Azienda U.S.L. n.6 - Livorno Laboratorio di Patologia Clinica LabNews Anno 4, Numero 14 EDITORIALE “MAMMA MIA! QUANTO SANGUE MI TOGLIE?” Marzo 2002 Sommario: Editoriale 1 Farmaci e tiroide 2 Markers tumorali 3 AIDS 4 AIDS e immunità 6 Crioglobuline 7 Inserto: TAO LabNews foglio di informazione del laboratorio di Patologia Clinica direttore : Antonio La Gioia redazione: Maria Bombara Fabio Bonini Ivo Chiapponi Carlo Falciani Alessandro Gagliardi Antonella Leoni Sergio Marchetti Cinzia Martinelli Angela Matteucci Adriana Palla Patrizia Petricci Gerardina Russo Hanno collaborato a questo numero : Maria Bombara Ivo Chiapponi Carlo Falciani Antonio La Gioia Antonella Leoni Mario Manetti Angela Matteucci Fabrizio Torsi Gabriele Turelli Viale Alfieri 36 57100 Livorno [email protected] ana.it S gomento, il “paziente” osserva i preparativi dell’infermiere che si appresta a prelevare il sangue necessario per le analisi prescritte. Qualcuno, forse per distrarre la lieve paura che spesso ci coglie quando qualcosa di estraneo (l’ago, in questo caso) invade il nostro corpo, chiede informazioni; qualcun’altro vuol sapere come può integrare (devo mangiare di più?) il sangue perso. In realtà, l’osservazione del numero e del tipo di provette prelevate potrebbe fornire molte informazioni sulla organizzazione di un laboratorio. Se, infatti, alcune provette sono prelevate per specifiche necessità tecniche (l’EDTA dell’emocromo preserva la morfologia cellulare e piastrinica; il rapporto citrato/ sangue è necessario per la corretta esecuzione della Ves e delle prove di coagulazione), negli altri casi la diversificazione delle provette per colore del tappo obbedisce solo a necessità organizzative del laboratorio. Le diverse provette, infatti, sono rapidamente selezionate dalle altre e avviate agli strumenti di analisi proprio sulla base del diverso colore del tappo. La selezione e canalizzazione rapida delle provette è uno degli strumenti utilizzati per migliorare la organizzazione interna e per ridurre i tempi di risposta. Il nostro laboratorio ha appena portato alla fase operativa il progetto Pathfinder. Il Pathfinder è uno strumento di ottimizzazione della fase preanalitica, recentemente acquisito. Ha permesso la riduzione del numero delle provette da siero da 5 – 6 (media) ad una sola. A partire da tale provetta madre, il pathfinder genera delle provette figlie ciascuna delle quali è poi canalizzata verso la destinazione finale. Un altro vantaggio della nuova organizzazione preanalitica è rappresentato dalla possibilità di conservare in maniera ordinata le provette prelevate anche per più giorni (cercheremo di arrivare a sette) così da permettere approfondimenti dia- gnostici o controlli a distanza di tempo, sul campione di sangue originario senza, cioè, necessità di un nuovo prelievo. L’ambulatorio TAO Molti colleghi indirizzano loro pazienti in terapia con anticoagulanti orali (TAO) al nostro ambulatorio e, ad oggi, abbiamo abbondantemente superato i 100 pazienti. Lo scopo prevalente dell’ambulatorio, ricordiamolo, è rappresentato dalla gestione di pazienti con problemi di instabilità terapeutica sia nelle fasi di induzione che nel mantenimento. Abbiamo avuto modo di constatare in questo periodo che molti pazienti risultano ben controllati ed in range terapeutico. In altri casi si è evidenziato qualche problema, spesso determinato da non buona compliance dei pazienti o da altri fatti quali, ad esempio, l’assunzione di farmaci. Uno dei problemi più frequentemente affrontato ha riguardato la reversibilità del trattamento anticoagulante al venir meno delle indicazioni che lo avevano determinato; spesso abbiamo registrato una “fame di informazione” e, anche per questo, abbiamo pensato ad un “vademecum” che desse risposta ai quesiti più frequentemente posti: una copia di questo Vademecum, che