Da Ventotene alla Costituzione europea

Da Ventotene alla Costituzione europea. Speculazione filosofica e azione
politica in Altiero Spinelli [*]
di Francesco Gui
Parlando di costituzione europea, il pensiero va invariabilmente alla grande figura di
Altiero Spinelli. Per il fondatore del Mfe, infatti, soltanto un testo costituzionale, sostenuto
e ratificato dal consenso dei popoli, avrebbe permesso di scavalcare lo spartiacque fra
l’Europa degli stati nazionali e l’Europa dello stato federale, prefigurata fin dagli anni di
Ventotene. Tant’è che, una volta uscito dal confino, egli avrebbe dedicato la maggior parte
della sua vita politica e delle sue straordinarie doti intellettuali all’obiettivo costituente,
elaborando soluzioni considerate ancora oggi un punto di riferimento insostituibile. Tra
l’altro fu notoriamente promotore di quel progetto di trattato di Unione, approvato dal
Parlamento europeo nel febbraio del 1984, che appare come il diretto progenitore
dell’attuale testo di trattato–costituzione.
Non è mia intenzione, tuttavia, dedicare questo breve intervento ai collegamenti, ai
rimandi fra le specifiche proposte avanzate da Spinelli nel corso del tempo e le
formulazioni riscontrabili nell’elaborato della Convenzione europea, oggi all’attenzione
della Conferenza intergovernativa. Intendo piuttosto contribuire a mettere in risalto le
ragioni di fondo dell’impegno di Altiero sul terreno costituzionale, ritenendo che esse
siano sempre valide per valutare la pregnanza e la drammaticità delle opzioni,
apparentemente condizionate da un sapere specialistico, in realtà eminentemente politiche
e culturali, oserei dire esistenziali, cui noi oggi (come lui allora) ci troviamo di fronte.
In effetti, nell’autore del Manifesto di Ventotene, l’ossessione – se così posso esprimermi –
per il préalable istituzionale nella lotta per la federazione europea, è stata talmente presente
e operante da costituire un carattere assolutamente distintivo della sua personalità
politica. Al punto che Spinelli fu sovente accusato di aver privilegiato l’aspetto formale–
istituzionale rispetto ai contenuti economico–sociali da perseguire con la creazione
dell’unità europea.
Qualcosa che potrebbe insomma rappresentare un limite, o almeno un’esagerata
propensione per le technicalities della cosiddetta ingegneria costituzionale nel pur
poderoso impegno politico e intellettuale dell’ex confinato delle isole pontine. Tanto più
che Spinelli avrebbe sacrificato persino l’indispensabile lavorio organizzativo e
proselitistico all’interno del movimento federalista, rinunciando financo alla leadership, pur
di dedicarsi in solitaria alla persuasione delle classi dirigenti sulla validità e praticabilità
delle sue soluzioni.
In realtà , quello che viene definito come un approccio rigidamente hamiltoniano ai
problemi della federazione europea, da associare all’individualistico (e dunque in qualche
modo criticabile) esercizio del ruolo di “consigliere del principe” appena ricordato, poggia
su basi assai più solide e filosoficamente fondate di quanto non si sia usualmente
riconosciuto.
Non che sia ignoto, ovviamente, il rilievo attribuito dall’agitatore federalista ai valori
umanistici sottostanti alla sua scelta militante. Né si può certo dimenticare il giudizio del
Manifesto sulla “crisi di civiltà ” provocata dalla degenerazione dello stato nazionale fra
Ottocento e Novecento, cui doveva esser contrapposta un’adeguata soluzione alternativa.
In altre parole, “Ulisse”, da una parte, si mostrava estremamente attento al tema della
libertà dell’uomo, significativamente definito dal Manifesto “autonomo centro di vita”.
Dall’altra, era perfettamente consapevole della grandiosità delle forze in gioco e della
complessità dei fattori che concorrono alla creazione delle forme politico–culturali della
vita internazionale, nonché alle loro possibili trasformazioni. Tuttavia Altiero stesso
sembrerebbe aver steso un velo, tanto nell’attività politica che negli scritti del dopoguerra,
sul legame diretto sussistente fra l’elaborazione intellettuale antecedente e la concretezza
delle soluzioni proposte a classi dirigenti e popoli.
Ciò malgrado, nella costante istituzionale spinelliana, è bene ribadirlo, il fondamento
teorico, sia di tipo filosofico, sia derivante da una riflessione storica di lungo periodo,
risulta assai più profondo, più “drammatico”, più radicalmente motivato, nonché molto
più intrecciato di quanto non si creda con l’apparente tecnicismo, o con la sapienza
vagamente manipolatoria (frutto di astuzia e di sperimentata esperienza) riscontrabili in
progetti di costituzione come quello da lui elaborato, tanto per tornare al punto, attraverso
l’ormai celebre Club del Coccodrillo.
