Strani spazi vettoriali Enrico Gregorio 19 novembre 2009 Consideriamo l’insieme S delle successioni di numeri complessi; gli elementi di S saranno indicati con simboli come a[ ]. Le parentesi quadre servono per denotare gli elementi della successione: se la successione q[ ] è 0 1 4 9 ... avremo q[0] = 0, q[2] = 4 o, più in generale, q[k] = k 2 (se q[ ] è la successione dei quadrati). L’insieme S è uno spazio vettoriale non appena definiamo a[ ] + b[ ] = c[ ], αa[ ] = d[ ], c[k] = a[k] + b[k]; d[k] = αa[k]. Sono nient’altro che vettori colonna, ma con ‘infinite righe’; l’unico problema è che S non è finitamente generato. Se definiamo en [ ] tramite ( 1 se k = n, en [k] = 0 se k 6= n, è abbastanza facile vedere che l’insieme {e0 [ ]; e1 [ ]; . . . ; en [ ]} è linearmente indipendente, per ogni n. Se però limitiamo le successioni da considerare, possiamo avere sottospazi di S finitamente generati. Il caso fondamentale che vogliamo trattare è quello delle successioni definite per ricorrenza, per esempio le successioni s[ ] per le quali s[k + 2] = 3s[k + 1] − 2s[k], per ogni k. È infatti chiaro che una tale successione è determinata non appena si fissino i valori s[0] e s[1]; se fissiamo s[0] = 1 e s[1] = −2, avremo s[2] = −8, s[3] = 20, s[4] = 76, s[5] = 188, ... È anche chiaro che la successione nulla 0[ ] soddisfa questa relazione e che, se s[ ] e t[ ] soddisfano la relazione, anche s[ ] + t[ ] e αs[ ] hanno la stessa proprietà, per ogni scalare α. Una relazione di ricorrenza può essere definita a partire da un polinomio; per esempio la precedente è definita dal polinomio 2 − 3X + X 2 . 1 Più in generale, possiamo dire che il polinomio p = α0 + α1 X + · · · + αr X r definisce la relazione di ricorrenza α0 s[k] + α1 s[k + 1] + · · · + αr s[k + r] = 0 e dovrebbe essere chiaro come si passa dall’uno all’altra. Una successione che soddisfa la relazione di ricorrenza definita dal polinomio p di grado r è determinata dai valori s[0], s[1], ..., s[r − 1]. Non è restrittivo supporre che αr = 1, cioè che il polinomio sia monico (eccetto che nel caso banale di p = 0 che non ci interessa) e con termine noto non nullo; con questa scelta il polinomio associato a una relazione di ricorrenza è unico. Se p è un polinomio monico, indicheremo con ∂(p) il suo grado e con S(p) il sottospazio di S delle successioni che soddisfano la relazione di ricorrenza definita da p. Il fatto che una successione a[ ] ∈ S(p) sia determinata dai termini a[0], a[1], . . . , a[r − 1], dove r = ∂(p), equivale a dire che dim S(p) = ∂(p). Il nostro scopo è di trovare una base di S(p). L’idea che ci guida è di cercare successioni ‘semplici’ che appartengano a S(p). La più semplice successione che può venire in mente è una progressione aritmetica: a[k] = kd dove d è fissato. Prendiamo p = 2 − 3X + X 2 e proviamo a imporre la condizione a[k + 2] = 3a[k + 1] − 2a[k] che