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Corriere della Sera
IL MOVIMENTO DELLE FAGLIE CHE SI TROVANO SUL FONDO DEL MARE:PROVOCA I MAREMOTI
L’Italia a rischio tsunami
Nuova mappa preparata dai sismologi
Oltre mille km di coste da monitorare
I maremoti, o tsunami che dir si voglia, sono, nell’opinione comune, emergenze tipiche dei Paesi
che si bagnano negli oceani Pacifico e Indiano. È ancora vivo il ricordo del 26 dicembre 2004,
quando il terremoto sottomarino delle Andamane scatenò lo tsunami che avrebbe inghiottito
in poche ore 232 mila asiatici, senza che scattasse alcuna emergenza. Ma una serie di nuove
ricerche indica che anche il «Mare Nostrum» non sfugge a questi disastri ricorrenti. «Recenti
ricerche storiche e di geologia dei depositi costieri, una nuova disciplina che consente di
indagare gli episodi di tsunami di cui non si hanno evidenze storiche dirette, hanno accertato
che in Italia se ne arrivano a verificare, di una certa rilevanza, cinque o sei per secolo —
premette il professor Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e
vulcanologia (Ingv), i cui ricercatori hanno formato gruppi di studio per indagare l’origine e
la dinamica di questi fenomeni —. Certo non si tratta di fenomeni così imponenti come quello
del Sud Est asiatico, comunque capaci di provocare vittime e danni». «L’aspetto innovativo dei
nostri studi — prosegue Boschi, che è stato riconfermato presidente dell’Ingv per tutto il 2008,
dopo le voci che lo davano uscente a giugno scorso — consiste nell’identificazione, una per
una, delle sorgenti sismiche in grado di scatenare i maremoti e nella localizzazione dei tratti
delle nostre coste più a rischio».
I dettagli vengono illustrati da un team composto da quattro geologi esperti in strutture
sismogenetiche, Roberto Basili, Vanja Kastelic, Mara Tiberti e Gianluca Valensise, e da due
fisici specializzati nello sviluppo di «scenari di maremoto» per mezzo di calcolatori: Stefano
Lorito e Alessio Piatanesi. «Il punto di partenza sono le faglie poste sul fondo dei mari, quelle
fratture della crosta terrestre i cui lembi possono scorrere improvvisamente, generando un
terremoto e trasferendo alle acque soprastanti l’energia necessaria per provocare un
maremoto — spiegano i ricercatori dell’Ingv —. Per ora, non ci occupiamo dei maremoti
provocati da eruzioni vulcaniche o da frane, che sembrano costituire una minoranza, anche
se non sono da trascurare». Un maremoto generato da faglie sottomarine comincia a essere
pericoloso se il terremoto supera circa 6 gradi Richter di magnitudo. In questo caso la
perturbazione che si trasferisce dal fondo marino alle acque soprastanti può arrivare fino a
zone costiere lontane centinaia di chilometri con onde alte. Tre sono le più temibili «sorgenti
tsunamigeniche » del Mediterraneo finora ben studiate. A est, tra Cefalonia e l’Isola di Creta,
l’Arco Ellenico, epicentro di frequenti terremoti, che sembra detenere il record del
terremoto storico più forte del Mediterraneo, 8,4 gradi Richter, avvenuto nel 365 dopo Cristo,
e seguito da un violento maremoto che investì l’Italia Centro meridionale. A ovest, tra lo
Stretto di Gibilterra e il Canale di Sicilia, la lunga catena sommersa dell’Atlante- Tell,
anch’essa epicentro di ricorrenti sismi, che nel 2003 ha generato un terremoto di 6,8 Richter
al largo della città algerina di Boumerdes, seguito da un maremoto giunto fino alle Isole
Baleari. Nel Tirreno meridionale si trova la più modesta ma attivissima fascia sismogenetica
Ustica-Eolie, responsabile nel 1823 di un sisma da 6 Richter, cui seguì un maremoto in varie
località tirreniche.
Gli scenari elaborati dall’Ingv mostrano che, per effetto delle sorgenti tsunamigeniche
elleniche, ci sono circa 1.200 chilometri di coste italiane affacciate sullo Ionio e sul Canale
di Sicilia, da Bari a Trapani, passando per Taranto, Catanzaro, Reggio Calabria, Catania,
al largo della città algerina di Boumerdes, seguito da un maremoto giunto fino alle Isole
Corriere della
Sera Nel Tirreno meridionale si trova la più modesta ma attivissima fascia sismogenetica
Baleari.
Ustica-Eolie, responsabile nel 1823 di un sisma da 6 Richter, cui seguì un maremoto in varie
località tirreniche.
Gli scenari elaborati dall’Ingv mostrano che, per effetto delle sorgenti tsunamigeniche
elleniche, ci sono circa 1.200 chilometri di coste italiane affacciate sullo Ionio e sul Canale
di Sicilia, da Bari a Trapani, passando per Taranto, Catanzaro, Reggio Calabria, Catania,
Siracusa e Agrigento, in cui l’onda di maremoto può superare il metro d’altezza. Le sorgenti
nordafricane potrebbero generare maremoti fino a un metro di altezza sul versante
meridionale della Sardegna, e più modeste altrove nelle coste tirreniche. I maggiori terremoti
attesi nella fascia Ustica-Eolie possono generare tsunami di mezzo metro nel Palermitano e
nel Messinese, oltre che nelle stesse isole a nord della Sicilia. Le altezze calcolate dai
ricercatori si riferiscono, tuttavia, all’onda che si presenta davanti alla costa, e che è
destinata ad amplificarsi notevolmente quando invade la terraferma. Gli stessi scenari
evidenziano il problema più critico del rischio maremoti nel Mediterraneo: date le piccole
dimensioni del bacino e le velocità medie di propagazione dell’onda di oltre 300 chilometri
orari, in caso di allarme, ci sarebbero soltanto poche decine di minuti o meno per fare
spostare la popolazione costiera verso l’entroterra.
Come ci stiamo preparando a simili emergenze? «Innanzitutto sosteniamo con forza la
realizzazione del programma di difesa dai maremoti del bacino mediterraneo gestito
dall’Unesco, che si baserà sull’integrazione dei dati raccolti da reti sismiche e reti
ondametriche di vari Paesi—risponde il professor Bernardo De Bernardinis, dirigente del
Dipartimento di Protezione Civile —. Questo progetto, attualmente, ha come responsabile un
italiano, il professor Stefano Tinti dell’Università di Bologna. Nel frattempo, poiché il fiore
all’occhiello della rete sismica nazionale sviluppata dall’Ingv è la capacità di calcolare
tempestivamente i parametri fondamentali di un terremoto, contiamo in una segnalazione
immediata di quei sismi in grado di sollevare onde di maremoto, al fine di fare scattare
l’allerta». Il modello d’intervento è stato già sperimentato in occasione dell’eruzione
parossistica di Stromboli del 2002-03 quando, in seguito a crolli di materiali lavici dalla
Sciara del Fuoco, si verificò un maremoto. Allora, temendo il ripetersi del fenomeno, la
popolazione veniva invitata, tramite i sindaci e le forze dell’ordine, a spostarsi in luoghi di
raccolta sicuri. Poiché una parte dei maremoti potrebbe essere generata da simili eruzioni
vulcaniche e frane sottomarine, la Protezione Civile ha finanziato un progetto chiamato
«Magic» che consiste in una mappatura dei fondali fino a 3.000 metri di profondità per
individuare le potenziali sorgenti di rischio non sismiche.
Franco Foresta Martin