce e aria per i singoli appartamenti45.
Viceversa, qualora l’opera abbia dato luogo a intercapedini dannose,
non si è esitato a ritenere applicabile la disciplina delle distanze tra le
costruzioni46.
Occorre, infine, rilevare che le conclusioni raggiunte in materia di distanze possono estendersi a tutta la disciplina dei rapporti di vicinato47.
In effetti, la giurisprudenza ha sempre ritenuto, in linea di massima,
compatibili con la proprietà condominiale la disciplina dettata per le
immissioni (art. 844 c.c.)48, quella dell’accesso al fondo al fine di eseguire opere di manutenzione o riparazione (art. 843 c.c.)49 e quella sulle
conseguenze della violazione delle norme edilizie (art. 872 c.c.)50.
44
Volendo giungere alle estreme conseguenze di quanto detto nel testo, si dovrebbe ammettere che, dimostrata l’incompatibilità della norma che dispone una certa distanza dal confine, il condomino è ammesso a
dimostrare il pregiudizio e ad avvalersi del suo jus opponendi anche in relazione a opere realizzate nel rispetto della distanza prescritta.
45
Al proprietario di un’unità immobile non condominiale, invece, non è riconosciuta alcuna tutela nel caso in
cui il vicino esegua opere sul proprio fondo che rompano l’euritmia architettonica e pregiudichino l’amenità
della zona, benché esse ne diminuiscano le possibilità di utilizzazione e determinino deprezzamento
dell’immobile, salvo che non si tratti di opere abusive (Trib. Roma, 28 maggio 1998, in Arch. locaz., 1999, p.
649).
46
T.A.R. Genova Liguria, 20 ottobre 2009, n. 2801.
47
Vedi supra, nota 31.
48
Ex multis, Cass., 11 novembre 2009, n. 23807, in Resp civ. e prev., 2010, p. 1769, con nota di BALLANTI, Sulle
immissioni acustiche intollerabili, a proposito di un condizionatore d’aria rumoroso. È bene avvertire, tuttavia, che spesso la disciplina delle immissioni è richiamata per risolvere conflitti che nulla hanno a che vedere
con la determinazione del contenuto del diritto di proprietà ex art. 844 c.c. (sul punto, M. COSTANTINO, Contributo, cit., p. 197 ss.). R. TRIOLA, op. cit., p. 195, rileva che «il problema si sposta sulle persone». Sul punto,
vedi precedente nota 1.
49
Cass., 16 gennaio 2006, n. 685.
50
Cass., 17 ottobre 2006, n. 22224, ha riconosciuto il risarcimento del danno ex art. 872 c.c. agli altri condomini in un caso di realizzazione di un sottotetto in violazione della disciplina edilizia.
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126
Capitolo IV
5. Il dovere di informazione preventiva e il ruolo del gruppo
L’art. 1122 c.c., nella versione precedente alla novella del 2012, non
prevedeva alcun passaggio assembleare per l’esecuzione di opere per le
singole unità immobiliari.
Conseguentemente, il problema della verifica della liceità degli interventi è stato affrontato generalmente ex post, a cose fatte. La circostanza
ha finito con l’alimentare conflittualità che si sarebbero potute prevenire mediante il riconoscimento di un ruolo all’organizzazione condominiale anche in questi frangenti.
Spesso, infatti, non si contesta radicalmente il diritto del condomino di
eseguire una certa opera, ma solo la scelta di alcune modalità di realizzazione.
E allora, molto opportunamente, la novella del 2012 ha provveduto ad
aggiungere un secondo comma all’art. 1122 c.c., in cui si prevede che il
condomino debba dare preventivamente notizia degli interventi che intende eseguire all’amministratore, il quale riferisce in assemblea.
In questo modo tutti i condomini saranno messi in condizione di esprimere i propri rilievi – e il condomino che intende eseguire l’opera di conoscerli – prima che l’opera sia realizzata.
È stato rilevato che si tratta di una norma imperfetta, che non chiarisce
quali siano i poteri che competono all’assemblea, e che appare preferibile ritenere che il dovere di comunicazione all’amministratore – o
quantomeno quello dell’amministratore di convocare un’assemblea ad
hoc – sia limitato ai casi in cui l’opera possa coinvolgere interessi comuni51.
In effetti, la norma non attribuisce alcun potere all’assemblea, che –
come in passato – non può consentire interventi altrimenti vietati o vietare interventi altrimenti consentiti. La valutazione della liceità dell’intervento è rimessa al giudice dell’eventuale controversia successivamente promossa dal condominio o da qualunque condomino si ritenga
danneggiato.
L’eventuale inerzia dei condomini nell’assemblea in cui l’amministratore
ha riferito in ordine agli interventi, tuttavia, potrebbe essere considerata
un indizio della pretestuosità della successiva controversia.
51
A. CELESTE-A. SCARPA, Riforma del condominio, Milano, 2013, p. 43.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 127
6. Le opere di utilità sociale per le singole unità immobiliari
Subito dopo la norma fondamentale in materia di opere per le singole
unità immobiliari, la novella del 201252 ha aggiunto un nuova disposizione che, ponendosi in rapporto di specialità con la prima, disciplina casi
particolari di opere che il condomino può esegue di sua iniziativa in favore della propria unità immobiliare.
Per riassumere in una formula l’oggetto di questa disciplina si potrebbe
parlare di opere per singole unità immobiliari di utilità sociale53.
Si tratta di due tipi di interventi.
Il primo non è affatto una novità e attiene all’installazione di impianti
per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo. In effetti, la possibilità di installare antenne
per la ricezione di segnali radiofonici e, successivamente, televisivi è
stato riconosciuto agli abitanti degli stabili o appartamenti sin dal
194054. Proprio perché connesso dalla legge alla situazione di godimento dell’immobile destinato ad abitazione, e non alla titolarità di un
diritto sull’immobile, il cosiddetto diritto di antenna è stato considerato di natura personale55, in quanto espressione del diritto all’informazione56.
Le norme che hanno riconosciuto il diritto di installazione dell’antenna
su un bene altrui o comune sono state classificate tra quelle che conformano la proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale57. Si
52
L’art. 122-bis è stato introdotto dall’art. 7 della L. 11 dicembre 2012, n. 220.
Come si vedrà di seguito, al par. 14, la novella è intervenuta in modo analogo sulla disciplina delle opere
per le parti comuni, dettando una disciplina di favore per determinate opere per le parti comuni ritenute di
utilità sociale (art. 1120, co. 2, c.c.).
54
Vedi l’art. 1, L. 6 maggio 1940, n. 554, «Disciplina degli aerei esterni per audizioni radiofoniche»; successivamente, anticipato da pronunce giurisprudenziali, è intervenuto il D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, «Testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni»; vedi anche l’art. 1,
D.P.R. 6 agosto 1990, n. 223, cosiddetta Legge Mammì, nonché l’art. 91, D.L. n. 259/2003, «Codice delle comunicazioni», convertito in L. 16 gennaio 2004, n. 5.
55
Cass., 21 agosto 2003, n. 12295, in Arch. civ., 2004, p. 781.
56
Sul fondamento costituzionale del diritto all’informazione, presupposto necessario dei principi fondamentali del sistema, A. LOIODICE, Il diritto all’informazione, in Temi di diritto costituzionale, a cura di M. EspositoA. Loiodice-I. Loiodice-V. Tondi della Mura, Torino, 2013, p. 167.
57
S. BASILE-N. ASSINI, La proprietà fondiaria e il «diritto d’accesso alla natura», in Giur. cost., 1976, p. 712 – a
proposito della norma che consente l’accesso al fondo per l’esercizio della caccia (art. 842 c.c.) – rilevano
acutamente che l’art. 42 cost. dispone che la disciplina della proprietà nel suo complesso è diretta allo scopo
di assicurarne la funzione sociale, e non solo le cosiddette limitazioni (ammesso che di limitazioni sia lecito
parlare). In altri termini, le norme che impongono limiti all’esclusività della proprietà devono essere giustificati da esigenze sociali tanto quanto la stessa esclusiva riservata al proprietario. Altrimenti, si rischia di capovolgere il significato della norma, che risulterebbe assecondare l’individualismo possessivo e anarcoide piuttosto che l’uso sociale dei beni.
53
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128
Capitolo IV
tratta, cioè, di norme che esorbitano dal campo dei rapporti tra proprietari (vicini o condomini) e determinano l’oggetto dell’esclusiva che spetta al proprietario allo scopo di assicurare la realizzazione di interessi della persona58.
Le varie discipline succedutesi nei decenni hanno sempre previsto che le
installazioni «non devono impedire il libero uso della proprietà secondo
la sua destinazione e non devono arrecare danni alla proprietà medesima oppure a terzi».
La nuova norma, più realisticamente, prevede che le installazioni debbano arrecare il minor pregiudizio possibile alle parti comuni e alle unità
immobiliari individuali coinvolte59.
È, dunque, possibile apprezzare la specifica portata precettiva della
norma – in rapporto al generale disposto dell’art. 1122 c.c. – proprio nei
casi in cui le installazioni arrechino un danno60 alle parti comuni o ad altre unità immobiliari individuali, ovvero pregiudichino stabilità, sicurezza
o decoro architettonico dell’edificio. Il senso della disposizione, infatti,
consiste proprio nel superamento del divieto imposto dall’art. 1122 c.c.
in ragione dell’utilità sociale riconosciuta dalla legge agli interventi considerati. Il decoro architettonico – maggiormente esposto a subire un
pregiudizio per effetto dell’installazione di antenne – va preservato per
quanto possibile: si potrà discutere, come si vedrà nel paragrafo seguente, delle modalità di realizzazione dell’intervento, ma non si potrà impedire l’installazione61.
La disposizione, per altro verso, si pone in piena continuità con i risultati
raggiunti dalla giurisprudenza, che – negli ultimi anni – ha chiaramente
condizionato la possibilità di installare antenne sulla proprietà altrui alla
indisponibilità, per l’utente di servizi radiotelevisivi, di idonei spazi individuali o comuni62.
58
Cfr., M. COSTANTINO, L’oggetto dell’esclusività dell’immagine di sé, in ID., Rischi temuti danni attesi tutela
privata, Milano, 2002, p. 259 ss.
59
M. ARZILLO, Impianti di produzione di energia e di accesso alle informazioni via etere: autonomia individuale
e collegiale, in Destinazioni d’uso e discipline inderogabili nel condominio, a cura di M. COSTANTINO-A.T. DE
MAURO-V. COLONNA-P. LISI-F.G. VITERBO, Milano, 2014, p. 325.
60
Sul danno alle parti comuni o alle unità immobiliari individuali si al precedente par. 3.
61
Sul punto, si vedano anche le considerazioni svolte nel paragrafo precedente.
62
Cfr. Cass., 21 aprile 2009, n. 9427, in un caso in cui è stata dichiarata illegittima la pretesa di installare
l’antenna sull’altrui lastrico solare stante la disponibilità di uno spazio comune (il torrino della scala condominiale), nonché Cass., 6 maggio 2005, n. 9393, in Vita Notar., 2005, p. 981, in un caso in cui l’utente avrebbe potuto utilizzare un terrazzino di suo uso esclusivo.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 129
Il secondo tipo di intervento di utilità sociale riguarda l’installazione di
impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio delle singole unità immobiliari sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell’interessato: insomma, ovunque nell’organismo edilizio condominiale.
L’art. 1122-bis, co. 2, c.c. non menziona nemmeno il decoro architettonico o l’eventuale pregiudizio per parti comuni o unità immobiliari individuali, ma si limita a disporre che l’installazione «è consentita». Si ritiene, tuttavia, che il mancato richiamo sia privo di apprezzabili conseguenze63.
La specificità della disciplina di questo tipo di impianti risiede nella previsione secondo cui l’assemblea «provvede», su richiesta degli interessati, alla ripartizione tra i condomini dell’uso del lastrico solare o delle altre superfici comuni utili per l’installazione «salvaguardando le diverse
forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in
atto».
La maggioranza richiesta per la deliberazione di ripartizione pare debba
essere la stessa prevista per l’imposizione di modalità di esecuzione alternative dell’installazione, ovvero la maggioranza degli intervenuti che
rappresenti i due terzi del valore dell’edificio. Tanto più che l’art. 1136,
co. 5, c.c. richiama detta maggioranza indistintamente per tutte le delibere indicata nel co. 3 dell’art. 1122-bis c.c.
Nonostante l’imprecisa formulazione della norma64, si deve ritenere che
l’intento del legislatore sia stato quello di rappresentare la possibilità di
installare impianti di produzione di energia come una utilità sopravvenuta che alcune parti comuni esprimono e, conseguentemente, di distribuire detta utilità tra i condomini, compatibilmente con le destinazioni
63
R. TRIOLA, Il godimento delle parti comuni, in Tratt. di dir. immobiliare, diretto da VISINTINI, Vol. III, La comunione e il condominio, Padova, 2013, p. 272, ritiene che si tratti di limitazioni che discendono dai principi in
tema di uso delle parti comuni. L. BELLANOVA, L’uso delle parti comuni, in Il nuovo condominio, a cura di R.
TRIOLA, Torino, 2013, p. 251, a ragione rileva la tutela del decoro architettonico resta affidata al potere
dell’assemblea di imporre adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a tutela della stabilità, sicurezza o decoro architettonico dell’edificio a norma dell’art. 1122-bis, co. 3. Esattamente quanto accade anche per l’installazione di antenne (sul punto, vedi il paragrafo seguente).
64
Ambiguo il richiamo alle “forme di utilizzazione”, riferibile sia alle destinazioni d’uso delle parti comuni (ai
sensi dell’art. 1117-ter c.c.), sia alle modalità d’uso delle parti comuni (richiamate nell’art. 1138 c.c.); improprio il richiamo al regolamento di condominio, che nel linguaggio del codice civile è il regolamento assembleare e non può certo stabilire la destinazione delle parti comuni; fuorviante e inquietante il riferimento alle
forme di utilizzazione «comunque in atto», che astrattamente comprende usi abusivi o, addirittura, illeciti
delle parti comuni.
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130
Capitolo IV
d’uso delle parti comuni così come risultanti dallo stato dei luoghi o dal
titolo65.
È appena il caso di aggiungere che detta ripartizione non potrà che avvenire in proporzione al valore delle unità immobiliari appartenenti a
ciascun condomino66.
Non è chiaro, invece, se, in caso di inerzia dell’assemblea, il singolo condomino interessato possa ottenere la ripartizione giudiziale dell’uso delle «superfici utili» per l’installazione degli impianti o se l’assemblea possa legittimamente decidere di non procedere alla ripartizione dell’uso di
dette superfici in vista della realizzazione di un impianto di produzione
condominiale ai sensi dell’art. 1120, n. 2, c.c., o in vista della concessione a titolo oneroso a terzi del diritto di procedere all’installazione. Se,
cioè, provvedere alla ripartizione dell’uso sia un dovere o soltanto una
facoltà per l’assemblea. Sul punto, non resta che attendere le prime
pronunce giurisprudenziali.
In conclusione, preme rilevare che il legislatore della novella del 2012
non si è occupato affatto delle opere per l’eliminazione delle barriere
architettoniche eseguite dal condomino interessato a proprie spese,
opere della cui utilità sociale non è lecito dubitare67.
È bene ricordare che l’art. 2, co. 2, della L. 9 gennaio 1989, n. 13 dispone
che nel caso in cui l’assemblea di condominio non approvi l’esecuzione
delle opere di eliminazione delle barriere architettoniche entro tre mesi
dalla richiesta scritta, i portatori di handicap possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e
possono modificare l’ampiezza delle porte di accesso agli edifici, agli
ascensori e alle rampe dei garage.
Molte sono le questioni che questa disciplina ha lasciato aperte e che
avrebbero potuto trovare soluzione con la novella del 2012. L’occasione
non è stata colta e la conflittualità in materia è destinata a persistere,
con soluzioni affidate alla sensibilità della giurisprudenza.
La norma citata, per esempio, non chiarisce se l’assemblea possa opporsi alla realizzazione – a spese degli interessati – di opere non rimovibili
che diminuiscano il grado di fruibilità di alcune parti comuni. Solo di re-
65
Si rinvia, sul punto, al cap. 1, par. 5.
Vedi par. 18.
67
Sui sicuri indici normativi contenuti in fonti nazionali e sovranazionali si rinvia a G. TUCCI, La giustizia e i diritti degli esclusi, Napoli, 2013.
66
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 131
cente la Suprema Corte68 ha affermato che si deve ritenere lecita
l’installazione di un ascensore a spese del disabile che denunci evidenti
difficoltà di accesso alla propria abitazione, anche se l’opera determina
un restringimento del vano scale che lo rende più angusto: in casi del
genere – si legge nella sentenza citata – occorre procedere a una valutazione comparativa delle opposte esigenze, alla luce dei principi costituzionali della tutela della salute e della funzione sociale della proprietà.
Molti dubbi, specie in passato, si sono posti con riguardo all’applicabilità
della disciplina delle distanze in relazione ad ascensori esterni destinati a
servizio di singole unità immobiliari69, e ancora oggi appare incerta la rilevanza del decoro architettonico ai fini della valutazione della liceità
degli interventi considerati70.
La necessità di comparare volta per volta gli interessi in gioco non offre
le certezze che una materia così importante richiede. Se, infatti, è facile
prevedere che le esigenze di accessibilità di un bene di primaria importanza come l’abitazione siano destinate quasi sempre a prevalere, è anche vero che le modalità dell’intervento prescelte dall’interessato potrebbero rivelarsi pregiudizievoli per gli interessi degli altri condomini.
Al fine di prevenire una conflittualità di questo genere sarebbe stato sufficiente includere le opere dirette all’eliminazione delle barriere architettoniche71 a spese del singolo condomino tra quelle disciplinate
nell’art. 1122-bis c.c.: in questo modo – per un verso – sarebbe stata
certa l’impossibilità di impedire l’esecuzione delle opere e – per l’altro,
come si vedrà nel paragrafo seguente – si sarebbe prevenuta la conflittualità del tipo segnalato mediante il riconoscimento di un ruolo decisivo all’organizzazione condominiale.
68
Cass., 14 febbraio 2010, n. 2156, in Immob. e propr., con nota di M. MONEGAT, Legittima l’installazione
dell’ascensore anche se restringe le scale.
69
Cass., 3 agosto 2012, n. 14096, in Vita notar., 2013, p. 203, ha escluso l’applicabilità della disciplina delle
distanze alle installazioni di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell’appartamento, intesa nel senso di condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali
dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salva l’adozione di accorgimenti idonei
a evitare danni alle unità immobiliari altrui. La necessità di impianti che rendano accessibili a tutti i piani superiori è testimoniata dall’obbligo di simili installazioni per le nuove costruzioni o per il caso di lavori di ristrutturazione previsto dall’art. 1 della L. 9 gennaio 1989, n. 13. Dello stesso tenore, la recente Cass., 16
maggio 2014, n. 10852.
70
Cass., 25 ottobre 2012, n. 18334, in Giur. it., 2013, 2, p. 293, con nota di G. TUCCI, Nota in tema di ascensore per disabili, in un caso in cui l’installazione dell’ascensore era stata deliberata dall’assemblea, accede a
una nozione ad hoc di decoro architettonico, che pare condizionata dalla particolare utilità sociale dell’opera
realizzata.
71
Si rinvia al seguente par. 14 per ulteriori considerazioni in ordine alle opere dirette all’eliminazione delle
barriere architettoniche.
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132
Capitolo IV
7. Un’inedita prerogativa del gruppo: l’imposizione di cautele o
ragionevoli modalità alternative di esecuzione dell’opera
Per l’installazione di antenne individuali o di determinati impianti di
produzione di energia per le singole unità immobiliari – dispone l’ultimo
periodo del nuovo art. 1122-bis c.c. – non occorre l’autorizzazione
dell’assemblea. Per la verità, la legge non prevede per nessun genere di
opera a vantaggio di singole unità immobiliari l’autorizzazione dell’assemblea, anche quando comporti l’esecuzione di opere su parti comuni,
limitandosi a prescrivere che il condomino interessato dia preventiva
notizia delle opere all’amministratore, il quale riferisce in assemblea72.
Nel caso in cui, tuttavia, l’installazione degli impianti citati comporti interventi e modificazioni temporanei o permanenti di parti comuni, il
condomino interessato – nella comunicazione all’amministratore – deve
indicare specificamente il contenuto e le modalità di esecuzione degli interventi. L’assemblea – tempestivamente convocata dall’amministratore
– potrà indicare ragionevoli modalità alternative di esecuzione
dell’opera o richiedere l’adozione di cautele o accorgimenti a tutela della stabilità, della sicurezza o del decoro dell’edificio73 con una deliberazione da adottare con la maggioranza qualificata prevista dell’art. 1136,
co. 5, c.c. (art. 1122-bis, co. 3, c.c.).
Il procedimento disciplinato dalla nuova norma costituisce una vera novità e pare riconoscere all’assemblea – e, dunque, all’organizzazione
condominiale – un ruolo inedito.
In tema di opere eseguite dai singoli, infatti, il problema della verifica
della liceità degli interventi è stato sempre affrontato ex post, a cose fatte, senza riconoscere alcun ruolo all’organizzazione. Se, per un verso, il
condomino che intenda eseguire un’opera non è costretto a farsi autorizzare dall’assemblea, per altro verso egli non ha alcuno strumento che
gli consenta di conseguire preventivamente la certezza in ordine alla liceità del suo intervento.
Il procedimento disciplinato dalla norma in commento, invece, pare
davvero incompatibile con la possibilità che, a seguito del passaggio assembleare, e sempre che l’autore dell’intervento si sia attenuto alle
72
Vedi precedente par. 5.
R. TRIOLA, op. cit., p. 273, ritiene un’inutile duplicazione la previsione che l’assemblea possa disporre sia di
ragionevoli modalità alternative di esecuzione, sia di cautele a tutela di sicurezza, stabilità e decoro
dell’edificio. Dette cautele, rileva l’Autore, non possono che tradursi in modalità alternative di esecuzione
dell’intervento.
73
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 133
eventuali prescrizioni dell’assemblea, sia giudizialmente accertata
l’illiceità dell’opera perché pregiudizievole per il decoro architettonico o
dannosa per le parti comuni, fatto salvo il caso di violazione di discipline
inderogabili (principalmente quelle a tutela della sicurezza e stabilità
dell’edificio).
Insomma, in mancanza di prescrizioni o una volta rispettate le prescrizioni assembleari, pare che nessuno possa più contestare la liceità
dell’opera.
Si potrebbe obiettare che, in questo modo, il voto di una maggioranza –
o, meglio, il mancato raggiungimento di una maggioranza sostanzialmente proibitiva – rischia di pregiudicare i diritti dei singoli così come risultano dagli atti d’acquisto e dalle convenzioni in materia, per esempio,
di decoro architettonico (art. 1138, co. 4, c.c.).
Tuttavia, qualora non si voglia riconoscere che la tutela della proprietà
condominiale, in questi casi, passa attraverso l’impugnativa della deliberazione assembleare che non abbia imposto le prescrizioni necessarie,
appare evidente che si finisce con lo svuotare di qualsiasi significato il
passaggio assembleare così puntualmente disciplinato dalla nuova norma.
Per prevenire incertezze di questo tipo, la soluzione preferibile è costituita dall’adozione – da parte dell’assemblea – di preventive e specifiche
prescrizioni in ordine alle modalità di esecuzione delle installazioni di antenne individuali e impianti di produzione di energia per le singole unità
immobiliari. In presenza di una regolamentazione di questo tipo, a fronte della comunicazione con cui l’interessato manifesta l’intento di realizzare un impianto difforme, l’inerzia dell’assemblea non può assumere il
significato di deroga a quanto espressamente stabilito in linea generale;
l’interessato che si attenga alle prescrizioni generali, per parte sua, non
rischia che la sua installazione possa essere considerata illecita; resta
ferma, infine, la possibilità per l’assemblea di imporre ragionevoli cautele ulteriori in considerazione dello specifico intervento comunicato.
Sembra questa la linea perseguita e suggerita dallo stesso legislatore
che, richiamando espressamente l’art. 1122-bis c.c., ha previsto in via
transitoria, all’art. 155-bis, disp. att., c.c., la possibilità che a maggioranza semplice si possano imporre prescrizioni a chi abbia già installato dispositivi di ricezione radiotelevisiva prima dell’entrata in vigore della
legge di riforma del condominio.
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134
Capitolo IV
SEZIONE II – Le opere per le parti comuni
8. Le opere necessarie per le parti comuni: dalla ricostruzione alla
manutenzione
Non c’è ragione di distinguere, tra le opere per singole unità immobiliari,
quelle necessarie da quelle semplicemente utili. In entrambi i casi, infatti, spetterà al condomino interessato valutare l’opportunità di provvedere all’intervento di volta in volta considerato, e nessuno potrà costringerlo ad attivarsi, nemmeno per le opere strettamente necessarie a
conservare o ripristinare la fruibilità della sua unità immobiliare.
Il discorso cambia radicalmente quando si tratta di opere necessarie a
preservare o ripristinare la piena funzionalità di più unità immobiliari,
ovvero in presenza di opere necessarie “per” le parti comuni a più unità
immobiliari74: in questi casi la noncuranza di uno dei proprietari può
pregiudicare la fruibilità dell’immobile di altri, i quali – al fine di poter
godere del proprio immobile – sarebbero costretti ad assumere
l’iniziativa degli interventi anche sopportandone integralmente le spese,
almeno in via provvisoria. Tanto, del resto, accade nella disciplina delle
acque private e degli ordinari rapporti di vicinato in genere, ove l’unica
regola generale è quella che consente a chi assume l’iniziativa di eseguire opere necessarie di pretendere che i vicini partecipino alla spesa in
ragione del vantaggio che ciascuno ne ritrae: si tratta, tuttavia, di un rimedio di carattere generale, riconducibile all’azione di arricchimento,
che il legislatore ha ritenuto del tutto inadeguato alla realtà degli edifici
condominiali75.
Come si è detto in precedenza, infatti, proprio per far fronte alle esigenze imposte da contesti immobiliari caratterizzati da un elevato grado di
interdipendenza, come quello che si registra tra le diverse unità immobiliari comprese in uno stesso edificio, la legge – a partire dal R.D. 15 gennaio 1934, n. 56, in avanti – ha ritenuto di apprestare un’organizzazione
condominiale, assegnandole una serie di prerogative: non solo poteri,
come quello di stabilire l’ambito di operatività della stessa organizzazione76, di disciplinare determinate materie77 o di imporre modalità alter74
Sulle parti comuni intese come parte, al contempo, di più unità immobiliari, vedi cap. 1, par. 3.
Vedi cap. 2, par. 5.
76
Vedi cap. 2.
77
Si allude al regolamento, la cui adozione, come si è detto, è anche un dovere quando i condomini sono più
di dieci. Vedi cap. 3, par. 1.
75
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 135
native di realizzazione di opere per singole unità immobiliari di utilità
sociale78, ma anche doveri.
In effetti, l’art. 1130, n. 4, c.c. dispone che l’assemblea provvede alle
opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni. La norma citata,
però, ponendo sullo stesso piano interventi necessari e interventi la cui
esecuzione è rimessa a una valutazione di pura opportunità da parte dei
condomini, non offre alcun elemento utile per quel che qui interessa:
verificare quali siano i doveri dell’assemblea in materia di opere necessarie per le parti comuni e ricostruire gli strumenti di tutela dei singoli in
caso di inadempimento.
A tal fine, conviene prendere le mosse dall’ipotesi estrema, che – tuttavia – è l’unica oggetto di specifica disciplina dettata in materia di condominio: il perimento totale o parziale dell’edificio dovuto al cedimento
di parti strutturali79.
La disciplina prescinde dalla causa che ha determinato il cedimento (vetustà80, vizio di progettazione, danneggiamento doloso o colposo di terzi81, calamità naturali o eventi bellici), e deve ritenersi estesa anche al
caso dell’edificio che, sebbene non ancora crollato, abbia accusato cedimenti strutturali tali che lo rendono totalmente o parzialmente inservibile perché a rischio di crollo82. D’altra parte, il materiale atterramento
dell’edificio potrebbe rappresentare una fase delle opere di riparazione:
sul piano giuridico, come è ovvio, è indifferente che le opere di riparazione si eseguano mediante interventi sulle strutture danneggiate oppure mediante lavori di demolizione e successiva ricostruzione83.
78
Vedi par. precedente.
VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 692, rileva che l’art. 1128 c.c. riproduce sostanzialmente
l’art. 15, R.D.L. 15 gennaio 1934, n. 56 in cui fu introdotta al fine di favorire la ricostruzione a seguito della
prima guerra mondiale.
80
Cass., 28.6.1980, n. 4102, in Arch. civ., 1980, 769.
81
Alcuni autori hanno escluso l’applicabilità della norma in commento al perimento imputabile a condomini
o a terzi (A. VISCO, cit., p. 692; G. TERZAGO, cit., p. 742). Sul punto, si rileva che la disciplina che determina i criteri di imputazione della responsabilità civile non può in alcun modo interferire con la determinazione del
contenuto del diritto di proprietà, vedi M. COSTANTINO, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli,
1967, p. 156 ss.
82
Ai fini della responsabilità dell’appaltatore, l’art. 1669 c.c. equipara il caso di rovina totale o parziale al pericolo di rovina o al manifestarsi di gravi difetti.
83
M. COSTANTINO, Sentenze d’un anno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 1037 ss. distingue i lavori di demolizione e successiva ricostruzione dalle opere che quei lavori sono diretti a realizzare; altro è l’attività, altro il
risultato di quell’attività. Allora, gli stessi lavori di demolizione possono esse diretti all’esecuzione di opere di
riparazione, di ristrutturazione o di realizzazione di nuova costruzione.
L’edificio – si è perfino ritenuto superfluo precisarlo nell’art. 1128 c.c. – in ogni caso deve essere ricostruito
così com’era, ragionevolmente avvalendosi delle tecniche edilizie resesi frattanto disponibili. Del resto, nel
caso di realizzazione di un diverso edificio, non potrebbe nemmeno parlarsi di vera ricostruzione (cfr. art. 3,
79
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136
Capitolo IV
Ebbene, l’art. 1128 c.c., per il caso di cedimenti strutturali, detta regole
diverse a seconda che le opere di ricostruzione comportino una spesa
superiore o inferiore ai tre quarti del valore dell’edificio84. Se detta soglia non è superata, l’assemblea deve deliberare la ricostruzione85 con la
maggioranza di cui al co. 2 dell’art. 1136 c.c. (richiamato dall’art. 1128,
co. 4, c.c.). Nel caso in cui non si dovesse raggiungere la maggioranza richiesta – come nel caso di deliberazione di non procedere alla ricostruzione, da ritenersi radicalmente nulla86 – ciascun condomino in ogni
tempo può ricorrere all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 1105, co. 4,
c.c., che disporrà la ricostruzione, determinandone le modalità87.
Deliberata o disposta dal giudice l’esecuzione dei lavori, poi, anche i
condomini dissenzienti saranno obbligati a partecipare alla spesa secon-
co. 1, lettera d), del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, T.U. dell’edilizia). L’edificio ricostruito, dunque, conserva la
propria individualità: basti richiamare il costante indirizzo giurisprudenziale che consente la riedificazione
anche a distanza inferiore a quella legale si giustifica proprio sulla base della persistente individualità
dell’edificio ricostruito (ex multis, Cass., 21 maggio 2012, n. 8015). Ne consegue che il condominio non si
scioglie affatto a seguito del crollo o della demolizione diretta alla ricostruzione. Sul punto, vedi A. VISCO, cit.,
p. 693, il quale afferma che «non si tratta di innovare ma di ripristinare; infatti non si costruisce una cosa
nuova, ma si rimettono le cose come erano originariamente». L’Autore si riferisce al perimento sotto la soglia e ritiene che la totale ricostruzione determina la venuta a esistenza di una nuova individualità edilizia.
Sennonché, la soglia segna solo il limite oltre il quale il singolo condomino non può essere costretto a partecipare alle spese di riparazione per effetto di una decisione presa a maggioranza. Non si comprende come,
dunque, il superamento di detta soglia o le modalità tecniche prescelte per l’esecuzione dell’opera possano
incidere sull’individualità dei beni immobili. Tanto più che perfino l’area di risulta dalla demolizione – si legge
in un importante precedente – resta destinata alla ricostruzione dell’edificio, finché i condomini non decidano concordemente di mutarne la destinazione (Cass., 15 ottobre 1977, in Riv giur. edilizia, 1978, p. 468, con
nota di L. SALIS, Demolizione consensuale di edificio e diritto alla ricostruzione). In realtà, il condominio si
scioglie solo nel caso in cui tutti i condomini consensualmente si accordino per realizzare sull’area di risulta
un nuovo e diverso edificio.
84
Per la verità ci si è comunemente riferiti alla stima del valore di parti di edificio andate perdute e parti di
edificio che hanno resistito all’evento che ha determinato il crollo. Sono stati elaborati criteri di calcolo sui
quali non è il caso di intrattenersi in questa sede (per tutti, vedi G. TERZAGO, Il condominio, Milano, 2003, p.
744 s.). Il criterio del costo dei lavori di ricostruzione sembra quello preferibile, oltre che per la sua semplicità e concretezza, anche in considerazione della ragione per la quale la stessa soglia è stata determinata: circoscrivere i casi in cui i singoli condomini possono essere costretti a partecipare alle spese di ricostruzione.
85
Ha chiaramente affermato l’esistenza di un dovere dell’assemblea di deliberare la ricostruzione, chiarendo
che le valutazioni rimesse alla maggioranza devono ritenersi circoscritte alle modalità tecniche, statiche ed
estetiche nonché ai tempi di realizzazione dell’opera e all’affidamento dei relativi lavori, Cass. 2 agosto 1968,
n. 2767, in Giust. civ., 1969, I, p. 247; nello stesso senso, più di recente, Trib. Milano, 14 settembre 1992.
86
In tal senso si è espresso Trib. Napoli, 29 ottobre 1947, in Foro it., 1948, I, p. 1000. Di opinione contraria G.
BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 545 ss., il
quale ammette che l’assemblea possa validamente deliberare di non ricostruire le parti comuni. A quel punto ciascun condomino – non è ben chiaro come – potrebbe provvedere in proprio alla ricostruzione del suo
appartamento autonomamente.
87
Si veda la giurisprudenza citata nella precedente nota 85
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 137
do i criteri di ripartizione legali o convenzionali di volta in volta applicabili88.
Solo ove il costo dei lavori superi la soglia dei tre quarti, i condomini che
non vogliano partecipare alla ricostruzione non possono essere costretti
a contribuire alla spesa: in tal caso, tuttavia, essi non possono nemmeno
impedire la ricostruzione e devono89 cedere i loro diritti a quelli che intendono ricostruire «secondo la stima che ne sarà fatta»90. Se, poi, nessuno si avvale di detta facoltà, sempre nel caso del solo perimento oltre
la soglia, ciascun condomino potrà chiedere la vendita all’asta del suolo
e dei materiali di risulta91.
Ricostruita la portata precettiva della norma, il dato che interessa rimarcare è che, al di sotto della soglia dei tre quarti92, l’assemblea ha il dovere di disporre l’esecuzione dei lavori, imponendo a tutti i condomini di
partecipare alla spesa. Se non vi provvede, ciascun condomino può
chiedere e ottenere l’intervento sostitutivo del giudice ai sensi dell’art.
1105, co. 4, c.c.
Appare evidente che il dovere di provvedere non può essere ragionevolmente collegato al tipo di intervento necessario, bensì all’esigenza di
rispristinare la funzionalità delle unità immobiliari collegate alle parti
comuni colpite. Poco importa che si tratti del cedimento di una trave o
88
A. CELESTE, Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE, in Trattato dei diritti reali, diretto da
A. GAMBARO-U. MORELLO, III, Condominio negli edifici e comunione, Milano, 2012, p. 483.
89
In caso di rifiuto, come è ovvio, si potrà ottenere il trasferimento coattivo dei diritti in via giudiziale. Nel relativo giudizio deve ritenersi sussistente il litisconsorzio necessario tra tutti i condomini.
In Cass., 30 ottobre 2006, n. 23333, in Arch. locazioni, 2007, p. 292, si è opportunamente precisato che il dissenso manifestato in assemblea in ordine alle modalità di esecuzione dei lavori di ricostruzione non significa
dissenso rispetto alla ricostruzione dell’edificio. Trib. Verbania, 27 aprile 2001, ha chiarito che i condomini
che chiedono il trasferimento coattivo del diritto dei dissenzienti devono fornire la prova che sia stata data a
questi ultimi la facoltà di optare per la ricostruzione in assemblea. Nella stessa sentenza si ritiene, inoltre,
che il trasferimento coattivo possa essere richiesto anche nel caso di perimento sotto la soglia – evidentemente ove non si sia formata la maggioranza per la deliberazione di ricostruzione e nessun condomino abbia
fatto ricorso all’autorità giudiziaria.
90
Conseguentemente, oltre la soglia non è necessario alcun passaggio assembleare, perché non c’è nessun
contributo alla spesa che possa essere imposto ai dissenzienti. Pertanto, non appare necessario ipotizzare lo
scioglimento e alla successiva reviviscenza del condominio per spiegare il funzionamento di questa norma.
Cfr. CELESTE, cit., p. 465 ss.
91
L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V-3, Torino, p. 1956, rileva che, in ogni caso, resta ferma la possibilità per tutti i condomini di cedere i propri diritti ad altri condomini o a terzi, indipendentemente dal superamento della soglia; in Cass., 14 settembre 2012, n. 15482, si afferma che non è soggetto a prescrizione per non uso il diritto di ciascuno di ricostruire la propria unità immobiliare e le parti comuni necessarie alla sua esistenza.
92
Suscita qualche perplessità il fatto che la soglia dei tre quarti sia stata determinata con riferimento al rapporto tra l’ammontare complessivo delle spese necessarie per la ricostruzione e il valore dell’edificio, anziché – più ragionevolmente – tra la misura del contributo dovuto da ciascun condomino e il valore della rispettiva unità immobiliare.
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Capitolo IV
del crollo di un muro perimetrale privo di funzione portante: in entrambi
i casi, se non si provvede alla riparazione, le unità immobiliari interessate non saranno abitabili.
Ancora, sarebbe irragionevole ritenere che all’obbligo di provvedere alle
riparazioni non faccia fronte l’obbligo di prevenire il danneggiamento.
Si tratta, in realtà, di conclusioni obbligate sulla base dei principi generali in materia di diritti reali, e di rapporti tra proprietari vicini, in particolare. Non sarebbe nemmeno concepibile, infatti, un diritto di proprietà
sprovvisto di tutela a fronte dell’altrui inerzia che pregiudichi o minacci
di pregiudicare le possibilità di utilizzazione del bene: si pensi alla possibilità di tutti i proprietari interessati di rivolgersi al giudice nel caso in cui
il proprietario del fondo attraversato da un corso d’acqua privato93 resti
inerte, nonostante vi sia stata distruzione di sponde o argini o la naturale variazione del corso delle acque abbia reso «necessario» costruire
nuovi argini o ripari (art. 915 c.c.) o, ancora, all’analogo caso in cui un
ingombro danneggi o minacci di danneggiare i fondi vicini (art. 916
c.c.)94. In tutti questi casi, se i vicini non riescono a trovare un accordo,
quello che intende ripristinare o preservare la funzionalità della sua unità immobiliare deve ricorrere al giudice.