ci pare sufficientemente chiaro ed esaustivo, è stata allegata a questo numero di LabNews per i colleghi che volessero utilizzarlo anche per i pazienti in TAO seguiti direttamente da loro. Una curiosità: il concomitante cambio Lira/Euro, ci ha aiutato a far capire ed accettare a questi pazienti il passaggio dall’attività percentuale all’INR…. Contestualmente abbiamo provveduto al potenziamento della diagnostica di laboratorio delle trombofilie, aggiungendo ai precedenti test di screening anche il dosaggio delle proteine C ed S e, per quanto riguarda la resistenza alla proteina C attivata, abbiamo la possibilità di stabilire se questa è determinata dalla presenza di Fattore V Leiden o da altre cause. (alg) LabNews FARMACI E TIROIDE: L’IMPORTANZA DEL MONITORAGGIO A l fine di monitorare correttamente una tireopatia già diagnosticata o di intervenire adeguatamente in caso di insorgenza di ipo o ipertiroidismo clinico o subclinico, è indispensabile, nell’interpretazione dei test di funzionalità tiroidea, tenere in considerazione possibili variazioni di livelli circolanti di ormoni tiroidei in corso di terapie per condizioni morbose diverse. Alcuni farmaci possono interferire a livello tiroideo con l’attività ormonale intervenendo nei meccanismi di sintesi, secrezione, trasporto e metabolismo degli ormoni tiroidei, nonché nella secrezione di TSH; mentre alcuni farmaci hanno un effetto trascurabile, altri impongono massima attenzione alle possibili azioni sulla ghiandola. La terapia con litio causa ipotiroidismo subclinico in molti pazienti, in quanto interferisce con la sintesi degli ormoni tiroidei e ne rallenta la secrezione; molti di essi presentano anche anticorpi anti-tiroidei. L’aumento, nella maggior parte dei casi moderato, dei livelli di TSH interviene dopo un periodo di terapia che varia da tre mesi a quattro anni. Poiché i pazienti in terapia con litio arrivano ad assumere dosi elevate del farmaco per lunghi periodi, è consigliato, prima dell’inizio della terapia, una indagine ecografica, da ripetere periodicamente, per escludere la presenza di gozzo, nonché un controllo del TSH, dell’fT4 e degli anticorpi anti-tiroide; è altresì necessario monitorare, per tutto il periodo della terapia, la funzionalità tiroidea mediante dosaggio annuale di TSH. L’amiodarone, efficacissimo farmaco antiaritmico, presenta numerosi effetti collaterali, tra i quali di rilevante importanza a livello della tiroide, l’insorgenza di ipotiroidismo (6-10% dei pazienti trattati) o ipertiroidismo (meno del 3%), sia clinico che subclinico. Il primo è prevalente nelle popolazioni a sufficiente apporto iodico alimentare, il secondo in quelle a scarso apporto iodico. Entrambe le patologie tiroidee non dipendono dalla posologia del farmaco, ma piuttosto dalla durata della terapia: l’ipotiroidismo viene generalmente diagnosticato dopo un periodo di terapia che può variare da due settimane a quaranta mesi; l’ipertiroidismo dopo un periodo di quattro mesi/tre anni. L’interferenza del farmaco sulla funzionalità tiroidea è determinata da due caratteristiche: 1) elevato contenuto di iodio: ogni compressa di amiodarone da 200 mg libera 7,5 mg di iodio, che corrisponde a 10-100 volte l’apporto alimentare, a seconda delle zone geografiche. 