Il nuovo contratto di rete: “Learning by doing”?

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Rete di imprese
Il nuovo contratto di rete:
“Learning by doing”?
di Fabrizio Cafaggi
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Il testo integrale del provvedimento è disponibile su: www.ipsoa.it\icontratti
Il contratto di rete cambia ancora. I mutamenti introdotti dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modif. dalla l. 30 luglio 2010, n. 122 (cd. Manovra correttiva), migliorano sensibilmente il quadro normativo di riferimento, ancorando la figura alla dimensione contrattuale, sgombrano così il campo da interpretazioni soggettivistiche della disciplina dell’art. 3 comma 4-ter d.l. n. 5 del 2009, conv. dalla l. n. 33 del 2009.
Introduzione (*)
Il tema del contratto di rete, che ha suscitato grande
attenzione, anche mediatica, in Italia, non ha avuto
ancora grande seguito in Europa, dove lo Small Business Act prima e Agenda 2020 poi, pur rivolgendo
sempre più lo sguardo alle PMI ed al loro sviluppo,
mancano ancora di un approccio sistematico diretto
a favorire la crescita attraverso la collaborazione tra
imprese. La recente comunicazione in materia di innovazione e quella sulle politiche industriali aprono
importanti finestre sulle forme di collaborazione, includendo anche le partnership pubblico-privato in
materia di innovazione (1). Il contratto di rete “made in Italy” riguarda, come noto, solo le imprese ma
l’esigenza di una disciplina concernente forme di
collaborazione reticolare tra imprese ed organismi
pubblici di ricerca e di policy collocati in diversi paesi europei appare evidente. È auspicabile che, nella
definizione dei possibili strumenti per promuovere
l’innovazione lungo le filiere, principi generali vengano introdotti al fine di coniugare coerentemente
obiettivi e strumenti delle politiche industriali europee con quelle nazionali e regionali. Tale intervento
a livello europeo potrebbe utilmente prendere la
forma di una Raccomandazione rispettando così l’elevato livello di articolazione normativa esistente a
livello nazionale ma dettando regole comuni che
possano costituire punto di riferimento per le amministrazioni specialmente quando le partnership abbiano carattere transnazionale.
Il contesto europeo presenta grandi differenze sul
piano dei sistemi nazionali ed una disciplina di diritto internazionale privato inadeguata (2). Il tema
non ha trovato sufficiente eco nella codificazione
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del diritto europeo dei contratti, rimasto ancorato
ad una nozione di contratto bilaterale, che riconosce ma non disciplina il contratto plurilaterale. È
auspicabile che l’esperienza italiana, pure segnata
ancora da luci ed ombre, possa costituire un piccolo
laboratorio da potere esportare sul piano europeo al
tema delle reti transeuropee incidendo sulla codificazione del diritto europeo dei contratti.
Il contratto di rete e le reti di imprese
Il recente intervento legislativo, il terzo nel giro di
poco più di un anno, riflette un percorso non privo
di difficoltà, in parte derivanti anche dalla novità
dell’istituto che concerne un fenomeno da tempo
presente nella realtà economica, non solo italiana,
che non aveva trovato adeguato riconoscimento legislativo.
Le reti costituiscono forme di collaborazione che
presuppongono l’indipendenza delle imprese partecipanti a differenza dei gruppi dove invece si è in
presenza di un controllo che si traduce in direzione e
coordinamento. Le reti promuovono un interesse
comune legato ad un progetto imprenditoriale straNote:
(*) N.d.A.: L’Autore ringrazia la prof.ssa Paola Iamiceli per i contributi ricevuti e tutti coloro con i quali nel corso di questi mesi ha
avuto l’opportunità di dialogare su come rendere il contratto di
rete uno strumento utile ed efficace per la crescita e lo sviluppo
economico.
(1) Cfr. Comunicazione della Commissione 2020 Flagship Initiative. Innovation Union SEC (2010) 1161.
(2) Cfr. Per un’analisi comparatistica vedi F. Cafaggi, Introduction,
in AA.VV., Contractual networks, inter-firm cooperation and economic growth, a cura di F. Cafaggi, Edward Elgar, 2011.
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tegico che deve coniugarsi con quello delle singole
imprese le quali continuano a svolgere la propria attività parallelamente a quelle della rete.
Le reti di imprese hanno forme giuridiche diverse,
distinguibili essenzialmente in tre categorie: reti
contrattuali, organizzative e miste. Queste ultime
consistono nella combinazione di forme di collaborazione contrattuale e societaria che coordinano
svolgimento dell’attività economica e governo delle
imprese.
In ambito contrattuale sono stati distinti due macro
modelli: uno, fondato sull’impiego del contratto
plurilaterale; l’altro, sul collegamento tra diversi
contratti di collaborazione. Il primo modello si è
configurato come rete di imprese, il secondo come
rete di contratti tra imprese. Ferme restando le differenze funzionali entrambi i modelli sono riconducibili al genus della rete contrattuale di imprese al quale l’intervento normativo in commento si riferisce
(3).
Le modifiche normative sul piano civilistico vengono affiancate ad una disciplina fiscale che conserva
la propria autonomia ancorché pensata per dare stimoli alla diffusione del contratto di rete.
Nelle riflessioni che seguono si darà conto dei mutamenti intervenuti cercando di ripercorrere, in parte,
anche il cammino della prassi tra l’approvazione
della prima disciplina e quella riformata con l’ultimo intervento, per dimostrare che anche i primi
contratti mostrano una sostanziale fisionomia contrattuale, rifuggendo dalla soggettivazione. Segno
questo che vi è bisogno prioritariamente di una figura contrattuale piuttosto che di un nuovo modello
entificato.
Deve sottolinearsi che sin dalle prime applicazioni
sia venuta emergendo una funzione aggiuntiva del
contratto di rete, di carattere più strettamente regolativo. Esso è stato infatti impiegato anche da associazioni imprenditoriali per coordinare le proprie attività dirette alla erogazione di servizi alle imprese
(4). Analogamente alcuni contratti hanno disciplinato la regolazione di qualità del prodotto finale e
del suo processo di produzione cui gli aderenti alla
rete partecipano. Di questo la modifica non ha tenuto conto, come invece sarebbe stato opportuno,
per ampliare la funzione di coordinamento della rete anche alla erogazione di servizi alle imprese. L’erogazione di servizi alla rete costituisce infatti un
obiettivo essenziale per lo sviluppo di queste forme
di collaborazione. È auspicabile che la prassi consenta il consolidamento di un modello contrattuale
specificamente diretto alla fornitura di servizi integrati alle PMI.
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Il contratto di rete era stato introdotto nell’ordinamento italiano con l’art. 3 comma 4-ter d.l. n. 5 del
2009, conv. dalla l. n. 33 del 2009. Questo intervento aveva suscitato molte perplessità concernenti natura e le modalità dello strumento. Alcune riguardanti l’opportunità di una disciplina in una materia
che taluno riteneva più opportuno lasciare consolidare sul piano sociale, altre concernenti il merito
della disciplina e l’architettura del contratto di rete
(5).
I dubbi sulle modalità dell’intervento legislativo riguardavano da un lato le lacune: molti profili non
erano neppure menzionati nella disciplina; dall’altro
concernevano, sul piano dei contenuti, l’ambiguità
tra un modello contrattuale ed uno organizzativo,
non societario, dotato di una soggettività giuridica,
ancorché limitata (6).
L’attenzione delle imprese allo strumento appena introdotto ed il ruolo guida assunto da molte associazioni hanno contribuito a sviluppare un dibattito
sull’ambito e le modalità di impiego del contratto di
rete mentre ancora pochi sono i contributi che indagano le implicazioni sistematiche della figura sul
sistema del diritto dei contratti e sui confini dello
stesso con il diritto delle società (7).
Il contratto di rete costituisce una figura transtipica.
Esso non rappresenta soltanto un nuovo tipo contrattuale che si affianca ai tanti modelli già esistenti
di reti di imprese a carattere contrattuale od organizzativo. La sua disciplina si colloca tra quella generale del contratto e quella del singolo tipo, dal
momento che può svolgere una pluralità di funzioni
Note:
(3) Sia consentito il rinvio a F. Cafaggi, Contractual Networks and
the Small Business Act: Towards European Principles? (2008), 4
European Review of Contract Law, 490 ss., 495.
(4) Uno dei primi contratti di rete è stato stipulato da società di
servizi controllate da tre associazioni imprenditoriali toscane per
il coordinamento nella fornitura di servizi alle imprese associate.
(5) Per un primo esame del Dibattito, si vedano i contributi curati da F. Macario e C. Scognamiglio, Reti di imprese e contratto di
rete, in questa Rivista, 2009, 915 ss. in part. F. Macario, Il contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo, ibidem,
951 ss. nonché AA.VV., Il contratto di rete, a cura di F. Cafaggi,
Bologna, 2009 e AA.VV., Le reti di imprese e i contratti di rete, a
cura di P. Iamiceli, Torino, 2009; F. Cafaggi-P. Iamiceli, Contratto
di rete. Inizia una nuova stagione di riforme?, in Obblig. e contr.,
2009, 595 ss.
(6) Sulla relativa importanza di tale distinzione cfr. A. Gentili, Una
prospettiva analitica sulle reti di imprese e contratti di rete, in
Obbl. e contr., 2010, 87 ss. Sulla compresenza dei due modelli
nella normativa previdente cfr. AA.VV., Il contratto di rete, a cura
di F. Cafaggi, cit.
(7) Per alcune notazioni su quest’ultimo versante, profilando la
stipulazione di contratti di rete in forma societaria: D. Corapi, Dal
consorzio al contratto di rete. Spunti di riflessione, in AA.VV., Le
reti di imprese e i contratti di rete, cit., 167 ss.
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coincidenti con uno o una pluralità di tipi esistenti
ovvero dare luogo alla creazione di nuovi tipi contrattuali (8). Tale collocazione consente da un lato
di impiegare modelli contrattuali già esistenti, connotandoli in senso più marcatamente reticolare, e,
dall’altro, di combinare più figure causalmente definite, per costituire reti di imprese complesse, in grado di governare segmenti, anche rilevanti, della filiera produttiva.
Sotto il profilo soggettivo il contratto di rete può essere stipulato da imprenditori. Devono ritenersi incluse anche le imprese sociali e quelle operanti con
la forma giuridica di enti senza scopo di lucro. La
prassi dimostra che anche le associazioni imprenditoriali possono stipulare contratti di rete. Rimangono invece esclusi gli enti pubblici non aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di impresa. Come si
è ripetutamente detto ciò non significa che forme di
collaborazione, in particolare in materia di innovazione e trasferimento tecnologico, non possano
aversi tra le imprese in rete e gli enti di ricerca in sede di esecuzione del contratto di rete.
La disciplina del contratto di rete pertanto si aggiunge senza sostituirsi alle forme già esistenti, che,
sia sul piano contrattuale che su quello societario,
offrono un inventario ricco ed articolato di strumenti per promuovere la collaborazione tra imprese
(9). Essa è disegnata per definire sistemi di collaborazione tra imprese a carattere stabile ma non necessariamente permanente che presuppongono la conservazione dell’indipendenza giuridica ed, almeno in
parte, di quella economica.
Il contratto di rete governa l’interdipendenza preservando l’indipendenza delle imprese partecipanti.
Si tratta dunque di un veicolo di crescita complementare a quello del gruppo, compreso il non disciplinato fenomeno del gruppo contrattuale. Ciò non
significa, come emerge anche da alcuni contratti di
rete già stipulati, che la nuova disciplina non possa
essere impiegata per compiere un percorso che, transitando dalla rete, si concluda con la costituzione di
un gruppo. Si tratta tuttavia di un esito eventuale e
non necessario.
Sotto il profilo causale la disciplina, anche quella
che qui si commenta, tace circa la lucratività o mutualità della rete. Deve quindi confermarsi l’interpretazione estensiva offerta in sede di primo commento, ammettendo che il contratto possa prevedere formule diverse che vanno da una configurazione
in cui la rete trasferisce integralmente ai partecipanti i profitti e le perdite, ad una che prevede una ripartizione mista dei profitti, parte alle singole imprese e parte alla rete, ad una che vincola le parti a
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reinvestire i profitti nella rete impedendone la distribuzione. Emerge invece con evidenza l’esigenza
di coniugare un interesse collettivo della rete con
l’interesse individuale dei singoli partecipanti. Riflessi dell’esigenza di pervenire ad un equilibrio si ritrovano nei diversi modelli di governo adottati nei
primi contratti (10).
La nuova disciplina: la l. n. 122 del 2010
Nel commentare a prima lettura la disciplina si erano sottolineate le lacune importanti e le ambiguità
irrisolte tra l’identità contrattuale e quella organizzativa del contratto di rete. La riforma del 2010 risponde, almeno parzialmente, ad alcune esigenze
sollevate in quei commenti, rafforzando l’idea di potere utilizzare due grandi modelli: uno contrattuale,
leggero; l’altro con caratteristiche di maggiori complessità che, pur rimanendo in ambito contrattuale,
introduce strumenti di governance e di finanziamento simili a quelle dei modelli organizzativi consortili.
Il d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122
del 2010 modifica la disciplina in più punti, essenzialmente incidendo in quattro ambiti:
a) il profilo dell’oggetto;
b) il profilo patrimoniale;
c) il profilo della governance e della rappresentanza;
d) il profilo del recesso e dello scioglimento.
Prima di esaminare questi quattro profili occorre
sottolineare un’ulteriore modifica che connota il
contratto di rete come plurilaterale eliminando le
ambiguità derivanti dal precedente testo che ammetteva sia reti bilaterali che plurilaterali. La formula «con il contratto di rete due o più imprese» è
stata sostituita con quella «con il contratto di rete
più imprenditori…». Dunque parti del contratto soNote:
(8) Sulla natura transtipica del contratto di rete cfr. F. Cafaggi, Il
contratto di rete ed il diritto dei contratti, in questa Rivista, 2009,
915 ss. part. 919. Per una diversa prospettiva, sulla natura tipica
del contratto di rete: G. Villa, Il coordinamento interimprenditoriale nella prospettiva del contratto plurilaterale, in AA.VV., Le reti di imprese e i contratti di rete, cit., 107; C. Camardi, I contratti
di distribuzione come contratti di rete, ibidem, 225; M. Orlandi,
Condizioni generali di contratto e reti atipiche, ibidem, 91 (dove
tuttavia si parla di tipo o di meta-tipo); G.D. Mosco, Frammenti ricostruttivi sul contratto di rete, in Giur. comm., 2011, in corso di
pubblicazione.
(9) Sulla distinzione tra reti contrattuali, organizzative e miste sia
consentito il rinvio a AA.VV., Reti di imprese tra regolazione e
norme sociali, a cura di F. Cafaggi, Bologna, 2004, 57 ss.
(10) Con riferimento al tema della causa cfr. C. Scognamiglio, Il
contratto di rete: il problema della causa, in questa Rivista, 2009,
962 ss.; Id., Dal coordinamento negoziale alla causa di coordinamento nei contratti tra imprese, in AA.VV., Le reti di imprese e i
contratti di rete, cit., 61 ss.
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no gli imprenditori e non le imprese, e l’espressione
“più” va intesa nel senso di plurilateralità, ancorché
non possa escludersi la possibilità che la rete sia
composta solo da due imprenditori. Pertanto la disciplina applicabile sarà quella del contratto plurilaterale.
(Segue): a) Il profilo dell’oggetto
Sotto il profilo dell’oggetto le novità sono assai rilevanti. Si è definita una tripartizione che si riporta,
seguendo un ordine diverso da quello del testo legislativo. Essa consente di costituire diverse tipologie
di rete:
1) Una forma leggera di rete, diretta allo scambio di
informazioni o prestazioni. Si tratta della tipizzazione di un contratto plurilaterale di scambio che trova
dunque diretto riconoscimento legislativo e una prima, ancorché incompleta, disciplina.
2) Una forma più intensa avente oggetto di collaborazione introdotta come era stato auspicato nei primi commenti al testo precedente (11).
3) Una terza forma che si riferisce all’esercizio in comune di attività da parte delle imprese partecipanti
alla rete.
Sul piano dell’oggetto questa tripartizione riflette
l’adozione di un modello contrattuale capace di
contenere formule organizzative tra loro assai diverse che vanno dallo scambio alla collaborazione, all’esercizio in comune dell’attività. Tale tripartizione
può essere letta sul piano causale facendo riferimento a diversi equilibri tra interesse collettivo ed interessi individuali. Prevalenti questi ultimi nel contratto plurilaterale di scambio, soccombenti o comunque in posizione subordinata nei contratti di
collaborazione ed ancor più in quelli che prevedono
l’esercizio in comune dell’attività.
Viene confermata e rafforzata dalla riforma la natura transtipica del contratto di rete (12). Si tratta di
formule che, nella prospettiva da tempo adottata,
possono riflettere programmi e moduli organizzativi
diversi (13). Una flessibilità, dunque, orientata verso tre macro modelli che vale la pena di esaminare
in maggior dettaglio.
1) Il contratto plurilaterale di scambio può avere ad
oggetto le informazioni e più in generale la conoscenza ovvero, in aggiunta, lo scambio di prestazioni
(14). Nel primo caso, la rete consente di condividere informazioni dirette, ad esempio, alla produzione
di innovazione, in relazioni con terzi tenuti a svolgere la prestazione principale. Questo può accadere
nell’ipotesi in cui più imprese, costituite in rete, affidino un’attività di ricerca ad una singola impresa o
ad un consorzio di ricerca e definiscano nel contrat-
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to le modalità di scambio di informazioni tra le imprese committenti nella gestione del contratto con
la società di ricerca (15). Scambio di informazioni
può avvenire altresì nell’ambito di imprese appartenenti allo stesso settore che condividano la ricerca
precompetitiva con la produzione di newsletter o altri strumenti di diffusione delle conoscenze tra i partecipanti alla rete (16). I modelli attualmente prevalenti nella prassi sono quelli del network informale o dell’associazione senza scopo di lucro (17). Una
terza modalità si riferisce allo scambio di informazioni commerciali aventi ad oggetto ad esempio clienti
commerciali che possano avere interesse all’acquisto
di beni complementari (18). Con la nuova disciplina è possibile anche impiegare il contratto plurilaterale di scambio, ampliando così la gamma di strumenti disponibili.
Nel secondo caso la rete consente di scambiare prestazioni oltre ad informazioni. La possibilità di definire un sistema di scambio non puramente bilaterale in cui ciascun contraente presti a favore della collettività non soggettivizzata dei partecipanti alla rete ha un significato assai rilevante. Il contratto di rete consente in tal modo di governare segmenti di fiNote:
(11) Si era proposta la causa di collaborazione in F. Cafaggi, Introduzione, il contratto di rete, cit., 29. Sulla rilevanza causale
della collaborazione nel contratto di rete insiste anche A. di
Majo, Contratti di rete, doveri di cooperazione e prospettive di
tutela, in AA.VV., Le reti di imprese e i contratti di rete, cit., 269.
(12) Cfr. F. Cafaggi, Il contratto di rete ed il diritto dei contratti,
cit., 919.
(13) Sia consentito il rinvio a F. Cafaggi, Il governo della rete. Modelli organizzativi del coordinamento interimprenditoriale, in
AA.VV., Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, a cura di
F. Cafaggi, Bologna, 2004.
(14) Cfr. G. Villa, Il coordinamento interimprenditoriale, cit., 103
ss. Sulla combinazione tra causa associativa e causa di scambio
nelle reti, v. anche P. Perlingieri, Reti e contratti tra imprese tra
cooperazione e concorrenza, in AA.VV., Le reti di imprese e i
contratti di rete, cit., 393. Con riferimento al ruolo del contratto
di rete nel trasferimento di conoscenza innovativa, già in presenza dell’articolato pre-vigente: A. Musso, Reti contrattuali tra
imprese e trasferimento della conoscenza innovativa, ibidem,
177 ss.
(15) Sul fenomeno dell’esternalizzazione dell’attività di R&D da
parte di una pluralità di imprese costituite in consorzio cfr., in
chiave analitica ed empirica, S. Majewsky, How Do Consortia
Organize Collaborative R&D? Evidence from the National Cooperative Research Act, 2008, in http://web.mit.edu/is08/program.
(16) Sul tema M. Gobbato, Il contratto e il trasferimento di conoscienza, in corso di pubblicazione.
(17) Cfr. F. Cafaggi-P. Iamiceli, Reti di imprese tra crescita ed innovazione organizzativa, Bologna, 2007, 317.
(18) Di tale ipotesi si trova conferma in alcuni contratti di rete già
stipulati che indicano specificamente tra le attività della rete
quello dello scambio e condivisione di informazioni commerciali.