La disciplina del condominio – e in ciò risiede la sua specificità – assegna
invece all’assemblea, ossia all’organizzazione del gruppo, il dovere di
provvedere: solo nel caso di inadempimento dell’assemblea il singolo
potrà ricorrere all’autorità giudiziaria.
La norma del perimento sotto la soglia, dunque, può essere agevolmente applicata a tutte le opere necessarie a preservare oltre che a ripristinare la funzionalità delle parti comuni.
Giurisprudenza e dottrina maggioritarie giungono a conclusioni analoghe e, tuttavia, preferiscono far riferimento alla corrispondente norma
che, in materia di comunione, dispone che «se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune (…) ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria» che «provvede
93
È il caso di ricordare che, per effetto dell’art. 1, D.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238, attualmente appartengono
allo Stato e fanno parte del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne.
94
Sulle analogie tra disciplina delle acque private e condominio, si rinvia a M. COSTANTINO, Sfruttamento delle
acque e tutela giuridica, Napoli, 1975, p. 68.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 139
in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore» (art.
1105, co. 4, c.c.)95.
La norma è stata ritenuta applicabile anche a proposito di perimento
dell’edificio condominiale al fine di stabilire il rito da seguire, quello camerale, e i rimedi per far fronte alla mancata adozione di atti dovuti da
parte dell’organo collegiale, inclusa la possibilità di nominare un amministratore ad acta. Non è, invece, una necessità richiamare la stessa
norma sul piano più propriamente sostanziale della disciplina delle opere necessarie per le parti comuni96.
Le ragioni che inducono a continuare a farvi riferimento – a parte il
pregiudizio dogmatico secondo cui il condominio sarebbe una speciale
forma di comunione – sono di carattere storico: la comunione è
l’istituto con riferimento al quale il legislatore ha avuto occasione per
la prima volta di enunciare in modo chiaro il principio generale in materia di diritti reali secondo cui l’inerzia o la noncuranza di uno non può
diventare un impedimento per l’esercizio del diritto da parte degli altri.
Già nel codice civile del 1865, infatti, si riconosceva chiaramente a ciascun partecipante alla comunione il diritto di pretendere l’esecuzione,
a spese di tutti, delle opere necessarie per la conservazione e il godi-
95
Per qualche esempio, si veda la giurisprudenza citata nella nota seguente.
Le altre due ipotesi in cui si potrebbe ricorrere al giudice ai sensi dell’art. 1105, co. 4, c.c. non aggiungono
nulla di nuovo sul piano sostanziale, in quanto si tratta in entrambi i casi di ipotesi in cui l’assemblea non
adotta atti dovuti anche nelle altre due ipotesi ivi previste: «ove non si forma una maggioranza o la deliberazione adottata non viene eseguita». In quest’ultimo caso è evidente che non serve l’art. 1105, co. 4, c.c. per
giungere alla conclusione che l’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea è un dovere per
l’organizzazione condominiale.
In relazione al primo caso, poi, la giurisprudenza ha riconosciuto che il ricorso al giudice è ammissibile nel solo caso in cui i condomini siano due (cosiddetto condominio minimo) e non ogni volta che «non si formi una
maggioranza»: solo quando i condomini sono due non è possibile la formazione di una maggioranza con riferimento al numero di partecipanti, negli altri casi accade semplicemente che l’autonomia collegiale del gruppo si è espressa nel senso della mancata approvazione della deliberazione (ex multis, Cass., 19 luglio 2007, n.
16075, in Arch. locazioni, 2008, 1, p. 48; Cass., 30 marzo 2001, n. 4721, in Foro it., 2001, I, p. 1885). Lasciando
da parte le discussioni su maggioranze ed eventuali pareggi, si deve rilevare che appare davvero singolare
che l’autorità giudiziaria possa essere chiamata a provvedere in ordine a qualsiasi atto di amministrazione
tutte le volte che i due non siano d’accordo: dalla scelta del colore degli intonaci esterni alla periodicità delle
pulizie del vano scala. Conviene circoscrivere l’intervento del giudice, anche in questa ipotesi, ai provvedimenti necessari a preservare o ripristinare la funzionalità delle parti comuni. Si ricade, quindi, nel campo degli atti dovuti e, più precisamente, delle opere necessarie per le parti comuni. In dottrina, G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 195, rileva che le ipotesi
nelle quali si può ricorrere al giudice rappresentano diversi aspetti della stessa esigenza: che il bene sia utilizzato.
96
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Capitolo IV
mento del bene comune, benché vigesse il cosiddetto «divieto di innovazioni»97.
Non sembra, tuttavia, che la circostanza possa influire sulla ricostruzione
della natura giuridica del condominio. Si tratta, con tutta evidenza, di un
dato del tutto accidentale: richiamare questa norma per avvalorare la
tesi secondo cui il condominio è una speciale forma di comunione sarebbe come pretendere di sostenere che il condominio sia una speciale
forma di società perché sono state ritenute applicabili al condominio le
norme dettate per le società a proposito di conflitto di interessi (art.
2373 c.c.)98, nullità o annullabilità delle deliberazioni (art. 2379 c.c.)99,
sostituzione di deliberazioni annullabili con altre prese in conformità
della legge (art. 2377 c.c.)100, aggiornamento dell’assemblea in seconda
convocazione (art. 2374 c.c.)101 e difetto di nomina di un rappresentante
da parte dei comproprietari di un’unità immobiliare (art. 2347 c.c.)102.
Rinviando a quanto già detto in precedenza103, ci si limita a rilevare che
appare preferibile evitare riferimenti inutili alla comunione, anche alla luce della confusione che essi rischiano di ingenerare tra il piano
dell’oggetto e quello della titolarità dei diritto104.
A ogni modo, indipendentemente dal percorso interpretativo prescelto,
resta il fatto che la giurisprudenza ha ricompreso tra le opere di cui ciascun condomino può pretendere l’esecuzione tutti gli interventi diretti
ad assicurare o a ripristinare la piena funzionalità delle parti comuni.
È il caso di aggiungere che tra le opere necessarie vanno annoverati anche tutti gli interventi per la messa a norma di impianti e parti comuni105. L’adeguamento o l’integrale rifacimento, per esempio,
dell’impianto elettrico per l’illuminazione del vano scale non conforme
alla normativa di sicurezza è opera necessaria, benché dal punto di vista
97
L’art. 676 c.c. abr. dispone che «ciascun partecipante ha diritto di obbligare gli altri a contribuire con esso
alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, salva a questi la facoltà di liberarsene con
l’abbandono dei loro diritti di comproprietà».
98
Ex multis, Cass., 6 agosto 1997, n. 7226, in Arch. locazioni, 1997, p. 787; Cass., 14 novembre 1997, n.
11254, in Vita not., 1998, p. 169.
99
Cass., 2 ottobre 2000, n. 13013, in Giur. it., 2001, p. 1119.
100
Cass., 29 agosto 1998, n. 8622; Cass., 17 marzo 1993, n. 3159, in Giust. civ., 1994, I, p. 778.
101
In tal senso Cass., 12 febbraio 1988, n. 1516.
102
In tal senso Trib. Torino, 4 marzo 1985, in Giur. it., 1987, I, 2, p. 151.
103
Vedi cap. 1, par. 1.
104
M. COSTANTINO, cit., p. 298 s.; R. LUZZATTO, La comproprietà nel diritto italiano, Milano-Torino-Roma, 1908,
p. 77, significativamente afferma che nel condominio «il concetto di funzione sostituisce quello di quota».
105
R. TRIOLA, op. cit., p. 204, rileva che le opere di manutenzione non sono solo quelle necessarie materialmente, ma anche quelle necessarie giuridicamente.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 141
puramente fattuale appaia più vicino al miglioramento che al ripristino o
alla conservazione106. È persino ovvio rilevare, infatti, che occorre aver
riguardo alle possibilità di utilizzazione dei beni conformemente alla legge, e che, se una normativa sopravvenuta vieta l’utilizzo di determinati
impianti, la messa a norma di quegli impianti costituisce un intervento
necessario per assicurarne la funzionalità107. L’obiettivo miglioramento
che ne consegue, insomma, non priva l’intervento del suo carattere di
necessità. Un ulteriore dato normativo a supporto di quanto detto è,
ora, offerto dal nuovo art. 1118, co. 4, c.c., che considera unitariamente
le spese per la conservazione e quelle per la messa a norma dell’impianto di riscaldamento, disciplinando il cosiddetto «distacco»108.
Ancora, si è stabilito che non occorre attendere il definitivo collasso di
un impianto ormai obsoleto per ritenerne necessaria la sostituzione. In
questi casi, se non può parlarsi di riparazione o ripristino, di certo ci si
trova di fronte a un intervento necessario, perché pur sempre dettato
dall’esigenza di assicurare la costante funzionalità dell’impianto. Con
scelta espressiva non del tutto convincente, si parla in proposito di modifiche migliorative109.
Anche in questo caso, tuttavia, l’obiettivo miglioramento non esclude il
carattere di necessità dell’opera. Del resto, in molti casi in cui occorre
106
Il progetto di riforma del condominio approvato al Senato il 24 gennaio 2011 prevedeva l’inserimento di
un articolo dedicato specificamente agli interventi a tutela della sicurezza. Al co. 1 significativamente si leggeva che «nelle parti comuni e nelle unità immobiliari di proprietà individuale non possono essere realizzati
o mantenuti impianti od opere che non rispettino la normativa sulla sicurezza degli edifici. Il mancato rispetto di detta normativa si considera situazione di pericolo immanente per l’integrità delle parti comuni e delle
unità immobiliari di proprietà individuale, nonché per l’integrità fisica delle persone che stabilmente occupano il condominio o che abitualmente vi accedono». Seguiva una dettagliata disciplina che, coinvolgendo
l’amministratore, era diretta ad assicurare l’esecuzione degli interventi evitando, per quanto possibile, il ricorso all’autorità giudiziaria. La disposizione è stata cancellata nel corso dell’esame del disegno di legge alla
Camera dei Deputati.
107
In tal senso, con riferimento all’adeguamento di un impianto di riscaldamento alla normativa in materia di
prevenzione incendi, Cass., 22 aprile 1992, n. 4802. Con riferimento alla trasformazione di un impianto di riscaldamento, Cass., 20 agosto 1986, n. 5101, in Arch. locaz., 1986, p. 618. Per un caso in cui, invece, la deliberazione di trasformazione di un impianto di riscaldamento a carbone in un impianto a nafta era stata adottata in data antecedente alla legge che imponeva la trasformazione nei centri urbani, App. Roma, 13 maggio
1970, in Riv. giur. ed., 1970, p. 1189, con nota di L. SALIS.
108
Vedi cap. 5, par. 3.
109
In questi termini si esprime Cass., 18 maggio 1994, n. 4831, in Arch. locaz., 1995, p. 114, che in modo molto chiaro, in un caso di sostituzione della caldaia a gasolio con una a metano, rileva che “la sostituzione del
bruciatore, se quello esistente è obsoleto o guasto, va inquadrata non nelle innovazioni, ma nella straordinaria manutenzione, essendo diretta semplicemente a ripristinare la funzionalità dell’impianto e non a creare
un quid novi, una modificazione sostanziale o funzionale della cosa comune (l’impianto di riscaldamento nel
suo complesso); se, invece, il bruciatore esistente è ancora funzionante, la sua sostituzione, ove diretta ad utilizzare una fonte di energia più redditizia e meno inquinante, per le stesse ragioni rientra nelle modifiche migliorative dell’impianto e non nelle innovazioni”.
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142
Capitolo IV
ripristinare una parte comune o sostituire un impianto, il risultato finale
potrà risultare migliorativo, in quanto l’intervento sia stato eseguito secondo le tecniche in uso e in conformità alle normative vigenti al momento dell’esecuzione dei lavori. Se, per esempio, le opere di impermeabilizzazione di una terrazza dànno luogo a frequenti infiltrazioni, il
rifacimento dell’opera anche con un nuovo e più efficace sistema non
eccede il campo della riparazione straordinaria; se, invece, si decide di
trasformare il tetto in terrazza, allora l’opera è una vera e propria innovazione110. La natura dell’opera, insomma, richiede una attenta analisi
del singolo caso111
9. Le innovazioni come interventi migliorativi non necessari per le
parti comuni
La legge, oltre che assegnare il dovere di provvedere alle opere necessarie per le parti comuni, attribuisce all’assemblea il potere – a norma
dell’art. 1120 c.c. – di disporre «tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni», escluse quelle «che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che
rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino». Siamo in un campo lontano dagli ordinari rapporti tra proprietari vicini, ove non è nemmeno ipotizzabile che
si possa essere costretti a contribuire a spese per opere non necessarie,
se non nei limiti dell’arricchimento112.
L’istituto delle innovazioni – insieme con la deliberazione ex art. 1117ter c.c. – apre la proprietà condominiale al cambiamento: si è efficacemente parlato, in proposito, di «gestione dinamica» delle parti comuni113, proprio per sottolineare che i poteri dell’organizzazione non sono
limitati alle opere necessarie per conservare la situazione di utilizzazione
in atto e, perciò, agli interventi dovuti, ma si estendono alle modifica110
L’efficace esempio è di L. SALIS, Opere di manutenzione, cit., p. 1037. Il caso commentato riguardava la sostituzione di un intonaco Terranova con un rivestimento in ceramica.
111
In tal senso L. SALIS, Sulla natura «innovativa» delle opere di sostituzione dell’impianto di ascensore, in Riv.
giur. ed., 1971, p. 253. Il caso deciso dalla sentenza commentata riguardava la sostituzione di cinque ascensori inefficienti sin dalla costruzione. La Cassazione ribaltò le decisioni dei giudici di merito, i quali avevano
escluso il carattere innovativo dell’opera.
112
È appena il caso di precisare che deve ritenersi estranea agli ordinari rapporti di vicinato la disciplina dei
consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario.
113
L’espressione è di R. CORONA, Proprietà e maggioranze, cit., p. 461.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 143
zioni migliorative anche soltanto utili o convenienti, purché ampiamente
condivise.
La disciplina delle innovazioni, dunque, costituisce uno dei tratti caratterizzanti dello statuto della proprietà condominiale, in quanto assegna
inderogabilmente114 all’autonomia collegiale dei condomini un ampio e
incisivo potere di intervento sulle parti comuni115, pur richiedendo una
larga maggioranza: per l’esercizio di questa ulteriore prerogativa del
gruppo, infatti, occorre il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno i due terzi del valore dell’edificio.
È bene ricordare che già il R.D.L. n. 56/1934, all’art. 8, conteneva una disciplina delle innovazioni nel condominio del tutto analoga a quella recepita nel codice civile vigente e, perciò, in aperto contrasto con il generale e perentorio «divieto di innovazioni»116 che si riteneva connesso a
qualsiasi ipotesi di contitolarità nel vigore del codice civile del 1865.
All’art. 677 c.c. abr. – dettato in materia di comunione e ritenuto applicabile anche in materia di condominio – si legge, infatti, che il singolo
partecipante non può apportare «innovazioni nella cosa comune, benché le pretenda vantaggiose a tutti, se gli altri non vi acconsentano». Il
richiamo al consenso degli altri ha fatto ritenere che ciascun comproprietario potesse impedire qualunque modificazione della cosa comune
che non fosse stata previamente concordata tra tutti, in ossequio al
principio romanistico che assicurava a ogni partecipante il cosiddetto ius
prohibendi117.
Ebbene, il R.D.L. del 1934, prima, e il codice civile vigente, poi, hanno
marcatamente cambiato rotta in materia di innovazioni nel condominio,
disegnando un articolato quadro normativo delle modificazioni dei beni
immobili condominiali ove, come si è detto, un ruolo centrale è riservato
all’organizzazione condominiale.
114
R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 218, si sofferma sull’inderogabilità della disciplina delle innovazioni da parte dei regolamenti di condominio in ragione dell’espresso richiamo all’art. 1120 c.c. contenuto
nell’art. 1138, co. 4, c.c. Vi sono valide ragioni per ritenere, come si vedrà anche nel seguito al par. 12, che la
disciplina non possa essere derogata nemmeno mediante atti negoziali come le cosiddette clausole contrattuali dei regolamenti di origine esterna.
115
La notazione è di R. CORONA, Proprietà e maggioranza nel condominio negli edifici, Torino, 2001, p. 463.
116
L. SALIS, Il condominio negli edifici, Torino, 1959, p. 127, contesta l’uso del termine innovazioni proprio
perché divenuto sinonimo di intervento vietato e illecito. La critica non pare condivisibile, posto che il termine è utilizzato in modo coerente con il suo significato anche nei previgenti contesti normativi; quel che è
cambiato è il trattamento giuridico di quel tipo di interventi.
117
Per tutti, A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 248.
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144
Capitolo IV
Escluso il riferimento agli interventi necessari118, diretti a preservare o
ripristinare la funzionalità delle parti comuni, è evidente che le innovazioni assumono un ruolo centrale tra le modificazioni semplicemente
utili, in quanto indicano ogni intervento diretto a migliorare il grado di
fruibilità delle parti comuni e, più precisamente, delle unità immobiliari
alla cui utilità quelle parti comuni sono destinate.
Per questa ragione alcuni autori indicano con l’espressione «innovazioni
utilitarie»119 le innovazioni in senso tecnico.
La precisazione è giustificata dal fatto che spesso si usa il termine «innovazioni» con riguardo a qualsiasi intervento che lambisca le parti comuni. E allora, per quanto la giurisprudenza si sia chiaramente espressa sul
punto120, è bene ribadire che l’installazione di una canna fumaria121 o
anche di un ascensore esterno destinato all’utilità di una unità immobiliare122, l’ampliamento di una finestra o la trasformazione di una finestra
in porta o viceversa123, la realizzazione o l’ampliamento di balconi ai
piani alti124 o l’installazione di una vetrina al piano terra125 sono opere a
esclusivo vantaggio di singole unità immobiliari e non possono ritenersi
dirette a migliorare il grado di fruibilità delle parti comuni e, quindi, di
tutte le unità immobiliari che da esse traggano una data utilità.
Si tratta, insomma, di opere “per” le unità immobiliari individuali che
possono comportare modificazioni delle parti comuni e che il singolo
può autonomamente eseguire, purché non rechino danno alle altre uni-
118
In questo senso, lucidamente, L. SALIS, Opere di manutenzione straordinaria e innovazioni, in Riv. giur. ed.,
1968, I, p. 1034, rileva che tutti gli interventi connotati dal carattere della «necessità» sono sempre da considerarsi estranei alla nozione tecnica di innovazione.
119
A. VISCO, op. cit., p. 247.
120
Si parla di «innovazioni in senso tecnico» già in Cass., 26 luglio 1962, n. 2134, in Riv. giur. ed., 1962, p.
1183, con nota di L. SALIS, Modifiche «necessarie» per il miglior godimento, e rispetto del decoro architettonico.
121
Da ultimo, Cass., 11 maggio 2011, n. 10350.
122
Cass., 3 agosto 2012, n. 14096, in cui l’accessibilità alle unità immobiliari da parte dei disabili è rappresentata come condizione per la reale abitabilità delle unità immobiliari abitative e le opere a tal fine necessarie
sono considerate legittime. Nello stesso senso, Cass., 14 maggio 2014, n. 10852. Anche in questa occasione
si era evocato impropriamente l’istituto delle innovazioni.
123
Cass., 22 agosto 2012, n. 14607; Cass., 31 maggio 2012, n. 8731.
124
Per un caso di prolungamento di balconi, Cass., 19 ottobre 1968, n. 3374, in Foro it., 1969, I, p. 1952, con
nota di G. BRANCA, il quale rileva che «l’opera sarà legittima o meno a seconda che violi o meno l’art. 1122 e
non a seconda che sia o no autorizzata dall’assemblea. Con frase rozza si può dire che l’autorizzazione non
conta nulla; se c’è stata è come se non ci fosse». Più di recente, in un caso in cui l’assemblea aveva autorizzato il passaggio di un tubo sulla facciata e l’utilizzazione di un dismesso vano pattumiera per alloggiare un
contatore individuale, Cass., 16 gennaio 2013, n. 945, rileva che non si tratta di innovazione in senso proprio.
125
Cass., 27 settembre 2013, n. 22285.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 145
tà immobiliari126. Le innovazioni, invece, sono sempre opere “per” le
parti comuni, ossia a vantaggio – quantomeno – di una pluralità di condomini, compresi i dissenzienti, e richiedono sempre una formale deliberazione che le disponga127.
A causa di una inspiegabile ritrosia a considerare i profili funzionali degli interventi, la distinzione è talvolta proposta con riferimento all’empirico criterio dell’onere delle spese. Ci si riferisce, perciò, alle opere che comportano una spesa da ripartire tra tutti, da una parte, e a quelle per le quali il
singolo si assume per intero la spesa, dall’altra128. In questo modo, tuttavia, si dimentica che anche un singolo condomino potrebbe, per esempio,
assumersi per intero la spesa per un’innovazione gravosa o voluttuaria129.
In conclusione sul punto, si può rilevare che l’invalso richiamo improprio
all’istituto delle innovazioni è stato determinato – oltre che dalla sopravvalutazione dell’aspetto materiale delle modificazioni130 – dalla necessità di reperire un riferimento normativo che consentisse di ritenere
vietato ai singoli ogni intervento che potesse pregiudicare l’aspetto
estetico, la stabilità o la sicurezza dell’edificio131. Sebbene il principio
generale secondo cui nessun proprietario può eseguire opere che rechino danno alle proprietà altrui si potesse ritenere più che sufficiente a tale scopo (vedi l’art. 840 c.c. o, in materia di condominio, l’art. 1122 c.c.),
la recente riforma – recependo consolidati indirizzi giurisprudenziali132 –
ha reso del tutto superfluo il riferimento improprio alle innovazioni, aggiungendo alla norma che vieta al singolo condomino di eseguire opere
che rechino danno alle parti comuni la precisazione «ovvero determini126
L. SALIS, Modifiche «necessarie» per il miglior godimento, e rispetto del decoro architettonico, in Riv. giur.
ed., 1962, p. 1185, rileva che, in materia di condominio, il singolo può apportare alle parti comuni le modifiche necessarie all’uso della propria unità immobiliare. Tra i partecipanti alla comunione, invece, difettando il
collegamento funzionale tra parti comuni e unità immobiliari individuali, le possibilità di modifica da parte
del singolo sono molto più limitate. Per qualche considerazione critica sul punto, si rinvia al commento
all’art. 1122 c.c.
127
A. CELESTE, Le vicende modificative, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. GAMBARO-U. MORELLO, III, Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE, Milano, 2012, p. 410.
128
In tal senso, per esempio, Cass., 21 dicembre 2010, n. 25872, a proposito di un servoscala installato a
proprie spese da un condomino.
129
Vedi successivo par. 13.
130
Si pensi ai ricorrenti richiami all’opus novum o alle aggiunte materiali.
131
Il dato emerge già da Cass., 26 luglio 1962, n. 2134, in Riv. giur. ed., 1962, p. 1183.
132
Ricorrente in giurisprudenza il rilievo secondo cui per danno alle parti comuni non deve intendersi solo
quello materiale ma anche quello funzionale, che va a menomare le utilità delle parti comuni anche di ordine
edonistico o estetico. Da ultimo, Cass., 3 gennaio 2014, n. 53, in cui si richiama il nuovo art. 1122 c.c.; nello
stesso senso, Cass., 28 maggio 2007, n. 12491; Cass., 11 febbraio 2005, n. 2743, in Arch. locaz., 2005, p. 574;
Cass., 17 aprile 2001, n. 5612, in Arch. locaz., 2001, p. 506, nonché Cass., 27 aprile 1989, n. 1947, in Giust.
civ., 1989, I, p. 2631.
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146
Capitolo IV
no pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico
dell’edificio» (art. 1122 c.c.).
10.
L’inservibilità delle parti comuni secondo la loro destinazione
come soglia di liceità
Si è detto che la disciplina delle innovazioni consente – in linea generale e
con norme inderogabili – di disporre interventi migliorativi sulle parti comuni semplicemente perché una data maggioranza, sebbene piuttosto
ampia, li ritenga opportuni o convenienti in un certo momento. In effetti,
con una deliberazione assembleare è possibile superare l’opposizione del
singolo o di sparute minoranze, che non intendano sobbarcarsi alla spesa
per l’intervento migliorativo o lo ritengano inopportuno o contrario ai loro
interessi in ragione degli inconvenienti che determina.
Il profilo essenziale dell’articolata disciplina dell’istituto133 pare costituito, almeno in prima approssimazione, proprio dal potere della maggioranza di costringere la minoranza dissenziente, per un verso, a partecipare alla spesa purché non sia molto gravosa e l’innovazione non risulti
voluttuaria, e, per altro verso, a sopportare eventuali incomodi, purché
non si traducano nell’inservibilità di talune parti comuni anche per un
solo condomino.
Accantonato, per il momento, il profilo della spesa, occorre rimarcare
che è ben possibile, dunque, che alcuni condomini, per effetto di
un’innovazione, vedano diminuita – contro la loro volontà – la comodità
e, quindi, il valore della propria unità immobiliare134. Anche quando il
pregiudizio subìto risulti compensato o superato – sul piano quantitativo
– dai vantaggi conseguiti, resta il fatto che alcune possibilità di utilizzazione di un’unità immobiliare possono risultare intaccate in forza di una
decisione presa da altri: la portata precettiva del cosiddetto limite
dell’inservibilità, quindi, va rintracciata nel consentire piuttosto che nel
vietare determinati interventi innovativi.
Sotto questo profilo, poi, l’istituto delle innovazioni può essere accostato alle norme che impongono cosiddette «limitazioni legali della pro-
133
R. CORONA, op. cit., p. 463, rileva che l’istituto delle innovazioni è espressione dell’«equilibrato contemperamento degli interessi relativi alla proprietà e di quelli afferenti alla maggioranza».
134
Vedi Cass., 10 maggio 1967, n. 957, in Riv. giur. ed., 1967, p. 867, con nota di L. SALIS, Liceità
dell’innovazione (ascensore) pregiudizievole a un condomino.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 147
prietà»135 o, con espressioni probabilmente più appropriate, alle discipline (conformative) dei beni136 o caratterizzanti i distinti statuti della
proprietà137.
In altri termini, la situazione oggettiva di natura reale del condominio
negli edifici ha indotto il legislatore a dettare una disciplina dei rapporti
tra condomini diversa da quella applicabile ai normali rapporti di vicinato: se generalmente il proprietario fondiario può opporsi a qualsiasi
opera del vicino che possa arrecargli danno, ovvero che possa pregiudicare le possibilità di utilizzazione del proprio bene (art. 840 c.c.), anche
solo sotto il profilo della comodità o dell’amenità, in materia di condominio negli edifici valgono regole diverse. Il condomino non può opporsi
alle innovazioni che – deliberate con un’ampia maggioranza – diminuiscano, senza sopprimerle, le utilità che una certa parte comune esprime
in favore della propria unità immobiliare
In tali casi, risulta difficile negare che l’atto che ha determinato
l’intervento – la deliberazione ai sensi dell’art. 1120 c.c. – abbia natura
dispositiva138. Per quanto l’idea di una proprietà modificata a maggioranza possa turbare il quadro che vede confinate entro il campo della
gestione le prerogative del gruppo e riservati all’autonomia privata i poteri di disposizione, occorre riconoscere che a fronte delle minori utilità
che determinate parti comuni esprimono in favore di alcune unità immobiliari deve necessariamente corrispondere un nuovo e diverso assetto della titolarità, che vede quantitativamente diminuiti i diritti che sulle
parti comuni interessate spettano ai proprietari di quelle unità immobiliari139. Del resto, la possibilità di chiedere e ottenere la modifica delle
tabelle millesimali a seguito di «innovazioni di vasta portata» era
espressamente prevista dall’art. 69, n. 3, disp. att., c.c. e il fatto che la
135
Con la locuzione ci si riferisce generalmente sia alle discipline conformative della proprietà per ragioni di
pubblico interesse sia alla disciplina dei rapporti di vicinato. Si pensi che l’art. 91 del codice delle comunicazioni elettroniche (D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259), disposizione che disciplina il passaggio di cavi e fili senza indennizzo per i proprietari degli immobili interessati, è intitolato proprio alle «limitazioni legali della proprietà». Per discipline di questo tipo, si rinvia al commento all’art. 1122-bis, par. 2.
136
A. AURICCHIO, L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960, p. 142, riferisce ai beni, almeno in gran parte, la disciplina dei rapporti di vicinato. Per primo ha rilevato che buona parte della disciplina della proprietà
deve considerarsi «disciplina dei beni» E. FINZI, Disciplina della proprietà e disciplina della produzione, in Riv.
dir. priv., 1936, II, p. 13.
137
Vedi cap. 3, par. 1.
138
Per l’assoluta indisponibilità dei diritti dei singoli a maggioranza, vedi diffusamente R. CORONA, op. ult. cit.,
p. 453.
139
Per la corrispondenza tra quantità di utilità espresse dalle parti comuni e misura del diritto di ciascuno
sulle stesse, vedi cap. 1, par. 9.
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148
Capitolo IV
novella del 2012 abbia eliminato il riferimento non sembra decisivo140.
Ancora, se è vero che l’art. 1138, co. 4, dispone che le norme del regolamento non possono «menomare» i diritti di ciascun condomino, è anche vero che per disporre un’innovazione occorre una maggioranza ben
più ampia di quella necessaria per l’approvazione o la modifica del regolamento.
La natura dispositiva della deliberazione con cui si approvano alcune innovazioni non deve far temere lo snaturamento della proprietà edilizia.
Tanto più che, come si vedrà di seguito, i poteri dispositivi del gruppo
trovano oggi spazi ancor più ampi a seguito della disciplina delle modificazioni delle destinazioni d’uso delle parti comuni contenuta nel nuovo
art. 1117-ter c.c.
Detti poteri dispositivi, insomma, devono ritenersi compresi nello specifico statuto della proprietà condominiale: il diritto dei singoli condomini
nasce come soggetto alle modificazioni che le innovazioni o le deliberazioni ai sensi dell’art. 1117-ter possono comportare.
Questo non esclude, però, che a fronte di interventi innovativi che comportino vere e proprie menomazioni dei diritti sulle parti comuni possano operare meccanismi indennitari, benché mai prospettati fino a oggi:
la minore comodità delle parti comuni per alcuni condomini, del resto,
può determinare una diminuzione di valore che non si vede per quale
ragione debba essere lasciata a carico del condomino che la subisce.
Occorre ribadire, tuttavia, che le innovazioni consentite devono preservare la servibilità delle parti comuni interessate per tutti i condomini che
ne traevano utilità. Essa, cioè, deve continuare ad assicurare a tutte le
unità immobiliari alla cui utilità è destinata lo stesso tipo di utilità sino
ad allora espressa.
Non può essere cancellata, cioè, la destinazione d’uso originaria di nessuna parte comune141. In questo l’innovazione, come si vedrà meglio nel
seguito142, si differenzia dalla modificazione della destinazione d’uso
delle parti comuni, ormai oggetto di specifica disciplina143. La parte co140
Sia perché la novella non ha inteso modificare la disciplina generale delle innovazioni, sia – soprattutto –
perché la possibilità di ottenere la modifica a seguito di innovazioni di vasta portata rientra pur sempre nella
ipotesi generale di alterazione dei valori proporzionali.
141
R. TRIOLA, op. cit., p. 209, rileva che se il pregiudizio al singolo condomino supera i limiti della tollerabilità,
l’innovazione non può essere consentita perché si traduce in un mutamento della destinazione economica della cosa.
142
Vedi par. 16.
143
Significativamente l’art. 8 del R.D. 15 gennaio 1934, n. 56, convertito in L. 10 gennaio 1935, n. 8, «Disciplina dei rapporti di condominio sulle case», vietava le innovazioni che importassero un «mutamento di desti-
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 149
mune interessata dall’innovazione potrà esprimere nuove utilità e,
quindi, assumere nuove destinazioni, purché esse risultino compatibili
con quella originaria144.
La conclusione, apparentemente smentita da una parte della giurisprudenza145, è ormai divenuta ineluttabile alla luce del nuovo art. 1117-ter
che, a proposito di modificazioni della destinazione d’uso delle parti comuni, non richiama il cosiddetto limite dell’inservibilità146.
11.
Le innovazioni e condominio parziale: condomini avvantaggiati
e condomini svantaggiati
Una certa innovazione, come è evidente, può avvantaggiare solo alcuni
condomini, svantaggiarne altri – che potrebbero risultare, al contempo,
tra gli avvantaggiati – e lasciare del tutto estraneo alla vicenda un altro
gruppo ancora di condomini147. Alla luce degli ormai acquisiti risultati in
materia di condominio parziale148, occorre domandarsi quali condomini
debbano partecipare alla decisione.
nazione» tale da rendere «inservibili le parti comuni»: era chiaro che, quando rendere inservibile una parte
comune significa modificarne la destinazione.
144
Si veda, per esempio, l’art. 91 del D.lgs. 1.8.2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), che
prescrive sia fatta salva la destinazione del bene sul quale si installa l’antenna (vedi precedente par. 6).
145
Negli ultimi anni è divenuta ricorrente, nelle massime, l’affermazione secondo cui le innovazioni sono le
modifiche che importano l’alterazione della realtà sostanziale o il mutamento della originaria destinazione,
in modo che le parti comuni presentino una diversa consistenza materiale o vengano utilizzate per fini diversi da quelli precedenti: cfr. Cass., 26 maggio 2006, n. 12654, in Corr. giur., 2007, p. 235, con nota di R. TRIOLA,
Condominio, innovazioni ed esecuzione di opere su parti comuni, il quale rileva come la giurisprudenza precedente richiedesse pur sempre l’esecuzione di opere affinché si potesse parlare di innovazioni. L’illustre Autore ricorda altresì la precedente giurisprudenza che richiedeva l’unanimità dei consensi per il mutamento
delle destinazioni d’uso: per tutte, Cass., 14 novembre 1977, n. 4922, in Giust. civ., 1978, I, p. 1346. Per ulteriori richiami sul punto, si rinvia seguente par. 13, ove si rileva che non si sono registrati casi in cui sia stata
ritenuta legittima una deliberazione ex art. 1120 c.c. con cui si sia realmente dismessa una specifica destinazione in atto.
146
R. CORONA, I lineamenti generali della riforma e alcune importanti novità, in A. GAMBARO-U. MORELLO, Trattato dei diritti reali, Riforma del condominio, a cura di M. BASILE M., Milano, Giuffrè, 2013, p. 18.
147
È il caso di ricordare – e discipline di questo tipo ne offrono una prova tangibile – che il condominio non è
una comunità, un gruppo o una formazione sociale. M. COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprietà,
Napoli, 1967, p. 343, nota 38, ampliando il discorso anche a forme di collegamento stabilite dalla legge
nell’interesse pubblico, rileva che «vi è insomma organizzazione delle attività di utilizzazione dei beni, senza
che sia possibile configurare una collettività di soggetti proprietari». Ciascun partecipante, dunque, è da considerarsi terzo nelle decisioni che non incidono sulle possibilità di utilizzazione della sua unità immobiliare,
senza che possa rappresentarsi un interesse comune dei soggetti organizzati. Sul punto diffusamente, con
specifico riferimento alle innovazioni, R. CORONA, Contributo alla teoria del condominio degli edifici, Milano,
1973, p. 153; contra G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, BolognaRoma, 1982, p. 426.
148
Vedi cap. 1, par. 9.
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150
Capitolo IV
Si consideri il caso del proprietario di un’unità immobiliare al piano terra
con accesso esclusivo dalla strada che, per espressa previsione del titolo, non sia proprietario delle scale e del vano scale. È evidente che il
condomino in questione non ha alcun interesse alla deliberazione con
cui si dispone l’installazione di un impianto di ascensore. Di certo non
deve partecipare alla spesa e l’installazione non intacca il grado di fruibilità delle parti comuni connesse alla sua unità immobiliare. Se, invece, a
quella stessa unità immobiliare si accede dall’androne e l’installazione
dell’impianto di ascensore rende più incomodo l’accesso, non può negarsi che a quel condomino – che pure non dovrà partecipare alla spesa
– occorre riconoscere il diritto di concorrere alla decisione, quantomeno
in relazione ai profili che attengono alle modalità dell’intervento, perché
l’innovazione comporta la modificazione di una parte comune anche alla
sua unità immobiliare149.
La riprova della correttezza della conclusione si ottiene chiedendosi cosa
accadrebbe in mancanza di una disciplina delle innovazioni: la partecipazione alla spesa non necessaria potrebbe avvenire solo su base volontaria e occorrerebbe il consenso di tutti i proprietari che dovessero subire una diminuzione anche solo del grado di comodità della propria unità
immobiliare (intesa come comprensiva di parti comuni e parti oggetto di
proprietà individuale).
In concreto, non occorrendo alcuna deliberazione assembleare, i condomini che intendessero eseguire l’intervento innovativo dovrebbero
convincere coloro che ne trarrebbero vantaggio a partecipare alla spesa,
oppure farsene carico per intero150. Al contempo, occorrerebbe procurarsi il consenso dei condomini che subirebbero un qualche inconveniente in conseguenza dell’innovazione. È sin troppo evidente, infatti,
che dovrebbe ritenersi illecita ed esorbitante dall’esercizio del diritto di
proprietà (comune) l’esecuzione di qualunque opera che recasse «dan149
In questo senso si esprime lucidamente L. SALIS, Le comunioni parziali nel condominio edilizio, in Riv. giur.
ed., p. 910, nonché ID., Composizione dell’assemblea di condominio per deliberare l’impianto di ascensore,
ivi, 1960, p. 972.
150
Sebbene l’ipotesi non sia considerata in alcuna norma sul condominio, pare una conclusione più che ragionevole consentire al singolo di apportare miglioramenti alle parti comuni che non rechino danno a nessun
condomino. Altrimenti occorrerebbe rispolverare lo ius prohibendi, ormai incompatibile con il sistema. Se,
infatti, a ciascun condomino – in virtù dell’art. 1122 c.c. o, se si preferisce, dell’art. 1102 c.c. – è data la possibilità di modificare le parti comuni nel proprio interesse, a maggior ragione potrà intervenire sulle parti
comuni quando l’opera torna utile a più condomini. È evidente che deve trattarsi di interventi che non comportino alcun inconveniente per nessun condomino o modifiche all’aspetto estetico dell’edificio (profilo in
relazione al quale non è sempre agevole accertare il carattere migliorativo o peggiorativo).
