PIER VINCENZO COVA LUCILIO, LA VOCE LIBERA D`UN POETA

PIER VINCENZO COVA
LUCILIO, LA VOCE LIBERA D’UN POETA DELLA SATIRA1
Nel 1998 si sarebbe dovuto celebrare il XXI il centenario della morte del poeta Lucilio2, il padre della
satira latina o, se si preferisce, l'inventore del genere (questo è un titolo, al quale gli antichi tenevano
molto). Poeti satirici c'erano stati prima di lui in Grecia e in Roma, ma fu Lucilio a dare definitiva e
autonoma fisionomia a questo genere letterario nel modo, col quale ancora oggi noi lo intendiamo
(benché non tutta la sua produzione vi si possa riferire in senso stretto, perché il suo mondo e la sua
fantasia sono illimitati). Con lui come padre e inventore dovettero perciò fare i conti i poeti posteriori,
anche restringendone gli orizzonti. Orazio lo tratta in modo un po' critico, rimproverandogli la
trascuratezza nella forma; Persio invece si entusiasmò tanto alla sua lettura da sentirsi indotto a dedicarsi
allo stesso genere, nonostante le differenze dei tempi e del temperamento. Purtroppo della produzione di
Lucilio ci sono pervenuti solo seicento frammenti, per la maggior parte conservati da lessicografi,
grammatici ed eruditi, che non avevano certo il nostro interesse per la sua vivace personalità e la sua
incidenza nella cultura antica. Di questo però ci danno alcune informazioni le molte testimonianze
indirette, che attestano la fortuna, sia pure selettiva, dell'autore fino al cristiano Lattanzio. Così si rileva
una novità interessante, che si potrebbe dire moderna. Lucilio non è più, come altri arcaici, un
poeta-liberto o un poeta-professore, ma un poeta e basta. Diremmo un professionista, se la dizione
moderna non comportasse una dimensione economica, che è per lungo tempo assente nell'esercizio delle
arti liberali a Roma; dunque diciamo che la letteratura per lui è una missione. Benché proveniente da una
famiglia elevata e ricca (un suo fratello senatore sarà nonno materno del famoso Pompeo), egli non
coltiva l'aspirazione propria dei romani bene alla carriera politica, che era una strada quasi obbligata in
assenza di altre possibilità di autorealizzazione, quali potrebbero essere oggi le professioni o le attività
economiche. Non per questo si sente un frustrato, anzi scrive con orgoglio: « Non sono disposto a
scambiare me stesso da solo con tutto il mondo e non vorrei essere invece di Lucilio un gabelliere o un
esattore d'Asia». Quella provincia era la più ricca dell'impero ed era controllata da grandi società
finanziarie italiane per l'appalto delle imposte, più forti ancora del potere politico. La scelta letteraria non
significa estraniazione dalla vita attiva, ma la partecipazione in una forma diversa e nuova. La
graduatoria dei valori appare negli ultimi versi del celebre frammento sulla virtù, che «è mettere al primo
posto il bene della patria, poi quello della famiglia, per terzo e per ultimo il proprio». Lucilio è addirittura
attivista di parte, essendo legato, almeno nei primi tempi, al circolo degli Scipioni, di cui condivide gli
ideali politici e culturali senza servilismi. Con l' Africano minore, cioè Scipione Emiliano, partecipa alla
guerra di Numanzia nel 133. Gli avversari di Scipione sono i suoi avversari; contro di loro usa la sua
satira, che doveva riuscire molto più incisiva di quanto possa apparire a noi oggi. Anche Quintiliano tanti
anni dopo gli riconoscerà «una straordinaria cultura e libertà di parola, quindi asprezza e mordacità». Il
primo libro delle satire si apriva con la parodia di un concilio degli dei, che, per mettere fine alla
decadenza di Roma, decide di togliere di mezzo Lupo, che ne è il principale responsabile. Lupo è Lucio
Cornelio Lentulo, che era il princeps senatus, dunque un personaggio autorevolissimo anche senza altre
cariche. Egli era un goloso, quindi deve morire per indigestione di brodetto di pesce. Il gioco di parole
1
Giornale di Brescia, 1.5.1999.
Opere citate: U. Knoche, La satira romana, Paideia, Brescia 1969, 35-64; I. Lana, Storia della civiltà letteraria di Roma e
del mondo romano, D’Anna, Messina Firenze, 1984,85; La traduzione di I. Mariotti a 1126ss. si legge anche in Storia e testi
della letteratura latina, I, Zanichelli, Bologna II ed. l989, 193. Classici: Quintil.10, 1, 94; Orazio, Satire 1, 4 e 10 passim; 2, 1,
70, Cicerone, De oratore 2, 25; Brutus 160. I frammenti di Lucilio sono citati nell’ordine di esposizione secondo la
numerazione dei versi nell’edizione Terzaghi-Mariotti, Le Monnier, Firenze 1966 (dalla quale si può risalire alle altre):
l’orgoglio del poeta 627, la virtus 1140, la vita politica 1126, sui golosi 71, il legato su cibo e toeletta 555, il rigattiere 1171, il
grecizzante Albucio 78, il Ciclope 506.
