LabNews - Accademia di qualitologia

Azienda U.S.L. n.6 - Livorno
Laboratorio di Patologia Clinica
LabNews
Anno 4, Numero 14
EDITORIALE
“MAMMA MIA! QUANTO SANGUE MI TOGLIE?”
Marzo 2002
Sommario:
Editoriale
1
Farmaci e tiroide
2
Markers tumorali
3
AIDS
4
AIDS e immunità
6
Crioglobuline
7
Inserto: TAO
LabNews
foglio di informazione
del laboratorio di
Patologia Clinica
direttore : Antonio La Gioia
redazione: Maria Bombara
Fabio Bonini
Ivo Chiapponi
Carlo Falciani
Alessandro Gagliardi
Antonella Leoni
Sergio Marchetti
Cinzia Martinelli
Angela Matteucci
Adriana Palla
Patrizia Petricci
Gerardina Russo
Hanno collaborato a
questo numero :
Maria Bombara
Ivo Chiapponi
Carlo Falciani
Antonio La Gioia
Antonella Leoni
Mario Manetti
Angela Matteucci
Fabrizio Torsi
Gabriele Turelli
Viale Alfieri 36
57100 Livorno
[email protected]
ana.it
S
gomento, il “paziente” osserva i
preparativi dell’infermiere che si
appresta a prelevare il sangue necessario per le analisi prescritte.
Qualcuno, forse per distrarre la lieve paura che spesso ci coglie quando qualcosa
di estraneo (l’ago, in questo caso) invade
il nostro corpo, chiede informazioni; qualcun’altro vuol sapere come può integrare
(devo mangiare di più?) il sangue perso.
In realtà, l’osservazione del numero e del
tipo di provette prelevate potrebbe fornire
molte informazioni sulla organizzazione
di un laboratorio.
Se, infatti, alcune provette sono prelevate
per specifiche necessità tecniche (l’EDTA
dell’emocromo preserva la morfologia
cellulare e piastrinica; il rapporto citrato/
sangue è necessario per la corretta esecuzione della Ves e delle prove di coagulazione), negli altri casi la diversificazione
delle provette per colore del tappo obbedisce solo a necessità organizzative del
laboratorio.
Le diverse provette, infatti, sono rapidamente selezionate dalle altre e avviate
agli strumenti di analisi proprio sulla base
del diverso colore del tappo. La selezione
e canalizzazione rapida delle provette è
uno degli strumenti utilizzati per migliorare la organizzazione interna e per ridurre
i tempi di risposta.
Il nostro laboratorio ha appena portato
alla fase operativa il progetto Pathfinder.
Il Pathfinder è uno strumento di ottimizzazione della fase preanalitica, recentemente acquisito. Ha permesso la riduzione del numero delle provette da siero da
5 – 6 (media) ad una sola.
A partire da tale provetta madre, il pathfinder genera delle provette figlie ciascuna delle quali è poi canalizzata verso
la destinazione finale.
Un altro vantaggio della nuova organizzazione preanalitica è rappresentato dalla
possibilità di conservare in maniera ordinata le provette prelevate anche per più
giorni (cercheremo di arrivare a sette)
così da permettere approfondimenti dia-
gnostici o controlli a distanza di tempo,
sul campione di sangue originario senza,
cioè, necessità di un nuovo prelievo.
L’ambulatorio TAO
Molti colleghi indirizzano loro pazienti in
terapia con anticoagulanti orali (TAO) al
nostro ambulatorio e, ad oggi, abbiamo
abbondantemente superato i 100 pazienti.
Lo scopo prevalente dell’ambulatorio,
ricordiamolo, è rappresentato dalla gestione di pazienti con problemi di instabilità terapeutica sia nelle fasi di induzione
che nel mantenimento.
Abbiamo avuto modo di constatare in
questo periodo che molti pazienti risultano ben controllati ed in range terapeutico.
In altri casi si è evidenziato qualche problema, spesso determinato da non buona
compliance dei pazienti o da altri fatti
quali, ad esempio, l’assunzione di farmaci.