2) inibizione delle 5’ desiodasi: determina un blocco della conversione da T4 a T3, con conseguente diminuizione della T3 circolante (sindrome da bassa T3) e parallelo aumento Anno 4, Numero 14 della T4 Uno screening del profilo tiroideo completo (TSH, fT3, fT4 ed anticorpi anti-tiroide) accompagnato da una ecografia, eseguiti prima dell’inizio della terapia, può consentire di individuare i pazienti a rischio; il dosaggio dell’fT3, in questi frangenti, è sempre consigliabile in quanto evidenzia casi di T3-tossicosi che, benché rari, se non individuati preventivamente possono, a seguito della terapia, dar luogo a complicanze severe; in ogni caso il profilo ormonale deve essere periodicamente controllato, almeno ogni sei mesi, durante tutto il ciclo terapeutico. L’insorgenza di ipotiroidismo deve essere trattata con farmaci; l’insorgenza di ipertiroidismo impone invece, alcune volte, la sospensione del farmaco interferente ed idonei interventi terapeutici correttivi. Pazienti che ricevono trattamento a lungo termine di interferone alfa, possono sviluppare ipo o ipertiroidismo; l’effetto secondario è rappresentato dall’insorgenza o dal potenziamento di autoimmunità preesistente. Queste patologie tiroidee non giustificano una interruzione della terapia, necessaria in patologie gravi, ma richiedono un trattamento della complicanza tiroidea. Tali disordini tiroidei non sono stati evidenziati durante terapia con beta o gamma interferone. Alcuni farmaci di comune utilizzo (fenitoina, carbamazepina, fenobarbitale), aumentano il metabolismo degli ormoni tiroidei, ma la variazione dei livelli sierici di fT4 che a volte si evidenzia, è prevalentemente un artefatto analitico, determinato da interferenze nel dosaggio dell’ormone; queste sostanze, benchè non abbiano un effetto rilevante sulla funzionalità tiroidea, costituiscono agenti gozzigeni non trascurabili. Altri farmaci (dopamina, glucocorticoidi, octreotide), somministrati a dosi elevate e per lunghi periodi, possono diminuire i livelli sierici di TSH, senza mai arrivare a livelli patologici; i pazienti rimangono infatti clinicamente eutiroidei. Molti farmaci, infine, interferiscono con il trasporto degli ormoni tiroidei in circolo, creando problematiche esclusivamente diagnostiche, in gran parte bypassate con il dosaggio delle frazioni libere in sostituzione degli ormoni tiroidei totali (androgeni, estrogeni, eparina, eroina, metadone). Studi relativamente recenti hanno messo in evidenza la possibilità di interferenza con la funzione tiroidea da parte dell’acido tri-iodo-tiroacetico (TRIAC), analogo della T3, presente in alcuni integratori alimentari (dimagranti, acceleratori del metabolismo); questo composto può indurre, principalmente, ipotiroidismo da inibizione del TSH; si segnala inoltre che negli Stati Uniti già dal 1999 l’FDA (Food and Drug Administration) ha sconsigliato l’utilizzo di integratori dietetici contenenti TRIAC. (c.f.) Pagina 2 LabNews MARCATORI TUMORALI: L’AUMENTO IN ASSENZA DI TUMORE N ella diagnostica oncologica i marcatori tumorali rappresentano un supporto valido per la valutazione della presenza di una neoplasia, ed ancor più per il monitoraggio del suo decorso. Per marcatore tumorale in senso stretto si intendono sostanze prodotte prevalentemente dalla neoplasia, legate al fenotipo trasformato in senso maligno. In realtà i marcatori tumorali conosciuti non sono tumorespecifici, ma sono espressi anche in assenza di malattia neoplastica, con un'inevitabile sovrapposizione di valori tra individui sani e individui con tumore; inoltre, per la maggior parte dei marcatori, la sensibilità, intesa come capacità della sostanza di individuare i soggetti affetti da tumore, è piuttosto bassa. Questo li rende inadatti ad essere utilizzati in procedure di screening o nella diagnosi differenziale con la malattia benigna. In effetti, è possibile avere livelli ematici aumentati di vari marcatori tumorali in diverse condizioni non neoplastiche, patologiche e non. Nella pratica comune, nonostante le avvertenze di vari autori sull’uso corretto dei marcatori tumorali (Gion M. Uso clinico dei marcatori tumorali. Guida rapida. Milano: Biomedia, 1997; Caputo M. et al. Linee guida per il monitoraggio biochimico delle neoplasie. Riv Med Lab-JLM 2001, 2: 51-59), si assiste spesso ad un uso improprio degli stessi, a fini di screening o di fronte a un vago sospetto di neoplasia. Si