2
sottostante è intraducibile: lupo è anche il nome di una specie ittica e ius=intingolo è omografo e
omofono di ius=diritto. Il concilio degli dei è un motivo serio dell'epica antica, ma qui scade a parodia e
come tale passerà nella letteratura posteriore fino ai poemi eroicomici. La lista dei nemici di Scipione
colpiti da Lucilio è lunga. Knoche elenca Q. Cecilio Metello Macedonico col figlio e il genero C. Servilio
Vatia, T. Claudio Asello, il pontefice massimo P. Muzio Scevola, Papirio Carbone, Lucio Aurelio Cotta,
oltre Lupo (escluso però Tiberio Gracco). Purtroppo lo stato del testo non ci permette di seguire le
singole vicende, quando non trovano eco e integrazione in altri autori conservati, come nel caso fortunato
di Asello, il cui scambio di battute, senza esclusione di colpi, con Scipione è riportato da Cicerone. La
maggior parte dell'attività di Lucilio si svolge però dopo la morte, prematura e sospetta, di Scipione. I.
Lana descrive così l'epoca, che allora si apre: «incominciano i torbidi interni, i sommovimenti popolari
dei Gracchi, si rivelano gli squilibri dell'ingiustizia sociale, la corruzione che il troppo oro rende facile; si
accentuano le trasformazioni della società romana...». In questo quadro Lucilio si sente ancora più libero
e allarga la sua prospettiva, ma la sua visione si fa più fosca e pessimistica. Ecco come vien descritta la
vita nel foro, centro di tutte le attività romane e quindi specchio del costume: «Adesso invece da mattina
a sera, sia giorno di festa o di lavoro, allo stesso identico modo il popolo intero e i padri (= i senatori, ma
forse ironico, nota mia), tutti ad agitarsi nel foro e non andarsene altrove, tutti a darsi a un solo e unico
scopo, alla stessa arte: di poter imbrogliare con scaltrezza, lottare con l'inganno, gareggiare in lusinghe,
fingersi gente onesta, tendere insidie, come se tutti fossero a tutti nemici» (trad.di I. Mariotti, che
conserva dell' originale l'infinito descrittivo). A ragione dunque Orazio potrà affermare che Lucilio
«attaccava sia i capi della società che il popolo stesso gruppo per gruppo», cioè non genericamente (la
sua satira infatti è spesso nominativa, colpisce gli individui) «favorevole solo alla virtù e a chi la
praticava». La vena moralistica non si esaurisce con i politici. I golosi sono «pance viventi»; non
potevano certo esserlo i poveri, ma gli arricchiti sì: un intero libro era dedicato ai banchetti di un certo
Granio, un ex banditore, i cui inviti dovevano essere molto famosi, se Cicerone arriva a dire che l'unico
fatto di rilievo del tribunato di Crasso fu la partecipazione a uno di questi pranzi (“se non vi avesse
partecipato, non si saprebbe neanche che è stato tribuno”). Le beghe e il mercantilismo dei grandi trovano
la loro perfetta corrispondenza nella vita quotidiana dei piccoli. Un tale, morendo, ha disposto nel suo
testamento un legato per la moglie, che contempla solo la provvista di cibi e gli arnesi da toeletta: adesso
gli eredi litigheranno per decidere che cosa rientra e che cosa no nella dizione di questo legato. Al
mercatino dell' antiquariato «proprio per vendere le robe vecchie il rigattiere le loda: una striglia
spuntata, un pezzo di sandalo». Le piccole manie si collegano alle grandi. Albucio, che si è dimenticato
di essere “concittadino di centurioni, di uomini insigni, di combattenti valorosi e di veterani”, non vuole
più sembrare romano: “Vive ad Atene, si professa epicureo, parla greco. Trovandosi pretore in quella
città, Scevola l'aveva salutato alla greca: “Chaire, Tito” e il seguito e la folla avevano fatto coro: “Chaire,
Tito”. La presa in giro provocò la loro inimicizia politica”. Qui la critica linguistica è insieme sociale e
politica. Altrove l'interesse per la lingua e la letteratura si impone di per sé, come è naturale per chi di
questo mezzo di espressione ha fatto le armi delle proprie battaglie. Lucilio è contrario alle tragedie e ai
poemi epici perché troppo lontani dalla realtà, come «il Ciclope Polifemo lungo duecento piedi e con un
bastoncello più alto dell'albero maestro di una grossa nave da carico». La sua poesia invece è realistica e
non ama i toni alti o le questioni teoriche. Nonostante le frequentazioni colte nel circolo scipionico con
filosofi e storici greci di gran nome, può arrivare a dire: «Se proprio vuoi saperlo, un cappotto, un
ronzino, uno schiavo, una coperta mi sono più utili di un sapiente». Certo questo è detto in modo
paradossale e provocatorio, forse all'indirizzo di qualche sedicente saggio che di filosofico aveva appena
la barba. Anche la mancanza di lima, rimproverata da Orazio, è frutto della veemenza e della
immediatezza, con la quale il poeta reagisce al reale e secondo la quale va interpretato. Cicerone fornisce
la chiave di lettura: «Lucilio, che era un uomo colto e spiritoso, usava dire che non voleva esser letto né
dalle persone troppo dotte né da quelle troppo ignoranti, perché queste non capiscono niente e quelle
troppo», ossia vanno oltre le intenzioni dell'autore.