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 151
no» ad altre proprietà (artt. 840 e 1122 c.c.), ossia che diminuisse le
possibilità di utilizzazione di altri beni. E non c’è dubbio che anche il mero incomodo che l’opera dovesse recare all’attività di utilizzazione delle
unità immobiliari di altri condomini andrebbe considerato una inammissibile «diminuzione (o menomazione) del loro diritto»: basti pensare che
è espressamente sancita la possibilità che l’utilità arrecata da un diritto
di servitù – che non può che nascere in virtù di un atto di indubbia natura dispositiva – può consistere anche nella «maggiore comodità o amenità del fondo dominante» (art. 1028 c.c.).
In conclusione, in mancanza della disciplina delle innovazioni, occorrerebbe il consenso sia di chi partecipa alla spesa, sia di chi subisce un incomodo.
Se è vero che la norma serve proprio a superare l’opposizione del singolo o di esigue minoranze, allora bisogna concludere che la deliberazione
approvata con la maggioranza prescritta produce gli stessi effetti che,
per legge, avrebbe prodotto il consenso che i soggetti interessati, sebbene a diverso titolo, avrebbero dovuto prestare.
In conclusione, quindi, ai fini del computo della maggioranza dei partecipanti che rappresentino i due terzi del valore, nel caso di condominii parziali, occorre aver riguardo cumulativamente alle unità immobiliari che
accuseranno vantaggi o svantaggi a seguito dell’intervento innovativo.
12.
Le altre innovazioni vietate: il pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza dell’edificio e l’alterazione del decoro architettonico
Esaminata la portata precettiva del cosiddetto limite dell’inservibilità,
consistente nel consentire piuttosto che nel vietare determinati interventi innovativi, occorre ora esaminare gli altri casi di «innovazioni vietate» ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1120 c.c.
Si tratta degli interventi che determinino un pregiudizio per la stabilità o
la sicurezza dell’edificio o ne alterino il decoro architettonico.
Una parte della dottrina ha voluto differenziare queste ipotesi da quella
delle innovazioni che rendano inservibili talune parti comuni: in
quest’ultimo caso l’innovazione sarebbe dannosa per singoli condomini;
negli altri le opere risulterebbero pregiudizievoli per la collettività dei
condomini, se non anche per soggetti terzi151.
151
BRANCA, Comunione, cit., p. 431.
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152
Capitolo IV
In contrario, è stato rilevato che i condomini non costituiscono una collettività152 e che anche la sicurezza, la stabilità e il decoro architettonico
dell’edificio corrispondono a interessi individuali dei singoli proprietari.
L’unica inessenziale differenza – si è osservato – è rappresentata dal fatto che il cosiddetto limite dell’inservibilità può riguardare specifiche unità immobiliari, mentre il decoro architettonico, la stabilità e la sicurezza
fanno generalmente capo a tutte le unità immobiliari comprese
nell’edificio. In tutti i casi, la ratio che sorregge le diverse ipotesi di innovazioni vietate è la medesima153.
Accedendo a una interpretazione di questo tipo, che senza dubbio presenta un maggior grado di coerenza sul piano sistematico, occorre domandarsi se anche sul versante estetico e della sicurezza i «divieti» di
innovazione finiscano col consentire interventi altrimenti vietati, piuttosto che col determinare l’illiceità di opere altrimenti lecite.
Ci si deve domandare, in altri termini, se anche l’interesse di natura reale di ciascun condomino alla sicurezza, alla stabilità e alla gradevolezza
estetica dell’edificio possa ritenersi esposto a modificazioni moderatamente peggiorative nel contesto di interventi migliorativi voluti da
un’ampia maggioranza, così come accade per la funzionalità (o servibilità) delle parti comuni.
Il pregio architettonico, il grado di sicurezza e la solidità dell’edificio costituiscono certamente qualità di ogni singola unità immobiliare che si
riflettono sul valore di esse154. Significativamente, infatti, il decoro architettonico dell’edificio è stato rappresentato come bene immateriale
comune155.
Prendendo le mosse proprio dal decoro architettonico, si può rilevare
che non si vede per quale ragione il grado di fruibilità di qualunque parte comune possa risultare ridotto per effetto di un’innovazione fino al
limite dell’inservibilità, mentre il profilo estetico dell’edificio dovrebbe
ritenersi sempre un aspetto da preservare integralmente.
152
Vedi nota 147.
In questi termini R. CORONA, Contributo, cit., p. 155.
154
Sulla rilevanza economica del pregiudizio al decoro architettonico, sebbene in obiter dictum e in un caso
di innovazioni improprie, Cass., 31 luglio 1987, n. 6640, in Arch. locaz., 1987, p. 641.
155
P. GIUGGIOLI-M. GIORGETTI, Il nuovo condominio, Milano, 2013, p. 164. Anche la giurisprudenza, del resto, si
riferisce alle utilità di ordine edonistico o estetico ritraibili dalle parti comuni (Cass., 27 aprile 1989, n. 1947,
in Giust. civ., I, 1989, p. 2631). D’altra parte la funzione estetica o ornamentale di determinati elementi architettonici è pacificamente ritenuta indice della loro qualità di parti comuni.
153
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 153
Si tratta, con tutta evidenza, di una conclusione inaccettabile sul piano
sistematico, posto che non vi è ragione di privilegiare l’utilità estetica rispetto a utilità d’altro genere. Per altro verso, basti pensare agli elementi architettonici con funzione esclusivamente decorativa che, proprio per
questa ragione, sono annoverati tra le parti comuni. Ebbene, in virtù del
limite dell’inservibilità, essi potrebbero legittimamente vedere ridotto il
loro grado di fruibilità fino al limite dell’inservibilità in conseguenza di
un intervento innovativo. Sennonché, ridurre la fruibilità di elementi decorativi significa incidere sul profilo estetico dell’edificio. Se, dunque, si
intendesse il divieto di alterare il decoro architettonico come assoluta
intangibilità dell’aspetto estetico, lo stesso intervento risulterebbe –
sotto tale profilo – vietato.
Per sfuggire a paradossi e contraddizioni di questo genere, conviene riconoscere che anche il limite del decoro architettonico ha una portata
precettiva permissiva piuttosto che interdittiva.
Non mancano argomenti di carattere storico e letterale a supporto di
una tale interpretazione. In effetti, è stato rilevato che mentre il R.D.L.
15 gennaio 1934, n. 56156 si riferiva all’«aspetto architettonico» sia a
proposito di innovazioni vietate (art. 8) sia a proposito della sopraelevazione (art. 12), il codice civile ha conservato la locuzione per la sopraelevazione (art. 1127 c.c.), ma ha adottato la diversa espressione di «decoro architettonico» per le innovazioni. Sia in dottrina sia in giurisprudenza
si è tentato di differenziare il significato delle due diverse formule, rilevando condivisibilmente che il dovere di rispettare l’aspetto architettonico impone valutazioni più rigorose rispetto al divieto di pregiudicare il
decoro architettonico di un edificio157.
Sebbene gli argomenti fondati sul significato delle parole non siano mai
decisivi e si prestino spesso a essere rovesciati, si può rilevare che il decoro evoca il concetto di livello minimo e irrinunciabile, mentre l’aspetto
indica generalmente una precisa e determinata conformazione di un
qualcosa.
156
Il R.D.L. fu convertito in L. 10 gennaio 1935, n. 8, intitolata alla «Disciplina dei rapporti di condominio sulle
case».
157
Da ultimo, Cass., 24 aprile 2013, n. 10048 ha ritenuto affetta da illogicità la sentenza che ritenga che una
sopraelevazione pregiudichi il decoro ma non l’aspetto architettonico di un edificio. Ricorrente
l’affermazione secondo cui le nozioni di aspetto e decoro architettonico avrebbero diversa portata. Generalmente si riferisce l’aspetto architettonico allo stile e se ne ricava che un intervento in un diverso stile
comporta normalmente un mutamento peggiorativo dell’aspetto dell’edificio (Cass., 27 aprile 1989, n. 1947,
in Giust. civ., I, 1989, p. 2631).
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154
Capitolo IV
E allora conviene muovere dalla considerazione secondo cui con
l’istituto delle innovazioni il legislatore ha affidato a una specifica deliberazione adottata a larga maggioranza una possibilità preclusa ai singoli:
quella di disporre interventi che riducano, senza cancellarle, le utilità
che alcuni o tutti i condomini detraggono da talune parti comuni.
Si deve ritenere, dunque, che quando l’intervento presenta i caratteri
propri dell’innovazione (che è sempre un’opera “per” le parti comuni)
esso possa incidere sull’estetica dell’edificio più di quanto possa ritenersi consentito ai singoli158.
Ebbene, si deve rilevare che la sopraelevazione si avvicina alle opere
“per” le unità immobiliari piuttosto che alle innovazioni e che, perciò,
appare preferibile ritenere che non possa incidere sull’estetica
dell’edificio più di quanto ordinariamente consentito ai singoli.
Sulla base di queste considerazioni, risulta confermato che all’aspetto
dell’edificio – richiamato in materia di sopraelevazione (art. 1127 c.c.) –
debba attribuirsi un significato più pregnante di quello di decoro e, pertanto, si può concludere che l’innovazione in senso tecnico può incidere
sull’aspetto dell’edificio, purché non ne comprometta il decoro architettonico159.
Il legislatore della riforma, adeguandosi al linguaggio ormai invalso160,
ha trascurato i profili segnalati, riproponendo l’espressione decoro architettonico sia nell’art. 1122 c.c. sia nell’art. 1117-ter c.c.
Quanto rilevato, tuttavia, pare trovare riscontro nella giurisprudenza.
Dall’esame dei precedenti, infatti, risulta che – nonostante l’uso della
locuzione «decoro architettonico» per tutte le opere che incidano
sull’aspetto dell’edificio161 – si registri un rigore minore tutte le volte
158
L’art. 1122 c.c., si legge in diverse sentenze, «stabilisce che ciascun condomino (…) non può eseguire opere che arrechino danno ad una parte comune dell’edificio. Il concetto di danno cui la norma fa riferimento
non va limitato esclusivamente al danno materiale (…), [ma va esteso anche al danno] di ordine edonistico o
estetico» (Cass., 27 aprile 1989, n. 1947 e, negli stessi termini, Cass., 28 novembre 1975, n. 3872). Vanno fatte salve, come si è avuto modo di constatare, le opere per singole unità immobiliari di utilità sociale disciplinate dall’art. 1122-bis c.c.
159
Si ricorda generalmente che per decoro architettonico si intende quello che risulta dall’insieme di linee e
motivi ornamentali che imprimono una determinata fisionomia all’edificio, anche se privo di particolare pregio. Si rinvia, sul punto, alle considerazioni di L. SALIS, Nozione di decoro architettonico e limiti al dovere di rispettarlo, in Riv. giur. ed., 1973, p. 704. Più di recente, Cass., 19 giugno 2009, n. 14455.
160
Nell’ultima parte del par. 9 si è rilevato che spesso si usa il termine innovazione anche per interventi eseguiti su iniziativa di singoli condomini proprio per valutarne gli effetti sull’aspetto estetico dell’edificio. La locuzione «decoro architettonico», pertanto, è utilizzata sia per le innovazioni in senso tecnico, sia per gli interventi impropriamente indicati come innovazioni.
161
V. nota precedente.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 155
che si tratti di innovazioni in senso proprio, quantomeno sotto il profilo
della possibile compensazione del deprezzamento complessivo delle
unità immobiliari condominiali conseguente alla alterazione architettonica – purché non grave e appariscente – con l’utilità apportata
dall’innovazione162.
Concludendo sul decoro architettonico, si rileva che in numerose sentenze è affermata la possibilità di determinarne, con una clausola contrattuale, un significato più stringente163. Numerosi sono i casi in cui regolamenti di origine esterna vietano qualsiasi mutamento della facciata
dell’edificio. Occorre precisare che se non vi sono ragioni di ritenere invalide le clausole che impediscano ai singoli modificazioni che incidono
sul lato estetico, in mancanza di precedenti specifici si può fondatamente dubitare che si possa convenzionalmente sottrarre all’assemblea il
potere di apportare innovazioni anche a costo di qualche sacrificio sotto
il profilo funzionale o estetico per alcuni o per tutti i condomini164.
Passando, infine, alla stabilità e la sicurezza dell’edificio, i precedenti sono molto limitati. La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che la
norma opera per gli interventi in sé pregiudizievoli e non per i casi di
cattiva esecuzione delle opere165.
In proposito ci si limita a rilevare che, nella pratica, non si è ritenuto che
la norma impedisca ogni intervento che diminuisca il grado di sicurezza
o il livello di stabilità dell’edificio. L’installazione di nuovi impianti, infat162
Da ultimo, in questi termini si esprime Cass., 25 ottobre 2012, n. 18334, in Giur. it., 2013, 2, p. 294, con
nota di G. TUCCI, Nota in tema di ascensore per disabili. Il caso riguardava una deliberazione assembleare con
cui si deliberava l’installazione di un ascensore in un palazzo in stile liberty. Analoghe considerazioni si ritrovano in Cass., 15 maggio 1987, n. 4474, in Arch. locaz., 1987, p. 478, nonché in Cass., 13 luglio 1965, n. 1472,
in Giust. civ., 1965, I, p. 2011. Per le innovazioni in senso improprio, Cass., 11 maggio 2011, n. 10350, a proposito di una canna fumaria installata dal proprietario dell’unità immobiliare al piano terra, afferma che è lesiva del decoro architettonico non solo l’«innovazione» che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che «comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso»; Cass., 27 aprile 1989, n. 1947 richiama l’art. 1122 c.c. per dichiarare illecite le opere eseguite dal singolo e che producano un – non meglio
qualificato – danno edonistico o estetico all’edificio. Come è ovvio, se l’intervento giova solo al condomino
che lo esegue e l’opera determina un deprezzamento dell’edificio per il pregiudizio estetico che ne deriva,
l’intervento è considerato illecito. In questi termini, Cass., 26 luglio 1962, n. 2134, in Riv. giur. ed., 1962, I, p.
1183.
163
Cass., 13 giugno 2013, n. 14898; Cass., 24 gennaio 2013, n. 1748; Cass., 23 maggio 2012, n. 8174; Cass., 7
giugno 2011, n. 12291, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 1, p. 28, con nota di M. D’AMICO, “Variante” alla facciata ed inderogabilità del regolamento condominiale; Cass., 6 ottobre 1999, n. 11121, in Arch. locazioni,
2000, p. 432.
164
Vedi cap. 3, parr. 1-2, ove si rileva che deve ritenersi inderogabilmente attribuito all’assemblea il potere di
regolare o rivedere la disciplina di determinati aspetti della materia condominiale. Allo stesso modo, deve ritenersi inderogabilmente attribuito all’assemblea il potere di disporre innovazioni in senso tecnico.
165
App. Torino, 12 maggio 1971, in Giur. it., 1973, I, 2, p. 1146; Cass., 8 maggio 1971, n. 1309, nonché Cass.,
16 gennaio 2007, n. 851.
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156
Capitolo IV
ti, comporta quasi sempre rischi aggiuntivi per i residenti (si pensi, per
esempio, a un cancello elettrico), e molti interventi innovativi, aumentando i carichi, rendono le strutture un po’ meno stabili, benché ampiamente solide. Correttamente, dunque, la norma è stata intesa nel
senso che l’innovazione deve assicurare il grado di sicurezza che è lecito
attendersi dal tipo di intervento di volta in volta deliberato e che non
deve risultare a rischio la stabilità o compromessa la sicurezza
dell’edificio. In questa materia, ormai densa di norme inderogabili, non
c’è spazio per interventi più o meno dannosi per la stabilità o la sicurezza. Ammessa la possibilità di un intervento, la sicurezza e la stabilità sono qualità dell’edificio condominiale che si possono solo ritenere sussistenti o insussistenti.
Intese in questo senso, la stabilità e la sicurezza dell’edificio, insieme
con il decoro architettonico e la servibilità delle parti comuni per tutti i
condomini, determinano il campo entro il quale gli interventi migliorativi
deliberati dall’ampia maggioranza richiesta possono incidere sugli interessi di natura reale dei condomini anche dissenzienti.
A questo punto bisogna conclusivamente chiedersi da quale vizio sia affetta l’eventuale deliberazione assembleare che disponga innovazioni
vietate.
Una parte della dottrina ha sostenuto la tesi della mera annullabilità, figura di invalidità oggi espressamente richiamata dall’art. 1137 c.c. Si è
rilevato che, se l’opera approvata è diretta al miglioramento delle parti
comuni, la deliberazione rientra pur sempre nella competenza
dell’assemblea. Si potrà assistere, al più, a un cattivo uso dei poteri che
si traduce nel vizio di eccesso di potere e, perciò, determina la mera annullabilità dell’atto. Ancora, sul piano sistematico, si è richiamata la
norma che, in materia di comunione, prevede espressamente che gli atti
gravemente pregiudizievoli per la cosa comune siano solo annullabili e
non nulli (art. 1109, n. 1, c.c.)166.
In contrario, si è osservato che la norma da ultimo richiamata si riferisce agli atti di ordinaria amministrazione e non a interventi invasivi e
straordinari come le innovazioni. Oltre al fatto che sarebbe davvero assurdo ritenere sanabile il vizio di deliberazioni che mettono a repenta-
166
Gli argomenti sono di G. BRANCA, nota a Cass., 19 ottobre 1968, n. 3374, in Foro it., 1969, I, p. 1953.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 157
glio la sicurezza dell’edificio o che rendano inservibili alcune parti
dell’edificio167.
Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, si può agevolmente concludere che le innovazioni vietate incidono su interessi di natura reale
dei singoli oltre quanto – in deroga alle norme che disciplinano ordinariamente i rapporti tra proprietari vicini – la norma in commento consenta all’assemblea. Perciò si tratta di deliberazioni radicalmente nulle
perché incidenti su diritti individuali168.
13.
Le innovazioni gravose o voluttuarie e le innovazioni in senso
improprio
Solo con una deliberazione che disponga innovazioni in senso tecnico,
giova ripeterlo, si possono approvare opere che rechino qualche incomodo a taluni condomini e si possono costringere tutti i condomini che
ne traggono vantaggio a partecipare alla spesa169. Tuttavia, dispone
l’art. 1121 c.c., se l’innovazione risulta molto gravosa o voluttuaria con
riferimento alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, chi
non intende partecipare può sottrarsi alla spesa170.
Deve ritenersi ormai superata l’opinione di chi aveva voluto riconoscere
rilevanza alle condizioni economiche dei singoli condomini171: per verificare se una certa innovazione è gravosa o voluttuaria conviene attenersi
al puntuale riferimento della norma e considerare unicamente le qualità
dell’edificio172.
Si è precisato, poi, che l’innovazione voluttuaria non si identifica con
l’intervento arbitrario, bizzarro o capriccioso o del tutto inutile – che andrebbe considerato estraneo al campo delle innovazioni in quanto non
167
TRIOLA, Il condominio, cit., p. 205.
In questo senso si è pronunciata Cass., 24 luglio 2012, n. 12930. La nota sentenza Cass., SS.UU., 7 marzo
2005, n. 4806, in Giur. it., 2005, p. 2042, del resto, afferma espressamente la nullità delle delibere incidenti
su diritti individuali o su cose o servizi comuni.
169
Cfr. Cass., 11 febbraio 2000, n. 1529, in Giur. it., 2000, I, p. 2022, con nota di R. ZUCCARO, Installazione di
ascensore: innovazione o modificazione?
170
Rintraccia nel carattere non necessario delle opere il fondamento di questa disciplina SALIS, op. cit., p. 150.
171
In tal senso U. GUIDI, Il condominio nel nuovo codice civile, Milano, 1942, p. 116. Per tesi intermedie, A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 270; L. SALIS, op. cit., p. 149. Per la completa irrilevanza delle
condizioni patrimoniali del singolo, D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, p. 243, il quale ha
riguardo al vantaggio conseguito dal singolo condomino in relazione alla sua particolare unità immobiliare;
G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 439, che
ritiene improprio, in materia di diritti reali, ogni riferimento a elementi personali.
172
In giurisprudenza, Cass., 18 gennaio 1984, n. 428, in Riv. giur. ed., 1984, I, p. 454; App. Milano, 9 settembre 1988, in Arch. locaz., 1989, p. 705.
168
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158
Capitolo IV
diretto al miglioramento delle parti comuni173 (art. 1120 c.c.) – ma ricorre in tutti i casi in cui l’intervento appaia eccessivo rispetto al pregio
dell’edificio174: ove, cioè, superi il livello di comfort che risulta adeguato
alle complessive condizioni dell’edificio.
Sul versante della gravosità, invece, si deve considerare unicamente
l’importo della spesa, anche se l’intervento appaia quanto mai opportuno, conveniente e adeguato alle qualità dell’edificio: sul piano sistematico, si può richiamare in questo senso la norma che, in tema di opere necessarie, consente a ciascun condomino di sottrarsi alla partecipazione
alle spese di ricostruzione se il loro ammontare complessivo supera i tre
quarti del valore dell’edificio (art. 1128, co. 2, c.c.).
Occorre verificare, tuttavia, in che modo e a quali condizioni operi la
possibilità di sottrarsi alla spesa.
Il co. 1 dell’art. 1121 c.c., che si riferisce all’innovazione suscettibile di
utilizzazione separata, dispone che il condomino che non intenda trarne
vantaggio sia esonerato da qualsiasi contributo.
La norma è chiaramente indirizzata all’assemblea e impone di non includere nella ripartizione delle spese per l’esecuzione – e in quelle
successive per la manutenzione – i condomini che abbiano manifestato l’intenzione di non parteciparvi. Ebbene, chi si avvale di questa facoltà non potrà giovarsi dell’innovazione suscettibile di utilizzazione
separata, ma conserva la possibilità di una partecipazione differita175:
i condomini esentati – e i loro eredi o aventi causa – possono in qualunque tempo partecipare ai vantaggi dell’innovazione, contribuendo
alle spese di esecuzione e manutenzione dell’opera (art. 1121, co. 3,
c.c.)176.
173
Distingue lucidamente innovazioni vietate da innovazioni gravose o voluttuarie, L. SALIS, op. cit., p. 149.
Si è escluso il carattere voluttuario della sostituzione della cabina dell’ascensore quando i continui guasti
rendono antieconomico provvedere a numerosi interventi di riparazione in Cass., 11 gennaio 1968, n. 62, in
Foro it., 1968, I, p. 374.
175
Per un caso esemplare in cui il significato di questa norma è stato travisato, Cass., 18 settembre 2009, n.
20254, in cui si afferma che, poiché l’art. 9, co. 3, della L. 24 marzo 1989, n. 122 (Legge Tognoli) fa salvo l’art.
1121, co. 3, c.c., la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo a spese di alcuni condomini è consentita solo se
è assicurata anche ai dissenzienti la possibilità, in futuro, di realizzare altri parcheggi. La soluzione adottata
appare condivisibile, ma il richiamo all’art. 1121, co. 3, c.c. è improprio. Sarebbe stato corretto, invece,
prendere atto che l’intervento è un’innovazione in senso improprio e richiamare l’art. 1122 c.c. – o, al più,
l’art. 1102 c.c. – per giungere alla medesima soluzione. Se, difatti, si fosse trattato di innovazione gravosa o
voluttuaria in senso tecnico, a coloro che non hanno partecipato alla spesa si sarebbe dovuto consentito di
avvantaggiarsi dell’innovazione semplicemente versando una somma di denaro. Si tratta, in ogni caso, di
somme da rivalutare (Cass., 18 agosto 1993, n. 8746).
176
La somma deve comprendere anche le spese di manutenzione straordinaria e messa a norma e non quelle connesse all’effettivo uso (Trib. Napoli, 18 aprile 2001, in Arch. locaz., 2001, p. 832) e si estende anche a
174
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 159
Un risalente e più volte richiamato precedente della Suprema Corte ha
contribuito a offuscare il significato della disposizione, lasciando intendere che il condomino che non voglia partecipare alla spesa per una
innovazione gravosa o voluttuaria debba «manifestare il suo dissenso
in assemblea o con la tempestiva impugnazione della deliberazione»177.
Non si vede per quale ragione, tuttavia, il condomino che ha diritto di
essere esentato dalla partecipazione alla spesa, conservando la possibilità di avvantaggiarsene successivamente, per avvalersi di questa facoltà
debba necessariamente dissentire dall’intervento o, addirittura, impugnare la relativa deliberazione.
Per un verso, si è rilevato che non è corretto escludere che l’assemblea
dia spontanea esecuzione al dettato normativo e, riconosciuto il carattere molto gravoso o voluttuario dell’innovazione, provveda a ripartire la
spesa tra i soli condomini pronti a sopportarla178. In questa ipotesi, come è ovvio, non vi è ragione di impugnare la delibera179.
Per altro verso, non deve nemmeno darsi per scontato che chi non intenda partecipare alla spesa debba considerarsi contrario all’intervento.
Un condomino non disposto a partecipare alla spesa – almeno al momento in cui essa è disposta – può trovare ugualmente conveniente la
realizzazione dell’innovazione180, magari in vista di una successiva partecipazione.
D’altra parte, può darsi che un dissenziente, ridotto in minoranza, voglia
avvantaggiarsi dell’innovazione gravosa o voluttuaria e decida in ogni
caso di partecipare alla spesa.
In altri termini, conviene tenere distinta la decisione di partecipare o
meno alla spesa rispetto alla valutazione in ordine all’opportunità di disporre una certa innovazione gravosa o voluttuaria.
una quota proporzionale della spesa che sarebbe spettata ad altri condomini che vi si sono sottratti (Cass.,
18 novembre 1971, n. 3314, in Riv. giur. ed., 1972, p. 371; App. Napoli, 6 giugno 1968, ivi, 1970, p. 293, con
nota di L. SALIS, Calcolo del corrispettivo per la partecipazione alla comunione di ascensore).
177
Cass., 17 aprile, 1969, 1215, in Foro it., 1969, I, p. 2948.
178
A. CELESTE-L. SALCIARINI, I beni comuni. L’individuazione e l’utilizzo, p. 375, i quali rilevano che, se il carattere
gravoso o voluttuario dell’opera è riconosciuto dall’assemblea, non c’è ragione di impugnare la deliberazione
che la disponga.
179
Sarà, invece, necessario impugnare la deliberazione che, disconoscendo ingiustamente il carattere gravoso o voluttuario dell’innovazione, disponga la ripartizione della spesa tra tutti. L’impugnazione, salvo diversi
profili di illegittimità della deliberazione, sarà diretta all’attuazione coattiva del diritto di essere esentati dalla
partecipazione alla spesa e non a impedire la realizzazione dell’opera.
180
Prospetta quest’ipotesi G. BRANCA, op. cit., p. 440.
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160
Capitolo IV
Proprio per non confondere il diverso ordine di considerazioni, una parte della dottrina ha prospettato l’opportunità di procedere a due distinte deliberazioni181.
In prima battuta l’assemblea, valutata come gravosa o voluttuaria
l’innovazione, provvede ad approvare l’intervento182.
Successivamente si procede a verificare se i condomini pronti a sostenere la spesa siano disposti anche a sopportarne quella parte che sarebbe
spettata a chi – eventualmente – abbia deciso di sottrarsi.
Una soluzione di questo tipo, in due fasi, sembra suggerita dalla disposizione che si riferisce alle innovazioni insuscettibili di utilizzazione separata, ove si richiama – per un verso – la deliberazione dell’innovazione
(«la maggioranza che ha deliberato l’innovazione o che l’ha accettata»)
e – per altro verso – la decisione di sopportare per intero la spesa («intenda sopportarne integralmente la spesa»).
D’altra parte, un doppio passaggio sembra inevitabile in ogni caso,
quantomeno per consentire a chi deve decidere se partecipare o meno
alla spesa di sapere preventivamente a quanto ammonterebbe la quota
dovuta.
Come è stato autorevolmente rimarcato183, del resto, la disciplina è
identica, vuoi che l’innovazione sia suscettibile di utilizzazione separata,
vuoi che non lo sia: in entrambi i casi resta il potere della maggioranza di
eseguire innovazioni anche molto gravose o voluttuarie; in entrambi i
casi qualunque condomino può decidere di sottrarsi alla spesa.
L’unica inessenziale differenza tra le due ipotesi è rappresentata dalla
materiale possibilità di escludere dal godimento chi non ha partecipato
alla spesa.
In entrambi i casi, infatti, l’opera – salvo che non si tratti della modificazione di una parte comune (per esempio, l’ampliamento di una porta) –
resta in condominio parziale184 tra coloro che hanno partecipato alla
spesa e provvedono autonomamente alla gestione, sopportandone i costi185.
181
In tal senso, SALIS, Il condominio, cit., p. 151, il quale – tuttavia – pare ritenere che solo per via giudiziaria
possa essere accertato il carattere gravoso o voluttuario dell’innovazione.
182
Sulla composizione dell’assemblea, vedi par. 11.
183
SALIS, op. cit., p. 152.
184
L. SALIS, op. cit., p. 153, nonché ID., Comunione di impianti eseguiti in epoca successiva alla costituzione del
condominio, in Riv. giur. ed., 1972, p. 371.
185
G. BRANCA, op. cit., p. 441, afferma che il diritto di proprietà degli altri resta paralizzato, quiescente; PERETTI GRIVA, op. cit., p. 246, lo definisce sospeso.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 161
In entrambi i casi deve ammettersi la partecipazione differita: nel caso di
opere insuscettibili di utilizzazione separata, infatti, potrebbe darsi che
chi si è sottratto inizialmente alla spesa voglia successivamente partecipare alla gestione dell’opera, oltre che trarne i vantaggi nella posizione
di free rider186.
Solo coloro che hanno finanziato l’opera e ne sopportano le spese, infatti, provvedono alla autonoma gestione dell’opera e possono deliberarne
anche la dismissione, con ripristino della situazione precedente (si pensi,
per esempio, all’acquario installato nell’androne).
È bene rimarcare, infine, che anche le innovazioni gravose o voluttuarie
alla cui spesa non tutti abbiano partecipato restano innovazioni in senso
tecnico e, quindi, possono rendere meno comode per alcuni, benché
non del tutto inservibili, talune parti comuni.
Diverso il caso di interventi che potremmo definire come innovazioni in
senso improprio. Con questa espressione si allude a interventi che hanno natura di innovazioni, ma sono eseguiti senza avvalersi della relativa
disciplina che – come si è rilevato – consente di costringere esigue minoranze a subire qualche incomodo e a partecipare a spese non gravose
per interventi non voluttuari.
Si tratta, in particolare, di opere che potremmo definire “individuali per
le parti comuni”: singoli condomini o gruppi di condomini, al di fuori dei
canali propri dell’organizzazione condominiale, eseguano di propria iniziativa interventi migliorativi di parti comuni, che tornano utili anche ad
altri condomini. Dette opere, che un tempo sarebbero state esposte al
cosiddetto jus prohibendi187, sono da ritenersi lecite, purché non rechino
alcun tipo di pregiudizio, anche sotto il profilo estetico, alle altre unità
immobiliari o alle parti comuni188. Non vi è ragione di ritenere illeciti
questi interventi solo perché avvantaggiano qualche condomino che non
vi prende parte189. In tali casi pare sufficiente informare preventivamente l’amministratore, il quale riferirà in assemblea (art. 1122, co. 2, c.c.):
186
Vedi Cass., 10 novembre 1976, n. 4138, in cui si afferma che il condomino che dichiari di voler beneficiare
di un’innovazione gravosa «viene a porsi sullo stesso piano degli altri».
187
L’art. 677 c.c. abrogato dispone che il singolo partecipante non può apportare «innovazioni nella cosa
comune, benché le pretenda vantaggiose a tutti, se gli altri non vi acconsentano».
188
Sono da ritenersi vietati gli interventi che determinino un pregiudizio per alcuni condomini anche laddove
esso dovesse risultare ampiamente compensato dai vantaggi conseguiti da quegli stessi condomini.
189
L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V, 3, Torino, 1959, p. 148, ritiene che in nessun caso gli altri
condomini possano essere costretti «a godere della cosa comune in maniera diversa». Bisogna riconoscere, in effetti, che i casi cui ci si riferisce nel testo riguardano ipotesi piuttosto residuali, posto che non è facile ipotizzare interventi “per” le parti comuni che, per quanto vantaggiosi, non presentino alcun danno collaterale.
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162
Capitolo IV
l’assemblea, tuttavia, non adotterà alcuna deliberazione per disporre,
vietare o autorizzare l’intervento190.
14.
Le innovazioni di utilità sociale e le discipline di settore
L’elevata maggioranza richiesta dalla legge per le innovazioni ha indotto
il legislatore a prevedere quorum deliberativi agevolati per gli interventi
migliorativi ritenuti particolarmente meritevoli e comunemente indicati
come innovazioni di utilità sociale.
Ne è risultato un quadro frammentario in cui per ogni tipo di intervento
si è prevista, in modo non sempre chiaro191, una maggioranza diversa.
Uno degli obiettivi dichiarati della recente riforma del condominio192 era
proprio quello di ricomporre in modo organico i diversi interventi legislativi, uniformando le diverse maggioranze agevolate previste e riducendo i quorum, con la valorizzazione del voto dei condomini intervenuti
in assemblea. In effetti, nel disegno di legge approvato dal Senato il 26
gennaio 2011, per tutti gli interventi di utilità sociale si richiedeva il voto
favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresentasse almeno un terzo del valore dell’edificio, ovvero la maggioranza ordinariamente richiesta per le deliberazioni adottate dall’assemblea in seconda
convocazione. In sede di esame alla Camera la norma è stata modificata,
e si è optato per la maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà del valore dell’edificio.
Conseguentemente, in diverse ipotesi – come per l’eliminazione delle
barriere architettoniche – la riforma ha finito con l’elevare la maggioranza precedentemente richiesta per disporre l’intervento.
Prima di qualche breve considerazione su ciascuno degli interventi considerati dalla norma, si deve rilevare che si è voluto concedere anche al
singolo condomino il potere di provocare la convocazione
dell’assemblea per le deliberazioni sulle innovazioni di utilità sociale,
190
Si ricordi G. BRANCA, nota a Cass., 19 ottobre 1968, n. 3374, in Foro it., 1969, I, p. 1952, il quale rileva che «l’opera
sarà legittima o meno a seconda che violi o meno l’art. 1122 e non a seconda che sia o no autorizzata
dall’assemblea. Con frase rozza si può dire che l’autorizzazione non conta nulla; se c’è stata è come se non ci fosse».
191
A titolo esemplificativo, si richiamano le incertezze interpretative a seguito del D.Lgs. 29 dicembre 2006
che all’art. 7, per gli interventi volti al contenimento del consumo energetico, aveva previsto l’approvazione
«con la maggioranza semplice delle quote millesimali». Nell’incertezza più totale sui criteri di computo della
maggioranza, il legislatore è intervenuto tre anni dopo, stabilendo che la maggioranza semplice andasse riferita alle quote rappresentate dai soli intervenuti in assemblea (con l’art. 27, co. 22, della L. 23 luglio 2009, n.
99).
192
L. 11 dicembre 2012, n. 220, «Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici».
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 163
purché nella richiesta sia indicato il contenuto specifico e le modalità di
esecuzione dell’intervento proposto. In mancanza, l’amministratore invita senza indugio il condomino richiedente alle necessarie integrazioni.
L’amministratore, ricevuta la richiesta completa, provvede a convocare
l’assemblea entro trenta giorni (art. 1120, co. 3, c.c.).
In questo modo, si è evitato che il singolo possa provocare riunioni
dell’assemblea in difetto di serie ragioni, privilegiando la concretezza
della proposta nel merito, anziché il numero dei proponenti e il valore
delle rispettive unità immobiliari: si ricorda che, in linea generale, l’art.
66, co. 1, disp. att., c.c. prevede che l’amministratore possa convocare
l’assemblea quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che
rappresentino almeno un sesto del valore dell’edificio.
Un’ultima notazione di carattere generale. La qualificazione ex lege come innovazioni di tutti gli interventi elencati nell’art. 1120, co. 2, c.c.,
comporta la possibilità che l’esecuzione delle relative opere possa – come per tutte le innovazioni – rendere più incomodo l’uso di talune parti
comuni per alcuni condomini, incidere sull’aspetto estetico dell’edificio
pur non alterandone il decoro architettonico eccetera193. Determina,
inoltre, l’applicabilità della disciplina delle innovazioni gravose o voluttuarie (art. 1121 c.c.).
Ebbene, le innovazioni di utilità sociale elencate nell’art. 1120, co. 2, c.c.
– per le quali si fa espressamente salvo il rispetto delle discipline di settore – sono le seguenti:
a) qualsiasi opera o intervento volto a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti. Si tratta di innovazioni di utilità sociale
a carattere generale. Tutte le volte, quindi, che l’intervento migliorativo
risulti diretto a incrementare il livello di sicurezza o salubrità nel condominio, l’innovazione potrà essere disposta con la maggioranza ridotta.
Come è ovvio, restano esclusi dal campo di applicazione di questa disposizione tutti gli interventi per la messa a norma di parti o impianti comuni194;
b) le opere e gli interventi diretti a eliminare le barriere architettoniche.
Si è detto che, su questa materia, la novella del 2012 ha finito con
193
Vedi precedenti parr. 10 e 12.
Sul carattere necessario e, perciò, non «innovativo» degli interventi di messa a norma, vedi precedente
par. 9.
194
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164
Capitolo IV
l’innalzare la maggioranza richiesta195. È rimasta invariata, per il resto, la
disciplina di settore, che – tuttavia – richiede qualche coordinamento
con il procedimento di convocazione dell’assemblea disciplinato dall’art.
1120, co. 3, c.c.: i soggetti interessati possono avanzare una richiesta
scritta affinché sia disposta dall’assemblea un’innovazione di questo tipo, si sensi dell’art. 2, L. 10 febbraio 1989, n. 13. Per far scattare
l’obbligo dell’amministratore di convocare l’assemblea entro trenta
giorni, ai sensi dell’art. 1120, co. 3, c.c., occorre anche una descrizione
specifica dell’intervento. In ogni caso, se l’assemblea non dispone
l’innovazione entro tre mesi, gli interessati possono installare, a proprie
spese, servoscala o strutture mobili e facilmente rimovibili o anche modificare l’ampiezza delle porte di accesso all’edificio, agli ascensori o alle
rampe dei garage ai sensi dell’art. 2, L. 10 febbraio 1989, n. 13.