Uno dei problemi più frequentemente
affrontato ha riguardato la reversibilità del
trattamento anticoagulante al venir meno
delle indicazioni che lo avevano determinato; spesso abbiamo registrato una
“fame di informazione” e, anche per questo, abbiamo pensato ad un
“vademecum” che desse risposta ai quesiti più frequentemente posti: una copia di
questo Vademecum, che ci pare sufficientemente chiaro ed esaustivo, è stata
allegata a questo numero di LabNews
per i colleghi che volessero utilizzarlo
anche per i pazienti in TAO seguiti direttamente da loro.
Una curiosità: il concomitante cambio
Lira/Euro, ci ha aiutato a far capire ed
accettare a questi pazienti il passaggio
dall’attività percentuale all’INR….
Contestualmente abbiamo provveduto al
potenziamento della diagnostica di laboratorio delle trombofilie, aggiungendo ai
precedenti test di screening anche il dosaggio delle proteine C ed S e, per quanto riguarda la resistenza alla proteina C
attivata, abbiamo la possibilità di stabilire
se questa è determinata dalla presenza
di Fattore V Leiden o da altre cause. (alg)
LabNews
FARMACI E TIROIDE:
L’IMPORTANZA DEL MONITORAGGIO
A
l fine di monitorare correttamente una tireopatia già diagnosticata o di intervenire adeguatamente in caso di insorgenza di ipo o ipertiroidismo clinico o subclinico, è indispensabile, nell’interpretazione dei test di funzionalità tiroidea, tenere in considerazione possibili variazioni di livelli circolanti di ormoni tiroidei in corso di terapie per condizioni morbose
diverse.
Alcuni farmaci possono interferire a livello tiroideo con
l’attività ormonale intervenendo nei meccanismi di sintesi, secrezione, trasporto e metabolismo degli ormoni
tiroidei, nonché nella secrezione di TSH; mentre alcuni
farmaci hanno un effetto trascurabile, altri impongono
massima attenzione alle possibili azioni sulla ghiandola.
La terapia con litio causa ipotiroidismo subclinico in
molti pazienti, in quanto interferisce con la sintesi degli
ormoni tiroidei e ne rallenta la secrezione; molti di essi
presentano anche anticorpi anti-tiroidei.
L’aumento, nella maggior parte dei casi moderato, dei
livelli di TSH interviene dopo un periodo di terapia che
varia da tre mesi a quattro anni. Poiché i pazienti in
terapia con litio arrivano ad assumere dosi elevate del
farmaco per lunghi periodi, è consigliato, prima dell’inizio della terapia, una indagine ecografica, da ripetere
periodicamente, per escludere la presenza di gozzo,
nonché un controllo del TSH, dell’fT4 e degli anticorpi
anti-tiroide; è altresì necessario monitorare, per tutto il
periodo della terapia, la funzionalità tiroidea mediante
dosaggio annuale di TSH.
L’amiodarone, efficacissimo farmaco antiaritmico,
presenta numerosi effetti collaterali, tra i quali di rilevante importanza a livello della tiroide, l’insorgenza di
ipotiroidismo (6-10% dei pazienti trattati) o ipertiroidismo (meno del 3%), sia clinico che subclinico. Il primo
è prevalente nelle popolazioni a sufficiente apporto
iodico alimentare, il secondo in quelle a scarso apporto
iodico.
Entrambe le patologie tiroidee non dipendono dalla
posologia del farmaco, ma piuttosto dalla durata della
terapia: l’ipotiroidismo viene generalmente diagnosticato dopo un periodo di terapia che può variare da due
settimane a quaranta mesi; l’ipertiroidismo dopo un
periodo di quattro mesi/tre anni.
L’interferenza del farmaco sulla funzionalità tiroidea è
determinata da due caratteristiche:
1) elevato contenuto di iodio: ogni compressa di
amiodarone da 200 mg libera 7,5 mg di iodio,
che corrisponde a 10-100 volte l’apporto alimentare, a seconda delle zone geografiche.