diventa (k + 2)d = 3(k + 1)d − 2kd cioè, facendo i conti, d = 0. Sembra poco interessante. Il secondo tentativo è con una progressione geometrica: a[k] = dk . Qui la condizione diventa dk+2 = 3dk+1 − 2dk che, semplificando dk , porta a d2 − 3d + 2 = 0. Questo sembra davvero molto più interessante! Una progressione geometrica di ragione d soddisfa la relazione di ricorrenza se e solo se d è radice del polinomio p che definisce la stessa relazione: è immediato infatti rendersi conto che la cosa vale in generale. Se il polinomio p ha radici distinte, abbiamo allora tante progressioni geometriche quante ce ne servono per formare una base; ci basta vedere che progressioni geometriche con ragioni distinte sono linearmente indipendenti. Supponiamo dunque d1 , d2 , . . . , dn numeri complessi a due a due distinti e non nulli e sia, per i = 1, 2, . . . , n, ai [ ][k] = dki . Vogliamo dimostrare che l’insieme {a1 [ ]; a2 [ ]; . . . ; an [ ]} 2 è linearmente indipendente. Sia allora X αi ai [ ] = 0 1≤i≤n dove 0 denota la successione costante nulla. Questa relazione equivale a X αi ai [k] = 0 1≤i≤n per ogni k, cioè X αi dk = 0, per ogni k. 1≤i≤n Se consideriamo solo le relazioni per 0 ≤ k ≤ n − 1 abbiamo un sistema lineare quadrato la cui matrice è 1 1 ... 1 d1 d2 ... dn 2 2 d1 d2 ... d2n .. .. .. . . ... . dn−1 dn−1 . . . dn−1 n 1 2 che è una matrice di Vandermonde; il suo determinante è allora Y (di − dj ) 6= 0. 1≤i<j≤n Perciò il nostro sistema lineare ha soluzione unica e l’insieme è linearmente indipendente. Teorema. Supponiamo che p sia un polinomio monico con p(0) 6= 0. Se p non ha radici multiple, allora una base di S(p) è data dalle successioni a1 [k] = dk1 , a2 [k] = dk2 , ..., ar [k] = dkr dove d1 , d2 , . . . , dr sono le radici di p. Nel caso di p = 2 − 3X + X 2 le radici sono 1 e 2, quindi una base di S(p) è data dalle due successioni a[k] = 1 e b[k] = 2k . Possiamo dunque esprimere in termini finiti ogni successione s[ ] soddisfacente s[n + 2] = 3s[n + 1] − 2s[n] come s[ ] = αa[ ] + βb[ ]. Se supponiamo s[0] = s0 e s[1] = s1 , la relazione diventa ( α + β = s0 α + 2β = s1 cioè α = 2s0 − s1 , β = s1 − s0 . Quindi s[k] = (2s0 − s1 ) + 2k (s1 − s0 ). 3 Un caso molto noto è quello della successione di Fibonacci, definita dalla relazione di ricorrenza F[n + 2] = F[n + 1] + F[n], F[0] = 0, F[1] = 1. Il polinomio p che definisce la relazione è f = X 2 − X − 1, le cui radici sono √ 1+ 5 ϕ= , 2√ 1− 5 1 ϕ b= = − = 1 − ϕ. 2 ϕ Le radici sono distinte, quindi una base di S(f ) è data dalle due successioni a[k] = ϕk , b[k] = ϕ bk e perciò possiamo scrivere F[ ] = αa[ ] + βb[ ]. Imponendo le condizioni iniziali otteniamo ( α+β =0 αϕ + β ϕ b=1 √ √ che con poco lavoro porta a α = 1/ 5, β = −1/ 5. Ne otteniamo la forma chiusa della successione di Fibonacci: 1 F[k] = √ (ϕk − ϕ bk ). 