Per rendersene conto, è indispensabile rivolgere l’attenzione ad un periodo molto lontano
e decisamente oscuro della storia di Spinelli. Il periodo, intendo, precedente alla redazione
(assieme a Ernesto Rossi) del Manifesto di Ventotene, durante il quale il giovane detenuto
comunista, trovandosi rinchiuso nelle carceri, e dunque con l’esperienza del confino
ancora di là da venire, iniziò quel radicale ripensamento delle concezioni marxiste che lo
avrebbe condotto alla scelta federalista. Si trattò di una lunga traversata nel deserto, nel
corso della quale egli sottopose ad una critica serrata buona parte delle ideologie e delle
teorie del suo tempo, dalle filosofiche alle economiche, finendo per riemergere da quella
dantesca visitazione delle profondità dello spirito con una mirabile chiarezza di idee, unita
ad una non meno determinata volontà di azione.
Peraltro, prima di addentrarmi in medias res, voglio nuovamente sottolineare che il pur
succinto approfondimento che intendo qui proporre, lungi dal costituire un esercizio
accademico o filologico, può risultare formativo per venire intellettualmente alle prese con
l’attuale fase della storia europea e con i suoi problemi, ivi compreso, ovviamente, il tema
costituente. Ai nostri giorni, infatti, il vecchio continente, se per un verso ha recuperato
unità e libertà rispetto all’epoca della guerra fredda, dall’altro, essendo venuta meno
buona parte delle impalcature di sostegno allestite dalle due superpotenze, si trova
esposto ai più diversi rischi e pericoli, interni quanto esterni. Esso ha ripreso insomma a
navigare in mari quasi altrettanto aperti e forse non meno impegnativi di quelli che si
trovò a solcare nella prima metà del Novecento, con tutte le alee che ne derivano.
Non a caso, recentemente, proprio nel nostro Paese, sono ricomparsi non impalpabili
inebriamenti del sentimento nazionale, i quali potrebbero pur risultare felicemente
temperati dalla propensione al rafforzamento dei legami con le democrazie anglosassoni,
ove non ci trovassimo nella disorientante contingenza di constatare che, proprio attorno ai
vertici di quelle stesse democrazie, la statunitense in particolare, risulta in atto una
singolare rivalutazione – leggere Kagan per credere – delle logiche di potenza dell’Europa
hobbesiana d’altri tempi. Per sovrapprezzo, da quegli stessi ambienti, che si
immaginerebbero intenti soltanto all’esercizio pratico del potere, o tutt’al più
all’elaborazione strategica della politica, emana una ripulsa esplicita e professata della
filosofia kantiana, intesa come fondamento delle teorie del federalismo e della pace
perpetua.
Di conseguenza non possiamo negare di trovarci di fronte ad un intenso ripensamento,
apparentemente teorico, ma dai riflessi estremamente concreti (e dagli esiti alquanto
degenerativi), dei principi della convivenza internazionale e dei rapporti fra i popoli a cui
eravamo stati abituati nel dopoguerra. Pertanto ci troviamo sollecitati ad attrezzarci nel
modo più conveniente, proprio a partire dal piano delle idee prima di giungere alle
soluzioni politico–istituzionali, per fronteggiare la nuova temperie del nostro tempo. Ed è
a mio avviso altamente significativo – ma posso dirlo solo di passaggio – che a
determinare tale temperie concorra anche la perpetuazione nel Medio Oriente di quelle
logiche, apertamente avversate da Spinelli, dello stato nazionale superiorem non
recognoscens, da cui potrebbe discendere una nuova “crisi di civiltà ” su scala mondiale.
Precisamente per queste ragioni, una presa d’atto della profondità e delle ramificazioni
delle radici intellettuali sottostanti al concretissimo federalismo di Spinelli può aiutarci a
tenerci all’altezza delle esigenti domande del presente. Del resto, era sua salda
convinzione, espressa in appendice a uno scritto di Rossi del ’42 che “le idee valgono
sempre solo come direttive di effettiva operosità , tolta la quale restano ombre tutte
equivalenti tra di loro, e che con un leggero giuoco di concetti possono convertirsi l’una
nell’altra, integrarsi a piacere, e divenire sempre più belle e seducenti…” (P. Graglia,
Machiavelli nel secolo XX, pp. 153–4). Idee dunque e attuazioni insieme.
Riprendendo la discesa nella preistoria interiore spinelliana, è abbastanza noto che il
ventenne prigioniero, entrato in carcere da militante comunista allevato (seppur con
incipienti dubbi) alla scuola di Gramsci, si avviò verso una precoce emancipazione dal
“dogma” marxista attraverso l’intensa lettura delle opere di Croce, da cui assorbì la
storicistica religione della libertà . Così almeno narra Altiero stesso, anche se appare
piuttosto probabile che il recupero di concezioni liberali non venisse tutto dal suo sacco.