2) inibizione delle 5’ desiodasi: determina un
blocco della conversione da T4 a T3, con
conseguente diminuizione della T3 circolante
(sindrome da bassa T3) e parallelo aumento
Anno 4, Numero 14
della T4
Uno screening del profilo tiroideo completo (TSH, fT3,
fT4 ed anticorpi anti-tiroide) accompagnato da una
ecografia, eseguiti prima dell’inizio della terapia, può
consentire di individuare i pazienti a rischio; il dosaggio
dell’fT3, in questi frangenti, è sempre consigliabile in
quanto evidenzia casi di T3-tossicosi che, benché rari,
se non individuati preventivamente possono, a seguito
della terapia, dar luogo a complicanze severe; in ogni
caso il profilo ormonale deve essere periodicamente
controllato, almeno ogni sei mesi, durante tutto il ciclo
terapeutico.
L’insorgenza di ipotiroidismo deve essere trattata con
farmaci; l’insorgenza di ipertiroidismo impone invece,
alcune volte, la sospensione del farmaco interferente
ed idonei interventi terapeutici correttivi.
Pazienti che ricevono trattamento a lungo termine di
interferone alfa, possono sviluppare ipo o ipertiroidismo; l’effetto secondario è rappresentato dall’insorgenza o dal potenziamento di autoimmunità preesistente.
Queste patologie tiroidee non giustificano una interruzione della terapia, necessaria in patologie gravi, ma
richiedono un trattamento della complicanza tiroidea.
Tali disordini tiroidei non sono stati evidenziati durante
terapia con beta o gamma interferone.
Alcuni farmaci di comune utilizzo (fenitoina, carbamazepina, fenobarbitale), aumentano il metabolismo
degli ormoni tiroidei, ma la variazione dei livelli sierici di
fT4 che a volte si evidenzia, è prevalentemente un
artefatto analitico, determinato da interferenze nel dosaggio dell’ormone; queste sostanze, benchè non abbiano un effetto rilevante sulla funzionalità tiroidea,
costituiscono agenti gozzigeni non trascurabili.
Altri farmaci (dopamina, glucocorticoidi, octreotide), somministrati a dosi elevate e per lunghi periodi,
possono diminuire i livelli sierici di TSH, senza mai
arrivare a livelli patologici; i pazienti rimangono infatti
clinicamente eutiroidei.
Molti farmaci, infine, interferiscono con il trasporto
degli ormoni tiroidei in circolo, creando problematiche
esclusivamente diagnostiche, in gran parte bypassate
con il dosaggio delle frazioni libere in sostituzione degli
ormoni tiroidei totali (androgeni, estrogeni, eparina,
eroina, metadone).
Studi relativamente recenti hanno messo in evidenza
la possibilità di interferenza con la funzione tiroidea da
parte dell’acido tri-iodo-tiroacetico (TRIAC), analogo
della T3, presente in alcuni integratori alimentari
(dimagranti, acceleratori del metabolismo); questo
composto può indurre, principalmente, ipotiroidismo da
inibizione del TSH; si segnala inoltre che negli Stati
Uniti già dal 1999 l’FDA (Food and Drug Administration) ha sconsigliato l’utilizzo di integratori dietetici contenenti TRIAC. (c.f.)
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MARCATORI TUMORALI: L’AUMENTO IN ASSENZA DI TUMORE
N
ella diagnostica oncologica i marcatori tumorali
rappresentano un supporto valido per la valutazione della presenza di una neoplasia, ed ancor più per il
monitoraggio del suo decorso.
Per marcatore tumorale in senso stretto si intendono sostanze prodotte prevalentemente dalla neoplasia, legate
al fenotipo trasformato in senso maligno.
In realtà i marcatori tumorali conosciuti non sono tumorespecifici, ma sono espressi anche in assenza di malattia
neoplastica, con un'inevitabile sovrapposizione di valori
tra individui sani e individui con tumore; inoltre, per la
maggior parte dei marcatori, la sensibilità, intesa come
capacità della sostanza di individuare i soggetti affetti da
tumore, è piuttosto bassa. Questo li rende inadatti ad
essere utilizzati in procedure di screening o nella diagnosi
differenziale con la malattia benigna.
In effetti, è possibile avere livelli ematici aumentati di vari
marcatori tumorali in diverse condizioni non neoplastiche,
patologiche e non.
Nella pratica comune, nonostante le avvertenze di vari
autori sull’uso corretto dei marcatori tumorali (Gion M. Uso
clinico dei marcatori tumorali. Guida rapida. Milano: Biomedia,
1997; Caputo M. et al. Linee guida per il monitoraggio biochimico
delle neoplasie. Riv Med Lab-JLM 2001, 2: 51-59), si assiste
spesso ad un uso improprio degli stessi, a fini di
screening o di fronte a un vago sospetto di neoplasia.