5 Non è affatto utile al calcolo dei termini della successione, ma è assai interessante. Il problema che abbiamo ora è quello di trovare una base di S(p) anche quando p abbia radici multiple. Introduciamo il concetto di spostamento di una successione: se m ≥ 0 e s[ ] ∈ S, definiamo la successione s[ ]hmi tramite s[k]hmi = s[k + m]. In altre parole, se s[ ] è la successione s0 , s1 , s2 , . . . , sn , . . . , allora s[ ]h1i è la successione s1 , s2 , s3 , . . . , sn+1 , . . . e cosı̀ via per gli altri valori di m. Possiamo adoperare lo spostamento per comprendere il casi finora escluso di polinomi (monici) aventi 0 come radice. Non è molto difficile infatti verificare che, dato il polinomio p, si ha s[ ] ∈ S(Xp) se e solo se s[ ]h1i ∈ S(p). Ma l’utilità di questo concetto diventa ancor più evidente se consideriamo una successione s[ ] ∈ S(p); infatti, se p = c0 + c1 X + · · · + cr X r , abbiamo c0 s[ ] + c1 s[ ]h1i + · · · + cr s[ ]hri = 0. (*) Viceversa, se s[ ] soddisfa la (*), allora s[ ] ∈ S(p). In generale, se p = c0 + c1 X + · · · + cr X r è un polinomio e s[ ] ∈ S, porremo p · s[ ]) = c0 s[ ] + c1 s[ ]h[i1] + · · · + cr s[ ]hri. 4 L’operazione introdotta è ovviamente “bilineare”, nel senso che, se p e q sono polinomi, s[ ] e t[ ] sono successione e α e β sono scalari, si ha p · (s[ ] + t[ ]) = p · s[ ] + p · t[ ], p · (αs[ ]) = α(p · s[ ]), (p + q) · s[ ] = p · s[ ] + q · s[ ], (αp) · s[ ] = α(p · s[ ]). Come si comporta questa operazione rispetto alla moltiplicazione di polinomi? Osserviamo che (Xp) · s[ ] = (p · s[ ])h1i e che (αp) · s[ ] = α(p · s[ ]). Possiamo perciò affermare, usando la linearità e l’induzione, che pq · s[ ] = p · q · s[ ]. In particolare, se p · s[ ] = 0, allora (f p) · s[ ] = 0, per ogni f . Dunque abbiamo provato che, dati due polinomi p e q, si ha S(q) ⊆ S(pq); ovviamente vale anche S(p) ⊆ S(pq), visto che pq = qp. Ne segue che S(p) + S(q) ⊆ S(pq). Supponiamo ora che p e q siano polinomi senza fattori comuni; allora esistono polinomi f e g tali che f p+gq = 1. Se s[ ] ∈ S(p)∩S(q), abbiamo (f p+gq)·s[ ] = (f p) · s[ ] + (gq) · s[ ] = 0, ma anche 1 · s[ ] = s[ ] e perciò s[ ] = 0. Abbiamo perciò dimostrato che, in questo caso, S(p) ∩ S(q) = {0}. Teorema. Se p e q sono polinomi senza fattori comuni, allora S(pq) = S(p) ⊕ S(q). Dimostrazione. Sappiamo già che S(p) ∩ S(q) = {0} e che S(p) + S(q) ⊆ S(pq). Abbiamo poi dim(S(p) + S(q)) = dim S(p) + dim S(q) = ∂(p) + ∂(q) = ∂(pq) = dim S(pq) e la tesi è provata. Non è difficile verificare allora che se p = (X −d1 )m1 (X −d2 )m2 . . . (X −dr )mr è la decomposizione del polinomio p in fattori lineari, con le radici d1 , d2 , . . . , dr a due a due distinte, si avrà L S(p) = S((X − di )mi ). 