Ebbene, proprio perché la facoltà di intervento del singolo è subordinata
all’inerzia dell’assemblea, si deve ritenere che l’opera possa arrecare
qualche incomodo ad altri condomini, fermi restando i limiti della totale
inservibilità, del decoro architettonico e della stabilità e sicurezza
dell’edificio, espressamente fatti salvi. Non si spiega altrimenti la necessità di avanzare una richiesta e attendere il termine di tre mesi prima di
poter installare, per esempio, un servoscala a spese proprie se, poi,
l’intervento resta soggetto alla disciplina dell’art. 1122 c.c. (o, se si preferisce, dell’art. 1102 c.c.)196, con la conseguenza che qualunque condomino possa chiederne la rimozione lamentando un sia pur lieve pregiudizio alla comodità del vano scale. Il richiamo all’art. 1120 contenuto
al co. 3 dell’art. 2, L. 10 febbraio 1989, n. 13, va inteso proprio come
estensione a un’opera eseguita dal singolo dei più permissivi limiti entro
i quali è consentita un’innovazione deliberata dall’assemblea. Il dato
sembra confermato dal successivo art. 3 della stessa Legge, in base al
quale tutte le opere menzionate al precedente art. 2 possono essere
realizzate in deroga alle distanze previste nei regolamenti edilizi, senza
distinguere le innovazioni in senso tecnico dalle opere eseguite da singo-
195
L’art. 27 della L. 11 dicembre 2012, n. 220 provvede ad adeguare nello stesso senso l’art. 2 della L. 9 gennaio 1989, n. 13, con la sostituzione del richiamo alle maggioranze previste dai co. 2 e 3 dell’art. 1139 c.c.
con il rinvio all’art. 1120, co. 2, c.c.
196
Sulla distinzione tra innovazioni in senso tecnico e opere “per” le singole unità immobiliari o eseguite per
iniziativa di singoli condomini, vedi precedente par. 13.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 165
li condomini. A risultati del genere, del resto, è pervenuta la giurisprudenza più recente197.
In ogni caso, prima di eseguire l’intervento, il condomino interessato
deve darne notizia all’amministratore, il quale riferisce all’assemblea, ai
sensi dell’art. 1222, co. 2, c.c.;
c) le opere e gli interventi per il contenimento del consumo energetico
degli edifici. Anche in questo caso, come per gli interventi diretti a migliorare la sicurezza o salubrità dell’edificio, si tratta di innovazioni di utilità sociale a carattere generale. Tutte le volte, quindi, che l’intervento
migliorativo risulti diretto a conseguire un risparmio energetico,
l’innovazione potrà essere disposta con la maggioranza ridotta. Si pensi
alla sostituzione della caldaia dell’impianto di riscaldamento centralizzato ancora funzionante con altra più efficiente.
Sono rimasti regolati dalla disciplina di settore, invece, gli interventi per
il contenimento del consumo energetico e per l’utilizzazione di fonti rinnovabili di energia individuati mediante un attestato di prestazione
energetica o una diagnosi energetica realizzata da un tecnico abilitato.
La novella del 2012 è intervenuta sulla legge sul risparmio energetico solo sotto il profilo della maggioranza, disponendo che detti interventi
possono essere approvati con la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio (art. 26, co. 2, L. 9 gennaio 1991, n. 10, come modificato dall’art. 27, co. 1, L. 11 dicembre
2012, n. 220).
Infine, la novella del 2012 ha modificato anche la maggioranza richiesta
dalla stessa legge sul risparmio energetico per le innovazioni relative
all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto della spesa sulla base dei consumi registrati. Si tratta di congegni che consento di rilevare la quantità di calore
volontariamente prelevata da ciascuna unità immobiliare e di tenerne
conto nella ripartizione della spesa, al fine di incoraggiare i comportamenti virtuosi. Per l’approvazione della deliberazione è ora necessaria la
197
Cass., 14 febbraio 2012, n. 2156, in Immob. e propr., 2012, p. 255, con nota di M. MONEGAT, Legittima
l’installazione dell’ascensore anche se restringe le scale – sebbene apparentemente sposti il problema dalle
qualità dei beni ai diritti inviolabili della persona, con ampi richiami ad alti principi costituzionali e alla necessità di valutare comparativamente le esigenze in conflitto – ritiene che sia lecita, purché non renda del tutto
inservibile il vano scale, l’iniziativa dei condomini di installare un ascensore nell’androne. Nello stesso senso,
Cass., 3 agosto 2012, n. 14096, in Vita Notar., 2013, 1, p. 203, che – sempre in un caso di ascensore realizzato per iniziativa di singoli – pone l’accento sull’accessibilità alle (e visitabilità delle) unità immobiliari come
condizione indispensabile per la loro effettiva abitabilità.
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166
Capitolo IV
maggioranza prevista in linea generale per le innovazioni di interesse
sociale (art. 26, co. 5, della L. 9 gennaio 991, n. 10, come modificato
dall’art. 28, co. 2, della L. 11 dicembre 2012, n. 220).
d) le opere e gli interventi per realizzare parcheggi destinati a servizio
delle unità immobiliari o dell’edificio.
Come è noto, l’art. 9 della Legge Tognoli (L. 24 marzo 1989, n. 122) prevede la possibilità di realizzare parcheggi destinati all’utilità di immobili
già costruiti nel sottosuolo degli edifici, su aree esterne pertinenziali o
nei locali al piano terra, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti e con autorizzazione gratuita198.
La deliberazione che dispone la realizzazione di parcheggi da destinare
all’utilità di unità immobiliari condominiali e da realizzare su parti comuni può essere approvata con la maggioranza indicata all’art. 1136, co.
2, la stessa richiesta per le innovazioni di interesse sociale (art. 9, co. 3).
Sono espressamente richiamate, poi, le norme in materia di innovazioni
vietate (l’attuale art. 1120, co. 4, c.c.) e di partecipazione successiva ai
vantaggi dell’innovazione gravosa o voluttuaria (art. 1121, co. 3, c.c.)199.
A seguito dell’entrata in vigore della novella del 2012, si deve indubbiamente ritenere necessaria una deliberazione ai sensi dell’art. 1117-ter in
tutti i casi in cui la realizzazione del parcheggio determini la radicale dismissione della originaria destinazione di una parte comune (per esempio, ove si voglia trasformare un giardino condominiale in parcheggio).
Una tale delibera, invece, non pare necessaria se il parcheggio è realizzato nel sottosuolo e la parte comune sovrastante resti integra o sia ripristinata nel contesto dei lavori.
La Legge Tognoli – come modificata dal cosiddetto D.L. semplificazioni200
– vieta ogni mutamento della destinazione dei menzionati parcheggi e
dispone che gli stessi possano essere alienati «solo con contestuale destinazione (…) a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso
comune»201. Detta destinazione deve essere formalizzata con apposito
atto. Sul piano più strettamente condominiale, qualora il parcheggio
198
Nel caso di conformità agli strumenti urbanistici, si ritiene sufficiente una segnalazione certificata di inizio
attività (cosiddetta S.C.I.A.).
199
R. TRIOLA, op. cit., p. 222, ritiene superfluo il richiamo.
200
Vedi art. 10, co. 1, L. 4 aprile 2012, n. 35 di conversione, con modificazioni, del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5.
201
G. ENRIQUEZ, Le destinazioni di aree a parcheggio e la nullità degli atti di cessione dei parcheggi separatamente dall’unità immobiliare, in Rass. dir. civ., 2013, p. 101, interpreta restrittivamente la norma e, facendo
leva sulla nozione di pertinenza, ritiene possibile il trasferimento separato dei parcheggi solo a favore di soggetti proprietari di unità immobiliari situate in prossimità dell’area destinata a parcheggio.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 167
realizzato sia una parte comune, si pone la questione – mai adeguatamente approfondita – della cedibilità tra condomini o a terzi dei diritti
sulle parti comuni202. Per la realizzazione di parcheggi di proprietà individuale dei condomini, invece, autorevoli voci ritengono necessario il
consenso di tutti i condomini203.
Al fine di riconoscere una concreta portata precettiva all’espresso richiamo ai parcheggi contenuto nell’art. 1120 c.c., occorre fare il caso in
cui in un condominio si decida di realizzare un parcheggio destinato
all’utilità delle unità immobiliari in esso comprese senza avvalersi della
Legge Tognoli. Ebbene, anche questo tipo di innovazione – in forza del
nuovo art. 1120, co. 2, c.c. – potrebbe essere disposta con la maggioranza agevolata. L’intervento sarebbe soggetto alla ordinaria disciplina edilizia e non risulterebbe gravato dal vincolo di immodificabilità della destinazione e di pertinenzialità propri della legge Tognoli. Nel caso di parcheggio-parte comune, nulla impedirebbe ai condomini, in futuro, di
modificare la destinazione con una deliberazione ai sensi dell’art. 1117ter c.c. Non sarebbe necessario alcun atto di destinazione pertinenziale
nel caso di alienazione, ove l’alienazione stessa risultasse consentita sulla base della disciplina condominiale;
e) le opere e gli interventi per la produzione di energia mediante
l’utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque
rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo
oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di
altra idonea superficie comune. Il riferimento alla realizzazione di impianti per la produzione di energia elettrica non era contenuto nel testo
della riforma del condominio approvato al Senato il 26 gennaio 2011, e
l’aggiunta non brilla per accuratezza tecnica e coerenza sistematica.
In primo luogo, occorre supporre che l’impianto sia realizzato su parti
comuni: non sarebbe nemmeno concepibile, infatti, il potere dell’assem-
202
Per alcune considerazioni sul punto si rinvia al par. 15.
R. TRIOLA, op. cit., p. 221, rileva che la realizzazione di parcheggi individuali suppone la divisione «di una
(futura) parte comune» e, perciò, richiede sempre il consenso unanime. Si è espressa in senso contrario
Cass., 18 settembre 2009, n. 20254, in Immob. e propr., 2009, p. 797, in cui si legge che “l’uso del sottosuolo
comune ‘per frazioni corrispondenti alle singole autorimesse pertinenziali da realizzare con esclusione su ciascuna porzione di qualsiasi uso di tutti gli altri condomini’, purché però sia rispettato il pari diritto di tutti i
condomini (in particolare quelli dissenzienti) sul sottosuolo comune assicurato dalla possibilità di realizzare
nel sottosuolo altra identica autorimessa pertinenziale”. Nella sentenza citata pare si faccia confusione tra
innovazioni gravose o voluttuarie e opere eseguite per iniziativa e a spese di singoli condomini (anche più
d’uno). Per ulteriori considerazioni sul punto si rinvia al precedente par. 13.
203
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168
Capitolo IV
blea di disporre la realizzazione di opere comuni sul lastrico solare o su
altre superfici utili oggetto di proprietà individuale.
In secondo luogo, si ipotizza con troppa disinvoltura il cosiddetto uso indiretto di parti comuni204, mediante la concessione a terzi di diritti personali di godimento delle superfici utili o, addirittura, la costituzione di
diritti reali sulle parti comuni in capo a terzi mediante atti di indubbia
natura dispositiva205.
La disposizione in esame, inoltre, contraddice – pur risultando priva di
un consapevole intento derogatorio – la disciplina del mutamento di destinazione d’uso delle parti comuni e lo stesso principio di indivisibilità
delle parti comuni. La realizzazione dell’impianto, infatti, ben può comportare il mutamento della destinazione della parte comune interessata
perché essa risulta sottratta all’utilità comune delle unità immobiliari
condominiali per ospitare un autonomo bene giuridico, oggetto – presumibilmente – di comunione tra i condomini206.
La norma, infine, non appare coordinata con quanto disposto nell’art.
1122-bis c.c. e, in particolare, con la possibilità che il singolo condomino
richieda la ripartizione dell’uso del lastrico solare o delle altre superfici
utili per l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti
rinnovabili destinati al servizio della propria unità immobiliare207;
f) l’installazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva e
per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da
satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le
singole utenze, ad esclusione degli impianti che non comportano modifiche in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto.
Occorre ricordare che l’art. 2-bis della L. 20 marzo 2001, n. 66208, nella
sua formulazione originaria, qualifica come «innovazione necessaria»
l’installazione di antenne satellitari centralizzate e dispone che il relativo
intervento possa essere approvato con la maggioranza degli intervenuti
204
Sui ristretti limiti entro cui la giurisprudenza ammette il cosiddetto uso indiretto di parti comuni, generalmente per cessazione dell’utilità comune, vedi G. BORDOLLI, Uso indiretto e locazione del bene comune, in
Immob. e propr., 2009, p. 631.
205
Sugli schemi negoziali per l’acquisizione delle aree impiantistiche in relazione alla disposizione in commento nonché sulla natura di bene mobile o immobile dell’impianto fotovoltaico, si rinvia a M. ROBLES, Il fotovoltaico tra proprietà e contratto, in Giustiziacivile.com, 1, 2014.
206
Si tratta di una conclusione obbligata ove difetti qualsiasi collegamento funzionale dell’impianto con le
unità immobiliari individuali.
207
Vedi precedente par. 6.
208
L. 20 marzo 2001, n. 66, di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 23 gennaio 2001, n. 5.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 169
che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio. È bene precisare, inoltre, che il riferimento all’inesistente istituto giuridico delle «innovazioni necessarie» è stato condivisibilmente inteso come diretto a
escludere l’applicabilità all’intervento in questione della disciplina delle
innovazioni gravose o voluttuarie, con la conseguenza che nessun condomino può pretendere di essere esonerato dalla spesa in caso di approvazione della deliberazione che ne dispone l’attuazione209. Resta
estraneo al campo di applicazione della norma, infatti, il cosiddetto diritto di antenna che i singoli condomini possono esercitare individualmente, o anche in gruppi, sopportando integralmente le spese per
l’installazione e senza necessità di alcuna deliberazione assembleare210.
Ebbene, la novella del 2012 ha elevato la maggioranza richiesta per
l’intervento innovativo allineandola a quella prevista per tutte le innovazioni di interesse sociale. Da una parte, si è modificata la disciplina di
settore211, dall’altra l’intervento è stato menzionato espressamente nella disposizione in esame, che si riferisce anche a ogni tipo di impianto
per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque genere di
flusso informativo via satellite o via cavo. Per questi altri impianti deve
ritenersi applicabile la disciplina delle innovazioni gravose o voluttuarie,
non essendo stato esteso anche a essi il carattere di cosiddetta «innovazione necessaria» che la disciplina di settore riserva alle antenne paraboliche centralizzate.
È del tutto oscuro, infine, il significato dell’ultima parte della disposizione in esame che – aggiunta nel corso del frettoloso esame del disegno di
legge di riforma del condominio alla Camera – pare escludere dal proprio campo di applicazione gli impianti che «non comportano modifiche
in grado di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli
altri condomini di farne uso secondo il loro diritto».
Ebbene, sul punto ci si limita a rilevare che autorevoli commentatori
hanno ritenuto che la negazione sia il frutto di un evidente refuso212, ritenendo inaccettabile sul piano sistematico che la realizzazione degli
209
In tal senso, R. TRIOLA, op. cit., p. 229.
Sul diritto d’antenna, vedi precedente par. 6.
211
L’art. 29 della L. 11 dicembre 2012, n. 220 ha sostituito, all’art. 2-bis della L. 20 marzo 2001, n. 66, di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 23 gennaio 2001, n. 5, il richiamo all’art. 1136, co. 3, c.c. con il
richiamo all’art. 1120, co. 2, c.c.
212
A. CELESTE-A. SCARPA, Riforma del condominio, Milano, 2013, p. 58.
210
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170
Capitolo IV
impianti indicati possa alterare la destinazione della parte comune interessata o impedirne l’uso a taluni condomini213.
Non ritengono si tratti di un refuso, invece, i responsabili del Servizio Studi del Senato, i quali, tuttavia, rilevano che la norma non contiene alcuna
disciplina per gli impianti che «non» alterano la destinazione della cosa
comune e «non» ne impediscono l’utilizzazione agli altri condomini214.
In realtà pare che l’aggiunta dell’inciso finale sia stata determinata
dall’infondato timore che la disposizione in commento potesse applicarsi alle attività di posa in opera dei cavi in fibra ottica da parte degli operatori di comunicazioni elettroniche215.
In una situazione del genere, pare preferibile optare per l’interpretazione dell’intero inciso come refuso.
SEZIONE III – Le modificazioni delle destinazioni d’uso
15.
La modificazione della destinazione d’uso e il frazionamento
delle unità immobiliari condominiali
In ordine alla possibilità che ciascun condomino modifichi la destinazione economica della propria unità immobiliare, si è già detto, nel par. 3,
che valgono le stesse regole esaminate in relazione alle opere “per” le
singole unità immobiliari condominiali.
In questa sede si aggiunge soltanto che il danno cui si riferisce l’art. 1122
c.c. non può ritenersi sempre sussistente quando la nuova destinazione
comporti una più intensa utilizzazione delle parti comuni216.
213
A parte le stridenti contraddizioni con il sistema della proprietà condominiale e, in particolare, con la disciplina in materia di modificazione delle destinazioni d’uso e innovazioni, la disposizione in esame si pone in
contrasto anche con le norme che regolano le installazioni di impianti di «interesse sociale». Si pensi che
l’art. 91, co. 3, del D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259, proprio in materia di antenne, dispone che i fili, i cavi ed ogni
altra installazione debbono essere collocati «in guisa da non impedire il libero uso della cosa secondo la sua
destinazione».
214
Vedi P. GIUGGIOLI-M. GIORGETTI, Il nuovo condominio, Milano, 2013, p. 150.
215
A riferirlo sono A. CIRLA-G. ROTA, La riforma del condominio, Milano, 2013, p. 80. Si segnala, inoltre, che
con la L. 17 dicembre 2012, n. 221, approvata subito dopo la riforma del condominio, all’art. 91 del D.Lgs. 1
agosto 2003, n. 259 è stato aggiunto il co. 4-bis che dispone quanto segue: «L’operatore di comunicazione
durante la fase di sviluppo della rete in fibra ottica può, in ogni caso, accedere a tutte le parti comuni degli
edifici al fine di installare, collegare e manutenere gli elementi di rete, cavi, fili, riparti, linee o simili apparati
privi di emissioni elettromagnetiche a radiofrequenza. Il diritto di accesso è consentito anche nel caso di edifici non abitati e di nuova costruzione. L’operatore di comunicazione ha l’obbligo, d’intesa con le proprietà
condominiali, di ripristinare a proprie spese le parti comuni degli immobili oggetto di intervento nello stato
precedente i lavori e si accolla gli oneri per la riparazione di eventuali danni arrecati».
216
Cass., 27 ottobre 2011, n. 22428, afferma che il mutamento di destinazione della singola unità immobiliare può determinare una più intensa utilizzazione delle parti comuni. Detto mutamente deve ritenersi lecito,
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 171
Il mutamento di destinazione della singola unità immobiliare, infatti, è
espressione dell’autonomia proprietaria del condomino che sceglie una
certa forma di utilizzazione entro il ventaglio delle possibili destinazioni
del suo bene immobile. Se decide per una forma di utilizzazione che
comporta un certo utilizzo delle parti comuni, egli si limita a fruire di utilità già comprese nel suo diritto217. La circostanza, che potrà riflettersi
sui criteri di ripartizione delle spese, non determina, cioè, un incremento delle utilità detratte dalle parti comuni a detrimento altrui, e quindi in
nessun caso incide sull’assetto della contitolarità dei diritti dei singoli
sulle parti comuni218.
Un danno da più intenso uso delle parti comuni, invece, lo si potrebbe
riscontrare in caso di collegamento di due unità immobiliari che si trovino in distinti edifici. L’uso più intenso deriverebbe dall’ampliamento
dell’unità immobiliare connessa alle parti comuni, e, ove consentito, finirebbe con l’incidere sull’assetto della titolarità delle stesse219.
Può ricondursi all’ipotesi del mutamento di destinazione anche il caso
del frazionamento di un’unità immobiliare, originariamente unitaria, in
più beni immobili distinti. Si pensi alla classica ipotesi di divisione di un
appartamento in due unità abitative distinte, vero e proprio atto di individuazione e, come tale, riconducibile al più ampio genere degli atti di
destinazione. La giurisprudenza, d’altronde, si è orientata nel senso di ritenere consentito il frazionamento che non pregiudichi le possibilità di
utilizzazione delle altre unità immobiliari, purché non sia vietato dal titolo220: si tratta, con tutta evidenza, di una condivisibile applicazione al caso di specie della regola generale contenuta nell’art. 1122 c.c.
Resta da esaminare la possibilità che il singolo condomino ceda ad altri
condomini o a terzi le proprie possibilità di utilizzazione – e, quindi, i
purché non risulti radicalmente alterato l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, da
parte degli altri condomini. Sul punto, vedi precedente nota 32.
217
Al fine di verificare quali destinazioni debbano ritenersi comprese nel diritto di proprietà di ciascun condomino, si rinvia alle considerazioni svolte, sul punto, nel cap. 1, par. 6.
218
Vedi cap. 5, par. 2.
219
La questione, come già anticipato nel cap. 1, par. 10, è talvolta impostata a partire dalla proprietà comune
del muro perimetrale, che determinerebbe l’illegittimità di qualunque apertura. Oltre alla giurisprudenza già
richiamata, vedi, da ultimo, Cass., 14 maggio 2014, n. 10606, già citata nella precedente nota 14.
220
Trib. Salerno, 23 aprile 2010, in Contratti, 2010, p. 602, afferma che a seguito del frazionamento e della
successiva alienazione delle unità immobiliari risultanti ciascun acquirente acquista la qualità di condomino
e, pertanto, deve essere convocato in assemblea. Non hanno avuto presa gli argomenti di chi riteneva illegittimo il frazionamento perché destinato a modificare il numero delle unità immobiliari e, conseguentemente,
il peso del voto per teste degli altri condomini in assemblea. Analoghi effetti, peraltro, si verificano in caso di
sopraelevazione o di cosiddetto recupero dei sottotetti (vedi cap. 5, par. 2).
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172
Capitolo IV
propri diritti – sulle parti comuni. La cessione di detti diritti suppone la
cancellazione della destinazione della parte comune interessata
all’utilità dell’unità immobiliare di proprietà del cedente. Anche in questo caso, a ben vedere, si assiste al frazionamento dell’unità immobiliare
condominiale originaria: da una parte l’utilità oggetto dei diritti ceduti e,
dall’altra, il resto dell’unità immobiliare originaria (composta di proprietà individuali e altre parti comuni).
È evidente che anche in questo caso – come per tutti i casi in cui occorre
valutare la liceità di un intervento per iniziativa del singolo – la norma di
riferimento è l’art. 1122 c.c.
Si può solo aggiungere che, nella gran parte dei casi, il trasferimento tra
condomini di diritti sulle parti comuni non richiede il consenso di quelli
rimasti estranei alla vicenda circolatoria221. L’operazione modifica la
conformazione delle sole unità immobiliari di proprietà dell’alienante e
dell’acquirente: benché abbia a oggetto parti comuni anche ad altre unità immobiliari, queste ultime non ne risultano per nulla modificate. Occorre sottolineare, tuttavia, che il cessionario – come del resto il cedente – potrà utilizzare le parti comuni nel pieno rispetto della loro specifica
destinazione (art. 1117-quater c.c.). La precisazione, apparentemente
pleonastica, serve a chiarire che il condomino che, per esempio, accumuli diritti di parcheggio sul cortile non potrà esercitarvi l’attività di custodia di veicoli a ore se il cortile è chiaramente destinato a essere fruito
nel contesto dell’utilizzazione delle unità immobiliari condominiali.
L’accertamento della specifica destinazione del cortile, poi, è questione
di fatto che va valutata sulla base delle circostanze.
Nel caso di cessione dei diritti sulle parti comuni in favore di terzi222 possono ripetersi analoghe considerazioni, con l’avvertimento che la speci221
In questo senso si è chiaramente espressa Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, in Corriere giur., p. 653, con osservazioni di V. MARICONDA, Cortile comune ed esclusiva di parcheggio. Nel caso di specie è stata riconosciuta
la piena validità della clausola con cui un condomino, proprietario di due unità immobiliari, ne aveva alienata
una riservandosi il diritto di parcheggiare nel cortile. È evidente che il caso è del tutto analogo al trasferimento tra condomini del diritto di parcheggio nel cortile tra condomini.
222
È bene preliminarmente precisare che all’ipotesi presa in considerazione deve ritenersi estraneo il caso in
cui un condomino sia, in realtà, proprietario di beni giuridici distinti e ne alieni uno a un terzo. Lo stesso condomino, per esempio, può essere proprietario di un appartamento e di un garage in un locale interrato ricavato sotto il giardino comune, ma con accesso dalla strada, oltre che titolare del diritto di parcheggiare nel
cortile comune, insieme con gli altri condomini, e del diritto di utilizzare la facciata comune per scopi pubblicitari, sempre insieme con gli altri condomini. È evidente che la vendita separata del garage non pone problemi perché si tratta di una unità immobiliare condominiale distinta dall’appartamento benché appartenente allo stesso condomino. Lo stesso può ripetersi per la cessione dei diritti di sfruttamento della facciata, che
pure sono configurabili come bene autonomo rispetto all’appartamento. Il problema si pone, invece, per il
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 173
fica destinazione della parte comune interessata potrebbe risultare incompatibile con forme di utilizzazione indipendenti dalla contestuale
fruizione di unità immobiliari condominiali223. In questi casi, il contratto
di cessione sarebbe da considerarsi nullo per impossibilità giuridica
dell’oggetto224. Si pensi all’ipotesi in cui un gruppo di condomini ceda i
propri diritti di parcheggio sul cortile al gestore di un supermercato vicino, il quale intenda ricavarvi un parcheggio per i clienti, del tutto incompatibile con la destinazione del cortile.
Il contratto di cessione di diritti su parti comuni, ove possibile, resta
soggetto a trascrizione e deve essere comunicato all’assemblea affinché
provveda alla revisione della tabella dei valori225.
16.
La modificazione della destinazione d’uso di parti comuni e la
dismissione della loro destinazione originaria
La deliberazione di modificazione della destinazione d’uso di parti comuni è una assoluta novità della novella del 2012226. La relativa disciplina si colloca tra le prime norme in tema condominio, tutte dedicate ai
profili strettamente proprietari dell’istituto: precede la norma che definisce la misura del diritto di ciascun partecipante sulle parti comuni,
l’art. 1118 c.c., e segue immediatamente quella che determina l’ambito
di applicazione dell’intera disciplina, l’art. 1117-bis c.c.
A prima vista la collocazione assegnata all’articolo stride con il suo contenuto. In effetti, appare fuori luogo, nel cuore della disciplina della
proprietà condominiale, una disposizione che si occupa di una deliberazione assembleare e ne regola minutamente anche gli aspetti procedurali, in deroga alle norme applicabili a tutte le altre delibere, la cui disciplina trova spazio in tutt’altra e più defilata sede.
Dottrina e giurisprudenza, difatti, hanno avuto cura di tenere ben distinti
il campo dell’autonomia individuale dei condomini, da una parte, e quello
diritto di parcheggiare nel cortile, che potrebbe risultare destinato ad assolvere alle specifiche esigenze di
parcheggio di chi occupa gli appartamenti.
223
In questo senso deve intendersi Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, cit., benché la motivazione della decisione
ruoti attorno al duplice ordine di utilità espresse al contempo dal cortile: primariamente, dare aria e luce alle
unità immobiliari condominiali; secondariamente, consentire il parcheggio.
224
Vedi Cass., 10 gennaio 1995, n. 244, in Giur. it., 1995, I, 1, p. 2080, con nota di G. FALCIONE, La circolazione
giuridica degli spazi condominiali di parcheggio. La sentenza dichiara nulla per impossibilità dell’oggetto la
clausola con cui l’alienante si era riservato la proprietà dei parcheggi ponte, come è noto destinati – sebbene
in virtù di una disciplina pubblicistica – all’utilità dei residenti.
225
Vedi cap. 5, par. 11.
226
Articolo introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, «Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici».
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174
Capitolo IV
dei poteri dell’organizzazione, dall’altra227. I poteri di disposizione sono
stati tradizionalmente riservati all’autonomia proprietaria e le prerogative
del gruppo confinate entro il campo della gestione: solo un accordo tra
tutti i condomini può escludere la proprietà comune di parti comuni (art.
1117 c.c.), attribuire i diritti sulle parti comuni ai partecipanti secondo criteri diversi dal valore proporzionale (art. 1118 c.c.), derogare ai criteri legali di ripartizione delle spese (art. 1123 c.c.) eccetera; una deliberazione
assembleare può incidere solo sui profili che attengono alla gestione, anche quando risultino disciplinati nel contesto di atti negoziali opponibili a
tutti i condomini228. Su queste basi, in ragione del loro contenuto, si sono
tradizionalmente distinte, per esempio, le clausole cosiddette contrattuali
da quelle cosiddette assembleari all’interno del regolamento di condominio predisposto dal costruttore229.
Il riferimento normativo fondamentale è rappresentato dalla norma secondo cui il regolamento di condominio non può incidere sui diritti dei
singoli per come risultano conformati negli atti d’acquisto e nelle convenzioni (art. 1138, co. 4, c.c.)230: una deliberazione adottata a maggioranza non può modificare l’assetto dei diritti dei singoli sulle proprietà
individuali e sulle parti comuni231. A maggioranza possono essere determinate solo le modalità d’uso delle parti comuni. Anzi, le norme circa
l’uso delle parti comuni sono comprese nel contenuto necessario del regolamento di condominio assembleare, ma sempre secondo i diritti e gli
obblighi spettanti a ciascuno (art. 1138, co. 1, c.c.)232. Solo con il consen-
227
La terminologia è quella usata da R. CORONA, Proprietà e maggioranza nel condominio negli edifici, Torino,
2001, p. 169 ss.
228
Cass., 15 giugno 2012, n. 9877.
229
Cass., 4 giugno 2012, n. 13632, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, p. 1522; Cass., SS.UU., 30 dicembre 1999, n.
943; Cass., 8 novembre 2004, n. 21287, in Vita notarile, 2005, p. 257; Cass., 14 novembre 1991, n. 12173 in
Foro it., 1992, I, p. 3046.
230
La norma dispone letteralmente che il regolamento non può in alcun modo menomare i diritti di ciascun
condomino. R. CORONA, op. cit., p. 186 ss., rileva che “menomare i diritti” significa disporre dei diritti. Si tratta, perciò, del campo riservato all’autonomia privata individuale del singolo condomino, sottratto ai poteri
della maggioranza.
231
Questa conclusione è stata sottoposta a critica nel precedente par. 10.
232
Clausole regolamentari, ad esempio, possono disciplinare orari, giorni e modalità del parcheggio nelle
aree comuni a ciò destinate (Trib. Piacenza, 29 ottobre 1992, in Arch. locazioni, 1993, p. 788), garantendo
l’equilibrio che deve essere conservato tra le possibili concorrenti utilizzazioni del bene comune (Cass., 17
luglio 2006, n. 16228, in Giust. civ., 2007, I, p. 2473; Cass., 16 giugno 2005, n. 12873; Cass., 26 settembre
1998, n. 9649; Trib. Modena, 14 febbraio 2006). Dette clausole rispondono alla legittima esigenza di razionalizzare l’uso delle aree destinate a parcheggio, purché non si traducano nella esclusione di alcuni condomini
dalla possibilità di servirsene (Trib. Bologna, 5 dicembre 1996, in Arch. locazioni, 1998, p. 584).
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 175
so di tutti i condomini, invece, detti diritti e obblighi possono essere
modificati233.
La collocazione della norma in apertura della disciplina del condominio,
prima ancora della disciplina dei diritti dei singoli sulle parti comuni (art.
1118 c.c.), suggerisce che si è inteso riconoscere all’assemblea un potere
che eccede il campo delle prerogative del gruppo così come si era abituati a intenderlo, tanto da scompaginare l’apparentemente coerente
sistema sommariamente descritto234.
L’impressione è rafforzata dall’amplissima maggioranza richiesta per
l’approvazione della delibera: i quattro quinti dei partecipanti che rappresentino i quattro quinti del valore. Una maggioranza ben più ampia
di quella richiesta per l’approvazione o la modifica del regolamento di
condominio e per le innovazioni.
Nella stessa direzione depongono le formalità prescritte per la convocazione: affissione per trenta giorni consecutivi della convocazione nei locali di maggior uso comune o nella bacheca condominiale; invito inviato
per posta raccomandata o tramite posta elettronica certificata e pervenuto almeno venti giorni prima della riunione; indicazione specifica del
contenuto della deliberazione proposta a pena di nullità, contrariamente a ogni altra ipotesi di irregolarità nella convocazione dell’assemblea.
Si tratta di cautele dirette ad assicurare un più elevato grado di conoscibilità della proposta di delibera, di partecipazione alla riunione e di ponderazione della decisione da assumere.
La collocazione della norma tra quelle che si occupano dei profili della
proprietà e dei beni condominiali, l’ampiezza della maggioranza richiesta e la severità delle prescrizioni formali per la convocazione
dell’assemblea possono essere solo indizi circa l’importanza e l’invasività
della deliberazione sui diritti dei singoli. Per individuare natura, funzione
ed effetti della nuova deliberazione occorre prendere le mosse dal suo
contenuto e verificare in che modo essa può essere inserita razionalmente nel sistema delle modificazioni delle parti comuni235.
233
Da ultimo e per tutte, Cass., 13 giugno 2013, n. 14898.
Si veda la precedente par. 10, sulla possibilità che anche una innovazione incida sull’assetto dei diritti sulle parti comuni.
235
In tal senso, R. CORONA, I lineamenti generali della riforma e alcune importanti novità, in A. GAMBARO, U.
MORELLO, Trattato dei diritti reali, Riforma del condominio, a cura di M. BASILE, Milano, Giuffrè, 2013, p. 11
ss., il quale rileva che dai dati formali illustrati nel testo non si possono inferire conseguenze sostanziali significative.
234
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176
Capitolo IV
La norma, in realtà, non dice molto sul contenuto della deliberazione,
limitandosi a disporre che l’assemblea può modificare la destinazione
d’uso delle parti comuni «per soddisfare esigenze di interesse condominiale». Dal seguito della disposizione, poi, si ricava che per effetto di una
deliberazione del genere si può assegnare a una determinata parte comune una «nuova destinazione d’uso» (art. 1117-ter, co. 3, c.c.).
Pare opportuno prendere le mosse dal riferimento all’uso, cui alcuni
hanno voluto attribuire il senso di restringere l’ambito di applicazione
della norma a una parte della più ampia categoria degli atti con cui si
modifica la destinazione economica di un bene236. In realtà, con tutta
probabilità la precisazione è stata dettata dall’esigenza di distinguere
con nettezza gli atti con cui si destina un bene o complesso di beni a uno
scopo – si pensi ai patrimoni destinati o agli atti di destinazione considerati dall’art. 2645-ter c.c.237 – dagli atti con cui si modifica la destinazione di un bene. Solo questi ultimi attengono all’esercizio del diritto di
proprietà, realizzano interessi di natura reale238 e non sono diretti, come
i primi, al perseguimento di scopi estrinseci, di natura personale.
Se, dunque, il riferimento all’uso contenuto nella norma in commento
non offre indicazioni per identificare una circoscritta specie di atti di destinazione economica, occorre riconoscere che le norme in cui si menziona la destinazione di beni abbondano in molti campi del diritto civile
e, spesso, l’espressione indica fenomeni eterogenei cui è attribuita rilevanza giuridica su diversi livelli. Basti pensare alla destinazione di un
immobile a casa della famiglia (art. 155 c.c.), alla locazione per uso abitativo o per uso diverso, al termine del comodato che risulta dall’uso a
cui la cosa è destinata (art. 1810 c.c.) o, ancora, alla disciplina delle immissioni e al riferimento alla priorità di un determinato uso (art. 844, co.
2, c.c.).
Ancora, si può richiamare la destinazione del padre di famiglia ai fini della costituzione di una servitù (art. 1062 c.c.) o la destinazione obiettiva e
236
R. CORONA, op. ult. cit., 2013, p. 12 ss., ritiene che la norma si riferisca ai soli mutamenti di destinazione che si
possono attuare senza interventi edili, con esclusione dei mutamenti di destinazione che richiedono l’esecuzione di
opere. Perciò quel che si cambia con la deliberazione ai sensi dell’art. 1117-ter c.c. è solo l’uso della parte comune e
non la consistenza materiale della stessa. La proibitiva maggioranza richiesta si spiegherebbe con la possibilità che, a
seguito della modifica di destinazione, la parte comune coinvolta potrebbe essere resa inservibile per uno o più
condomini, stante la mancata riproposizione di previsione analoga a quella dettata in tema di innovazioni.
237
Per tutti, si riferisce alle destinazioni di scopo F. BENATTI, Vincoli di destinazione, in A. GAMBARO-U. MORELLO, Trattato dei diritti reali, Vol. II, Diritti reali parziari, Milano, Giuffrè, 2011, p. 364.
238
Vedi cap. 1, par. 1 e, in particolare, nota 23.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 177
durevole a pertinenza (art. 817 c.c.), o la destinazione unitaria
nell’universalità di mobili (art. 816 c.c.).
Di destinazioni d’uso, inoltre, si parla nella legislazione edilizia. La riproposizione di identica locuzione potrebbe essere intesa, difatti, come tentativo di raccordare le discipline privatistiche e pubblicistiche attinenti
alla proprietà edilizia.
Per tentare di districarsi in questa materia, si può cominciare con
l’osservare che modificare la destinazione di un bene costituisce la massima espressione dell’autonomia del proprietario nell’esercizio del suo
diritto239. Si tratta, infatti, dell’unico atto cui è legittimato il solo proprietario e che, perciò, caratterizza il diritto di proprietà rispetto agli altri diritti reali e all’usufrutto in particolare (art. 981 c.c.).
Modificare la destinazione significa propriamente modificare l’assetto
del bene, la cosiddetta organizzazione produttiva, in modo che, all’esito,
quello stesso bene – che pure conserva la sua identità – sarà oggetto di
nuove e diverse modalità di fruizione. Come è ovvio, il proprietario può
modificare la destinazione del suo bene scegliendo entro il ventaglio
delle destinazioni giuridicamente consentite sulla base delle discipline
che regolano l’uso dei beni (le cosiddette discipline dei beni).
La destinazione pertinenziale e la destinazione del padre di famiglia sono certamente atti non negoziali di questo tipo: la pertinenza o una certa utilità del fondo servente saranno fruite, a seguito dell’atto di destinazione, nel contesto dell’utilizzazione del bene principale o del fondo
che diventerà dominante anziché, come prima, autonomamente o nel
contesto dell’utilizzazione del fondo servente240.
Il termine destinazione, come si è avuto modo di rilevare241, è adoperato
in modo analogo – benché ancora più pregnante – proprio nella norma
che apre la disciplina del condominio.
In effetti, nel cap. 1, la destinazione all’utilità comune ai sensi dell’art.
1117 c.c. è stata intesa come appartenente a una specie particolare de-
239
M. COSTANTINO, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli, 1967, p. 91 ss.
Vedi G. MIRABELLI, L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, ristampa Kluwer Ipsoa, Milano, 1998, p.
198 ss., nonché A. AURICCHIO, L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960; sulla destinazione pertinenziale e sulla c.d. unità pertinenziale, G. ANDREOLI, Le pertinenze, Padova, 1936; sulla destinazione del padre di
famiglia, A. DE SANCTIS RICCIARDONE, Destinazione del padre di famiglia. Presupposti, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 1969, p. 556.