Benché egli asserisca infatti di esser stato nutrito di socialismo fin dalla più tenera età ad
opera del padre, risulta indubitabile l’interferenza di concetti riconducibili alla figura di
Umberto Ricci, zio materno legato al Salandra e piuttosto famoso economista di scuola
liberale classica, presto divenuto oppositore del fascismo.
Non è certo questa la sede per approfondire tale legame familiare, piuttosto sottaciuto da
Spinelli. Ma non si direbbe lecito dubitare dell’influenza duratura esercitata dallo zio sulla
personalità intellettuale del nipote, specialmente in tema di concezioni economiche,
arricchite di assai istruttive dipendenze dalla scuola inglese e di influssi
dell’antiprotezionismo meridionalistico, ambedue riscontrabili nel retroterra del Manifesto.
In ogni caso, tornando a Croce, non molto tempo è passato da quando, nel corso di una
ricerca presso l’Istituto Gramsci, la laureanda Andreina Borgh reperì un fascicolo di lettere
risalenti al periodo della detenzione nel carcere di Viterbo e stranamente ignorate dalla
storiografia vicina al Pci. Fra quei fogli compariva la prova che l’appena venticinquenne
Spinelli era giunto a raccomandare al Partito comunista d’Italia una missione piuttosto
sorprendente. Quella cioè di dedicarsi a: sconfiggere il fascismo nel nome della libertà e
non della dittatura del proletariato, intensificare i legami con il movimento operaio
europeo, ammonire i compagni russi sulle tendenze pesantemente autocratiche emerse al
loro interno (Critica liberale, settembre 2001).
Nell’occasione, correvano gli inizi del ’32, i compagni di detenzione percepirono
abbastanza correttamente l’influsso del filosofo di Pescasseroli sul corso dei pensieri del
pur tenace (e fedele al partito) militante romano dalle spiccate attitudini intellettuali.
Peccato per loro, tuttavia, che l’evoluzione di quei medesimi pensieri, contrariamente alle
aspettative di rientro nei ranghi, non fosse in realtà ancora terminata. E in effetti
l’attenzione di Altiero verso il problema della libertà lo avrebbe condotto abbastanza
rapidamente a prendere le distanze dallo storicismo crociano stesso, in quanto ritenuto
una versione edulcorata, ma comunque sempre deterministica, dell’idealismo hegeliano,
oltre che della sua deriva materialistica di stampo marxista.
In pratica, nel volgere di un quinquennio per noi piuttosto imperscrutabile, data la perdita
(salvo poche cose) dei manoscritti lasciati nel carcere di Civitavecchia, l’emancipazione del
futuro leader federalista dall’eredità dell’idealismo sarebbe giunta a compimento. Per
averne conferma, al di là delle annotazioni riscontrabili nella suggestiva, quanto tarda
autobiografia di “Ulisse”, vale la pena di consultare innanzitutto i saggi inediti del periodo
ventotenese, pubblicati da Piero Graglia. In modo speciale, un passo del settembre ’41 mi
pare indicativo di come Spinelli fosse giunto a superare arditamente ambedue i due
pensatori che avevano conquistato le menti e i cuori dell’intellighentia italiana (e che
avrebbero continuato a tenerla avvinta anche nei decenni postbellici). Scriveva Altiero,
ancora fresco della scrittura del Manifesto, a un sedicente amico “trotzkista”:
Qual è oggi il compito dei rivoluzionari? (Con questa parola intendo indicare coloro che
vogliono agire per risolvere in modo radicale i problemi di vita e di morte della nostra
civiltà .) Bisogna dire purtroppo che sinora i rivoluzionari italiani sono sotto un’influenza
nefasta che impedisce loro di elaborare in modo adeguato il compito che dovrebbero
assolvere, e che li tiene pericolosamente prigionieri di orientamenti tradizionali
effettivamente sorpassati… Essa si compendia nei due nomi di Marx e Croce. L’influenza
marxista tende a fare accettare come dato originario la divisione in classi, facendo
trascurare l’esame del problema che l’ha generata, e di tutti gli effettivi problemi che si
pongono nell’attualità . L’influenza crociana tende a far accettare come dato originario il
formalistico, pomposo e fervoroso orientamento etico–politico, svalutando l’esame dei
concreti problemi politici, che scompaiono in quell’orientamento come le vacche di
schellinghiana ed hegeliana memoria nell’oscurità della notte. Questi due pensatori hanno
finito in Italia per completarsi a vicenda, fornendo il primo il contenuto e il secondo la
forma della coscienza politica, e cospirando insieme per tenerla chiusa nel vago e nel vecchio
[corsivi miei]. (P. Graglia, Machiavelli, p. 103).