1≤i≤r Dunque troveremo una base di S(p) trovandone una di ciascuno dei sottospazi indicati. Nel caso in cui m1 = m2 = · · · = mr = 1 abbiamo già svolto le necessarie considerazioni. Ci rimane allora da calcolare una base di S((X − d)m+1 ) con m > 0 (vedremo poi perché usiamo m + 1, è solo per comodità). Supponiamo di avere una successione finita a0 , a1 , . . . , an ; cerchiamo, se esiste, una relazione di ricorrenza che la generi, nel modo più economico possibile, cioè tramite un polinomio di grado minimo. È chiaro che ci basterebbe un polinomio p di grado n+1: una successione in S(p) sarebbe determinata dai termini di posto 0 fino a n; dunque cerchiamo qualcosa di grado inferiore. 5 In particolare cerchiamo una relazione di ricorrenza che generi la successione dei naturali definita da un polinomio di grado 2, c0 + c1 X + X 2 ; se n[k] = k è la successione dei naturali, dobbiamo avere c0 n[ ] + c1 n[ ]h1i + n[ ]h2i = 0 che si traduce, per ogni k, in c0 k + c1 (k + 1) + (k + 2) = 0. Se poniamo k = 0 abbiamo c1 +2 = 0, se poniamo k = 1 abbiamo c0 +2c1 +3 = 0 e dunque c0 = 1, c1 = −2, cioè il polinomio che cerchiamo è (X − 1)2 . È immediato verificare che n[ ] ∈ S((X − 1)2 ). Se si cerca un polinomio di grado 3 che generi la successione dei quadrati si trova (X −1)3 e possiamo congetturare che la successione delle potenze m-esime sia generata da (X − 1)m+1 . Poniamo allora fm = (X − 1)m e nm [k] = k m . Teorema. Per ogni m si ha nm [ ] ∈ S(fm+1 ). Dimostrazione. Scriviamo l’espressione che vogliamo maneggiare fino a provare che vale 0: m+1 X m + 1 (−1)i (k + i)m . fm+1 · nm [k] = i i=0 Consideriamo allora la funzione polinomiale sui reali m+1 X m + 1 gm+1 (x) = (−1)i (x + i)m i i=0 e dimostriamo, per induzione su m, che gm+1 (x) = 0. Il passo base, per m = 0 è ovvio. Divideremo il passo induttivo in due parti: dimostreremo dapprima 0 che gm+1 (x) = 0, quindi che gm+1 è costante; poi che gm+1 (0) = 0. Calcoliamo dunque la derivata m+1 X m + 1 0 (−1)i (x + i)m−1 gm+1 (x) = m i i=0 m X m+1 = mxm−1 + m (−1)i (x + i)m−1 + i i=1 m(−1)m+1 (x + m + 1)m−1 . Ricordiamo l’identità, per i > 0, m+1 m m = + i i i−1 dalla quale possiamo ricavare m 0 X gm+1 (x) m = xm−1 + (−1)i (x + i)m−1 + m i i=1 m X m (−1)i (x + i)m−1 + (−1)m+1 (x + m + 1)m−1 . i − 1 i=1 6 È evidente che xm−1 + m X m (−1)i (x + i)m−1 = gm (x). i i=1 Nella seconda sommatoria cambiamo l’indice, ponendo j = i − 1, ottenendo dunque m 0 X gm+1 (x) m = gm (x) + (−1)j+1 (x + i + 1)m−1 + (−1)m+1 (x + m + 1)m−1 m j j=0 = gm (x) − gm (x + 1) e, per ipotesi induttiva, possiamo assumere che gm sia 0. Ne segue che la funzione gm+1 è costante e ci basta calcolarne il valore in 0. Ora m+1 X m + 1 gm+1 (0) = (−1)i im i i=1 perché per ipotesi m > 0 e possiamo dunque trascurare il termine per i = 0. Cambiando l’indice con j = i − 1 abbiamo m X m+1 (−1)j (j + 1)m . gm+1 (0) = − j + 1 j=0 Possiamo però facilmente verificare che m+1 m (j + 1)m = (m + 1) (j + 1)m−1 j+1 j e quindi gm+1 (0) = −(m + 1) m X m (−1)j (j + 1)m−1 = −(m + 1)gm (1) j j=0 che è 0 per ipotesi induttiva. Teorema. L’insieme {n0 [ ]; n1 [ ]; . . . ; nm [ ]} è una base di S((X − 1)m+1 ). Dimostrazione. Il teorema precedente dice che le successioni appartengono a S((X − 1)m+1 ) che ha dimensione m + 1. Dunque ci basta vedere che sono linearmente indipendenti. L’uguaglianza α0 n0 [ ] + α1 n1 [ ] + · · · + αm nm [ ] = 0 corrisponde a α0 n0 [k] + α1 n1 [k] + · · · + αm nm [k] = 0, per ogni k; ponendo k = 0, 1, . . . , m, matrice dei coefficienti è 0 0 10 01 11 .. .. . . 0m 1m otteniamo il sistema omogeneo la cui ... ... .. . ... m0 m1 .. . mm il cui determinante, sviluppato rispetto alla prima colonna, si riduce a quello di una matrice di Vandermonde, quindi è non nullo. 7 Si tratta ora di fare una congettura ‘astuta’ su quale possa essere una base di S((X − d)m+1 ) per d 6= 0. Consideriamo la successione s[ ] definita da s[k] = h(k)dk , dove h : N → C è una opportuna funzione, e cerchiamo di vedere quando s[ ] ∈ S((X − d)m+1 ), cioè (X − d)m+1 · s[ ] = 0. Scrivendo l’identità per il termine di posto k otteniamo m+1 X i=0 che diventa m+1 X i=0 m+1 (−1)i dm+1−i s[k + i] = 0 i m+1 (−1)i dm+1−i h(k + i)dk+i = 0 i cioè, raggruppando le potenze di d, dm+k m+1 X m+1 (−1)i h(k + i) = 0. i i=0 Questo è quanto dire che la successione definita da h[k] = h(k) appartiene a S((X − 1)m+1 ). Dunque possiamo scrivere h[ ] = α0 n0 [ ] + α1 n1 [ ] + · · · + αm nm [ ] e perciò s[ ] si può scrivere come s[k] = α0 dk + α1 kdk + · · · + αm k m dk . Non è difficile verificare che le successioni definite da nm,d [k] = k m dk per m ∈ N e d 6= 0 sono linearmente indipendenti, più precisamente che {n0,d [ ]; n1,d [ ]; . . . ; nm,d [ ]} è una base di S((X − d)m+1 )). Vogliamo, per esempio, trovare una forma chiusa per la soluzione della relazione di ricorrenza s[k + 3] − 6s[k + 2] + 12s[k + 1] − 8s[k], s[0] = 1, s[1] = 2, s[2] = 28. Il polinomio è X 3 − 6X 2 + 12X − 8 = (X − 2)3 e quindi sappiamo che possiamo scrivere s[ ] = c0 n0,2 [ ] + c1 n1,2 [ ] + c2 n2,2 [ ] cioè, per ogni k, s[k] = c0 2k + c1 k 2k + c2 k 2 2k 8 che si traduce nelle condizioni c0 = 1 2c0 + 2c1 + 2c2 = 2 4c0 + 8c1 + 16c2 = 28 che si riduce a c0 = 1, c1 = −3, c2 = 3. Quindi s[k] = 2k − 3k 2k + 3k 2 2k = 2k (1 − 3k + 3k 2 ). Riassumiamo il tutto nel teorema finale. Scriveremo (X −d)m+1 per indicare la molteplicità della radice d per rendere meno complicata la scrittura della base. Teorema. Sia p(X) un polinomio monico a coefficienti complessi, con p(0) 6= 0. Se p(X) = (X − d1 )m1 +1 (X − d2 )m2 +1 . . . (X − dr )mr +1 è la decomposizione primaria di p(X), una base di S(p) è data da {n0,d1 [ ]; n1,d1 [ ]; . . . ; nm1 ,d1 [ ]; n0,d2 [ ]; n1,d2 [ ]; . . . ; nm2 ,d2 [ ]; ...; n0,dr [ ]; n1,dr [ ]; . . . ; nmr ,dr [ ]}, dove nm,d [ ] è la successione definita da nm,d [k] = k m dk . Successioni reali Che succede se una successione soddisfa una relazione di ricorrenza a coefficienti reali e i valori iniziali sono reali, ma le