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liera attraverso scambi di prestazioni diretti alla fornitura di componenti al produttore finale che possono comprendere anche scambi tra subfornitori di diverso livello. In filiere particolari, come ad esempio
quella edilizia, con la previsione del contratto plurilaterale di scambio si consente la costituzione di
contratti ai quali possono partecipare progettisti,
committente ed appaltatore legando così prestazioni
la cui attuale segmentazione comporta spesso eccessi di litigiosità, con l’obiettivo di individuare responsabili individuali di scelte che sono spesso il
frutto di condivisione del rischio (19).
2) Il contratto di collaborazione si pone su un piano
diverso da quello dello scambio. L’equilibrio tra interesse comune ed interessi individuali è diverso.
Diversi sono i profili che possono incidere sulla definizione di collaborazione e la differenziazione rispetto allo scambio ed all’esercizio in comune dell’attività. Un primo aspetto è quello della finalità; un secondo è correlato al livello di incertezza esistente
circa il contenuto delle prestazioni e agli obiettivi
del programma di rete.
Sul piano delle finalità la collaborazione identifica
certamente un elemento dello scopo comune ai partecipanti ma differisce dall’esercizio in comune perché mantiene un livello di indipendenza delle singole attività di impresa assai elevato, pure nell’ambito della collaborazione. Resta inteso infatti che, in
tutte le ipotesi di rete, le imprese conservano la loro
autonomia non solo giuridica ma anche economica
e la rete, come detto, rappresenta solo una parte,
sebbene rilevante, delle attività svolta dalle imprese. Una funzione riconducibile alla collaborazione è
certo quella del coordinamento tra attività complementari dirette ad un risultato finale unitario come
la produzione di uno o più beni finali. In questa ipotesi la collaborazione può comprendere anche attività di scambio che risultano strumentali al conseguimento dell’obiettivo finale. L’elemento collaborativo dunque prevale senza eliminare quello dello
scambio tra i partecipanti alla rete. Altro esempio
paradigmatico è quello della creazione di un marchio comune per attività svolte individualmente
dalle imprese. Alla creazione del marchio si accompagna la produzione di un disciplinare che le imprese si impegnano a rispettare nel programma di rete
con l’obiettivo prioritario di tutelare il bene collettivo associato al marchio: la reputazione della rete. A
quest’ambito vanno anche ricondotti i gruppi di acquisto e quelli di vendita.
Venendo ora al secondo profilo riguardante l’incertezza sul risultato finale, la differenza principale riguarda il contratto di rete avente causa di collabora-
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zione rispetto a quello avente causa di scambio, sia
di informazioni che di prestazioni. La formula del
contratto di collaborazione va presumibilmente impiegata per quelle ipotesi in cui il contenuto delle
prestazioni dei partecipanti alla rete non sia ex ante
perfettamente definibile perché le parti devono collaborare per definire le caratteristiche di un nuovo
prodotto da immettere sul mercato o di un nuovo
processo che possa conferire maggiore competitività. L’illustrazione migliore è rappresentata dall’attività di ricerca svolta direttamente o affidata in
outsourcing a soggetti specializzati. Mentre nell’ipotesi precedente, specialmente quella concernente lo
scambio di prestazioni, l’assunto di partenza era
quello secondo cui ciascuno partecipa allo scambio
con una prestazione i cui contenuti sono relativamente standardizzati, nel contratto di collaborazione le prestazioni di ciascuno o, almeno, di alcuni dei
partecipanti alla rete non sono definite ex ante, determinabili ma non determinate, e specificate sulla
base dei risultati conseguiti grazie alla collaborazione. Le parti decidono di collaborare per produrre un
bene e servizio dai contenuti innovativi di cui al
momento dell’inizio della collaborazione conoscono
solo alcuni tratti (20). La collaborazione ha appunto
la funzione di definire il progetto grazie all’apporto
di tutti partecipanti. Ovviamente impiegare il contratto per definire la collaborazione assicura un livello di protezione degli investimenti specifici e delle risorse critiche assai maggiore di ciò che potrebbe
avvenire se lo scambio di conoscenze avvenisse nella fase precontrattuale (21). Dunque è funzionale alla protezione delle parti che lo scambio avvenga non
Note:
(19) Sul tema, con riferimento in particolare alla recente contrattualistica americana cfr. F. Cafaggi, Introduzione, in AA.VV., Contractual networks, interfirm collaboration and economic growth,
cit, Edward Elgar, 2011. Cfr. anche Klein-Gulati, Economic Organization in the Construction Industry: A Case Study of Collaborative Production Under High Uncertainty, UCLA, School of Law,
Law & Economics Research Paper Series Research Paper No.
03-17, 2003, http://ssrn. com/abstract=428600.
(20) Cfr. R. Gilson-C. Sabel-R. Scott, Contracting for Innovation:
Vertical Disintegration and Inter-firm Collaboration, in Columbia
Law Review, 109 (2009); R. Gilson-C. Sabel-R. Scott, Braiding:
The Interaction Of Formal and Informal Contracting, in Theory,
Practice and Doctrine, 2009, disponibile su http://papers.ssrn.
com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1535575; Gillette-Scott, Contractual networks, contract design and contract interpretation:
the case of credit cards, in AA.VV., From exchange to cooperation - Networks and long term relationship in european contract
law, Atti della Conferenza Secola di Firenze, 2011, in corso di
pubblicazione. Sulla diversa struttura del dovere di cooperazione
nelle relazioni contrattuali C. Goetz-R. Scott, Principles of relational contracts, in 67 Virginia Law Review 1089 (1981).
(21) Cfr. R. Scott-A. Schwartz, Precontractual Liability and Preliminary Agreements, in Harvard Law Review, 2007, 120, 3, 622 ss.
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prima della stipulazione del contratto di rete ma successivamente, nel quadro della collaborazione definita contrattualmente con un livello di vincolatività superiore a quello conseguibile in regime precontrattuale. Sotto il profilo del programma di rete e
degli obblighi di ciascun partecipante sono evidenti
le differenze rispetto al contratto di scambio precedentemente esaminato. Si tratterà di prestazioni
spesso dal contenuto meno definito in sede di redazione del programma che presuppongono una governance ed un monitoraggio dell’esecuzione diverso da
quello del contratto di scambio con il presumibile
maggiore coinvolgimento dell’organo comune, ove
istituito, anche al fine del completamento del contratto e della sua attuazione (22).
3) Il contratto per l’esercizio in comune dell’attività.
È questa senz’altro la formula che presenta maggiori
affinità con quella societaria. Pur rimanendo nel
quadro contrattuale e liberatisi dalle ambiguità che
caratterizzavano il dettato normativo precedente
occorre comunque ribadire che la interpretazione
della locuzione «esercizio in comune dell’attività»
debba avere un’estensione maggiore di quella generalmente attribuita all’espressione in ambito societario, comprendendo forme miste di coordinamento
e svolgimento in comune di attività complementari,
come la ricerca o la gestione in comune di logistica
o di reti telematiche. Il contratto di rete ha trovato
applicazione in relazione allo svolgimento di attività
dirette a migliorare la qualità di prodotti e servizi
grazie all’adozione di disciplinari comuni e di attività di ricerca ad essi connessi.
Altre possibili applicazioni riguardano l’organizzazione di micro-mercati. Tipicamente più imprese
che vogliano costituire una rete per l’offerta di servizi ovvero un vero e proprio mercato telematico di
beni o servizi, dovranno fare riferimento all’esercizio
in comune di attività economica. Un modello contrattuale di rete avente ad oggetto l’esercizio in comune di attività riguarda infatti le ipotesi di reti telematiche di trading in cui il gestore sia una rete di
imprese che definisca le regole generali lasciando
poi ai singoli traders, solo membri (club) anche terzi
(rete aperta), il compito di definire le condizioni
contrattuali dello scambio.
Si può immaginare anche il caso in cui vi sono imprese che domandano un servizio, ad esempio la gestione amministrativo-finanziaria in outsourcing ed
altre imprese che offrono tali servizi. È ipotizzabile
che tramite un solo contratto di rete si definiscano
rapporti tra domanda ed offerta in uno specifico
mercato, ovvero che si costituisca una rete per la
fornitura, una per l’acquisto dei servizi ed i rapporti
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tra le due reti vengano disciplinati da un contratto
che potrebbe anche esso impiegare il tipo contratto
di rete ovvero un semplice contratto di durata.
Le ipotesi appena descritte sono poi cumulabili nel
senso che un contratto di rete può avere la funzione
di promuovere la collaborazione tra alcune imprese
per favorire lo scambio di prestazioni con altre imprese. Si era ipotizzata infatti la creazione di una rete che, attraverso un contratto quadro, svolgesse attività complementari definite tramite contratti esecutivi plurilaterali includendo tutti o solo alcuni dei
partecipanti.
La prassi sta mostrando che un impiego diffuso del
contratto di rete concerne la regolazione della qualità e/o sicurezza del prodotto e del processo lungo la
filiera con o senza la gestione di un marchio collettivo. Sempre più spesso gli standard internazionali richiedono infatti la certificazione di filiera per la
quale si suggerisce la creazione di reti o gruppi di imprese che coordinandosi regolino l’implementazione
controllando così la ottemperanza di tutte le imprese coinvolte (23).
Il contenuto necessario del contratto
ed il programma di rete
Sotto il profilo del contenuto del contratto di rete
due modifiche assai rilevanti sono intervenute: l’istituzione del fondo patrimoniale e dell’organo comune sono divenute facoltative. In tal modo esse
non costituiscono parte del contenuto necessario
del contratto. Si potranno pertanto creare modelli
più leggeri privi del fondo e dell’organo comune con
una gestione patrimoniale rimessa alle singole parti
e una gestione amministrativa collegiale. Potranno
aversi reti con fondo ma senza organo o reti con organo comune ma senza fondo ed infine reti, organizzativamente più complesse, dotate sia di un fondo
patrimoniale comune sia di un organo comune.
Il programma di rete costituisce un elemento del
contenuto necessario, sia nel testo originario che in
quello riformato. La prassi rivela che viene impiegato diversamente: in taluni contratti si definiscono
solo le linee guida in altri si puntualizzano in dettaglio le diverse attività della rete ed obblighi e diritti
dei partecipanti. Rimane confermata la dialettica
tra dettaglio del programma di rete e discrezionalità
Note:
(22) Con riferimento alla disciplina previgente, v. F. Cafaggi-P. Iamiceli, La governance del contratto di rete, in AA.VV., Il contratto di rete, cit., 45 ss.
(23) Cfr. F. Cafaggi-P. Iamiceli, Private regulation and industrial organization: the network approach, paper presentato alla conferenza ELSNIT, ottobre 2010.
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dell’organo comune: tanto più elevato il primo
quanto minore la seconda.
Indicazioni interessanti circa il programma di rete
emergono da alcuni dei contratti di rete stipulati nel
corso del 2010. In contratti relativi al settore della
meccanica il programma di rete fa esplicito riferimento alla predisposizione di regolamenti interni e
disciplinari anche attinenti alla adozione di una
procedura di certificazione delle imprese appartenenti alla rete. Dunque il programma di rete può
comprendere una pluralità di attività: un’attività organizzativa relativa alla capacità della rete di rispondere alle commesse provenienti dall’esterno ed una
normativa relativa alla certificazione dei prodotti
con la quale la rete cerca di creare una propria reputazione, adottando un logo comune ed una procedura condivisa. Il programma definisce un obbligo dei
partecipanti di conformarsi ai regolamenti ed ai disciplinari nello svolgimento dell’attività, sia quella
interna alla rete sia quella con terzi.
Un secondo profilo concerne la costituzione di enti
da parte della rete per la realizzazione del programma. Come si era ipotizzato infatti programmi di rete
complessi possono richiedere non solo la costituzione di un organo comune ma anche la creazione di
soggetti deputati allo svolgimento di attività relative all’esecuzione del programma di rete (24). In alcuni contratti di rete si prevede la costituzione di
enti in forma di agenzia per l’organizzazione di campagne pubblicitarie ovvero di enti destinati ad organizzare la partecipazione a fiere ed altre attività di
promozione. Oggi tale possibilità è espressamente
contemplata dall’articolato sul contratto di rete
(25).
Un ulteriore profilo emergente dalla prassi riguarda
l’esclusiva della rete. Nel programma di rete si trova
spesso una clausola che impegna i partecipanti a
svolgere l’attività esclusivamente nella rete ed a non
costituire reti concorrenti. Un vincolo che riguarda
le imprese individualmente e collettivamente,
proiettandosi spesso anche nella fase successiva allo
scioglimento della rete.
(Segue): b) I profili patrimoniali
L’innovazione più rilevante è certamente quella di
avere reso l’istituzione del fondo patrimoniale facoltativa (26). Vi saranno dunque due grandi modelli:
a) Reti senza fondo patrimoniale;
b) Reti con fondo patrimoniale.
1) Costituito con conferimenti dei singoli partecipanti;
2) Costituito con patrimoni destinati delle imprese
partecipanti.
I contratti 12/2010
Se sotto un profilo civilistico la scelta appare assolutamente libera, il riferimento alla destinazione degli
utili conseguiti dalle singole imprese al fondo o al
patrimonio destinato contenuto nell’art. 42 comma
2-quater indica chiaramente che le reti che intendano conseguire i benefici fiscali dovranno dotarsi di
un fondo patrimoniale. Gli utili individualmente
conseguiti da ciascuna impresa potranno essere reinvestiti nel programma di rete e fruire dei benefici fiscali sotto la vigilanza dell’Agenzia delle entrate.
Il profilo patrimoniale attiene alla ripartizione dei
costi e delle eventuali perdite e dei profitti conseguiti dalla rete. La sua regolazione avviene nel programma di rete e nell’ipotesi di costituzione di fondo
predisponendo un regolamento del fondo.
Nel primo modello le esigenze patrimoniali della rete, la ripartizione dei costi e degli eventuali profitti
saranno gestite senza l’impiego di un fondo comune
ripartendole tra i singoli contraenti. Questo avverrà
presumibilmente attraverso l’opera dell’OC che,
con il contratto di mandato, potrà gestire anche i
profili patrimoniali. In mancanza di un OC saranno
i singoli contratti esecutivi del programma a definire le modalità di ripartizione dei costi e dei profitti.
Nel secondo modello la nuova normativa indica
esplicitamente che alla istituzione del fondo si accompagnano l’indicazione della misura e dei criteri
di valutazione dei conferimenti iniziali e degli eventuali contributi successivi nonché dei criteri di gestione. Questo avviene attraverso la predisposizione
di un regolamento del fondo.
Tale indicazione definisce un’allocazione di compiti
tra programma di rete ed attività dell’eventuale organo comune deputato alla gestione del fondo. Il legislatore, con una norma i cui contenuti sono comunque assai generali, affida ai contraenti in sede di
Note:
(24) Cfr. F. Cafaggi-P.Iamiceli, La governance del contratto di rete, in AA.VV., Il contratto di rete, cit., 53-54. Cfr., in tema di ATI,
Cass. 13582/2001 in cui veniva costituita una società consortile
partecipata dalle imprese dell’ATI per l’esecuzione materiale in
forma unitaria dei lavori (che tuttavia «non esclude la riferibilità
alle singole società socie delle attività poste in essere per il suo
tramite»). Ad essa la corte attribuisce rilevanza puramente interna; essa inoltre sarebbe priva di poteri rappresentativi e gestori,
avrebbe rilevanza meramente interna e sarebbe rivolta alla mera
esecuzione materiale dell’appalto.
(25) V. comma 4-ter, lett. e, dove si richiede di indicare «la denominazione sociale del soggetto prescelto per svolgere l’ufficio di
organo comune per l’esecuzione del contratto o di una o più parti o fasi di esso».
(26) Per un esame della disciplina cfr. P. Iamiceli, Il contratto di
rete tra percorsi di crescita e prospettive di finanziamento,in
questa Rivista, 2009, 942 ss. ed Ead., Contratto di rete, fondo
comune e responsabilità patrimoniale, in AA.VV., Il contratto di
rete, cit., 63 ss.
1149
Argomenti
I singoli contratti
definizione del programma di rete il compito di definire i principi sia di costituzione che di gestione del
fondo, salvo poi consentire all’OC, nell’esercizio dei
poteri di gestione, non solo di impiegare il fondo ma
anche di definire più specificamente le modalità di
gestione, specialmente in relazione ai rapporti con i
terzi, ad esempio nella prestazione di garanzie per attività che la rete si impegni a svolgere a favore di
soggetti esterni.
(Segue): c) Il profilo della Governance
Le modifiche forse più diffuse riguardano la governance della rete e la rappresentanza. Analogamente
a quanto sostenuto nei primi commenti ed a fortiori
vista la tripartizione di cui sopra, occorre interrogarsi sulla struttura di governance della rete chiedendosi
se non occorra definire una correlazione tra il piano
dell’attività e quello dell’organizzazione, immaginando che a ciascuna causa e/o classe di attività possa corrispondere uno specifico modello organizzativo. Questa correlazione non è certamente un vincolo dal momento che la legge continua a consentire
la massima libertà nella scelta dei modelli organizzativi. Si tratta solo di valutare se nell’esercizio dell’autonomia le parti possano orientarsi verso una
differenziazione strutturale che rifletta i diversi compiti che la rete può assumere.
L’innovazione più rilevante è quella di aver reso l’istituzione dell’organo comune facoltativa e di aver
disciplinato il rapporto tra OC e rete facendo riferimento al contratto di mandato. Anche in questo caso si tratta di una modifica opportuna che amplia
l’autonomia offrendo modelli di riferimento. Rimane comunque troppo indefinito il modello con organo comune, dove sarebbe stata preferibile qualche
norma dispositiva in più soprattutto con riferimento
alla gestione, ad esempio in materia di conflitti di
interesse tra rete e singoli partecipanti, nonché alla
fase di scioglimento della rete ed agli obblighi postcontrattuali.
La legge nulla dice sui criteri della scelta tra i modelli organizzativi. Presumibilmente la creazione di
un organo comune sarà utile per la governance di reti transeuropee o comunque dirette alla gestione di
segmenti di filiera transnazionale. Ragionevolmente
la scelta del modello con organo comune ricorrerà
per la gestione di reti complesse, costituite da un numero elevato di partecipanti e/o costituite per lo
svolgimento di operazioni economiche complesse. I
primi contratti di rete stipulati con la normativa
previdente rivelavano già un’ampia gamma di soluzioni organizzative.
In base alla nuova disciplina con riferimento alla go-
1150
vernance si possono immaginare due macro modelli
nell’ambito dei quali diverse sono le variabili ammesse:
1) Senza organo comune
2) Con organo comune
1) Modello senza organo comune
Il modello di rete senza organo comune affida essenzialmente ai partecipanti la gestione collegiale con
la possibilità di delegare un soggetto partecipante o
esterno alla rete allo svolgimento di compiti specifici attraverso l’impiego del mandato che potrà essere
generale o per uno specifico affare. Tale struttura
sembra adatta a reti semplici composte di un numero limitato di imprenditori e con compiti relativamente semplici. Il modello decisionale riguardante
la gestione deve essere definito nel programma di rete ma ovviamente vi possono essere modalità specifiche determinate dai contraenti all’unanimità. Non
è esclusa in questa ipotesi l’affidamento dell’attività
amministrativa e contabile in outsourcing.
2) Modello con organo comune
In relazione all’organo comune le novità riguardano
i poteri di gestione e di rappresentanza dell’organo
comune. Per la definizione del contenuto di entrambi il riferimento è al contratto di mandato chiarendo così alcuni dubbi interpretativi sorti in relazione
alla precedente disciplina. L’organo comune è dunque mandatario comune dei contraenti partecipanti
alla rete. Le parti possono, con l’istituzione dell’organo comune, definirne puntualmente i poteri di gestione e rappresentanza, disciplinando gli obblighi
di rendicontazione nonché le condizioni di revoca e,
nel caso di organo composto di una pluralità di soggetti, le condizioni per la sostituzione di singoli
membri.
Quale relazione sussiste tra il programma di rete ed il
mandato che conferisce i poteri all’OC? Gli obblighi delle parti contraenti sono definiti nel programma di rete; nell’ipotesi di costituzione dell’organo
comune verranno determinati sia dal programma di
rete, sia nel contratto di mandato che disciplina la
relazione con l’OC ed anche successivamente in relazione alle specifiche attività promosse dall’OC.