Come si può notare, il nostro Pantagruel (questo il nomignolo dell’epoca, ampiamente
rivelatore di una personalità fin troppo debordante) aveva preso a considerare obsoleti
Marx e Croce proprio perché intendeva affrontare, anzi, risolvere nel modo più efficace i
problemi cruciali della sua epoca. Il che non voleva dire accantonare il pensiero pensante
dei due “nefasti”, bensì superarlo sulla base di una nuova sintesi, in grado di conciliare
più produttivamente il rigore del raziocinio e quello dell’azione. Per questo egli si era
immerso in quella lunga peregrinazione cognitiva nei meandri della filosofia e lungo il
corso della storia che ne aveva fatto – parole sue – non soltanto un “cittadino del mondo”,
ma un “cittadino dei secoli” (P. Graglia, Machiavelli…, p. 163).
Per quanto attiene a Marx, che, come accennato, era stato sottoposto a critica per primo,
non è qui il caso di approfondire l’argomento, se non sottolineando ulteriormente
quell’accusa rivolta al pensatore tedesco di aver ipostatizzato la divisione in classi della
società . In effetti, Marx, benché ammirato, gli appariva mitologico nelle formulazioni
filosofiche e ormai superato dalla scienza economica in tema di analisi dei meccanismi
capitalistici. Ma soprattutto quello che Spinelli non accettava – e qui sta il punto di
maggiore interesse – era il metodo di valutazione delle dinamiche sociali. Un qualcosa, in
altre parole, che aveva a che fare con la precisione dell’uso dell’intelletto. A suo avviso,
infatti, la divisione in classi non costituiva la “divisione reale e fondamentale della società
”, dal momento che l’errore di Marx e dei marxisti, una sorta di risorgente “realismo”
filosofico d’altri tempi, era di “partire da distinzioni accettate come valide in sé, per poi
determinare quali sono e quali debbono essere i problemi”. Ma ragionando in quel modo:
si ritrovano così solo quei problemi che inconsciamente si erano già presupposti quando si
erano ammesse quelle distinzioni. L’impostazione va rovesciata. Bisogna determinare i
problemi generati dallo sviluppo della civiltà , e in conseguenza stabilire come si
dispongono le forze sociali (P. Graglia, Machiavelli…, p. 163).
Quanto a Croce, il suo superamento era avvenuto sull’onda della medesima ricerca di
chiarezza intellettuale. Per seguirne gli sviluppi, sono fortunatamente a nostra
disposizione alcuni scritti filosofici di Altiero degli anni del confino a Ponza e a Ventotene,
da tempo affidati all’archivio fiorentino delle Comunità , ma rimasti tuttora trascurati e
sostanzialmente inediti, fatta salva la mia intenzione di pubblicarli, almeno parzialmente,
il prima possibile. Tra i fitti ghirigori della grafia penitenziaria spinelliana, tenacemente
decrittata dai grandi occhi scuri della laureanda Raffaella Cambise, abruzzese come i
genitori di Altiero, si percepisce tutta l’originalità e l’indipendenza intellettuale di colui
che ebbe l’ardire di fare della federazione europea il traguardo più rivoluzionario, quanto
politicamente realistico della storia contemporanea, oltre che lo scopo della sua vita
successiva.
Alcune interessanti notazioni emergono in realtà già nelle lettere inviate da Civitavecchia,
nella primavera del ’36, al fratello Cerilo, per curarne in qualche modo la formazione. Il
particolare più stimolante è che Altiero, rispetto a Croce, mostrava caso mai di preferire
Gentile, quasi quasi prevenendo, verrebbe da dire un po’ superficialmente, l’assai più
tarda rivalutazione operata da Gennaro Sasso. Osservava lo scrivente che “la semplicità di
esposizione” di Croce era riconducibile “alle sue grandi capacità di scrittore, ma molto più
è dovuta al fatto che egli sorvola sui problemi più difficili, e, col non trattarli, fa sembrare a
prima vista che non esistono”. Viceversa, Gentile gli appariva un “pensatore più
tormentato, e perciò il suo stesso stile… più contorto”. Però Altiero mostrava di preferirlo.
Certo, proseguiva, Gentile aveva “un’idea inadeguata dei momenti soggettivo ed
oggettivo costituenti la realtà ”, cosa su cui il recluso si era a lungo affaticato, elaborando
soluzioni a suo avviso più avanzate, che aveva affidato ad appunti inviati al fratello.
Comunque, aggiungeva, “la correzione non deve far cadere il concetto vivo gentiliano, che
afferma essere il processo conoscitivo non processo collaterale, o sia pure coronatore ma
pur sempre parziale del processo complessivo di autoformazione umana, ma che è questo
stesso. Imparare, conoscere è formarsi, agire”. (Lettera a Cerilo, da Civitavecchia, del 5
aprile ’36).