radici del polinomio associato alla relazione sono complesse? È evidente che tutti i termini della successione saranno reali, ma espressi tramite numeri complessi. Vediamo un caso facile, con il polinomio p(X) = X 2 + 1. La relazione di ricorrenza è s[k + 2] = −s[k] = 0 e se i valori iniziali sono s[0] = 2, s[1] = 1, la successione è 2, 1, −2, −1, 2, −1, . . . , com’è evidente. Secondo la teoria precedente dobbiamo avere s[k] = c0 ik + c1 (−i)k e le relazioni per i valori iniziali sono ( c0 i0 + c1 (−i)0 = 2, c0 i1 + c1 (−i)1 = 1, da cui c0 + c1 = 2 e c0 − c1 = −i che danno c0 = (2 − i)/2, c1 = (2 + i)/2. Ma ricordando la formula di De Moivre (cos ϕ + i sin ϕ)k = cos kϕ + i sin kϕ 9 e che i = cos(π/2) + i sin(π/2), possiamo scrivere kπ kπ kπ kπ s[k] = c0 cos + i sin + c1 cos − i sin . 2 2 2 2 Dando a c0 e a c1 i valori trovati e riducendo i termini simili, s[k] = 2 cos kπ kπ + sin 2 2 e si può controllare che tutto torna. Più in generale, se il polinomio ha coefficienti reali, le radici complesse vanno in coppie coniugate, con la stessa molteplicità. Una soluzione fondamentale dunque conterrà una combinazione lineare della forma αnm,d [ ] + βnm,d¯[ ]; il termine di posto k è αnm,d [k] + βnm,d¯[k] = αk m dk + βk m d¯k e, se i termini devono essere reali, occorre che sia reale z = αdk + β d¯k . Ma z̄ = β̄dk + ᾱd¯k e dall’uguaglianza z = z̄ ricaviamo (α − β̄)dk − (β − ᾱ)d¯k = 0 Ponendo, per semplicità, γ = α − β̄ e valutando per k = 0 e k = 1 otteniamo ( γ − γ̄ = 0, γd − γ̄ d¯ = 0. L’ipotesi fondamentale è che d sia una radice complessa e non reale, cosı̀ che ¯ Dunque le uguaglianze danno γ = 0, cioè β = ᾱ come era atteso. d 6= d. Se poniamo α = u/2 − iv/2, troviamo con facili calcoli che la successione di partenza è uk m ρk cos(kϕ) + vk m ρk sin(kϕ), dove, ovviamente, d = ρ(cos ϕ + i sin ϕ). L’arbitrarietà di α e β (con la condizione che il risultato sia reale) equivale all’arbitrarietà di u e v. Per esempio, vogliamo risolvere la ricorrenza s[k + 2] + s[k + 1] + s[k] = 0, s[0] = 0, s[1] = 1. che non sembra molto diversa dalla ricorrenza di Fibonacci. I primi termini sono 0, 1, −1, 0, 1, −1, 0 e riconosciamo una struttura periodica. Il polinomio è p(X) = X 2 + X + 1 che ha come radici cos(2π/3) + i sin(2π/3) e il coniugato, cioè le radici cubiche non reali di 1. La soluzione generale è s[k] = u cos 2kπ 2kπ + v sin 3 3 10 e le condizioni iniziali danno u = 0, da cui abbiamo √ 1 3 − u+ v=1 2 2 2kπ 2 s[k] = √ sin . 3 3 Con i dati iniziali s[0] = 1 e s[1] = 2 avremmo √ 1 3 u = 1, − u + v = 2, 2 2 √ cioè u = 1 e v = 3, cioè 2kπ √ 2kπ 1 2kπ π s[k] = cos + 3 sin = cos − 3 3 2 3 3 e i primi termini sono 1, 2, −3, 1, 2, −3, 1, 2; la successione è ancora, ovviamente, periodica. Di fatto ogni successione della forma k m ρk (u cos(kϕ) + v sin(kϕ) si può scrivere come k m ρk A cos(kϕ − ψ) √ dove A = u2 + v 2 e cos ψ = u/A, sin ψ = v/A. 11