241
Vedi cap. 1, par. 5.
240
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178
Capitolo IV
gli atti di destinazione: quella degli atti di individuazione di beni immobili242.
Occorre a questo punto precisare che la modificazione delle destinazioni
d’uso di parti comuni non può essere assimilata a un atto di destinazione che ha per oggetto un determinato bene immobile. Le parti comuni,
infatti, non sono beni autonomi dei quali si modifica la destinazione, ma
parti di più unità immobiliari. I beni cui deve propriamente riferirsi la
modifica, sebbene parziale, sono pur sempre le unità immobiliari che
comprendono le parti comuni oggetto della deliberazione, e non già le
parti comuni in sé considerate.
La questione, dunque, resta quella di verificare in che modo, per effetto
di una deliberazione del genere, le unità immobiliari che comprendono
determinate parti comuni possano risultare modificate mediante un atto con il quale si stabiliscono nuove e diverse modalità di fruizione di
quelle parti comuni.
Si può iniziare col chiedersi se una deliberazione ai sensi dell’art. 1117ter c.c. possa modificare l’assetto dei diritti dei condomini sulle parti
comuni.
Poniamo il caso che si decida di trasformare il parcheggio situato nel
cortile in giardino. All’esito della modificazione, la distribuzione tra i
condomini delle utilità espresse dal cortile risulterà modificata. Prima, le
utilità erano distribuite in un certo modo, a seconda del numero di posti
auto di cui ciascun condomino disponeva e della comodità degli stessi.
Dopo, le utilità saranno distribuite a seconda del maggior grado di amenità che il giardino è in grado di offrire a ciascuna unità immobiliare.
Conseguentemente, ne risulterà modificato l’assetto dei diritti sulla parte comune oggetto della modificazione.
Ebbene, un tale risultato deve essere considerato pienamente compatibile con la deliberazione in esame. A tal fine, è sufficiente rilevare che
anche la disciplina delle innovazioni ammette chiaramente la possibilità
che, per effetto dell’intervento, possa risultare modificato l’assetto della
titolarità della parte comune interessata, in conseguenza del diminuito
grado di fruibilità per alcuni condomini. Del resto, la possibilità di chie242
A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 73 e G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in
Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 372 ss. precisano che il richiamo all’uso non deve far pensare all’utilizzazione di fatto, ma all’attitudine funzionale. Pertanto, proprio al fine di sottolineare che si tratta
di situazioni obiettive, si preferisce parlare di utilità, posto che il richiamo all’uso, in materia di condominio,
ha causato innumerevoli equivoci e incomprensioni (vedi cap. 5, par. 1).
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 179
dere e ottenere la modifica delle tabelle millesimali a seguito di «innovazioni di vasta portata» era espressamente prevista dall’art. 69, n. 3,
disp. att., c.c., e il fatto che la novella del 2012 abbia eliminato il riferimento non sembra decisivo243.
Sul piano sistematico, dunque, non sarebbe corretto precludere la possibilità di adottare una deliberazione di modificazione delle destinazioni
d’uso di tal genere in ragione di effetti che si ammette comunemente
possano conseguire alla realizzazione di un’innovazione. La deliberazione ai sensi dell’art. 1117-ter c.c., infatti, si presenta ben più invasiva sul
piano della proprietà condominiale, vuoi per l’ampiezza della maggioranza richiesta, vuoi per le formalità aggravate di convocazione244.
Il profilo della titolarità, tuttavia, coglie solo le ricadute del mutamento
di destinazione delle parti comuni sul piano quantitativo dell’appartenenza245. Si tratta, poi, di conseguenze del tutto eventuali e, perciò,
del tutto inidonee a stabilire natura e funzione della deliberazione in
esame.
Potrebbe accadere, per esempio, che si decida di destinare l’originario
alloggio del portiere a locale per le riunioni di condominio. Il profilo della
titolarità rimarrebbe invariato e la modificazione investirebbe solo le
nuove e diverse modalità di fruizione di quei locali.
Accantonato il profilo degli effetti sull’assetto della titolarità, si potrebbe
tentare di risalire alla natura della modificazione in esame a partire dalle
soglie di liceità stabilite dalla legge. Anche sotto questo profilo, il raffronto con l’istituto delle innovazioni appare imprescindibile.
In proposito, è stato opportunamente rimarcato che l’art. 1117-ter c.c. –
a differenza di quanto previsto per le innovazioni – non vieta i mutamenti di destinazione che rendano talune parti comuni inservibili all’uso
o al godimento di uno o più condomini246.
243
Sia perché la novella non ha inteso modificare la disciplina generale delle innovazioni, sia – soprattutto –
perché la possibilità di ottenere la modifica a seguito di innovazioni di vasta portata rientra pur sempre nella
ipotesi generali di alterazione dei valori proporzionali.
244
Vedi precedente par. 10.
245
M. COSTANTINO, L’istituto della proprietà condominiale nella riforma della gestione dei conflitti, in
L’evoluzione del condominio, a cura del Centro Studio nazionale ANACI, Milano, 2008, apre le sue riflessioni
spiegando che «il soffitto e il pavimento sono “parti” di due diverse “proprietà solitarie”. Tra l’uno e l’altro
c’è una “parte” della struttura statica dell’edificio, la cui proprietà è attribuita per volontà di legge a tutti i titolari delle “proprietà solitarie”. Questo è l’effetto, cioè la conseguenza, della rilevanza assegnata dal diritto
alla destinazione economica di cose, cioè al collegamento funzione di beni che ne è la causa».
246
R. CORONA, op. ult. cit., 2013, p. 12 ss., il quale – ritenendo che la destinazione delle parti comuni possa essere modificata anche per effetto di una innovazione – spiega razionalmente la elevata maggioranza richie© Wolters Kluwer
180
Capitolo IV
Si tratta di un rilievo certamente esatto, ma non risolutivo al fine di distinguere i due tipi di modificazione.
Potrebbe accadere, infatti, per rimanere allo stesso esempio, che il giardino che ha sostituito il parcheggio resti servibile per tutti i condomini.
Eppure, si tratta di un esempio paradigmatico di mutamento di destinazione.
Tanto più che nella giurisprudenza formatasi negli ultimi anni, sulla base
della disciplina previgente, il mutamento di destinazione d’uso delle parti comuni è stato attratto nell’ambito di applicazione della disciplina delle innovazioni. È divenuta ricorrente, nelle massime, l’affermazione secondo cui le innovazioni sono le modifiche che importano l’alterazione
della realtà sostanziale o il mutamento della originaria destinazione, in
modo che le parti comuni presentino una diversa consistenza materiale
o vengano utilizzate per fini diversi da quelli precedenti247.
Dottrina e giurisprudenza si sono spesso cimentate nel tentativo di isolare la nozione di innovazione, per differenziarla da quella di modificazione, manutenzione straordinaria o intervento d’altro tipo248. Come
spesso accade in questioni del genere, tuttavia, si rischia di concentrare
l’attenzione sul significato di singole espressioni usate dal legislatore,
trascurando gli aspetti più propriamente sistematici e normativi.
Si potrebbe rilevare, per esempio, che la parola stessa innovazione sembra indicare opere di ammodernamento o di riqualificazione degli edifici: il gruppo può decidere, a maggioranza qualificata, anche opere non
strettamente necessarie, ma dirette a migliorare la qualità o il grado di
fruibilità delle parti comuni. Sembrano, invece, eccedere il campo di interventi di questo tipo quelli diretti a mutare la destinazione delle parti
comuni, ossia a modificarne la funzione: altro è installare delle tettoie
sui posti auto in un piazzale comune, altro è trasformare il parcheggio in
giardino; altro è migliorare l’aerazione di un locale stenditoio aprendo
un’altra finestra, altro è farne una sala riunioni.
sta dall’art. 1117-ter c.c. proprio in ragione della possibilità di rendere una parte comune inservibile all’uso o
al godimento di uno o più condomini.
247
Cass., 26 maggio 2006, n. 12654, in Corr. giur., 2007, p. 235, con nota di R. TRIOLA, Condominio, innovazioni ed esecuzione di opere su parti comuni, il quale rileva come la giurisprudenza precedente richiedesse pur
sempre l’esecuzione di opere affinché si potesse parlare di innovazioni. L’illustre Autore ricorda altresì la
precedente giurisprudenza che richiedeva l’unanimità dei consensi per il mutamento delle destinazioni
d’uso. Per tutte, Cass., 14 novembre 1977, n. 4922, in Giust. civ., 1978, I, p. 1346.
248
Sul punto, si rinvia a R. TRIOLA, Il Condominio, Giuffrè, Milano, 2007, p. 189 ss.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 181
L’impressione, comunque, è che si tratti di criteri piuttosto empirici e
imprecisi. Appare difficile, per esempio, stabilire se la realizzazione di un
impianto sportivo nel parco condominiale costituisca una innovazione o
una modificazione, seppure parziale, della destinazione del parco.
Gran parte del contenzioso in materia di mutamenti di destinazione
d’uso delle parti comuni riguarda la destinazione a parcheggio del cortile. Spesso, tuttavia, la questione davvero controversa non riguarda la
validità di delibere con cui si decide di dismettere la destinazione in atto
del cortile – per esempio adibito a giardino – per assegnargli una nuova
destinazione e trasformarlo in parcheggio, ma l’accertamento della effettiva destinazione in atto del cortile e la verifica del grado di compatibilità della sosta delle autovetture con tale destinazione249. Si pensi alla
giurisprudenza che ha affermato che i cortili, destinati primariamente a
dare aria e luce alle unità immobiliari, possono avere anche una cosiddetta destinazione secondaria, compatibile con la prima: la destinazione
a parcheggio250.
Probabilmente la chiave della questione risiede proprio nella possibilità
che la precedente destinazione coesista con la nuova.
Una deliberazione di modificazione della destinazione d’uso, cioè, deve
ritenersi davvero necessaria non tanto quando si voglia rendere possibile una nuova forma di fruizione di una parte comune in grado di coesistere con la precedente, quanto nel caso in cui si intenda radicalmente
dismettere la destinazione in atto.
Nel primo caso, infatti, i condomini potranno continuare a utilizzare
quella parte comune secondo la destinazione originaria. Quella parte
comune, cioè, resterà “servibile” secondo la destinazione originaria,
benché la fruizione delle vecchie utilità possa risultare più scomoda.
Nel secondo caso, invece, la parte comune diventerà inservibile secondo
la destinazione originaria, benché utilizzabile in conformità alla nuova
destinazione da parte degli stessi condomini.
L’interesse reale del singolo condomino che il gruppo ha il potere di superare solo avvalendosi della speciale deliberazione disciplinata dall’art.
249
Il rilievo è di A. DE RENZIS, in Trattato del condominio, a cura di A. DE RENZIS-A. FERRARI-A. NICOLETTI-R.REDIVO,
Padova, 2008, p. 157 ss., il quale cita esemplificativamente il precedente di Cass., 14 novembre 1977, n.
4922, in Giust. civ., 1978, I, p. 1346, in cui l’area da destinare a parcheggio era un vero e proprio prato giardino destinato al passeggio e ai giochi per bambini. Vedi anche cap. 1, par. 6.
250
Vedi Cass., 15 giugno 2012, n. 9875 e cfr. Cass., 9 giugno 2010, 13879, in Immob. e proprietà, 2010, p.
663.
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182
Capitolo IV
1117-ter c.c., insomma, è rappresentato dalla possibilità di continuare a
servirsi delle parti comuni in conformità alla destinazione originaria. La
nozione stessa di servibilità, del resto, non può che essere riferita a una
determinata funzione, ossia destinazione, del bene considerato, e non
certo a uno spazio o a porzioni dell’edificio o dell’organismo edilizio viste nel loro aspetto materiale: il vecchio parcheggio non può certo ritenersi servibile solo perché chi poteva servirsene adesso può passeggiare
nel giardino.
È evidente che in casi come questo l’intervento non può considerarsi
un’innovazione, ma un mutamento di destinazione di parte comune ai
sensi dell’art. 1117-ter c.c., anche quando il giardino dovesse conservare
l’assetto della titolarità del vecchio parcheggio e dovesse risultare fruibile comodamente da tutti i condomini.
17.
Le condizioni di ammissibilità della deliberazione e
l’inderogabilità della disciplina: una nuova prerogativa del gruppo
Una prima questione da porsi riguarda le condizioni di ammissibilità del
mutamento di destinazione d’uso. L’assemblea non può deliberare qualsiasi mutamento di destinazione, ma solo quelli diretti a «soddisfare esigenze di interesse condominiale». Si tratta di una formula piuttosto vaga
e, per certi versi, fuorviante251.
In effetti, non è chiaro come si possa dimostrare che un certo mutamento di destinazione serva a soddisfare esigenze di interesse condominiale,
probabilmente proprio perché non esistono interessi propriamente comuni dei condomini252. Quelli in gioco sono pur sempre interessi di natura individuale perché attengono a scelte relative all’utilizzazione di distinte unità immobiliari: basti pensare ai proprietari di abitazioni, uffici o
locali alla strada, e a quanto diversi possono essere i loro interessi in ordine alla destinazione delle parti comuni. Salvo il caso di scelte bizzarre
o capricciose, ciascuno opterà per la soluzione che obiettivamente meglio soddisfa il suo interesse di proprietario.
251
M. MONEGAT, Le parti comuni dopo la riforma, in Immobili e proprietà, 2013, p. 85, ritiene la locuzione generica e, perciò, foriera di notevole contenzioso.
252
COSTANTINO, Contributo, p. 342 s., nota 38, rileva che l’organizzazione delle attività di utilizzazione dei beni
non determina la possibilità di configurare una collettività di soggetti proprietari e, dunque, un interesse
comune che consenta di superare la pluralità di interessi distinti. CORONA, Contributo, p. 153 (vedi precedente nota 147).
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 183
Sembra opportuno ricordare, in proposito, che il testo della novella del
2012 passato all’esame del Senato prevedeva una maggioranza più accessibile, ma imponeva condizioni di ammissibilità della deliberazione
molto più rigide. Il cambio di destinazione era consentito solo in caso di
cessazione dell’utilità della parte comune, oppure nel caso in cui si potesse conseguire altrimenti l’utilità espressa dalla parte comune interessata.
Per esempio, dismesso l’impianto centralizzato di riscaldamento, i locali
destinati a ospitare la caldaia avrebbero potuto essere destinati ad aumentare la superficie del parcheggio comune. O, ancora, il parcheggio si
sarebbe potuto certamente trasformare in giardino se, contestualmente, si fosse deliberato di destinare a parcheggio un’altra area condominiale. Chissà che la futura giurisprudenza sulle esigenze di interesse
condominiale non giunga ad analoghe conclusioni in via interpretativa.
Per altro verso, ci si è chiesti se con una deliberazione ai sensi dell’art.
1117-ter c.c. sia possibile destinare una parte comune all’utilità di una
sola unità immobiliare o se con una deliberazione del genere sia possibile decidere di alienare una parte comune253.
In entrambi i casi la vera questione attiene alla possibilità di cancellare la
destinazione all’uso comune di una parte comune, per poi cedere l’area
risultante a un condomino o a terzi (con o senza l’imposizione di un vincolo di destinazione).
Non vi sono ragioni per negare una tale possibilità ove ricorrano «esigenze di interesse condominiale»254.
La circostanza che alla dismissione non faccia fronte una nuova destinazione comune, ma una nuova destinazione individuale, può aver rilievo
solo sul piano della verifica delle condizioni di ammissibilità appena
esaminate, ma non può incidere sulla natura giuridica o sugli effetti propri della deliberazione di modifica della destinazione: la dismissione della destinazione comune in atto, come si è detto, costituisce la vera specificità dell’istituto.
253
M. MONEGAT, Le parti comuni dopo la riforma, in Immobili e proprietà, 2013, p. 85, la quale ritiene che con
una deliberazione ai sensi dell’art. 1117-ter c.c. si possa anche decidere l’alienazione di una parte comune.
254
In tal senso M. MONEGAT, op. cit., p. 85. Tuttavia, poiché la deliberazione incide sulla destinazione e – solo
di riflesso – sulla titolarità, pare preferibile che, venuta meno la destinazione all’utilità comuni, residui una titolarità comune di un bene che ha perso la sua destinazione. Per effetto della sottrazione all’utilità comune,
pare preferibile, quindi, ritenere che la parte comune venga a trovarsi in comunione ordinaria tra i condomini.
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184
Capitolo IV
Resta da verificare, infine, se con una deliberazione adottata a maggioranza – per quanto ampia – possa essere modificata (rectius dismessa) la
destinazione di parti comuni enunciata nel titolo.
A proposito dei beni condominiali, si è già detto che le destinazioni attuali o potenziali di proprietà individuali e parti comuni possono risultare dalla conformazione dell’organismo edilizio o dal titolo, la cui funzione è proprio quella di disinnescare le destinazioni apparenti in favore di
quelle espresse verbalmente in un atto formale. Il titolo può spingersi ad
assegnare a parti dell’edificio funzioni non denunciate dalla struttura255:
può trattarsi di funzioni – ossia destinazioni – contrarie alla situazione
dei luoghi o ulteriori rispetto a quelle che risultano dalla struttura dei
beni o, ancora, di funzioni già risultanti dalla struttura, ma espressamente ribadite nel titolo o, infine, di funzioni compatibili con la struttura
dell’edificio, ma non ricavabili dalla sua conformazione in modo univoco.
Si può, infine, procedere a una determinazione negativa delle funzioni,
come nel caso di divieto di determinate destinazioni delle proprietà individuali o delle parti comuni.
Si potrebbe osservare che il contratto è più forte della delibera. In realtà, come è stato più volte rilevato nelle pagine precedenti, non si tratta
di stabilire una sorta di gerarchia, ma di individuare le materie che la
legge riserva inderogabilmente all’autonomia collegiale, ossia le prerogative di cui il gruppo non può essere privato nemmeno per effetto di
un patto contrario.
È evidente che l’istituto della modificazione delle destinazioni d’uso di
parti comuni completa il quadro, precedentemente affidato alle sole innovazioni, delle possibilità di mutamenti riservate all’autonomia collegiale, e contribuisce, in questo modo, a caratterizzare lo statuto della
proprietà condominiale256.
Gli atti parlamentari relativi all’approvazione della novella del 2012 ne
offrono una chiara conferma.
In un comunicato alla Presidenza del 7 maggio 2008, il relatore del progetto di legge al Senato, on.le Mugnai, a proposito delle modifiche che
255
Mentre per la destinazione del padre di famiglia o per quella pertinenziale il titolo può solo escludere la rilevanza dei collegamenti funzionali in atto nel contesto di una vicenda circolatoria per circoscrivere l’oggetto
dell’acquisto al solo bene principale o al solo fondo dominante, nel condominio il titolo può conformare le
unità immobiliari. Sul punto, vedi cap. 1, par. 5.
256
F. VASSALLI, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in Studi giuridici, II, Milano, 1960, p. 329,
il quale rileva l’esistenza di statuti diversi della proprietà. Vedi cap. 3, nota 8.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 185
la riforma si proponeva di apportare allo «statuto della proprietà condominiale», afferma testualmente – con chiaro riferimento all’art. 1117ter c.c. – che in essa anche la proprietà condominiale ha «un suo ambito
di autonomia e supera le difficoltà del necessario consenso di tutti i
condomini». Ancora, in un successivo intervento del 25 gennaio 2011, lo
stesso relatore dichiara che nella riforma vi è stata «un’accelerazione
delle dinamiche della vita condominiale attraverso un passaggio significativo contenuto nell’articolo 1117-ter, dove per la prima volta, ma in
modo coerente, non solo con l’impianto della legge ma anche con
l’impianto normativo in generale, ed in particolare con lo stesso dettato
costituzionale, si affronta il problema della staticità della vita condominiale legata al criterio dell’unanimità per quanto riguarda la disposizione
delle parti comuni».
Anche l’on.le Torrisi, relatore alla Camera dei Deputati, in sede di approvazione definitiva nella seduta del 17 settembre 2012, nonostante il testo fosse stato frattanto rimaneggiato, richiamava chiaramente le «disposizioni che consentono di modificare le destinazioni d’uso delle parti
comuni a maggioranza anziché all’unanimità» e riferiva di un dibattito
particolarmente serrato in cui è prevalso l’orientamento volto a garantire «la piena tutela dei proprietari delle singole unità immobiliari, giacché
il valore e il pregio di queste ultime dipende anche dalla destinazione
d’uso delle parti comuni».
Evidentemente, non può essere un regolamento predisposto dal costruttore a impedire la possibilità del cambiamento cui si è tanto inneggiato.
18.
La distribuzione tra i condomini delle nuove utilità e gli eventuali rimedi indennitari
Stabilito che le utilità espresse dalla parte comune sulla base della destinazione in atto possono essere cancellate da una deliberazione adottata a norma dell’art. 1117-ter c.c., occorre porsi la questione della distribuzione tra i condomini delle nuove utilità.
Nell’esempio più volte ripreso, la nuova destinazione (giardino) esprime utilità connesse unicamente alla obiettiva conformazione della
parte comune e alla sua attitudine a incrementare il valore delle unità immobiliari alle quali risulta funzionalmente collegata. La destinazione precedente (parcheggio), invece, esprime utilità che possono
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186
Capitolo IV
essere distribuite tra i condomini in varia misura in virtù del titolo,
che può collegare una certa unità immobiliare a un certo numero di
posti auto o a una certa misura di possibilità di utilizzazione del parcheggio. Potremmo chiamare obiettive le utilità del primo tipo e soggettive quelle del secondo tipo, rivisitando una distinzione contenuta
in un precedente della Cassazione sempre in tema di posti auto nel
cortile 257.
Ebbene, nei casi di modificazione della destinazione in cui la nuova destinazione sia di tipo obiettivo, non si potrà che prendere atto delle
nuove e diverse utilità espresse dalla parte comune in favore di ciascuna
unità immobiliare e rivedere di conseguenza, ove occorra, le tabelle millesimali relative a quella parte comune258.
Nel caso in cui, invece, la nuova destinazione sia di tipo soggettivo, si
pone il problema di distribuire tra i condomini le nuove utilità espresse
dalla parte comune. Nell’esempio esposto, occorrerà distribuire tra i
condomini i posti auto ricavati nel cortile.
Se la deliberazione non potesse modificare i diritti dei singoli sulle parti
comuni, occorrerebbe concludere che i posti auto devono essere distribuiti in misura corrispondente all’utilità che la parte comune esprimeva
in favore di ciascuna unità immobiliare sulla base della precedente destinazione a giardino259.
Replicare lo stesso tipo di distribuzione, tuttavia, potrebbe non avere
senso, visto il venir meno dell’utilità che ne costituiva il fondamento. Potrebbe risultare irragionevole, per esempio, attribuire più posti auto al
proprietario dell’unità immobiliare che più traeva utilità dal giardino in
termini di amenità, piuttosto che attribuire i nuovi posti auto in relazione al criterio generale del valore proporzionale.
Disponendo una distribuzione dei posti auto nel senso indicato – che
sembra il più razionale – non c’è dubbio che il proprietario dell’unità
257
Cass., 1 marzo 2000, n. 2255, in Corriere giur., 2001, p. 653, con nota di V. MARICONDA, Cortile comune ed
esclusiva di parcheggio. Per la verità, nel caso oggetto della sentenza non si parla di innovazioni. La ragione
risiede nel fatto che non si trattava di imprimere una “nuova” destinazione a una parte comune, ma di verificare di quali forme di utilizzazione fosse suscettibile la parte comune “cortile”. Nessun cambiamento, dunque, ma l’accertamento della situazione esistente. Vedi precedente nota 221.
258
Vedi cap. 5, parr. 8 e 12.
259
Cass., 16 gennaio 2014, n. 820, in Giust. civ. online, con considerazioni critiche di M. BIASI, Criteri di ripartizione del godimento e modalità d’uso delle parti comuni, in Giustiziacivile.com, 3, 2015, afferma, invece, che
l’assemblea con una deliberazione che modifica il regolamento di condominio assembleare possa distribuire
i posti auto ricavati nel cortile in ragione di uno per ciascuna unità immobiliare.
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 187
immobiliare che traeva più utilità dal giardino vede diminuito il suo diritto sulla parte comune già destinata a giardino, oggi a parcheggio.
Analoga diminuzione, tuttavia, può ineluttabilmente conseguire nel caso
in cui la nuova destinazione sia di tipo oggettivo. Allora, piuttosto che
costringere l’assemblea a distribuzioni delle nuove utilità non coerenti
con la nuova destinazione, conviene ammettere l’operatività di rimedi
indennitari in tutti i casi in cui alcuni condomini – a seguito del mutamento di destinazione d’uso – subiscano diminuzione del loro diritto.
Un meccanismo indennitario, del resto, era espressamente previsto nel
testo della riforma del condominio approvato al Senato il 26 gennaio
2011260 e qualche autorevole commentatore si è già pronunciato nel
senso di ritenere che ad analoghi risultati – in presenza di chiari indici di
menomazione del diritto – si potrà giungere, con tutta probabilità, in via
interpretativa261.
19.
L’indivisibilità delle parti comuni
L’indivisibilità delle parti comuni è tradizionalmente presentata come
uno dei tratti più rilevanti di distinzione tra gli istituti della comunione e
del condominio, tanto che in passato alcuni autori hanno classificato il
condominio tra le ipotesi di comunione forzosa o ne hanno ricostruito la
natura giuridica in termini di servitù legale di indivisione avente a oggetto beni di proprietà comune262.
Occorre intendersi, però, sulla nozione di divisione cui ci si riferisce.
Gran parte della dottrina ha condiviso l’impostazione secondo cui l’art.
1119 c.c., dettato in tema di condominio, «vive nell’orbita stessa in cui si
muove l’art. 1112 c.c.», dettato in tema di comunione263. La disposizione
da ultimo citata dispone che lo scioglimento non può essere chiesto
quando si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a
cui sono destinate, e segue la norma (contenuta nell’art. 1111 c.c.) che
sancisce il generale principio secondo cui ciascun partecipante alla co260
L’art. 1117-ter, co. 3, c.c., nella versione originaria, disponeva che la deliberazione, a pena di nullità, dovesse determinare «l’indennità che, ove richiesta, spetta ai condomini che sopportino diminuzione del loro
diritto sulle parti comuni, in ragione di qualità specifiche dei beni di proprietà esclusiva, avuto riguardo alla
condizione dei luoghi».
261
In tal senso, R. CORONA, op. ult. cit., 2013, p. 18.
262
A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 37, richiama la comunione forzosa; J.M. PARDESSUS, Le
servitù prediali, Napoli, 1863, p. 281, scorge una servitù legale di indivisione ove in una casa i distinti piani
formino altrettante proprietà distinte.
263
G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 416.
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Capitolo IV
munione può sempre domandarne lo scioglimento. A differenza di
quanto accade per la comunione, in materia di condominio il singolo potrebbe pretendere la divisione solo in via eccezionale: quando – stando
al testo dell’art. 1119 c.c. precedente alla novella del 2012 – essa non
«rende più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino»264.
È stato, tuttavia, rilevato che gli artt. 1111 e 1112 c.c. non disciplinano il
diritto di ciascun comproprietario di chiedere la divisione della cosa, ma
regolano lo scioglimento della comunione, senza distinguere se questo
si realizzerà con la divisione per natura o per valore265.
L’art. 1119 c.c., invece, si riferisce evidentemente alla sola divisione in
natura, posto che il requisito del mancato pregiudizio per la comodità
dell’uso lascia chiaramente intendere che, anche dopo la divisione,
quell’uso debba essere attuabile da tutti i condomini.
Alla divisione in natura, del resto, si è sempre riferita la giurisprudenza,
che ha sistematicamente rigettato le domande di assegnazione di parti
comuni proposte da singoli condomini, anche nei casi in cui ne risultasse
cessata l’utilità comune266.
Intesa in questo senso, la divisione delle parti comuni determina
l’assegnazione in proprietà individuale a ciascun condomino di una porzione della parte comune originariamente unitaria, con la conseguente
cessazione della situazione di contitolarità267: la parte comune interessata è separata dalle unità immobiliari alla cui utilità è destinata per essere
frazionata in una pluralità di parti di beni individualmente destinate
all’utilità delle singole unità immobiliari (ove non costituiscano nuove e
autonome unità immobiliari).
264
In tal senso, G. BRANCA, op. cit., p. 413.
Sul punto, si rinvia a M. COSTANTINO, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli, 1967, p. 285, il
quale pone in evidenza la diversa natura degli interessi presi in considerazione dalla legge nelle distinte ipotesi.
266
App. Roma, 13 maggio 2008, esclusa la frazionabilità del locale condominiale destinato a contenere i cassoni dell’acqua – ormai dismessi con l’allacciamento alla rete idrica – esclude la divisione per equivalente, in
quanto farebbe venire meno qualsivoglia utilità in favore di tutti i condomini. Nella decisione si distingue con
chiarezza lo scioglimento della comunione dalla divisione di parti comuni. Nello stesso senso, Trib. Padova,
21 marzo 1986, in Giust. civ., 1986, p. 2266, con nota di G. TERZAGO, Condomini di due sole persone e indivisibilità delle parti comuni, con riferimento a un locale interrato un tempo destinato ad alloggiare l’impianto
termico a servizio dell’intero edificio. Nella motivazione si legge che se la divisione su istanza del singolo non
è possibile ove ne derivi un uso più incomodo anche per un solo condomino, a maggior ragione non la si può
ammettere allorché comporti per un condomino la privazione totale dell’uso, come avverrebbe nell’ipotesi
di assegnazione per intero a un altro condomino.
267
Sulla natura di atto di destinazione della divisione di beni immobili e sugli effetti in ordine
all’individuazione, A. AURICCHIO, L’individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960, p. 40.
265
© Wolters Kluwer
Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 189
La divisione, dunque, modifica la fisionomia delle unità immobiliari condominiali e, conseguentemente, l’assetto della titolarità comune delle
parti comuni: per effetto della divisione alcune porzioni del complesso
immobiliare sono escluse dal novero delle parti comuni, perché ne risulta
cancellata la loro destinazione all’utilità comune di più unità immobiliari.
Sulla base della vecchia formulazione dell’art. 1119 c.c., una tale modificazione della proprietà condominiale poteva conseguire o all’accordo di
tutti i condomini o all’iniziativa del singolo, benché nei soli e rari casi in
cui il frazionamento non pregiudicasse le concrete possibilità di utilizzazione anche di una sola unità immobiliare268. Il requisito della comodità,
nei fatti, è servito essenzialmente a vincere le resistenze ostruzionistiche
di chi si opponeva – senza avervi un concreto e obiettivo interesse – a
modificazioni vantaggiose di determinate parti comuni269. L’ipotesi, tuttavia, restava del tutto residuale, confinata ai margini del sistema della
proprietà condominiale. In effetti, l’istituto della divisione a istanza del
singolo ha trovato qualche rara applicazione prevalentemente nei condominii atipici, ossia nei casi di proprietà condominiale diversi dal classico edificio a più piani, oggi tutti richiamati dall’art. 1117-bis c.c. (condominii orizzontali, supercondominii, condominii minimi eccetera)270.
268
In tal senso COSTANTINO, op. cit., p. 290, e sulla scia delle sue considerazioni, Cass., 24 ottobre 1978, n. 4806,
in Giust. civ., 1979, p. 1955, rileva che non avrebbe senso intendere come fatto preclusivo della divisione
l’incomodo godimento della parte comune conseguente al frazionamento perché in ogni caso la divisione priverebbe ciascun condomino della possibilità di utilizzare le parti assegnate ad altri. La norma acquista, invece, significato se l’uso più incomodo è riferito alle proprietà individuali servite dal bene condominiale che, per effetto
della divisione, vedrebbero diminuito il loro grado di fruibilità. Tali considerazioni accompagnano la decisione di
rigettare la domanda di divisione del cortile diretta alla realizzazione di autorimesse a fronte della diminuzione
di ariosità e silenziosità di alcune unità immobiliari che ne sarebbe derivata. In altre sentenze si afferma, invece,
che la maggiore o minore comodità possa essere apprezzata raffrontando le utilità ritraibili dalle parti comuni
prima e dopo la divisione, avendo riguardo all’aspetto funzionale piuttosto che al dato materiale e tenuto conto
del fatto che si tratta pur sempre di utilità strumentali rispetto al godimento delle proprietà individuali (in tal
senso, Cass., 23 aprile 1960, n. 913, in Riv. giur. edil., 1960, p. 393, con nota di L. SALIS, Condominio superficiario
e servitù, nonché – più di recente – Cass., 23 gennaio 2012, n. 867 e Cass., 13 luglio 1995, n. 7667).
269
BRANCA, op. cit., p. 416, si chiede come mai altri studiosi non abbiano colto un’idea così semplice: quando
la legge dispone che le parti comuni non sono soggette a divisione non impone un’assoluta indivisibilità, ma
esclude soltanto il diritto del singolo di ottenere la divisione. Conseguentemente, nei casi in cui la divisione
possa farsi senza pregiudizio per la comodità d’uso, essa può essere chiesta dal singolo.
270
Cass., 23 gennaio 2012, n. 867, rappresenta uno dei pochissimi casi editi in cui la domanda di divisione è
stata accolta con riferimento a un giardino, una soffitta e uno scantinato di un edificio condominiale. Cass.,
13 luglio 1995, n. 7667, invece, in un caso di condominio minimo, rigetta la domanda di divisione della terrazza perché il frazionamento avrebbe privato della vista mare una delle due porzioni che, conseguentemente, avrebbe goduto della sola “vista monti”. In una situazione del genere si è ritenuto più scomodo per uno
dei condomini l’uso frazionato della parte comune; Trib. Genova, 11 agosto 2009, infine, rigetta la domanda
di divisione di uno spiazzo comune a due abitazioni indipendenti posto che il frazionamento avrebbe impedito a uno dei condomini l’uso per parcheggio.
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190
Capitolo IV
Con la novella del 2012, invece, ha finalmente trovato spazio una disciplina generale delle modificazioni delle destinazioni d’uso delle parti comuni
diretta a superare l’immobilismo della proprietà condominiale legato alla
necessità del consenso di tutti i partecipanti per dismettere la destinazione in atto delle parti comuni: ove ricorrano le condizioni richieste dall’art.
1117-ter c.c., infatti, si potrà procedere al frazionamento delle parti comuni – come a ogni altra modificazione della loro destinazione d’uso che
comporti la cancellazione della destinazione precedente271 – in virtù di
una deliberazione adottata nei modi e con le forme previste dalla norma.
È possibile, dunque, superare, con una larga maggioranza, l’ostruzionismo
capriccioso di qualche condomino, escludendo – in ogni caso – che una
vera e propria modifica delle parti comuni possa conseguire ad una iniziativa unilaterale del singolo (secondo la logica del previgente art. 1119
c.c.).
Si comprende, allora, perché l’intervento del legislatore, che pure non si
segnala per accuratezza tecnica, finisce con lo svuotare l’art. 1119 c.c. di
qualunque portata precettiva. L’aggiunta, in coda all’art. 1119 c.c., della
precisazione secondo cui occorre sempre «il consenso di tutti i partecipanti al condominio»272, infatti, per un verso chiarisce che il singolo
condomino non può in nessun caso pretendere la divisione di parti comuni, anche ove questa possa attuarsi senza rendere più incomodo l’uso
della “cosa” anche a un solo condomino. Per altro verso, priva di qualsiasi significato precettivo il riferimento alla comodità d’uso, che pure è
stato conservato: nel contesto di una divisione concordata tra tutti i
condomini, infatti, imporre il requisito della comodità d’uso si traduce in
un inammissibile controllo nel merito di un atto di autonomia privata
avente ad oggetto diritti patrimoniali disponibili.
Può dirsi, quindi, che l’istituto della divisione è stato assorbito dalla disciplina delle modificazioni delle destinazioni d’uso delle parti comuni.
In conclusione, pare opportuno ricordare che non a caso, nel disegno di
legge di riforma approvato dal Senato il 26 gennaio 2011, l’art. 1119 c.c.
prevedeva la possibilità per il singolo di chiedere e ottenere lo scioglimento della contitolarità ove la parte comune interessata fosse stata sottratta
alla sua destinazione all’utilità comune per effetto di una deliberazione ai
271
Vedi precedente par. 16.
Il previgente art. 1119 c.c. disponeva che «le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a
meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il
consenso di tutti i partecipanti al condominio».
272
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Conservazione e modificazione delle proprietà individuali e delle parti comuni 191
sensi dell’art. 1117-ter c.c. e, perciò, già esclusa dal novero delle parti comuni a seguito della cancellazione della sua destinazione all’utilità comune. Per tali ipotesi, si richiamava espressamente la disciplina dello scioglimento della comunione, non esclusa – dunque – la divisione per valore:
cessata la destinazione all’utilità comune, infatti, cessa anche la ragione
dell’indivisibilità273. A risultati interpretativi del tutto simili pare doversi
giungere nonostante le modifiche successivamente apportate al testo di
legge.
Per i cosiddetti condominii atipici, campo d’elezione delle istanze di divisione, occorre rilevare che non necessariamente deve ritenersi sempre
valida la regola dell’indivisibilità. In proposito, ci si limita a ricordare che
l’art. 1117-bis c.c. dichiara applicabile la disciplina del condominio a tutti
i casi in cui più beni immobili presentino parti comuni, «in quanto compatibile».
273
Significativamente A. SCRIMA, Le parti comuni, in Il nuovo condominio, a cura di R. TRIOLA, Torino, 2013, p.
70 rileva che l’indivisibilità sulla base della nuova norma dura «sino a quando perdura il vincolo condominiale».
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193
CAPITOLO V
LA DETERMINAZIONE DEL CONTRIBUTO ALLE SPESE
SOMMARIO: 1. Il fondamento comune dei criteri legali di ripartizione delle
spese: le utilità espresse dalle parti comuni in favore di ciascuna unità immobiliare - 2. La destinazione d’uso delle singole unità immobiliari e la misura di partecipazione alle spese - 3. L’utilità concreta e l’utilità giuridica: la dislocazione dell’unità immobiliare nell’edificio ai fini della partecipazione alle
spese. Il caso del riscaldamento centralizzato - 4. Il discusso criterio legale di
ripartizione per scale e ascensore: spese di conservazione e spese di godimento - 5. Il criterio legale di ripartizione per soffitti, volte e solai: il rischio
di risultati irragionevoli - 6. Il criterio legale di ripartizione e le diverse funzioni dei lastrici solari: copertura dell’edificio, solaio dell’ultimo piano e superficie praticabile - 7. La diversa convenzione sulla ripartizione delle spese:
autonomia privata e controllo di meritevolezza - 8. La tabella millesimale dei
valori e le tabelle per la ripartizione delle spese - 9. Le tabelle assembleari e
le tabelle contrattuali: determinazione del valore proporzionale e convenzione per la ripartizione delle spese - 10. Le tabelle millesimali come prerogativa del gruppo: deliberazione di ripartizione delle spese e liquidazione dei
crediti - 11. La revisione e impugnazione della tabella dei valori come dovere
dell’assemblea: presupposti, maggioranze e tutela - 12. Le “altre” tabelle e
la loro vincolatività per l’assemblea
1. Il fondamento comune dei criteri legali di ripartizione delle spese: le
utilità espresse dalle parti comuni in favore di ciascuna unità immobiliare
Le spese per le parti comuni si ripartiscono tra i condomini in proporzione al valore di ciascuna unità immobiliare, dispone il co. 1 dell’art. 1223
c.c.