ritiene pertanto utile riportare nelle seguenti tabelle le cause più frequenti di incremento aspecifico dei marcatori tumorali, al fine di un utilizzo critico del dato di laboratorio. Tratta da: Guida Pratica IMMULITE, N°1, Genova: Medical Principali condizioni non patologiche per le quali si possono rilevare aumentati livelli ematici di alcuni marcatori Principali condizioni patologiche non neoplastiche per le quali si possono rilevare aumentati livelli ematici di alcuni marcatori Condizione Marcatore Patologia benigna del tratto gastroenterico CEA, TPA, CA19.9 Epatopatia cronica CEA, TPA, AFP, Ferritina, CA 19.9, CA 125, CA 15.3 Ittero CEA, TPA, Ferritina, CA 19.9 Broncopneumopatia cronica CEA, TPA Ascite CA 125 Peritonite CA 125 Versamento pleurico CA 125 Endometriosi CA 125 Pancreatite CA 19.9, CA 125, CA 15.3 Insufficienza renale cronica CEA, TPA, NSE, CA 125 Tireopatie TG Ipertrofia prostatica PSA, PAP Ritenzione urinaria PSA, PAP Malattie reumatiche CA 19.9 Condizione Marcatore Diabete CA 19.9 Gravidanza AFP, HCG, CA 125, TG, TPA Psoriasi SCC Ciclo mestruale CA 125 Processi flogistici TPA, Ferritina Fumo CEA, TPA, TG Traumatismi recenti TPA Alcool CEA, TPA Terapia marziale Ferritina Emotrasfusioni Ferritina Systems,1997 Diverse manovre diagnostiche, inoltre, possono provocare incrementi anche significativi di alcuni marcatori: • il PAP e il PSA aumentano dopo cateterismo vescicale, esplorazione rettale o agobiopsia prostatica • la TG dopo agobiopsia tiroidea • il TPA dopo broncoscopia o dopo un qualunque traumatismo chirurgico • il CA 125 dopo un traumatismo chirurgico sul peritoneo. Di norma, comunque, nella maggior parte delle condizioni soprariportate gli incrementi osservati sono relativamente modesti. Da segnalare invece che peritonite, pancreatite e psoriasi possono essere responsabili di aumenti dei livelli dei marcatori tali da essere compatibili con una neoplasia avanzata; nei casi di ittero, infine, si possono verificare incrementi particolarmente notevoli dei livelli del CA 19.9, dell’ordine di centinaia o migliaia. In conclusione, di fronte ad un marcatore tumorale alterato, senza evidenza clinica di neoplasia, si raccomanda di verificare l’esistenza di possibili cause non specifiche di incremento ed eventualmente la ripetizione del test dopo rimozione delle stesse. (m.b.) Tratta da: Guida Pratica IMMULITE, N°1, Genova: Medical Systems,1997 Anno 4, Numero 14 Pagina 3 LabNews L’AIDS IN LABORATORIO: DAGLI INTERROGATIVI ALLE CERTEZZE D TRASMISSIONE opo 15 anni dalla comparsa dell’epidemia di AIDS l’HIV non è più un virus misterioso. Le ricerche si sono concentrate particolarmente sulla caratterizzazione sierologica molecolare del virus HIV-1. Il genoma virale è stato estesamente studiato, tutti i geni riconosciuti dell’HIV-1 sono stati clonati e la maggior parte delle proteine (con relative funzioni) è stata identificata. Allo stato attuale le prospettive di vita sono buone quanto più è precoce la diagnosi di infezione da HIV. Utile quindi una visione retrospettiva e la conoscenza dei test di diagnosi. I RETROVIRUS Il virus HIV appartiene alla famiglia dei retrovirus. Con tale denominazione si definisce una famiglia di virus il cui genoma è costituito o da RNA, nella fase in cui il virione completo si trova al di fuori della cellula, o da DNA, nel momento in cui il microrganismo infetta la cellula ospite e si integra nel suo genoma. L’evento fondamentale della replicazione di questo virus è perciò la sintesi di DNA a partire dall’RNA presente nel proprio genoma. Tale sintesi avviene ad opera di una DNA polimerasi RNA dipendente virus-specifica (trascrittasi inversa). I retrovirus si attaccano alla cellula bersaglio per mezzo di proteine dell’envelope, specializzate nel riconoscere specifici recettori della superficie cellulare. Inizia allora