Si ritiene pertanto utile riportare nelle seguenti tabelle le
cause più frequenti di incremento aspecifico dei marcatori
tumorali, al fine di un utilizzo critico del dato di laboratorio.
Tratta da: Guida Pratica IMMULITE, N°1, Genova: Medical
Principali condizioni non patologiche per le quali si
possono rilevare aumentati livelli ematici di alcuni
marcatori
Principali condizioni patologiche non neoplastiche per
le quali si possono rilevare aumentati livelli ematici di
alcuni marcatori
Condizione
Marcatore
Patologia benigna del tratto gastroenterico
CEA, TPA, CA19.9
Epatopatia cronica
CEA, TPA, AFP, Ferritina, CA 19.9, CA 125,
CA 15.3
Ittero
CEA, TPA, Ferritina,
CA 19.9
Broncopneumopatia cronica
CEA, TPA
Ascite
CA 125
Peritonite
CA 125
Versamento pleurico
CA 125
Endometriosi
CA 125
Pancreatite
CA 19.9, CA 125, CA
15.3
Insufficienza renale cronica
CEA, TPA, NSE, CA
125
Tireopatie
TG
Ipertrofia prostatica
PSA, PAP
Ritenzione urinaria
PSA, PAP
Malattie reumatiche
CA 19.9
Condizione
Marcatore
Diabete
CA 19.9
Gravidanza
AFP, HCG, CA 125,
TG, TPA
Psoriasi
SCC
Ciclo mestruale
CA 125
Processi flogistici
TPA, Ferritina
Fumo
CEA, TPA, TG
Traumatismi recenti
TPA
Alcool
CEA, TPA
Terapia marziale
Ferritina
Emotrasfusioni
Ferritina
Systems,1997
Diverse manovre diagnostiche, inoltre, possono provocare incrementi anche significativi di alcuni marcatori:
• il PAP e il PSA aumentano dopo cateterismo vescicale,
esplorazione rettale o agobiopsia prostatica
• la TG dopo agobiopsia tiroidea
• il TPA dopo broncoscopia o dopo un qualunque traumatismo chirurgico
• il CA 125 dopo un traumatismo chirurgico sul peritoneo.
Di norma, comunque, nella maggior parte delle condizioni
soprariportate gli incrementi osservati sono relativamente
modesti.
Da segnalare invece che peritonite, pancreatite e psoriasi
possono essere responsabili di aumenti dei livelli dei marcatori tali da essere compatibili con una neoplasia avanzata; nei casi di ittero, infine, si possono verificare incrementi particolarmente notevoli dei livelli del CA 19.9, dell’ordine di centinaia o migliaia.
In conclusione, di fronte ad un marcatore tumorale alterato, senza evidenza clinica di neoplasia, si raccomanda di
verificare l’esistenza di possibili cause non specifiche di
incremento ed eventualmente la ripetizione del test dopo
rimozione delle stesse. (m.b.)
Tratta da: Guida Pratica IMMULITE, N°1, Genova: Medical
Systems,1997
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L’AIDS IN LABORATORIO:
DAGLI INTERROGATIVI ALLE CERTEZZE
D
TRASMISSIONE
opo 15 anni dalla comparsa dell’epidemia di
AIDS l’HIV non è più un virus misterioso.
Le ricerche si sono concentrate particolarmente sulla
caratterizzazione sierologica molecolare del virus HIV-1.
Il genoma virale è stato estesamente studiato, tutti i geni
riconosciuti dell’HIV-1 sono stati clonati e la maggior
parte delle proteine (con relative funzioni) è stata identificata.
Allo stato attuale le prospettive di vita sono buone quanto più è precoce la diagnosi di infezione da HIV.
Utile quindi una visione retrospettiva e la conoscenza dei
test di diagnosi.
I RETROVIRUS
Il virus HIV appartiene alla famiglia dei retrovirus.
Con tale denominazione si definisce una famiglia di virus
il cui genoma è costituito o da RNA, nella fase in cui il
virione completo si trova al di fuori della cellula, o da
DNA, nel momento in cui il microrganismo infetta la cellula ospite e si integra nel suo genoma.