Il legislatore, anziché richiamarsi alla misura del diritto di ciascun condomino sulle parti comuni – a sua volta proporzionato al valore delle
stesse – ha preferito collegare la misura di partecipazione alle spese direttamente al valore di ciascuna unità immobiliare.
Richiamando quanto già esposto nel cap. 1, in questa sede si ribadisce
soltanto che si tratta di un criterio che – per quanto collaudato – può risultare poco intuitivo. Per esempio, il proprietario dell’appartamento di
maggior valore che abita da solo il suo appartamento potrebbe non co© Wolters Kluwer
194
Capitolo V
gliere la ragione della sua maggiore partecipazione alle spese per il rifacimento del portone di ingresso rispetto al proprietario di un bivani occupato da quattro persone che entrano ed escono di casa più volte al
giorno: essi logorano il portone molto più di lui, che abita da solo il suo
appartamento di pregio.
Rinviando la risposta all’esito delle considerazioni che seguono (par. 2),
per affrontare la questione della ripartizione delle spese è bene partire
dalla considerazione per cui la legge non impone «obblighi a vuoto»1.
Occorre, quindi, individuare quali sono gli interessi giuridicamente rilevanti tenuti in conto dalle norme che adottano determinati criteri di ripartizione delle spese.
Fatta questa premessa, si deve subito rilevare che nessuna indicazione
utile per comprendere il fondamento del criterio del valore può provenire dalla disciplina della comunione, ove la quota esprime a monte in che
misura si rapportano i concorrenti interessi giuridicamente protetti, costituendo essa stessa propriamente l’oggetto del titolo d’acquisto di ciascun partecipante2.
Nel condominio, invece, ciascun proprietario acquista ed è interessato
all’utilizzazione di una distinta unità immobiliare: la misura del concorso
di diritti sulle parti comuni coincide con la valutazione quantitativa degli
interessi giuridicamente rilevanti che convergono su dette parti3.
Per individuare il fondamento del criterio del valore, quindi, è utile il confronto con i criteri di ripartizione delle spese adottati dalla legge in altri
casi in cui siano eseguite opere di interesse comune a più proprietari.
Tra le diverse discipline che si occupano di questioni analoghe a proposito di rapporti di vicinato, conviene riferirsi a quella delle acque private,
che è la più articolata in materia di spese4.
Occorre ricordare, in proposito, che il codice civile previgente considerava l’intero corso d’acqua come una parte del fondo su cui si trovava la
sorgente: «chi ha una sorgente nel suo fondo, può usarne a piacimento,
1
R. CORONA, Contributo alla teoria del condominio negli edifici, Milano, 1973, p. 40 ss., introduce la sua indagine sugli interessi tutelati nel condominio con la citazione di Carnelutti riportata nel testo.
2
G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 471 s.,
sul presupposto della comunione sulle parti comuni, si riferisce alla quota.
3
Vedi cap. 1, par. 9.
4
M. COSTANTINO, Sfruttamento delle acque e tutela giuridica, Napoli, 1975, p. 72 ss.
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La determinazione del contributo alle spese
195
salvo il diritto che avesse acquistato il proprietario del fondo inferiore in
forza di un titolo o della prescrizione» (art. 540 c.c. 1865)5.
Il codice civile vigente, invece, ha considerato il corso d’acqua parte comune a più fondi6, disponendo che «il proprietario di un fondo limitato
o attraversato da un’acqua non pubblica7 (…) può, mentre essa trascorre, farne uso per l’irrigazione dei suoi terreni e per l’esercizio delle sue
industrie, ma deve restituire le colature e gli avanzi al corso ordinario»
(art. 910 c.c.). Il riferimento all’uso è chiaramente diretto soltanto a porre in risalto la destinazione legale dei corsi d’acqua non pubblica
all’irrigazione e all’esercizio delle industrie8: i proprietari dei fondi non
possono modificare detta destinazione, ma restano – pacificamente – i
proprietari del corso d’acqua.
Se, dunque, il codice civile abrogato considerava il corso d’acqua quale
parte del fondo in cui si trovava la sorgente, l’art. 910 c.c. considera il
corso d’acqua non pubblica parte comune ai più fondi attraversati o limitati da esso, esattamente allo stesso modo in cui le parti comuni
dell’edificio condominiale sono parte di tutte le unità immobiliari alla cui
utilità sono destinate9.
Per rintracciare il fondamento del criterio del valore proporzionale,
quindi, conviene riferirsi alla disciplina della ripartizione delle spese dettate in materia di corsi d’acqua non pubblica.
Ebbene, l’art. 917 c.c. dispone che «tutti i proprietari, ai quali torna utile
che le sponde e gli argini siano conservati o costruiti e gli ingombri rimossi, devono contribuire nella spesa in proporzione del vantaggio che
ciascuno ne ritrae».
Il criterio di ripartizione, pertanto, non tiene conto della quantità di acqua materialmente utilizzata, ma delle possibilità di utilizzazione
dell’acqua nel fondo10, ossia delle utilità espresse dall’acqua nel contesto dell’utilizzazione del fondo.
Può darsi che il proprietario che prelevi una maggiore quantità d’acqua
per uso irriguo possa ritrarne minori utilità in conseguenza del minor
5
BONFANTE, Corso di diritto romano, II, Milano, 1926, p. 138, rileva che erano considerate partes del fondo
canali e bacini, oltre tutto quanto serviva per fornire di acqua la casa o il fondo.
6
M. COSTANTINO, op. cit., p. 59 ss.
7
Per effetto dell’art. 1, D.P.R. 18 febbraio 1999, n. 238, attualmente appartengono allo Stato e fanno parte
del demanio pubblico tutte le acque sotterranee e le acque superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne.
8
M. COSTANTINO, ivi, p. 60.
9
Sul punto, si rinvia al cap. 1, par. 3.
10
M. COSTANTINO, op. cit., p. 85.
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196
Capitolo V
grado di fertilità o della conformazione del suo terreno, che lo rendano
meno proficuamente coltivabile. Ebbene, egli parteciperà alla spesa in
ragione dei ridotti vantaggi che potrà conseguire dall’uso dell’acqua11.
Come si vede, la misura di partecipazione alla spesa corrisponde esattamente alla misura dell’interesse all’utilizzazione del corso d’acqua.
Più precisamente, il vantaggio è determinato dall’incidenza della disponibilità della risorsa idrica nel contesto dell’attività di sfruttamento economico del fondo, inteso come unità immobiliare che comprende anche, come sua parte, il corso d’acqua.
I vantaggi considerati nella disciplina delle acque, dunque, misurano
specificamente le utilità che la parte comune – il corso d’acqua – esprime nel contesto delle attività di utilizzazione del fondo. Le qualità che
determinano il valore di ciascun fondo costituiscono, di certo, un fattore
che contribuisce a incrementare i vantaggi che il corso d’acqua arreca a
quel fondo: a parità di altre condizioni, il corso d’acqua, dunque, esprimerà più utilità in favore del fondo di maggior valore. Se, tuttavia, per le
particolari condizioni dei luoghi, il corso d’acqua dovesse incidere in misura ridotta sulle utilità espresse dal fondo, i vantaggi risulteranno ridotti e, conseguentemente, la misura di partecipazione alle spese risulterà
inferiore.
Il criterio di ripartizione sancito dall’art. 1123, co. 1, c.c. invece, pare far
dipendere la misura di partecipazione alle spese dal solo valore di ciascuna unità immobiliare12.
Se questo fosse l’unico criterio di ripartizione delle spese condominiali,
la misura di partecipazione di ciascuno corrisponderebbe alle utilità che
la parte comune esprime in favore della propria unità immobiliare solo a
parità di altre condizioni, se – cioè – le parti comuni esprimono lo stesso
tipo di utilità per tutte le unità immobiliari13.
11
M. COSTANTINO, ivi, p. 80 ss., rileva come nel caso in cui convergano interessi all’utilizzazione incompatibili,
a norma dell’art. 912 c.c., il giudice procede alla conciliazione degli opposti interessi cercando di realizzare il
massimo vantaggio per la produttività di tutti i fondi.
12
Occorre precisare che il valore proporzionale deve essere riferito all’utilizzazione dell’intera unità immobiliare così come composta di parti oggetto di proprietà individuale e di parti comuni. È sin troppo evidente
che non è nemmeno immaginabile una stima attendibile del valore di un’unità immobiliare condominiale a
prescindere dalle parti comuni: non avrebbe senso stimare il valore di un appartamento privo di scale per
l’accesso, di tetto o di fondamenta, pur se esso ne risulti nei fatti dotato. Sul punto, si rinvia al cap. 1, par. 9.
13
Per tutti, D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960, p. 296, il quale rileva che vi
sono cose che sono bensì comuni a tutti nel complesso della loro funzione, ma nelle quali l’utilità dei singoli
incide in modo talmente diverso e, in ogni caso, in modo così estraneo al criterio del valore del piano da esigere l’applicazione di un diverso sistema di ripartizione.
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La determinazione del contributo alle spese
197
Se, per esempio, vi è un giardino comune cui tutti i condomini hanno accesso attraverso altre parti comuni, ma cui alcuni condomini possono
accedere direttamente dalle proprie unità immobiliari, è chiaro che il
criterio del valore proporzionale conduce a una ripartizione delle spese
che non riflette i vantaggi o le utilità che quel giardino apporta a ciascuna unità immobiliare, perché non tiene conto della maggiore utilità del
giardino per coloro che vi possono accedere direttamente. Se, anche in
questi casi, si adottasse il criterio del valore, ne risulterebbe una ripartizione poco ragionevole. Chi ha accesso diretto al giardino, difatti, trarrà
vantaggi in misura più che proporzionale rispetto alle spese che dovrà
sostenere.
Ebbene, il co. 2 dell’art. 1123 c.c. disciplina proprio questo genere di
ipotesi, e dispone che «se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che
ciascuno può farne».
Si tratta di un criterio di ripartizione delle spese che alcuni autori hanno
considerato diverso e del tutto autonomo rispetto a quello del valore
proporzionale14. È piuttosto comune il riferimento al criterio del cosiddetto uso potenziale, inteso come alternativo a quello del valore proporzionale. Sennonché sia il termine “uso” sia l’attributo “potenziale” si
sono spesso rivelati fuorvianti, perché lasciano pensare alle persone dei
condomini piuttosto che alle unità immobiliari condominiali15. A proposito di spese per l’illuminazione e la pulizia del vano scale, per esempio,
sono stati suggeriti, in nome dell’uso potenziale, criteri di ripartizione
diametralmente opposti tra loro, con svianti allusioni all’uso concreto
che ciascun abitante nell’edificio presumibilmente faccia delle scale o ai
soggetti cui possa essere imputato un concreto maggior logorio delle
stesse16.
14
R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 634, considera il criterio del godimento potenziale come del tutto
indipendente dal criterio del valore.
15
Per tutti, G. BRANCA, op. cit., p. 474, il quale chiarisce che il riferimento all’uso potenziale deve essere inteso obiettivamente, a prescindere, cioè, dal contegno personale dell’uno o dell’altro condomino, perché siamo nel campo dei diritti reali. Sembra riferirsi all’uso L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V,
3, Torino, 1956, p. 162.
16
Cass., 12 gennaio 2007, n. 432, in Giust. civ., 2007, p. 1111, con nota di N. IZZO, Spese di pulizia e illuminazione delle scale: un nuovo, ma discutibile, criterio di ripartizione tra i condomini, nonché F. DE PAOLA, Nota in
tema di ripartizione delle spese per la pulizia e l’illuminazione delle scale condominiali, in Giur. it., 2007, p.
11.
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198
Capitolo V
Prospettive di questo genere allontanano dalla comprensione del fenomeno perché finiscono per considerare le parti comuni alla stregua di
beni autonomi di cui occasionalmente più persone si servono.
Occorre ricordare, invece, che la disciplina del condominio prende in
considerazione interessi di natura reale, i quali non possono che valutarsi con riferimento alle utilità obiettivamente espresse dai beni17.
È ovvio che il grado di concreta fruizione delle utilità espresse dai beni è
rimesso all’autonomia del proprietario, che potrebbe – per esempio –
lasciare sfitto e inutilizzato un appartamento.
Scelte di questo tipo, tuttavia, non possono incidere sulla misura di partecipazione alle spese.
Allora, conviene precisare che l’«uso che il condomino può fare» deve
essere inteso in senso obiettivo, ossia deve essere riferito ai beni. E allora indica semplicemente l’utilità che una certa parte comune esprime nel contesto dell’attività di utilizzazione di ciascuna unità immobiliare.
Sarebbe più corretto, pertanto, parlare di possibilità di utilizzazione o
semplicemente di utilità espresse dalle parti comuni in favore delle singole unità immobiliari, piuttosto che di uso potenziale delle parti comuni.
Appare evidente, quindi, che il criterio di ripartizione delle spese sancito
dall’art. 1123 c.c. è uno solo: ciascun condomino partecipa in proporzione alle utilità ritraibili dalle parti comuni.
Il valore proporzionale, cui si riferisce la norma, non è che un indice di
dette utilità, destinato a operare in via esclusiva unicamente per le parti
comuni che servono allo stesso modo tutte le unità immobiliari (fondamenta, facciata eccetera). Se, invece, le parti comuni esprimono utilità
disomogenee o di diversa intensità in ragione del modo di atteggiarsi del
collegamento funzionale che le lega a ciascuna unità immobiliare, allora
non ha senso misurare l’interesse sulle parti comuni e, per converso, la
partecipazione alle spese, con riguardo al solo valore proporzionale. Occorre valutare anche – esattamente come per le acque – le specifiche
utilità espresse da ciascuna parte comune in favore di ciascuna unità
immobiliare.
La regola generale, dunque, è quella contenuta nell’art. 1123, co. 2,
c.c.18: la misura di partecipazione alle spese aumenta sempre in misura
17
Per tutti, G. BRANCA, op. cit., p. 474.
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La determinazione del contributo alle spese
199
proporzionale al valore di ciascuna unità immobiliare, ma non solo in relazione a esso.
Il co. 3 dell’art. 1123 c.c. costituisce un’ulteriore applicazione del criterio
indicato con riferimento a quelle parti comuni che, essendo destinate a
servire solo alcune unità immobiliari, devono ritenersi comuni a esse
soltanto. Le spese relative a scale, cortili, lastrici solari, impianti o qualsiasi altra opera destinata all’utilità solo di alcune unità immobiliari resteranno a carico del gruppo dei proprietari di quelle unità immobiliari19.
Se ne ricava che qualsiasi criterio ragionevole di ripartizione delle spese
non può prescindere dal valore proporzionale – perché è certo che
l’utilità di qualsiasi parte comune è proporzionale al valore di ciascuna
unità immobiliare – ma deve tenere altresì conto di tutte le altre circostanze che incidono sull’intensità dell’interesse all’utilizzazione delle
parti comuni.
In conclusione sul punto, si rileva che i risultati raggiunti – alla luce
dell’istituto del condominio parziale – si rivelano pienamente compatibili con il principio di corrispondenza tra misura di partecipazione alle spese, peso del voto in assemblea e utilità proporzionale delle parti comuni,
tutti unitariamente espressi dalla frazione del diritto che spetta a ciascun condomino sulle parti comuni ai sensi dell’art. 1118 c.c.
2. La destinazione d’uso delle singole unità immobiliari e la misura di
partecipazione alle spese
Il riferimento al valore contenuto nell’art. 1123, co. 1, c.c. sembra assumere lo specifico significato di affermare l’irrilevanza della destinazione
in atto delle singole unità immobiliari condominiali ai fini della ripartizione delle spese20.
Il dato è confermato dai criteri di determinazione del valore: l’art. 68,
disp. att., c.c., infatti, dispone che non si debba tener conto – oltre che
del valore locatizio, che dipende dalle condizioni del mercato immobiliare in un certo momento – dei miglioramenti e dello stato di manuten18
In questi termini, G. BRANCA, ibidem, p. 474.
Vedi cap. 1, par. 9.
20
La nozione stessa del valore di un’unità immobiliare prescinde completamente dalla sua destinazione in
atto e si determina sulla base delle utilità potenziali. Si può rinviare alla ultracentenaria giurisprudenza in
materia di indennizzo a fronte di espropriazioni per pubblica utilità, da App. Roma, 27 dicembre 1887, in
Giur. it., 1988, II, p. 247 a Cass., 3 marzo 2011, n. 5147.
19
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200
Capitolo V
zione di ciascuna unità immobiliare. La norma ha indotto la dottrina a riferirsi al valore dell’unità immobiliare al rustico21, ossia a un bene che
esprime una serie di possibilità di utilizzazione, nessuna delle quali in atto.
Ancora, il disegno di legge di riforma del condominio approvato dal Senato il 26 gennaio 2011 aggiungeva espressamente il mutamento di destinazione d’uso alle circostanze che legittimano la richiesta di revisione
della tabella dei valori22. L’aggiunta è stata eliminata dal testo definitivo,
e la giurisprudenza pare essersi espressa nel senso dell’irrilevanza della
destinazione ai fini del riparto delle spese, quantomeno a proposito di
unità immobiliari inizialmente destinate ad abitazione e successivamente adibite a ufficio o studio medico23.
A ben vedere, tuttavia, gli argomenti utilizzati nelle decisioni giurisprudenziali non appaiono risolutivi. Nelle motivazioni delle sentenze si richiama la necessità del consenso unanime per la modifica dei criteri legali o convenzionali di ripartizione delle spese. Il problema, tuttavia, non
attiene alla modifica di un certo criterio di ripartizione, ma alla individuazione dei criteri legali di ripartizione applicabili: ci si chiede, cioè, se i
criteri legali di ripartizione delle spese impongano di tener conto della
destinazione delle unità immobiliari. La stessa giurisprudenza, del resto,
ha riconosciuto che il mutamento di destinazione delle singole unità
immobiliari possa comportare una più intensa utilizzazione delle parti
comuni24. Si tratta di verificare se questa diversa misura di utilizzazione,
che, come si è visto25, non modifica i diritti dei singoli sulle parti comuni,
possa invece incidere sulla ripartizione delle spese.
21
In tal senso, G. BRANCA, op. cit., p. 400 s.
Vedi le modifiche previste all’art. 69 disp. att. c.c. dall’art. 24 del disegno di legge n. 71, 355, 399, 1119,
1283, approvato al Senato il 26 gennaio 2011.
23
Cass., 19 febbraio 1997, n. 1511, ritiene nulla la deliberazione con cui si impongono contributi alle spese
aggiuntivi per i proprietari che hanno adibito a ufficio le proprie unità immobiliari. La motivazione fa leva sulla necessità dell’unanimità dei consensi per il superamento dei criteri di ripartizione delle spese nonché sulla
tipicità dei casi. Trib. Bari, 26 settembre 2007, n. 2238, sulla base di analoghi rilievi, dichiara nulla la deliberazione con la quale si decide a maggioranza di porre a carico del condomino proprietario di unità immobiliare
destinata a studio medico una maggiore quota di partecipazione ai servizi comuni di ascensore, energia elettrica, pulizia scale e androne.
24
Cass., 27 ottobre 2011, n. 22428, afferma che il mutamento di destinazione della singola unità immobiliare
può determinare una più intensa utilizzazione delle parti comuni. Detto mutamente deve ritenersi lecito,
purché non risulti radicalmente alterato l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, da
parte degli altri condomini.
25
Vedi cap. 4, par. 15.
22
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La determinazione del contributo alle spese
201
Non appare decisiva nemmeno la circostanza che, nel corso dei lavori
preparatori della novella del 2012, il mutamento di destinazione sia stato eliminato dal novero delle circostanze che giustificano la revisione
della tabella millesimale, tra le quali era stato precedentemente inserito. Occorre ricordare, infatti, che l’art. 69, disp. att., c.c. si riferisce alla
tabella dei valori, e che, pur ammessane l’irrilevanza ai fini della determinazione del valore, non è affatto detto che la destinazione in atto
debba ritenersi irrilevante anche per la ripartizione delle spese: il criterio di ripartizione per valore, infatti, non è il solo applicabile ai casi in cui
determinate parti comuni risultino utili in maniera diversa alle distinte
unità immobiliari. Ebbene, se è vero che con il mutamento di destinazione si avvia un’attività di utilizzazione nuova e diversa dello stesso bene26, e se è vero che l’unità immobiliare condominiale si compone di
parti di proprietà individuale e di parti comuni27, è evidente che normalmente al mutamento di destinazione dell’unità immobiliare condominiale fa fronte un nuovo e diverso modo di utilizzazione anche delle
parti comuni, con conseguente necessità di rivedere il criterio di ripartizione in uso e di valutare specificamente la quantità di utilità espresse
dalle parti comuni in favore di una certa unità immobiliare a seguito della nuova destinazione.
Un ulteriore elemento utile alla riflessione è offerto dall’art. 1118, co. 3,
c.c., secondo cui il condomino non può sottrarsi in alcun modo
all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità
immobiliare.
La norma considera il caso in cui, a seguito di un mutamento di destinazione, una certa parte comune si riveli inutile per una unità immobiliare:
per esempio, a seguito della destinazione a deposito di un appartamento, potrebbe risultare inutile il giardino. Ebbene, il proprietario di quel
deposito continuerà a contribuire allo stesso modo alle spese di conservazione del giardino.
La norma sembra esprimere nel linguaggio dei beni la regola dell’irrinunciabilità dei diritti sulle parti comuni, enunciata nella disposizione
immediatamente precedente (art. 1118, co. 2, c.c.)28. In effetti, afferma26
Vedi cap. 4, par. 15.
Vedi cap. 1, par. 3
28
Vedi cap. 1, par. 11.
27
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202
Capitolo V
re che il condomino resta titolare delle parti comuni anche quando non
sia più obiettivamente interessato a utilizzarle equivale ad affermare
che le parti comuni resteranno connesse a una certa unità immobiliare
anche quando dovessero risultare inutili sulla base della destinazione in
atto di quella unità immobiliare. Le utilità espresse, quindi, resteranno,
per così dire, latenti sino a quando il condomino interessato decida di
ripristinare la destinazione originaria o di intraprendere altra forma di
utilizzazione dell’unità immobiliare che ne comporti una qualche forma
di fruizione.
Il mutamento di destinazione, insomma, non cambia la fisionomia
dell’unità immobiliare interessata e, conseguentemente, non modifica la
situazione di titolarità delle parti comuni in essa ricomprese: lo si è già
detto per il caso in cui il mutamento di destinazione determini un uso
più intenso delle parti comuni e lo si deve ripetere, allo stesso modo,
per le destinazioni che determinino un uso meno intenso o anche nullo
di determinate parti comuni29.
Tornando alle spese, dunque, è evidente che l’art. 1118, co. 3, c.c. impedisce di considerare le spese di conservazione legate alla destinazione
in atto, perché esse attengono al bene immobile condominiale inteso
come sintesi di tutte le utilità attuali e potenziali. I criteri di ripartizione,
invece, potrebbero ritenersi sensibili ai mutamenti di destinazione delle
unità immobiliari per le cosiddette spese di godimento30.
È stato correttamente rilevato che quando si parla di godimento delle
parti comuni si può far riferimento a due differenti fenomeni: l’utilizzazione obiettiva delle parti comuni o l’uso delle parti comuni come effetto dell’attività personale dei condomini31. È bene precisare, allora,
che tener conto delle destinazioni d’uso in atto ai fini della ripartizione
delle spese non può e non deve in nessun caso tradursi nell’attribuire rilevanza all’uso concreto delle parti comuni, ovvero alle condizioni soggettive32 o alle abitudini dei condomini.
29
Vedi cap. 4, par. 15.
L’espressione è mutuata dall’art. 1104 c.c. È appena il caso di rilevare che il richiamo a una norma dettata
in materia di comunione è del tutto accidentale. Tanto più che detta norma stabilisce un’unica regola per
spese di conservazione e godimento.
31
Il rilevo è di A. SCARPA, Le spese, in Il nuovo condominio, a cura di Triola, Torino, 2014, p. 873.
32
Pienamente condivisibile in ordine alle spese di conservazione, la motivazione di Cass., 19 giugno 2000, n.
8292, finisce poi col dare rilevanza all’uso “inteso come fatto soggettivo e mutevole” a proposito di
un’intercapedine.
30
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La determinazione del contributo alle spese
203
Bisogna, invece, restare sul piano obiettivo dei beni, riconoscendo
che l’utilità espressa dall’androne in favore di un’unità immobiliare
destinata ad abitazione è qualitativamente diversa da quella che
esprime in favore di uno studio medico. L’interesse alla pulizia, alla
sicurezza e al buono stato di conservazione dell’androne sarà diverso,
da una parte, per chi utilizza l’androne come accesso all’abitazione di
residenti o ospiti e, dall’altra, per chi utilizza lo stesso androne al fine
di rendere accessibile ai propri clienti la sede in cui presta servizi33.
È possibile, a questo punto, tentare di offrire una spiegazione convincente alle perplessità che, in apertura del capitolo, si era ipotizzato che il
proprietario dell’appartamento di maggior valore nutrisse in ordine alla
giustizia dei criteri di ripartizione delle spese nel condominio: la ragione
per cui deve sopportare spese che, in via di fatto, avvantaggiano qualcun altro risiede nella circostanza che lui stesso ha deciso di non sfruttare appieno le potenzialità espresse dal suo immobile, abitando da solo in
grande appartamento di pregio.
Al proprietario che abbia adibito la propria unità immobiliare a studio
medico e non vuole vedere aumentata la propria quota di partecipazione alle spese, invece, si dovrebbe far rilevare che le utilità che detrae da
alcune parti comuni a seguito del mutamento di destinazione del suo
immobile sono diverse da quelle detratte dai condomini che hanno destinato ad abitazione la loro unità immobiliare.
In conclusione, occorre accennare ai casi in cui il mutamento di destinazione si traduce in una radicale trasformazione dell’unità immobiliare,
che ne modifica la fisionomia in modo che, all’esito, la stessa esprime
nuove o diverse utilità rispetto a quelle originarie34: il condomino non
sceglie una certa forma di utilizzazione entro il ventaglio delle possibili
destinazioni del suo bene immobile condominiale, ma ne fa un altro bene o ne modifica l’estensione. Con riferimento alle parti comuni – che
sono pur sempre parti dell’unità immobiliare – egli non si limita a un utilizzo che si può ritenere già compreso nel suo diritto, perché quel diritto
è nato con riferimento a un bene di diversa natura o estensione. Ne
consegue che, ove l’intervento dovesse risultare lecito, determina una
modificazione quantitativa dei diritti sulle parti comuni e, quindi, anche
33
È bene sottolineare che non ci si sta chiedendo chi sporchi più o meno l’androne o il vano scale, ma ci si sta
ponendo la questione dell’incidenza delle utilità espresse dalla parte comune nel contesto dell’utilizzazione
dell’unità immobiliare condominiale.
34
Vedi cap. 4, par. 15.
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204
Capitolo V
della misura sulla partecipazione a ogni genere di spesa. Si pensi al cosiddetto recupero dei sottotetti o alla trasformazione di locali destinati a
deposito in unità abitative35: ipotesi del tutto assimilabili, per i profili
che qui interessano, alla sopraelevazione36.
3. L’utilità concreta e l’utilità giuridica: la dislocazione dell’unità immobiliare nell’edificio ai fini della partecipazione alle spese
L’art. 1117 c.c. indica, quali esempi di parti dell’edificio destinate all’uso
comune, i tetti, i lastrici solari, i pilastri, le travi portanti, le scale eccetera. La destinazione all’utilità comune di detti elementi architettonici pare un dato ricavato direttamente dall’esperienza e conseguente alla
stessa struttura e funzione cui, di fatto, essi assolvono.
Eppure, non si può negare che, se si verificano infiltrazioni di acqua dal
tetto, i condomini che sono maggiormente interessati alla riparazione
sono quelli dell’ultimo piano. In caso di umidità di risalita, invece, saranno i proprietari del piano terra a trarre concreto vantaggio dalle opere
dirette a eliminare o contenere il fenomeno. Alla coibentazione saranno
più interessati i condomini proprietari delle unità immobiliari più esposte. Gli esempi potrebbero continuare37.
In tutti questi casi la giurisprudenza e la dottrina non dubitano del fatto
che la spesa debba essere ripartita in ragione del valore proporzionale.
Spesso la questione non si pone nemmeno: si dà per scontato che il tetto copra tutte le unità immobiliari e, perciò, torni utile a tutti i condomini allo stesso modo, ossia in proporzione al valore della unità immobiliare di ciascuno. Sul piano del linguaggio, si usa riferirsi al tetto dell’edificio piuttosto che al tetto dell’ultimo piano38, benché – nei fatti – ciascun piano sia coperto dal piano sovrastante e non dal tetto.
In realtà, non è parso giusto che alcuni condomini usufruissero delle utilità di copertura offerte dai piani sovrastanti senza partecipare alle spe35
Cass., 1 dicembre 2000, n. 15377, in Foro it., 2001, I, p. 3225, in un caso in cui il rapporto originario dei valori proporzionali dei piani risultava notevolmente alterato in conseguenza del mutamento di uso – la cui legittimità era contestata – dei locali del sottotetto.
36
Per l’assimilazione anche sotto il profilo dell’indennità di sopraelevazione, , vedi Cass., S.U., 30 luglio 2007,
n. 16794.
37
Vedi cap. 1, par. 8.
38
La giurisprudenza pare sorprendentemente orientata a ragionare in senso diverso in materia di sottotetti,
posto che in numerose sentenze si afferma che la funzione di isolamento della sommità dell’edificio avvantaggia unicamente le unità immobiliari dell’ultimo piano. Tra le sentenze che ripetono una massima ormai
tralaticia, Cass., 12 agosto 2001, n. 17249.
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La determinazione del contributo alle spese
205
se per l’impermeabilizzazione e l’isolamento della sommità dell’edificio.
O, per converso, non è parso giusto lasciare dette spese a carico dei soli
proprietari di unità immobiliari non sovrastate da altri piani.
Lo stesso concetto può esprimersi in termini più precisi affermando che
la legge considera comune e ugualmente importante per tutti, indipendentemente dalla dislocazione delle singole unità immobiliari su un piano più o meno alto da terra, la funzione di copertura e impermeabilizzazione della sommità dell’edificio.
Considerazioni del tutto analoghe possono ripetersi per i muri perimetrali e per la loro funzione di protezione dagli agenti atmosferici39, oltre
che per altre numerose tipologie di parti comuni che non è il caso di
elencare.
Se ne ricava che la legge, in materia di condominio, non recepisce puramente e semplicemente le funzioni concretamente assolte dagli elementi architettonici che compongono l’edificio40, ma talvolta se ne discosta. Accanto al criterio definito dell’utilità concreta o effettiva, deve
essere considerato anche il criterio dell’utilità giuridica al fine di determinare secondo criteri ragionevoli la misura del diritto di ciascuno sulle
parti comuni e, quindi, la sua quota di partecipazione alle spese e il peso
del suo voto per valore in assemblea: in altri termini, il legislatore ha ritenuto che tutti i condomini, in quanto beneficiari delle economie conseguenti alla conformazione di un certo organismo edilizio o sulla base
di considerazioni di politica del diritto41, debbano essere considerati
fruitori di determinate utilità.
L’opzione del legislatore in favore di un’utilità giuridica che si discosta da
quella concreta non sempre è chiaramente espressa. Gli indici normativi
più rilevanti sono rappresentati dai criteri di ripartizione dettati per scale,
solai e lastrici, oltre che dalla menzione di alcuni elementi architettonici
tra gli esempi di parti comuni nell’articolo che apre la disciplina del con39
Cass., 23 novembre 2009, n. 24658, in relazione a lavori di rivestitura a cappotto dei muri perimetrali del
fabbricato condominiale, ha affermato che dette spese devono essere ripartire tra i condomini in misura
proporzionale al valore delle rispettive proprietà, e non in proporzione all’uso che ciascun condomino può
farne ex art. 1123, co. 2, c.c., atteso che i muri perimetrali dell’edificio non sono suscettibili di uso diverso da
parte dei condomini. Nello stesso senso Cass., 2 marzo 2007, n. 4978.
40
M. FRAGALI, op. cit., p. 551, molto efficacemente afferma che la legge si conforma alla realtà, «la assume in
una posizione recettiva».
41
Si rinvia, sul punto, alle considerazioni svolte nel cap. 1, par. 8. In questa sede si richiama nuovamente solo
il passo della Relazione al Codice Civile in cui testualmente si afferma che il criterio di ripartizione dettato per
le scale è stato adottato «per non gravare troppo sui proprietari dei piani più alti». L’argomento sarà ripreso
nel seguente par. 4.
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206
Capitolo V
dominio. Tocca all’interprete, poi, tentare di ricostruire criteri per quanto
possibile coerenti. Il compito non è sempre facile, proprio perché sia i criteri di ripartizione legale sia gli esempi di parti comuni fanno riferimento a
determinati elementi architettonici. Occorrerà, di volta in volta, risalire
all’utilità che il legislatore – anche discostandosi dalla funzione concreta –
ha inteso ritenere, in certa misura, comune, e riferirla a tutti gli elementi
architettonici – anche quelli non menzionati – che assolvono alla medesima funzione.
Riferiti alle funzioni e non alle cose42, è evidente che i criteri di ripartizione dettati per scale, solai e lastrici solari non possono affatto dirsi
speciali e, nei fatti, non sono mai stati considerati tali dalla giurisprudenza, come si avrà presto modo di constatare43.
Il fatto, tuttavia, che siano stati riferiti alle cose ha finito col rendere non
univoche le valutazioni del legislatore in ordine alle funzioni, determinando spesso gravi incertezze.
È evidente, per esempio, che l’utilità di isolamento e impermeabilizzazione assicurata dai tetti è considerata dalla legge comune a tutti i condomini proprietari delle unità immobiliari sottostanti: non avrebbe senso, altrimenti, la sua specifica menzione tra gli esempi normativi. Il dato
è confermato anche dal criterio di ripartizione legale dettato per i lastrici
solari, che coinvolge – in certa misura – tutti i condomini (art. 1126 c.c.).
Per i muri perimetrali, è stata la giurisprudenza ad affermare l’irrilevanza
della dislocazione della singola unità immobiliare all’interno dell’edificio,
in contiguità per una parte minore o maggiore con i muri esterni, e
dell’altezza dei singoli piani44.
Per le scale, invece, il legislatore ha adottato un criterio che tiene conto
– sebbene solo in parte – dell’altezza e, quindi, della dislocazione della
singola unità immobiliare.
In via di fatto, però, anche i pilastri o i muri portanti servono in misura
maggiore le utilità immobiliari che si trovano ai piani più alti45. Eppure, si
42
M. COSTANTINO, Il condominio fra proprietà, gestione e responsabilità, in Rass. locazione e cond., 2004, p.
208, con riferimento all’elenco contenuto nell’art. 1117 c.c. e alla conflittualità sulle parti comuni scrive che
«nella realtà, non esistono le cose, ma le funzioni».
43
Vedi i seguenti parr. 4-6.
44
Vedi la precedente nota 39.
45
Basti ricordare, sul punto, le prime dispute in materia di ripartizione delle spese giocate tutte sulla ricerca
di un criterio equo. D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 313 e N. NATALI, La condizione giuridica dei proprietari di una
casa composta di vari piani appartenenti, ciascuno di essi, a persone diverse, Tivoli, 1926, p. 18 ss., ritenevano giusto che i proprietari dei piani inferiori non contribuissero alle spese per le strutture portanti superiori,
specie nel caso in cui il condominio fosse sorto in conseguenza di una sopraelevazione.
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La determinazione del contributo alle spese
207
ritiene unanimemente che le relative spese si ripartiscano in ragione del
solo valore proporzionale46.
Non è chiaro, dunque, se il legislatore abbia voluto ritenere irrilevanti le
utilità concrete delle parti comuni che dipendono dall’altezza, neutralizzandole sul piano giuridico, almeno in parte.
Talvolta, la soluzione è tutt’altro che agevole. Si pensi al caso della sostituzione di una colonna di scarico. Per un verso, non si può dubitare del
fatto che essa sia di fatto utilizzata fino a un’altezza maggiore dai proprietari delle unità immobiliari dei piani più alti, esattamente come il
vano scale e l’impianto di ascensore. Per altro verso, si potrebbe obiettare che anche i pilastri sono utilizzati fino a un’altezza maggiore dai
proprietari dei piani più alti, eppure non si dubita che le relative spese si
ripartiscono indipendentemente dall’altezza del piano.
Non c’è da stupirsi, quindi, se la giurisprudenza che si è occupata della
questione della colonna di scarico ha stabilito che la spesa si ripartisca
sulla base del valore proporzionale, senza tener conto dell’altezza47.
Si pensi – per passare a un caso di maggior impatto – alla ripartizione
delle spese di consumo per il riscaldamento o per il raffrescamento in
presenza di impianti centralizzati.
La legge non detta alcun criterio specifico di ripartizione. Tutti i criteri in
uso per gli impianti centralizzati (valore proporzionale, superfici radianti,
cubatura ecc.48) finiscono, tuttavia, col distribuire tra tutti i condomini il
maggiore o minore consumo dovuto alla particolare esposizione o dislocazione nell’edificio della singola unità immobiliare, non limitandosi –
dunque – a riflettere l’utilità concreta della spesa. Anche in caso di distacco, chi si dota di impianto autonomo continua a pagare una quota di
consumo perequativa per gli appartamenti più esposti: si ritiene, infatti,
che la sua partecipazione alle spese di consumo cessi solo in quanto il
suo distacco si traduca in un minor consumo per gli altri49.
46
Per i pilastri, Cass., 13 febbraio 2008, n. 3470. Con riferimento ai muri maestri, Cass., 27 dicembre 1999, n.
14598; Cass., 19 novembre 1993, n. 11435, in Arch. locaz., 1994, p. 316.
47
Vedi Cass., 18 dicembre 1995, n. 12854 e, specialmente, Cass., 12 ottobre 1979, n. 5331.
48
La giurisprudenza pare prediligere il criterio delle superfici radianti. In questo senso Cass., 26 gennaio
1995, n. 946. Ritiene questo l’unico criterio valido a realizzare una ripartizione in misura proporzionale
all’uso potenziale R. TRIOLA, op. cit., p. 687. Con riferimento al criterio della cubatura adottato in un regolamento contrattuale di condominio, Cass., 20 marzo 1998, n. 2968.
