PRIMO PIANO Sabato 11 Febbraio 2017 13 Conquistata Aleppo, russi, turchi, siriani e curdi puntano contro questa città L’ultimo baluardo Isis è Raqqa Era stata scelta come capitale ufficiale del Califfato da Washington ALBERTO PASOLINI ZANELLI L e ultime notizie dalla Siria e dintorni sono insistenti, varie, contraddittorie. Soprattutto quando si parla di Raqqa, la capitale ufficiale del Califfato e ormai la sua ultima base del deserto che poco più di un anno fa l’Isis conquistò e fece suo simbolo. Quando dai colpi di mano propagandistici si passò, a poco a poco alla realtà militare, il ruolo di Raqqa diminuì e crebbe quello di Aleppo, che diventò, per molti e per molto tempo, l’anima della Siria. Quando finalmente quel popoloso centro fu liberato da una variabile coalizione di forze, di interessi, di ideali, parve scontato che Raqqa fosse il nuovo obiettivo, più debole militarmente e ormai sempre di più ridotto a un ruolo simbolico. Sono molti mesi, ormai, che il Medio Oriente, il mondo islamico, il resto del pianeta aspettano la caduta di Raqqa. Che finora non è arrivata, anche se le profezie che danno la sua caduta per imminente si moltiplicano. Promesse, proclami, ma anche qualche gesto. Uno degli ultimi è l’annunciata partenza per quel fronte di un reparto di ceceni, dunque basati in territorio russo. Pochi, non destinati a cambiare il rapporto di forze ma hanno un valore simbolico, soprattutto perché servono a moltiplicare le forze in campo. Vengono dalla Russia ma non sono russi: obbediscono al presidente musulmano della Cecenia, Ramzan Kadytov. Sono rinforzi al contingente russo, così come reparti del gruppo hezbollah vengono integrati in una nuova unità dell’esercito siriano, chiamata Quinto Corpo, una denominazione che, forse causale, ricalca quella famosa del Quinto Reggimento della guerra civile spagnola di ormai un secolo fa, unità scelta del Partito comunista. Una creazione ispirata e concorrenziale, a unità analoghe integrate nelle forze del Libano o dell’Iran se non addirittura dell’esercito siriano ufficiale. Testimoni di alleanza e ad un tempo di concorrenza. Perché ad Aleppo le varie componenti del fronte anti Isis avevano combattuto e vinto assieme, con l’obiettivo della principale città siriana dopo Damasco, ma a Raqqa ci vogliono Ramzan Kadytov arrivare in concorrenza, con un disegno strategico complesso e contraddittorio, basato principalmente sull’alleanza tra le forze armate regolari della Russia, l’esercito ufficiale del regime siriano, la cooperazione con la Turchia e il ruolo importante delle milizie curde. Era la penultima tappa e ancora ci si poteva mirare assieme. Ma l’ultima è quella che conta e le contraddizioni vengono tutte fuori, a cominciare da quella, a questo punto centralissima, fra turchi e curdi. I primi si vogliono rafforzare il proprio ruolo oggi predominante, i secondi che dalla caotica guerra civile siriana sperano di ottenere le chiavi per la sospirata loro sovranità etnica. Il regime di Damasco può, o almeno dovrebbe, fare da mediatore e così gli Stati uniti, che a quanto pare non hanno però ancora deciso su che bilancia gettare il proprio peso. E così Raqqa rimane un obiettivo strategico, ma soprattutto di sogno. A farla tale, ha contribuito in modo decisivo un romanziere francese che, poco più di un anno fa, quasi negli stessi giorni della strage terroristica di Parigi, ha pubblicato un’opera che potrebbe anche chiamarsi di fantascienza o meglio di fantapolitica. In cui la svolta non solo della guerra civile siriana, ma dell’in- tera offensiva integralista è Napoleone Bonaparte. Proprio lui, che non è morto. I suoi fedelissimi a Sant’Elena hanno tentato di preservarlo con le tecniche del congelamento e lo hanno «sepolto» in mare, in una teca impermeabile che viene ripescata due secoli dopo da dei pescatori norvegesi nelle acque della Groenlandia. L’Imperatore mai morto risorge, torna a Parigi, si fa raccontare due secoli di Storia, spiegare la situazione in Siria e, in pochi giorni, capisce tutto. Ricrea una Grande Armée sul modello della sua sfortunata campagna di Russia, la adegua alle tecnologie di oggi, la imbarca e si imbarca su un aereo diretto a Raqqa, scende, riesce a convincere il capo militare dell’Isis promettendogli palpabili ricompense nell’aldilà musulmano, lo convince a disarmare le sue forze, pacifica la città e la Siria, si reimbarca con i suoi pochi miliziani, congeda la sua Grande Armata. E se ne torna all’amata isola d’Elba in compagnia di una ragazza che ha conosciuto a Raqqa. [email protected] © Riproduzione riservata L’ECCIDIO, DOVUTO AI TITINI, SI AVVALSE DELL’ACQUIESCENZA DEGLI AMERICANI E DEGLI INGLESI Si può parlare decentemente degli infoibati a 80 anni dal loro assassinio solo perché la sinistra marxista ha perso la presa DI I RAFFAELE IANNUZZI l Giorno del ricordo riguarda, dice la legge che lo ha istituito, «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra» . Intanto, ricordare