L’evento fondamentale della replicazione di questo virus
è perciò la sintesi di DNA a partire dall’RNA presente
nel proprio genoma. Tale sintesi avviene ad opera di una
DNA polimerasi RNA dipendente virus-specifica
(trascrittasi inversa). I retrovirus si attaccano alla cellula
bersaglio per mezzo di proteine dell’envelope, specializzate nel riconoscere specifici recettori della superficie
cellulare. Inizia allora un processo di conversione delle
proteine virali quiescenti in complessi enzimatici attivi
che presiedono alla trascrizione e all’integrazione del
virus.
Il DNA virale integrato (provirus) è a sua volta trascritto
dalla RNA polimerasi della cellula ospite in RNA messaggero, che codificherà per le proteine virus specifiche
e formerà l’RNA genomico.
L’infezione da HIV-1 e la conseguente progressiva distruzione delle difese immunitarie costituiscono la base
patogenetica che andrà a configurare la Sindrome da
Immunodeficienza Acquisita. Sindrome del tutto analoga
è stata associata all’infezione da parte di un retrovirus
che presenta ampie quote di omologia con HIV-1, pur
con una virulenza più moderata. La circolazione di tale
virus, denominato HIV-2, appare limitata al Corno Occidentale d’Africa, con sporadiche apparizioni anche in
Europa.
L’INFEZIONE
Le modalità di trasmissione possono essere sostanzialmente ricondotte a trasmissione sessuale, parenterale e
trasmissione verticale, in analogia ad altre infezioni sistemiche virali.
Nella seguente tabella viene riportata l’efficienza di trasmissione delle differenti modalità ed il loro contributo
complessivo a livello mondiale nel sostenere l’attuale
pandemia di infezione da HIV.
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Efficienza di tra- Proporzione stimata su
smissione da singosospetti positivi
lo contatto
SESSUALE
0,1 – 1 %
70 – 80 %
PARENTERALE
Tossicodipendenza
0,5 – 1 %
5 – 10 %
PARENTERALE
Puntura accidentale
< 0,5 %
< 0,01%
13 – 30 %
5 – 10 %
PERINATALE
Tratta da: Le infezioni umane da Retrovirus. (Roche Diagnostic
Systems)
L’infezione da HIV può essere asintomatica o sintomatica (malattia acuta).
A distanza di 2 - 24 settimane dal contagio il soggetto
infettato produce anticorpi contro il virus
(sieroconversione) e diviene sieropositivo cioè portatore
asintomatico del virus, per cui sta bene, ma può infettare
altre persone.
Questa fase può durare alcuni anni.
Il primo segno clinico della malattia è un ingrossamento
generalizzato delle linfoghiandole (Persistent Generalized Linphoadenopathy, PGL); poi, con il progredire dell’immunodepressione, cominciano a palesarsi i sintomi di
malattia genericamente indicati come ARC (AIDS Related Complex).
Successivamente, dopo un periodo di tempo variabile da
alcuni mesi ad un paio di anni, si svilupperanno le infezioni opportunistiche e le neoplasie caratteristiche dell’AIDS conclamata.
LA DIAGNOSI
La strada maestra per la diagnosi di ogni patologia infettiva è la ricerca e l’identificazione dell’agente eziologico
oppure di una sua traccia non equivoca, un antigene o
un segmento di genoma in un campione biologico adeguato.
L’infezione da HIV possiede la peculiarità di persistere,una volta instauratasi, anche nei periodi di remissione
clinica, perciò la diagnosi di certezza dell’infezione in
atto può essere posta anche attraverso il rilievo degli
anticorpi specifici nel siero dell’individuo.
La positività del test di screening immunoenzimatico,
soprattutto in presenza di dati anamnestici positivi, è
indicativa della presenza dell’infezione. L’infezione deve
comunque essere sempre convalidata mediante l’esecuzione del test di conferma in Western blot (WB).
Questo test appare di grande rilevanza soprattutto in
assenza di dati anamnestici positivi e di bassa reattività
del test di screening.
Il test WB combinato con l’evidenza degli anticorpi con(Continua a pagina 5)
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(Continua da pagina 4)
tro la proteina P36 propria del virus HIV-2 è inoltre indicativa dell’infezione da HIV-2.