un processo di conversione delle proteine virali quiescenti in complessi enzimatici attivi che presiedono alla trascrizione e all’integrazione del virus. Il DNA virale integrato (provirus) è a sua volta trascritto dalla RNA polimerasi della cellula ospite in RNA messaggero, che codificherà per le proteine virus specifiche e formerà l’RNA genomico. L’infezione da HIV-1 e la conseguente progressiva distruzione delle difese immunitarie costituiscono la base patogenetica che andrà a configurare la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita. Sindrome del tutto analoga è stata associata all’infezione da parte di un retrovirus che presenta ampie quote di omologia con HIV-1, pur con una virulenza più moderata. La circolazione di tale virus, denominato HIV-2, appare limitata al Corno Occidentale d’Africa, con sporadiche apparizioni anche in Europa. L’INFEZIONE Le modalità di trasmissione possono essere sostanzialmente ricondotte a trasmissione sessuale, parenterale e trasmissione verticale, in analogia ad altre infezioni sistemiche virali. Nella seguente tabella viene riportata l’efficienza di trasmissione delle differenti modalità ed il loro contributo complessivo a livello mondiale nel sostenere l’attuale pandemia di infezione da HIV. Anno 4, Numero 14 Efficienza di tra- Proporzione stimata su smissione da singosospetti positivi lo contatto SESSUALE 0,1 – 1 % 70 – 80 % PARENTERALE Tossicodipendenza 0,5 – 1 % 5 – 10 % PARENTERALE Puntura accidentale < 0,5 % < 0,01% 13 – 30 % 5 – 10 % PERINATALE Tratta da: Le infezioni umane da Retrovirus. (Roche Diagnostic Systems) L’infezione da HIV può essere asintomatica o sintomatica (malattia acuta). A distanza di 2 - 24 settimane dal contagio il soggetto infettato produce anticorpi contro il virus (sieroconversione) e diviene sieropositivo cioè portatore asintomatico del virus, per cui sta bene, ma può infettare altre persone. Questa fase può durare alcuni anni. Il primo segno clinico della malattia è un ingrossamento generalizzato delle linfoghiandole (Persistent Generalized Linphoadenopathy, PGL); poi, con il progredire dell’immunodepressione, cominciano a palesarsi i sintomi di malattia genericamente indicati come ARC (AIDS Related Complex). Successivamente, dopo un periodo di tempo variabile da alcuni mesi ad un paio di anni, si svilupperanno le infezioni opportunistiche e le neoplasie caratteristiche dell’AIDS conclamata. LA DIAGNOSI La strada maestra per la diagnosi di ogni patologia infettiva è la ricerca e l’identificazione dell’agente eziologico oppure di una sua traccia non equivoca, un antigene o un segmento di genoma in un campione biologico adeguato. L’infezione da HIV possiede la peculiarità di persistere,una volta instauratasi, anche nei periodi di remissione clinica, perciò la diagnosi di certezza dell’infezione in atto può essere posta anche attraverso il rilievo degli anticorpi specifici nel siero dell’individuo. La positività del test di screening immunoenzimatico, soprattutto in presenza di dati anamnestici positivi, è indicativa della presenza dell’infezione. L’infezione deve comunque essere sempre convalidata mediante l’esecuzione del test di conferma in Western blot (WB). Questo test appare di grande rilevanza soprattutto in assenza di dati anamnestici positivi e di bassa reattività del test di screening. Il test WB combinato con l’evidenza degli anticorpi con(Continua a pagina 5) Pagina 4 LabNews (Continua da pagina 4) tro la proteina P36 propria del virus HIV-2 è inoltre indicativa dell’infezione da HIV-2. La diagnosi sierologica dell’infezione da HIV si basa su metodi indiretti (ricerca di anticorpi) e su metodi diretti (ricerca del genoma virale). Metodi indiretti • • Test immunoenzimatico (Elisa): è il primo test eseguito quando si sospetta il contagio, ed il test più noto e più diffuso per lo