Unità dunque del conoscere e dell’agire, malgrado i limiti accennati dell’impostazione
gentiliana, cui Altiero riteneva appunto di aver riparato con le sue riflessioni. Sotto questo
profilo, uno scritto di poco successivo, sempre indirizzato Cerilo e dedicato ai “due libri
più importanti di Gentile per la comprensione del suo pensiero… La teoria dello spirito come
atto puro e il Sistema di Logica”, risulta istruttivo. Annotava il fratello maggiore:
Nella Logica Gentile esamina nei suoi puri termini il problema del rapporto fra soggetto ed
oggetto, e, nei miei appunti io l’ho seguito sullo stesso campo logico per mostrare la
deficienza che c’è sotto il suo apparente rigore di ragionamento. Egli si atteggia infatti alla
parte del pensatore che ha portato la filosofia fino al punto in cui non plus ultra. E molti lo
riconoscono per tale. In realtà G. non ha cercato e non ha trovato che la formulazione più
povera e più astratta del concetto di spirito. Il pensiero – egli dice – è l’atto del pensare.
L’atto del pensare si oggettiva, o realizza, in un pensato, ma poiché il pensato è quello che
è , determinato, finito, incapace di divenir altro, il pensante, cioè l’atto, non si riconosce in
quello, che è sì suo figlio ma suo figlio morto. Perciò passa oltre a pensare ulteriormente
senza acquietarsi mai. Questa sua analisi, che ti ho riassunta in quattro righe, è il succo di
tutto il pensiero gentiliano. Una volta raggiunto, l’ha rimasticato in mille modi, e nella sua
genericità essa può servire a tutti gli scopi, alti e bassi. Non è certo un pensiero sbagliato
questo suo, ma è incompleto.
Per parte sua Altiero riteneva di essersi spinto più avanti di Gentile, senza peraltro negare
la positività del punto di partenza di questi, ossia del rifiuto del positivismo che aveva
egemonizzato il pensiero ottocentesco:
Esso [il pensiero gentiliano] è sorto colla rinascita filosofica antipositivistica del primo
decennio di questo secolo ed ha affermato che l’essenza della realtà è il pensiero –
concepito come azione. Ma è restato alla semplice fase di reazione, e non si è sforzato di
stabilire che la realtà – naturale e storica – non è pensiero semplicemente perché è
compresa dal soggetto pensante, ma che è tale in sé stessa; non è cioè affatto quel morto ed
inerte “pensato” che G. crede. (Lettera a Cerilo, da Civitavecchia, del 4 maggio 1936).
Altiero peraltro aggiungeva che Gentile, “essendosi fermato al momento soggettivo”,
restava prigioniero – sintetizzo io – del formalismo dei moti dello spirito, tipico
dell’idealismo, in cui tutti “i gatti diventano bigi [e] qualunque cosa accada egli l’approva;
e quando accade il contrario fa lo stesso, e dice che ne è stato il precursore”.
Il punto centrale, da evincere dal testo spinelliano e confermato in altri suoi scritti del
periodo, stava comunque nel fatto che la realtà , naturale e storica, non era solo pensata
dal soggetto pensante, e dunque inerte in sé, ma pensiero in se stessa. E alle obiezioni del
fratello, rimasto alquanto frastornato, replicava di lì a poco così :
Circa quelle due proposizioni su Gentile che non ti son parse chiare. Per G. il “pensato”,
l’oggetto del pensiero, non ha una sua vita interna, un processo di autoformazione. Esso
viene formato dai “pensanti” e resta lì inerte, uguale a se stesso. Ora io dicevo che la realtà
(la realtà oggettiva = l’oggetto del pensiero) non è pensiero semplicemente in questo senso
voluto da G., non è sottomessa al semplice principio di logica formale di essere uguale a sé
stessa di non contraddirsi; ma è pensiero (= attività ) essa stessa, è cioè un processo di
formazione (= sottoposto al principio dialettico di negazione di sé stessa, di
contraddizione), ed è insieme un divenire oggettivo. (Lettera a Cerilo, da Civitavecchia,
del 1 giugno 1936).
L’attenzione al rapporto fra soggetto pensante e oggetto pensato si ritrova riproposta in un
lungo saggio, scritto a Ponza, nel maggio del ’38, e intitolato “Rileggendo La filosofia dello
spirito di Croce”. Non è certo qui la sede per darne un resoconto completo, tuttavia può
essere enucleato un passo sinteticamente riassuntivo della critica a Croce, pur
nell’apprezzamento per il suolo svolto da don Benedetto nel ravvivamento dello spirito
filosofico. Scriveva Spinelli:
Per C. l’identificazione fra storia e filosofia tenta di compiersi mediante la riduzione della
seconda alla prima, cioè cercandosi di determinare un elemento rappresentativo nella
filosofia. Il tentativo non riesce perché l’elemento rappresentativo è sempre, nel quadro
filosofico, un quid negativo, ed esistente solo come negato. Alla filosofia resta così solo
l’analisi o definizione del momento astratto della sintesi a priori. Onde una logica formale,
analisi di forme vuote extrastoriche che si riempiranno di infiniti contenuti storici,
restando quelle tuttavia indifferenti a tutti questi.