La diagnosi sierologica dell’infezione da HIV si basa su
metodi indiretti (ricerca di anticorpi) e su metodi diretti
(ricerca del genoma virale).
Metodi indiretti
•
•
Test immunoenzimatico (Elisa): è il primo test eseguito quando si sospetta il contagio, ed il test più noto e
più diffuso per lo screening (Test HIV 1/2).
Test Western blot: è il test più utilizzato come conferma della positività del test Elisa. Distingue i diversi
anticorpi prodotti dal sistema immunitario in risposta a
particolari prodotti (antigeni) del virus. I principali sono: GAG, POL, e le proteine del rivestimento virale
(envelope, ENV).
Metodi diretti
Metodi basati sulla ricerca del genoma del virus HIV.
Il test PCR (che individua anche minime quantità di acido
nucleico, amplificandole) viene usato anche per la conferma del test anticorpale e come primo esame per la diagnosi neonatale. (m.m.)
ALGORITMO DIAGNOSTICO INFEZIONE DA HIV
NOTA TECNICA
Prelievo: tutti i prelievi di sangue debbono essere considerati potenzialmente infetti. Per la raccolta dei campioni per test sierologici ( test di screening e di conferma per gli anticorpi anti HIV ) utilizzare provette Vacutainer.
Per la ricerca di sequenze genomiche (P.C.R.) utilizzare provette Vacutainer contenenti EDTA come anticoagulante (l’eparina inibisce la Polimerasi).
Trasporto: dopo il prelievo i campioni devono essere consegnati quanto prima al Laboratorio.
Per i test di P.C.R. il plasma deve essere separato entro 6 ore dal prelievo e congelato a -20° C o conservato
a 4° C per non più di 3 giorni.
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S
FUNZIONE IMMUNITARIA E AIDS
ia nella risposta immunitaria umorale, che in quella cellulare, la proliferazione e differenziazione linfocitaria è
sotto il controllo di due sottopopolazioni di linfociti, definiti regolatori:
1. Linfociti CD4+ con funzione helper-inducer; rappresentano il 40-50% dei T linfociti.
2. Linfociti CD8+ con funzioni suppressor-citotossiche (20-30% dei T linfociti).
Entrambe le popolazioni agiscono direttamente, o per mezzo di fattori solubili, nel complesso meccanismo di regolazione delle funzioni immunitarie.
Il virus HIV ha un tropismo selettivo per il recettore CD4, con il quale si lega e penetra all'interno della cellula. Durante
la lunga fase di latenza, che segue l'infezione acuta da HIV, si ha una progressiva deplezione dei linfociti CD4+ ed un
conseguente progressivo deterioramento delle funzioni immunitarie.
Un valore di concentrazione assoluta di CD4+ al di sotto di 200 cellule/mmc corrisponde al passaggio al quadro clinico di AIDS conclamata.
Il conteggio dei linfociti CD4+ è dunque il marcatore di laboratorio che ha ricevuto i maggiori consensi per la valutazione della progressione dell'infezione da HIV, nonchè un ottimo indice per monitorare lo stato immunologico del paziente affetto da AIDS.
L'insorgenza delle infezioni opportunistiche sembra sia legata alla caduta del tasso dei linfociti CD4+ circolanti. Pertanto, la loro concentrazione assoluta nel sangue periferico può essere utilizzata per la profilassi di queste infezioni e
più genericamente per la definizione dei momenti accettati comunemente come più convenienti per l'inizio della terapia antiretrovirale. Infatti la concentrazione dei linfociti CD4+ costituisce il principale criterio di approvazione dei farmaci antivirali e delle loro combinazioni.
C'è da dire, tuttavia, che il numero assoluto dei linfociti CD4+ circolanti può subire variazioni per cause diverse (ora
del prelievo, infezioni intercorrenti, etc.) e che la loro quota necessariamente non riflette la loro funzionalità e non rappresenta l'effettivo numero dei linfociti CD4+ presenti nell'organismo, in quanto una quota maggiore di essi è localizzata negli organi linfatici. Quindi nonostante gli indubbi vantaggi pratici ai fini clinici, il conteggio assoluto dei linfociti
CD4+ non deve essere l'unico parametro da prendere in considerazione nel corso dell'infezione da HIV.