screening (Test HIV 1/2). Test Western blot: è il test più utilizzato come conferma della positività del test Elisa. Distingue i diversi anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta a particolari prodotti (antigeni) del virus. I principali sono: GAG, POL, e le proteine del rivestimento virale (envelope, ENV). Metodi diretti Metodi basati sulla ricerca del genoma del virus HIV. Il test PCR (che individua anche minime quantità di acido nucleico, amplificandole) viene usato anche per la conferma del test anticorpale e come primo esame per la diagnosi neonatale. (m.m.) ALGORITMO DIAGNOSTICO INFEZIONE DA HIV NOTA TECNICA Prelievo: tutti i prelievi di sangue debbono essere considerati potenzialmente infetti. Per la raccolta dei campioni per test sierologici ( test di screening e di conferma per gli anticorpi anti HIV ) utilizzare provette Vacutainer. Per la ricerca di sequenze genomiche (P.C.R.) utilizzare provette Vacutainer contenenti EDTA come anticoagulante (l’eparina inibisce la Polimerasi). Trasporto: dopo il prelievo i campioni devono essere consegnati quanto prima al Laboratorio. Per i test di P.C.R. il plasma deve essere separato entro 6 ore dal prelievo e congelato a -20° C o conservato a 4° C per non più di 3 giorni. Anno 4, Numero 14 Pagina 5 LabNews S FUNZIONE IMMUNITARIA E AIDS ia nella risposta immunitaria umorale, che in quella cellulare, la proliferazione e differenziazione linfocitaria è sotto il controllo di due sottopopolazioni di linfociti, definiti regolatori: 1. Linfociti CD4+ con funzione helper-inducer; rappresentano il 40-50% dei T linfociti. 2. Linfociti CD8+ con funzioni suppressor-citotossiche (20-30% dei T linfociti). Entrambe le popolazioni agiscono direttamente, o per mezzo di fattori solubili, nel complesso meccanismo di regolazione delle funzioni immunitarie. Il virus HIV ha un tropismo selettivo per il recettore CD4, con il quale si lega e penetra all'interno della cellula. Durante la lunga fase di latenza, che segue l'infezione acuta da HIV, si ha una progressiva deplezione dei linfociti CD4+ ed un conseguente progressivo deterioramento delle funzioni immunitarie. Un valore di concentrazione assoluta di CD4+ al di sotto di 200 cellule/mmc corrisponde al passaggio al quadro clinico di AIDS conclamata. Il conteggio dei linfociti CD4+ è dunque il marcatore di laboratorio che ha ricevuto i maggiori consensi per la valutazione della progressione dell'infezione da HIV, nonchè un ottimo indice per monitorare lo stato immunologico del paziente affetto da AIDS. L'insorgenza delle infezioni opportunistiche sembra sia legata alla caduta del tasso dei linfociti CD4+ circolanti. Pertanto, la loro concentrazione assoluta nel sangue periferico può essere utilizzata per la profilassi di queste infezioni e più genericamente per la definizione dei momenti accettati comunemente come più convenienti per l'inizio della terapia antiretrovirale. Infatti la concentrazione dei linfociti CD4+ costituisce il principale criterio di approvazione dei farmaci antivirali e delle loro combinazioni. C'è da dire, tuttavia, che il numero assoluto dei linfociti CD4+ circolanti può subire variazioni per cause diverse (ora del prelievo, infezioni intercorrenti, etc.) e che la loro quota necessariamente non riflette la loro funzionalità e non rappresenta l'effettivo numero dei linfociti CD4+ presenti nell'organismo, in quanto una quota maggiore di essi è localizzata negli organi linfatici. Quindi nonostante gli indubbi vantaggi pratici ai fini clinici, il conteggio assoluto dei linfociti CD4+ non deve essere l'unico parametro da prendere in considerazione nel corso dell'infezione da HIV. Il valore dei linfociti CD8+ nel monitoraggio clinico terapeutico è ancora da valutare. Sembra siano attivi nel controllo della replicazione del virus sia attraverso la citolisi