L’identificazione di filosofia e storia deve invece compiersi in modo tale che scompaia il
formalismo della filosofia e la sua indifferenza al contenuto storico. La filosofia deve
veramente essere risposta a problemi, e perciò contenere come elemento costitutivo,
conservato oltre che negato il problema. Le categorie non debbono essere imposte dalla
filosofia alla storia autocraticamente, ma sorgere dall’interno stesso della storia, del
problema. Solo così sarà possibile attingere l’universalità (non extrastorica, non formale).
Se invece si resta sul terreno della definizione analitica e non della produzione dialettica
del concetto, si ha un bel protestare contro il concetto “statico” del sistema filosofico (ma
quale sistema più statico di questo di C.?); in realtà si crea un sistema statico, e se lo
dichiara semplice “sistemazione”storica, ciò è estrinseca affermazione del filosofo conscio
della caducità del suo sistema, e non cosa che balzi dal sistema stesso.
Un sistema che voglia veramente essere una sistemazione storica, deve avere l’elemento di
storicità come elemento costitutivo della stessa sistemazione.
Un’ulteriore precisazione, unita alla promessa, peraltro solo embrionalmente attuata, di
spingersi oltre i traguardi raggiunti dai maggiori filosofi italiani, giungeva sempre nello
stesso saggio, al paragrafo IX, intitolato “Pratica e teoria”. In breve, si trattava dell’addio
definitivo a Croce e Gentile, nel nome di un soggetto particolarmente caro a Spinelli, nel
nome di Prometeo, dell’individuo che entra in lotta, non in sintonia, con “lo spirito
universale” per trasformarlo grazie al lavorio della sua coscienza:
Finché si resta sul gradino della coscienza produttiva (il soggetto che fa l’oggetto) non c’è
che una distinzione: quella fra il produrre ed il prodotto, come ha fatto Gentile, il quale ha
perciò avuto il merito di portare al punto estremo l’elaborazione del concetto di coscienza
produttiva.
Perché sul nostro orizzonte sorgano teoria e pratica bisogna procedere oltre. Solo quando
avremo visto apparire il soggetto particolare, l’autocoscienza individuale che si è staccata
dal flusso originario della coscienza, e non la capisce più, ed è in lotta con essa, solo allora
teoria e pratica avranno un senso, poiché saranno il modo con cui l’individuo (che non è
una manifestazione del tutto bensì la negazione del tutto, non è “la situazione storica dello
spirito universale” (della coscienza), bensì il distacco violento da quello spirito universale),
il modo, dico, con cui l’individuo cerca di riunirsi al tutto. Ma così ci si apre tutto un
orizzonte di ricerche filosofiche che C. e, aggiungo, Gentile, non sospettano nemmeno.
La necessità di spingersi su simili orizzonti si ritrova anche nelle “Osservazioni circa
l’esaurirsi della filosofia contemporanea italiana”, del ’39, in cui il giovane apprendista
filosofo, nel constatare il limite dello storicismo e dello spiritualismo, collocava il problema
filosofico del suo tempo non già “nell’analisi più o meno speculativa dell’intelletto, ma
[nel ricercare la] genesi dell’intelletto stesso, cioè in una ricerca fenomenologica”.
Nell’intelletto stava insomma l’oggetto dell’attenzione del sedicente rivoluzionario
federalista, il quale scriveva in una “Nota” buttata giù fra novembre ’39 e gennaio ’40:
Chiameremo intelletto quest’attività giudicatrice, intendendolo nel più ampio senso
dell’autoaffermazione dell’io il quale realizza il suo mondo. Sarà bene metter
definitivamente da parte la questione se si tratti di teoria o di pratica. Abbiamo infatti qui
contemplazione del mondo fatto da noi, cioè teoria e pratica insieme.