Dunque l’attività dell’OC in esecuzione del mandato conferito integra il programma di rete e contribuisce a determinare il contenuto di obbligazioni
che, al momento della redazione del programma,
erano determinabili ma non determinate. Ciò accade sia in relazione ad attività che la rete svolge con
terzi sia per attività della rete nell’interesse dei partecipanti. La nuova disciplina introdotta dalla l. n.
I contratti 12/2010
Argomenti
I singoli contratti
122 del 2010 ha chiarito che il rapporto tra rete ed
OC è regolato dal contratto di mandato, pertanto i
nuovi obblighi, assunti dagli imprenditori in forza
dell’attività dell’OC, saranno regolati dalla disciplina del contratto di rete in combinazione con quella
codicistica del mandato (27). La discrezionalità dell’OC, si è detto in precedenza, può variare, così come varia il potere di vincolare i partecipanti alla rete allo svolgimento di attività genericamente indicate nel programma e concretamente definite dall’OC nello svolgimento dell’attività. È pertanto opportuno, se non necessario, prevedere nel contratto
di rete, indicandolo specificamente nel programma,
che le parti si obblighino a rispettare le indicazioni
ed attribuzioni dell’OC. Il disegno di governance dovrà prevedere una corretta combinazione tra poteri
dell’OC e monitoraggio da parte dei partecipanti alla rete in modo da incentivare la cooperazione e scoraggiare l’eccessiva litigiosità.
L’organo comune, variamente denominato, è stato
configurato nella prassi in maniera assai diversa sia
per ciò che attiene alle competenze rispetto a quelle
dei sottoscrittori sia per quel che riguarda l’allocazione interna dei poteri, in particolare quelli del presidente. Emerge con evidenza che l’organo incaricato di presiedere l’attuazione del programma di rete
svolge sia una funzione di coordinamento interno
che di rappresentanza esterna. Le due funzioni sono
ovviamente collegate quando la rete acquista commesse esterne per ripartirne l’attuazione all’interno.
L’organo ha quindi la funzione di decidere la ripartizione tra le imprese sulla base di criteri che possono,
ma non necessariamente devono, essere predeterminati attraverso un regolamento (28).
Alcuni contratti conferiscono un rilevante potere
discrezionale al presidente dell’OC nella definizione
delle capofila in ipotesi di acquisizioni di commesse
esterne. Altri modelli invece attribuiscono all’organo collegiale il compito di ripartire le commesse e
quindi gli eventuali profitti derivanti dallo svolgimento delle attività. Altri contratti riconducono all’organo comune due organi l’assemblea degli aderenti ed il presidente dell’OC. Tale soluzione organizzativa suscita qualche perplessità dal momento
che si riconduce all’OC sia la funzione di deliberazione strategica che quella di attività di gestione ed
esecutiva sebbene distinta in due organi. Preferibile
sarebbe conservare all’OC la funzione di organo esecutivo del programma prevedendo separatamente la
costituzione di un’assemblea degli aderenti con funzione di adattamento del programma e di monitoraggio dell’attività dell’OC.
Talvolta, nella definizione dei poteri del presidente
I contratti 12/2010
dell’OC, i primi contratti fanno esplicito riferimento alla disciplina societaria, in particolare a quella
delle società di capitali (in particolare all’art. 2381
c.c.). Assenti sia nella normativa che nei primi contratti sono riferimenti al tema del conflitto di interessi. Il conflitto di interesse riguarda i membri dell’OC quando siano imprenditori che svolgono attività in certa parte concorrente con quelle della rete.
In questo caso norme relative ai doveri di informazione e di condotta riguardanti le decisioni relative
ad esempio alla distribuzione delle attività nella rete
risultano indispensabili per garantire credibilità ed
affidabilità alla rete. Il tema del conflitto di interessi non riguarda solo i componenti dell’OC, ma concerne altresì i singoli partecipanti alla rete. La disciplina applicabile, in assenza di esplicite indicazioni
nel contratto, è quella generale del contratto che
tuttavia potrebbe risultare inadeguata.
Non si menzionano specificamente gli obblighi dell’OC verso i partecipanti alla rete. Questi sono regolati dal contratto di mandato che tuttavia, in caso di
reti complesse, potrebbe risultare insufficiente. Si
tratta dunque di integrare adeguatamente la disciplina del mandato nella redazione dei regolamenti
concernenti il funzionamento dell’organo comune.
Sul piano della governance va segnalata inoltre l’introduzione della lett. f concernente le modalità di
voto riguardanti la modifica del contratto con la
possibilità che tali modifiche possano avvenire anche a maggioranza ove la parti così stabiliscano. Seguendo dunque un’indicazione di alcuni commentatori si è ritenuto compatibile con la natura del contratto plurilaterale la possibilità di modifiche a maggioranza (29).
Il tema rappresentanza costituiva uno degli elementi più controversi dal momento che assenti erano le
indicazioni circa la natura del rapporto tra organo
comune e soggetti contraenti. Si è chiarito che il
rapporto è regolato dalla disciplina del mandato.
(Segue): d) Recesso e scioglimento della rete
La nuova disciplina integra la normativa in tema di
Note:
(27) È utile ricordare che già i primi contratti indicavano la disciplina del mandato come riferimento per regolare il rapporto tra
partecipanti alla rete ed organo comune.
(28) Cfr. in relazione a ATI e consorzio, D. Corapi, Le associazioni temporanee di imprese, Milano, 1983, 114 ss.; Id., Amministrazione e rappresentanza nei consorzi senza attività esterna
nelle associazioni temporanee di imprese e nel GEIE, in Riv. dir.
civ., 1990, I, 67 ss., part. 73.
(29) Si veda sul punto la discussione di F. Cafaggi-P. Iamiceli, La
governante del contratto di rete, in AA.VV., Il contratto di rete,
cit., 47.
1151
Argomenti
I singoli contratti
recesso ed aggiunge un riferimento allo scioglimento dei contratti plurilaterali con comunione di scopo. Correttamente i contratti di rete distinguono tra
disciplina del recesso e dell’esclusione.
Sul versante del recesso viene integrata la previsione assai scarna contenuta nel testo originario, prevedendo la possibilità del recesso anticipato e richiedendo la definizione delle condizioni del suo
esercizio. Nei primi contratti di rete la prassi aveva
già provveduto a definire una disciplina del recesso
anticipato prevedendo che potesse intervenire ad
esempio nell’ipotesi di un aumento dei contributi al
fondo patrimoniale rispetto ai quali il partecipante
alla rete avesse espresso il proprio dissenso. Tendenzialmente viene ribadita la regola dell’irripetibilità
dei contributi ordinari e straordinari da parte dell’imprenditore recedente almeno sino allo scioglimento della rete nonché l’obbligo di portare a termine le commesse anche successivamente all’esercizio del recesso. L’adempimento di tale obbligo dunque conserva una relazione tra imprenditore e rete
anche successiva alla cessazione del rapporto.
Diversamente alcuni contratti negano la restituzione
del contributo nell’ipotesi di esclusione anche successivamente allo scioglimento della rete. In materia
di scioglimento della rete la norma fa riferimento alle modalità di scioglimento dei contratti plurilaterali con comunione di scopo. Deve ritenersi compresa
tra queste ipotesi quella del mutuo dissenso e quella
del venir meno della pluralità dei partecipanti.
Nella prassi si disciplina la risoluzione parziale facendo essenzialmente richiamo alla disciplina del
codice civile (1456 c.c).
Sempre nelle prime applicazioni si colgono i segnali di
previsioni concernenti obbligazioni postcontrattuali
secondo alcune linee che si erano anticipate (30). Si
ribadisce poi la possibilità che sia nell’ipotesi di recesso che in quella di scioglimento permangano in capo
alle parti obbligazioni post-contrattuali che rivestono
particolare importanza ove la rete abbia avuto ad oggetto la produzione di conoscenza innovativa le cui
modalità di sfruttamento siano definite con un accordo diretto ad operare anche oltre lo scioglimento. Devono quindi differenziarsi due ipotesi, quella di un formale accordo che regoli le condotte delle parti successive allo scioglimento e quello di singole obbligazioni
derivanti dal contratto di rete ma aventi effetto a partire dallo scioglimento del contratto medesimo.
rete introdotta nel 2009 avevano affidato implicitamente alle associazioni di categoria un ruolo importante di specificazione normativa e di promozione.
La natura scarna ed incompiuta della disciplina ne
presupponeva un completamento attraverso l’intervento delle associazioni e dei professionisti nella
predisposizione di contratti standard e nel loro adattamento alle specificità territoriali e di filiera. La
riforma del 2010 rende in parte esplicito questo ruolo dal momento che sul piano fiscale l’art. 4 comma
2-quater affida alle associazioni accreditate, sulla base di un decreto del Ministero dell’Economia, il
compito di “asseverare” il programma di rete, al fine
di assicurare che l’accesso al beneficio fiscale sia effettivamente funzionale alla realizzazione del programma.
Si era ipotizzato, ed in certa misura auspicato, che le
associazioni imprenditoriali svolgessero un ruolo attivo nella promozione dello strumento del contratto
di rete, concorrendo a realizzare la standardizzazione
flessibile (31). Da un lato infatti occore(va) predisporre contratti tipo utilizzabili dalle imprese nelle
diverse filiere al fine di ridurre i costi di impiego dello strumento. Dall’altro era necessario dare luogo ad
una fase di sperimentazione organizzativa che consentisse a vari modelli di emergere e consolidarsi, distinguendoli in particolar modo per tipologie di filiera ed a seconda che queste fossero domestiche o
transnazionali. In effetti questo, almeno in parte, sta
accadendo. La prima fase è consistita nella divulgazione delle caratteristiche dello strumento. Occorre
ora riflettere sulle diverse applicazioni del contratto
di rete nel ciclo di vita delle imprese e delle forme di
collaborazione.
Si propone di avviare una riflessione teorico-pratica
distinguendo tre potenziali impieghi del contratto di
rete:
a) Per la creazione di nuove reti.
b) Per la stabilizzazione e/o trasformazione di reti già
esistenti.
c) Per la gestione di situazioni di crisi.
Nel primo caso il contratto di rete formalizza una
collaborazione tra soggetti che non hanno sino ad
allora stabilmente cooperato. Si tratta dunque di un
contratto che deve prevedere nella sua governance e
nel suo programma un percorso diretto alla creazione di relazioni fiduciarie tra le imprese partecipanti
Il ruolo dell’autonomia collettiva:
standardizzazione flessibile, start up
e gestione delle crisi
Note:
Le caratteristiche della normativa sul contratto di
1152
(30) Cfr. F. Cafaggi, Contractual networks and the Small Business Act: toward European principles?, cit., 528 ss.
(31) Cfr. F. Cafaggi, Conclusioni, in AA.VV., Il contratto di rete,
cit., 147 s.
I contratti 12/2010
Argomenti
I singoli contratti
e l’organo comune. Il ruolo delle associazioni si rivela spesso strategico per fornire informazioni sulle imprese interessate alla collaborazione rispondendo ad
un chiaro fallimento di mercato. La necessità che un
soggetto imparziale ed affidabile promuova la collaborazione riduce sensibilmente i rischi di comportamento opportunistico. Si tratta di un’esperienza originale, simile ad esperienze analoghe andatesi consolidando sul territorio con la formazione di consorzi per la promozione delle aggregazioni tra imprese.
Spesso infatti esistono costi di informazione elevati
per venire a conoscenza dell’interesse ad un progetto imprenditoriale. La capacità di favorire l’incontro
tra imprese, quello di creare un dialogo tra le stesse
in un contesto che minimizzi i rischi di comportamento opportunistico, deve tradursi anche nella costituzione di veicoli organizzativi specializzati da
parte delle associazioni. Una prima analisi delle
esperienze regionali rivela infatti che spesso la difficoltà nella formazione di reti dipende dalle carenze
del mercato della consulenza spesso prigioniero di
schemi organizzativi desueti e da un’attenzione eccessiva sullo start-up ed insufficiente sull’attività
della rete e sulle eventuali cause di fallimento.
Diversamente accade quando forme di collaborazione sussistano e l’obiettivo del contratto di rete sia
quello di stabilizzarle, disegnando un percorso che
possa, con la trasformazione degli strumenti giuridici, condurre a forme di collaborazione più stabili con
obiettivi strategici. Ad esempio il contratto di rete
può consentire di raccordare forme di collaborazione contrattuale con accordi riguardanti il governo
delle imprese in rete, prevedendo che membri delle
singole imprese partecipino ai c.d.a. delle altre imprese. È possibile prevedere che il contratto di rete
generi enti strumentali partecipati dai contraenti
per lo sviluppo di attività comuni. Infine è possibile
immaginare che, pur conservando l’indipendenza le
diverse imprese partecipanti alla rete, vogliano integrarsi, dando luogo alla creazione di un gruppo.
Una terza ipotesi è quella in cui vi siano situazioni di
crisi non limitate ad un’impresa ma ad una filiera e/o
ad un territorio. In questo caso, come avviene quando la grande impresa delocalizzi mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’indotto e della catena di
subfornitura, il contratto di rete può costituire una
potenziale risposta che consente di coordinare le attività, in precedenza gestite dalla capofila committente, identificando nuove modalità di ingresso in
mercati finali ovvero nuovi committenti.
Queste tre ipotesi presuppongono non solo una differenziazione dello strumento giuridico contratto di
rete ma anche una modalità di erogazione dei servi-
I contratti 12/2010
zi da parte delle associazioni di tipo assai diverso, sia
sul piano delle competenze che su quello degli obiettivi finali.
Le filiere sono assai complesse e spesso coinvolgono
una pluralità di livelli associativi che comprendono
sia le organizzazioni territoriali che quelle categoriali. Tale livello di complessità presuppone pertanto
che, anche sul lato dell’offerta di servizi, venga adottato un modello reticolare e modulare. La capacità
di disegnare uno strumento adatto alle filiere lunghe
transnazionali presuppone un disegno contrattuale
diverso da quello concernente le reti nell’ambito di
sistemi di sviluppo locale con una dimensione territoriale circoscritta.
Si tratta dunque di differenziare l’offerta di servizi alle reti per funzione, adottando moduli organizzativi
flessibili che consentano la cooperazione tra diversi
livelli associativi o interassociativi quando le singole imprese partecipanti per dimensione o per altri
fattori partecipino ad associazioni di categoria diverse.
In questo breve commento, destinato ad illustrare i
profili civilistici dell’intervento, il riferimento al
ruolo delle associazioni ha riguardato la promozione
e non la vigilanza, limitata a quei contratti di rete
che vogliono accedere al beneficio fiscale. È evidente, tuttavia, che la formalizzazione del riconoscimento del ruolo delle associazioni interviene a seguito anche di un percorso in cui il ruolo di promozione dello contratto di rete è indiscutibile. È tuttavia opportuno che le associazioni mantengano ben
distinte funzioni di promozione e di vigilanza, evitando che la diffusione dello strumento sia condizionata all’accesso al trattamento fiscale privilegiato.
La fiscalità di favore è un’opportunità ma non deve
diventare un vincolo all’impiego dello strumento
del contratto di rete. In questo quadro, ove effettivamente la delega delle funzioni di vigilanza dovesse essere attribuita ad alcune associazioni, sarebbe
utile che tutti gli enti accreditati procedessero alla
definizione di una metodologia di valutazione comune attraverso l’adozione di Linee Guida approvate dal MEF. Questo consentirebbe uniformità di criteri di valutazione e di controllo sulla loro ottemperanza.
V’è da dire che un ruolo importante hanno svolto
anche gli ordini professionali. In particolare il notariato, sia autonomamente che in forza di accordi stipulati con le associazioni di categoria, sta svolgendo
un importante compito di promozione ed innovazione organizzativa, certamente con uno slancio maggiore di ciò che era accaduto nella prima fase di
riforma del diritto societario. È auspicabile che il
1153
Argomenti
I singoli contratti
percorso di specializzazione, che dovrà seguire a
quello della divulgazione, sia accompagnato da forme di collaborazione sempre più intense tra le associazioni e gli ordini professionali.
I riflessi della nuova normativa sulle
politiche industriali: il manager di rete e la
condivisione di competenze manageriali
Sembra utile al termine di questa breve disamina sui
profili civilistici interrogarsi sui possibili riflessi che
la nuova disciplina possa avere sul disegno delle politiche industriali e sulla loro implementazione. Si è
più volte ripetuta l’esigenza di mantenere distinti i
due profili anche in ragione del diverso sistema di
competenze legislative: nazionale o Europea quella
civilistica, regionale e nazionale con alcuni aspetti
europei quella delle politiche industriali.
Vi sono almeno due elementi che vale la pena di
sottolineare. Il primo concerne la necessità di un
nuovo approccio che integri politiche industriali e
politiche della formazione. La diffusione di uno strumento innovativo necessita di nuove capacità e
competenze per le quali occorrono beni pubblici:
formazione e competenze.
Le modifiche apportate, se migliorano l’impianto
normativo complessivo, non mutano tuttavia le ragioni che inducevano ad auspicare un ruolo attivo
delle associazioni. Si tratta di valutare se sia possibile razionalizzare questo ruolo, identificando accanto
alla standardizzazione flessibile anche un altro compito, quello di concorrere alla formazione di competenze manageriali e più in generale alla fornitura di
servizi alle imprese per la formazione di reti.
La gestione della rete, sia fatta con o senza l’organo
comune, richiede competenze diverse da quelle tipiche dell’imprenditore al comando della singola impresa o di un gruppo.
Il coordinamento, la promozione della cooperazione, la gestione di conflitti tra gli imprenditori partecipanti, presuppongono l’emersione di figure professionali nuove come quelle del cd. “manager di rete”,
cui le associazioni possono contribuire integrando
l’architettura strutturale della rete con un sistema
adeguato di competenze e di gestione delle risorse
umane. Va segnalata a questo proposito la stipulazione di un contratto di rete tra enti strumentali di
associazioni territoriali avente come obiettivo quello di gestire progetti concernenti i servizi alle imprese nonché quelli riguardanti la ricerca, l’innovazione e la formazione.
Il secondo tema è quello della promozione del contratto di rete da parte delle amministrazioni, in particolare quelle regionali. Sul piano legislativo è au-
1154
spicabile che le numerose leggi regionali in materia
di PMI vengano coordinate e riformate alla luce del
nuovo istituto integrando il riferimento al contratto
di rete. Sul piano amministrativo il tema che si pone concerne da un lato la differenziazione tra politiche dirette a favorire la nascita di reti e dall’altro politiche dirette a favorire la loro stabilizzazione e la
gestione delle crisi secondo la partizione precedentemente indicata. Anche sul versante fiscale gli incentivi andrebbero opportunamente differenziati,
mentre al momento sembrano penalizzati sia lo start
up che la gestione di crisi, concentrandosi sul profilo degli investimenti.
Infine, chiedendosi quali siano gli effetti della transtipicità del contratto di rete sul piano dell’attività
delle amministrazioni regionali, occorre valutare
l’opportunità di destinare bandi specificamente alle
reti di imprese ovvero, come pure sta già accadendo,
limitarsi ad aggiungere il contratto di rete agli strumenti generalmente indicati quali i consorzi, le ATI
e le joint ventures.
Temi questi fuori del compasso del civilista ma dentro un sistema che non può ignorare la relazione tra
profili civilistici, fiscali e, ancorché non se ne sia accennato in questa sede, lavoristici.
Uno sguardo al futuro
Molte sono le questioni aperte sulle declinazioni del
contratto di rete sul piano nazionale ed europeo. Per
ora sono sconfitti i due partiti puntualmente costituitisi: coloro che sostengono che nulla è cambiato e
coloro che lamentano fratture sistematiche generate
dal nuovo istituto. Ragioni di spazio non consentono neppure un inventario degli ulteriori interventi
desiderabili sia a livello nazionale che europeo, potendo utilmente richiamare riflessioni svolte in precedenza (32). Certamente l’indagine teorica dovrà
misurarsi con l’impiego dell’istituto nella pratica per
verificare i confini con figure affini ma anche le
nuove finalità per le quali impiegare il contratto di
rete. Coniugare ricerca teorica e dati empirici costituisce una sfida intellettuale per misurare l’effettività dell’intervento, il ruolo dell’autonomia collettiva, l’attitudine dei professionisti e dei giudici nella
interpretazione evolutiva del testo.
Nota:
(32) Cfr. F. Cafaggi, Contractual Networks and the Small Business Act: Towards European Principles?, in European Review of
Contract Law, 2008, 4, 49, 495.