Il valore dei linfociti CD8+ nel monitoraggio clinico terapeutico è ancora da valutare. Sembra siano attivi nel controllo
della replicazione del virus sia attraverso la citolisi diretta delle cellule infettate, sia tramite il rilascio di linfochine ad
azione antivirale.
Allo stato attuale, per la determinazione dei linfociti CD4+ ci si avvale delle tecniche citofluorimetriche con anticorpi
monoclonali. (i.c.)
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LE PROTEINE CHE VENGONO DAL
FREDDO….
L
e crioglobuline sono un gruppo di proteine sieriche, costituite da
Immunoglobuline o loro frammenti aventi la proprietà di precipitare o gelificare a freddo e di ritornare in soluzione se riportate a temperatura intorno ai 37°C.
(Le crioglobuline non devono essere confuse con le crioagglutinine.
Quest’ultime sono spesso anticorpi IgM contro gli eritrociti e provocano
anemia emolitica. Talvolta le crioglobuline possono avere proprietà di
crioagglutinine).
Il fenomeno è stato per la prima volta descritto da Hedelberg e Kendall
nel 1929 e successivamente nel 1933 è stato correlato con le manifestazioni cliniche da Wintrobe e Buell in un caso di Mieloma Multiplo.
Studi successivi hanno documentato la presenza delle crioglobuline in
alcune malattie infettive, infiammatorie e neoplastiche.
In quest’ultimo decennio l’interesse per le crioglobuline è notevolmente
aumentato dopo la scoperta del virus dell’epatite C (HCV) e la dimostrazione della sua frequente associazione con le crioglobuline.
CLASSIFICAZIONE
Brouet e collab. identificarono 3 tipi di crioglobuline in base alle caratteristiche immunochimiche del crioprecipitato:
•
Crioglobulinemia tipo I: costituita da immunoglobulina monoclonale,
solitamente IgM, spesso IgG, o IgA senza attività di Fattore Reumatoide (FR) (attività anticorpale nei confronti di altre immunoglobuline)
•
Crioglobulinemia tipo II: costituita da immunoglobuline di più classi,
una delle quali monoclonale, generalmente IgM con attività di Fattore Reumatoide.
•
Crioglobulinemia tipo III: costituita da una o più classi di Immunoglobuline policlonali diversamente associate. L’associazione più frequente è IgM-IgG con le IgM che hanno attività di FR verso le IgG.
Una successiva classificazione (Musset et. coll. 1992) semplifica lo
schema di Brouet ed ha il merito di poter comprendere altre forme di
crioglobuline precedentemente di difficile collocazione.
Tale schema suddivide le crioglobuline in:
•
Tipo I o “singole”, che comprende tutte le crioglobuline formate da
una sola classe di immunoglobulina monoclonale.
•
Tipo “misto”, in cui le crioglobuline sono rappresentate da almeno 2
tipi di Immunoglobuline una delle quali o nessuna monoclonale. Le
crioglobuline miste, solitamente, hanno attività di FR, esplicata dalla
componente monoclonale o da una delle componenti policlonali.
Le crioglobuline di tipo I non hanno attività di FR e si ritrovano per lo più
nel Mieloma Multiplo, nella Macroglobulinemia di Waldenstrom e in affezioni linfoproliferative.
Le crioglobuline miste costituiscono più dell’80% di tutte le crioglobulinemie e sono prevalentemente associate a malattie infettive o autoimmuni.
Tra queste particolarmente rilevante è una forma denominata in passato
“Crioglobulinemia Mista Essenziale”, caratterizzata da astenia, artralgia,
artrite, porpora ortostatica e frequentemente associata ad un impegno
multisistemico (renale, neurologico ed epatico).