Stavano qui, dunque, cioè nell’intelletto inteso come autoaffermazione dell’io che realizza
il suo mondo, nell’imbricazione di teoria e pratica, gli aspetti essenziali della forma mentis –
peraltro, direi, assolutamente immanentistica – con cui Spinelli si apprestava a scrivere di
lì a poco il Manifesto. Il quale Manifesto consisteva, appunto, in quanto risultato delle
meditazioni filosofiche del suo autore, non già nella formalistica profezia che alla “crisi di
civiltà ” del suo tempo lo spirito avrebbe fatto indefettibilmente seguire una nuova
affermazione della libertà . E non si riduceva nemmeno, ovviamente, ad una tecnicistica
formulazione di soluzioni istituzionali per l’Europa postbellica. Esso nasceva dalla
convinzione acquisita che la storia non fosse deterministicamente condizionata, che ogni
sua evoluzione fosse il risultato, non necessariamente scontato, di un’analisi e di un atto
volitivo dell’intelletto, dell’io, si è detto, che realizza il suo mondo. Tale evoluzione
consisteva infatti non in uno svolgimento, ma in un’innovazione non prevedibile a priori,
cioè in una reale creazione e scoperta, le cui determinazioni ed attuazioni spettavano al
medesimo io dell’intelletto.
Visto sotto questa luce, il Manifesto assume, mi pare, una valenza ancor più generale di
quanto non sia il pur eccezionale atto fondativo di una corrente politica destinata ad avere
un ruolo forse fondamentale nella nostra epoca. Esso si proponeva come la via d’uscita per
una civiltà in crisi, quella dello stato nazionale, giunta ad un punto morto apparentemente
insuperabile. Nel contesto, una non immodesta concezione di se stesso convinceva Spinelli
di aver individuato la soluzione – sintetizzabile nel passaggio alla società dello stato
federale – come esito di un affannoso periodo di lotta contro “lo spirito universale” in cui
l’individuo, cioè lui stesso, aveva finito per riunirsi, da vincitore, a quello spirito
medesimo. Tutt’altra drammaticità di movenze, ad ogni buon conto, rispetto al fiducioso
abbandono alla “situazione storica dello spirito universale” che avrebbe portato al
superamento della crisi di civiltà .
Sì , perché nel mondo interiore di Spinelli la vittoria non consisteva semplicemente nella
superiorità potenziale di una concezione sull’altra, bensì nel suo successo pratico e reale,
nella sua affermazione sulla comunità degli uomini. Pensiero e azione dovevano
coincidere, verum e factum erano tenuti vichianamente a convergere. Tant’è che “Ulisse”,
come si deduce dalla prima pagina del suo Diario, curato da Paolini, non si affidava
neanche al rassicurante formalismo della morale kantiana, dal momento che in lui l’ansia
di aver visto (e fatto) giusto prevaleva su quella, più benpensante, di muoversi a fin di
bene, avvenisse che può . Solo il successo era indice della grazia, il resto caducità .
Ora, è chiaro che simili concezioni, ispirate almeno in lui ad un’impietosa (e pertanto
onesta) ricerca del vero, avrebbero potuto sicuramente prestarsi, e Spinelli ne era
consapevole, a pericolose derive solipsistiche e superomistiche, in cui il massimo bene e il
massimo male avrebbero potuto confondersi. Difatti l’ambizione del recluso a proporsi
niccianamente come “legislatore del futuro” lo avrebbe portato spesso a confrontarsi con
la vertigine. Tuttavia l’io spinelliano non pretendeva di essere unico, né che il mondo si
esaurisse in un singolo campo di attività , la politica. Pertanto il corso dei suoi pensieri lo
portò ad un attaccamento tenace alla “civiltà della personalità ”, non alla “civiltà di
massa”, al vagheggiamento dello stato federale come comunità di individui, non di stati.
Al punto che proprio attorno a questi temi si verificò il dissenso con Colorni, dissociatosi
almeno in parte dalla redazione del Manifesto.
Colorni, infatti, dando prova della consapevolezza estrema con cui i confinati di Ventotene
guardavano alla “crisi di civiltà ” prodotta dallo stato nazionale, mostrava di accettare,
pur di scongiurare una prossima guerra mondiale, la prospettiva di uno stato comunista
esteso dalla Russia alla Germania e destinato a consentire nel tempo, e nella pace, la
resurrezione dell’Europa. Spinelli e Rossi, invece, si rivolgevano al mondo anglosassone e
al federalismo americano, come tutori, appunto, della “civiltà della personalità ”. E non si
può negare che avessero visto meglio e giusto (P. Graglia, Machiavelli…, pp. 203–18, 268).
In ogni caso, Spinelli, privilegiata che ebbe la funzione dell’intelletto, nonché postulata la
coincidenza fra verità pensata e realtà fattuale, si sarebbe dedicato da allora in poi a
sperimentare, a mettere alla prova, per così dire, nel vivo della lotta politica e
dell’evoluzione storica i risultati raggiunti con le sue precedenti meditazioni carcerarie. La
sua vita successiva, quasi avesse rimosso quella precedente, angustamente vissuta tra
pagliericcio e bugliolo, ma in realtà passata a fantasticare lungo i secoli e nell’infinità delle
idee, consistette nella tenace trasformazione in atti concreti, vincenti, segnati dalla
“grazia”, ma spesso anche minimi e minuti, di quel suo superamento filosofico
dell’idealismo e dello storicismo, a cui di fatto imputava di non aver saputo impedire la
crisi dell’intera civiltà occidentale.