I contratti 12/2010
Argomenti
Contratti in generale
Requisiti del contratto
Teoria e prassi nel diritto
italiano su fattispecie
e rapporto contrattuale
di Enrico Scoditti
L’evoluzione della dottrina italiana sul contratto, nella seconda metà del secolo scorso, è stata segnata da
una relativizzazione della tecnica della fattispecie e dal progressivo allargamento del peso del rapporto contrattuale, affidato alla diversa tecnica della clausola generale. La distinzione fra fattispecie e rapporto si rispecchia, così, in quella fra regole di validità dell’atto e regole di comportamento. Sul piano legislativo, con
il fenomeno delle nullità cosiddette protettive, caratterizzate dall’incorporazione della regola di comportamento entro la regola di validità, si assiste tuttavia alla tendenza contraria, e cioè al passaggio dal rapporto
alla fattispecie. Come attesta la problematica degli obblighi precontrattuali di informazione, la fattispecie resta in realtà il limite oltre il quale la clausola generale di buona fede, nel regolare il comportamento delle parti, non può andare, evidenziandosi così come l’ordinamento dell’autonomia privata, anche al livello sopranazionale della lex mercatoria, sia il risultato di una dialettica complessa fra fattispecie e rapporto.
L’emersione del nuovo paradigma:
dalla fattispecie al rapporto
Il passaggio dalla fattispecie al rapporto, nella teoria
del contratto, corrisponde a ciò che Thomas S.
Kuhn definisce “mutamento di paradigma”, o Louis
Althusser “rottura epistemologica”, con riferimento
ai cambiamenti che si verificano in un determinato
campo del sapere. La nascita della categoria di rapporto si deve alla relativizzazione di quella di fattispecie, che nella dottrina italiana, e non solo, dominava il campo della teoria del negozio giuridico.
Che al rapporto si pervenga mediante la relativizzazione della fattispecie è già un buon motivo per stabilire un nesso profondo fra lo stesso rapporto e la
clausola generale di buona fede, ispirata ad una tecnica normativa assai diversa da quella della fattispecie. Rapporto evoca poi, per contrapposizione, atto,
e dunque è la correlazione di atto e fattispecie lo stadio rispetto al quale la nozione di rapporto guadagna
progressivamente autonomia.
Sorta nella scienza penalistica tedesca (tatbestand),
ma sul piano linguistico risalente alla facti species del
latino medievale, la categoria di fattispecie ingloba
originariamente quella di negozio. Secondo la teoria
classica sul piano della causalità dell’effetto giuridico la fattispecie negoziale non si distingue da quella
non negoziale, l’unica differenza risiede nel fatto che
si deve distinguere fra elementi rilevanti solo per la
I contratti 12/2010
produzione ed elementi rilevanti anche per la specificazione del contenuto dell’effetto, fra i quali vi è la
volontà negoziale (1). La svolta si apre con la dottrina dell’autonomia sociale di Betti. Benché quest’ultimo mantenga il paradigma causalistico contenuto
negoziale/effetti giuridici basato sulla schema di fattispecie, la scoperta del continente sociale sposta il
contratto dal fatto psicologico al precetto, che
“prende vita come entità duratura, esteriore e distaccata dalla persona dell’autore” (2). L’individuazione di una problematica sociale come punto di
partenza della teoria del negozio, e la concezione
dell’ordinamento come risposta del diritto alla
realtà sociale, limita il predominio della fattispecie,
lasciando scorgere al di qua del fenomeno normativo l’autoregolamento sociale degli interessi. Il richiamo al mondo extragiuridico, che per Pugliatti
costituiva il difetto della tesi di Betti (3), ne connota in realtà il carattere innovativo. La prospettiva
del fenomeno sociale viene sviluppata da ScognamiNote:
(1) D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, 38.
(2) E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1950,
58.
(3) S. Pugliatti, Diritto civile. Metodo - teoria - pratica, Milano,
1951, 105.
1155
Argomenti
Contratti in generale
glio, nell’ambito di una revisione in senso “fenomenologico” della nozione di fattispecie.
Superando la riduzione del fatto giuridico al piano
dell’efficacia, e cioè al presupposto degli effetti giuridici, Scognamiglio pone al centro la rilevanza per
il diritto del fenomeno sociale nella sua essenza reale, configurando le conseguenze giuridiche come la
“pratica espressione” della rilevanza conferita dall’ordinamento al fatto sociale (4). Una volta che il
fatto giuridico sia inteso come proiezione della
realtà sociale, l’effetto giuridico del negozio corrisponde alla sua natura reale, la vincolatività. È a
questo punto che nella teoria del negozio fa la sua
apparizione il rapporto. Se la fattispecie negoziale,
sia pure rielaborata come riflesso del fenomeno sociale, esaurisce i propri effetti sul piano dell’impegnatività per le parti del contratto, le concrete statuizioni corrispondenti al programma negoziale (ciò
che Scognamiglio definisce gli effetti finali) vengono spostate all’esterno della fattispecie, e identificano il nuovo ambito del rapporto. Esemplare è il caso
della compravendita di cosa futura. Mentre la dottrina precedente spiegava questa figura con la tesi
della concausa necessaria per la perfezione della fattispecie, o della fattispecie in corso di formazione
(5), Scognamiglio coglie l’incidenza della cosa futura all’esterno della fattispecie negoziale, già completa con la produzione del vincolo fra le parti, nel senso che differito è solo il rapporto fra le parti (6). Vi è
da osservare che nell’ambito di questa teorica fra fattispecie legale e rapporto viene mantenuto un legame in senso formale: dato che il negozio è il mezzo
per la realizzazione degli effetti finali, fra questi ultimi, corrispondenti al rapporto, e la fattispecie negoziale resta un nesso giuridico di strumentalità; in secondo luogo, una volta che attraverso la categoria di
rilevanza del fenomeno reale il fenomeno sociale sia
stato inglobato in quello normativo, l’intera vicenda è ricondotta alla fenomenologia giuridica, e la dinamica del rapporto resta esplicazione effettuale del
fatto giuridico. Sono poste tuttavia le basi per un visione del negozio non più limitata alla struttura della fattispecie.
È con Auricchio che nella dottrina italiana si afferma in modo netto il principio di relatività della fattispecie legale, a partire dal suo lavoro sulla simulazione (7). La fattispecie riguarda ormai solo un lato
del fenomeno negoziale, quello della validità dell’atto. C’è un altro lato del fenomeno, ed è quello che
Auricchio definisce dell’efficacia, corrispondente al
piano sociale del rapporto. Da una parte il titolo,
che è il fatto rilevante per l’ordinamento ed i terzi,
dall’altra l’autoregolamento, da cui discende il rap-
1156
porto fra le parti. La simulazione non è altro che la
non corrispondenza di validità ed efficacia, fattispecie e rapporto. Dal punto di vista di Scognamiglio
questa piena dissociazione di atto e rapporto non
spiega la vincolatività dell’accordo simulatorio, la
quale richiede che il riconoscimento normativo si
estenda a quest’ultimo e non resti al livello della validità del titolo apparente (8). A proposito della
scissione fra titolo formale ed autoregolamento, è
stato però scritto che «(…) proprio attraverso la
considerazione di ipotesi del genere - la cui esistenza
è incontestabile - si possono individuare taluni complessi atteggiamenti del fenomeno negoziale e cogliere nel suo esatto significato il valore autonomo
che assume l’efficacia disposta dalla legge rispetto al
rapporto realizzato in concreto dai contraenti» (9).
L’evoluzione della teoria è così nel senso della separazione di rapporto e fattispecie. Lo stesso Auricchio
introduce la nuova distinzione fra oggetto dell’atto e
oggetto del rapporto, ma poi si considerino: la sottolineatura in Lipari dello svolgimento indipendente
del rapporto rispetto alle conseguenze legali dell’atto anche con riferimento al fenomeno del negozio
fiduciario; l’insufficienza secondo Barcellona della
nozione di causa, in quanto operante solo sul piano
della struttura legale, ai fini del controllo della giustificazione dell’attribuzione patrimoniale, dovenNote:
(4) R. Scognamiglio, Fatto giuridico e fattispecie complessa (considerazioni critiche intorno alla dinamica del diritto), in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1954, 347 sgg.; Id., Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969 (ristampa 2008), 263 ss. L’elaborazione di Scognamiglio trae spunto dallo sganciamento del criterio della rilevanza da quello di efficacia ad opera di Falzea, pur criticandosi in quest’ultimo l’individuazione dell’efficacia quale tratto distintivo della giuridicità, che sarebbe invece da cogliere proprio nella rilevanza (per ulteriori approfondimenti, anche in relazione a quanto riferito nel testo, rinviamo a E. Scoditti, Svolgimenti della teoria del negozio giuridico nella dottrina italiana, in
Riv. critica dir. priv., 1989, 645 ss.).
(5) Rispettivamente A. Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, 307 ss. e Rubino, La fattispecie e
gli effetti giuridici preliminari, cit., 382 ss.
(6) R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico,
318 ss.; si veda anche N. Lipari, Note in tema di compravendita
di cosa futura, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 826 ss.
(7) A. Auricchio, La simulazione nel negozio giuridico. Premesse
generali, Napoli, 1957.
(8) R. Scognamiglio, Recensione, ad A. Auricchio, La simulazione nel negozio giuridico, cit., in Riv. dir. civ., 1958, 346 ss.; sulla
stessa linea Barcellona osserva che se si esclude il riconoscimento giuridico del fenomeno nella sua integralità, l’autoregolamento resta esiliato in una zona priva di rilevanza (P. Barcellona,
Profili della teoria dell’errore nel negozio giuridico, Milano, 1962,
41 ss.).
(9) L. Campagna, La posizione del mandatario nel mandato ad
acquistare beni mobili, in Studi in ricordo di Alberto Auricchio, I,
Napoli, 1983, 273.
I contratti 12/2010
Argomenti
Contratti in generale
dosi guardare al rapporto e dunque a rimedi diversi
da quello della validità, fino all’individuazione dello
stesso rapporto come fatto cui la legge collega una
serie di obblighi, indipendentemente dal contratto,
in presenza di presupposti come la gestione di servizi di pubblica utilità o situazioni di monopolio; la rivalutazione infine dell’esecuzione del contratto quale sfera di effetti del tutto separata da quella dell’atto secondo Di Majo (10). È tutto un movimento
teorico che trama nel senso della piena autonomia
del rapporto dalla fattispecie (11).
Su un altro versante, alla relativizzazione della fattispecie contribuisce la diffusione di un diritto per
clausole generali, secondo il programma di ricerca di
Rodotà trasversale rispetto agli istituti del diritto civile, dalla funzione sociale della proprietà al danno
ingiusto nella responsabilità civile, fino alla buona
fede nel contratto. In realtà, per ciò che concerne il
contratto, il maggior peso delle clausole generali è
consentito proprio dal superamento della nozione di
fatto giuridico. Per Rodotà il contratto non è una fattispecie cui l’ordinamento collega determinati effetti
giuridici, alla stessa stregua del possesso continuato
per venti anni di un bene immobile, ma è una regola
imputabile ad una pluralità di fonti, la legge ed i privati, ma anche il giudice, che si avvale per l’appunto
dei criteri della correttezza e dell’equità (12). Si tratta di un percorso diverso dalla linea che abbiamo appena esaminato, la quale introduce il rapporto senza
però obliterare la fattispecie negoziale, ma corre parallelamente ad essa, accomunata da una fondamentale esigenza di secolarizzazione dei concetti giuridici. Si può anzi affermare che l’intera stagione dell’attuazione costituzionale del diritto civile, con le sue
formule “sviluppo della persona”, “tutela del contraente debole”, “uso alternativo”, fino allo stesso ingresso del marxismo nella giuscivilistica, abbia alle
spalle questa profonda revisione della teoria del contratto (13). Il rapporto, scevro dallo schematismo
della fattispecie, fa affiorare l’effettività del rapporto
sociale, e le clausole generali rappresentano la valvola di apertura del sistema ai principi costituzionali. Il
cerchio si chiude nella teoria del contratto quando
buona fede e rapporto convergono, e significativa in
tal senso è l’indagine di Bessone sulla risoluzione delle sopravvenienze nel rapporto contrattuale mediante la clausola di buona fede (14), fino alla recente
identificazione di un obbligo di rinegoziazione grazie
alla normativa di correttezza (15).
Regole di validità e regole di comportamento
È il carattere alternativo, sul piano della tecnica
normativa, della clausola generale rispetto alla fatti-
I contratti 12/2010
specie, che ne condiziona il riferimento al rapporto
anziché alla fattispecie contrattuale. L’individualità
del rapporto non sempre tollera le rigidità della causalità giuridica (fatto/effetto), e richiede una forma
elastica e flessibile di disciplina, quale è la clausola
generale di buona fede. Quest’ultima è così regola di
comportamento, nell’ambito del rapporto che precede e segue la stipulazione del contratto, e non requisito di validità della fattispecie negoziale. Discende da qui il principio di non interferenza fra regole di validità e regole di comportamento, che si
colloca sul solco della distinzione fra fattispecie e
rapporto (16). Il principio in discorso può essere illustrato nei termini seguenti.
Le regole di validità, in quanto disciplina dell’atto,
prevedono oneri dal cui mancato assolvimento deriva solo l’improduttività di effetti giuridici. La violazione dei doveri di comportamento ha invece conseguenze esclusivamente sul piano risarcitorio e non
può costitutivamente incidere sulla validità dell’atto, che dipende dall’integrazione dei requisiti di
struttura. L’invalidità non corrisponde alla violazione di un dovere ma alla mancata osservanza di una
disposizione in ordine ai mezzi per conseguire un deNote:
(10) I riferimenti nell’ordine sono a A. Auricchio, La individuazione dei beni immobili, Napoli, 1960; N. Lipari, Rapporti di cortesia,
rapporti di fatto, rapporti di fiducia (Spunti per una teoria del rapporto giuridico), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1968, 415 ss,; Id., Il
negozio fiduciario, Milano, 1964; P. Barcellona, Note critiche in
tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 56 ss.; Id., Sui controlli della libertà
contrattuale, in Riv. dir. civ., 1965, II, 596 ss.; Id., Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici,
Milano, 1969; A. Di Majo Giaquinto, L’esecuzione del contratto,
Milano, 1967.
(11) Una volta che si pervenga alla piena autonomia del rapporto
rispetto alla fattispecie si scioglie anche il dilemma dell’oscillazione del negozio fra fatto e valore giuridico che è al centro di B.
de Giovanni, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1958.
(12) S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano,
1969 (ristampa 2004).
(13) Sul punto rinviamo a E. Scoditti, Modernità e finitezza. Il
punto di vista della teoria giuridica del contratto, in Dem. e dir.,
1991, 3, 313 ss.
(14) M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano,
1975.
(15) F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a
lungo termine, Napoli, 1996.
(16) Sul principio di non interferenza, a parte la teoria generale
(H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Torino 1965, 35), si vedano nella dottrina tradizionale: F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali
del diritto civile, Napoli, 1983, 171; L. Cariota-Ferrara, Il negozio
giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1961, 28; P. Barcellona, Profili della teoria dell’errore nel negozio giuridico, cit., 209
ss.; V. Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, 104 ss.
1157
Argomenti
Contratti in generale
terminato effetto giuridico, e non può dunque essere
collegata all’infrazione di un obbligo. Le regole di
validità fissano limiti per l’autonomia privata, le regole di comportamento costituiscono obbligazioni
per le parti. Proprio perché a non essere osservato
non è un onere, previsto dall’ordinamento per conseguire un determinato effetto giuridico, ma un’obbligazione, dalla violazione del dovere di condotta
può conseguire un effetto risarcitorio, o risolutorio
del contratto stipulato, ma non la nullità del medesimo. Viceversa dalla non osservanza dell’onere discende una invalidità, ma non una pretesa risarcitoria, posto che in gioco è la produzione di effetti giuridici da parte dell’atto, e non la valutazione di liceità di un determinato comportamento. È evidente
che le regole di validità attengono al profilo della
fattispecie, le regole di comportamento a quello del
rapporto. Le esigenze di certezza alla base del titolo
valido nei confronti dell’ordinamento e dei terzi sono garantite dallo schema di fattispecie, mentre l’individualità del rapporto postula che per la regola del
comportamento si faccia riferimento, come si è visto, all’elasticità della clausola generale.
Il principio di non interferenza fra regole di validità e
regole di comportamento viene in primo piano soprattutto in relazione alle problematiche legate alla
responsabilità precontrattuale, ed in primo luogo
con riferimento all’irrilevanza della violazione della
norma di cui all’art. 1337 c.c. ai fini della perfezione
della fattispecie negoziale. Rispetto ad una tesi risalente che, collocando la normativa di correttezza fra
i limiti legali entro cui le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto (art. 1322 comma
1 c.c.), assegnava all’art. 1337 la funzione di regola di
validità (17), la giurisprudenza ha escluso che la violazione delle regole di comportamento precontrattuali (ed anche contrattuali, in relazione alle particolarità della materia dell’intermediazione finanziaria) possa dare luogo alla nullità del contratto (18).
L’altro tema è quello della compatibilità di responsabilità precontrattuale e contratto valido. Questa tesi
è stata sostenuta in dottrina concependo l’art. 1337
c.c. come criterio di rilevanza di scorrettezze non
considerate dalle regole di validità, secondo il paradigma offerto dall’art. 1440 c.c. (dolo incidente) (19),
ma si è obiettato che non c’è garanzia di certezza e
stabilità dei rapporti giuridici se la parte che ha agito
nel rispetto delle regole di validità debba rispondere
poi dei danni per l’addebito di scorrettezze in sede
precontrattuale (20). In giurisprudenza la linea che
ha preso piede è stata quella della compatibilità (21).
Proprio la non interferenza di regole di validità e regole di comportamento dovrebbe giustificare l’indif-
1158
ferenza ai fini dell’integrazione di una valida fattispecie negoziale delle violazioni della regola di correttezza in sede di formazione del contratto.
Il principio di non interferenza fra i due ordini di regole è un enunciato della dogmatica. Cosa impedisce al legislatore di stabilire un’interferenza? Scriveva Cammarata, a proposito della norma giuridica,
che sussiste «l’arbitrio illimitato di questa nella determinazione dei presupposti per la propria applicabilità» (22). Nel suo “arbitrio” la regola di validità
potrebbe incorporare una regola di comportamento.
Si tratta in fondo della regola delle nullità c.d. testuali di cui all’ultimo comma dell’art. 1418 c.c. («Il
contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla
legge»). La norma sulla nullità, rimettendo puramente e semplicemente alla legge la determinazione
degli elementi della fattispecie, senza alcuna forma
di vincolo materiale, permette che alla invalidità si
pervenga anche per via della violazione di una regola di comportamento. Si pongono così le basi di un
ritorno del rapporto alla fattispecie.
Le nuove nullità: dal rapporto alla fattispecie
Non è difficile scorgere nei casi di violenza, dolo,
approfittamento dello stato di bisogno della controparte, violazioni di una regola di comportamento
prenegoziale, che trasformano il contratto da autoregolamento in determinazione unilaterale del regoNote:
(17) R. Sacco, Il contratto, 3ª ed., II, Torino, 2004, 242 ss.
(18) Cass. 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., 2008, I, 785
con nota di E. Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite.
(19) M. Mantovani, “Vizi incompleti” del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995; così già F. Benatti, Culpa in contraendo,
in Contr. e impr., 1987, 298.
(20) G. D’Amico, “Regole di validità” e principio di correttezza
nella formazione del contratto, Napoli, 1996, 245 ss.; Id., Buona
fede in contraendo, in Riv. dir. priv., 2003, 351 ss..
(21) Cass. 8 ottobre 2008, n. 24795, in Foro it., 2009, I, 440 con
nota di E. Scoditti, Responsabilità precontrattuale e conclusione
di contratto valido: l’area degli obblighi di informazione; Cass. 29
settembre 2005, n. 19024, ivi, 2006, I, 1107, con nota di E. Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale (non mancano però arresti di segno contrario, come Cass. 25 luglio 2006, n. 16937, in
Foro it. Rep., 2006, voce Contratto in genere, n. 290). Che l’autonomia del rapporto precontrattuale rispetto al profilo della conclusione di un contratto valido permetta di configurare la sanzionabilità di comportamenti contrari alla buona fede in fase prenegoziale nonostante la validità dell’atto è affermazione tradizionale della dottrina (P. Rescigno, voce Obbligazioni (diritto privato).
Nozioni generali, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 198; A. Ravazzoni, La formazione del contratto, I, Le fasi del procedimento,
Milano, 1974, 26).
(22) A. E. Cammarata, Formalismo e sapere giuridico, Milano,
1963, 285.