49
Cass., 30 aprile 2014, n. 9526, richiama in motivazione il nuovo art. 1118 c.c. a proposito del distacco e
conferma che il condomino che decida di non servirsi dell’impianto centralizzato potrà pretendere l’esonero
dalle spese di consumo solo nei limiti in cui il suo distacco abbia determinato un risparmio di spesa per gli altri condomini. Nello stesso senso, Cass., 30 marzo 2012, n. 5331.
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Capitolo V
Per il caso di adozione di sistemi di termoregolazione o di contabilizzazione del calore, la L. n. 10/1991 – all’art. 26, co. 5 – disponeva che le
spese di riscaldamento si ripartissero «in base al consumo effettivamente registrato».
Lo scopo perseguito dal legislatore era quello di incoraggiare comportamenti virtuosi, assicurando un risparmio di spesa a chi contiene i consumi volontari. Il dato normativo, tuttavia, appare compatibile con
l’adozione di coefficienti che, applicati ai consumi rilevati o ai consumi
ideali50, neutralizzino le conseguenze della diversa esposizione delle singole unità immobiliari. Il ricorso a coefficienti di questo genere, anzi, pare una conclusione obbligata51. Non si può ritenere, infatti, che il legislatore abbia inteso stravolgere i criteri di ripartizione adottati in passato,
penalizzando i proprietari delle unità immobiliari più esposte. Un mutamento così rilevante del criterio di ripartizione, in grado di stravolgere i
valori di tutte le unità immobiliari condominiali, avrebbe quantomeno
richiesto una chiara presa di posizione.
Ad analoghe conclusioni si deve giungere in base all’art. 9, lettera d), del
D.Lgs. n. 102/2014, che richiama espressamente la norma tecnica UNI
10200 dettata in tema di ripartizione delle spese di riscaldamento, facendone il criterio legale per gli edifici condominiali dotati di sistemi di
contabilizzazione di calore.
4. Il discusso criterio legale di ripartizione per scale e ascensore: spese
di conservazione e spese di godimento
È perfino ovvio rilevare che con la parola scale si intende la scalinata
comune che, negli edifici condominiali, rende accessibili i vari piani.
La funzione principale delle scale comuni, perciò, consiste nell’assicurare
l’accesso alle unità immobiliari che si trovano ai diversi piani. Sul piano
dell’utilità concreta, le prime due rampe assicurano l’accesso alle unità
50
Il riferimento ai consumi ideali evita che comportamenti non virtuosi del singolo possano andare a danno
degli altri. Sul punto, si rinvia a E. RICCIO-G. CAPPIO, Ripartizione spese riscaldamento in base alla norma UNI
10200:2013, in Amministrare immobili, 2013, p. 613.
51
Per quanto possa valere, è indicativo che la deliberazione della giunta regionale lombarda IX/2601 del 30
novembre 2011 abbia stabilito che, nella progettazione del sistema di termoregolazione e contabilizzazione dell’energia termica, il tecnico deve tenere conto delle diverse esposizioni delle unità abitative e
degli ambienti confinanti, in maniera specifica per i primi e gli ultimi piani dell’edificio (risulta, inoltre, richiamata la normativa UNI 10.200, della quale esiste una versione del 2013, pure richiamata dal Regolamento di attuazione dell’art. 4, co. 1, lettere a) e b), del D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia).
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La determinazione del contributo alle spese
209
immobiliari del primo piano e, assieme alle due successive, garantiscono
l’accesso alle unità immobiliari del secondo piano e così via. Tutte insieme, inoltre, rendono generalmente accessibile il lastrico solare o il
tetto. Lo stato di conservazione delle scale, infine, contribuisce a determinare il decoro dell’edificio52.
L’espressa menzione di detto elemento architettonico tra gli esempi di
parti comuni (art. 1117, n. 1, c.c.)53 ha indotto a ritenere che esse siano
sempre comuni a tutti i condomini – salvo che il contrario non risulti dal
titolo – anche quando chiaramente prive di qualsiasi utilità concreta per
determinate unità immobiliari.
Si pensi ai locali con accesso diretto dalla strada e privi di collegamento
all’androne che conduce alle scale. Per difendere la proprietà comune
delle scale in casi di questo tipo, si tenta spesso di immaginare improbabili utilità concrete: diffuso il riferimento alla necessità di accedere al
tetto per provvedere alle opere di riparazione. Si tratta, tuttavia, di un
argomento molto debole. Se, infatti, sulla sommità dell’edificio si trova
un lastrico solare di proprietà individuale o una terrazza a servizio di un
appartamento, occorrerà in ogni caso concordare le modalità di accesso
con il condomino interessato e, se del caso, provvedere al pagamento di
un’indennità (art. 843 c.c.)54. L’altruità del lastrico o della terrazza, insomma, non è di ostacolo alle opere necessarie per la conservazione
della parte comune: a maggior ragione non può essere di ostacolo a dette opere la circostanza che il vano scale non sia oggetto di proprietà comune tra tutti i condomini interessati alle opere sul tetto55.
52
G. BRANCA, op. cit., p. 485 s., sopravvalutando il profilo che attiene al decoro, giunge ad affermare che
l’interesse all’armonia dell’edificio è sufficiente ad attribuire anche ai condomini che non si servono di determinate scale lo stesso potere decisionale di chi se ne serve (sul punto, vedi cap. 1, par. 9). In materia di ripartizione delle spese, invece, ammette che il proprietario del pianterreno non debba contribuirvi affatto.
53
Sul carattere fuorviante delle indicazioni esemplificative di elementi architettonici generalmente destinati
all’utilità comune, si rinvia al cap. 1, par. 8.
54
La giurisprudenza ritiene pacificamente che spetti al condominio provvedere alla manutenzione del lastrico
solare anche quando di proprietà o uso individuale. Vedi, per tutte, Cass., 17 marzo 2003, n. 642.
55
A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 393, ritiene che l’accesso saltuario al solo fine di provvedere
alle opere di riparazione del tetto non è un uso normale e, pertanto, non può essere preso in considerazione per
la ripartizione delle spese; R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 692, ritiene che coinvolgere i proprietari del
piano terra nella ripartizione delle spese per le scale solo per la presenza di un impianto comune sul lastrico solare significa travisare la ratio della norma; G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. ScialojaBranca, Bologna-Roma, 1982, p. 491, rileva che la norma in esame ripartisce le spese tra i proprietari dei piani a
cui le scale servono. Ne deduce che non possono essere chiamati a partecipare alle spese i proprietari dei pianterreni; L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V, 3, Torino, 1956, p. 35, rileva che la scala è comune
se serve d’accesso al lastrico solare o alla terrazza di cui tutti abbiano diritto di servirsi.
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Capitolo V
Per continuare a considerare le scale sempre e comunque oggetto di
proprietà comune tra tutti i condomini, salvo che il contrario non risulti
dal titolo56, sarebbe preferibile utilizzare argomenti diretti a dimostrare
che il legislatore, sulla base di considerazioni carattere economico o di
politica del diritto, ha ritenuto di porre le spese per le scale, in una certa
misura, a carico di tutti i condomini.
In proposito, si può subito rilevare che le scale comuni, complessivamente intese, esprimono utilità omogenee per tutte le unità immobiliari
alla cui utilità sono destinate, ma servono in misura diversa le unità immobiliari che si trovano ai diversi piani57.
È evidente che la quantità di utilità concretamente espresse dalle scale
comuni in favore di ciascuna unità immobiliare è proporzionale sia al valore di essa, sia all’altezza del piano su cui si trova.
Per un verso, infatti, l’utilità delle scale comuni non può essere valutata
disgiuntamente dalle utilità – ossia dal valore – del bene cui consentono
di accedere58. Per altro verso, occorre considerare che i proprietari dei
piani superiori utilizzano per l’accesso alla propria unità immobiliare una
maggiore quantità di scale rispetto ai proprietari dei piani inferiori59.
Sono chiare, pertanto, le ragioni per cui le spese si dividono sia in proporzione al valore sia in proporzione all’altezza. Meno chiaro è il perché
i due criteri siano stati combinati nel senso indicato nella norma: le spese di manutenzione e ricostruzione si ripartiscono per metà in ragione
del valore proporzionale e per l’altra metà in ragione dell’altezza, dispone l’art. 1124, co. 1, c.c.
Si tratta di un criterio chiaramente empirico, che conduce – nella gran
parte dei casi – a ripartizioni ragionevoli.
Tuttavia, negli edifici di molti piani, i proprietari dei piani più bassi sono
chiamati a partecipare alla metà della spesa di riparazione per le scale
che non servono – se non in minima parte – le loro unità immobiliari.
Per altro verso, potrebbe risultare eccessiva la misura di partecipazione
alla spesa dei proprietari di unità immobiliari di scarso valore situate ai
56
La giurisprudenza ha più volte affermato che le scale sono oggetto di proprietà comune tra tutti i condomini (ex multis, Cass., 10 luglio 2007, n. 15444, in Arch. locazioni, 2008, I, p. 52) e, in contrasto con la dottrina
dominante, ha ritenuto obbligati alle spese anche i proprietari di locali al piano terreno. Tra le altre, Cass., 6
giugno 1977, n. 2328, in Riv. giur. edilizia, 1978, I, p. 495, con riferimento anche alle spese di illuminazione,
nonché App. Milano, 3 luglio 1992, in Rass. locazioni e cond., 1993, p. 309.
57
L’espressione è mutuata dall’art. 1123, co. 2, c.c. Si rinvia, sul punto, al precedente par. 1.
58
Vedi, sul punto, il cap. 1, par. 9, con riferimento al portone d’ingresso.
59
Ritiene che il criterio di ripartizione tenga conto del logorio delle scale, R. TRIOLA, op. cit., p. 695.
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La determinazione del contributo alle spese
211
piani alti, specie in edifici di molti piani: si pensi, per esempio, a un piccolo locale o a un ammezzato destinato a deposito60.
Entrambi i rilievi paiono fondati e la ragione risiede nel fatto che la norma in esame dispone che ciascuno dei criteri di ripartizione (valore e altezza) debba essere applicato alla metà della spesa, anziché prevedere
l’applicazione combinata di entrambi i criteri all’intera spesa.
Dividendo a metà la spesa e applicando solo un criterio per una metà e
solo l’altro criterio per l’altra, come è ovvio, si giunge inevitabilmente a
risultati irragionevoli nei casi in cui i coefficienti ricavati sulla base
dell’uno o dell’altro criterio sono o molto piccoli o molto grandi.
Si avrebbe la certezza di ottenere risultati sempre coerenti, lo si ripete,
solo se i due criteri fossero applicati in sequenza all’intera spesa, secondo il metodo del doppio coefficiente61.
A tal fine, occorrerebbe prima applicare il coefficiente che consente di
ripartire la spesa in proporzione al valore e, poi, applicare al risultato il
coefficiente che tiene conto dell’altezza62.
Rispetto al criterio legale, risulterebbero alleggerite dalla partecipazione
alle spese le unità immobiliari ai piani inferiori e quelle di basso valore
situate ai piani superiori.
Occorre tuttavia rilevare che la formulazione della norma probabilmente
non è stata determinata da un difetto di conoscenze aritmetiche da parte del legislatore, ma da una precisa scelta legislativa in favore di un criterio che si discostasse dall’utilità concreta. Nella Relazione al Codice Civile, infatti, testualmente si afferma che il criterio è stato adottato «per
non gravare troppo sui proprietari dei piani più alti», come si riteneva
che accadesse – occorre supporre – in applicazione del criterio legale
adottato nel codice civile previgente, fondato sull’utilità concreta63.
60
Del resto, il co. 2 dell’art. 1124 c.c. è stato dettato proprio da considerazioni di questo tipo. Nella Relazione
al codice civile, al n. 529, si legge che sarebbe eccessivo che i proprietari delle soffitte o camere a tetto e dei
palchi morti contribuiscano in ragione dell’altezza.
61
Il metodo del doppio coefficiente è indicato da D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960, p. 327, il quale contesta vivacemente il criterio legale ritenendolo «sine causa» e invitando i suoi
lettori a derogarvi mediante una diversa convenzione ex art. 1223 c.c.
62
Per esempio, per dividere la spesa fra tre unità immobiliari sovrastanti, il coefficiente per altezza sarebbe
pari 0,5 per il primo piano, a 1 per il secondo e a 1,5 per il terzo. Al fine di tener conto della funzione di accesso al lastrico solare o al tetto e dell’interesse comune al decoro dell’edificio, una piccola parte delle spese
dovrebbe essere divisa solo sulla base del valore proporzionale.
63
L’art. 562, co. 4, c.c. 1865, disponeva: «le scale sono costrutte e mantenute dai proprietari dei diversi piani
a cui servono, in ragione del valore di ciascun piano».
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212
Capitolo V
Con le considerazioni appena svolte non si vuole contestare la scelta del legislatore di porre le spese per le scale a carico dei proprietari delle unità
immobiliari situate ai piani inferiori in misura superiore rispetto alla utilità
concreta che essi proporzionalmente detraggono da esse. In effetti, per ritenere ragionevole una scelta di questo tipo è sufficiente considerare che le
scale sono necessarie per lo sviluppo dell’edificio in altezza e, conseguentemente, per consentire a tutti i condomini di realizzare maggiori economie64.
Si deve, però, porre in rilievo che il criterio legale – come sempre accade
quando si prescinde (anche solo per metà della spesa) dal valore – può
portare a risultati irragionevoli.
Per altro verso, l’adozione di un criterio che si discosta dall’utilità concreta in modo non del tutto chiaro ha generato incertezze circa la ripartizione di spese che potrebbero sfuggire all’applicazione della norma,
almeno sulla base di una interpretazione strettamente letterale.
Pur ammettendosi che ringhiere, passamani e pianerottoli sono parte
delle scale65, si è rilevato che il criterio di ripartizione legale si riferisce
solo alle spese di manutenzione e ricostruzione e che, pertanto, non sarebbe applicabile alle le spese di pulizia e illuminazione.
Ne è derivato un quadro piuttosto confuso in cui non sono mancati riferimenti al numero di persone che hanno accesso alle unità immobiliari66
o ai condomini che – in relazione al piano occupato dalla propria unità
immobiliare – si debba presumere sporchino di più67. In contrario, è stato rilevato che, in questo modo, si confonde l’utilità del servizio di pulizia con le ragioni che ne rendono necessaria l’erogazione68.
Con riferimento all’illuminazione si è affermato che si tratta di spesa per
l’uso69 e non per la conservazione o manutenzione. Il riferimento all’uso,
anche in questo caso, si è rivelato piuttosto equivoco, legittimando cri-
64
Vedi precedente par. 3, nonché il cap. 1, par. 8. G. BRANCA, op. cit., p. 491, il quale non esclude che si tratti
di criterio arbitrario.
65
Per tutti, G. BRANCA, ivi, p. 494.
66
L. SALIS, Spese di manutenzione e spese di esercizio d’impianti e servizi comuni, in Riv. giur. edilizia, 1967, I,
p. 301.
67
Cass., 12 gennaio 2007, n. 432, in Giust. civ., 2007, p. 1111, con nota di N. IZZO, Spese di pulizia e illuminazione delle scale: un nuovo, ma discutibile, criterio di ripartizione tra i condomini.
68
R. TRIOLA, op. cit., p. 699. Nel senso dell’applicabilità dell’art. 1124 c.c. alle spese di pulizia, G. BRANCA, op.
cit., p. 493; cfr. D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 329.
69
Cass., 3 ottobre 1996, n. 8657.
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La determinazione del contributo alle spese
213
teri di ripartizione diametralmente opposti: dalla ripartizione in ragione
del solo valore70 alla ripartizione in ragione della sola altezza71.
Negli ultimi anni, la giurisprudenza si è assestata sull’applicabilità «integrale del criterio dell’altezza del piano»72. La soluzione presenta
l’indubbio pregio di escludere dalla ripartizione delle spese di pulizia e illuminazione i proprietari di unità immobiliari che non hanno accesso al
vano scale, ma trascura la possibilità che i valori delle unità immobiliari
che si trovano a piani diversi potrebbero essere molto differenti.
In proposito, si può solo rilevare che le spese di pulizia e manutenzione
devono senz’altro considerarsi spese di godimento e, perciò, suscettibili
di essere ripartite in relazione alle diverse utilità che le parti comuni interessate esprimono nel contesto dell’utilizzazione di ciascuna unità
immobiliare secondo la destinazione in atto (par. 2). Ebbene, proprio la
rilevanza della destinazione in atto mal si concilia con un criterio di ripartizione che, fondato sull’utilità giuridica, non può che rimanere sempre uguale a se stesso. Per le spese di pulizia e illuminazione, allora, appare preferibile disattendere il criterio dell’utilità giuridica, riferito nella
norma alle sole spese di conservazione e manutenzione, in favore del
criterio di ripartizione che rifletta l’utilità concreta, determinabile sulla
base del metodo del doppio coefficiente, tenuto conto anche delle diverse destinazioni d’uso delle singole unità immobiliari.
Occorre aggiungere, infine, che la novella del 201273, recependo i risultati cui erano giunti dottrina e giurisprudenza prevalenti, ha ritenuto
applicabile il criterio di ripartizione delle spese dettato per le scale anche per la manutenzione e sostituzione degli ascensori74.
Per l’installazione di nuovi ascensori in edifici che ne sono privi, invece,
ci si è sempre riferiti al criterio di ripartizione fondato sul valore75. Sul
punto ci si limita a rilevare che l’installazione dell’ascensore in un edificio che ne era privo può modificare sensibilmente i valori proporzionali
delle diverse unità immobiliari. Gli appartamenti ai piani più alti, infatti,
70
F. DE PAOLA, Nota in tema di ripartizione delle spese per la pulizia e l’illuminazione delle scale condominiali,
in Giur. it., 2007, p. 11, il quale – tuttavia – dichiara opinabile detta conclusione e auspica un intervento delle
Sezioni Unite.
71
Cass., 12 gennaio 2007, n. 432.
72
Vedi nota 71.
73
L’art. 8 dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, «Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici.
74
Il testo originario dell’art. 1124 c.c. non contiene alcun riferimento agli ascensori.
75
Per tutti, G. BRANCA, op. cit., p. 494; ex multis, Cass., 17 febbraio 2005, n. 3264, in Riv. giur. edilizia, 2005, I,
p. 1496; Cass., 25 marzo 2004, n. 5975 e Cass., 10 gennaio 1996, n. 165, in Arch. locazioni, 1996, p. 529.
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214
Capitolo V
vedranno aumentato il loro valore in maniera decisamente superiore rispetto a quelli situati ai piani più bassi. L’innovazione, pertanto, renderà
necessaria la revisione delle tabelle millesimali.
Diventa difficile, a questo punto, difendere un criterio di ripartizione delle spese di installazione che non rifletta il diverso incremento di valore
che l’innovazione determina per le singole unità immobiliari.
D’altra parte, è sufficiente raffrontare le tabelle millesimali che non tenevano conto della presenza dell’ascensore con quelle riviste a seguito
dell’installazione, per ricavare tutte le informazioni necessarie per una
ripartizione che tenga conto dell’effettiva e obiettiva utilità che l’opera
ha arrecato a ciascuna unità immobiliare.
5. Il criterio legale di ripartizione per soffitti, volte e solai: il rischio di
risultati irragionevoli
Ciascun condomino «fa e mantiene il pavimento su cui cammina», disponeva l’art. 562 del c.c. del 1865. Resta a carico del proprietario di ciascuna unità immobiliare – dispone l’art. 1125 c.c. – la manutenzione e il
rifacimento del pavimento e del soffitto della propria unità immobiliare.
Le spese per la manutenzione o ricostruzione di solai e volte – che sono
le strutture che sostengono l’unità immobiliare sovrastante e ricoprono
quella sottostante – si dividono in parti uguali tra i proprietari dei due
piani «l’uno all’altro sovrastanti»76.
Il criterio di ripartizione legale lascia qualche perplessità dovuta alla totale irrilevanza del valore ai fini della ripartizione della spesa77.
Infatti, se pure appare ragionevole ritenere che delle utilità strutturali
espresse dal solaio beneficino nella stessa misura le sole unità immobiliari divise da quel solaio, occorre riconoscere – anche in questo caso –
che l’utilità assicurata dal solaio a ciascuna unità immobiliare non può
essere valutata separatamente dalla quantità di utilità – ossia dal valore – che quelle stesse unità immobiliari esprimono complessivamente78.
76
Nel testo, per semplicità di esposizione, si dà per scontato che le unità immobiliari divise dal solaio siano
perfettamente sovrapposte. Come è ovvio, quando ciò non accade, la spesa si divide in ragione della superficie del piano occupata da ciascun appartamento.
77
Sull’imprescindibilità del criterio del valore inteso come indice dell’utilità dell’opera, vedi cap. 1, par. 10
nonché precedente par. 1.
78
G. BRANCA, Comunione, condominio negli edifici, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 498 s.,
afferma che non può dirsi che il soffitto dia maggiore utilità a una delle due unità immobiliari divise dal solaio: pertanto, vale il criterio della metà.
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La determinazione del contributo alle spese
215
E allora il rischio di ripartizioni inique diventa inevitabile.
Basti pensare a unità immobiliari il cui valore non può essere realisticamente determinato con riferimento alla sola superficie: quando, per
esempio, quella superiore ha volte alte e si presenta come un appartamento signorile e quella inferiore è un mezzanino destinato a deposito o
magazzino privo dei requisiti richiesti per l’abitabilità. In casi del genere
la misura dell’interesse dei due condomini rispetto alla riparazione del
solaio non può ragionevolmente essere ritenuta equivalente, con conseguente palese iniquità del criterio di ripartizione legale.
Come è evidente, si otterrebbero risultati più coerenti se la spesa fosse
ripartita in ragione del valore di ciascuna delle due unità immobiliari divise dal solaio, tenendo conto della sola utilità concreta.
In contrario, si potrebbe a ragione obiettare che, in questo modo, la misura di partecipazione alle spese per lo stesso solaio dipenderebbe dalla
circostanza, puramente accidentale, del pregio delle unità immobiliari
sottostanti o sovrastanti ciascuna unità immobiliare. L’incongruenza,
tuttavia, è l’effetto inevitabile della scelta di adottare un criterio legale
di ripartizione delle spese per ciascun solaio che coinvolge i soli proprietari delle due unità immobiliari “l’una all’altra sovrastanti”, anziché –
come pure è stato sostenuto da autorevole dottrina79 – optare per una
ripartizione delle spese per tutti i solai tra tutti i condomini secondo il
criterio del valore proporzionale.
Identificata la doppia funzione del solaio nel fare da copertura per
l’unità immobiliare sottostante e da sostegno per quella sovrastante, lo
stesso criterio legale è stato ritenuto applicabile anche alle terrazze e ai
balconi incassati nel corpo dell’edificio (cosiddette logge coperte). La soletta dei balconi aggettanti, invece, si ritiene parte dell’unità immobiliare da cui si accede al balcone80: alla manutenzione e ricostruzione, dunque, provvede in proprio il proprietario di essa.
79
D.R. PERETTI GRIVA, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960, p. 331, rileva che il criterio legale
comporta un certo sacrificio della giustizia distributiva; A. VISCO, Le case in condominio, Milano, 1964, p. 387,
ritiene che i solai rientrino nella proprietà condominiale per le loro caratteristiche strutturali; nello stesso
senso, G. TERZAGO, Il condominio – Trattato teorico-pratico, Milano, 2003, p. 675 s.
80
La giurisprudenza, ormai pacifica, ritiene che le solette dei balconi tornino utili ai soli proprietari degli appartamenti di cui sono parte. V. Cass., 12 gennaio 2011, n. 587, in Giust. civ., 2011, p. 621; Cass., 5 gennaio
2011, n. 218, con nota di C.M. CIARLA, Balcone “aggettante”: appartiene esclusivamente al titolare
dell’immobile cui accede; Cass., 30 luglio 2004, n. 14576, in Rass. locazioni, 2005, p. 1128, con nota di M. DE
TILLA, I balconi sono condominiali o di proprietà dei condomini?, in cui si afferma che i balconi aggettanti sono
un “prolungamento” degli appartamenti.
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216
Capitolo V
La ragione di un simile trattamento differenziato deve essere rintracciata nel fatto che normalmente i balconi aggettanti sono stretti, lunghi e
aperti su tre lati. Pertanto, la funzione di sostegno del balcone sovrastante assolta dalla soletta appare largamente preminente rispetto a
quella di copertura del balcone sottostante, il quale resta comunque
ampiamente esposto agli agenti atmosferici81.
A proposito dei solai dei piani interrati sovrastati da cortili, strade condominiali o altre parti comuni, il problema di stabilire se le relative spese
di manutenzione e ricostruzione debbano essere ripartite secondo il criterio dettato per i solai oppure secondo quello previsto per i lastrici solari è stato risolto dalla giurisprudenza prevalente in favore della prima
soluzione, sul rilievo che l’asfalto o la pavimentazione sono destinati
all’esclusiva utilità della parte comune sovrastante e che, pertanto, la relativa spesa non può essere posta – nemmeno in parte – a carico dei
proprietari dei locali sottostanti82. Si tratta di una conclusione pienamente condivisibile: la pavimentazione o l’asfalto della parte comune
sono del tutto assimilabili al pavimento degli appartamenti83; il soffitto
del piano interrato è un soffitto come gli altri. Occorre solo precisare che
le spese per l’isolamento termico, che attengono evidentemente alla
funzione di copertura dei locali sottostanti, restano a carico dei proprietari dei piani interrati84.
6. Il criterio legale di ripartizione e le diverse funzioni dei lastrici solari:
copertura dell’edificio, solaio dell’ultimo piano e superficie praticabile
Il lastrico solare è una delle possibili coperture della sommità
dell’edificio. Si tratta della superficie superiore del solaio dell’ultimo
piano, rivestito da uno strato di materiale coibentante e un manto impermeabilizzante che lo rende praticabile, ma non propriamente ameno.
In effetti, l’art. 1126 c.c. – al contrario dell’art. 1125 c.c. – non contiene
alcun riferimento al pavimento, proprio perché, in genere, è lo stesso
81
Cass., 5 gennaio 2011, n. 218, in Dir. e giust., 2011, p. 15, in Riv. giur. ed., 2011, p. 483, che distingue balconi aggettanti da terrazze incassate sulla base della funzione di copertura cui queste ultime assolvono. Nello stesso senso, Cass., 27 luglio 2012, n. 13059.
82
Ex multis, Cass., 14 settembre 2005, n. 18194, in Vita not., 2005, p. 962.
83
In questi termini, Cass., 19 luglio 2011, n. 15841, in Dir. e giust., 2011, p. 333, con nota di I. MEO, Infiltrazioni d’acqua e ripartizione spese per la copertura dei box. Un rompicapo interpretativo.
84
Vedi Cass., 16 febbraio 2012, n. 2243, in Dir. e giust., 2012, p. 430, con nota di D. PALOMBELLA, Il locale semi-interrato soffre di umidità di risalita? A pagarne le spese è il proprietario; Cass., 3 agosto 2012, n. 14097,
in Immob. e propr., 2012, p. 669.
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La determinazione del contributo alle spese
217
materiale impermeabilizzante a fungere al contempo da piano di calpestio.
Del resto, nel linguaggio comune indichiamo con la parola terrazzo quella stessa superficie, ricoperta da un vero e proprio pavimento, completamente rifinita e destinata all’intrattenimento. Il lastrico solare, invece,
è solitamente adibito a funzioni di servizio85: stenditoio, alloggiamento
di impianti, installazione di antenne86 eccetera.
Nell’elemento architettonico lastrico solare – pertanto – si sommano tre
diverse utilità: per l’intero edificio, quella di copertura e protezione; per
gli appartamenti dell’ultimo piano, quella tipica del solaio sovrastante;
per coloro che ne hanno l’uso, quelle connesse alla sua praticabilità87.
Il legislatore, tuttavia, ha deciso di dettare un unico criterio di ripartizione delle spese, anziché tre criteri distinti per le opere di impermeabilizzazione e isolamento termico dell’edificio, per quelle dirette ad assicurare la stabilità del solaio sovrastante l’ultimo piano e per quelle necessarie a garantirne la praticabilità. In particolare, i due terzi della spesa sono stati posti a carico di tutti i condomini e si ripartiscono secondo il criterio del valore proporzionale88; il restante terzo a carico di chi ha diritto
all’uso del lastrico89.
È evidente che, in questo caso, l’opzione per l’utilità giuridica è determinata dalla necessità di disporre di un criterio di semplice applicazione,
per quanto approssimativo ed empirico90.
85
Una recente sentenza, Cass., 13 dicembre 2013, n. 27942, ha escluso che facciano parte del lastrico solare
le sommità dei torrini del locale ascensore e della gabbia scale. Conseguentemente ha escluso che il proprietario del lastrico solare, unico condomino ad avervi accesso, potesse realizzarvi opere in sopraelevazione.
86
Vedi cap. 4, par. 6.
87
L. SALIS, Il condominio negli edifici, in Tratt. Vassalli, V-3, Torino, 1956, p. 30, rileva che solo apparentemente il lastrico (o la terrazza) forma «una stessa cosa col tetto: in realtà abbiamo invece due cose solo che si rilevi la possibilità dell’esistenza di un tetto senza terrazza (o lastrico o giardino pensile). Il lastrico risulta costituito da un insieme di opere in più di quelle necessarie per la costruzione del tetto: queste opere, che potrebbero dirsi sovrabbondanti alla funzione di copertura dell’edificio, danno luogo al sorgere di una nuova
cosa, la quale, se pure in gran parte costituita da queste stesse opere che adempiono alla funzione di copertura, risulta anche da altre opere».
88
Come è ovvio, se il proprietario del lastrico solare è anche proprietario di una unità immobiliare sottostante sarà a suo carico, in tale sua veste, anche una parte dei due terzi della spesa proporzionale al valore della
sua unità immobiliare. Da ultimo, Cass., 23 gennaio 2014, n. 1451.
89
Uso esclusivo e proprietà esclusiva (rectius individuale) ono espressioni da considerare del tutto equivalenti con riferimento ai lastrici solari. In tal senso, G. TERZAGO, Il condominio – Trattato teorico-pratico, Milano,
2003, p. 659,.
90
In effetti risulterebbe davvero difficile applicare distinti criteri di ripartizione a un unico intervento commissionato con un unico contratto di appalto. Inoltre, se – per esempio – la guaina ha esclusivamente funzione impermeabilizzante, occorre considerare che il rivestimento deve essere realizzato in modo da assicurare a un tempo la praticabilità del lastrico solare e l’impermeabilizzazione dell’edificio. In casi come
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Capitolo V
Si pensi che il criterio legale di ripartizione trascura di considerare la posizione differenziata dei proprietari delle unità immobiliari dell’ultimo
piano91. Essi, infatti, concorrono alle spese per il solaio sovrastante, per i
due terzi, insieme con tutti i condomini, a differenza degli altri, che le
dividono per metà con i soli proprietari dei piani sovrastanti (art. 1125
c.c.).
Anche in questo caso, identificate le distinte funzioni del lastrico solare
si è ritenuto di estendere l’applicabilità dello stesso criterio legale di ripartizione delle spese alle terrazze, ovvero a quelle aree scoperte, generalmente accessibili da singole unità immobiliari, che fanno anche da
copertura per una parte dell’edificio.
Tuttavia, le terrazze – denominate “a livello” quando situate sullo stesso
piano dell’appartamento da cui vi si accede – sono in genere completamente rifinite e dotate di pavimentazione da esterno, oltre che di ringhiere o parapetti.
Se la giurisprudenza ha chiarito che restano a carico del proprietario della terrazza le spese riguardanti i parapetti e le ringhiere92, è stato opportunamente segnalato che l’applicazione del criterio di ripartizione dettato per i lastrici solari alle terrazze a livello conduce spesso a risultati incoerenti93. Nel determinare la misura di partecipazione alle spese di chi
si avvale delle utilità di calpestio dei lastrici solari, infatti, il legislatore ha
considerato il caso in cui il solaio dell’ultimo piano sia dotato di una copertura che lo renda praticabile, e non quello, diverso, che si tratti di
una superficie propriamente pavimentata, come accade per gli altri solai.
Ad ogni modo, occorre rilevare che nemmeno il criterio dettato per i solai risulta analogicamente applicabile alle terrazze, posto che detta norma, occupandosi dei solai che non svolgono alcuna funzione di copertura dell’edificio, non considera la presenza sugli stessi di rivestimenti iso-
quest’ultimo sarebbe, pertanto, oltremodo complicato stabilire quanta parte della spesa di una medesima
opera è determinata da un’utilità e quanta dall’altra.
91
M. TEDESCHI, Lastrico solare (o tetto) e ripartizione delle spese tra i condomini, in Foro it., 1960, I, p. 440.
92
Salvo che si tratti di elementi decorativi della facciata: vedi Cass., 18 marzo 1989, n. 1361, in Arch. locazioni, 1989, p. 472; contra Cass., 1 dicembre 2000, n. 15389, in Riv. giur. edilizia, 2001, I, p. 150; Cass., 13 novembre 1961, n. 2651, in Giust. civ., 1962, I, p. 942.
93
R. TRIOLA, Il condominio, Milano, 2007, p. 717 s. Si potrebbe rilevare, inoltre, che le terrazze a livello sono
dotate di vero e proprio pavimento e non di un mero rivestimento impermeabilizzante e calpestabile a un
tempo.
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La determinazione del contributo alle spese
219
lanti e impermeabilizzanti la cui utilità giuridica fa capo a tutti i condomini94.
In mancanza di un criterio legale di ripartizione delle spese dettato per
“cose” che svolgano funzioni analoghe a quella delle terrazze, conviene
considerare separatamente le diverse utilità cui assolve il solaio della
terrazza: le spese per la manutenzione o il rifacimento dello strato coibentante o impermeabilizzante saranno ripartite in base al valore proporzionale, perché si tratta di utilità giuridica che fa capo a tutti; al pavimento provvederà in proprio il proprietario della terrazza; le spese per
il solaio saranno ripartite tra quest’ultimo e il proprietario dell’unità
immobiliare sottostante a norma dell’art. 1125 c.c.95.
7. La diversa convenzione sulla ripartizione delle spese: autonomia
privata e controllo di meritevolezza
L’inciso «salva diversa convenzione» chiude il co. 1 dell’art. 1123 c.c. Curiosamente il co. 2 non contiene un analogo riferimento, ma dottrina e
giurisprudenza non hanno dato molto peso all’omissione, riconoscendo
ampi spazi all’autonomia privata nella deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese.
In numerose sentenze si afferma che, per accordo di tutti i condomini,
possono stabilirsi i più vari criteri di ripartizione delle spese, anche esonerando alcuni condomini dalla partecipazione a tutte le spese o ad alcune di esse96.
La conclusione sembra quantomeno affrettata.
Come è noto, infatti, non a tutti gli accordi l’ordinamento riconosce gli
effetti tipici dell’atto di autonomia privata. A tal fine, occorre quantomeno che l’accordo sia diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela97.
94
In questo senso, tra le altre, Cass., 1 dicembre 2000, n. 15389, in Arch. locazioni, 2001, p. 824.
Vedi precedente par. 5.
96
Ex multis, Cass., 12 giugno 2001, in Foro it., 2001, I, p. 2491, in cui si afferma che, trattandosi di diritti disponibili, con la comune volontà delle parti si può adottare una tabella che esoneri alcuni condomini
dall’obbligo di concorrere al pagamento delle spese condominiali; Cass., 26 febbraio 2000, in Foro it., 2000, I,
p. 3230, in cui si rileva che, se le tabelle sono contrattuali e sono state redatte in modo non corrispondente
al loro valore reale, sono impugnabili solo se affette da errore vizio.
97
Gli obblighi di contribuzione alle spese sono generalmente ricondotti alla figura dell’obligatio propter rem.
Si ammette che le obbligazioni proter rem possano nascere dalla legge o dal contratto. Del resto gli indici
normativi, non ultimo l’art. 1223 c.c., sono univoci in tal senso. Il problema del controllo di meritevolezza è
stato acutamente posto in rilevo da L. BIGLIAZZI GERI, Oneri reali e obbligazioni propter rem, in Tratt. CicuMessineo, XI, Milano, 1984, p. 63.
95
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220
Capitolo V
A questo punto, occorre chiedersi se sia valido un contratto tra tutti i
condomini – ovvero una clausola cosiddetta contrattuale di un regolamento predisposto dal costruttore – in base alla quale le spese per determinate opere si ripartiscano a prescindere dai valori o dai vantaggi:
per esempio, in parti uguali tra i proprietari di ciascun appartamento98.
È evidente che, in questo caso, l’autonomia privata imporrebbe «obblighi a vuoto»99 a carico dei proprietari delle unità immobiliari che esprimono utilità quantitativamente inferiori e attribuirebbe benefici ingiustificati agli altri.
Sarebbe sufficiente questo rilievo per escludere la meritevolezza di tutela di accordi del genere.
Non si possono trascurare, peraltro, le conseguenze che clausole di questo tipo potrebbero comportare sul piano della gestione condominiale,
con particolare riferimento alla distribuzione del potere decisionale.
Se, per esempio, i proprietari di alcune unità immobiliari fossero considerati franchi da ogni onere di partecipazione alle spese, non si vede
come a essi potrebbe essere riconosciuto potere decisionale in assemblea in ordine a innovazioni dalle quali otterrebbero solo benefici100.
D’altra parte, sarebbe altrettanto assurdo ritenere che i proprietari di
importanti unità immobiliari condominiali possano non avere voce in
ordine a decisioni destinate a incidere sullo stato di conservazione
dell’edificio condominiale.
Si deve aggiungere, infine, che contratti di questo tipo sono destinati a
conformare pressoché irreversibilmente la proprietà condominiale. Una
volta trascritti, infatti, essi saranno opponibili a tutti i futuri acquirenti
delle unità immobiliari condominiali.
E allora bisognerebbe concludere che essi comporterebbero un’«intollerabile manipolazione di interessi facenti capo a una più vasta cerchia
di soggetti» rispetto a quella dei contraenti (posto che ne risulterebbero
coinvolti tutti i successivi acquirenti), con conseguente «adulterazione
98
Nel senso della piena validità di una clausola di questo tipo, Cass., 18 marzo 2002, n. 3944, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, p. 1217.
99
Vedi nota 1.
100
Il profilo segnalato non è preso in considerazione nelle sentenze in cui si ritiene che qualunque misura
convenzionale di partecipazione alle spese non debba incidere sul peso del voto in assemblea: Cass., 18 marzo 2002, n. 3944, in Riv. giur. edilizia, 2002, I, p. 1217.
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La determinazione del contributo alle spese
221
dei risultati» dei processi decisionali specificamente disciplinati dalla
legge101.
Sembra confermata, dunque, l’esistenza un principio di necessaria corrispondenza tra utilità, oneri, potere decisionale e, se vogliamo, diritti102.
A questo punto, non resta che verificare quali altri spazi possano essere
riconosciuti all’autonomia privata in tema di determinazione dei criteri
di ripartizione delle spese.