diretta delle cellule infettate, sia tramite il rilascio di linfochine ad azione antivirale. Allo stato attuale, per la determinazione dei linfociti CD4+ ci si avvale delle tecniche citofluorimetriche con anticorpi monoclonali. (i.c.) Anno 4, Numero 14 Pagina 6 LabNews LE PROTEINE CHE VENGONO DAL FREDDO…. L e crioglobuline sono un gruppo di proteine sieriche, costituite da Immunoglobuline o loro frammenti aventi la proprietà di precipitare o gelificare a freddo e di ritornare in soluzione se riportate a temperatura intorno ai 37°C. (Le crioglobuline non devono essere confuse con le crioagglutinine. Quest’ultime sono spesso anticorpi IgM contro gli eritrociti e provocano anemia emolitica. Talvolta le crioglobuline possono avere proprietà di crioagglutinine). Il fenomeno è stato per la prima volta descritto da Hedelberg e Kendall nel 1929 e successivamente nel 1933 è stato correlato con le manifestazioni cliniche da Wintrobe e Buell in un caso di Mieloma Multiplo. Studi successivi hanno documentato la presenza delle crioglobuline in alcune malattie infettive, infiammatorie e neoplastiche. In quest’ultimo decennio l’interesse per le crioglobuline è notevolmente aumentato dopo la scoperta del virus dell’epatite C (HCV) e la dimostrazione della sua frequente associazione con le crioglobuline. CLASSIFICAZIONE Brouet e collab. identificarono 3 tipi di crioglobuline in base alle caratteristiche immunochimiche del crioprecipitato: • Crioglobulinemia tipo I: costituita da immunoglobulina monoclonale, solitamente IgM, spesso IgG, o IgA senza attività di Fattore Reumatoide (FR) (attività anticorpale nei confronti di altre immunoglobuline) • Crioglobulinemia tipo II: costituita da immunoglobuline di più classi, una delle quali monoclonale, generalmente IgM con attività di Fattore Reumatoide. • Crioglobulinemia tipo III: costituita da una o più classi di Immunoglobuline policlonali diversamente associate. L’associazione più frequente è IgM-IgG con le IgM che hanno attività di FR verso le IgG. Una successiva classificazione (Musset et. coll. 1992) semplifica lo schema di Brouet ed ha il merito di poter comprendere altre forme di crioglobuline precedentemente di difficile collocazione. Tale schema suddivide le crioglobuline in: • Tipo I o “singole”, che comprende tutte le crioglobuline formate da una sola classe di immunoglobulina monoclonale. • Tipo “misto”, in cui le crioglobuline sono rappresentate da almeno 2 tipi di Immunoglobuline una delle quali o nessuna monoclonale. Le crioglobuline miste, solitamente, hanno attività di FR, esplicata dalla componente monoclonale o da una delle componenti policlonali. Le crioglobuline di tipo I non hanno attività di FR e si ritrovano per lo più nel Mieloma Multiplo, nella Macroglobulinemia di Waldenstrom e in affezioni linfoproliferative. Le crioglobuline miste costituiscono più dell’80% di tutte le crioglobulinemie e sono prevalentemente associate a malattie infettive o autoimmuni. Tra queste particolarmente rilevante è una forma denominata in passato “Crioglobulinemia Mista Essenziale”, caratterizzata da astenia, artralgia, artrite, porpora ortostatica e frequentemente associata ad un impegno multisistemico (renale, neurologico ed epatico). Si tratta di una crioglobulinemia mista mono/policlonale associata nella quasi totalità dei casi ad un’infezione cronica da HCV. L’identificazione dell’HCV come agente associato alla grande maggioranza delle crioglo- Anno 4, Numero 14 Orari per il pubblico Prelievi Poliambulatorio: Tutti i giorni feriali Dalle 7.30 alle 12.00 Consegna campioni Poliambulatorio: Tutti i giorni feriali Dalle 7.30 alle 12.00 Appuntamenti per prelievo al Poliambulatorio Dalle 10.00 alle 12.30 Prelievi Distretto Via E.Rossi: Tutti i giorni feriali Dalle 7.30 alle 9.15 Prelievi Distretto Fiorentina: Tutti i giorni feriali