I contratti 12/2010
Argomenti
Contratti in generale
lamento, vantaggioso per una parte e svantaggioso
per l’altra. La disciplina dell’annullamento per dolo
o violenza e quella dell’azione generale di rescissione per lesione presuppongono, in definitiva, un
comportamento riprovevole in sede di formazione
del contratto ed un regolamento iniquo. La regola di
validità è integrata da una regola di comportamento
in sede di formazione del contratto, ma anche da
una regola materiale afferente al contenuto negoziale, ove si presti attenzione al richiamo nell’art. 1447
c.c. alle “condizioni inique” o alla formulazione dell’art. 1438 c.c. (la minaccia di far valere un diritto è
causa di annullamento se diretta a conseguire vantaggi ingiusti). Già nel codice civile è possibile dunque individuare una compenetrazione di regole di
validità e regole di comportamento.
Ma è nell’area della legislazione più recente, soprattutto di origine comunitaria, che il fenomeno acquista lineamenti più definiti. Una serie di ipotesi normative integrano regole di validità i cui elementi costitutivi sono un comportamento scorretto in sede
precontrattuale, che la legge definisce “imposizione
di clausole”, ed il contenuto iniquo di tali clausole.
Si tratta dell’abuso di posizione dominante ai sensi
dell’art. 3 l. n. 287 del 1990 in materia di antitrust,
del divieto di abuso di dipendenza economica di cui
all’art. 9 l. n. 192 del 1998 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive), della previsione di cui all’art. 7 d.lgs. n. 231 del 2002 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali) sull’accordo sulla
data del pagamento gravemente iniquo in danno del
creditore nelle transazioni commerciali. Il patto è
nullo in presenza dei requisiti indicati. In queste norme la regola di validità incorpora la regola di comportamento. La condotta vietata è quella dell’abuso
di una condizione di dipendenza che si traduce nell’imposizione della clausola. Dato che la condotta rilevante è quella tenuta in sede di formazione del
contratto, può affermarsi che è il principio di responsabilità precontrattuale (art. 1337 c.c.) ad essere assorbito nella regola di validità. Mentre le ipotesi evidenziate integrano forme di abuso di dipendenza economica, l’art. 33 cod. cons. può essere definito un’ipotesi di abuso di dipendenza informativa («Nel
contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto»). In questa norma
il riferimento alla buona fede è esplicito, e si tratta
proprio della buona fede oggettiva, secondo l’interpretazione preferibile, cioè della regola di comporta-
I contratti 12/2010
mento di cui all’art. 1337 c.c. Come nelle altre fattispecie, la nullità della clausola dipende dalla sua iniquità e dal fatto che sia intervenuta una scorrettezza
in sede di formazione del contratto, qualificabile in
generale come approfittamento dell’asimmetria
informativa che ricorre fra professionista e consumatore. Anche la Corte di Cassazione ha qualificato le
clausole vessatorie nel contratto di consumo come
un’ipotesi di “imposizione” del contenuto contrattuale (23). Non è inutile aggiungere che il duplice
requisito relativo all’abuso sostantivo e procedurale è
presente pure nella norma sull’eccessivo squilibrio
nei Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali (art. 3.10). Da ultimo, nel particolare
settore della commercializzazione a distanza di servizi finanziari, è prevista dall’art. 67-septies decies cod.
cons. una fattispecie di nullità dipendente esclusivamente dalla violazione di un regola di comportamento, l’inottemperanza del fornitore agli obblighi di
informativa precontrattuale (24).
Attraverso la via della responsabilità precontrattuale il rapporto torna alla fattispecie. È la norma, che
contempla il relativo fatto giuridico, che stabilisce
l’inclusione. Il rapporto cui aveva riguardo il dibattito nella civilistica italiana, sopra richiamato, non
era quello prenegoziale, ma quello che si instaura
con la stipulazione del contratto. E tuttavia anche la
fase antecedente la conclusione del contratto è qualificabile come rapporto, tant’è che la sua disciplina
ricade non nello schema di fattispecie ma nella clausola generale di buona fede (25). Il percorso a ritroNote:
(23) Come si legge nella relazione, fatta propria dal collegio, relativa a Cass. 20 marzo 2010, n. 6802, in Foro it., 2010, I, 2442.
(24) La regola di validità può contemplare anche un comportamento che non risponda ad un’obbligazione. In tal caso la condotta rileva solo come mero onere da rispettare per la validità
dell’atto. A titolo esemplificativo possono richiamarsi le ipotesi
dell’art. 52 comma 3 cod. cons. (il contratto è nullo se l’identità
del professionista e lo scopo commerciale della telefonata non
sono dichiarati in modo inequivocabile all’inizio della telefonata,
in materia di contratti a distanza) e l’art. 2 d.lgs. n. 122 del 2005
(il contratto avente ad oggetto immobili da costruire deve essere accompagnato dal rilascio di una fideiussione del costruttore
a pena di nullità). Mentre nel caso delle regole di comportamento richiamate nel testo al rimedio invalidatorio può cumularsi
quello risarcitorio, essendo stato comunque violato un obbligo in
senso tecnico a prescindere dalla questione della validità, nelle
ipotesi in discorso l’unico rimedio è quello della nullità.
(25) È nota la configurazione in termini di rapporto obbligatorio
della relazione che si stabilisce prima della conclusione del contratto in L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. dir. comm., 1956, II, 360 ss. (ripresa poi da C. Castronovo, Tra contratto e torto. L’obbligazione senza prestazione,
in Id., La nuova responsabilità civile, Milano 2006; da ultimo in tal
senso, F. Galgano, Le antiche e le nuove frontiere del danno risarcibile, in Contr. e impr., 2008, 91).
1159
Argomenti
Contratti in generale
so della più recente legislazione (dal rapporto alla
fattispecie), rispetto al senso di marcia della dottrina
(dalla fattispecie al rapporto), non termina però con
un annegamento del rapporto nella fattispecie. Non
c’è il ritorno alla coincidenza di atto e fattispecie,
ma l’elevazione dell’obbligo di comportamento ad
elemento costitutivo della regola di validità.
Se poi si ha riguardo all’art. 33 cod. cons. emerge addirittura un mutamento della morfologia della figura
della fattispecie legale, ove si legga “malgrado la
buona fede” come «in violazione della buona fede».
In gioco entra a questo proposito pure l’art. 67-quater cod. cons. che, specificando l’oggetto dell’obbligo di informazione precontrattuale al cui adempimento è subordinata la validità del contratto nella
commercializzazione a distanza di servizi finanziari,
fa riferimento quanto alle modalità dell’informazione ai doveri di correttezza e buona fede. Il rapporto,
tornando alla fattispecie, porta con sé la clausola generale, trascinandola nella regola di validità. Accade dunque che la tecnica di disciplina è quella di
una fattispecie che opera avvalendosi della clausola
generale. La causalità fatto/effetto subisce una sensibile alterazione perché prima che entri in funzione
l’automaticità delle conseguenze previste è necessario passare per una valutazione all’insegna non dell’accertamento dei presupposti di fatto della fattispecie, ma della ponderazione delle circostanze del
caso concreto sulla base di un indirizzo non precostituito, quale è la buona fede. Non è però concepibile
questa penetrazione del rapporto e della clausola generale, come tali, nella fattispecie, senza che prima
non sia stata marcata la più netta differenziazione.
Solo avendo guadagnato quella differenza è possibile trasformare la morfologia della fattispecie legale.
In questo senso, il percorso dottrinale che abbiamo
ricostruito rappresenta un punto di non ritorno.
La coerenza del rapporto alla fattispecie
e la costruzione dell’ordinamento
Posta la differenza, qual è il limite dell’indipendenza
del rapporto rispetto alla fattispecie? Qual è il margine di elasticità della buona fede? Conviene affrontare la questione generale mediante l’esame di un
problema specifico. Dato che è configurabile la responsabilità precontrattuale anche di fronte ad un
contratto valido, quali limiti porre all’obbligo prenegoziale di informazione in relazione alle conseguenze che possano derivarne sul piano del contenuto contrattuale? Si può esigere che l’informazione
attenga anche ai motivi per cui la controparte si è
determinata a prestare il consenso contrattuale? La
dottrina ha avvertito in modo forte l’esigenza di por-
1160
re dei limiti ad un’area di responsabilità priva di
confini predeterminati, ed ha risolto in modo radicale la questione, negando l’esistenza di un generale
obbligo precontrattuale di informazione fondato sulla clausola di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. (26)
Si afferma, in particolare, che se sulla base dell’art.
1337 c.c. si ritenga operante un generale obbligo di
informazione gravante sulle parti nelle trattative, la
disposizione di cui all’art. 1338 c.c. sarebbe superflua. La conciliazione fra le due norme può essere
stabilita solo riconoscendo che l’art. 1337 c.c. non
opera nel campo degli obblighi di informazione, e
che l’unico dovere di informazione di carattere generale, operante a prescindere da altre previsioni
particolari, è quello avente ad oggetto l’esistenza di
eventuali “cause di invalidità” del contratto, previsto per l’appunto dall’art. 1338 c.c. Che il rapporto
fra queste due norme possa sembrare un puzzle (se
già l’art. 1337 consente di riconoscere gli obblighi di
informazione, che senso avrebbe l’art. 1338?) è un
dato difficilmente contestabile, ma si resta nel labirinto se non si coglie la diversa struttura delle due
norme. L’art. 1337 e l’art. 1338 sono disposizioni
operanti su piani diversi, perché l’una costituisce
una clausola generale, l’altra una norma a struttura
di fattispecie. È vero che nell’art. 1337 ci sarebbe
anche l’art. 1338, ma il punto non è questo. Il punto è che nell’un caso il legislatore ha lasciato la concretizzazione della norma al giudice, ed in tale concretizzazione astrattamente può esservi anche la regola di cui all’art. 1338, nell’altro ha inteso, una volta per tutte, predeterminare in via astratta e generale una fattispecie di responsabilità, in modo da sottrarre alle contingenti applicazioni giudiziali l’operare della regola. Che il principio dell’art. 1337 ispiri la regola di cui all’art. 1338, e poi anche quelle di
cui agli artt. 1398, 1578 cpv., 1812 e 1821 c.c. (27)
vuol dire proprio questo, e cioè che una cosa è la
clausola generale, suscettibile di concretizzazioni
giudiziali nelle più diverse direzioni, altra cosa è la
norma a fattispecie, la concretizzazione cioè entro
una regola legislativa del principio contenuto nella
clausola generale, in modo da sottrarlo alle contingenze dell’applicazione casistica.
È in realtà vero che l’art. 1337 non prevede un generale obbligo di informazione, ma perché, in via
Note:
(26) G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Trattato
del contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi - 2, Milano, 2006,
1021 ss.
(27) Così L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, cit., 365.
I contratti 12/2010
Argomenti
Contratti in generale
astratta e generale, disancorato dalle circostanze del
caso concreto, l’art. 1337, in quanto clausola generale, non prevede nulla, impartisce solo al giudice
una direttiva per la decisione da adottare, ed in questa decisione, se il caso lo richiede, ben può essere
contemplata l’esistenza di un dovere informativo. Il
giudice non può però ritenere sanzionabile ai sensi
dell’art. 1337 l’inottemperanza al dovere di informare la controparte non appena ci si accorga che questa si determina al contratto sulla base di un motivo
erroneo, come pure è stato sostenuto (28), perché il
riconoscimento di un obbligo precontrattuale di segnalazione della motivazione erronea entra in contraddizione con l’irrilevanza del motivo, quale circostanza estranea al regolamento d’interessi, ai fini sia
dell’annullabilità per vizio del consenso che dell’esecuzione del contratto. Non può reputarsi rilevante
sul piano del rapporto che precede la conclusione
dell’affare una circostanza che invece, sia al livello
di contenuto negoziale, che di adempimento (e dunque al livello del rapporto che segue la stipulazione
del contratto), è irrilevante. Le parti, ai sensi dell’art. 1337 c.c., devono comportarsi secondo buona
fede nella formazione del contratto, cioè di “quel”
contratto, e dunque il rispetto della correttezza resta
funzionale al concreto regolamento d’interessi che
sarà fissato. Il criterio di valutazione della responsabilità, non solo contrattuale, ma anche precontrattuale, deve essere parametrato sempre alla fattispecie negoziale. Quanto l’atto dispone resta il limite
della responsabilità, sia contrattuale che precontrattuale. È il contenuto del contratto che determina
l’area del dovere precontrattuale di informazione.
Benché il rapporto abbia uno svolgimento indipendente rispetto alla fattispecie, come dimostra la
compatibilità di responsabilità precontrattuale e
contratto valido, la regola della buona fede che lo
governa non può spingersi oltre la soglia della coerenza al contenuto negoziale, perché la struttura della fattispecie rappresenta pur sempre il limite delle
proprie possibilità funzionali. L’insegnamento che si
trae da questa particolare vicenda è che il rapporto
va dove lo porta la buona fede, ma non oltre i confini della fattispecie. L’emancipazione del rapporto
dalla fattispecie ha il significato del superamento di
una visione puramente formale dell’ordinamento
giuridico, basata sulla riduzione integrale della complessità sociale allo schema della fattispecie. Se si assume che tutto il diritto è in definitiva un elenco di
fatti giuridici, o si resta ad un’inconciliabile antinomia fra fatto e valore giuridico in ordine alla qualifica del contratto, o si deve concepire il rapporto come pur sempre un’articolazione della fattispecie
I contratti 12/2010
(29). Scrive Auricchio che «il criterio ultimo della
giuridicità di un autoregolamento risulta dalla coerenza dei suoi effetti con quelli già realizzati dall’intero ordinamento, talché l’unità del sistema giuridico si afferma come unità intrinseca di valori effettuali, e non solo da un punto di vista astratto» (30).
L’unità dell’ordinamento non è un presupposto già
dato, ma un risultato da costruire, perché il problema è «quello del come una norma distinta entri a far
parte di quella unità, che già si suppone operante»
(31). Si tratta di un’organizzazione complessa, cui
concorrono valutazioni legali ed autonomia sociale.
Alla definizione del contratto, come è stato scritto,
concorrono una pluralità di fonti. Ma, alla stessa
stregua di una donazione dissimulata, che per avere
efficacia deve essere celata da una compravendita
che ne possieda i requisiti di sostanza e di forma
(non solo l’effetto traslativo, ma anche l’atto pubblico), il rapporto non deve entrare in contraddizione
con la fattispecie, è dotato di un’autonoma dinamica rispetto al fatto giuridico, ma vi deve rimanere
coerente. Il rapporto è efficace per l’ordinamento
non perché rappresenti un modo di manifestazione
della fattispecie, ma perché si sviluppa in sincronia
ad essa.
Dall’angolo prospettico dell’autonomia privata si
aprono vedute più generali sui fenomeni giuridici.
La compatibilità della regola della responsabilità
precontrattuale, risultante dalla concretizzazione
della clausola di buona fede, alla regola contrattuale
risponde al principio di coerenza interna dell’ordinamento, il quale è addirittura un principio costituzionale, al punto che l’irrazionalità, quale incoerenza della norma rispetto ad altre regole che disciplinano situazioni analoghe, costituisce un tipico vizio
di costituzionalità della legge (32).
La costruzione dell’ordinamento, poi, risultante dalla dialettica di autonomia sociale e fattispecie legale, allarga ormai il suo cono d’ombra oltre i confini
nazionali, e si ripropone come dialettica fra lex mercatoria e normative statuali. Due letture estreme
Note:
(28) M. Mantovani, “Vizi incompleti” del contratto e rimedio risarcitorio, cit., 219.
(29) Il riferimento nel primo caso è al dilemma contenuto in B. de
Giovanni, Fatto e valutazione nella teoria del negozio giuridico,
cit., nel secondo alla critica di Scognamiglio alla tesi di Auricchio
della simulazione come non corrispondenza di validità ed efficacia.
(30) A. Auricchio, La simulazione nel negozio giuridico, cit., 20.
(31) A. Auricchio, loc. cit.
(32) G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988,
149 ss.
1161
Argomenti
Contratti in generale
tengono il campo a questo proposito. Da una parte
la retorica di un’autonomia sociale sospesa nel vuoto della legge, che riduce la giuridicità ad effettività,
fino alla formazione plurale di ordinamenti mediante l’“auto-costituzionalizzazione delle sfere civili”,
secondo l’adagio ubi societas ibi ius (33). Dall’altra la
retorica della legge, secondo cui il rinvio alla lex
mercatoria in un contratto commerciale internazionale non equivale a scelta del diritto applicabile, ma
a determinazione per relationem del regolamento negoziale, da cui la necessità quanto meno per il giudice statale (l’arbitro internazionale non ha vincoli di
diritto nazionale, salvo che per l’esecuzione della sua
decisione nell’ambito di un determinato ordinamento statale) di fare riferimento ai criteri di collegamento previsti dalla norma di diritto internazionale privato per le ipotesi di mancanza di scelta della legge applicabile. Fra i due estremi c’è la via mediana che il soft law propone. I Principi Unidroit dei
contratti commerciali internazionali fanno salva
l’applicazione delle norme imperative nazionali applicabili sulla base del diritto internazionale privato
(art. 1.4) e delle regole nazionali sull’invalidità per
contrarietà alla legge (art. 3.1). Disposizioni analoghe sono nei Principi di diritto europeo dei contratti (artt. 1.103 e 4.101). Si tratta di disposizioni
conformi al diritto internazionale privato, che fa salva l’applicazione delle norme di applicazione neces-
1162
saria, cioè quelle imperative del foro di appartenenza del giudice, oltre che dell’ordine pubblico internazionale. Ciò significa che qualificare diritto applicabile, e non rinvio negoziale, la lex mercatoria non
implica sottrarre il contratto alla legge applicabile
sulla base del diritto internazionale privato. L’ordinamento è la risultante di un’integrazione di regimi
giuridici, quello nazionale e quello di diritto uniforme. Se le parti in un contratto di commercio internazionale hanno designato come diritto applicabile
i Principi Unidroit, questi troveranno attuazione innanzi al giudice statale nei limiti della disciplina del
rapporto, mentre per la validità del contratto quale
fattispecie dovrà farsi riferimento alla legge applicabile secondo il diritto internazionale privato, fermo
restando in ogni caso le norme di applicazione necessaria relative alla lex fori e l’ordine pubblico internazionale. Si può parlare a questo proposito di disciplina multi-livello del contratto. Mentre la lex
mercatoria regge il rapporto, la legge disciplina la fattispecie, e l’ordinamento rappresenta il punto di arrivo di una dialettica complessa, nella quale il diritto del rapporto si sviluppa entro i confini della coerenza al diritto della fattispecie.
Nota:
(33) G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Roma, 2005.
I contratti 12/2010
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Contratti in generale
Gestione di affari altrui
Note in tema di gestione
di affari altrui
di Sara Tommasi
Il saggio è teso a dimostrare che la configurabilità dei presupposti di una gestione di affari altrui ex artt. 20282032 c.c. è influenzata dai caratteri dell’attività nella quale ci si ingerisce. L’indagine sulle conseguenze pratiche dell’interpretazione proposta rivela che le problematiche poste dall’istituto in oggetto sono molto più
complesse di quelle riconducibili alla mera tutela della solidarietà verso il dominus.
Premessa
Note:
Gli artt. 2028-2032 c.c. tracciano i contorni di un
istituto che vanta una secolare tradizione (1) e che,
per quanto spesso non adeguatamente valorizzato,
ha ancor oggi una rilevante ricchezza di contenuto
(2).
Cercheremo, in questa sede, di far luce sui fattori
che sono alla base della scarsa applicazione della gestione di affari altrui, che rimandano sia alla tralatizia convinzione della sua esclusiva giustificazione
solidaristica, sia alla troppo rigida interpretazione
delle norme che ne delineano i presupposti. L’attenzione sarà incentrata su tali norme anche al fine di
verificare la possibilità di considerarle espressione
della disciplina di un’attività e non di singoli atti.
(1) S. Riccobono, La gestione degli affari altrui e l’azione di arricchimento nel diritto moderno, in Riv. dir. comm., 1917, I, 369,
dà conto dell’esistenza nel Corpus iuris civilis di due tipi fondamentali ed opposti di gestione che rappresentano due fasi storiche dell’istituto, vale a dire la teoria classica da una parte e la
giustinianea dall’altra; soggettiva l’una e oggettiva l’altra. Diversa la prospettiva di G. Pacchioni, Della gestione di affari altrui
secondo il diritto romano, civile, commerciale, Padova, 1935,
495; Id., Dei quasi contratti, Padova, 1938, 139. Sui problemi legati alla ricostruzione delle vicende storiche della gestione di affari altrui si vedano G. Scaduto-S. Orlando Cascio, voce Gestione di affari altrui, in Nuovo Dig. It., VI, 1938, 240; G. Nicosia, voce Gestione di affari altrui (storia), in Enc. dir.,VIII, 1969, 628; G.