In proposito, è sufficiente rilevare che il criterio di ripartizione non deve
necessariamente riflettere la funzione concretamente svolta da questo
o quell’elemento architettonico: tanto è vero che lo stesso legislatore se
ne discosta in più occasioni (parr. 3-6). Le parti potranno optare per soluzioni diverse da quelle predeterminate dal legislatore, purché restino
entro i margini della ragionevolezza.
Per esempio, può apparire ragionevole stabilire che per la ripartizione
delle spese di manutenzione o coibentazione della facciata si debba tener conto anche dell’altezza interna degli appartamenti o dei locali.
L’estensione della facciata – e quindi il costo dei relativi lavori – dipende,
infatti, dall’altezza dell’edificio che, a sua volta, è determinata dall’altezza di ciascun piano103. Non potrebbe, tuttavia, ritenersi irragionevole
nemmeno la scelta esattamente contraria.
In linea generale, si può rilevare che i criteri convenzionali di ripartizione
delle spese, purché ragionevoli e non contraddittori, possono essere
considerati come atti conformativi della proprietà condominiale e possono contribuire a prevenire le conflittualità. Del resto, si è già accennato che il cosiddetto titolo contrario può sovrapporsi alla convenzione
sulla ripartizione delle spese, qualora deroghi alle norme sulle quali si
fonda l’utilità giuridica che presiede all’identificazione delle parti comuni
oppure dia luogo a utilità giuridiche di origine convenzionale104.
101
V. App. Milano, 20 dicembre 1970, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81, con nota di G.B. FERRI, Meritevolezza
dell’interesse e utilità sociale, che ha ritenuto contrario al buon costume un patto tra il detentore del pacchetto di maggioranza di una società e l’amministratore delegato, in quanto elusivo delle vie legislativamente determinate attraverso cui il semplice socio può prendere le sue iniziative.
102
Vedi cap. 1, par. 9.
103
Occorre anche considerare le incertezze insite in qualsiasi operazione di stima, che comporta il ricorso a
diversi criteri, non escluso il costo di costruzione che potrebbe apparire estraneo alla determinazione del valore. Basti ricordare, sul punto, le prime dispute in materia di ripartizione delle spese giocate tutte sulla ricerca di un criterio equo. D.R. PERETTI GRIVA, op. cit., p. 313 e N. NATALI, La condizione giuridica dei proprietari
di una casa composta di vari piani appartenenti, ciascuno di essi, a persone diverse, Tivoli, 1926, p. 18 ss., ritenevano giusto che i proprietari dei piani inferiori non contribuissero alle spese per le strutture portanti superiori, specie nel caso in cui il condominio fosse sorto in conseguenza di una sopraelevazione.
104
Vedi cap. 1, par. 8.
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222
Capitolo V
Occorre rilevare, tuttavia, che è ancora raro il caso in cui il costruttore
dell’edificio condominiale si preoccupi di stabilire espressi criteri per la
ripartizione delle spese diversi da quelli legali e di presentarli agli acquirenti come qualità degli immobili: generalmente, invece, predispone le
cosiddette tabelle millesimali, che – come si vedrà nel seguito – rappresentano soltanto l’applicazione dei criteri di ripartizione delle spese105.
8. La tabella millesimale dei valori e le tabelle per la ripartizione delle
spese
L’art. 68, disp. att., c.c., nella formulazione anteriore alla novella del
2012106, disponeva che il regolamento di condominio dovesse precisare i
valori di ciascuna unità immobiliare ai fini dell’applicazione dei criteri legali di ripartizione delle spese e del computo delle maggioranze assembleari.
Detti valori, poi, ragguagliati a quello dell’intero edificio, dovevano essere espressi in millesimi in apposita tabella allegata allo stesso regolamento di condominio.
La tabella millesimale dei valori delle unità immobiliari (cosiddetta tabella-proprietà), dunque, era rappresentata come uno specchietto riassuntivo, allegato al regolamento di condominio, in cui i valori delle unità
immobiliari, già precisati nello stesso regolamento, dovevano essere
espressi – ossia tradotti – in millesimi, sulla base di mere operazioni
aritmetiche. Tanto al fine di agevolare il computo dei quorum assembleari e l’applicazione dei criteri di ripartizione delle spese: assegnato un
certo numero di millesimi a ciascuna unità immobiliare, non era necessario ripetere ogni volta le medesime operazioni aritmetiche per determinare il peso del voto per valore in assemblea e la misura di partecipazione alla spesa.
Nella prassi, tuttavia, i regolamenti di condominio non contenevano alcuna precisazione dei valori espressi in termini assoluti. D’altra parte,
105
Vedi successivi parr. 8-9.
L’art. 22 della L. 11 dicembre 2012, n. 220, ha sostituito il testo dell’art. 68, disp. att. Il testo previgente è
il seguente: «Per gli effetti indicati dagli artt. 1123, 1124, 1126 e 1136 del codice, il regolamento di condominio deve precisare il valore proporzionale di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano spettante in proprietà esclusiva ai singoli condomini.
I valori dei piani o delle porzioni di piano, ragguagliati a quello dell’intero edificio, devono essere espressi in
millesimi in apposita tabella allegata al regolamento di condominio.
Nell’accertamento dei valori medesimi non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione di ciascun piano o di ciascuna porzione di piano».
106
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La determinazione del contributo alle spese
223
quel che importa è il rapporto tra il valore di ciascuna unità immobiliare
e la somma dei valori di tutte le unità immobiliari107, e questo rapporto
era determinato direttamente in millesimi nella tabella che, costituendo
un allegato necessario del regolamento, poteva essere considerato una
sua parte108.
Recependo questa prassi, la novella del 2012 ha modificato l’art. 68,
disp. att., c.c., che oggi non richiede più la precisazione del valore proporzionale nel regolamento di condominio, ma dispone soltanto che il
valore proporzionale sia espresso in millesimi nella apposita tabella allegata al regolamento.
Sempre nella prassi, si è affermata la diffusione, accanto alla tabellaproprietà o dei valori, di altre tabelle millesimali, predisposte per la suddivisione delle spese e per il computo dei quorum in relazione a parti
comuni «destinate a servire i condomini in misura diversa»: tabellascale, tabella-ascensore, tabella-riscaldamento, tabella-lastrico solare
eccetera. Dette tabelle costituiscono il risultato dell’applicazione dei criteri legali o convenzionali di ripartizione delle spese: nel caso dei criteri
legali per scale o lastrici, sono sufficienti mere operazioni aritmetiche.
Nel caso della tabella riscaldamento, si tratta di applicare il criterio legale o convenzionale di volta in volta utilizzabile. Per le altre parti comuni
che esprimono utilità differenziate si dovrà procedere a una valutazione
caso per caso delle utilità da esse espresse in favore di ciascuna unità
immobiliare.
Anche di questa prassi la novella ha voluto dar conto, aggiungendo un
nuovo comma in coda all’art. 69, disp. att., c.c., in cui espressamente si
menzionano le «tabelle per la ripartizione delle spese redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali»109.
Si deve rilevare, tuttavia, che per il caso in cui si ritenga rilevante la destinazione di un’unità immobiliare ai fini della partecipazione dei condomini a un certo tipo di spese, occorre distinguere la tabella di ripartizione per quelle spese dalla tabella per il computo dei quorum sotto il
107
Sui criteri legali di determinazione del valore, vedi precedenti parr. 2.
In questo senso si esprime chiaramente F. RUSCELLO, Condominio negli edifici e comunione, in Trattato dei
diritti reali, diretto da A. GAMBARO-U. MORELLO, III, Condominio negli edifici e comunione, a cura di M. BASILE,
Milano, 2012, p. 202.
109
Sul punto, vedi par. 12.
108
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224
Capitolo V
profilo del valore. In questi casi, infatti, il peso del voto, legato alla proprietà, non segue la misura di partecipazione alla spesa110.
È bene precisare, infine, che le tabelle millesimali agevolano la gestione
condominiale sia per la ripartizione delle spese, sia per il computo delle
maggioranze assembleari, ma non costituiscono un presupposto di validità per le delibere assembleari: la sussistenza dei quorum richiesti dalla
legge può essere accertata a posteriori, anche in sede di impugnazione
della delibera111. La giurisprudenza di merito, inoltre, ha ritenuto che si
possa ottenere la formazione di tabelle millesimali in via giudiziale anche nei condominii con meno di dieci condomini, per i quali – in virtù
dell’art. 1138 c.c. – non è obbligatoria l’adozione di un regolamento di
condominio112.
9. Le tabelle assembleari e le tabelle contrattuali: determinazione del
valore proporzionale e convenzione per la ripartizione delle spese
Dalla lettura senza pregiudizi delle norme citate si dovrebbe concludere
senza esitazioni che la tabella millesimale dei valori deve essere approvata contestualmente all’approvazione del regolamento condominiale
cui è allegata, con la stessa maggioranza113.
In ordine alla natura e alla funzione della tabella millesimale, tuttavia,
per decenni si sono confrontate posizioni diverse114.
Numerose sentenze, in aperto contrasto con il dato normativo, hanno
affermato la natura negoziale delle tabelle e l’estraneità della precisazione dei valori proporzionali alla materia assembleare115. Si è rilevato
110
Vedi precedente par. 2.
Cass., 9 agosto 2011, n. 17115; Cass., 17 febbraio 2005, n. 3264. In dottrina, R. TRIOLA, Il nuovo condominio, a cura di R. TRIOLA, Torino, 2013, p. 482.
112
App. Palermo, 22 marzo 2011, in Nuova giur. civ., 2012, p. 19, con nota di F. VALENTI, Determinazione
dell’oggetto del contratto di compravendita immobiliare e formazione delle tabelle millesimali: questioni
connesse all’esame dei giudici d’appello; Trib. Trapani, 28 febbraio 2008.
113
In questo senso G. BRANCA, op. cit., p. 407 s.
114
Le ricostruzioni sono molto articolate: v. G. BRANCA, Sulla tabella millesimale nel condominio, in Riv. trim.
dir. e proc. civ., 1969, p. 781; SALIS, Tabella millesimale e poteri dell’assemblea dei condomini, in Giust. civ.,
1963 I, p. 928; F. RUSCELLO, op. cit., p. 219.
115
Cass., 8 luglio 1964, n. 1801, in Foro it., 1965, I, p. 687, ritiene l’approvazione della tabella millesimale
estranea alle competenze dell’assemblea; Cass., 10 febbraio 1994, n. 1367, in Riv. giur. edilizia, 1994, p. 963,
con nota di M. DE TILLA, Sulla revisione delle tabelle millesimali per errori di fatto e di diritto, afferma che la
tabella può risultare approvata per fatti concludenti, a seguito del regolare pagamento dei contributi richiesti; nello stesso senso, Cass., 19 gennaio 1995, n. 602, in Foro it., 1996, I, p. 1807; distingue tabelle convenzionali da tabelle assembleari Cass., 28 giugno 2006, in Giust. civ., 2005, p. 2728; ha affermato l’inefficacia
della tabella nei confronti degli assenti o dissenzienti Cass., 11 settembre 1989, n. 3920, ivi, 1989, p. 1019; ha
111
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La determinazione del contributo alle spese
225
che l’approvazione delle tabelle millesimali può integrare quella diversa
convenzione sulla ripartizione delle spese richiamata dall’art. 1123 c.c.,
e che le tabelle, in ogni caso, sono destinate a incidere sui diritti che
spettano ai condomini. Se ne è dedotta, quindi, la necessaria approvazione all’unanimità.
Un intervento delle Sezioni Unite116 ha contribuito a chiarire le questioni
segnalate, affermando la natura non negoziale sia dell’approvazione sia
della revisione delle tabelle, e riconoscendo che si tratta di materia assembleare sulla quale si delibera con la maggioranza richiesta per
l’approvazione del regolamento di condominio.
La decisione – che si distingue per raffinatezza e accuratezza tecnica –
affronta specificamente la questione del rapporto tra tabelle millesimali
e convenzione di deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali. In particolare, nella motivazione si sottopone a esame critico
quell’indirizzo giurisprudenziale117 che – adottando una posizione intermedia tra la tesi negoziale e quella assembleare – distingueva tabelle
convenzionali, predisposte dall’unico originario proprietario e accettate
dai primi acquirenti, da tabelle deliberative, approvate a maggioranza
dall’assemblea. Le prime – modificabili solo con il consenso unanime di
tutti i condomini – avrebbero potuto derogare ai criteri legali di ripartizione delle spese; le seconde, invece, sarebbero state modificabili a
maggioranza o dall’autorità giudiziaria nei soli casi in cui si fossero discostate dai criteri legali di ripartizione delle spese.
Le Sezioni Unite ribadiscono – richiamando la ormai consolidata giurisprudenza formatasi in materia di regolamento di condominio – che la
natura giuridica delle tabelle millesimali non può dipendere dal procedimento di formazione di volta in volta adottato, ma deve essere ricostruita verificando se esse debbano essere ricomprese tra le materie tipicamente assembleari o quelle tipicamente convenzionali. Ebbene, le
tabelle millesimali – quand’anche allegate a un regolamento predisporitenuto la necessità di citare tutti i condomini per la revisione in giudizio Cass., 18 aprile 1978, n. 1846, in
Foro it., 1978, p. 1368.
116
Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, in Giur. it., 2010, n. 2266, con nota di E. DEL PRATO, Adozione di tabelle millesimali, criteri, usi, deliberazioni; in Nuova Giur. it., 2011, 2, p. 92, con nota di L. MARTONE,
L’approvazione a maggioranza della tabella millesimale: il superamento delle sezioni unite; in Contratti,
2011, 1, p. 5, con nota di NOBILI, Funzione ricognitiva delle tabelle millesimali e approvazione a maggioranza
del regolamento condominiale; in Corriere Giur., 2011, 1, p. 59, con nota di VIDIRI, Un nuovo intervento delle
Sezioni Unite in materia condominiale: la modifica delle tabelle millesimali.
117
In tal senso Cass., 23 febbraio 2007, n. 4219, in Vita notar., 2007, p. 706, nonché Cass., 25 agosto 2005, n.
17276.
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226
Capitolo V
sto dal costruttore – hanno natura tipicamente assembleare perché la
determinazione del valore delle singole unità immobiliari è materia che
la legge riserva all’assemblea: si tratta, insomma, di una prerogativa del
gruppo.
Purché – continua la sentenza delle Sezioni Unite – «non risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle
spese, si sia inteso, cioè, approvare quella diversa convenzione di cui
all’art. 1123, 1° co., c.c.»118.
La diversa convenzione o, più esattamente, i diversi criteri di ripartizione, dunque, possono o essere chiaramente formulati in clausole contrattuali del regolamento di condominio o restare inespressi e ricavarsi,
induttivamente, dalle singole tabelle di ripartizione delle spese allegate
al regolamento contrattuale119.
Si faccia il caso, per esempio, che le unità immobiliari prive di accesso
all’androne non siano comprese nella tabella-scale o, ancora, che i millesimi distribuiti in detta tabella tengano conto dell’altezza per un terzo
della spesa. In casi di questo tipo, quando è evidente che la tabella sia
stata redatta in applicazione di un criterio convenzionale che si può agevolmente ricostruire, evidentemente si tratta di tabella che possiamo
definire contrattuale: il criterio usato per redigerla – e non già la tabella
in sé – potrà essere modificato solo con una nuova convenzione tra tutti
i condomini. Qualora, invece, non dovesse emergere alcun criterio convenzionale che le parti abbiano inteso sostituire a quello legale, la tabella dovrà considerarsi meramente assembleare120.
D’altra parte, solo l’individuazione del preciso criterio prescelto dalle
parti consente di verificare che l’accordo realizza interessi meritevoli di
tutela121.
A questo punto, risulta chiaro che la tabella millesimale propriamente
detta, ossia la tabella dei valori, non può esprimere alcuna volontà negoziale o dispositiva, perché la determinazione di un valore è pur sem118
Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, cit.
Risalire al criterio è indispensabile per vagliare la meritevolezza di tutela della diversa convenzione. Sul
punto, vedi precedente par. 7.
120
È bene evidenziare che l’esclusione di una certa unità immobiliare dalla ripartizione di una certa spesa potrebbe avere il significato di escludere che il proprietario di quella unità immobiliare abbia diritto di utilizzare
quella parte comune. In tali casi, la tabella potrebbe essere intesa come titolo contrario ex art. 1117 c.c. (vedi cap. 1, par. 6 e 8 nonché precedente par. 7).
121
Pare, invece, ammettere che l’autonomia negoziale possa condurre all’attribuzione arbitraria di “quote”
di diritti sulle parti comuni indipendentemente dai valori delle singole unità immobiliari, Cass., 26 marzo
2010, n. 7300, in Giur. it., 2011, 1, p. 57.
119
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La determinazione del contributo alle spese
227
pre il risultato di una stima e, pertanto, un dato meramente tecnico. Il
valore proporzionale – prima di essere espresso in millesimi nella tabella
– più che incerto o controverso è indeterminato, ma determinabile sulla
base delle tecniche estimatorie, per quanto i risultati restino opinabili122.
Affermare che la determinazione dei valori millesimali contenuti nella
tabella costituisce una convenzione sulla ripartizione delle spese è come
affermare che in una compravendita immobiliare a misura le parti si accordano sul prezzo determinando convenzionalmente l’estensione del
fondo. È vero che l’estensione del fondo incide sull’entità del corrispettivo, ma solo la determinazione di quest’ultimo può ritenersi rimessa alla volontà negoziale delle parti.
È da escludersi, inoltre, che si possa derogare ai criteri di ripartizione
delle spese alterando convenzionalmente i valori proporzionali, anche in
considerazione delle conseguenze ulteriori che ne deriverebbero in ordine al peso del voto di ciascun condomino in assemblea, inderogabilmente determinato dalla legge con riferimento al valore proporzionale:
l’art. 1136 c.c. non ammette alcun titolo contrario o diverse convenzioni. Evidentemente, non ha senso sostenere che la norma possa essere
aggirata mediante l’intesa di alterare i valori reali.
L’approvazione di una tabella millesimale dei valori, quindi, deve essere
ricondotta, piuttosto che ai negozi di accertamento, alle dichiarazioni di
scienza o verità, per loro natura sempre rettificabili in caso di errore123.
La tabella, infatti, può essere rivista in ogni tempo sulla base della mera
divergenza (anche sopravvenuta) delle valutazioni tecniche che in essa
sono espresse rispetto ai valori reali determinati secondo i criteri legali124.
Come è ovvio, la revisione della tabella dei valori comporterà – a cascata
– la revisione di tutte le tabelle di ripartizione delle spese, anche di quelle redatte in applicazione di criteri convenzionali, che tengano conto del
valore: occorrerà semplicemente applicare gli stessi criteri di ripartizione
legali o convenzionali utilizzati per la redazione delle tabelle originarie, a
partire, però, dai valori proporzionali rivisti.
122
Rilevano che la valutazione tecnica comporta margini di discrezionalità F. RUSCELLO, op. cit., p. 204, nonché
G. BRANCA, op. ult. cit., p. 785.
123
In questo senso si esprimono E.V. NAPOLI, G.E. NAPOLI, Il regolamento di condominio, in Comm. Schlesinger,
Milano, 2011, p. 265 s.
124
Cfr., G. BRANCA, Sulla tabella millesimale, cit., p. 781 ss.
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228
Capitolo V
La novella del 2012 ha aggiunto – in apertura dell’art. 68 disp. att. –
l’inciso «ove non precisato dal titolo ai sensi dell’art. 1118», rischiando
di riportare confusione in una materia in cui si sembrava faticosamente
approdati a risultati coerenti. Il richiamo normativo, infatti, potrebbe indurre a ritenere che il valore delle unità immobiliari individuali o la misura del diritto di ciascun condomino sulle parti comuni possa dipendere
da una nuda volontà negoziale. Sennonché il valore delle unità immobiliari, per le ragioni appena esposte, non può considerarsi oggetto di determinazione negoziale, e la misura del diritto sulle parti comuni non è
che il riflesso delle utilità che queste esprimono in favore di ciascuna
unità immobiliare125.
La giurisprudenza successiva alla riforma126 non si è lasciata influenzare
dal richiamo all’art. 1118 c.c. contenuto nell’art. 68 disp. att. c.c., e ha,
di recente, ribadito la natura non negoziale delle tabelle in ossequio
all’indirizzo sancito con la sentenza delle Sezioni Unite.
10.
Le tabelle millesimali come prerogativa del gruppo: deliberazione di ripartizione delle spese e liquidazione dei crediti
Anche ammesso che la tabella dei valori proporzionali non possa essere
considerata il frutto di una volontà negoziale, si potrebbe ugualmente ritenere necessaria un’approvazione unanime o, quantomeno, dubitare
che essa produca effetti nei confronti dei condomini assenti o dissenzienti.
La novella del 2012 non ha previsto espressamente quale maggioranza
occorra per l’approvazione delle tabelle millesimali: ribadendo che la
tabella dei valori è un allegato al regolamento, si deve ritenere che abbia inteso avallare la soluzione adottata di recente dalle Sezioni Unite
della Suprema Corte127, nel senso di richiedere la stessa maggioranza
prevista dalla legge per l’approvazione del regolamento di condominio.
La questione, tuttavia, non può essere affrontata limitandosi ad argomenti puramente esegetici, ma richiede, invece, l’individuazione della
specifica funzione della tabella dei valori.
125
Sul punto si rinvia al cap. 1, parr. 3 e 10. In giurisprudenza, Cass., 26 marzo 2010, n. 7300, in Giur. it.,
2011, 1, p. 57, è orientata per ammettere ampi spazi di arbitrio all’autonomia privata nella determinazione
delle quote di diritto sulle parti comuni. In dottrina, R. TRIOLA, cit., p. 480, sostiene che non sarebbe contraddittorio indicare per le spese determinati valori e, per il diritto sulle cose comuni, valori diversi.
126
Cass., 26 febbraio 2014, n. 4569.
127
Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, cit.
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La determinazione del contributo alle spese
229
A tal fine è bene muovere dalla considerazione secondo cui, in mancanza di un’organizzazione condominiale, il contributo dovuto da ciascun
partecipante alle spese sostenute o da sostenersi nell’interesse comune
dovrebbe essere determinato, di volta in volta, per effetto di un accordo
tra tutti i condomini o mediante un provvedimento del giudice, come
accade in genere per tutti i crediti non liquidi e negli ordinari rapporti di
vicinato, allorché chi ha assunto l’iniziativa di provvedere a un’opera che
la legge pone a carico anche di altri vicini si attivi contro questi ultimi128.
Un sistema del genere, tuttavia, è sembrato del tutto incompatibile con
l’elevato grado di interdipendenza che si registra tra le diverse unità
immobiliari129 comprese nell’edificio condominiale e le connesse esigenze di una gestione continuativa delle questioni di comune interesse. Non
basta sapere come vanno ripartite le spese per la manutenzione, conservazione o ricostruzione di determinate parti dell’edificio che tornano
utili a più condomini. Occorre stabilire chi e come debba provvedere
all’esecuzione di detti interventi e, per quel che qui interessa, dotare il
gruppo di efficaci strumenti per determinare l’ammontare dei contributi
dovuti e riscuoterli preventivamente130.
Lo strumento a tal fine apprestato dal legislatore è la deliberazione assembleare di ripartizione delle spese: sulla base di essa, l’amministratore potrà e dovrà attivarsi per il recupero coattivo del credito, avvalendosi dell’ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva prevista
dall’art. 63, disp. att., c.c.131.
Sul piano sostanziale, tuttavia, il credito non può considerarsi immediatamente liquidato per effetto di una deliberazione approvata a maggioranza, in quanto i condomini dissenzienti o assenti possono contestare
la determinazione del loro contributo impugnando la deliberazione nei
termini di legge132.
128
Si è più volte, nelle pagine precedenti, richiamato l’art. 917 c.c. in tema di acque private o gli artt. di altre
parti comuni poste a cavallo del confine tra fondi, sin dal cap. 1, par. 1.
129
Vedi cap. 1, par. 8, nonché cap. 2, par. 5.
130
Vedi cap. 2, par. 5.
131
L’art. 1129 c.c., co. 9, impone all’amministratore di attivarsi entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel
quale il credito è compreso, salvo che non sia stato espressamente dispensato dall’assemblea.
132
La giurisprudenza qualifica come mera annullabilità il vizio della deliberazione che applichi erroneamente
criteri di ripartizione già stabiliti. L’impugnazione, pertanto, dovrà essere proposta nei termini di cui all’art.
1137 c.c. Invece, è considerata radicalmente nulla la deliberazione che modifichi a maggioranza i criteri di ripartizione vigenti. In tal senso, Cass., 21 marzo 2012, n. 8010; Cass., 15 febbraio 2011, n. 3704; Cass., 19
marzo 2010, n. 6714, in Dir. e giustizia, 2010, p. 117, con nota di A. GALLUCCI, Nulle le delibere condominiali
che adottano a maggioranza un criterio di ripartizione delle spese difforme da quello legale.
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230
Capitolo V
Poiché, inoltre, la gestione condominiale impone di fare costantemente
riferimento valore proporzionale delle unità immobiliari, il legislatore ha
voluto dotare, quantomeno i condominii non piccoli133, di un ulteriore
strumento che agevoli e renda tendenzialmente più coerente la gestione: per l’appunto le tabelle millesimali, sia quella dei valori, sia quelle
per la ripartizione delle spese.
Si tratta di atti vincolanti per l’assemblea, che vi si deve attenere sia per
il computo delle maggioranze, sia per l’approvazione del riparto delle
spese: la deliberazione che si discostasse dalle tabelle approvate sarebbe per ciò stesso invalida134.
Si evita, in questo modo, che possano essere utilizzati valori diversi in
ogni occasione, attenuando la conflittualità tra condomini e assicurando
una gestione, per quanto possibile, coerente.
Resta salva la possibilità per ciascun condomino di contestare sia il criterio di ripartizione adottato sia la tabella millesimale vigente, che potrà
essere impugnata in ogni momento contestualmente alla deliberazione
di ripartizione della spesa o in via autonoma.
Occorre chiedersi, a questo punto, se lo statuto della proprietà condominiale pieghi le regole che presiedono alla liquidazione dei crediti al
punto da riconoscere alla deliberazione di ripartizione divenuta irretrattabile gli stessi effetti di un accordo di liquidazione, oppure se
l’approvazione dello stato di riparto costituisca solo il presupposto per
ricorrere a speciali strumenti processuali di recupero del credito.
La giurisprudenza sul punto non è univoca. In alcune sentenze si riconosce la possibilità di esperire l’azione di arricchimento ingiustificato al
condomino svantaggiato dall’applicazione di tabelle erronee. Questa
conclusione, del tutto incompatibile con l’effetto liquidatorio della deliberazione irretrattabile, è motivata, però, con la necessità di assicurare
una tutela a chi ha già impugnato le tabelle che continuano a essere utilizzate sino al passaggio in giudicato della sentenza che le rettifichi135.
Evidentemente un analogo argomento – di carattere squisitamente pro133
Sulla possibilità di una gestione condominiale in assenza di tabelle millesimali, TRIOLA, cit., p. 482.
Cass., 21 maggio 2012, n. 8010. Del resto, la tabella dei valori è indispensabile per verificare che ogni singola deliberazione sia stata adottata con la prescritta maggioranza.
135
La sentenza che modifica la tabella è ritenuta costitutiva. Pertanto, si ritiene che essa non possa produrre
effetti retroattivi in relazione alle spese già ripartite nemmeno a far data dalla domanda. Per converso, si è
talvolta ritenuta esperibile l’azione di arricchimento ingiustificato a danno dei condomini che non abbiano
partecipato alla spesa in virtù dell’erroneità della tabella: Cass., 10 marzo 2011, n. 5690, in Foro it., 2012, 1, I,
p. 216.
134
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La determinazione del contributo alle spese
231
cessuale – non può essere ripetuto per le spese ripartite con deliberazioni divenute irretrattabili prima ancora dell’inizio di un giudizio di revisione delle tabelle.
Del resto, estendendo fino ai limiti della prescrizione ordinaria la possibilità di esperire azioni di arricchimento ingiustificato si finirebbe, di fatto, col cancellare lo stesso significato del consolidato indirizzo giurisprudenziale che ritiene annullabili – e non nulle – le deliberazioni che ripartiscano una spesa condominiale in modo errato136.
Appare preferibile, dunque, ritenere che, per il caso in cui una spesa sia
ingiustamente addebitata a un condomino, il rimedio sia rappresentato
esclusivamente dalla tempestiva impugnazione della deliberazione e,
eventualmente, dall’impugnazione, possibile in ogni tempo, delle tabelle
millesimali, sempre che – come è ovvio – la deliberazione non ecceda
del tutto le competenze dell’assemblea137.
11.
La revisione e impugnazione della tabella dei valori come dovere dell’assemblea: presupposti, maggioranze e tutela
Il contenuto tipicamente assembleare dell’atto con cui si determinano e
si esprimono in millesimi i valori proporzionali fa cadere ogni dubbio sulla possibilità che le tabelle siano approvate a maggioranza e a maggioranza riviste, ove non dovessero rispecchiare il reale rapporto tra i valori
delle unità immobiliari138.
Dovrebbe risultare chiaro, cioè, che la formazione o la revisione giudiziale o, ancora, l’approvazione all’unanimità delle tabelle millesimali non
possa mutarne natura e funzione139.
A conclusioni analoghe, del resto, si è pervenuti a proposito delle clausole del regolamento di condominio predisposto dal costruttore che si
occupino di materie tipicamente assembleari. Esse possono essere mo136
Cass., SS.UU., 7 marzo 2005, n. 4806. Non mancano precedenti che, tuttavia, tendono a considerare nulle
deliberazioni che applicano a singole spese criteri di ripartizione errati. Vedi, per esempio, Cass., 6 novembre
2014, n. 23688.
137
Di recente è stata ritenuta nulla la deliberazione con cui sono state ripartite tra i condomini spese per lavori sulla facciata che avevano finito per estendersi ad alcuni elementi dei balconi di proprietà individuale
(Cass., 9 ottobre 2014, n. 21343). In casi del genere occorrerebbe chiedersi quale sostanziale differenza ci sia
tra il caso in questione e quello in cui a qualcuno sia attribuita una quota superiore al dovuto per opere su
parti comuni, ipotesi quest’ultima in cui la deliberazione è pacificamente ritenuta annullabile e non nulla.
138
Sul punto, si richiamano le conclusioni cui si è giunti nel precedente par. 9.
139
E. DEL PRATO, Adozione di tabelle millesimali, criteri, usi, deliberazioni, in Giur. it., 2010, n. 2266, rileva che
«unanimità, in sé, non vuol dire contrattualità, ma costituisce un atteggiamento della deliberazione, che si riflette sulla legittimazione ad impugnarla».
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Capitolo V
dificate a maggioranza, benché contenute in un regolamento di condominio approvato nelle forme di un contratto. La conclusione è addirittura scontata per il regolamento di fonte giudiziale140.
In questo senso, la novella del 2012 ha confermato che, con la maggioranza richiesta per l’approvazione del regolamento di condominio, si
possa procedere a rivedere la tabella millesimale che risulti affetta da
errori141 o non più aderente alla realtà a seguito della modificazione delle unità immobiliari142. In quest’ultima ipotesi si deve procedere a revisione se il valore originario, anche di una sola unità immobiliare, risulti
alterato per più di un quinto143.
È evidente che l’assemblea, ove risulti detta divergenza, può e deve procedere alla revisione.
Nella pratica, avverrà che il condomino insoddisfatto presenterà una relazione tecnica da cui risulti l’errore, come, per esempio, la mancata
considerazione di un parametro che incide sensibilmente sulla determinazione del valore dei piani. L’assemblea, allora, deciderà a maggioranza
di approvare la proposta in tutto o in parte, o di respingerla.
Nel caso in cui la proposta non sia completamente accolta, il condomino
proponente potrà richiedere la revisione giudiziale della tabella e potrà,
anche, impugnare la deliberazione con cui la sua proposta di modifica è
stata respinta.
La mancata impugnazione o l’assenza di una deliberazione di rigetto,
tuttavia, non comportano l’improponibilità della domanda di revisione:
140
Questi gli argomenti utilizzati, da ultimo, in Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, in Riv. giur. edilizia,
2010, I, p. 1478.
141
Dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che l’errore, cui si riferisce l’art. 69, disp. att., c.c., non ha nulla a
che vedere con l’errore vizio del consenso ma consiste nell’obiettiva divergenza tra i valori riportati nella tabella e i valori reali determinati secondo i criteri legali. In questo senso G. BRANCA, Sulla tabella millesimale,
cit., p. 797. In giurisprudenza, ex multis, Cass., SS.UU., 9 luglio 1997, n. 6222, in Foro it., 1999, I, p. 3630.
142
La novella del 2012, modificando il n. 2 dell’art. 69, disp. att., c.c., si riferisce espressamente, oltre che al
caso di mutamento della situazione di una parte dell’edificio e di sopraelevazione, anche al caso di incremento delle superfici e al caso di incremento o diminuzione del numero di unità immobiliari. Quest’ultima
ipotesi potrebbe dar luogo a grandi incertezze. Il legislatore, infatti, sembra suggerire che occorra procedere
alla revisione delle tabelle millesimali nel caso di frazionamento o fusione di unità immobiliari. Sennonché,
se è vero che in queste ipotesi si può verificare un incremento o una diminuzione del valore di mercato delle
unità immobiliari condominiali, è quantomeno dubbio che il valore da esprimere in millesimi nella tabella
coincida con il valore di mercato (vedi cap. 1, par. 19). Se il frazionamento – come si è visto nel cap. 4, par.
15 – può essere per molti versi accostato al mutamento di destinazione dell’unità immobiliare interessata,
allora appare preferibile limitare alle spese di godimento le possibili ricadute sui criteri di ripartizione (vedi,
sul punto, il precedente par. 2).
143
Il testo originario dell’art. 69, disp. att., si riferisce a una non meglio precisata “notevole alterazione”. La
novella, inoltre, prevede espressamente che i costi della revisione sono a carico di chi ha dato luogo alla variazione.
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La determinazione del contributo alle spese
233
al più, infatti, si potrebbe ritenere che il condomino che agisca per la revisione giudiziale della tabella deve dimostrare che l’assemblea è rimasta inerte a fronte dei suoi fondati rilievi ovvero che li ha respinti in tutto
o in parte.
La novella del 2012, recependo quanto di recente affermato dalle Sezioni Unite144, chiarisce che per la revisione giudiziale è sufficiente citare in
giudizio il condominio in persona dell’amministratore, il quale dovrà
darne tempestivamente notizia in assemblea145.
Rischia di confondere le idee, invece, l’aggiunta, all’art. 69, disp. att.,
c.c., di un primo comma in cui si afferma che la tabella dei valori millesimali può essere sempre modificata o rettificata dai condomini
all’unanimità146. Anche quando, quindi, non risulti affetta da alcun errore e non si siano verificati eventi tali da alterare il rapporto tra i valori in
essa rappresentato.
In proposito occorre rilevare che se una tabella millesimale che rappresenta fedelmente il reale rapporto tra i valori è sostituita all’unanimità
con una tabella che contiene errori o trascura le modifiche intervenute
nell’edificio condominiale, ciascun condomino potrà rivolgersi al giudice
per chiederne la revisione.
Allora, per riconoscere una sensata portata precettiva alla norma, bisogna ritenere che essa si riferisca ai casi in cui, in conseguenza di modificazioni sopravvenute dei beni condominiali, il valore anche di una sola
unità immobiliare risulti alterato per meno di un quinto e, quindi, la revisione della tabella dei valori non possa ritenersi dovuta.
12.
Le altre tabelle e la loro vincolatività per l’assemblea
Si è detto in precedenza che spesso si provvede a predisporre diverse
tabelle di ripartizione delle spese per le parti comuni destinate a servire
le singole unità immobiliare in misura diversa147.
Queste altre tabelle si ricavano mediante l’applicazione dei criteri legali
o convenzionali di ripartizione a ciascun tipo di spesa in esse considera144
Cass., SS.UU., 9 agosto 2010, n. 18477, cit.
Sulla rappresentanza sostanziale e processuale dell’amministratore, si rinvia all’ampia trattazione di V.
COLONNA, L'amministratore di condominio: rapporto con i condomini, responsabilità, rappresentanza. Ruolo e
funzioni dopo la riforma ex L. n. 220/2012, Milano, 2014, cap. 3.
146
R. TRIOLA, Il nuovo condominio, a cura di R. TRIOLA, Torino, 2013, p. 501, significativamente rileva che è difficile comprendere il senso di questa previsione.
147
Vedi precedente par. 8.
145
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Capitolo V
to: ve ne potrà essere una per ogni criterio di ripartizione applicabile a
una certa spesa. Per esempio, tabella-scale-conservazione, tabella-scaleilluminazione, tabella cortile-pulizie eccetera.
La novella del 2012 ha aggiunto un ultimo comma all’art. 69, disp. att.,
c.c., in cui si dispone che la disciplina per la rettifica o revisione della tabella dei valori si applica anche «alle tabelle per la ripartizione delle spese».
Queste altre tabelle, dunque, devono essere riviste ogni volta che siano
stati modificati i valori millesimali espressi nella tabella-proprietà sulla
base dei quali sono state redatte, oltre che nel caso in cui risulti modificata o non correttamente rilevata la variabile alla base del criterio di ripartizione applicabile (si pensi, per esempio, alle superfici radianti o alla
cubatura, nel caso in cui le spese di riscaldamento si debbano ripartire
secondo uno dei criteri indicati). Devono, infine, essere modificate se riflettono un criterio di ripartizione che l’assemblea ha erroneamente deciso di adottare all’atto della loro approvazione.
In ogni caso, visto l’espresso riconoscimento legislativo, devono anch’esse ritenersi atti normativi vincolanti per l’assemblea che, fino a quando
non le modifichi, non può discostarsene, pena l’annullabilità della relativa delibera.
In conclusione, occorre chiedersi se queste altre tabelle debbano essere
utilizzate anche come tabelle dei valori per la determinazione delle
maggioranze assembleari nelle deliberazioni che riguardino le parti comuni cui si riferiscono.
La risposta positiva consegue alla constata necessità che partecipazione
alle spese e distribuzione del peso decisionale riflettano entrambe la
quantità di utilità che ciascuna parte comune esprime in favore di ciascuna unità immobiliare.
La giurisprudenza si è chiaramente orientata in questo senso, come
emerge dall’ormai consolidato riconoscimento del condominio parziale,
con effetti anche sul peso del voto in assemblea148.
L’unico caso in cui la misura di partecipazione alla spesa non riflette il
peso del voto per valore è rappresentato dalla possibilità di ritenere rilevante, ai fini della ripartizione delle spese di godimento, la specifica
destinazione delle unità immobiliari condominiali149.
148
149
Ex multis, Cass., 27 settembre 1994, n. 7885, in Giur. it., 1995, I, 1, p. 2108.
Vedi precedente par. 2.
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