Si tratta di una crioglobulinemia mista mono/policlonale associata nella
quasi totalità dei casi ad un’infezione cronica da HCV. L’identificazione
dell’HCV come agente associato alla grande maggioranza delle crioglo-
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Orari per il pubblico
Prelievi Poliambulatorio:
Tutti i giorni feriali
Dalle 7.30 alle 12.00
Consegna campioni Poliambulatorio:
Tutti i giorni feriali
Dalle 7.30 alle 12.00
Appuntamenti per prelievo al
Poliambulatorio
Dalle 10.00 alle 12.30
Prelievi Distretto Via E.Rossi:
Tutti i giorni feriali
Dalle 7.30 alle 9.15
Prelievi Distretto Fiorentina:
Tutti i giorni feriali
Dalle 7.30 alle 9.15
Prelievi Distretto Via del Mare:
Da Lun a Ven
Dalle 7.30 alle 9.00
Prelievi Distretto Collesalvetti:
Lun-Mer-Sab
Dalle 7.30 alle 8.30
Prelievi Distretto Stagno
Venerdì
Dalle 7.30 alle 8.30
Ambulatorio TAO
Tutti i giorni feriali
Dalle 12.00 alle 13.00
Poliambulatorio 1° piano
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bulinemie definite in passato “essenziali” e il riscontro di specifici antigeni
HCV nei crioprecipitati hanno suggerito il possibile coinvolgimento del virus nella patogenesi di questa forma di Crioglobulinemia Mista, probabilmente determinato dall’epatotropismo e linfotropismo dell’HCV.
MANIFESTAZIONI CLINICHE
Nella Crioglobulinemia tipo I prevalgono i segni clinici della malattia linfoproliferativa e la crioglobulina, spesso asintomatica, costituisce un reperto
casuale.
I sintomi che più comunemente sono presenti nelle crioglobulinemie sono
determinati dalla crioprecipitazione nei capillari di complessi immuni
(acrocianosi, fenomeno di Raynaud, necrosi delle estremità, porpora vascolare, orticaria a frigore, ulcere sopramalleolari, etc.); le altre manifestazioni cliniche più frequenti sono rappresentate da artralgia e da segni di
interessamento neurologico o renale od epatico.
Se la crioglobulina monoclonale è presente in concentrazioni elevate si
può sviluppare una sindrome da iperviscosità tale da richiedere misure
terapeutiche conseguenti (plasmaferesi).
INDAGINI DI LABORATORIO
La presenza di crioglobuline, in alcuni casi, è fortuitamente segnalata da
modificazioni di alcuni test di laboratorio. Tale è il caso di un elevato conteggio piastrinico determinato dalla presenza di microcrioprecipitati o di
elevati valori di Fattore Reumatoide che possono erroneamente indirizzare
la diagnosi verso una collagenopatia.
Spesso la ricerca mirata di crioglobuline, eseguita su siero prelevato a
caldo e conservato a 4°C,è suggerita da un preciso sospetto clinico.
In ogni caso la evidenziazione di una crioglobulina deve essere seguita
dalla sua quantificazione (criocrito) e dalla tipizzazione mediante immunofissazione, che permette il corretto inquadramento della crioglobulina nello
schema classificativo proposto.
La rilevante prevalenza di crioglobuline nelle infezioni da HCV suggerisce
la necessità che il riscontro di una crioglobulinemia sia seguito da indagini
sierologiche specifiche mediante la determinazione degli anticorpi anti
HCV (se questi risultassero negativi ma vi è il sospetto di infezione da
HCV questi possono essere ricercati nel crioprecipitato).
Una volta esclusa l’infezione da HCV, le indagini possono essere indirizzate verso altre patologie (infettive, autoimmuni, mielo linfoproliferative).
L’ipocomplementemia, presente nel 90% dei casi, può aiutare nella diagnosi differenziale tra vasculite crioglobulinemica e le vasculiti ANCAassociate che sono invece normo-ipercomplementemiche. (a.l.)
NOTA TECNICA
Il prelievo deve essere effettuato e mantenuto a 37° C fino all’arrivo in
Laboratorio, per evitare la crioprecipitazione.
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Numeri utili del Laboratorio
I seguenti esami, per motivi tecnici, possono essere
eseguiti esclusivamente presso il Poliambulatorio:
Direzione
Biochimica
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Ematologia
Curve da carico glicemico ed insulinemico
Tempo di emorragia
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Calcitonina
Osteocalcina
ACTH
Catecolamine plasmatiche
Crioglobuline
Ammonio
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Anno 4, Numero 14
Tossicologia
Citofluorimetria
Sistema qualità
Batteriologia
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