Dejana, Gestione di affari altrui e atti dispositivi, in Riv. dir.
comm., 1948, I, 225; V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1994 (14, rist.), 351. La storia dell’istituto si intreccia
con quella dei quasi contratti; molto, infatti, si è discusso sulla
riconducibilità della gestione di affari altrui a tale categoria. Al riguardo si rimanda a G. Pacchioni, Dei quasi contratti, cit., spec.
16; S. Riccobono, op. cit., 379; P. Sirena, La gestione di affari altrui come fonte quasi-contrattuale dell’obbligazione, in Riv. dir.
civ., 1997, 249; E. Moscati, Fonti legali e fonti “private” delle
obbligazioni, Padova, 1999, 24; G. Broggini, Vertagsählinche
Schuldverhältnisse und Ungerechtfertigte Bereicherung im
IPR, in Europa dir. priv., 2004, 1128; F. Rolfi, Le obbligazioni da
contatto sociale nel quadro delle fonti di obbligazione, in Giur.
merito, 2007, 581; P. Gallo, Arricchimento senza causa e quasi
contratti (i rimedi restitutori), Torino, 2008, 1.
I mobili confini dell’ingerenza gestoria
nell’altrui sfera giuridica
I presupposti necessari perché si configuri una gestione di affari altrui sono tradizionalmente individuati: a) nella c.d. absentia domini, dedotta dall’art.
2028 c.c. allorché fa riferimento ad un dominus che
non è in grado di provvedere ai suoi interessi; b) nell’altruità dell’affare, dato l’esplicito riferimento normativo alla gestione di un affare altrui; c) nella
spontaneità dell’intervento del gestore che, infatti,
ai sensi dell’art. 2028 c.c., deve agire “senza essere
obbligato”; d) nella consapevolezza dell’alienità dell’affare, desumibile dall’avverbio “scientemente”.
Particolarmente discusso è, poi, il c.d. requisito dell’utiliter coeptum che, data la formulazione dell’art.
2031 c.c., è da una parte della dottrina considerato
condicio iuris di efficacia di una fattispecie già strutturalmente perfetta (3) e, da altra parte, ritenuto
presupposto dei soli effetti a carico del dominus (4).
I contratti 12/2010
(2) L’insufficienza di una prospettiva poco attenta alla ricchezza di
contenuto che la gestione di affari è ancora capace di rivelare, è
evidenziata da U. Breccia, La gestione di affari altrui, in Trattato di
diritto privato, diretto da P. Rescigno, X, Torino, 1984, 716 e 738.
V. anche P. Sirena, La gestione di affari altrui. Ingerenze altruistiche, ingerenze egoistiche e restituzione del profitto, Torino, 1999,
432, ove se ne valorizza, in particolare, la funzione restitutoria.
(3) L. Aru, Della gestione di affari, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1981, 41; G. Dejana, op. cit., 262; L. Campagna, I “negozi di attuazione” e la manifestazione dell’intento negoziale, Milano, 1958, 178.
(4) S. Ferrari, voce Gestione di affari altrui (dir. priv.), in Enc. dir.,
XVII, 1969, 652, spec. n. 22. Ulteriormente diversa è la posizione di P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 310, per il quale
l’alternativa tra utiliter coeptum come condicio iuris o elemento
strutturale non assume particolare significato in sé, ma è meramente strumentale alla controversia riguardante la natura giuridico dell’istituto.
1163
Argomenti
Contratti in generale
Detti presupposti sono stati individuati in maniera
elastica e duttile dalla legge, così che sarebbe sbagliato ricondurli entro rigidi schemi o definirne una
portata valida in ogni circostanza. Si prospettano,
allora, delle distinzioni all’interno dell’istituto, in
considerazione delle differenti situazioni che, in
concreto, possono verificarsi (5). In particolare,
emerge l’opportunità di graduare la rigidità dei suoi
elementi costitutivi a seconda dei margini di valutazione e di scelta assegnati al dominus dall’ordinamento; margini che si riducono sensibilmente quando si tratta di attività alle quali il dominus è tenuto
in base alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (6) e, ancora di più, qualora vengano in rilievo obblighi che coinvolgono interessi indisponibili.
Così, la gestione di attività discrezionali - intendiamo dire quelle che il dominus può scegliere se porre
o meno in essere - non va confusa con l’ingerenza in
altrui attività doverose (7). Segnatamente, quanto
meno discrezionale è l’attività del dominus, tanto
più diminuisce la necessità di configurare rigidamente i requisiti richiesti perché possa delinearsi
una gestione di affari altrui. In questo modo, lungi
dal limitare la garanzia giuridica della libertà di autodeterminazione del negotiorum gestus, si stabilisce
l’ambito operativo della gestione di affari proprio in
correlazione con le esigenze di tutela della sua autonomia (8). Può addirittura notarsi che la libertà di
autodeterminazione del dominus è tutelata dalle norme in tema di gestione di affari altrui ancor di più rispetto a quanto avvenga applicando istituti affini. Si
faccia l’ipotesi di un’attività gestoria consistente
nell’adempimento di un’altrui obbligazione e la si
confronti con le disposizioni in materia di adempimento del terzo. L’art. 1180 c.c. non attribuisce valore determinante alla volontà del debitore: il creditore non è obbligato a rifiutare l’adempimento offertogli dal terzo, anche se il debitore ha manifestato la
sua opposizione (9). Nella gestione di affari altrui,
invece, il divieto dell’interessato, tranne che non sia
contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon
costume, impedisce il verificarsi di quanto previsto
dall’art. 2031 (10).
Ciò posto, torniamo ad analizzare i singoli presupposti previsti dalla legge perché si configuri una negotiorum gestio per verificare in che modo la loro concreta individuazione possa essere influenzata dai caratteri dell’attività nella quale ci si ingerisce.
a) Quanto all’absentia domini, il termine latino potrebbe trarre in inganno, in quanto la legge non si riferisce espressamente ad un dominus assente, ma ad
un dominus che non è in grado di provvedere da se
stesso. I piani non sono coincidenti, poiché soggetti
1164
assenti possono essere in grado di provvedere ai loro
affari, così come può accadere l’inverso, e cioè che
un soggetto sia presente in un determinato luogo e,
tuttavia, non possa occuparsi degli affari che ivi ha.
Vero è che il requisito dell’absentia domini si presta
ad assumere connotati diversi.
Nel caso di attività discrezionali, il non essere in
grado di provvedere da parte dell’interessato va interpretato in senso rigido. Si deve ritenere, cioè, che
l’absentia domini si configuri solo quando il dominus
non abbia provveduto a causa di una situazione di
impossibilità, dato che, soltanto in tale circostanza
può ritenersi superato il rischio di ledere la sua auto-
Note:
(5) U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 728.
(6) Sulla specificazione e la distinzione tra obblighi nascenti dalla
legge, obblighi derivanti dall’ordine pubblico e obblighi di buon
costume, si rimanda a G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, 45; Id., voce Ordine
pubblico (dir. priv.), in Enc. dir., XXX, 1980, 1039 ss; L. Lonardo,
Ordine pubblico e illiceità, Napoli, 1993, 20.
(7) Ci deve essere, in ogni caso, e cioè sia per le attività discrezionali che per quelle doverose, l’ontologica possibilità dell’altrui
ingerenza, restando, evidentemente, escluse da gestione di affari quelle attività che, per natura o per disposizione di legge,
possono essere esercitate solo dal titolare.
(8) P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, in Familia, 2002, 43.
(9) Il rapporto tra adempimento del terzo e gestione di affari altrui è discusso in dottrina. L’adempimento spontaneo del terzo è
stato, spesso, ricondotto nell’ambito operativo della gestione di
affari altrui. Cfr. D. Vincenzi Amato, Gli alimenti. Struttura giuridica e funzione sociale, Milano, 1973, 183; M. Bessone-A. D’Angelo, voce Adempimento, in Enc. Giur. Treccani, I, 1988. 6; C.M.
Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, 285; F.
Gazzoni, Manuale di diritto privato, 9, Napoli, 2001, 572; R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 229 nota
che non è contestabile che i requisiti della gestione di affari altrui
possano riscontrarsi nell’adempimento del terzo, ‹‹ma dovrebbe
pure essere chiaro che essi sono requisiti dal punto di vista giuridico superflui e irrilevanti››. P. Sirena, La gestione di affari altrui,
cit., 241, nota 66 e 256, afferma che l’adempimento del debito
altrui costituisce tradizionalmente una ipotesi di gestione di affari altrui, ma avverte che la gestione di affari non può considerarsi uno strumento generale di regresso del terzo adempiente (v.
anche Id., L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza
materiale, cit., 43). Critico rispetto alla tesi secondo la quale l’adempimento del terzo realizzerebbe sempre un’ipotesi di utile
gestione è C. Turco, L’adempimento del terzo, in Commentario
Schlesinger, Milano, 2002, 210. Per una sintesi del dibattito sul
punto si veda, di recente, A. Tomassetti, Adempimento del terzo e ripetizione della prestazione, in Obblig. e contr., 2008, 497.
(10) Sul divieto del soggetto gerito si riscontrano opposti orientamenti. Da un parte si afferma che esso precluderebbe il prodursi degli effetti giuridici della gestione. In questo senso L. Aru,
Della gestione di affari, cit., 47; S. Ferrari, voce Gestione di affari altrui, cit., 654. In diversa prospettiva, non si tratterebbe della
preclusione di effetti giuridici, ma del venir meno di uno dei requisiti necessari perché si configuri la gestione, e cioè l’impossibilità del dominus di provvedere. Sul punto cfr. P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 343, al quale si rimanda anche per una
sintesi delle diverse tesi al riguardo.
I contratti 12/2010
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Contratti in generale
nomia (11). L’inerzia del soggetto gerito, in particolare, sebbene non rilevi giuridicamente come manifestazione tacita di “divieto” del compimento dell’affare, non esclude affatto che egli abbia convenientemente valutato i propri interessi e si sia deciso a mantenere un contegno astensivo (12).
Il discorso cambia se si ha riguardo ad attività doverose del dominus, perché, in tali situazioni, l’esigenza di tutelare l’interesse, che il dominus può avere, a
non provvedere non si pone nel modo cui sopra si è
accennato per le attività discrezionali ed anche l’incidenza sulla sua autonomia è di ben altro segno
(13). L’interesse tutelato potrebbe identificarsi, infatti, con quello a trasgredire ad obblighi che la stessa legge, o l’ordine pubblico o il buon costume, gli
hanno imposto.
Conseguentemente, con riguardo alle attività doverose, il non essere in grado di provvedere può essere inteso in senso tutt’altro che rigido e, quindi, tale da includere non solo i casi in cui è impossibile che il dominus adempia ai suoi obblighi, ma anche tutti quelli nei
quali ha mancato, o si è rifiutato di adempiere o semplicemente è stato inerte (14).
Così configurato il requisito dell’absentia domini, si
finisce per registrarne la sussistenza anche in ipotesi
nelle quali esso, rigorosamente inteso, sembra non
palesarsi. Si pensi all’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale (15). In queste ipotesi, l’interesse dell’avente diritto è prevalente rispetto all’interesse del dominus ad opporsi all’adempimento del terzo (16). Il soggetto tenuto al pagamento degli alimenti può evitare che si producano gli effetti giuridici della gestione di affari altrui soltanto
provvedendo direttamente al compimento dell’affare, e non invece manifestando, direttamente o indirettamente, la propria volontà contraria, né restando inerte (17).
Si faccia l’esempio di un padre che chieda di essere tenuto indenne dalle spese sostenute per la figlia, separata di fatto dal marito sul quale grava l’obbligo di
mantenimento (18). Nella specie, se è vero che non è
meritevole di tutela l’interesse del marito a non provvedere - interesse che è, infatti, contrario alla legge,
all’ordine pubblico e al buon costume - non dovrebbero esservi ostacoli a considerare il marito non in
grado di provvedere al mantenimento della moglie,
non solo in quanto assente o materialmente carente
di mezzi, ma anche semplicemente perché ha assunto
un comportamento inerte. In tali circostanze, qualora
l’interessato possa prendersi cura dei propri affari, ma
tenga un atteggiamento di inerzia, sembra eccessivo
escludere in ogni caso l’efficacia di un’ingerenza del
terzo. Tra i rischi che assume il soggetto, nel caso di
I contratti 12/2010
inadempimento agli obblighi di cui è titolare, vi è anNote:
(11) Vengono fatte salve, nella prospettiva proposta, le preoccupazioni di S. Ferrari, voce Gestione di affari altrui, cit., 647, ove si
afferma che se si intendesse l’absentia in senso ampio e relativo, si verrebbe a sottrarre all’autonomia privata la competenza
dispositiva che è riconosciuta dall’ordinamento giuridico e si snaturerebbe, al tempo stesso, il carattere della gestione di affari altrui che, in tanto si pone quale valida integrazione dell’autonomia
privata, in quanto essa non possa operare. Lo stesso Autore,
però, non può fare a meno di ammettere che l’absentia, deve essere valutata, in ogni caso, in relazione alla natura dell’affare e alle circostanze di fatto nelle quali l’affare medesimo si inquadra.
Al riguardo cfr. P. Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova,
1990, 539; Id., voce Gestione d’affari altrui in diritto comparato,
in Dig. disc. priv., Sez. civ., VIII, 1992, 707.
(12) In questi termini P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, cit., 45. Cfr. S. Patti, Profili della
tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978, 157; Id., voce Acquiescenza, in Enc. giur. Treccani, I, 1988, ora in Id., Vicende del diritto soggettivo, Torino, 1999, 35 s.; Id, voce Tolleranza (atti di),
in Enc. dir., XLIV, 1992.
(13) U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 738.
(14) U. Breccia, op. cit., 730; D. Carusi, Le obbligazioni nascenti
dalla legge, cit., 149 e spec. 152, ritiene che un allargamento indiscriminato della portata applicativa della gestione di affari altrui
si potrebbe avere qualora si negasse rilievo al requisito dell’absentia, ritenendo necessaria solo la praesentia espressa attraverso il divieto; R. Pane, Solidarietà sociale e gestione di affari altrui, Camerino-Napoli, 1997, 99, afferma che la meritevolezza
dell’opposizione dell’interessato all’attività del gestore non va
valutata in relazione al divieto in sé e per sé considerato, ma in
ragione dell’ambito di discrezionalità riservato al dominus al fine
della determinazione di tenere o no quel comportamento.
(15) Sul rapporto tra adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale e gestione di affari, cfr. P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, cit., 43; T.
Auletta, voce Alimenti (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, I,
1988, 7; V. Scialoja, Absentia domini, in Foro It., 1957, IV, 129; L.
Cabella Pisu, Prestazioni alimentari del terzo e strumenti di regresso, in Foro it., 1971, I, 714; A. Trabucchi, voce Alimenti (diritto civile), in Noviss. Dig. it., App., I, 1980, 236; G. Provera, voce Alimenti, in Dig. disc. civ., I, 1987, 260; Id., Degli alimenti, in
Commentario del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, 11; M. Dogliotti, Doveri familiari e obbligazione
alimentare, Milano, 1994, 145; D. Vincenzi Amato, Gli alimenti,
in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 4, Persone e
famiglia, 2ª ed., III, Torino, 1997, 924 e, da ultima, A. Eremita,
Sulla legittimazione ad agire per il mantenimento dei figli maggiorenni, in Le corti pugliesi, 2008, 42. In giurisprudenza si rimanda a Cass., 17 luglio 1969, n. 2636, in Foro it., 1970, I, c.
260. L’applicabilità della gestione di affari altrui è stata riconosciuta anche nel caso in cui uno dei coobligati di pari grado esegua le prestazioni dovute dagli altri, cfr. Trib. Vallo della Lucania,
8 luglio 1991, in Dir. fam. e pers., 1991, 1050. Cass., 9 agosto
1988, n. 4883, in Cd Foro it; 119; Cass., 4 settembre 1999, n.
9386, in dejure.giuffre.it; Cass., 17 dicembre 2007, n. 26575, ibidem; Cass., 22 dicembre 2004, n. 23823, in Cd Iuris Data; Cass.,
23 marzo 2004, n. 5719, in Dir. fam., 2004, 333; Cass., 22 novembre 2000, n. 15063, in Giust. civ. 2001, 1296; Trib. Salerno,
11 ottobre 2008 n. 1942, in dejure.giuffre.it.
(16) G. Ferrando, voce Alimenti, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg.
I, Torino, 2000, 51
(17) U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 728; P. Sirena, La
gestione affari altrui, cit., 349.
(18) Il caso è preso in prestito dalla giurisprudenza. V. Cass., 22
dicembre 2004, n. 23823, in Cd Iuris Data.
1165
Argomenti
Contratti in generale
che quello di far fronte agli oneri che altri abbia assunto per ovviare a tale situazione (19).
b) Con riferimento all’altruità dell’affare da gestire,
è necessaria una precisazione terminologica. L’art.
2028 c.c. richiede esplicitamente l’altruità dell’affare e non l’altruità dell’interesse perseguito con la gestione (20).
La necessità di perseguire l’interesse altrui - in genere inteso esclusivamente come interesse del dominus
dell’affare - è legata, piuttosto, alla previsione dell’art. 2031 c.c. che subordina gli obblighi del dominus nei confronti del gestore all’utilità, tra l’altro solo iniziale, della gestione.
Il requisito dell’altruità dell’interesse è, dunque,
strettamente connesso all’utiliter coeptum, al quale
sono dedicate le osservazioni che seguono, dirette ad
evidenziare che pure la sua precisa portata dipende
dalle caratteristiche che in concreto assume l’attività nella quale ci si ingerisce. Esula, invece, da questo contesto l’attenzione ad altri profili, riguardanti
la questione della rigida alternativa tra utilità soggettiva o oggettiva della gestione di affari altrui
(21); la possibilità di considerare utili anche gli atti
preparatori o preliminari della gestione di affari altrui (22); i rapporti tra l’espressione dell’art. 2031
comma 1 e quella dell’art. 1144 del vecchio codice
che, sul modello dell’art. 1375 Code civil, subordinava il diritto del gestore, a essere tenuto indenne dalle obbligazioni assunte, al fatto che l’affare fosse stato “bene amministrato” (23).
Può riproporsi anche per l’utiliter coeptum un ragionamento simile a quello fatto con riferimento all’absentia domini (24).
Rispetto alle attività discrezionali, infatti, sembra
opportuno valutare la sussistenza dell’utilità della
gestione con riferimento all’interesse del dominus,
perché nessuno meglio dell’interessato può conoscere ciò che per lui è utile e perché una diversa scelta
rischierebbe di mortificare la sua autonomia privata.
Nel caso di attività doverose, invece, l’utilità iniziale può essere intesa come utilità nell’interesse di
quel soggetto o di quei soggetti i cui diritti sarebbero
pregiudicati da un comportamento del dominus contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (25). Ne derivano ulteriori precisazioni anche in
merito all’altruità dell’affare.
L’affare, infatti, rimane altrui - e dunque, da questo
punto di vista, non ci sono ostacoli ad applicare la
disciplina in tema di gestione di affari - anche quando, come in ipotesi di attività doverose, sembra
mancare il requisito dell’altruità dell’interesse, inteso come interesse esclusivo del dominus (26).
I risultati pratici, raggiungibili tenendo conto della
1166
distinzione proposta tra altruità dell’affare e altruità
dell’interesse, sono evidentemente diversi da quelli
ai quali si giunge qualora si ritenga che l’istituto della negotiorum gestio postuli uno svolgimento di attività, da parte del gestore, diretta al conseguimento
dell’esclusivo interesse del dominus.
Si pensi all’esempio prima proposto. Se si dà rilievo
alla diversità tra altruità dell’affare e altruità dell’interesse, il fatto che anche il padre possa avere interesse
a che il marito mantenga la figlia, non esclude che,
nel provvedere personalmente al suo mantenimento,
abbia gestito un “affare” altrui, cioè del marito.
c) La valutazione circa l’altruità dell’affare è strettaNote:
(19) Così U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 730. In tali
casi, secondo l’Autore, l’assenteismo dell’interessato ha un palese carattere di antigiuridicità.
(20) G. Pacchioni, Dei quasi contratti, cit., 30; D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2004, 105.
(21) Secondo U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 727-728
l’alternativa tra una valutazione oggettiva o soggettiva può indurre
in equivoco perché sembra ignorare la distinzione preliminare tra
le attività gestorie in cui non è ammessa una libertà di scelta del
destinatario e quelle in cui tale autonomia è decisiva. Nel senso
che la rigida alterativa tra utilità soggettiva o oggettiva della gestione di affari altrui sia da superare, si vedano D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, cit., 117; R. Pane, Solidarietà sociale
e gestione di affari altrui, cit., 56. Per una sintesi delle diverse tesi
in tema di utilità della gestione si rimanda a M. Franzì, Il concetto
di utilità e la gestione di affari altrui, in Dir. e giur., 1950, 20.