Sotto questo profilo, lo strumento principe per la trasformazione del pensato in agito gli
appariva precisamente l’evento costituente, costituzionale, attraverso cui la salvezza, il
progresso della civiltà sarebbero stati assicurati. La qual cosa, peraltro, se fosse stata vera,
e dunque realizzabile, doveva apparire convincente anche alle classi dirigenti
democratiche europee, che l’uomo si sforzava di persuadere con il suo metodo
individualistico, proprio per dimostrare a se stesso la prerogativa dell’intelletto e dell’io
solitario di essere in grado di imporsi agli altri, ricongiungendosi così con lo spirito
universale.
E se il pensato non poteva essere qualcosa di caduco e di inerte, ma un “processo di
formazione”, allora anche lo strumento istituzionale, destinato a dare la forma, il quadro
di espansione della nuova civiltà , assumeva ben altre valenze e ben altre potenzialità di
quanto potesse apparire a prima vista. Asseriva infatti Spinelli, difendendo il suo Manifesto
nel corso dei dibattiti del ’42:
Il punto di vista federalista sembra a prima vista un semplice progetto di sistemazione
giuridica del diritto internazionale europeo. Pare che pure accogliendolo si possano
mantenere in altri campi della politica le vedute solite. Ma non appena lo si applica ad
ogni singolo problema si vede che questo si modifica radicalmente non solo nella sua
soluzione, ma nella sua stessa impostazione. Poiché c’è sempre una notevole differenza tra
l’esser disposto a modificare le proprie vedute abitudinarie ed il modificarle
effettivamente, ogni nuova indagine fatta da quel punto di vista implica uno sforzo ed una
pena.
Ogni volta è un nuovo legame col passato che si spezza, ogni volta è un irriverente
maneggiamento di forze storiche che sinora ci avevano in qualche modo sorretto e che
d’ora innanzi intendiamo esser noi a sorreggere. Ci vuole un certo coraggio. (P. Graglia,
Machiavelli…, p. 136).
Questo è esattamente il punto. La costituzione europea non è soltanto uno strumento
giuridico. E non è nemmeno materiale inerte. Per maneggiarlo ci vuole un certo coraggio.
Un coraggio che spazia sui grandi orizzonti, ma conosce anche la necessità di soffermarsi
sui dettagli, forse anche sulle technicalities, pur di adeguare il pensiero alla realtà :
Una battaglia non si vince solo studiando le regole della strategia in generale, ma
decidendo ad un certo momento di occupare quel colle, questo ponte, e portando poi le
operazioni innanzi, a seconda che lo si sia o no occupato. Siano benvenuti quelli che
comprendono, poiché sono il sale della terra, ma più benvenuti ancora siano coloro che si
rimboccano le maniche, e con semplicità si mettono al lavoro. Si sono nutriti del sale e
l’hanno convertito in carne. (P. Graglia, Machiavelli…, p. 127).
Il problema, naturalmente, è possedere la determinazione per provarsi a ragionare in
questo modo. Ed anche per credere che l’uomo non sia affidato a forze superiori, ma
arbitro del suo destino. Senza voler far proprio in ogni dettaglio il pensiero di Altiero, il
lascito che ci ha lasciato è più imponente e al tempo stesso più impegnativo di quel che
molti sospettano. Comporta un impegno pratico, ma anche il compito di liberarsi
faticosamente di molte mitologie del passato, per giungere ad una precisione di giudizio
scomoda, eppure il più possibile rispondente alle esigenze fondamentali della propria
civiltà :
Il pensiero politico non può uscire dalle strettoie attuali con una impossibile restaurazione
dei mistici valori crollati, ma proseguendo inflessibile lungo il cinico cammino di vedere le
cose come veramente sono. (P. Graglia, Machiavelli…, p. 169).
Per giungere a questi traguardi rigorosi, eppure, lo sappiamo, tutt’altro che cinici nel
sentimento, nelle intenzioni e nelle prospettive, Spinelli aveva compiuto un percorso
interminabile, non privo di innamoramenti irrazionali e di errori, ma ormai era sicuro di
essere giunto in porto, anche a costo, si è detto, di non voltarsi più indietro. Ma chi volesse
farlo per lui può ripercorrere la lettera inedita alle sorelle, dell’agosto ’42. Vi è descritto
l’itinerario di chi, per raggiungere la sua verità , aveva osato separarsi dallo Spirito
universale, crociano o marxiano che fosse.
Francesco Gui
(*) Il testo, peraltro privo di note, è apparso all’interno del volume La Cultura europea, la
Costituzione dell’Unione e la sussidiarietà dopo la riforma del titolo V della Costituzione italiana,
IISS, Roma 2004, pp. 161–72.