Dalle 7.30 alle 9.15 Prelievi Distretto Via del Mare: Da Lun a Ven Dalle 7.30 alle 9.00 Prelievi Distretto Collesalvetti: Lun-Mer-Sab Dalle 7.30 alle 8.30 Prelievi Distretto Stagno Venerdì Dalle 7.30 alle 8.30 Ambulatorio TAO Tutti i giorni feriali Dalle 12.00 alle 13.00 Poliambulatorio 1° piano Pagina 7 LabNews bulinemie definite in passato “essenziali” e il riscontro di specifici antigeni HCV nei crioprecipitati hanno suggerito il possibile coinvolgimento del virus nella patogenesi di questa forma di Crioglobulinemia Mista, probabilmente determinato dall’epatotropismo e linfotropismo dell’HCV. MANIFESTAZIONI CLINICHE Nella Crioglobulinemia tipo I prevalgono i segni clinici della malattia linfoproliferativa e la crioglobulina, spesso asintomatica, costituisce un reperto casuale. I sintomi che più comunemente sono presenti nelle crioglobulinemie sono determinati dalla crioprecipitazione nei capillari di complessi immuni (acrocianosi, fenomeno di Raynaud, necrosi delle estremità, porpora vascolare, orticaria a frigore, ulcere sopramalleolari, etc.); le altre manifestazioni cliniche più frequenti sono rappresentate da artralgia e da segni di interessamento neurologico o renale od epatico. Se la crioglobulina monoclonale è presente in concentrazioni elevate si può sviluppare una sindrome da iperviscosità tale da richiedere misure terapeutiche conseguenti (plasmaferesi). INDAGINI DI LABORATORIO La presenza di crioglobuline, in alcuni casi, è fortuitamente segnalata da modificazioni di alcuni test di laboratorio. Tale è il caso di un elevato conteggio piastrinico determinato dalla presenza di microcrioprecipitati o di elevati valori di Fattore Reumatoide che possono erroneamente indirizzare la diagnosi verso una collagenopatia. Spesso la ricerca mirata di crioglobuline, eseguita su siero prelevato a caldo e conservato a 4°C,è suggerita da un preciso sospetto clinico. In ogni caso la evidenziazione di una crioglobulina deve essere seguita dalla sua quantificazione (criocrito) e dalla tipizzazione mediante immunofissazione, che permette il corretto inquadramento della crioglobulina nello schema classificativo proposto. La rilevante prevalenza di crioglobuline nelle infezioni da HCV suggerisce la necessità che il riscontro di una crioglobulinemia sia seguito da indagini sierologiche specifiche mediante la determinazione degli anticorpi anti HCV (se questi risultassero negativi ma vi è il sospetto di infezione da HCV questi possono essere ricercati nel crioprecipitato). Una volta esclusa l’infezione da HCV, le indagini possono essere indirizzate verso altre patologie (infettive, autoimmuni, mielo linfoproliferative). L’ipocomplementemia, presente nel 90% dei casi, può aiutare nella diagnosi differenziale tra vasculite crioglobulinemica e le vasculiti ANCAassociate che sono invece normo-ipercomplementemiche. (a.l.) NOTA TECNICA Il prelievo deve essere effettuato e mantenuto a 37° C fino all’arrivo in Laboratorio, per evitare la crioprecipitazione. Informazioni al pubblico Segreteria Laboratorio Analisi Tel 223014 Tel 223355 Fax 223440 Dalle 10.30 alle 18.30 Via E. Rossi Tel 223610 Dalle 11.30 alle 12.30 Fiorentina Tel 223522 Dalle 11 alle 12.30 Via del Mare Tel 223194 Dalle 12 alle 13 Distretto Collesalvetti Tel 962978 Dalle 7.30 alle 13 Distretto Stagno Tel 941291 Dalle 11 alle 12 Numeri utili del Laboratorio I seguenti esami, per motivi tecnici, possono essere eseguiti esclusivamente presso il Poliambulatorio: Direzione Biochimica • • • • • • • • • • Ematologia Curve da carico glicemico ed insulinemico Tempo di emorragia Omocisteina Calcitonina Osteocalcina ACTH Catecolamine plasmatiche Crioglobuline Ammonio Tine test Anno 4, Numero 14 Tossicologia Citofluorimetria Sistema qualità Batteriologia Pagina 8 223207 223086 223084 223215 223087 223220 223085 223090 223440 223299