(22) In senso affermativo cfr. G. De Semo, La gestione di affari
altrui, Padova, 1958, 72; L. Aru, Della gestione di affari, cit., 43;
M. De Bernardinis, sub art. 2030, in Commentario del codice civile diretto da D’Amelio e Finzi, III, Libro delle Obbligazioni, Firenze, 1949, 176.
(23) P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, cit., 45.
(24) P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 349, evidenzia lo
stretto collegamento tra il requisito dell’utilità iniziale della gestione e quello dell’absentia domini, segnalando che - nei casi di
indisponibilità dell’interesse da parte del dominus - la valutazione di utilità dell’ingerenza nell’altrui sfera giuridica non presuppone che il soggetto gerito si trovi nella concreta impossibilità di
provvedere ai propri interessi. In diversa prospettiva cfr. S. Ferrari, Gestione di affari e rappresentanza, cit., 33; B. Biondi, Gestione rappresentativa e ratifica, in Foro it., 1954, 98.
(25) U. Breccia, La gestione di affari altrui, 727-729 e 739.
(26) La mancata attenzione a questi casi è frutto dell’eccessiva
considerazione del momento essenzialmente economico dell’utilità iniziale. Sul punto cfr. R. Pane, Solidarietà sociale e gestione di
affari altrui, cit., 40. In giurisprudenza cfr. Cass., 22 dicembre
2004, n. 23823, cit.; Cass., 29 marzo 2001, n. 4623, in Cd Foro it.
Nel senso che l’istituto della negotiorum gestio postuli uno svolgimento di attività da parte del gestore diretta al conseguimento
dell’esclusivo interesse del “negotiorum gestus” è Cass., 6 agosto 1997, n. 7278, in Giust. civ., 1998, 2911. Dalla stessa sentenza, però, sembra emergere che sia impossibile fare ricorso alla gestione di affari altrui solo quando c’è una contrapposizione netta
tra interessi del gestore e interessi del dominus. Non si esclude,
dunque, che possano esserci dei casi nei quali la realizzazione dell’interesse del dominus sia compatibile con il perseguimento anche di interessi altri rispetto a quello esclusivo del dominus.
I contratti 12/2010
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Contratti in generale
mente connessa anche ad un altro presupposto indispensabile perché si abbia una gestione di affari altrui. Il riferimento è alla spontaneità dell’intervento
del gestore che ex art. 2028 c.c. deve agire senza essere obbligato (27).
Nella pratica non è sempre facile riconoscere se è
spontaneo l’intervento del gestore, né distinguere
tra le sfere - sovente intrecciate - degli affari gestiti
in forza dell’esistenza di un’obbligazione e degli affari gestiti spontaneamente (28). È necessario, comunque, non accedere a soluzioni aprioristiche che
portino ad escludere la configurabilità della negotiorum gestio solo perché il gestore è legato da rapporti
obbligatori con il dominus negotii (29). Occorre, infatti, indagare sulla relazione esistente tra rapporto
obbligatorio e atto di gestione, ammettendo la configurabilità di quest’ultimo tutte le volte che risulti
estraneo al detto rapporto (30).
Si rifletta ancora sull’ipotesi del padre che provveda
al mantenimento della figlia al quale era tenuto il
marito. Si potrebbe affermare che manca la spontaneità dell’intervento in quanto, ex art. 441 c.c., qualora il marito sia inadempiente, l’obbligazione per
gli alimenti è a carico del genitore, tenuto a provvedervi in via posteriore (31). Il padre, in altri termini, adempirebbe ad un suo obbligo e non a quello altrui, così da potersi considerare carente la spontaneità della gestione.
L’art. 441 c.c., però, fa riferimento all’ipotesi nella
quale il soggetto tenuto in grado anteriore a prestare
gli alimenti, non sia in condizioni di sopportare, in
tutto o in parte il relativo onere, ma non riguarda il
caso nel quale costui semplicemente ometta, magari
per inerzia, di provvedervi.
In altri termini, l’obbligo, ex art. 441 c.c., non è più
del marito, ma del padre solo qualora il primo non
sia in condizioni economiche tali da poter adempiere; nelle altre circostanze l’obbligo resta del marito
ed un eventuale intervento del padre - o di qualsiasi
altro soggetto non attualmente obbligato - può considerarsi una gestione di affari altrui.
Neppure osterebbe la mancanza dell’absentia domini
o dell’utiliter coeptum, in quanto rientrando l’obbligo
di mantenimento tra le attività doverose del dominus - accogliendo, e conseguentemente, applicando
le osservazioni sopra proposte - può rinvenirsi l’absentia nella semplice inerzia e si può considerare sussistente l’utiliter coeptum anche in mancanza della
realizzazione dell’esclusivo interesse del dominus
(32). È necessario, però, che sia realizzato l’interesse
dei soggetti che sarebbero, altrimenti, danneggiati a volte anche in modo irreversibile - dall’inadempimento del dominus.
I contratti 12/2010
d) Un ulteriore presupposto, indispensabile perché
si configuri la negotiorum gestio, è che il gestore assuma scientemente la gestione dell’affare altrui.
L’avverbio scientemente è una novità del legislatore
del 1942 che sostituisce la previsione del codice del
1865, ove si faceva riferimento ad una gestione assunta volontariamente. L’innovazione, se ha impedito che venisse posto in discussione l’animus come
requisito dell’istituto, non ha evitato le discussioni
sul significato da attribuirvi (33).
Il termine scientemente si presta ad essere inteso sia
Note:
(27) La giurisprudenza si è espressa, più volte, nel senso che l’elemento peculiare che diversifica la gestione di affari altrui da
tutte le altre ipotesi in cui l’attività svolta per conto dei terzi costituisce l’adempimento di un obbligo legale o convenzionale del
cooperatore è dato dalla spontaneità dell’intervento del gestore,
e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in
forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui. Si vedano Cass., 22 dicembre 2004, n. 23823, cit.;
Cass., 5 dicembre 2003, n. 18626, in Cd Foro it. Sulla distinzione
tra gestione di affari altrui e istituti affini cfr. P. Sirena, La gestione di affari altrui. cit., 169 ss.
(28) L. Aru, Della gestione di affari, cit., 4.
(29) Cfr. E.M. Mastropaolo, Coesistenza di obblighi derivanti da
contratto e da gestione di affari altrui, in Giust. civ., 1998, 2915;
M. De Robertis, Gestione di affari e conflitto di interessi tra gerente e gerito, in questa Rivista, 1998, 333.
(30) L. Aru, Della gestione di affari, cit., 5. Il problema è particolarmente sentito con riferimento al rapporto tra gestione di affari altrui e art. 1711 c.c.. Sul punto P. Schlesinger, Eccesso di
mandato e gestione d’affari, in Riv. dir. comm., 1955, 94, afferma che l’errore si annida nel fatto che la possibilità del configurarsi di una gestione, nel caso di atti che eccedono dal mandato, è valutata richiamando le norme sul mandato e non quelle
sull’utile gestione. Rispetto all’atto che esorbita dal mandato,
per definizione, l’agente non può considerarsi come mandatario, di modo che viene a cadere l’inammissibilità di assumere, rispetto allo stesso atto, la duplice veste di mandatario e di gestore. L’inammissibilità del configurarsi della gestione di affari
altrui per l’atto che esorbita il mandato non è da ricondurre
nemmeno alla previsione dell’art. 1711 c.c., in base al quale l’atto che eccede il mandato rimane a carico del mandatario. Tale
norma, infatti, non fa che segnare i limiti del mandato. Nel senso dell’ammissibilità della negotiorum gestio in caso di eccesso
di mandato è anche A. Luminoso, Mandato commissione, spedizione, Milano, 1984, 550. L’Autore, diversamente da Schlesinger, ammette che si possa configurare una gestione di affari
altrui anche quando l’atto eccedente il mandato è incompatibile
con l’oggetto del mandato. Secondo Luminoso, infatti, nell’intervallo di tempo tra la stipulazione del mandato e il compimento dell’atto eccedente potrebbe essere mutata la situazione, in
modo da far apparire lo stesso atto ormai utile. Di recente sui
rapporti tra eccesso di mandato e gestione di affari altrui, in giurisprudenza, si veda Cass., 20 dicembre 2005, n. 28260, in Cd
Foro It.
(31) Cfr. Cass., 22 dicembre 2004, n. 23823, cit.
(32) P. Gallo, voce Gestione d’affari altrui, in Dig. disc. priv., Sez.
civ., VIII, 1992, 704.
(33) P. Sirena, L’adempimento dell’altrui obbligazione di assistenza materiale, cit., 45; P. Gallo, voce Gestione d’affari altrui,
cit., 701; L. Cabella Pisu, Prestazioni alimentari del terzo e strumenti di regresso, cit., c. 714.
1167
Argomenti
Contratti in generale
come consapevolezza dell’altruità dell’affare (34),
sia come intenzione di perseguire l’interesse del dominus negotii (35). La prima lettura è quella preferibile. L’avverbio scientemente, infatti, segnala la
contrapposizione rispetto alla circostanza che il gestore creda di gestire un affare proprio; circostanza
che vale ad escludere l’applicabilità della disciplina
in tema di gestione, a meno che non intervenga la
ratifica dell’interessato ai sensi dell’art. 2032 c.c. La
seconda lettura, inoltre, sarebbe incompatibile con
la tesi in base alla quale è configurabile una gestione
di affari altrui anche qualora non si persegua esclusivamente l’interesse del dominus.
Foriera di sviluppi particolarmente interessanti è anche la tesi in base alla quale la consapevolezza dell’alienità dell’affare non si ricollega all’individuazione
del fondamento o della funzione sistematica dell’istituto, ma è finalizzata a graduare la responsabilità del
gestore in base ad un criterio estrinseco di opportunità. Il dato è esemplificato, chiarendo, per esempio,
che la disciplina del rapporto tra possessore illegittimo della cosa altrui e proprietario è del tutto riconducibile alla gestione di affari altrui. Segnatamente,
la differenza normativa tra possesso di mala fede e
possesso di buona fede corrisponde alla rilevanza formale che la disciplina della gestione di affari altrui
attribuisce alla consapevolezza del soggetto agente di
essersi ingerito nell’altrui sfera giuridica (36).
La gestione di affari altrui
e la non essenzialità della solidarietà
verso il dominus
L’applicabilità delle norme sulla negotiorum gestio
anche quando un soggetto agisca senza l’intenzione
di perseguire l’esclusivo interesse del dominus, ma
nella sola consapevolezza dell’altruità dell’affare,
consente di mettere in discussione l’assunto dell’esclusiva funzione solidaristica dell’istituto.
È possibile dimostrare che, ai fini della configurabilità della gestione di affari altrui, non ha rilievo determinante l’elemento soggettivo e intenzionale del
gestore, il suo animo solidale o interessato e neppure la circostanza che egli possa trarre un vantaggio
diretto o indiretto dalla gestione. Occorre, piuttosto, fare riferimento agli aspetti oggettivi inerenti i
caratteri dell’attività nella quale ci si ingerisce e agli
interessi coinvolti nel suo svolgimento.
L’ammissibilità di una gestione che prescinda dall’esclusivo interesse del dominus riguarda, infatti, solo
le attività doverose, in relazione alle quali l’intervento gestorio può a volte essere una forma di autotutela rispetto all’inadempimento altrui. Non si tratta, dunque, solo del profitto ottenuto dal gestore del
1168
bene altrui, né dell’appropriazione di utilità spettante ad altri (37), ma di consentire al gestore di evitare danni. Tale gestione non è connotata necessariamente da animus depraedandi e si pone sempre come
rimedio all’inattività del dominus.
Esplicativo può essere un esempio preso in prestito
dalla giurisprudenza. Si pensi al caso di un conduttore che chieda il diritto al rimborso delle spese sostenute per riparazioni urgenti su cosa diversa da
quella locatagli, ma necessarie per l’uso convenuto
di quest’ultima (38). Nell’ipotesi considerata, l’affare - consistente nella riparazione di un appartamento - è del locatore e rientra nella sua attività doverosa, avendo egli, ex art. 1576 c.c., l’obbligo di mantenere la cosa in buono stato locativo. Il conduttore
può essere considerato come un soggetto che assume
la gestione dell’affare, consistente nella riparazione
dell’appartamento sovrastante, ben sapendo che si
tratta di un affare altrui (39), ma rendendosi conto
che in questo modo - stante l’inerzia del locatore può realizzarsi il suo diritto al godimento del bene
locatogli (40). In una tale circostanza, il gestore non
agisce perché animato da spirito di solidarietà, ma
per perseguire il suo interesse (41) a non essere pregiudicato, in modo irreparabile, dall’inadempimento degli obblighi di legge gravanti sul dominus (42).
Note:
(34) R. Pane, Solidarietà sociale e gestione di affari altrui, cit., 74.
(35) L. Aru, Della gestione di affari, cit., 13; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1953, 111.
(36) P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 84 e ss.
(37) Problema comunque importante affrontato da P. Sirena, La
gestione di affari altrui, cit., 309.
(38) Cfr. Cass., 26 settembre 1997, n. 9465, in questa Rivista,
1998, 329. Sul punto si vedano M. De Robertis, Gestione, cit.,
333; E.M. Mastropaolo, Coesistenza di obblighi derivanti da contratto, cit., 2915. Più di recente, sui problemi relativi al rapporto
tra condomini e gestione di affari altrui si veda Cass. 9 settembre 2008, n. 23345, in Guida dir., 2008, 45, 57.
(39) Nel senso precisato retro.
(40) Sui casi delle iniziative del locatario dirette ad operare riparazioni sulla cosa locata si rimanda a D. Carusi, Le obbligazioni
nascenti dalla legge, cit., 109, spec., nota 237. Più in generale,
sulle ipotesi nelle quali la legge prevede espressamente il compimento di atti di amministrazione della cosa altrui a seguito dell’inerzia intollerabile del proprietario - si pensi all’art. 1006 c.c. e
al compimento di riparazioni urgenti da parte dell’usufruttuario,
ovvero dell’avente diritto alla consegna ex art. 1514 c.c. - si veda
P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 192, 197 e 353.
(41) Situazioni nelle quali la gestione viene assunta nell’interesse del gestore si potrebbero avere in pendenza della condizione
sospensiva o di quella risolutiva. Negli stessi termini può argomentarsi nei rapporti tra promettente venditore e promissorio
acquirente di un bene. Sul punto si rimanda a G. Pacchioni, Dei
quasi contratti, cit., 31.
(42) Significativi anche i rapporti tra comproprietari, si vedano
Cass., 11 luglio 1978, n. 3479, in Giur. it., 1979, I, 820; Cass. 23
(segue)
I contratti 12/2010
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Contratti in generale
È più plausibile che sia questo il movente del gestore che, viceversa, difficilmente agirebbe al solo fine
di recare un vantaggio al dominus; vantaggio che,
nel caso di specie, consisterebbe nella diminuzione
dell’entità dei danni da risarcire. Tali danni, infatti,
potrebbero essere maggiori nel caso di un intervento
riparatore ritardato nel tempo.
Siamo in presenza, dunque, di meccanismo molto
più complesso di quello riconducibile alla mera tutela della solidarietà verso il dominus (43). La legge,
d’altronde, dal punto di vista soggettivo, non richiede che il gestore sia animato da spirito solidale, ma
solo che assuma scientemente la gestione.
Si aggiunga che non sempre chi agisce senza essere
obbligato lo fa per scopi di umana solidarietà. Niente vieta, infatti, di pensare che il gestore intraprenda l’affare perché spera che il dominus, pur non essendo obbligato dalla legge, gli elargirà un compenso (44).
Ciò nondimeno, dire che la disciplina in tema di gestione di affari può essere funzionale alla tutela degli
interesse del gestore non significa negare che essa si
presti ad essere riferita anche ad attività animate da
uno scopo solidale ed aventi un sicuro fondamento
normativo nell’art. 2 Cost.
La negotiorum gestio è, piuttosto, una preziosa occasione per evidenziare il rilievo giuridico degli atti di
solidarietà e per individuarne una precisa disciplina.
Se è vero, infatti, che questi atti sfuggono ad una rigida vincolatività e all’apprezzamento alla stregua
dell’esatto adempimento delle prestazioni dedotte
nel contratto, non si può escludere che possano essere giuridicamente rilevanti e costituire fonti di obbligazioni (45).
Nella interpretazione proposta lo scenario degli interventi solidaristici attuabili con la gestione di affari risulta addirittura ampliato. L’attività altruistica
del gestore, infatti, può indirizzarsi non solo verso il
dominus, ma anche - come evidenziato - verso quei
soggetti i cui interessi sarebbero gravemente compromessi dalla sua inattività contraria alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. La perseguibilità anche di tali interessi è possibile, però, solo rispetto alle attività doverose. Al di fuori da tale ambito è necessaria una rigida interpretazione dei presupposti della gestione di affari altrui, al fine di evitare che la solidarietà sia lo schermo dietro il quale
si nascondono iniziative speculative del gestore.
Si capovolge, in questo modo, la prospettiva. Affinché possa aversi un’attività gestoria non occorre
prendere le mosse dalla sussistenza di uno spirito altruistico, ma dall’attività oggetto di gestione per verificarne la compatibilità con l’altrui ingerenza.
I contratti 12/2010
L’attenzione per il rilievo giuridico dell’attività ha,
conseguentemente, un ruolo centrale nella disciplina della gestione di affari altrui e rende l’istituto ancor più ricco di implicazioni dal punto di vista sistematico. A questi aspetti sono dedicate le osservazioni che seguono.
La gestione di affari altrui ed il rilievo
giuridico dell’attività
Se l’ingerenza del soggetto agente nell’altrui sfera
giuridica assume, al di là degli atti in cui si articola,
un rilievo unitario nel suo effettivo svolgimento
(46), diventa fuorviante un’impostazione statica,
basata sulla logica dei singoli atti e delle loro diverse combinazioni. Si tratta, piuttosto, di osservare lo
svolgersi di una condotta che acquista rilievo giuridico nella sua effettività (47) e che, presentandosi
come entità ordinante, pone le premesse per la situazione successiva (48). Il gestore, infatti, non è teNote:
(continua nota 42)
maggio 1984, n. 3143, in Cd Foro It. Sul punto, cfr. D. Carusi, Le
obbligazioni nascenti dalla legge, cit., 107 e 109; V. Arangio Ruiz,
op. cit., 232; B. Biondi, voce Gestione di affari altrui (diritto romano), in Noviss. Dig. It., VII, 1961, 812. Con riferimento ai rapporti
tra coeredi si veda Cass., 30 gennaio 2002, n. 1222, in Vita not.,
2002, 341. In dottrina, per i casi di applicabilità della gestione di
affari altrui, nell’ambio dei problemi relativi ai diritti di successione, si rimanda a G. Perlingieri, L’accettazione dell’eredità dei
cc.dd. chiamati non delati, in Famm. pers. e succ., 2009, 497.
(43) Sul contemperamento di interessi che è implicato nel principio di solidarietà cfr. R. Cicala, Produttività, solidarietà e autonomia privata, in Riv. dir. civ., 1972, 287.
(44) E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, cit., 112, afferma
che, dato il rinvio che si deve fare alle norme in tema di mandato, l’attività del gestore non è necessariamente gratuita, e seppure non può stabilirsi per essa una presunzione di onerosità come per il mandato - poiché manca nella gestione un apposito incarico dell’interessato - è tuttavia possibile che, in una serie di situazioni, ed in vista di un particolare impegno, il giudice possa riconoscere al gestore un diritto ad essere retribuito. Il compenso
potrebbe avere la funzione di incoraggiare interventi gestori.
Cfr., sul punto, H. Dagan, In defense of the good samaritan in
Michigan Law Rewies, 1999, 1153 e spec., 1169.
(45) P. Morozzo della Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, 216. Si pensi anche ai problemi legati al soccorso privato, sui quali si vedano U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit,
716; P. D’Amico, Profili privatistici del soccorso, in Resp. civ. e
prev., 1979, 613; Id., Il soccorso privato, Napoli - Camerino, 1981,
50; B. Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, Camerino-Napoli, 1981, 57; C. Gozzi, Spunti ricostruttivi per l’inquadramento
del soccorso privato nell’ambito della gestione di affari altrui, in
Europa dir. priv., 2009, 147. Quanto al rapporto tra atti di cortesia
e gestione di affari altrui sia consentito rinviare a S. Tommasi,
L’attività e le fonti delle obbligazioni, Lecce, 2003, 112.