non equivale a fare memoria. Il ricordo è, per sua natura, personale e si intreccia inevitabilmente con il vissuto individuale e relazionale; mentre la memoria è collettiva ed ha un impianto universalmente riconoscibile, il che non vuol dire universalmente riconosciuto. In fatto di memoria non condivisa, noi italiani ne sappiamo qualcosa. Dunque, un primo appunto sul copione: qui si dice «ricordo» ma, in realtà, si tratta di «memoria». Solo che il giorno della memoria è già intestato, per così dire, e così si è optato per «ricordo». Perché si tratta di memoria e non di ricordo? Semplicemente perché con il Gdr si parla di noi, degli italiani, di un pezzo di popolo che ha subito una deportazione forzata dai territori di origine, nella cornice di un accordo trasversale che ha messo sul piatto circa 300mila destini individuali. La vicenda, citata qua e là, appare nota ma non lo è affatto, visto che si snoda attraverso alcuni passaggi, tanto cruciali quanto rimossi, della storia del ‘900 e alcuni movimenti da parte degli Alleati anglo-americani, che hanno coinvolto il tornante vischioso della celeberrima Zona A, il cosiddetto «Territorio libero di Trieste», appartenente all’Italia, distinta dalla Zona B, della Jugoslavia. Il punto focale, che tutto compendia e tutto ingarbuglia è il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954. Tra Parigi 1947 e Londra 1954 si è vagliato e sancito il periclitante accordo tra il mondo occidentale a guida angloamericana e il mondo comunista. Sul piatto, le vite degli infoibati, rei di essere italiani che, dall’armistizio in poi, vengono scaraventati nelle «foibe», subendo un destino che anche solo a descriverlo desta orrore. Lo dico per i più giovani: le foibe sono quelle cavità carsiche di origine naturale, normalmente a strapiombo. Quindi, basta immaginare la scena di un povero disgraziato o una povera disgraziata scaraventati nel cuore della terra, legati mani e piedi, dopo aver subito sevizie di ogni sorta. Martiri fra i più noti di questa persecuzione degli italiani sono Norma Cossetto, don Francesco Bonifacio, molti Carabinieri, appartenenti al Corpo della Guardia di finanza, insomma ce n’è per tutti. I comunisti titini non si sono fatti mancare proprio niente e hanno massacrato, per usare una metafora, sparando davvero nel mucchio. Bastava essere italiani, insomma. Venivano chiamati «fascisti» e tanto bastava alla propaganda comunista per fare la mattanza, invece erano solo italiani. Simone Cristicchi, con il suo spettacolo teatrale «Magazzino 18», ha contribuito a risvegliare dal torpore anche una parte della vecchia classe politica comunista, tant’è vero che un noto esponente di questo mondo ideologico dichiarò, dopo aver visto il dramma teatrale, di provare sconcerto per fatti così impressionanti e da lui completamente ignorati. Si chiama ignoranza, ma, in questo caso, anche una certa responsabilità personale ha giocato il suo ruolo. Il grande silenzio su tutto questa tragedia novecentesca (complici l’internazionale comunista al gran completo, i dissidi interni al comunismo, gli inglesi e gli americani, che stavano costruendo il futuro del mondo, nello scenario della Guerra fredda, con i resti dei popoli sconfitti, fra cui anche l’Italia) era calato inesorabile e, si sa, chi perde, nella storia, ha sempre torto, anche quanto ha tutte le ragioni dalla sua parte, e sempre duro da ammettere, ma così è. Il futuro del mondo, la nuova geopolitica si è costruita su questi assi ed a quelle latitudini, anche ideologiche, dunque il Gdr piomba su un cascame reazionario di stampo veterocomunista. In realtà, l’azione politico- sociale da parte del fascismo fu importante per quelle terre, italianissime, e produsse una legislazione sociale e del lavoro avanzata, quasi la piena occupazione, una coesione sociale anche a vantaggio delle popolazioni jugoslave, quindi, a ben guardare, tutto questo capitolo andrebbe completamente riletto. L’italianità ha a che fare profondamente con quelle terre, visto che Tommaseo e i primi sviluppi lessicali dell’italiano provengono da quelle aree. Non solo. Anche perché la Guerra fredda si è in parte decisa a partire dal combinato disposto foibe-esodo. Di più: perché la memoria di un popolo o è integrale o non è. E poi perché tutto ciò aiuta la sinistra, oggi letteralmente a pezzi, un cascame della storia, smarrita e priva di ogni forma politico-culturale e identità, a capire che un pezzo del suo «album di famiglia» è rosso, sì, ma anche del sangue di quei martiri. Last but not least, perché il ’900 è un secolo tragico anche a causa delle foibe e dell’eccidio del popolo istriano e giuliano-dalmata. In conclusione, dunque, ancora una volta: si tratta, come dovrebbe ormai essere chiaro, di «memoria», non di un semplice, ancorché rispettabile, «ricordo». Perché, da quelle parti, come recita il titolo di una memorabile canzone, «anche le pietre parlano italiano». IlSussidiario.net