(46) P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 416-417.
(47) R. Sacco, Sulla società di fatto, in Riv. dir. civ., 1995, I, 67.
(48) Sull’idoneità dell’agire a creare una situazione giuridica nuova rispetto a quella precedente al suo svolgersi si rimanda a S.
Romano, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel
diritto privato, Milano, 1961, 20.
1169
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Contratti in generale
nuto ad intervenire, ma se decide di farlo assume degli obblighi e non può interrompere in modo intempestivo o dannoso la sua attività (49).
Abbiamo di fronte, dunque, un modo di dare ordine
alla realtà, una forma di riduzione della complessità.
Non sempre si è prestata la dovuta attenzione a questo profilo della gestione di affari, ciò costituendo ennesima testimonianza della scarsa sensibilità della
metodologia tradizionale verso le problematiche legate alla dimensione dinamica del diritto privato ed al
rilievo giuridico, in quest’ambito, dell’attività (50).
Sono alla base di quest’approccio, per lo più, ragioni
di carattere storico, riconducili in prevalenza al clima culturale che accompagna l’unificazione del codice civile con il codice di commercio, cui è conseguita la perdita - probabilmente non intenzionale dell’elemento finalistico che era in nuce nell’atto di
commercio. Quest’ultimo, contrassegnato da elementi oggettivi, implicanti il successivo compimento di uno o di una serie di atti, necessitava di una disciplina che prescindesse dalla considerazione isolata del singolo atto (51). In sostanza, l’atto veniva
qualificato commerciale - rinviando all’applicazione
di una disciplina diversa - per le sue caratteristiche
tipologiche, vale a dire per il suo inserirsi in un programma. Esemplare il fatto che si considerava atto
di commercio per eccellenza l’acquisto di merci o
derrate a scopo di rivendita e che anche l’impresa
rientrava tra gli atti di commercio (52). Non si può
dire che il codice del 1942 trascuri la dimensione
dell’azione giuridica nel suo svolgersi, ma una disciplina generale dell’attività in esso non trova spazio e
va, al più, rintracciata in via interpretativa (53).
Ma anche ragioni pratiche spiegano i dubbi che
hanno ostacolato il riconoscimento del rilevo giuridico dell’attività; ragioni, che rimandano alla circostanza che una realtà statica, qual è l’atto, meglio si
presta ad essere oggetto di indagine e di studio che
un fenomeno per sua natura dinamico come l’attività (54).
È comprensibile che si incontrino difficoltà nel ricostruire la rilevanza giuridica di comportamenti che
non si compiono puntualmente in un dato istante,
ma si caratterizzano per uno svolgimento temporale
più o meno ampio. Il concetto di atto, pur non essendo in sé incompatibile con la durata, è intrinsecamente connotato dalla vocazione all’esaurimento
ed alla completezza, che sembra, invece, estranea al
concetto di attività, essendo quest’ultima aperta alla
continuità anche indefinita ed alla proiezione in un
futuro anche indeterminato (55).
Le difficoltà evidenziate non hanno, comunque, impedito, ad una parte della dottrina, di associare al ri-
1170
lievo giuridico riconosciuto all’attività effetti ed implicazioni di notevole portata anche sul piano pratico (56). La riflessione è, così, approdata ad esiti certamente degni di nota e che, qui, solo per larghi cenni e limitatamente a quanto di interesse ai nostri fini possiamo richiamare.
Molto vi sarebbe da dire, in particolare, sul modo di
intendere l’attività e sulla sua configurabilità come
categoria giuridica autonoma (57), ma ciò che a noi
Nota:
(49) R. Sacco, Sulla società di fatto, cit., 68.
(50) Un’eccezione può riscontrarsi negli studi sul procedimento
nel diritto privato. Sul punto, anche se con prospettive diverse,
si vedano S. Romano, op. loc. ult. cit.; S. Pugliatti, La trascrizione (La pubblicità in generale), in Trattato di diritto civile e commentato, a cura di Cicu-Messineo, XIV, I, 1, Milano, 1957, 350; P.
Perlingieri, I negozi sui beni futuri, I, La compravendita di “cosa
futura”, Napoli, 1962, 101; A. Ravazzoni, La formazione del contratto, I, Le fasi del procedimento, Milano, 1966, 14; F. Messineo, voce Contratto preliminare, in Enc. dir., X, 1962, 166; P.
Schlesinger, Complessità del procedimento di formazione del
consenso ed unità del negozio contrattuale, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1964, 1345; G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 48; A.C. Nazzaro, Obblighi di informare e procedimenti contrattuali, Napoli, 2000, 281; B. Troisi, La prescrizione come procedimento, Napoli, 1980, 59 ss. Da ultima, sia consentito rinviare a S. Tommasi, Il procedimento nella dimensione
dinamica del diritto privato, in Giur. it., 2008, 1033.
(51) A. Jannarelli, L’imprenditore agricolo e le origini del libro V
del codice civile, in Quaderni fiorentini, 2001, II, 511.
(52) Si vedano A. Rocco, Saggio di una teoria generale degli atti
di commercio, in Riv. dir. comm., 1916, 85; G. Auletta, voce Attività (dir. priv.), in Enc. dir., III, 1958, 196; P. Ferro-Luzzi, L’impresa, in Quaderni di diritto commerciale, Milano, 1985, 17; P. Spada, voce Impresa, cit., VII, 1991, 35; G.M. Rivolta, Gli atti di impresa, in Riv. dir. civ., 1994, 110.
(53) S. Romano, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel diritto privato, cit., 27-28.
(54) P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 416.
(55) G.M. Rivolta, Gli atti di impresa, cit., 117.
(56) Si vedano, sul punto, T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Milano, 1962, 262; V.
Buonocore, voce Imprenditore (dir. priv.), in Enc. dir., XX, 1970,
515; Id., L’impresa, in AA.VV., Trattato di diritto commerciale, diretto da Buonocore, Torino, 2001, 38; Id., La responsabilità dell’impresa fra libertà e vincoli, in La responsabilità dell’impresa. in
Quad. dir. comm., 2006, 20; P. Ferro-Luzzi, L’impresa, ivi, 1985,
15; V. Panuccio, op. cit., 8; F. Alcaro, Attività e soggettività: circolarità funzionale, in Rass. dir. civ., 2007, 883; Id., L’attività. Profili ricostruttivi e prospettive applicative, Napoli, 1999, 93; Id., La
categoria dell’attività: profili ricostruttivi (Atti e attività. L’attività
di impresa), in Riv. crit. dir. priv., 1995, 417; G. Grisi, voce Responsabilità del professionista, in Enc. giur. Treccani, XIV, 2006,
spec. 2 e 3; A. Jannarelli, Appunti per una teoria giuridica del “Rischio di impresa”, in Studi in onore di Nicolò Lipari, Milano,
2008, 1245. Con riferimento al rilievo giuridico dell’attività nell’analisi dei problemi inerenti i contratti tra imprenditori, si veda A.
Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di
impresa e disciplina della concorrenza, ibidem, 3048.
(57) Sul punto si veda di recente V. Farina, L’affidamento a contraente generale. Operazione economica. Attività. Procedimento, Napoli, 2007, 58. Critico nei confronti della possibilità di con(segue)
I contratti 12/2010
Argomenti
Contratti in generale
più importa sottolineare è la necessità, da molti registrata, di evitare di ridurre la disciplina dell’attività a quella dei singoli atti (58).
La differenza qualitativa tra attività ed atti (59) implica l’incompatibilità dell’attività con le categorie
classiche utili all’inquadramento delle situazioni
giuridiche soggettive (60) e porta in rilievo problemi diversi rispetto a quelli che si pongono con riferimento agli atti.
Abbandonata la prospettiva e la logica dell’atto, ci
si riferisce all’attività come ad una dimensione giuridica caratterizzata dall’essere obiettivamente ordinante nel suo porsi e tale da legittimarsi nel suo effettivo esplicarsi senza presupporre un prius o un’investitura a monte (61); ciò posto, pochi dubbi possono insorgere in ordine alla riconducibilità della
gestione di affari altrui a tale dimensione.
Può notarsi, per esempio, che non ha senso porsi il
problema dell’utilità dei singoli atti di gestione, essendo necessario valutare, piuttosto, se l’attività nel
suo complesso possa ritenersi utilmente iniziata. In altri termini, l’utilità o l’inutilità del singolo atto di per
sé non rileva, occorrendo, al più, valutare la funzione
assunta dal singolo atto nella dinamica dell’attività.
Può accadere, inoltre, che il dominus non sia in grado
di svolgere un’attività - in relazione alla quale sussistono tutti i presupposti di legge per aversi l’altrui ingerenza - pur essendo in grado, magari, di provvedere ad alcuni atti nei quali quell’attività si manifesta.
L’importanza del rilievo giuridico dell’attività e l’individuazione della gestione di affari altrui quale ambito nel quale tale rilievo diventa percepibile, consentono, inoltre, di superare la qualificazione della
gestione di affari altrui come fonte di rappresentanza, diretta o indiretta a seconda che il gestore abbia,
o meno, speso il nome del dominus (62).
La gestione di affari, infatti, riguarda l’attività di un
soggetto che si ingerisce nella sfera giuridica altrui;
la rappresentanza, diretta o indiretta, riguarda il
compimento di atti (63).
Il dato evidenziato sembra avvalorato da alcuni riferimenti normativi.
Si veda, quanto al confronto tra gestione e rappresentanza diretta, la differenza tra l’art. 1389 c.c. e
l’art. 2029 c.c. Il primo richiede al rappresentante
solo la capacità di intendere e di volere, mentre
l’art. 2029 c.c. prevede che il gestore debba avere la
capacità di contrattare (64). Dell’applicazione in via
Note:
(continua nota 57)
siderare l’attività come una categoria fondamentalmente unitaria è P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, cit., 202. Sul concetto
di categoria si rimanda a G.B. Ferri, Contratto e negozio: da un
I contratti 12/2010
regolamento per categorie generali verso una disciplina per tipi?, in Riv. dir. comm., 1988, 428; P. Perlingieri, Produzione
scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, in Scuole, tendenze e metodi,Problemi del diritto civile, Napoli, 1989, 22.
(58) V. Panuccio, Teoria generale dell’impresa, Milano, 1974, 26;
P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971, 191. Sull’importanza di tale contributo, si veda, di recente, P. Spada, La rivoluzione copernicana (quasi una recensione tardiva ai Contratti
Associativi di Paolo Ferro Luzzi, in Riv. dir. civ., 2008, 114; F. Alcaro, L’attività. Profili ricostruttivi e prospettive applicative, cit,
12; V. Buonocore, L’impresa, cit., 38; A. Jannarelli, La disciplina
dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e
consumatori, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, III, L’attività ed il contratto, Padova, 2003, 73; P. Sirena, La
gestione di affari altrui, cit., 418. Da altra parte, si ritiene che
l’autonomia della disciplina dell’attività non vada enfatizzata più
di tanto sia perché nella maggior parte dei casi si concreterebbe
in un regime speciale degli atti, integrativo o derogativo della disciplina generale prevista per questi, sia perché non è riscontrabile una disciplina che riguardi l’attività in generale. In tal senso
N. Rondinone, L’“attività” nel codice civile, Milano, 2001, 385.
Anche tra gli studi sull’impresa, può notarsi la tendenza a considerare l’attività come mero elemento di una fattispecie e, segnatamente, della fattispecie impresa. Sul punto si rimanda a G.
Oppo, Problemi giuridici dell’impresa, Roma, 1975, 73; Id., L’impresa come fattispecie, in Riv. dir. civ., 1982, 109; P. Spada, voce Impresa, in Dig. disc. priv. Sez. comm., VII, 1991, 38. In senso critico rispetto alla possibilità di ricondurre l’impresa, dal punto di vista giuridico, a mera attività combinata o ad una nozione
puramente dinamica è F. Santoro-Passarelli, L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1942, spec. 381.
(59) P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, cit., 199; F. Alcaro, L’attività. Profili ricostruttivi e prospettive applicative, cit., 20.
(60) P. Ferro-Luzzi, L’impresa, cit., 19, propone di sostituire il modello «a soggetto» con un modello «ad attività». Si potrebbero, in
questo modo, valorizzare aspetti spesso trascurati in quanto non
riconducibili entro l’alveo del diritto soggettivo.
(61) In tal senso in particolare F. Alcaro, L’attività. Profili ricostruttivi e prospettive applicative, cit., 20 e 33.
(62) Secondo A. Auricchio, Contributo alla teoria della gestione rappresentativa, in Studi urbinati, 1956-57, 7, la riconducibilità della
gestione di affari altrui alla rappresentanza è solo una posizione
della dottrina e, in quanto tale, va assunta come ipotesi di studio e
non quale dato normativo. Un elemento distintivo tra rappresentanza e gestione è individuato anche nella non riferibilità delle norme sulla rappresentanza, al contrario di quelle relative alla gestione di affari altrui, al compimento di atti non negoziali.
(63) La formula legislativa dell’art. 2031 c.c. autorizza solo a credere nella possibilità materiale che il gestore agisca in nome proprio o altrui, ma non nel fatto che agendo in un modo o nell’altro
si eserciti un potere diverso. Così A. Auricchio, Contributo alla
teoria, cit., 8. Più in generale sui rapporti tra rappresentanza e gestione si vedano G. De Semo, op. cit., 817; L. Aru, Della gestione di affari, cit., 45; S. Pugliatti, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 238; S. Ferrari, Gestione di affari e rappresentanza, Milano, 1962, 74; P. Sirena, La gestione di affari altrui, cit., 458; Porrari, Gestione d’affare a favore della massa fallimentare: ammissione al passivo in prededuzione delle spese sostenute, in Nuova giur. civ. comm., 1992, spec. 809.
(64) G. Di Rosa, Rappresentanza e gestione. Forma giuridica e
realtà economica, Milano, 1997, 255; U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 737, fa notate che quanti ritengono che la gestione
sia fonte di rappresentanza sono costretti a proporre una interpretazione restrittiva dell’art. 2029 c.c. che andrebbe riferito in maniera esclusiva ai contratti che il gestore pone in essere in nome proprio e per conto dell’interessato. Questa interpretazione, però,
presuppone che l’art. 2029 c.c. sia una norma meramente ripetitiva, limitandosi a ribadire che un soggetto quando stipula in nome
proprio un contratto deve essere legalmente capace di agire.
1171
Argomenti
Contratti in generale
analogica dell’art. 1389 c.c. alla gestione è legittimo
dubitare, perché mentre tale norma presuppone un
dominus legalmente capace e per di più presente,
nella gestione di affari il dominus è per definizione
assente e potrebbe anche essere incapace (65).
Si aggiunga che le diseconomie connesse allo svolgimento di un atto sono imparagonabili a quelle che
possono aversi nel caso di svolgimento un’attività.
Trattasi, in quest’ultimo caso, di diseconomie che
non coinvolgono solo gli interlocutori del singolo
atto, ma che intaccano inevitabilmente anche la
sfera dei terzi (66), giustificando, dunque, la necessità di una tutela di questi ultimi più incisiva di quella prevista nella rappresentanza.
Infatti, sul terzo che tratta con il rappresentante
grava il rischio di aver concluso un affare con una
persona priva dei poteri di rappresentanza o che
ha ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli.
Può accadere, in altri termini, che il terzo creda,
in perfetta buona fede, di trattare con persona
munita di rappresentanza e, poi, scopra di poter
pretendere solo il diritto al risarcimento del danno sofferto per aver confidato senza colpa nella
validità di un affare propostogli da un falsus procurator.
Al gestore, invece, il terzo può chiedere l’adempimento (67), che ha una valenza satisfattoria non paragonabile a quella del mero risarcimento (68).
Quanto alla rappresentanza indiretta e al mandato, il
tentativo di superare la qualificazione della gestione
di affari altrui come fonte di rappresentanza non sembra possa essere messo in discussione dalla portata
dell’art. 2030 c.c., ai sensi del quale, per effetto della
intrapresa gestione, il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato (69).
Nell’interpretare la norma bisogna tener presente
che il rinvio alle obbligazioni proprie del mandatario
non può avvenire sic et simpliciter, ma deve essere fatto secondo un criterio che tenga conto delle differenze strutturali tra i due istituti (70). Senz’altro
inapplicabile è, per esempio, l’obbligazione, contenuta nell’art. 1710 c.c., di rendere note al mandante,
le circostanze sopravvenute che possono determinare la revoca del mandato (71). Non si può infatti parlare di revoca della gestione perché la revoca presuppone il conferimento di un incarico che nel caso della negotiorum gestio non ci può essere (72).
In particolare, il dominus deve tenere indenne il gestore dalle obbligazioni assunte dal medesimo in nome proprio; il che può significare non solo che - come, tra l’altro, previsto dall’art. 1719 c.c. in tema di
mandato - debba somministrare al gestore i mezzi
necessari per l’adempimento delle obbligazioni da
1172
questi contratte in nome proprio, ma che non possa
sottrarsi all’adempimento qualora il terzo lo richieda
a lui direttamente (73).
Si tratta di una regola opposta a quella dell’art. 1705
c.c., ai sensi del quale il mandante non assume nessun obbligo verso i terzi, nemmeno se questi hanno
conoscenza del mandato.
Le notazioni che precedono non sono certo esaustive, ma sufficienti a rendere ragione dell’utilità di
un’adeguata valorizzazione del rilievo giuridico dell’attività ai fini della comprensione della reale portata della disciplina della gestione di affari altrui.
Note:
(65) R. Pane, Solidarietà sociale e gestione di affari altrui, cit., 76;
G. Di Rosa, op. loc. ult. cit.
(66) Lo rileva, sia pure con riferimento all’attività di impresa, V.
Buonocore, L’impresa, cit., 384. Ivi si evidenzia la distinzione con
la logica dell’atto contrattuale che, ex 1372 c.c., tertiis neque nocet neque prodest.
(67) In tal senso si veda A. Auricchio, Contributo, cit., 21. Diversamente G. Di Rosa, Rappresentanza e gestione, cit., 258, n. 49.
(68) A. Auricchio, Contributo, cit., 8 nota che, con riferimento alla rappresentanza diretta, il rappresentato non sarà mai vincolato da un contratto in cui, sia pure per sbaglio, è stato speso il nome di un altro soggetto, mentre nella gestione, anche se c’è stato un errore nell’individuazione del dominus, per cui non è stato
speso il suo nome, costui - in presenza di tutti i presupposti richiesti perché si configuri un’utile gestione - non potrà sottrarsi
all’applicazione del 2031 c.c.
(69) Di recente, sul punto, cfr. Cass. 9 settembre 2008, n.
23345, cit.
(70) Sulla necessità che il rinvio non sia integrale si veda U. Breccia, La gestione di affari altrui, cit., 744.
(71) L’art. 1710 c.c., in verità, si presenta per molti profili diverso
dall’art. 2030 c.c.; differenze che si giustificano solo se si tengono presenti le differenze strutturali tra gestione e mandato e, soprattutto, il fatto che il secondo istituto presuppone, al contrario
del primo, il conferimento di un incarico. L’art. 1710 c.c., nella
parte in cui prevede che se il mandato è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore, si preoccupa dell’an
della responsabilità. L’art. 2030 c.c. invece, prevedendo che il
giudice in considerazione delle circostanze che hanno indotto il
gestore ad assumere la gestione, possa moderare il risarcimento dei danni a cui costui sarebbe tenuto per effetto della sua colpa, si riferisce al quantum della responsabilità del gestore. Infatti, ex art. 2030 c.c. il giudice valuterà secondo canoni normali se
c’è o meno la responsabilità del gestore, potendo usare minor rigore solo nella determinazione dell’entità del risarcimento.
(72) Problema diverso è quello dell’ammissibilità di un potere di
revoca da parte del gestore degli atti che il gestito abbia compiuti prima che si verificasse la situazione di impossibilità dello
stesso. Sul punto, si rimanda a S. Romano, La revoca degli atti
giuridici privati, Padova, 1935, 113 ss.
(73) Ovviamente nel caso in cui ciò sia materialmente possibile in
quanto è cessata la situazione di impossibilità di provvedere presupposta all’applicazione delle norme in tema di gestione di affari altrui. Da questo punto di vista la disciplina in tema di gestione
di affari altrui è molto vicina a quella dell’institore. Per un accurato approfondimento di tali aspetti, v. G. Fanelli, Per la rivalutazione della preposizione institoria, in Riv. dir. comm., 1955, I, 27.
I contratti 12/2010